
Frances Hodgson Burnett
Frances Hodgson Burnett
Collana di narrativa per ragazzi
Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini
Team grafico: Enzo Bocchini
© 2021
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Printed in Italy
I Edizione 2021
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È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.
di Alessia Racci Chini
Illustrazione di copertina
Erika De Pieri
Tra il 1910 e il 1911, la scrittrice anglo-americana Frances Hodgson Burnett pubblicò “Il giardino segreto”, un romanzo che, insieme al “Piccolo Lord”, la consacrò come autrice di grande spessore per ragazzi.
Rileggere oggi questo racconto significa immergersi in una storia senza tempo, sempre attuale, dove si intrecciano con sapienza i temi dell’infanzia e dell’educazione con il mistero e l’amore per la natura.
La protagonista principale, la piccola Mary, e i suoi comprimari Dickon e Colin, ragazzi di diversa estrazione sociale, scoprono nel giardino segreto la possibilità e la capacità di imparare e di educarsi per mezzo della natura, delle conoscenze e della cura delle piante. È questo il principale messaggio del libro: prendersi cura, stare all’aria aperta, coltivare fiori e amicizia. Un messaggio, con tutta evidenza, quanto mai valido anche ai giorni nostri.
Se il giardino diviene un luogo proibito, chiuso e abbandonato a causa di una tragedia che vi ebbe luogo, si trasforma, quando i bambini lo ritrovano, nel posto più bello del mondo. Un posto tutto loro dove costruire e costruirsi rafforzando la propria personalità e correggendone i difetti.
Quanti bambini e ragazzi, anche oggi, conducono una vita da semireclusi, abbandonati spesso davanti a un computer o a uno smartphone, e completamente ignari della bellezza della natura? Natura che è madre, che dà la vita, che colma la Terra di bellezza.
Probabilmente ci vorrebbero anche ora tanti giardini, segreti o meno, dove i giovani possano giocare e imparare.
Anche la lettura di un classico come questo può contribuire alla scoperta del mondo di fuori, della meraviglia per l’apparire di un uccellino curioso, dello stupore delizioso che si può provare nella fioritura di un cespuglio di rose curato con amore, della vita all’aria aperta.
Se da un lato la lettura de “Il giardino segreto” può essere l’ottimo punto di partenza per una riflessione sul mondo dell’infanzia e sui metodi educativi, dall’altro (e soprattutto) rimane sempre un’esperienza di grande piacere e di divertimento. Il romanzo infatti è scorrevole, sciolto, pieno di colpi di scena e di fatti sapientemente intrecciati.
Le incantevoli descrizioni dei luoghi, la penetrazione psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi, il fascino della brughiera inglese, i misteri di una grande magione padronale, le emozioni, i sentimenti, i mutamenti: tutti gli ingredienti sono così ben amalgamati da rendere il racconto oltremodo avvincente.
In fondo si può affermare che leggere è come coltivare in noi un giardino segreto.
Quando
Mary Lennox andò a vivere dallo zio, nel maniero di Misselthwaite, tutti pensarono, senza ombra di dubbio, che era la bambina meno gradevole che avessero mai incontrato. Aveva il corpo rinsecchito e la faccia ancor più secca, segnata da un cruccio di perenne stizza. I capelli sembravano paglia e anche il viso era giallognolo, perché era nata in India e, per un motivo o per l’altro, era sempre stata malaticcia.
Il padre di Mary, un funzionario del governo coloniale inglese, era un uomo molto impegnato. Anche la bellissima madre era assai indaffarata, ma in un altro genere di attività: il tempo lo spendeva soprattutto in compagnia di gente allegra, a spassarsela da una festa all’altra. Non aveva mai desiderato una figlia e, appena nata, aveva affidato Mary a un’ayah, una bambinaia indiana. Fu così che Mary Lennox, tenuta fuori dai piedi per non disturbare i genitori, crebbe bruttina, capricciosa e malaticcia, in mezzo a facce sconosciute, a eccezione della sua ayah.
Aveva circa nove anni quando, una mattina d’estate, appena sveglia, scorse accanto al letto la faccia di una domestica che non conosceva.
– Mandami subito la mia ayah! – ordinò la bimba, ma la donna, con faccia terrorizzata, rispose che l’ayah non poteva venire. Quando Mary uscì dalla stanza, si accorse subito che nell’aria c’era qualcosa di strano. Vide un gran via via per i corridoi dell’elegante residenza, così precipitoso da sembrare una fuga. Scorse la madre, avvolta in un abito svolazzante pieno di trine, uscire fuori nella veranda in compagnia di un giovane ufficiale.
Stranamente, il viso della signora Lennox non era bello e luminoso come al solito, ma appariva segnato dalla preoccupazione.
– La situazione è così tanto grave? – la sentì dire Mary, nonostante la donna parlasse a voce bassa.
– Gravissima – rispose il giovane. – Sarebbe dovuta andare in collina due settimane fa, signora, adesso potrebbe essere troppo tardi.
La donna si torse le mani con grande inquietudine. Nello stesso momento, nel cortile della residenza si udirono delle strazianti urla.
– Che cos’è? – domandò la signora Lennox con un sussulto.
– Sarà morto qualcuno – rispose l’ufficiale. – Il morbo ha colpito anche la vostra servitù!
La piccola Mary scoprì ben presto la ragione del mistero che aleggiava quella mattina: in tutto il Paese era
scoppiata una grave epidemia di colera e le persone stavano morendo come mosche. Proprio come la sua ayah, ch’era scomparsa quella notte.
Senza nessuno che si occupasse di lei, tutti preoccupati di mettersi in salvo, la piccola Mary rimase rinchiusa nella stanza dei giochi per un tempo che aveva smesso di contare.
Quando uscì di soppiatto per andare a cercare qualcosa da mangiare, si accorse che nella casa regnava un silenzio irreale. Trovò la tavola in disordine, coi resti di cibo, come un pasto interrotto. Raccolse dal piatto ciò che restava e, non trovando acqua da bere, svuotò un bicchiere ancora ricolmo di vino. Tornò nella sua stanzetta e sentì la testa e il corpicino farsi pesante, finché precipitò di nuovo in un lungo sonno.
Venne svegliata da alcune voci lungo il corridoio, accompagnate dall’incedere pesante dei passi. Un istante dopo, vide la porta spalancarsi e un omone in divisa comparire sulla soglia.
– Santo cielo! C’è una bambina qui! – gridò per richiamare qualcuno.
– Sono Mary Lennox – rispose la bimba impettita, offesa per non aver ricevuto il reverente saluto cui era abituata. – Mi sono addormentata quando è arrivato il colera e mi sono svegliata adesso. Dove sono i miei genitori?
Accanto all’omone, comparvero altri ufficiali, tutti con lo sguardo sconsolato.
– Povera piccola, non c’è più nessuno che possa venire da te – disse l’omone prendendola in braccio.
Fu così che Mary Lennox, in modo crudo e improvviso, apprese che il colera si era portato via tutta la sua famiglia.
Di una cosa era certa Mary Lennox: che dovunque sarebbe andata a finire, tutti avrebbero continuato a servirla e riverirla come sempre. Ma ben presto dovette rendersi conto del contrario.
Venne condotta nella casa di un reverendo inglese, con cinque figli ancora bambini. Sapeva che non sarebbe rimasta a lungo lì, né lo desiderava: il pastore era povero, da mangiare ce n’era poco, i bambini erano vestiti di stracci e soprattutto erano insopportabili con lei. O meglio, era lei a essere insopportabile con loro, tanto che dal secondo giorno tutti presero a chiamarla Mary il calvario, bastian contrario mentre le saltellavano attorno cantando filastrocche orribili su di lei.
– Ti spediranno a casa fra qualche giorno – le disse una mattina uno dei figli del reverendo. – E ne siamo tutti contenti.
Anche Mary tirò un sospiro di sollievo.
– A casa, dove?
– Chissà dove? In Inghilterra, da tuo zio – rispose il ragazzo con disprezzo.
– Ma io non lo conosco.
– Abita in una grossa dimora molto lugubre, dove nessuno vuole andare a trovarlo. È un gobbo stomachevole. Ben ti sta! – rispose con uno sghignazzo.
– Non ti credo! – gridò la bambina tappandosi le orecchie per non doverlo più stare a sentire, mentre il cuore si gonfiava di angoscia.
Di lì a pochi giorni, Mary venne imbarcata in un transatlantico diretto in Inghilterra, affidata alla moglie di un ufficiale, per andare a stare dallo zio, il signor Archibald Craven, nel maniero di Misselthwaite.
Arrivata a Londra, venne consegnata alla donna che Lo zio le aveva mandato incontro: la signora Medlock, ovvero la governate della famiglia Craven.
‘Che faccino orribile’ fu la prima cosa che la signora Medlock pensò quando si trovò al cospetto della bambina. ‘Ma i bambini cambiano’ disse tra sé un istante dopo, salvo rendersi conto che a Misselthwaite, nella deprimente dimora, nessun bambino avrebbe mai potuto cambiare in meglio.
La signora Medlock, d’altro canto, per Mary era la persona più antipatica che avesse mai incontrato. A infastidirla erano soprattutto il faccione arcigno e il brutto cappellino con i fiori viola.
Quando arrivò il momento di prendere il treno per lo Yorkshire, Mary attraversò la stazione tenendosi alla larga dalla governante per il timore di essere scambiata per sua figlia. Salirono nello scompartimento con i sedili imbottiti e Mary sedette in un cantuccio, dove rimase immobile con il viso perso oltre il finestrino per quasi tutto il lunghissimo viaggio, durante il quale apprese qualcosa in più sul misterioso zio.
Archibald Craven era il fratello della madre, un vedovo scontroso affetto da una deformità fisica, che di certo non si sarebbe occupato di lei perché non si occupava di nessuno, e che stava per lunghi periodi lontano da casa.
– Non ti aspettare di incontrarlo – disse la signora Medlock con tono severo, – né di trovare qualcun altro con cui intrattenerti. Dovrai badare a te stessa e giocare da sola. Soprattutto, evita di andare a zonzo per la dimora. Il signor Craven non vuole. Ci sono più di cento stanze. Ti sarà detto quali puoi frequentare e quelle da cui devi tenerti alla larga. Chiaro?
Mary tornò a guardare oltre il finestrino bagnato di pioggia e pensò che tutto il mondo sarebbe rimasto grigio per sempre.
Quando riaprì gli occhi, fuori era buio. Si era addormentata e la signora Medlock la stava scuotendo. Era ora di scendere.
La governante radunò i bagagli e Mary non pensò nemmeno per un istante di darle una mano: in India erano faccende da servi. Fuori dalla piccola stazione, sotto la pioggia battente, salirono nell’elegante carrozza fatta arrivare per loro.
– Quanto manca all’arrivo?
– Serve una bella dose di pazienza – rispose la signora Medlock. – Dobbiamo attraversare due villaggi e poi tutta la brughiera.
– Brughiera? Che cos’è?
– Lo capirai presto.
La carrozza avanzò spedita e, dopo un lungo tragitto, Mary smise di riconoscere oltre il finestrino le case, gli alberi e i ponti: c’era solo un’immensa, sconfinata distesa di buio tagliata dal vento.
– È… il mare, vero?
– Potrebbe essere il mare se ci fosse l’acqua – rispose la signora Medlock trattenendo uno sbuffo. – È la brughiera: miglia e miglia di terra incolta, dove crescono solo cespugli d’erica e ginestra, e vivono unicamente pecore, cavalli e uccelli selvatici.
‘Non mi piace’ pensò Mari.
Dovette trascorrere ancora un tempo infinito in mezzo a quell’oceano scuro perché si potessero intravedere in lontananza le luci tremolanti della dimora.
Quando attraversarono l’imponente portone di quercia, Mary vi trovò un anziano servitore che non la degnò nemmeno di uno sguardo. Lo sentì solo parlottare con la signora Medlock:
– Il signor Craven non vuole incontrarla, stasera. Domattina presto partirà per lavoro. Faccia in modo che la bambina non sia di disturbo e che non veda ciò che non deve vedere. Mi raccomando.
La donna annuì e accompagnò Mary direttamente nella sua stanza, dove c’era un tavolo apparecchiato con la cena e il fuoco acceso.
Il mattino dopo, quando Mary aprì gli occhi, trovò una giovane cameriera inginocchiata di fronte al camino, intenta ad attizzare il fuoco. Nella luce soffusa, s’accorse di come fosse tetra la stanza, con le pareti di legno scuro piene di arazzi e dipinti di scene di caccia. Quando la cameriera vide che la bimba era sveglia, le sorrise e aprì i tendaggi. Mary poté comprendere meglio cosa fosse la brughiera. La giovane serva si presentò: si chiamava Martha e parlava in modo strano, in un dialetto che Mary non riusciva quasi a comprendere. I servitori indiani cui era abituata erano diversi, ossequiosi. Non si sarebbero mai azzardati a rivolgersi ai loro padroni come faceva quella ragazza. Ma lo stupore più grande arrivò quando apprese che doveva vestirsi da sola. Lei non lo aveva mai fatto!
– E chi la vestiva, signorina? – domandò Martha con tanto d’occhi.
– La mia ayah naturalmente!
– Vabbè, non è mai troppo tardi per imparare a farlo da soli – disse con un’allegra sfacciataggine, che a Mary fece ribollire il sangue.
Martha le servì una bizzarra colazione a base di porridge, una cosa che Mary non aveva mai mangiato prima e che si rifiutò di assaggiare in quel momento. Le raccontò quindi della sua famiglia, della madre e dei fratelli, soprattutto di un certo Dikon, un bambinotto di dodici anni che amava gli animali e per il quale Martha aveva un debole. Veniva da una famiglia povera, ma le sue parole trasudavano sentimenti d’amore che Mary non ricordava di aver mai provato. Né che qualcuno li avesse mai provati per lei.
Sebbene i modi grossolani della ragazzotta la innervosissero, Mary riconobbe nella servetta un non so che di rasserenante e amichevole. Ma non ci pensò troppo su.
Quando fu pronta, capì che nella stanza da letto e in quella accanto che le era stata descritta come la stanza dei giochi, non c’era davvero nulla con cui giocare. Decise così di fare un giretto tra i ricchi giardini della dimora.
Martha le fece strada per mostrarle la via.
– Da quella parte si arriva ai giardini – disse indicandole una porticina in un muro ricoperto di rampicanti. – Di là invece verso gli orti. È bello d’estate quando ci sono le fioriture. Adesso non ci sono fiori, invece.
La ragazza esitò per un istante, poi aggiunse:
– Uno dei giardini è chiuso a chiave, non ci entra nessuno da dieci anni.
– Perché? – domandò Mary incuriosita.
– Il signor Craven ha fatto chiudere la porta quando è morta sua moglie. Poi ha seppellito la chiave. Ma è una storia lunga.
Martha sembrò mettersi sull’attenti quando udì la signora Medlock che da lontano la stava richiamando. Corse via per svolgere le sue urgentissime faccende.
‘Un giardino chiuso da dieci anni?’ si domandò Mary. Chissà che aspetto aveva, chissà se c’erano ancora piante vive.
Attraversò la porticina verde e raggiunse un vialetto ombreggiato con molti alberi e aiuole a far da cornice a una fontana di pietra, asciutta. Attraversò il parco in lungo e in largo e comprese ben presto che c’erano molte altre porticine verdi da attraversare. Ognuna conduceva in altre zone dei giardini, ognuna cinta da un muraglione. Ma fino a quel momento era potuta entrare dappertutto, anche oltre le porte verdi che
sembravano chiuse ma che, con un po’ di forza, si capiva che erano aperte.
Poi, d’un tratto, Mary si sentì chiamare. Fu strano perché s’accorse che il suono che aveva sentito non era la voce di una persona, ma di un uccellino dal petto rosso appollaiato su un albero. E, di certo, ciò che aveva pronunciato non era il suo nome, ma un trillo amichevole che scaldava il cuore, lontano dalla filastrocca
Mary il calvario, bastian contrario.
La bambina si fermò a lungo per ascoltarlo, poi lo vide svolazzare lontano e decise di seguirlo. Attraversò molte porticine verdi verso altri giardini, fino agli orti e ai frutteti. Tornò indietro, sempre all’inseguimento dell’uccellino con il quale si stava divertendo, finché il piccolo animale non si appollaiò sul ramo frondoso di un albero molto alto, al di là di un muro sovrastato dall’edera.
– Fermo lì, adesso ti raggiungo! – esclamò Mary.
Ripercorse all’indietro il tragitto, e poi superò altre recinzioni, ma non poté trovare la strada che conduceva all’albero dove si era rifugiato l’uccello. Sfinita, sbucò in un orto dove c’era un vecchio chino a zappare. Si decise a rompere il ghiaccio.
– Sono stata in tutti i giardini.
– Nulla glielo impediva, signorina – rispose il vecchio con fare sbrigativo.
– Ma non ho visto la porta per l’altro giardino.
– Quale giardino? – rispose il vecchio smettendo di zappare.
– Quello laggiù, dall’altra parte del muraglione. Ci sono degli alberi alti. E un uccello col petto rosso che cantava su un ramo.
La faccia arcigna del vecchio mutò all’improvviso. Il vecchio emise un fischio e, un attimo dopo, l’uccellino si posò su una zolla ai loro piedi.
– Eccolo! Dove sei stato, bricconcello? – gli domandò amorevole il vecchio.
– Viene sempre quando lo chiama? – domandò Mary con la voce rotta dalla sorpresa.
– Eccome se viene!
– Che uccello è?
– Ma come, non lo sai? È un pettirosso. Gli uccelli più amichevoli che esistano.
– Mi piacerebbe avere un amico. Sono sempre stata sola.
Il vecchio giardiniere sollevò il berretto per grattarsi la fronte.
– Lei è la ragazzina arrivata dall’India?
– Sì. E tu chi sei?
– Mi chiamo Ben Weatherstaff. E anche io sono solo, se non c’è lui – rispose indicando l’uccellino. – È l’unico amico che ho.
– Io di amici non ne ho – disse Mary.
Allora l’uomo, anche se non riusciva a liberarsi dell’aria burbera, le donò uno sguardo complice.
– Noi due siamo fatti della stessa pasta. Non siamo né belli, né simpatici. Anzi. Abbiamo di certo lo stesso brutto carattere. Garantito.
Mary non era abituata alle persone che parlavano chiaro e che dicevano la verità dritta in faccia. Ma per uno strano moto del cuore, la cosa le piacque.
– Vedi? – riprese l’uomo accennando all’uccellino che muoveva curioso il capo verso Mary. – Gli sei simpatica. Lui ha già deciso che sarà tuo amico. Sono sicuro che non mi sbaglio!
Ogni giorno era uguale all’altro. Dopo la colazione, Mary usciva per giocare tra i giardini del maniero, non avendo altro da fare. Tuttavia, aveva imparato ad apprezzare l’aria fresca e la luce accecante delle giornate limpide nella brughiera. Le piaceva correre attorno alla fontana di pietra per il gusto di sentire le guance arrossate dal vento. In India era sempre caldo e i giorni trascorrevano lenti e pigri. Quando arrivò il brutto tempo, Mary scoprì che il vento poteva essere forte come non lo aveva mai sentito. La tempesta aveva dipinto la brughiera di colori tetri, la pioggia incessante batteva nelle finestre e, lungo il corridoio del maniero, si udivano gli ululati del vento. In quei giorni Mary trascorse molto tempo assieme alla giovane cameriera. Martha aveva sempre cose allegre da raccontare, e Mary non era più irritata da quella ragazzotta così diversa dalla servitù indiana. Era bello ascoltarla, specie quando raccontava della numerosa famiglia. Tra tutti, le piaceva sapere del fratellino Dikon e della mamma, proprio come a Martha piaceva sapere della bizzarra vita in India, dei servitori con la pelle scura, di come si cavalcassero gli elefanti o si cacciassero le tigri.
Poi, uno di quei giorni, Mary pose la fatidica domanda:
– Perché il signor Craven odia tanto quel giardino?
Martha tentennò, balbettò alcune parole, poi alla fine vuotò il sacco:
– Era il giardino della signora Craven, l’aveva creato lei quando si erano sposati e lo accudiva con grande cura. Amava trascorrere il tempo tra le fronde rigogliose e i roseti. C’era persino un vecchio albero con un ramo ripiegato dove la signora si sedeva ogni tanto, arrampicata fin lassù come le sue rose. Ma un brutto giorno il ramo si è spezzato e la signora Craven è precipitata mortalmente. Da allora il signor Craven si è chiuso nel suo dolore e, assieme al cuore, ha sbarrato anche il giardino.
Mary non fece altre domande. Provò solo una grande pena per lo zio, che non aveva ancora mai incontrato. Rimase a guardare il fuoco ascoltando il vento che ululava.
Il vento, a dire il vero, era una questione piuttosto complicata nel maniero di Misselthwaite. A volte si confondeva col pianto di un bambino. Un rumore lamentoso che non sembrava provenire da fuori, ma dal corridoio.
Quando Mary lo fece notare a Martha, la cameriera corse subito a chiudere la porta.
– Era solo il vento – rispose la ragazza. – O forse Betty, la sguattera, che ha mal di denti – s’affrettò a rispondere.
Mary la guardò attentamente e pensò che non stesse dicendo la verità.
Il giorno successivo, per ammazzare la noia, non potendo uscire per la pioggia ancora incessante, Mary decise di contravvenire agli ordini e perlustrare la dimora. Almeno in parte, senza allontanarsi troppo, perché davvero rischiava di perdersi fra le oltre cento stanze. Tanto in quella strana casa non s’incontrava mai nessuno. E poi gli ordini lei non sapeva cosa fossero, non avendo mai imparato l’obbedienza, né avendo imparato a chiedere permesso.
Avanzò lungo il labirinto di corridoi ricoperti di legno scuro intarsiato, di quadri e di arazzi. Vide il dipinto di una bambina che indossava un abito antico di broccato verde.
– Dove abiti adesso? – chiese Mary. – Vorrei tanto che fossi qui. Almeno avrei qualcuno con cui giocare.
Salì al secondo piano e, provando prima ad aprire una porta, poi l’altra, scoprì che erano tutte chiuse. Fece per tornare indietro, ma si accorse di non sapere dove andare.
– Mi sa che ho sbagliato strada – disse. In quello stesso istante, il silenzio fu turbato da un rumore: era
il pianto di un bambino, senza ombra di dubbio. Con il cuore che batteva all’impazzata, poggiò l’orecchio sulla parete da cui sembrava provenire, ricoperta da un arazzo. Con grande stupore, si accorse che sotto vi era celata una porta. La socchiuse e vide che si affacciava su un altro ramo del corridoio, in mezzo al quale si stagliava la figura della signora Medlock che avanzava con un mazzo di chiavi in mano e la faccia scura.
– Che ci fai qui? – domandò la donna minacciosa.
– Ho sbagliato strada – disse Mary, ma in quel momento venne afferrata per un braccio dalla governante e trascinata via.
– Ho sentito piangere!
– Tu non hai sentito un bel niente! – rispose la signora Medlock. La spinse ancora e la strattonò fino alla camera. – E adesso rimani dove ti dicono di stare se non vuoi essere chiusa a chiave. Il padrone farebbe meglio a trovarti una istitutrice, o almeno qualcuno che ti tenga d’occhio!
Sbatté la porta così violentemente che Mary ebbe un sussulto. Ma adesso ne era certa: nel maniero di Misselthwaite c’era per davvero qualcuno che piangeva.
Trascorsero altri due giorni di pioggia, poi una mattina, appena Mary aprì gli occhi, si drizzò a sedere sul letto: la brughiera si stagliava sotto un cielo azzurrissimo, accecante. Il maltempo era passato.
Si vestì in fretta e furia, fece colazione senza alcun capriccio - anzi, il porridge adesso lo adorava - e uscì. L’aria era cambiata, come annunciasse la primavera.
Salutò Martha, che avrebbe percorso le cinque miglia fino a casa per stare con la famiglia nel suo giorno libero, e avanzò dritta verso i giardini dove sperava di trovare il suo amico pettirosso. Erano passati molto giorni: si sarebbe ancora ricordato di lei?
Passando accanto a uno degli orti, vide il vecchio Ben Weatherstaff chino su delle piantine. Il tempo gli aveva giovato, poiché rivolse per primo un saluto alla bambina.
– Non sente l’odore della primavera, signorina?
– Sento qualcosa di gradevole e fresco – disse Mary annusando l’aria.
– È la buona terra ricca – le spiegò il vecchio mentre vangava. – Si prepara a far crescere le cose, è di ottimo umore. Le pianticelle si agitano nel buio, sottoterra. Ma fra poco tireranno fuori la testolina.
Mary notò alcune puntine verdi che spuntavano dalla terra scura. Domandò cosa fossero e l’anziano giardiniere le insegnò i nomi di così tanti fiori che Mary dovette ripeterli più volte per tenerli a mente: crochi, bucaneve, narcisi… in India non li aveva mai visti.
Un frullare d’ali richiamò l’attenzione della bambina. Il pettirosso la stava chiamando a suo modo.
– Oh, eccolo! Chissà se le piantine si stanno risvegliando anche nel suo giardino – disse Mary.
– Quale giardino?
– Quello dove può entrare solo lui, dove sono i vecchi roseti.
Ben Weatherstaff fece una brutta smorfia. Sembrava tornato di colpo intrattabile. Poi disse:
– Lo chieda a lui. È l’unico che è entrato lì dentro negli ultimi dieci anni.
Mary se ne andò pensierosa. Costeggiò il lungo muro oltre il quale s’intravedevano le cime di alberi irraggiungibili, celati da un alto recinto ricoperto d’edera, dove s’apriva una porta ormai perduta. Sentì pigolare e ritrovò l’uccellino che saltellava su un’aiuola.
Mary si chinò verso di lui.
– Che mi dici? Ci sono ancora le rose, lì dentro? –domandò con un bisbiglio. Allungò dolcemente una mano e vide che il pettirosso non si allontanava. Mary sentì il cuore riempirsi di felicità. – Come sarebbe bello poterti sfiorare!
Il passerotto saltellò sopra una zolla. Mary lo seguì piano piano con la mano, per non spaventarlo. Notò che il terriccio era stato un poco smosso, forse da un cane alle prese con una talpa. Con grande sorpresa, si accorse di un qualcosa semisepolto nel terriccio. Sembrava un anello di ottone arrugginito.
Il pettirosso si librò in volo, lasciando a Mary lo spazio per afferrare l’oggetto. Lo raccolse: era una vecchia chiave. Doveva essere rimasta sepolta per moltissimo tempo, date le condizioni. Un lampo le attraversò la mente.
– Forse… è stata seppellita dieci anni fa. Forse… è la chiave del giardino!
Il pensiero del giardino e della porta andata perduta divenne per Mary un chiodo fisso. Percorse infinite volte i muraglioni ricoperti d’edera che si stagliavano lungo i viali, ma non ci fu verso di trovare l’uscio nascosto. Desiderava con tutto il cuore penetrare in quel posto proibito e scoprire se i roseti erano sopravvissuti alla dimenticanza. Si sarebbe chiusa la porta alle spalle, avrebbe inventato qualche gioco a cui giocare da sola, in un posto tutto suo. Del resto, vivere in una casa con cento stanze misteriose chiuse a chiave senza aver nulla da fare, aveva risvegliato la sua immaginazione. Non era come in India, con l’afa che la rendeva debole e apatica.
Mary ogni mattino aveva una missione, adesso. Per questo portava sempre con sé, protetta nella tasca del cappottino, la chiave d’ottone.
Una sferzata di novità arrivò dalla famiglia di Martha. La ragazza era tornata al maniero dopo aver fat-
to di nuovo visita alla famiglia e, nonostante fossero poveri, la mamma aveva speso i due penny della paga della figlia per mandare un regalino alla bimba arrivata dall’India: una bella corda per saltare, con le maniglie rosse e blu. Mary non aveva mai visto quel gioco e Martha si divertì a mostrarle come funzionava. Di fronte al camino, la cameriera era riuscita a fare più di cento salti.
– Martha, i due penny erano era la tua paga… – disse Mary imbarazzata. Non era abituata a ringraziare, né a riconoscere la generosità altrui. Allungò la mano alla cameriera, non sapendo cos’altro fare. – Grazie – disse.
Martha ricambiò la stretta in maniera goffa e Mary comprese di aver compiuto un gesto inconsueto.
– Non sta bene stringere la mano per ringraziare, qui? – domandò.
– Oh sì, sì. Ma è strano vedere una bimba comportarsi da adulta. La mia sorellina mi avrebbe dato un bacio.
– …Vuoi che ti dia un bacio? – domandò Mary con sorpresa.
– Oh, no! – rispose Martha ridendo. – L’avrei voluto se fosse venuto da sé. Ma va bene così. Adesso corra fuori a giocare con la corda, signorina!
Mary trascorse la mattina in compagnia del nuovo gioco. Attraversò i sentieri tra le aiuole, incespicando
saltelli, prima incerti e scoordinati, poi sempre più agili. Aveva le gote rosse e sentiva l’aria fresca spanderle i polmoni. Quando scorse il pettirosso, vide che la osservava, muovendo la testolina a destra e sinistra. Forse anche lui si era divertito a guardarla.
Mary, d’un tratto, sentì qualcosa di pesante nella tasca. Si ricordò della chiave.
– Mi hai fatto ritrovare questa – bisbigliò all’uccellino, battendo colpetti sul fianco del cappotto, – adesso dovresti proprio mostrarmi dov’è nascosta la porta.
L’uccellino si librò in volo e andò a posarsi su un ramoscello d’edera, di quelli che facevano da cordolo al muraglione.
Di colpo, senza motivo, a Mary venne in mente la sua ayah e tutte le favole che le raccontava. Erano piene di incantesimi e magia.
‘Ecco, una magia è quello che ci vorrebbe’ pensò.
Socchiuse gli occhi e sentì una folata di vento accarezzarle il volto. Quando li riaprì, s’accorse che il vento stava scuotendo i lunghi rami d’edera, mai potati, appesi al muraglione. Una folata ancor più grossa li sollevò come avrebbe fatto con un pesante tendaggio. Mary si precipitò ad afferrarli. Aveva visto qualcosa lì sotto. Allungò la mano e afferrò una sporgenza che sembrava un pomello. Tastò meglio e capì che, nascosta dalle foglie, c’era la maniglia di una porta.
L’edera era molto fitta e formava una specie di sipario. Mary sentiva il cuore galoppare nel petto. Si voltò per vedere se passava qualcuno nel vialetto, poi si fece forza e sollevò l’intreccio di edera oscillante. Estrasse la chiave dalla tasca e l’infilò nella serratura sotto il pomello. Nascosta quasi del tutto sotto la cortina verde, dovette usare entrambe le mani per far girare al chiave, finché sentì lo scatto. Fece un bel respiro e spinse la porta.
Adagio, indurita, la porta si aprì.
Mary scivolò nello spiraglio e richiuse subito la porta alle spalle. Ancora con la schiena appoggiata, si guardò attorno, ansimante per l’eccitazione. Era entrata nel giardino segreto.
Di una cosa fu subito certa: un posto così misterioso e affascinante, come il giardino segreto, Mary non lo aveva mai visto.
I muraglioni erano ricoperti dei rami rinsecchiti delle rose, aggrovigliati da tempo immemore. Non c’erano fiori, ma sapeva ch’erano rose perché in India ne aveva viste moltissime. Dal terreno, spuntava un mantello fitto di erbaccia, con ulteriori intrecci di cespugli incolti. Di certo erano rose anche quelle, anche se apparivano come un ammasso di sterpaglia grigia che si dipanava da un albero all’altro, formando interi ponteggi di rami e spine che donavano al giardino un aspetto misterioso. Se solo fossero state ancora vive…
‘Ben Weatherstaff l’avrebbe capito al primo sguardo’ pensò Mary. ‘Io invece non sono un giardiniere. Ma sono qui, e posso venire nel giardino segreto ogni volta che voglio.’
Il pensiero le donò un brivido. A piccoli passi, avanzò tra l’erbaccia e, sebbene non scorgesse alcuna gemma nei rami di rosa, si accorse di quante altre cose vive c’erano. Ripensò alle testoline verdi delle piante spuntate fuori dalla terra scura e profumata di umido,
di quanta cura richiedessero. Tutta quell’erbaccia non lasciava abbastanza spazio per crescere a tutto ciò che c’era di vivo. Trovò un bastone e lo usò come una piccola vanga per ripulire un tratto di giardino, poi s’inginocchiò a scavare e strappare con le mani gli intrecci selvatici per ricavare un tratto pulito.
‘Adesso sì che possono respirare, le piantine che stanno per venire fuori’ si disse.
Mary fu impegnata nel giardino fino all’ora di pranzo, quando raccolse il cappotto e la corda non si rese nemmeno conto di tutto il tempo che era stata lì a sgobbare. Le ore erano volate.
A tavola divorò due fette di carne e una doppia razione di budino di riso, mentre Martha l’osservava con tanto d’occhi.
Prendendola alla larga, decise come al solito di fare qualche domanda alla cameriera, per indagare alcune cose che sapeva di non poter chiedere in modo diretto. Come quelle che riguardavano il giardino.
– Martha, cosa sono quella specie di cipolle bianche che si trovano sottoterra, tipo radici? – domandò la bambina ripensando a una delle cose curiose scoperte la mattina nel giardino segreto.
– Oh, sono bulbi. Da quelli crescono un sacco di fiori in primavera! Sono bellissimi, mio fratello Dikon ne ha piantati molti nel nostro giardinetto.
– Ah, ecco. E hanno una buona resistenza? Anche se… nessuno si prende cura di loro? – domandò Mary con la voce un poco increspata.
– I bulbi si curano da soli. Se non li disturbi, durano un’eternità.
– Come vorrei avere una piccola vanga… – bisbigliò Mary, certa di non essere sentita.
– E che ci fa con una vanga?
Mary rifletté per alcuni secondi mentre osservava il fuoco. Doveva stare molto attenta.
– Non ho nessuno con cui giocare, qui. Pensavo che sarebbe bello se potessi coltivare un pezzettino di terra e creare un piccolo giardino. Magari Ben Weatherstaff potrebbe darmi qualche seme.
Gli occhi di Martha si spalancarono dalla meraviglia e dall’entusiasmo. Disse che nel villaggio poco distante c’era una bottega dove di certo avrebbe trovato dei piccoli completi con tutto l’occorrente: vanga, rastrello, forcone… a due scellini.
Mary, di certo, di denaro ne aveva un po’ di più perché le era concesso uno scellino a settimana per le sue spese ma non aveva speso ancora nulla. Allora a Martha venne l’idea di mandare suo fratello Dikon a fare gli acquisti per Mary, ma per dirglielo occorreva aspettare fino al prossimo giorno libero, quando sarebbe tornata a casa dalla famiglia. A meno che…
– Signorina Mary, possiamo inviare una lettera!
– Oh, Martha, che bella idea. Hai carta e penna?
– Sì, ma non so scrivere.
– Posso scriverla io, per te – propose Mary con uno slancio di entusiasmo, anche se sapeva di non essere brava con la scrittura. In India aveva imparato poco per via delle istitutrici che la detestavano e se ne andavano via tutte dopo poco tempo.
– Dikon sa leggere solo in stampatello.
– Credo di farcela a scrivere in stampatello, se mi ci metto.
La cameriera portò penna, inchiostro e qualche foglio, spiegò a Mary cosa scrivere e la lasciò sola. Quando tornò da lei, nel tardo pomeriggio, trovò la lettera pronta.
Caro Dikon, spero di trovarti in buona salute.
Devo chiederti un favore: la signorina Mary ha bisogno di un completo di attrezzi da giardino e un pacchetto di semi di fiori per creare un’aiuola. Scegli i più belli e i più facili da coltivare perché non l’ha mai fatto prima. Vai alla bottega giù al villaggio, qui nella lettera troverai anche i soldi.
Mando un bacio alla mamma e a tutti voi.
La signorina Mary mi racconterà tante altre storie dell’India, così potrò raccontarvelo la prossima volta che torno a casa.
La tua affezionata sorella
Martha
Mary era felicissima, ma aveva ancora un dubbio.
– Come farò ad avere gli attrezzi dopo che Dikon li avrà presi?
– È semplice, te li porterà lui. Non gli dispiacerà fare a piedi cinque miglia fino a qui.
Mary saltellò felice battendo le mani. Non stava nella pelle di conoscere Dikon.
Poi, un istante prima che Martha scendesse per andare in cucina, le domandò a bruciapelo:
– Per caso Betty, la sguattera, ha mal di denti anche oggi?
La cameriera s’irrigidì.
– Perché me lo chiede?
– Perché lungo il corridoio ho di nuovo sentito piangere.
Passarono giorni pieni di sole e di impazienza. Mary non vedeva l’ora di veder comparire Dikon con gli attrezzi, nel frattempo trascorreva le sue giornate tra le mura perdute del giardino segreto. Le piaceva chiamarlo così, e le piaceva ancor di più sapere che, quan-
do si rinchiudeva lì, nessuno sapeva dove fosse finita. Era un mondo tutto suo.
Dalla terra, vedeva spuntare tante testine verde pallido, segno che in quel luogo misterioso c’era ancora vita. Ogni volta che incrociava Ben Weatherstaff lo interrogava su come far rifiorire rami che sembravano morti e quando occorreva vangare attorno alle radici. Il vecchio giardiniere l’osservava a volte curioso, a volte burbero. La verità era che quei due cominciavano a piacersi: Ben Weatherstaff trovava Mary meno giallina di quando era arrivata, più in carne e in salute. Mary invece apprezzava l’uomo perché, nonostante il brutto carattere, sapeva tutto sui fiori e non lesinava mai buoni consigli.
Una mattina, girando attorno al vialetto di alberi di alloro che costeggiava il giardino segreto, Mary s’imbatté in una curiosa figura: era un bambino seduto sotto un albero che suonava uno zufolo di legno. Aveva circa dodici anni e una zazzera di riccioli color ruggine. L’aspetto era buffo, ma molto ordinato. Il viso era reso ancor più grazioso dal naso all’insù, dalle gote arrossate e da due grandi occhi azzurri. Poco distante da lui c’erano due conigli e uno scoiattolo: sembrava stessero assistendo al bizzarro concerto del fischietto.
Mary restò immobile a guardarlo, ma quando lui si accorse di lei, smise di fischiare.
– Mi chiamo Dikon – disse il ragazzo. – E so che tu sei la signorina Mary.
Mary aveva già capito che fosse Dikon. Chi altro, se non lui, avrebbe potuto incantare gli animali col suono di uno zufolo?
Dikon si alzò da terra e raccolse un involucro.
– Ho portato gli attrezzi da giardino. Una piccola vanga, un forcone, un badile e un rastrello, tutta roba valida, eh! Guarda, c’è anche una paletta. E poi ci sono i semi, guarda qui: papaveri bianchi, reseda, speronella e… tanti altri – disse tirando fuori dalla tasca un pacchetto.
Di fronte alla grande spontaneità di quel ragazzino, Mary si sentì quasi impacciata: come avrebbe voluto essere disinvolta come lui! Ma di una cosa era certa:
Dikon le piaceva, proprio come Martha e come Ben Weatherstaff.
– Se vuoi te li pianto io – disse d’un tratto Dikon indicando i semi. – Dov’è il tuo giardino?
Mary deglutì rumorosamente, poi prese a tormentarsi le mani, mentre le guance diventavano prima rosse e poi pallide. Decise di parlargli dritto in faccia:
– Senti Dikon, lo sai mantenere un segreto?
Il ragazzino si grattò la testa perplesso.
– Certo che lo so mantenere – rispose dopo qualche istante. – Li mantengo di continuo. Per esempio, non
dico mai a nessuno dove sono le tane dei cuccioli di volpe, o i nidi dei tordi. I segreti sono la mia specialità.
– Ho rubato un giardino – disse Mary. – Non è mio.
Non è di nessuno, non lo vuole nessuno e non ci entra più nessuno. L’ho trovato da sola. Forse lì dentro è già tutto morto.
– Dov’è? – chiese Dikon a bassa voce.
– Se vieni con me, te lo mostro.
Mary afferrò Dikon per un braccio e lo trascinò lungo il vialetto, fino alla porta nascosta dal sipario d’edera. Lanciò uno sguardo per essere certa che non passasse nessuno, poi sparì tra le fronde, portandosi dietro il nuovo amico.
Dentro il giardino, Dikon restò a lungo col naso all’insù.
– Non avrei mai immaginato di entrare qui dentro – disse.
– Perché, conoscevi questo posto?
– Ne ho solo sentito parlare da Martha. Mi chiedevo come fosse.
Mosse alcuni passi verso un intreccio di rami fitti fitti, del color della cenere. Estrasse dalle tasche un coltellino e tracciò una incisione nel ramoscello.
Mary comprese all’istante le sue intenzioni. Guardò il ragazzino con apprensione, finché domandò:
– È tutto morto?
– Oh, non direi, questo cespuglio è più in gamba di me e di te.
– Più… più in gamba? Che vuol dire?
– Vuol dire che sta bene. È tutto inselvatichito qui, ma le piante più forti hanno retto. E si sono estese che è una meraviglia.
Mary e Dikon andarono di cespuglio in cespuglio, di albero in albero. Il ragazzino era forte con il coltellino e capiva subito come riconoscere i rami che racchiudevano ancora linfa vitale.
Senza nemmeno rendersene conto, cominciarono a lavorare di buona lena, a togliere i rami secchi, a ripulire il terreno… e quando Dikon notò le piccole aiuole già ripulite da Mary, le fece i complimenti. Aveva fatto un ottimo lavoro!
– C’è parecchio da sgobbare qui dentro – disse Dikon alzando la testa, ma non sembrava preoccupato.
Intanto, si era fatta l’ora di pranzo.
– Tornerai ad aiutarmi? – domandò Mary sapendo di dover rientrare a casa per non destare sospetti.
– Anche tutti i giorni, se vuoi – la rassicurò lui.
– Adesso devo proprio andare.
– Ti aspetto qui.
– E se non ti trovo?
– Tornerò.
Dikon estrasse dalla tasca un pezzo di pane con
la pancetta e si mise a mangiare seduto su un mezzo tronco, mentre Mary spariva oltre la porta e imboccava rapida la strada verso casa.
Corse così veloce che arrivò nella sua camera col fiatone e i capelli arruffati. Appena vide Martha, le saltò quasi addosso.
– Ho visto Dikon! Ho visto Dikon!
Nel viso della cameriera comparve un’espressione ambigua: da un lato la gioia trattenuta a stento, dall’altro una mezza preoccupazione.
– Che è successo? – domandò Mary.
– Devo dirle una cosa, signorina. Stamane è tornato il signor Craven.
Mary impallidì.
– È tornato lo zio?
– Sì, ma domani dovrà ripartire di nuovo e starà via per molto. Non tornerà fino all’autunno, probabilmente. Vuole incontrarla adesso.
La cameriera non ebbe il tempo di finire la frase che la signora Medlock irruppe nella stanza.
– Vai subito a spazzolarti i capelli! – ordinò a Mary. – E infila un vestito migliore. Il signor Craven ti aspetta nel suo studio.
Appena fu pronta, la bambina venne condotta attraverso una lunga sequenza di corridoi, fino a un’ala del maniero dove non aveva mai messo piede.
Presagiva che lo zio non le sarebbe piaciuto, e lei non sarebbe piaciuta a lui.
La signora Medlock bussò a una porta e quando una voce annunciò ‘avanti’, entrarono insieme. C’era un uomo seduto nella poltrona, di fronte al fuoco.
– Può uscire, suonerò il campanello quando dovrà tornare a prendere la bambina – disse, senza nemmeno voltarsi a guardarle.
Rimasta sola con lo zio, Mary aspettò silenziosa e immobile. Si accorse che l’uomo nella poltrona non era per davvero gobbo. Aveva solo le spalle un po’ curvate, come affaticate da un peso invisibile.
– Vieni qui – disse il signor Craven.
Mary obbedì. Da vicino, vide che non era nemmeno brutto come se lo era aspettato. Anzi, sarebbe stato di bell’aspetto senza quella piega di tristezza che attraversava il viso e l’aria assente. Sembrava fosse altrove con la testa.
– Stai bene? – domandò l’uomo.
Mary annuì con la testa.
– Sono gentili con te?
– Sì.
– Sei molto magrolina. Mi ero quasi scordato di te. Pensavo di prenderti un’istitutrice, o una bambinaia magari.
– Per favore, io… – disse Mary con la voce increspata.
– Cosa vuoi dirmi?
– … Io vorrei giocare all’aperto. Mi sento più forte da quando gioco nel vento.
– Non fare quella faccia spaventata. Non serve avere timore – disse l’uomo guardando finalmente negli occhi la nipote. Si accorse di quanto le fosse sconosciuta.
– Dove vai a giocare?
– Un po’ dappertutto.
– Bene. Per quanto mi riguarda puoi fare quello che ti pare. Una bambina come te non farà di certo alcun male.
– … Posso davvero?
– Non devi essere così spaventata – esclamò l’uomo di fronte alla faccia ansiosa e tremolante di Mary. – Sono il tuo tutore, ma ho poca dimestichezza con i bambini. Non posso dedicarti tempo e attenzioni, sono troppo angosciato e distratto, ma voglio che tu sia felice e ben accudita. Gioca pure quanto vuoi all’aperto. Desideri delle bambole? Dei libri, dei giocattoli?
– No, a me basterebbe solo… – disse Mary con la voce increspata.
– Cos’è che vorresti? Dimmi.
– Posso avere un… un pezzetto di terra?
Il signor Craven la fissò per qualche istante.
– Terra? Cosa intendi?
– Per piantare i semi. Fare un giardino.
Il signor Craven si alzò e cominciò a girovagare per lo studio.
– Un pezzetto di terra – ripeté più volte sottovoce, tanto che Mary pensò che la sua richiesta doveva avergli ricordato qualcosa. – Puoi avere tutta la terra che vuoi. Mi ricordi tanto una persona che amava i giardini. Quando trovi il pezzo di terra che t’interessa, prendilo pure, piccola mia, e fallo rivivere.
– Posso prenderlo dove mi pare, se non lo vuole nessuno?
– Dove ti pare! – rispose l’uomo.
Poco più tardi Mary lasciò lo studio dello zio. Le parole dell’uomo le galleggiavano nella testa e sentiva il cuore rimbombare: ‘Avrò il mio giardino! Avrò il mio giardino!’ disse tra sé.
Non vedeva l’ora di dirlo a Dikon, ma quando tornò nel giardino segreto lo trovò vuoto. Il ragazzino era andato via. In un albero aveva lasciato appeso, infilato in una spina, un pezzetto della lettera che Mary aveva scritto per Martha col disegno di un tordo nel suo nido - che Mary riconobbe subito come un segno in codice per suggellare il loro segreto - e uno scarabocchio, o meglio una parola. C’era scritto: ‘Torno’.
La notte stessa Mary venne svegliata dal rumore battente della pioggia sulle finestre e dall’ululare del vento. Affondò la testa nel cuscino dalla rabbia perché non sarebbe potuta tornare nel giardino segreto finché non fosse stato bel tempo, né avrebbe potuto rivedere Dikon. Aveva imparato che, nella brughiera, la pioggia poteva durare settimane.
D’un tratto, le sembrò di udire il solito pianto lungo il corridoio. Aguzzò le orecchie per essere certa che non si trattasse del vento, come le spiegavano ogni volta. Nel silenzio della notte, dove ogni rumore diventava più nitido, Mary fu completamente certa che, ciò che sentiva, era per davvero il lamento di un bambino.
Scese dal letto, afferrò la candela nel comodino e, armata di tutto il coraggio, s’avviò lungo l’intrico di corridoi e scalinate. In quell’ora tarda, quando tutto il maniero era addormentato, poteva essere l’unica occasione che aveva per venire a capo del mistero.
Percorse il tragitto verso la porta nascosta dall’arazzo, dove il pianto si sentiva più forte. L’aprì con cautela, poi se la chiuse alle spalle. La voce si sentiva forte e chiara. Scorse da sotto una porta una lama di luce.
Di certo c’era qualcuno lì dentro. Raggiunse l’uscio, fece un grande respiro per raccogliere il coraggio, e lo spalancò.
Era una stanza ampia con un ricco mobilio. Nel camino ardeva un fuoco debole. Nell’altro lato vi era un letto a baldacchino con i tendaggi di broccato. Vi era disteso sopra un ragazzo che piangeva a dirotto. Mary rimase ferma sulla soglia, incapace di capire se si trattasse di un sogno.
La luce della candela attirò l’attenzione del ragazzo. Con grande sforzo, si sollevò un poco dal cuscino.
– Chi sei? – domandò spaventato. – Sei un fantasma?
– No – rispose Mary con un mormorio altrettanto spaventato. – E tu?
Il ragazzo la fissò a lungo.
– No – disse, dopo aver indugiato ancora un poco. – Sono Colin.
– Colin chi? – balbettò lei.
– Colin Craven. E tu chi sei?
– Sono Mary Lennox. Il signor Craven è mio zio.
– Il signor Craven è mio padre.
– Tuo padre! – disse Mary con la voce strozzata dalla sorpresa. – Nessuno mi ha detto che aveva un figlio!
– Vieni qui – disse il ragazzo senza staccarle gli occhi di dosso. Afferrò un lembo della vestaglia di Mary per assicurarsi che fosse vera. – Da dove vieni?
– Dalla mia stanza. Non riuscivo a dormire. Perché stavi piangendo?
– Perché anch’io non posso dormire e mi fa male la testa.
– Nessuno ti ha detto che sono venuta ad abitare qui?
– No, non hanno osato. La servitù sa che non voglio che la gente mi veda e mi parli. Persino mio padre viene a trovarmi solo quando dormo. Anche a lui non fa piacere vedermi perché gli ricordo mia madre, che è morta quando sono nato.
– E perché non vuoi che nessuno ti veda, scusa?
– Perché sono sempre malato, costretto a restare a letto. Non posso nemmeno camminare e so già che, se mai crescerò, mi scapperà fuori la gobba. Credo sia soprattutto per questo che mio padre mi guarda con orrore. Ma tanto non camperò a lungo.
Mary ammutolì. Osservò lo strano ragazzo: era troppo magro, aveva il viso sottile e gli occhi grandi e scavati, circondati da una fila di ciglia nerissime.
– Se non ti piace che la gente ti veda, vuoi che me ne vada? – domandò dopo una lunga esitazione.
– No, resta con me. E raccontami chi sei.
Mary avvicinò al letto uno sgabello imbottito e cominciò a raccontare dell’India, del suo viaggio attraverso l’oceano, e di come era arrivata nel maniero di Misselthwaite. Anche Colin raccontò il poco che ave -
va da dire: di come avesse sempre vissuto richiuso in casa, di come nessuno osasse contraddire i suoi ordini, di quanto non gli piacesse stare all’aria aperta per il timore di incontrare la gente o di ammalarsi, e delle uniche persone che aveva mai conosciuto: la servitù, i dottori, gli infermieri, e un’istitutrice che gli aveva insegnato a leggere e scrivere. Mary s’accorse in quell’istante che la stanza era piena di libri.
– Quanti anni hai? – domandò Colin d’un tratto. – Ormai ne ho dieci, come te – rispose Mary.
– Come fai a sapere quanti anni ho?
Per Mary non fu difficile fare il conto.
– Perché se tua madre è morta quando sei nato, vuol dire che nello stesso periodo hanno sepolto la chiave del giardino.
– Quale giardino?
Mary dovette mordersi le labbra. Non conosceva nulla di quel ragazzo, non sapeva se poteva fidarsi di lui come aveva fatto con Dikon e, di certo, non era il caso di rivelargli il segreto del giardino. Eppure, sebbene si fossero incontrati solo quella notte, comprese che lei e Colin avevano molte cose in comune. Entrambi erano cresciuti come bambini viziati, abituati a non essere mai contraddetti e a non dover pensare a nulla fuorché a loro stessi. Colin le faceva da specchio, si comportava come fosse il padrone del mondo.
– Sembri proprio un giovane maragià – disse Mary d’un tratto.
– Che è un maragià?
– Si chiamano così gli antichi sovrani indiani. Quelli con tutti i sudditi prostrati ai loro piedi. Da quello che mi racconti, pare che tu sia capace solo di dare ordini.
Colin fece una smorfia d’indifferenza. Sembrava che tutto gli scivolasse addosso, persino la morte.
– Perché credi che morirai giovane? – gli domandò Mary.
– Perché me lo sento ripetere da quando sono nato. Loro pensano che non li senta, quando parlano. Invece li sento benissimo. Hanno deciso il mio destino. Tutti, compreso il dottore, che è cugino di mio padre. Lui è sicuro che morirò presto. E ne sarà contento, credo, così erediterà il maniero. A volte mi sento così triste che riesco solo a piangere. Ma… parlami di quel giardino.
Mary dovette scegliere le parole con cura per non svelare troppo. Disse che aveva sentito parlare del giardino, che non c’era mai stata, che forse poteva essere fatto così e così… e mentre raccontava a Colin delle rose arrampicate fin sulla cima degli alberi e della porta che probabilmente era nascosta da qualche parte sotto il sipario d’edera, gli occhi del ragazzo s’accesero di mille bagliori.
– Non credo di aver mai desiderato vedere nulla, prima d’ora – disse Colin, – ma quel giardino mi piacerebbe proprio vederlo. Ordinerò alla servitù di riaprirlo e portarmici! Dovranno obbedirmi.
– Oh, no! Non farlo! – gridò Mary col cuore in sussulto. Temeva di perdere tutto ciò che stava costruendo e di non vedere più Dikon.
Colin la guardò come se fosse impazzita.
– Hai detto che vorresti vederlo anche tu quel giardino…
– Sì, ma se lo dici alla servitù non sarà più un segreto – rispose Mary con la voce strozzata. – Ci pensi quanto sarebbe bello se restasse una cosa nascosta?
Colin accarezzò l’idea. Non aveva mai avuto un segreto, era felice di averne finalmente uno da condividere con quella bizzarra bambina comparsa dal nulla, che era sua cugina.
Mary venne assalita da un’ulteriore preoccupazione.
Era stata tenuta alla larga da quell’ala del maniero, ma adesso…
– Che cosa farebbe la signora Medlock se dovesse scoprire che sono stata qui? – domandò torcendosi le mani.
– Farebbe quello che le dico io. E le direi che esigo che tu venga a parlare con me tutti i giorni, sennò mi farò venire una delle mie crisi isteriche. Allora sì che
dovranno correre, sono sempre tutti molto spaventati quando le ho. Dopotutto, sono o non sono un giovane maragià? Sono felice che tu sia venuta.
– Anche io, Colin. E tornerò presto, te lo prometto, ma… non dimenticare che ogni giorno dovrò dedicare molto tempo per cercare la porta del giardino.
Colin sorrise. Poi disse:
– Vorrei addormentarmi prima che tu te ne vada.
– Chiudi gli occhi – rispose Mary avvicinandosi e prendendo la mano di Colin nella sua. Farò come faceva la mia ayah. Canterò una canzone per te.
Quando Mary riprese la candela per avviarsi in punta di piedi verso la sua camera, Colin dormiva ormai profondamente.
I giorni successivi, la pioggia non smise mai di scendere e Mary andò a trovare Colin ogni volta che poteva. Sfogliarono insieme molti libri, risero delle cose sciocche che fanno ridere i bambini, mentre il viso emaciato di Colin sembrava riprendere colore di ora in ora. Mary riuscì persino a raccontargli di Dikon e del pettirosso senza svelare nulla del giardino segreto e per Colin fu sorprendente sentire che, in fondo, non gli sarebbe dispiaciuto farsi vedere da quel ragazzo che Mary descriveva come un angelo capace di incantare gli animali.
La prima a scoprire i loro incontri segreti fu Martha. Mary stessa glielo confessò, certa che la cameriera sarebbe stata loro complice. Martha ebbe così paura di essere licenziata dalla signora Medlock per non aver sorvegliato a dovere, che lo stesso Colin dovette rassicurarla: era lui nel maniero a decidere chi sarebbe stato licenziato e chi no. Poteva stare tranquilla. Arrivò poi il giorno in cui furono scoperti anche dal dottor Craven, il medico di famiglia cugino del padre, e dalla signora Medlock.
– Santo Dio! – esclamò la donna con gli occhi fuori dalle orbite quando vide i due bambini seduti sul divano insieme a sfogliare un libro.
– Cosa significa?! – domandò il dottore con altrettanto stupore.
Solo Colin restò imperturbabile, come fossero entrati nella sua stanza il vecchio gatto o il cane di casa. Fu molto abile a rivestire il ruolo del maragià. Impartire ordini era la sua specialità. Fece capire che pretendeva che Mary Lennox andasse da lui ogni volta che lo voleva. Ma mentre la signora Medlock appariva rincuorata dal bell’aspetto, dalla vivacità e dal colorito del ragazzo, il dottore non sembrava affatto contento. Prima di lasciare la stanza, fece la solita lista di raccomandazioni: Colin non doveva affaticarsi, né parlare troppo, soprattutto non doveva scordare di essere malato.
– Sono molte le cose spiacevoli che devo ricordare! –disse Colin, rimasto solo con Mary, mentre sorseggiavano un tè come vecchi amici. – Io voglio dimenticare, invece! Ecco perché voglio che tu venga. Con te… riesco a non pensarci.
Dopo una lunga settimana di pioggia, tornò a splendere il sole. Mary poté finalmente tornare nel giardino segreto e rivedere Dikon. Gli raccontò ogni cosa dell’incontro con Colin, finché ebbe un’idea folgorante: Colin odiava farsi vedere dalla gente, ma aveva detto che, in fondo, non gli sarebbe dispiaciuto farsi vedere da Dikon. Allora potevano organizzare un bell’incontro, e Dikon sarebbe potuto andare da Colin portando persino qualcuno dei suoi animaletti. Colin ne sarebbe stato entusiasta.
Dikon ne fu ben felice: s’immaginò di percorrere i lussuosi corridoi del maniero coi suoi scarponi da brughiera, con al seguito un volpino e un agnellino, un corvo appollaiato sulle spalle e uno scoiattolo in tasca. Ma era così ben voluto da tutti e così spontaneo che l’idea poteva funzionare. Poi, però, Dikon si perse in un pensiero. Osservò a lungo le gemme di primavera, spuntate fuori nel giardino segreto come tante capocchie e capì che Colin, costretto sempre a letto, aveva bisogno di qualcosa in più.
– Pensavo una cosa… – disse d’un tratto. – Pensavo che se riuscissimo a portare qui Colin con qualche stratagemma, non sarebbe più così in pensiero per i suoi malanni. Guarderebbe la primavera e si sentirebbe meglio. È garantito che starebbe meglio.
– Lo penso anche io – disse Mary. – Secondo te, sarebbe capace di tenere il segreto sul giardino? E riusciremmo a portarlo qui senza essere visti da nessuno?
– Io potrei spingere la seggiola a rotelle – disse Dikon mostrando il muscolo del braccio. – E lui potrebbe ordinare al capo giardiniere di tenere alla larga tutti i giardinieri dai vialetti, specie quello dove c’è la porta del giardino segreto, per tutto il tempo in cui è fuori del maniero.
– Giusto! – esclamò Mary. – Se Colin vorrà essere portato fuori, nessuno oserà contraddirlo! Non abbiamo tempo da perdere.
Dovettero aspettare più di una settimana per compiere fino in fondo il loro piano, perché nella brughiera si era scatenato un gran vento. Ma Mary, assieme Dikon e gli animaletti, andarono a trovare Colin tutti i giorni e finalmente gli raccontarono ogni cosa.
Colin non era mai stato così eccitato. Erano molto impegnati nei preparativi per trasportarlo fino al giardino segreto. A rendere tutto ancor più speciale, c’era
proprio il fatto che quel posto fosse un segreto solo loro.
Mary e Dikon assistettero all’incontro di Colin con il capo giardiniere - al quale vennero impartiti ordini precisissimi, secondo gli accordi - e con il dottor Craven che, alla fine, nonostante le reticenze, dovette acconsentire.
– E va bene, tentiamo l’esperimento di far prendere un po’ d’aria a Colin – disse alla fine, sfinito dalle insistenze.
Arrivò il grande giorno e il domestico più robusto del maniero portò di peso Colin fino al piano terra, per poi posarlo sulla seggiola a rotelle, imbottita di velluti, cuscini e coperte. Dikon spinse la carrozzina adagio, con Mary sempre al fianco, mente Colin teneva il viso alzato verso il cielo per fare una scorpacciata di ciò che gli sembrava di non aver mai visto. Gonfiava il torace per prendere più aria che poteva, mentre sentiva qualcosa di fresco e vivo scorrergli dentro.
Raggiunsero il sentiero. Non c’era anima viva, come da istruzioni. Si fermarono di fronte al tratto di muraglione dove c’era la porta.
– Ma non vedo nulla, qui – esclamò Colin.
– La porta è qui sotto, nascosta bene – disse Mary sollevando il tendaggio d’edera. Afferrò la maniglia e aprì l’uscio.
– Dikon, spingilo dentro, svelto!
Dikon obbedì con una spinta energica e in un batter d’occhio furono nel giardino.
Colin ansimava per l’eccitazione. Si guardò attorno, incredulo di essere penetrato in un regno incantato che somigliava a quelli di cui aveva letto solo nei libri. Accarezzò con lo sguardo ogni cosa: i muraglioni di pietra con arrampicati i roseti, il tappeto erboso con le macchie dei primi fiori, i tronchi con le liane oscillanti e il verde delle gemme e delle foglioline sottili che spuntavano qua e là.
– … È questa la primavera? – domandò con la voce rotta dall’emozione.
Mary e Dikon lo osservarono meravigliati: sembrava diverso, di solito era pallido come l’avorio, mentre adesso sulle mani, sul volto e tutto il resto si era diffuso un colorito rosato. Il viso si animò di un’espressione risoluta e piena di energia. Sollevò il pugno in aria e gridò con tutto se stesso:
– Adesso lo so: guarirò! Guarirò! E vivrò per sempre, per sempre e per sempre!
– Quel pomeriggio il mondo intero si sforzò per apparire perfetto agli occhi di Colin, pieno di bellezza accecante. Per la prima volta in vita sua aveva scoperto la primavera.
Persino Dikon, che di quella meraviglia aveva già fatto grandi abbuffate, rimase stupito dall’incanto che regnava nel giardino, così pieno di colori e di vita. Dikon portò quindi la carrozzina di Colin fin sotto l’albero di susino, dove i fiori bianchi facevano da baldacchino.
– Chissà se prima o poi potrò vedere anch’io il pettirosso che ha fatto scoprire la chiave – disse Colin osservando i rami.
– Certo che lo vedremo! – rispose Dikon. – Ha costruito il nido qui nel giardino e, quando le uova dei suoi piccoli si saranno schiuse, scorrazzerà a destra e sinistra per portare loro il cibo.
– Quell’uccellino ha fatto una grande magia. È merito suo se siamo qui – disse Colin, pensando all’incredibile catena di eventi che lo avevano trascinato fuori dalla camera dove si era rinchiuso, depresso e malaticcio, per farlo arrivare nel posto più bello del mondo.
– Già, è stata proprio una magia a mandarci il pettirosso – sussurrò poco più tardi Mary a Dikon. – Di certo è stata opera di un mago.
– O forse della signora Craven… – aggiunse Dikon, prestando attenzione a non farsi sentire da Colin. – Mia madre pensa che ogni tanto quella donna torni qui a Misselthwaite per badare al signorino Colin, come fanno tutte le mamme quando sono costrette a lasciare questo mondo.
A quelle parole, Mary immaginò lo spirito della signora Craven, col volto dolce e amorevole, sorridere loro per tutto ciò che di bello stava succedendo nel suo giardino.
Colin trascorse il pomeriggio più incredibile mai vissuto. Quando il sole era ormai basso, prossimo a tramontare, e si era fatta l’ora di tornare al maniero, disse:
– Domani torneremo, vero? E poi dopodomani, e il giorno dopo ancora, per sempre. Oggi ho conosciuto la primavera, e adesso voglio conoscere anche l’estate! Voglio crescere qui dentro!
– Certo! – rispose Dikon. – E tra un po’ camminerai e ci aiuterai a vangare per far crescere le piantine.
– Camminare? Vangare? Io?
– Chiaro. Hai le gambe e le mani come tutti, no? Mary attese con terrore la risposta di Colin.
– Be’, le mie gambe non hanno nulla che non va, però sono così deboli e tremanti che ho paura a starci sopra.
Mary e Dikon tirarono un sospiro di sollievo. Sapere che le gambe di Colin non erano davvero malate, ma solo deboli e non abituate a svolgere il loro compito, cambiava l’intera prospettiva.
– Quando smetterai di aver paura, e succederà presto, scoprirai che le tue gambe reggono benissimo.
Colin rimase in silenzio, assorto in una riflessione. Quando sollevò la testa, fu colto da una grande sorpresa. Ogni cosa nel suo viso si spalancò.
– Chi è quell’uomo laggiù? – esclamò allarmato, mentre indicava con il dito un punto del muraglione.
Mary e Dikon scattarono in piedi.
– Uomo? – fecero entrambi con voce bassa e spaventata. Quando si voltarono, videro la faccia indignata di Ben Weatherstaff fare capolino da sopra il muro di cinta. Era di certo arrampicato su una scala, anche se non potevano vederla, e agitava minaccioso il pugno. Gridava parole per lo più incomprensibili, colme di disappunto, rivolte soprattutto a Mary, tra le quali spiccavano ogni tanto frasi aspre e piene di livore:
– …Non mi è mai andata a genio!... Con quella faccetta magra e itterica… Falsa con me... Sfacciata!... Come ha fatto a entrare?
Era così scandalizzato e agitato che per un attimo tutti pensarono potesse precipitare dalla scala.
Mary spese molte parole per cercare di far capire come erano andate le cose, di come il pettirosso aveva compiuto la magia mostrando prima il nascondiglio della chiave e poi la porta nascosta, ma il vecchio giardiniere sembrava non udire ragioni.
Colin aveva assistito alla scena sbigottito. D’un tratto, sentì una gran forza agitarsi dentro di lui.
– Spingimi davanti a quell’uomo! Forza, spingi la mia sedia – ordinò a Dikon. Il ragazzo obbedì all’istante, armeggiò con la carrozzina fino a condurre il signorino Craven proprio sotto il naso dell’uomo.
Come il più imperioso dei maragià, Colin puntò il dito e domando:
– Sai chi sono io? Rispondi!
Ben Weatherstaff lo scrutò con due occhietti sottili, poi si passò la mano contorta dall’artrite sulla fronte e sugli occhi, e rispose:
– Certo che lo so. I suoi occhi sono come quelli di sua madre. Lei è il padroncino Craven, il povero gobbo.
– Non sono gobbo! – gridò furioso Colin. Cominciò a togliersi di dosso gli strati di coperte, mentre urlava a Dikon di spingerlo un po’ più in là per avvicinarsi. Dikon, in un attimo, gli fu di nuovo accanto. Colin lo afferrò per un braccio e, con un frenetico intreccio di
gambe, di coperte gettate al suolo e di mani che si reggevano ora sui braccioli, ora sul braccio dell’amico, si tirò dritto in piedi. Sembrò molto alto per la sua età. Aveva il volto bello, nonostante la magrezza, gli occhi fieri e lampeggianti.
– Guardami! – ruggì verso Ben Weatherstaff. – Forza, guardami! Ti sembro gobbo? Rispondi!
Mary trovò molto strana la reazione del vecchio giardiniere. Prima deglutì imbarazzato, poi gli occhi gli si riempirono di lacrime. Ma non erano lacrime di vergogna per il rimprovero subito dal suo padrone, bensì di commozione.
Poco più tardi, il giardiniere venne fatto entrare nel giardino. Gli dissero che la porta era aperta e, se ricordava dove fosse, bastava infilarsi tra l’edera. Quando fu finalmente dentro, spiegò loro parecchie cose: era molto affezionato alla signora Craven e, in quei dieci anni, aveva segretamente continuato a prendersi cura del giardino perché non morisse. Ormai vecchio, con le ossa curvate dai reumatismi, non era più riuscito a farlo bene come un tempo, soprattutto perché, per entrare e uscire, doveva servirsi di un’alta scala che sentiva traballare sotto le gambe. Erano ben due anni che non riusciva a mettere piede in quel regno incantato. Ma adesso, vederlo rifiorire grazie alla dedizione dei tre giovani, gli riempiva il cuore di gioia.
La vecchia faccia rugosa del giardiniere era ancora bagnata di lacrime, quando Colin gli ordinò:
– Questo è il nostro giardino, adesso! Non osare parlarne con nessuno. Sarai nostro complice e potrai venire ogni volta che vuoi per darci una mano. Dobbiamo portare a termine la magia.
Ben Weatherstaff, allora, si portò una mano sul berretto e rispose:
– Sissignore!
Poter rimettere piede nel giardino segreto, con l’invito e l’approvazione del signorino Colin, fu un toccasana per il cuore di Ben. Lo fu anche per i tre ragazzi che, sotto le mani esperte del giardiniere e l’attenta direzione dei lavori, videro esplodere di vita il loro regno incantato. Erano stati seminati fiori in ogni angolo e Colin, poco alla volta, imparò per davvero a vangare, a interrare bulbi e nuove piantine di rose. Sulle gambette esili riusciva persino a camminare per brevi tratti, se ben sorretto da Dikon. Soprattutto, amava osservare le gemme e le piante trasformarsi ogni giorno, fino a diventare forti.
– Adoro guardare le cose che crescono – disse un giorno. – Devono esserci tante magie al mondo, e questa ne è un esempio. Voglio fare un esperimento!
Fece sedere Mary, Dikon e persino Ben Weatherstaff in cerchio, sotto il tetto di fiori del susino.
– Ho capito che da grande sarò uno scienziato. Intendo fare grandi scoperte – disse Colin in tono solenne e orgoglioso. – Comincerò adesso con voi con un esperimento scientifico che riguarda la… magia.
Mary, Dikon e Ben scambiarono uno sguardo divertito, ma ci pensò Colin a rimetterli in riga: era un discorso molto serio, il suo.
– La gente non sa che la magia può succedere per davvero e le grandi scoperte che farò riguarderanno proprio essa. La magia tira fuori le cose dal nulla: foglie, fiori e alberi. Li fa crescere forti e rigogliosi, laddove prima c’era solo un seme. La magia che c’è in questo giardino mi ha rimesso in piedi e fatto capire che non morirò presto come tutti pensavano. Ora farò l’esperimento di cercare di ottenerla anche io, la magia. Di averla dentro di me perché mi faccia crescere e diventare forte come fa con le piante. Ogni mattina e ogni sera e in tutti i momenti che me ne ricorderò, dirò: ‘La magia è in me. La magia mi farà stare bene’. E anche tutti voi dovete farlo. Anzi, sarà la prima cosa che faremo ogni mattino, regolari come i soldati, fino a ficcarcelo in testa per sempre. Sarà il nostro piccolo rito magico. Mi aiuterete?
– In India i fachiri per compiere i loro incantesimi ripetono certe formule migliaia di volte – disse Mary. – Io ci sto!
Anche gli altri annuirono. Mary era del tutto stregata, Dikon invece tranquillo e fiducioso, perché per lui era normale pensare alla magia come al sole che splende sui semi fino a farli fiorire. A Ben veniva un po’ da ridere, ma era lusingato di essere stato invitato a partecipare. Colin fu molto soddisfatto della sua proposta. Dovette però dare un’ultima, importante raccomandazione:
– Non voglio che la gente mormori! Nessuno dovrà sapere nulla della nostra magia finché l’esperimento non avrà successo. Vorrei fare una sorpresa a mio padre per quando tornerà. E se funzionerà… Non crederà ai suoi occhi di ritrovarsi un figlio dritto e forte.
Seguirono giorni e settimane in cui il rito venne ripetuto ogni mattina, con il bello o il cattivo tempo, tutti insieme o ciascuno per conto proprio. Su Colin, gli effetti dell’esperimento scientifico furono prodigiosi: le gambe diventavano ogni giorno più robuste e l’appetito cresceva man mano che la sua magrezza lasciava il posto a una corporatura più solida. Tuttavia, per Colin era importante che nessuno a Misselthwaite si accorgesse dei suoi progressi, eccetto i suoi compagni di avventura.
Era un segreto assoluto che voleva serbare per quando sarebbe tornato il signor Craven. In cuor suo, so -
gnava di irrompere nello studio del padre per stupirlo, mostrargli che poteva camminare e che la sua schiena era dritta come quella degli altri ragazzi.
Per questo, proprio per serbare il segreto, lui e Mary spesso si ritrovavano a soffocare risatine complici, o a rimandare in cucina i vassoi di piatti consumati solo a metà, per non destare sospetti per colpa dell’appetito vorace. Il languore nello stomaco però si faceva sentire, perché quei due signorini, un tempo schizzinosi e apatici, stavano fiorendo come due piante impegnate a metter su radici solide, e la fame era sempre presente.
Decisero allora che la mamma di Dikon ‘poteva condividere il loro segreto’. Venne messa al corrente delle cose che stavano succedendo nel maniero: Dikon le raccontò del giardino ritrovato e dei progressi del piccolo Craven e la donna fu ben felice di essere loro complice. Come prima cosa, si assicurò che Colin, Mary e Dikon potessero avere tutte le mattine del latte fresco e dolcetti all’uvetta per fare la merenda nel loro giardino, così da non dover soffocare la fame nonostante l’ostinazione di rimandare in cucina i vassoi mezzi pieni.
Tuttavia, tenere all’oscuro la servitù dei progressi del signorino Colin non fu facile. Mantenere il segreto fu complicato soprattutto con il dottor Craven: ogni volta che visitava Colin restava stupefatto del colorito
roseo e di come era cresciuto nelle ultime settimane.
Colin dovette quindi rendersi più odioso che mai, mostrarsi come il più despota dei maragià e minacciare terribili crisi isteriche per tenerlo a bada.
Alla fine il dottore gli disse:
– Ragazzo mio, se vai avanti così dovrai smettere di parlare di morire. Tuo padre sarà ben felice di sapere che sei così migliorato.
Colin lo fulminò con lo sguardo.
– Non voglio che glielo dica! – gridò furioso. – Potrei peggiorare stanotte stessa e poi morire. Allora che delusione sarebbe per lui! Se a mio padre dovesse arrivare qualche informazione, la riterrò responsabile.
Il tono fu così perentorio, che nessuno osò obiettare. Quando poco dopo Colin sgattaiolò via dalla stanza ridacchiando sommessamente assieme a Mary, il dottor Craven e la signora Medlock poterono solo scambiare un’occhiata colma di smarrimento.
– Davvero non mi spiego questo miglioramento –disse il dottore. – Mi conferma che il signorino Colin continua a mangiar poco?
– Confermo, dottore. Il suo vassoio torna in cucina sempre pieno per metà.
– È possibile che i bambini si procurino cibo di nascosto?
– Lo escludo, dottore. Da chi potrebbero rifornirsi?
Se avessero fame non avrebbero che da chiedere, qui nel maniero. Anche la bimba, la trovo molto più carina adesso che è più pienotta. Non sembra la stessa creaturina giallognola di quando è arrivata. Quei due passano il tempo a sghignazzare, roba da non credere fino a qualche tempo fa. Forse sono le risate che li fanno ingrassare.
– Forse, signora Medlock. Forse. Be’… allora lasciamo che ridano.
Il bello della magia era l’effetto che produceva ogni giorno, anche in quelli di pioggia, quando Mary e Colin, non potendo andare nel giardino segreto, trascorrevano le giornate nelle zone più lontane e dimenticate del maniero come due esploratori.
Colin si faceva trasportare con la carrozzina oltre l’intrico di corridoi e scalinate dal servo più robusto e, dopo essersi assicurato che fosse sparito, si alzava dalla seggiola e cominciava a scorrazzare con la cugina, tra risate sconquassanti e irrefrenabili, esplorando stanze e meandri che non aveva mai visto sebbene avesse sempre vissuto a Misselthwaite.
Le sue gambe funzionavano alla perfezione, adesso. Erano dritte e abbastanza robuste, come la schiena.
– Ora che sono un ragazzo vero – disse Colin uno di quei giorni – sento le gambe così piene di magia che
non riesco a tenerle ferme. Come vorrei tornasse mio padre. Non vedo l’ora di dirglielo. Del resto, non credo potremo fingere ancora per molto con la servitù e il dottore. Sono troppo cambiato. Non sono più lo storpio che tutti pensano.
Nel pomeriggio, mentre s’intrattenevano tra i libri nella stanza di Colin, Mary notò qualcosa che non aveva mai scorto prima. Si accorse che sotto un pesante tendaggio che aveva sempre visto tirato, si nascondeva il ritratto di una bellissima signora. Somigliava a Colin in modo impressionante.
– Chi è quella donna? – domandò Mary. Presagiva la risposta, ma non osava dire nulla.
– È la mamma.
– E perché non l’ho mai visto, quel quadro?
– Lo tenevo coperto. La sua espressione allegra mi faceva arrabbiare. Invece l’altra notte è successa una cosa strana. Mi sono svegliato e un raggio di luna che ricadeva sulla tenda mi ha spinto a alzarmi e tirare il cordone. Per la prima volta ho visto mia madre con occhi nuovi. Mi guardava e sembrava così contenta di vedermi in piedi sulle mie gambe. Credo sia stata la magia. Adesso non voglio più rinunciare a lei e spero di vederla sempre così, che mi sorride.
– Le somigli così tanto che sembri il suo fantasma nel corpo di un ragazzo!
– Se fossi il suo fantasma, mio padre mi vorrebbe bene.
Mary si avvicinò a Colin e gli poggiò una mano sulla spalla.
– Forse la magia farà effetto anche su tuo padre –disse. – Hai visto com’è potente, no?
– Non smetteremo di esercitarci, allora.
La loro fede nella magia non era una cosa passeggera. Certi giorni, dopo il rituale del mattino, Colin teneva delle piccole conferenze sulle arti magiche. I discorsi erano brevi, ma pieni di sentimento e consapevolezza. Si sentiva orgoglioso.
– Mi piace organizzare queste conferenze! – esclamò Colin soddisfatto, alla fine di uno dei suoi interventi.
–Del resto, quando sarò grande e farò importanti scoperte scientifiche, dovrò tenerne molte. Qui con voi sto facendo pratica. Come un esercizio. Anche la magia, dopotutto, fa più effetto quando ti eserciti. La sento scorrere nelle ossa e nei muscoli.
Colin, seduto sotto l’albero di susino, si tirò su in piedi. Non aveva più bisogno di aiuto, ormai.
– Mary, Dikon, guardatemi! Ricordate il primo giorno che mi avete portato qui?
I due ragazzi annuirono. Anche Ben Weatherstaff, che stava lavorando a un roseto poco più in là, si girò a guardare.
– Ogni tanto devo alzarmi in piedi per vedere se è tutto vero ciò che è successo. Ed è vero! Sto bene! Sto bene! – ripeté il ragazzo rosso in viso. Poi d’un tratto la sua espressione cambiò di colpo. Aveva visto qualcosa di totalmente inaspettato e sorprendente.
– Arriva qualcuno… – bisbigliò preoccupato. – Chi può essere?
Anche Mary e Dikon si voltarono stupefatti verso la porta del giardino. L’uscio si stava schiudendo lentamente.
Da una delle ante, fece capolino una figura avvolta in un lungo mantello azzurro. Col l’edera alle spalle e la luce del sole che disegnava un gioco di ombre e chiarori sulla veste, sembrò quasi un’apparizione. Poi tutti poterono scorgerne il viso fresco e gli occhi sorridenti e affettuosi.
– È la mamma… ecco chi è! – esclamò Dikon correndole incontro.
Anche Colin le andò incontro, con Mary al seguito. Entrambi sentivano battere forte il cuore. Avevano così tanto desiderato conoscere quella signora che era stata buona e gentile con loro.
– È la mamma! – ripeté Dikon quando la raggiunse. – Sapevo che volevate vederla e le ho spiegato come trovare la porta.
Colin le diede la mano con un gesto timido e regale
allo stesso tempo, anche se in cuor suo avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia senza convenevoli. La donna gli accarezzò timidamente il volto e sorrise per scacciare il velo di stupore che l’aveva colta.
– Anche lei è stupita di vedermi così, signora? – domandò Colin.
– Oh, caro ragazzo… caro, caro ragazzo – rispose la donna. – Sì, sono stupita. Somigli così tanto a tua madre che mi si è fermato il cuore.
– Lei conosceva mia madre?
– Certo, la conoscevano tutti, qui. E tutti le volevamo un gran bene.
– Chi si vede, Susan Sowerby – disse Ben Weatherstaff facendosi avanti da uno dei sentieri del giardino. La donna sorrise al vecchio Ben e lo salutò con un lieve inchino del viso.
– Guarda le gambe del ragazzo, Susan – disse il giardiniere ammiccando verso Colin. Due mesi fa sembravano due stecchi con le calze, e adesso…
– Se continuerà a giocare nel giardino e a mangiare di gusto, diventeranno le gambe più belle di tutta la regione, stanne certo! – esclamò la donna con una risata. Poi posò entrambe le mani sulle spalle di Mary e scrutò il viso della bimba con fare materno.
– Anche tu stai venendo su proprio bene, piccola mia. Come una rosa.
Ripensò, ma senza dire nulla, ai primi tempi in cui la figlia Martha, tornando a casa nella sua giornata libera, aveva descritto la bambina arrivata dall’India scialba e giallognola. Non poteva sembrare la stessa figurina rosea che aveva davanti.
Poco dopo, i tre ragazzi, tenendola per mano, l’accompagnarono attraverso il giardino per mostrarle come tutto fosse tornato alla vita. Non servirono molte parole per raccontarle della magia e dell’esperimento scientifico messo in atto da Colin. La signora Susan Sowerby conosceva bene il potere che nasce dal cuore per far crescere e mettere a posto le cose.
Nessuno di loro, però, immaginava ancora che la misteriosa Forza che faceva gonfiare i semi e brillare il sole, produceva effetti potentissimi anche a distanza. Del resto, ciascuno poteva chiamarlo a suo modo: chi magia, chi potenza del pensiero, chi la Cosa che fa bene... non era importante darle un nome, perché quella Forza indisturbata continuava da sempre a creare i mondi. E, da sempre, ascoltava chi la invocava con fiducia.
Mentre il giardino segreto tornava a vivere, un uomo vagabondava in paesi lontani. Un uomo che da dieci anni non trovava pace e aveva la testa piena di pensieri strazianti. Un dolore l’aveva spezzato, la sua anima era
stata vinta dalla tristezza, mentre si rifiutava di far entrare un solo raggio di luce nei suoi pensieri. Tuttavia, la Forza, aveva raggiunto anche lui, senza che se ne fosse accorto.
Accadde il giorno in cui Colin entrò per la prima volta nel giardino. Quando aveva gridato: ‘Vivrò per sempre’. In quello stesso momento, il signor Craven se ne stava assorto accanto a un ruscello, in una valle tra le montagne della Svizzera. Gli era capitato molte volte di vivere momenti simili, ma mentre osservava l’acqua scorrere accanto a un gruppetto di fiorellini azzurri, venne colto, in maniera del tutto inaspettata, da una serenità inusuale. Si ritrovò a osservare i fiori non con il solito sguardo cupo, pensando a ciò che di bello aveva perduto, bensì a ciò che di buono poteva ancora trovare.
Pensò si trattasse di una sensazione passeggera, invece lo accompagnò per giorni, e poi settimane, e ancora per tutta la primavera e l’estate, tanto che il suo aspetto e la salute migliorarono sensibilmente.
Il viaggio del signor Craven proseguì in lungo e largo per l’Europa, ma poi arrivò l’autunno. Una notte sognò di essere chiamato dalla moglie, senza poterla vedere. Rincorse la sua voce, cercandola dappertutto.
‘Dove sei?’ domandava lui mentre vagava, finché la voce lo condusse a destinazione.
‘Sono qui, nel giardino… nel giardino…’ rispose la signora Craven, schiudendo la porta sotto il mantello d’edera.
Si svegliò di soprassalto, ma senza angoscia. Anzi, sentiva il cuore gonfio di una leggerezza che curava le ferite. ‘Nel giardino…’ disse tra sé. ‘Peccato la porta sia chiusa a doppia mandata e la chiave sepolta’.
Si alzò dal letto perché non poteva riprendere sonno. Decise di leggere alcune lettere cui non aveva ancora messo mano. Nella fila di carteggi, vide subito una lettera arrivata dall’Inghilterra.
Non riconobbe la calligrafia. Non era certo della governante, allora, né del dottor Craven, né di altri curatori dei suoi affari. Chi gli aveva scritto?
L’aprì con mano fremente.
Caro signor Craven
sono Susan Sowerby, immagino si ricorderà di me, ci conosciamo da lungo tempo.
Perdoni l’impertinenza di scriverle, ma se fossi in lei tornerei subito a casa. Credo ne sarà contento.
Mi deve scusare ma credo che anche la signora le chiederebbe di venire se fosse ancora tra noi.
Con sinceri ossequi
Susan Sowerby
Il signor Craven lesse la lettera due volte. Ripensò allo strano sogno e d’un tratto, comprese.
Devo tornare a Misselthwaite – disse. – Sì, subito.
Si era sempre tenuto lontano da quella dimora per scacciare i fantasmi dei ricordi dolorosi, mentre adesso sentiva di voler essere lì. Quello era il suo posto perché lì c’era suo figlio, anche se per dieci anni aveva cercato di dimenticarsi di lui. Il pensiero della madre morta l’aveva torturato, ma ora non voleva più scordare che il suo bambino era vivo. Vivo!
Non voleva essere un cattivo padre, solo pensava di non essere capace di fare il genitore. Invece la nuova serenità si portava dietro una sorta di coraggio e speranza. Il mattino successivo fece preparare i bagagli. Impiegò alcuni giorni per tornare a Misselthwaite, ma la parte finale del viaggio attraverso la brughiera fu un toccasana.
Mentre osservava la distesa fiammeggiante dei colori dell’autunno, sentiva di essere nel posto giusto. Era così insolito per lui.
Intanto pensava a come porre rimedio a tutto ciò che in quei dieci anni aveva fatto morire, a partire dal giardino.
– Vedrò di recuperare la chiave – disse. – Cercherò di aprire la porta. Devo farlo, anche se non so perché.
Appena mise piede nel maniero, invece di andarsi a rinchiudere nello studio com’era solito fare, mandò a chiamare la signora Medlock. Voleva sapere come stesse il figlio, ma di fronte alla domanda la donna arrossì e incespicò parole ambigue.
– Mah, signore, troverà il signorino Colin cambiato, in un certo senso. È diventato strano.
– Strano?
– Sì, dacché non voleva mettere piede fuori di casa, adesso passa la maggior parte del tempo all’aria aperta, nei giardini, in compagnia della signorina Mary.
– Ah sì? E che aspetto ha?
– Mah, sta mettendo su peso, ma poiché i suoi vassoi tornano indietro sempre mezzi pieni, forse è solo gonfio. Però lo sentiamo ridere.
– Ridere? Uhm… – il signor Craven soppesò quell’informazione come la più bizzarra di tutte. – E adesso dov’è?
– È fuori, da qualche parte. Ma non sappiamo di preciso dove perché non permette ad anima viva di avvicinarsi.
Il signor Craven fece per uscire, ma due parole galleggiarono nella sua testa come una premonizione. Si ricordò all’improvviso del sogno in cui cercava la moglie mentre sentiva ripetere: ‘Sono qui, nel giardino… nel giardino…’
Dovette fare uno sforzo per tornare in sé e riprendersi dalla forte emozione. Poi, con passo lesto, imboccò la strada che costeggiava la fontana di pietra per dirigersi verso il viale dove si stendeva il muraglione d’edera. Si sentiva come trascinato, ma quando raggiunse la parete frondosa si fermò. Sapeva dove si trovava la porta, ma non ricordava il punto dove era sepolta la chiave.
Si guardò attorno e udì dei rumori risuonare oltre il muro, come dei gridolini di gioia, dei passi che si rincorrevano, delle risate infantili. Si domandò se stesse sognando.
Avanzò verso la porta. In quel momento venne investito da una figura che sbucava a gran velocità dal muro d’edera. Fece appena in tempo ad accoglierlo fra le braccia, per non farlo precipitare a terra.
Era un ragazzo alto, dal bel viso, con gli occhi incorniciati da una fila di ciglia nere, pieni di allegria.
– Chi… Cosa? Tu? – balbettò il signor Craven.
Non era certo il tipo di sorpresa che Colin aveva in mente, ma forse arrivare davanti al padre così, dopo aver vinto una corsa, era anche meglio.
– Papà, sono Colin. So che non ci credi. Non ci credo nemmeno io. Ma sono Colin.
– Nel giardino… nel giardino… – ripeté concitato il signor Craven.
– Sì, è merito del giardino, papà. E di Mary, di Dikon e della magia. Volevo dirtelo solo al tuo ritorno, io sto bene adesso. Riesco a battere Mary nella corsa!
Colin aveva la faccia arrossata e parlava accavallando le parole per l’eccitazione. Mise una mano sulla spalla del genitore.
– Non sei contento, papà? Vivrò per sempre, e per sempre e per sempre!
Il signor Craven trattenne a lungo gli occhi in quelli del figlio, finché lo abbracciò forte, incapace di parlare.
Poi finalmente disse:
– Portami nel giardino, figliolo. E raccontami tutto.
E così, venne condotto nel regno incantato, perduto e ritrovato.
Ai suoi occhi si mostrò una distesa autunnale di porpora e oro, dove fiammeggiavano il viola e lo scarlatto dei fiori tardivi, gigli e rose rampicanti che pendevano a grappoli.
Sembrava di essere penetrati in un tempio sovrastato da una cupola d’oro.
Il signor Craven ricordava ogni cosa di quel luogo e con il cuore in subbuglio le ritrovò ancora più rigogliose che mai.
Rimase in un silenzio pieno di stupore, com’era successo a tutti quelli che, per la prima volta, avevano messo piede nel giardino segreto.
Sotto l’albero di susino, dove l’uomo era seduto in cerchio assieme a Mary e Dikon, Colin fu l’unico a restare in piedi per narrare ogni cosa al genitore.
Ad Archibald Craven la storia che si riversava dalle labbra del figlio sembrò la più strana e bella e felice che avesse mai sentito.
Prefazione
Una nuova casa per Mary Lennox Le
Dopo la perdita dei genitori, la piccola Mary Lennox è accolta nella casa dello zio Archibald. La grande abitazione sorge nelle solitarie brughiere inglesi e la bambina si sente sola e sperduta. Ci sono tuttavia dei segreti in quel luogo così triste: un giardino abbandonato che la moglie dello zio coltivava con splendide rose e il pianto notturno di un bambino misterioso che la incuriosiscono. Aria aperta, esercizio fisico, cura delle piante, amore per gli animali cambieranno il carattere di Mary e la sorte di suo cugino Colin. Un racconto che aiuta a crescere nel corpo e nella mente.
Allegato omaggio a Finalmente in Vacanza! 4a
Non vendibile separatamente