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IL TeMPO Di una Paola Valente
Per ogni momento... un Racconto su misura
Leggere insieme a un bambino crea un legame d'amore per tutta la vita.
Storie da 5 minuti
QuandO a BarberinO crebberO le barbe
Una bella mattina di primavera, la signora Camelia de Camelis, duchessa di un paese chiamato Barberino, si svegliò con una strana sensazione. Si guardò allo specchio dell’armadio e vide che, durante la notte, le era cresciuta una folta barba, liscia e bruna come i capelli. Allora corse in bagno, prese le forbici e tentò di tagliarla, ma la barba ricresceva subito più liscia e folta di prima.
Era un brutto guaio per la duchessa. Quel giorno infatti doveva inaugurare la nuova scuola e non poteva certo mancare perché lei era la persona più importante del paese.
Non si perse d’animo: i Camelis erano, fin dall’antichità, capaci di cavarsela in qualsiasi circostanza. Perciò tirò fuori dal cassetto una bella sciarpa di chiffon e se l’avvolse intorno alla metà inferiore del viso coprendo la barba.
– Se qualcuno oserà chiedermi qualcosa, risponderò che ho mal di denti – borbottò imbronciata.
Quando la duchessa arrivò sul piazzale della scuola, la popolazione era già tutta schierata di fronte al palco delle autorità. Le bandiere svolazzavano, la banda era pronta a suonare, due signore preparavano tè e caffè nel chioschetto, i bambini se ne stavano buoni in fila nei posti assegnati. E tutti, ma proprio tutti, indossavano una sciarpa che copriva metà del viso.
La duchessa salì sul palco, aiutata dal sindaco che le tese la mano con galanteria. Poi l’uomo diede un paio di colpetti sul microfono per controllare che funzionasse e disse:
– Cittadini, prima dell’inaugurazione vorrei che ci togliessimo le sciarpe dal viso. Conterò fino a tre. Lo faremo tutti insieme perché mi sa che abbiamo lo stesso problema. Uno… due… tre!
Le sciarpe volarono via e apparvero i visi barbuti dei cittadini di Barberino. I biondi avevano la barba bionda, i ricci la barba riccia, i vecchi la barba bianca, i bruni la barba bruna, l’unico rosso del paese aveva la barba rossa, i calvi avevano una barba lunga e sottile come quella delle capre. Anche i bambini sfoggiavano la loro fresca barbetta.
La duchessa però non si tolse la sciarpa. Lei era superiore a tutta quella gente e non si sarebbe mai abbassata a farsi vedere in quelle condizioni.
I cittadini di Barberino si guardarono l’un l’altro stupefatti: che mistero era mai quello? Come mai erano tutti diventati barbuti in una sola notte? Era forse colpa dell’acqua o del cibo o della primavera che, invece di far crescere l’erba, aveva fatto crescere le barbe?
Fatto sta che nessuno si perse d’animo. Quella novità era molto divertente e ora abitare a Barberino aveva una sua logica. Così l’inaugurazione della scuola si trasformò in una grande festa durante la quale le barbe furono adornate con nastrini, fotografate, confrontate. Si ricoprirono di briciole di biscotto, di gocce di tè, di schizzi di vino e di aranciata.
La duchessa rimase in disparte, con la faccia avvolta nella sciarpa, fino a che un monello, non gliela sfilò da dietro.
Quando apparve la bella barba della de Camelis, la gente applaudì entusiasta: nessuno di loro poteva vantare un pelo così soffice, lucido e folto. Il sindaco le baciò la mano e proclamò:
– Duchessa barbuta sempre piaciuta.
Le signore del chioschetto le offrirono tè al bergamotto in una tazza di porcellana cinese e biscotti allo zenzero in un piattino di argento sbalzato.
La brezza primaverile muoveva di qua e di là le barbe e i nastrini che le adornavano. Le bambine se le intrecciavano e i maschietti se le misuravano per vedere chi le aveva più lunghe.
La banda iniziò a suonare, la gente a ballare, il sindaco a corteggiare la duchessa che ormai si era molto ammorbidita e quasi si era dimenticata di avere la barba. Fu una festa memorabile che non si è mai più ripetuta.
La mattina dopo, così come erano venute, le barbe sparirono e gli abitanti di Barberino si ritrovarono con il viso come quello di prima.
Anche la duchessa aveva perso la sua barba folta e liscia. Era una fortuna, però un po’ le dispiacque.
Piribella e PiribellO
Sulla collina, nel tronco di un pino, se guardi bene c’è una porticina. Non è facile vederla perché è fatta di corteccia, ma chi è abbastanza attento la può scorgere.
Lì dentro ci sono due stanze, una cameretta e una cucina. In cucina c’è una stufa a legna il cui camino spunta fuori dal tronco spandendo nell’aria un filo di fumo profumato. Ci sono un tavolo e due sedie, una minuscola credenza con sopra una vetrina e un vaso di fiori su una mensola. In camera ci sono due letti con bianche lenzuola e una cassapanca intagliata.
È la casetta di Piribella e Piribello, la donnina e l’omino più piccoli del mondo. Sono alti un pollice e pesano come una farfalla.
La mattina presto, quando il sole sta per sorgere e colora appena appena l’orizzonte di rosa, Piribella e Piribello si alzano, svegliati dal cinguettio di un passerotto che ha il nido fra i rami del pino. Ancora in pigiama, escono sul prato davanti casa e si lavano la faccia con una goccia di rugiada. Fanno colazione con il nettare delle genziane e poi tornano in casa per rivestirsi.
Quando sono pronti, prendono un cestino e si avviano per raccogliere il cibo da conservare per l’inverno.
L’erba è alta, in mezzo ci corre un sentiero che si inoltra tra i castagni. Sono alberi giganteschi, ma Piribella e Piribello si arrampicano senza fatica afferrandosi alle scaglie della corteccia.
– Guarda, Piribello! Lì c’è un fungo mangereccio. Lo faremo seccare e lo terremo in magazzino.
Piribello stacca il fungo con il suo coltellino, lo fa cadere a terra e poi lo taglia a pezzetti.
– Il mio cestino adesso è quasi pieno – dice.
Piribella scende dal tronco e si guarda intorno.
– Quel cespuglio è pieno di more, ma bisogna fare attenzione alle spine.
– Ci penso io – dice Piribello. Indossa un paio di guantini molto spessi e stacca quattro grossi frutti neri e succosi.
– Anche il mio cestino adesso è quasi pieno – dice Piribella.
Per oggi hanno cercato quanto basta. Prima di tornare a casa, raccolgono un mazzo di fiorellini celesti per metterli nel vaso in cucina.
A pranzo, Piribella e Piribello mangiano un chicco di riso ciascuno cotto nel brodo di patata e, come dolce, una goccia di miele d’acacia che le api gli regalano per antica amicizia.
Nel pomeriggio, Piribella e Piribello si sdraiano su una pietra scaldata dal sole e coperta di muschio. Leggono un libro grande come l’unghia del tuo mignolo.
Poi mettono i pezzetti di fungo a seccare al sole e cuociono la marmellata di more.
Al tramonto, Piribella e Piribello si prendono per mano, salgono per una scaletta appoggiata al tronco del pino e raggiungono un terrazzo sospeso sopra la collina.
Mentre il cielo si accende di arancio e di viola, di rosso vivo e rosso mattone, di giallo chiaro e di blu profondo, si mettono a cantare. La loro voce è sottile sottile, flebile come un sussurro, limpida e intonata. Non è facile sentirla, ma se sai prestare molta attenzione puoi ascoltare una canzone che parla di api, di alberi e di uccelli.
E di notte, se ti avverrà di passare da quelle parti e ti avvicinerai al pino sulla collina, potrai ascoltare, nel silenzio dell’oscurità, il dolce ron ron del russare di Piribella e Piribello. Dormono sognando more, funghi, ciliegie, tartufi e sognano anche te che li stai sognando a tua volta.
L’OrcO Puzzone
Erano molti anni che l’Orco non si lavava. Proprio non sopportava l’acqua gelida dei torrenti o quella dei laghetti; l’acqua piovana gli provocava il raffreddore e quella del mare era piena di sale.
Non si lavava né si cambiava i vestiti perché possedeva solo quelli che indossava e le sue mutande erano ormai ridotte a brandelli. Quanto ai calzini, non li portava e neppure le scarpe.
Se ne andava in giro con i piedoni nudi, pelosissimi e incrostati di fango ed erano quelli a puzzare di più.
L’Orco aveva lunghi peli sotto le ascelle e puzzavano molto anche quelle, ma i piedi puzzavano di più.
I suoi capelli erano arruffati, coi pidocchi grandi come topi che facevano una gran festa su quella testona puzzolente, ma i piedi puzzavano di più.
La sua barba sembrava un cespuglio di rovi dove si erano impigliate le immondizie.
Le sue unghie erano lunghe, ricurve, gialle e puzzavano di formaggio con i vermi, ma i suoi piedi puzzavano di più.
I denti dell’Orco erano appuntiti e i canini sembravano zanne, ma erano molto sporchi. Quando dormiva con la bocca aperta, il suo alito puzzolente teneva lontani uccellini, zanzare, pappataci, falene, vespe e calabroni.
Tutta quella puzza (specialmente quella dei piedi) aveva un grande svantaggio, perché il suo arrivo si annusava a dieci chilometri di distanza. Uomini e animali facevano in tempo a scappare e a nascondersi con tutta calma. Per questa ragione, l’Orco era diventato vegetariano.
Ormai erano secoli che non si pappava più un grasso bambino arrosto o un bel cinghiale bollito. Perfino le pecore, stupide com’erano, avevano imparato a sfuggirgli. L’Orco si era rassegnato a divorare campi di granoturco, a depredare le vigne, a inghiottire ciliegie insieme a tutto l’albero, a ingoiare le castagne insieme al riccio, a scavare patate dal suolo per mangiarle crude.
Il motivo per cui si era ridotto a puzzare così è perché una notte era uscito dalla sua caverna accogliente, nella quale c’era anche una grande vasca da bagno con l’acqua calda, aveva camminato a lungo soprappensiero e si era perso… non aveva più ritrovato la strada di casa. Così continuava a vagare di qua e di là, solitario ed evitato da tutti ed era molto infelice.
Un giorno l’Orco capitò in un villaggio che si era svuotato di tutti i suoi abitanti che avevano annusato il suo arrivo. Quale non fu la sua sorpresa, nel vedere che, davanti a una casetta, era rimasta una bambina con un grosso libro sotto il braccio e una molletta sul naso.
– E tu chi saresti? Perché non sei scappata? Non hai paura di me? – le chiese l’Orco stupefatto.
– Mi chiamo Margherita e credo di poter risolvere il tuo problema. So che hai perso la strada di casa e io posso aiutarti a ritrovarla. Però dovrai ubbidirmi. Ci stai?
L’Orco era incredulo. Avrebbe desiderato inghiottire la bambina in un solo boccone, ma era tutta pelle e ossa. Gli si sarebbe incastrata in mezzo ai denti.
Inoltre il pensiero di casa lo faceva sciogliere come un gelato in estate. Perciò rispose:
– Ci sto, ma se non ce la farai a farmi tornare a casa, ti mangerò.
– Mi sembra giusto – rispose la bambina.
Prima di tutto, Margherita condusse l’Orco sotto a una cascata.
– Devi lavarti per bene – disse. – Non voglio che il mio libro magico puzzi!
L’Orco rabbrividì, ma si gettò sotto la cascata e, a poco a poco, tutto lo sporco scivolò via da lui. I pidocchi scapparono indignati dai suoi capelli ormai lindi e il fango che gli incrostava i piedi si sciolse. Quando fu pulito come un neonato dopo il bagnetto, Margherita aprì il libro e disse all’Orco: – Ora chiudi gli occhi e salta.
L’Orco saltò nel libro e si ritrovò dentro a una fiaba. E nella fiaba c’erano la sua caverna accogliente, il letto con la coperta grande come la Piazza Maggiore, la poltrona con tre cuscini e una vasca da bagno colma di acqua calda. L’Orco trovò anche le sue enormi forbici e, con grande gioia, si tagliò le unghie dei piedi… che non puzzavano più.
Questa è casa mia!
Dopo aver cantato per tutta la notte, il grillo tornò nella sua tana. In quel buchetto rotondo, c’era un letto di foglie di menta dove il grillo si distese con un sospiro di beatitudine. Chiuse gli occhi e quasi subito si addormentò.
Non erano trascorsi che pochi minuti, quando fu svegliato da un concerto di strilli. Poco lontano da lì, c’era una famiglia di talpe e i piccoli stavano facendo i capricci. Le talpe mangiano molto volentieri i grilli, e non era certo il caso di protestare per il disturbo con il rischio di finire nella pancia di quelle ghiottone. Così il grillo rimase in silenzio, con gli occhi spalancati, finché il baccano cessò.
Ora il grillo poteva riposare. Chiuse gli occhi, sospirò di sollievo e si addormentò. Passarono forse due minuti quando una pioggerella di terra gli cadde addosso.
– Che cosa succede adesso? – si lagnò il grillo risvegliato all’improvviso.
– Scusa, amico. Mi sono rifugiata qui perché una ranocchia mi sta inseguendo – disse una cavalletta spaventata, saltando su e giù.
Dapprima il grillo pensò di cacciarla via, ma aveva un cuore generoso.
– Puoi restare finché il pericolo non sarà passato, ma smettila di saltellare come una pazza – disse con un sospiro rassegnato.
La cavalletta, rassicurata, si posò in un angolino e rimase lì buona buona per la paura di essere mandata via. Il grillo sprimacciò le foglie di menta, si distese sul letto e chiuse gli occhi. Anche questa volta però riuscì a dormire solo pochi minuti. Dalla parete, sbucò infatti una testa e poi un corpo lungo e sottile che si srotolò nella tana mentre una vocina diceva:
– Povero me, ho sbagliato strada!
– Ma insomma, questa è casa mia. Signor lombrico, non potrebbe stare più attento?
– Scusami tanto, mastro grillo. Sono vecchio e mi capita a volte di commettere un errore. Non preoccuparti, però. Me ne vado subito.
Detto fatto, il lombrico infilò la testa nella parete opposta e un po’ alla volta, scavando a fatica, scomparve. Con un sospiro scocciato, il grillo si distese nel letto, chiuse gli occhi e si addormentò di nuovo.
Dopo pochi minuti, un tuono formidabile lo svegliò. Il vento soffiava e la grandine cominciò a picchiettare sul prato. Il grillo fece un salto fino al soffitto della tana, tanto fu lo spavento e la cavalletta non fu da meno. Cominciò a saltare anche lei gridando:
– La fine del mondo! La fine del mondo!
– Calmati, sciocca. È solo un temporale. Vieni, siediti qui, e aspettiamo che smetta – le disse il grillo.
La cavalletta ubbidì. Si sedette sul letto tremando, mentre la tempesta si scatenava.
Il temporale non durò a lungo. Ora si udiva solo il fruscio di una pioggia sottile, un rumore che conciliava il sonno. Il grillo perciò si distese sul lettuccio, chiuse gli occhi, si girò per trovare una posizione comoda, si girò e si rigirò di nuovo. Con un sospiro di delusione disse:
–Adesso non riesco più a dormire. Mi è venuta l’insonnia.
–Vuoi che ti canti una ninna nanna? – gli chiese la cavalletta. E, senza aspettare una risposta, cominciò a cantare così:
Nella tana c’è un grillo, un grillo canterino. Sta dormendo tranquillo con un’amica vicino.
La pioggia fa tic–tic, il grillo fa cri–cri.
Gli si chiusero gli occhi e il grillo sprofondò nel sonno con un sospiro di gioia. La cavalletta si addormentò accanto a lui. E finalmente nessuno più li disturbò.
Teodora Pentagramma era gentilissima con le persone ricche e importanti, ma trattava male i suoi servitori, specialmente quella povera cameriera che doveva sopportare giorno e notte i suoi capricci.
– Signora, mi perdoni. Stavo stirando il suo abito di scena.
– Non osare rispondermi e fa’ qualcosa. Altrimenti ti licenzio. Capito? – disse la cantante e la sua voce sembrava un gesso che stride sulla lavagna.
La cameriera, che si chiamava Rosa, si spaventò e corse fuori dalla stanza. Doveva trovare una soluzione al problema della sua padrona. Non poteva permettersi di essere licenziata. Uscì dal palazzo di Teodora e si precipitò in farmacia.
– Vorrei delle pastiglie per la voce.
Il farmacista rispose:
– Ho pastiglie contro la tosse, pastiglie contro il mal di gola, pastiglie per profumare l’alito e pastiglie per il catarro.
– Ho bisogno di pastiglie che facciano tornare come prima la voce della mia padrona, la cantante d’opera Teodora Pentagramma.
Il farmacista scosse la testa: pastiglie del genere non esistevano. Nel vedere lo sconforto di Rosa, le consigliò di rivolgersi a un famoso dottore.
– È bravissimo. Risolverà certamente il problema della cantante.
Sempre correndo, Rosa raggiunse lo studio del medico che accettò di recarsi subito nel palazzo di Teodora. Quando arrivò, la visitò. Le abbassò la lingua e le guardò in gola con l’aiuto di una piccola torcia elettrica.
– Qui è tutto a posto. Non ci sono infiammazioni, non ci sono lesioni. Aspetti qualche giorno e il problema si risolverà da solo. La visita costa mille euro – concluse il dottore.
Teodora Pentagramma si infuriò e diede la colpa alla cameriera.
– Tratterrò i soldi della visita dal tuo stipendio, incapace che non sei altro! E ora va’ a cercare un vero rimedio altrimenti considerati licenziata! – gracchiò con una voce da cornacchia raffreddata.
Rosa uscì di nuovo e cominciò a camminare. Le lacrime le bagnavano le guance. Cosa poteva fare lei, una povera ragazza, per quella voce orribile se neppure un dottore famoso era riuscito a rimediare? Teodora Pentagramma l’avrebbe licenziata, lei sarebbe rimasta senza stipendio e non sarebbe stato facile trovare un altro lavoro. Mentre attraversava il parco pubblico senza riuscire a farsi venire un’idea, un piccolo aeroplano rosso si mise a volteggiare sopra il prato. Rosa alzò il capo e vide cadere una pioggia di volantini colorati. Uno di questi si posò proprio davanti ai suoi piedi e lei lo raccolse. Sul volantino era disegnata la faccia di un uomo anziano dalla lunga barba, con in testa un cappello a larghe tese. C’era anche scritto:
Problemone o problemino?
Qui c’è il Mago Zuccherino. Per qualsiasi situazione vi fornisce soluzione.
Mi trovate per davvero in via delle Nuvole numero zero.
“Chi sarà mai questo Zuccherino?” pensò Rosa, ma, perso per perso, decise di andarci. Via delle Nuvole era abbastanza lontana e lei non poteva permettersi il biglietto del tram, perciò si mise a correre. Quando arrivò davanti alla casa del Mago, era sfiatata. Non perse tempo, bussò alla porta ed entrò.
Il Mago Zuccherino era seduto dietro a un tavolo colmo di libri antichi, di recipienti di vetro e di scatole colorate. Proprio al centro del tavolo, c’era una fruttiera piena fino all’orlo di caramelle rotonde.
– Mi aiuti. La mia padrona è una cantante famosa, ma ha perso la voce. Se non trovo una soluzione, sarò licenziata.
– La soluzione c’è, ma prima pettinami la barba.
Rosa ubbidì. Tirò fuori un pettine dalla borsetta e cominciò a pettinare la barba del Mago. I peli erano sporchi e aggrovigliati, con impigliati qualche pidocchio e dei pezzetti di cibo. Non fu un lavoro gradevole, ma Rosa lo fece senza lamentarsi e talmente bene che la barba diventò liscia, lucida e pulita.
– Bravissima! – esclamò il Mago Zuccherino tutto soddisfatto –e ora il rimedio per la tua padrona.
Prese una manciata di caramelle dalla fruttiera, la mise in un sacchetto e lo consegnò a Rosa.
– Una all’anno. Solo una all’anno, mi raccomando. La voce tornerà più bella di prima – le disse.
Rosa tornò da Teodora Pentagramma, le raccontò del Mago Zuccherino, le mostrò il sacchetto e le raccomandò di mangiare una sola caramella all’anno.
– Dammi quel sacchetto, sciocca, e vattene! Prega che le caramelle funzionino, altrimenti ti caccerò in mezzo alla strada.
Rosa uscì dalla stanza e si mise una mano in tasca. Si accorse allora che una caramella era uscita dal sacchetto. Poiché era stanca e assetata, la succhiò. Aveva un buon sapore di menta e arancia. Nel frattempo, Teodora Pentagramma si ingozzava di caramelle.
“Quella ragazza bugiarda mi ha certamente ingannato. Altro che una caramella all’anno! Scommetto che, se le mangio tutte, ritroverò una voce ancora migliore di prima!” pensava. Dopo averne inghiottite tredici, la cantante si posizionò di fronte allo specchio, aprì la bocca e fece:
– Ah! Oh! Hiii!
Fu peggio del colpo di cento cannoni, peggio di un aereo che supera il muro del suono, peggio dello scoppio di una bomba: la voce di Teodora mandò in frantumi tutti i vetri della città, i cristalli, i lampadari e le vetrine. Un disastro. La cantante fu costretta a pagare i danni e dovette starsene zitta.
Rosa invece scoprì che la caramella le aveva donato una voce meravigliosa. In poco tempo, fu lei a diventare la cantante più famosa del mondo e si esibì di fronte alla regina d'Inghilterra. Teodora Pentagramma diventò la sua cameriera e Rosa, con il suo animo gentile, la trattò sempre bene.