La Scuola delle Etichette

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La Scuola delle Etichette

MARCO DAZZANI
Alpha

Editor: Patrizia Ceccarelli

Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini

Coordinamento grafico: Mauro Aquilanti

Team grafico: Mauda Cantarini

Illustrazione di copertina: Anna Godeassi

I Edizione 2024

Ristampa

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La Scuola delle Etichette

MARCO DAZZANI

Questa era l’espressione che Emil avrebbe dovuto avere quella domenica mattina: fronte distesa e rilassata, sorriso tirato fino a far arrossare gli zigomi, occhi brillanti e pronti al malestro.

Mancava un ultimo giorno di vacanza prima di incominciare la scuola media. Emil aveva programmato ogni minuto per non farsi scappare via il divertimento estivo rimasto. Ore 06:28, svegliare Mamma e Papà con un urlo improvviso nelle orecchie, per poi fuggire via in bicicletta. Ore 09:12, ritornare dopo essersi sbucciato almeno un ginocchio. Ore 10:48, piazzarsi davanti alla playstation per ore, con la scusa di avere male al ginocchio sbucciato. Ore 18:48 ammirare il solco lasciato sul divano dal proprio sedere. Ore 18:49 prendersi le sgridate per essere ancora davanti alla playstation. Ore 21:20 essere mandato come sempre in doccia ma fingere di farla spostando il getto d’acqua contro il muro per non bagnarsi.

5 Capitolo 1

La giornata partì perfettamente, l’urlo nelle orecchie fece capitombolare Papà fin sotto al letto e Mamma strillò come quando l’iguana le aveva mostrato la lingua al rettilario.

Poi, però, arrivò l’e-mail della scuola media. Incominciava così: Per ogni alunno della Scuola delle Etichette è obbligatorio avere un’etichetta.

In quel comunicato erano contenute tante altre informazioni scolastiche che Mamma e Papà lessero con attenzione. Ma non Emil. Il suo sguardo rimase paralizzato su quell’unica frase iniziale. Soprattutto sulla parola “obbligatorio”, che era sottolineata e in grassetto. Sembrava quasi volesse saltare fuori dallo schermo per mordergli il naso.

A quanto era scritto, Emil avrebbe dovuto presentarsi alla scuola media dichiarando una caratteristica che lo potesse identificare in maniera unica e inequivocabile dagli altri studenti. Un’etichetta tutta sua, che nessun altro poteva avere.

Quello stesso identico avviso arrivò a tutti i nuovi iscritti alla Scuola delle Etichette ma soltanto Emil non batté le palpebre per sedici minuti e dodici secondi a causa dello sgomento.

Perché?

Perché Emil di unico non aveva proprio nulla. Niente. Nada. Nisba. Zero assoluto.

Comoda per chi aveva il volto costellato dalle lentiggini o il naso a patata; per loro l’etichetta era bella che pronta. Infatti dopo solo un minuto, il suo migliore

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amico Alan gli scrisse: “Io sarò il Capellone!” E il punto esclamativo ci stava tutto, perché in testa non aveva capelli ma un cespuglio di nodi ottimo per fare da nido alle rondini. A Emil, invece, non era permesso farsi crescere troppo i capelli e sul rasarli Mamma era stata categorica:

– Vuoi sembrare un teppista? Assolutamente no.

In quanto al resto del suo aspetto, nulla di rilevante. Non era abbastanza alto per riuscire a schiacciare a canestro ma nemmeno così basso da dover usare ancora il seggiolino in automobile; aveva il naso abbastanza grande da infilarci un dito ma non così tanto da mettercene due; non gli era mai saltato via un dente in una rissa ma purtroppo quei denti non erano nemmeno così dritti da ammaliare le persone col sorriso.

Secondo il regolamento scolastico erano accettate anche etichette riguardanti il carattere o gli hobby. Nemmeno quello gli fu di aiuto.

Emil amava andare in bicicletta ma sulla questione di indossare una tutina aderente colorata aveva sempre sancito il suo – Scordatelo! –. E poi, col cavolo che era pronto a uscire a pedalare quando c’era una tormenta di neve, pioggia o anche solo troppo vento.

Gli piaceva leggere ma finire un libro intero gli era complicato. Spesso si ritrovava a strappare le ultime pagine e usare i fogli per fare aeroplanini di carta.

Poteva essere allora Quello degli aeroplanini di carta? Impossibile. I suoi aeroplanini non volavano mai…

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Un’estate di due anni prima, era però riuscito a fare cinque capriole in acqua senza prendere respiro. Si era sentito un eroe e gli sembrò un ottimo punto di partenza per un’etichetta. Controllò il record del mondo e scoprì che una ragazza era riuscita a farne addirittura ventinove. Così lasciò perdere l’idea di essere Quello delle capriole in acqua.

Una volta aveva toccato una gallina. Però, aveva sentito dire che c’era un ragazzino del suo quartiere che ne teneva una in casa come animale domestico e la lasciava dormire nel letto. Quindi nemmeno quello andava bene.

Quando si arrabbiava non spaccava tutto. Era spesso felice ma solo se c’era il sole. Conosceva tante barzellette ma non le sapeva raccontare. Correva velocissimo ma solo per scappare quando rompeva qualcosa in casa.

Per Emil era davvero impossibile trovare un’etichetta. Lui era il ragazzo più ordinario, comune, banale, forse addirittura mediocre che esistesse.

Ecco spiegata l’espressione che Emil ebbe realmente quell’ultima domenica d’estate: mascella cadente, occhi rosso panico, fronte così corrugata da poterci tenere saldamente conficcata una matita.

Quale etichetta portare l’indomani a scuola?

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Erano ormai le tre di notte e il ticchettio dell’orologio a muro pulsava nei timpani di Emil come un martello. Era stata una pessima ultima giornata di vacanza estiva e l’indomani, senza un’etichetta, si prospettava ancora peggiore. Sarebbe stato come presentarsi a scuola senza aver svolto i compiti.

Non aveva pensato ad altro tutto il giorno: etichetta, etichetta, etichetta…

Aveva provato a svagarsi facendo un giro in bici ma era così distratto che finì contro un muro.

Aveva provato a giocare ai videogame ma perse in continuazione. Sperava che avendo fallito tutte le attività della sua lista avrebbe potuto evitare la doccia, e invece quella gli toccò ugualmente. E dal nervoso, si dimenticò persino di spostare il soffione e finì per lavarsi per davvero. Maledette etichette!

Serviva un sonno ristoratore.

Serviva anche il riuscire a prendere sonno.

9 Capitolo 2

Stare steso a letto come al solito non era contato nulla, così provò nuove posizioni. Si girò sul lato destro e poi quello sinistro. Provò con due cuscini, senza cuscino, mettendo il cuscino sotto i piedi. Tentò la posizione a pancia in giù, quella fetale, quella della stella che nessuno sa bene come sia e persino la posizione del granchio rovesciato che inventò al momento. Niente.

Forse era quel dannato ticchettio a tenerlo sveglio. Gli avrebbe lanciato il cuscino ma quello lo aveva già gettato fuori dalla finestra e visto che era esausto non andò a riprenderlo e lasciò perdere.

Stremato, decise di provare con le pecore. Dicono che contarle mentre saltano uno steccato aiuti a conciliare il sonno. Contò sussurrando:

– Una pecora, due pecore, tre pecore… Dove stanno andando queste pecore? Aspetta… a che numero ero arrivato?

Alla terza volta che perse il conto e dovette ricominciare da capo, sorrise.

– Sarò Quello che perde il conto! – esultò.

Poi ricordò del suo compagno di classe Liam. Lui ancora teneva i conti con le dita delle mani e per non confondersi aveva scritto i numeri da uno a dieci sui polpastrelli. E si sbagliava lo stesso. Era imbattibile.

Emil sbuffò e riprese con quelle dannate pecore.

Per non perdere il conto nuovamente, stavolta lo fece ad alta voce, sillabando bene i numeri. Era così concentrato nel cercare di visualizzare quelle pecore che si svegliò ancora di più.

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Arrivò alla trecentotrentatreesima pecora che saltò la staccionata e si chiese:

– Perché mettere una staccionata per tenere le pecore radunate se la sanno saltare?

Non aveva davvero senso. Ci rifletté sopra parecchio. Arrivò alla conclusione che soltanto una delle pecore del gregge sapesse saltare e stesse continuando a contare la stessa pecora salterina andare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Tornava anche il fatto che le pecore non finivano mai.

Ecco, quella pecora aveva già la sua etichetta: pecora Salterina. Persino per le pecore immaginarie era più semplice trovare un’etichetta che per lui.

Emil sentì le orecchie scaldarsi di rabbia. Dormire era ormai impossibile.

Prese a pugni il materasso, a calci la testata del letto, morse una scarpa. Sfogatosi a dovere si piazzò a testa in giù perché il sangue affluisse meglio dentro il cervello e portasse qualche buona idea.

Non cambiò nulla, se non che sentiva gli occhi così gonfi da credere che gli stessero per schizzare fuori dalle orbite. Stava per tornare dritto quando si accorse che le lancette dell’orologio che avrebbero dovuto segnare le tre e mezza di notte erano in un’altra posizione: marcavano le nove in punto.

Le lancette non si erano spostate, era il modo rovesciato in cui le guardava Emil a essere diverso. Erano sempre le tre e mezza ma viste al contrario tutto assumeva un’altra valenza.

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Ecco cosa stava sbagliando. Doveva cambiare il suo punto di vista sulla questione etichetta. Non doveva pensare a chi era. Doveva decidere chi voleva essere da quel momento in poi.

Emil non era mai stato nessuno? Be’, allora era il momento di diventarlo.

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Appena Alan vide come si era conciato Emil, esclamò:

– Stramitica idea!

Lo disse saltellando da un piede all’altro, facendo oscillare i riccioli che aveva in testa come se fossero la chioma di un albero al vento. Lo diceva in quella maniera per ogni bravata di Emil che trovava davvero intelligente. Lo aveva detto così quando Emil si colorò col bianchetto una carie per evitare il dentista, anche se poi col tempo il dente si infettò tanto da far gonfiare tutta la gengiva e dovettero toglierlo per metterne uno finto; lo aveva detto così quando Emil inventò gli scarponi che non fanno sudare i piedi facendo dei fori in normali scarponi di gomma, anche se poi scoprì che da quei fori entrava anche l’acqua delle pozzanghere. E anche questa volta lo disse proprio in quella maniera esatta.

– Lo so, sono un genio – gongolò Emil drizzandosi gli occhiali da sole sul naso. – D’ora in avanti sarò il tipo

13 Capitolo 3

ganzo che porta gli occhiali da sole anche di notte e al chiuso.

Si era svegliato di buonora per agghindarsi come un vero duro. Indossava una giacca di pelle le cui cerniere tintinnavano a ogni movimento. Aveva i capelli tirati indietro unti da un intero barattolo di gel. Si era cosparso tutto il corpo col dopobarba costosissimo di Papà, anche se secondo lui faceva più puzza che profumo. E per finire, occhiali da sole neri da rock star.

– Anche io voglio essere il tipo ganzo – protestò Alan. Cercò di agguantare gli occhiali da sole con un gesto goffo.

– Giù le mani, Capellone – si difese Emil schivando l’attacco alla sua nuova mitica identità. – Dovevi pensarci prima. Ormai tu sei tu e non si può cambiare se stessi.

Alan si acciglio e incrociò le braccia. Ma il broncio, soprattutto quello di Alan, poteva cambiare in un sorriso in un attimo. Bastò l’arrivo di una certa ragazza lì alla fermata dell’autobus scolastico.

– Guarda, guarda! C’è tua cugina! – strepitò Alan peggio di un tacchino, con i suoi occhi che divennero a forma di cuore. – Ciao Dora, sono qui. Il tuo Pasticcino è da questa parte.

Dora si fermò all’angolo opposto della fermata.

– Non deve avermi visto.

Lo aveva visto. Benissimo. Era a pochi metri.

– Lasciala stare, lo sai che non ti considera mai.

Emil calcò considerevolmente l’avverbio “mai”.

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“Alla scuola secondaria è così. Cerchi ogni giorno di dare una certa impressione, poi, per una sciocchezza, ti affibbiano un’etichetta assurda che ti rimane appiccicata addosso per sempre”.

Una storia sulla ricerca della propria identità. Gli stereotipi non sono mai stati così divertenti.

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