Due ruote , la strada, il diabete

Luca Gregorio

FUGA

Due ruote, la strada, il diabete

L’Autore destina integralmente tutti i proventi del libro al supporto delle attività di Ciclismo & Diabete

Quando taglierai il traguardo sarà tutto finito, magari avranno già fatto la premiazione e nessuno ha più pensato a te mentre arrancavi su quelle salite ormai scomposto con l’unico obiettivo di arrivare alla fine. Ora è il momento di celebrare i vincitori, non di accogliere i fuggitivi.

Luca Gregorio, nato a Milano nel 1981, è giornalista pubblicista dal 2005. Ha cominciato a fare radiocronache (e poi telecronache) nel 2000 e si è occupato di tantissimi sport, dal basket al calcio, dalla pallavolo allo sci. Ha lavorato per Sportitalia, Mediaset, FoxSports e Bike Channel.

Attualmente collabora con Infront e soprattutto è la voce del ciclismo su Eurosport in coppia con Riccardo Magrini. Con il suo compagno di viaggio ha anche pubblicato nel 2019 “Fagianate, scatti e scie. Dizionario sentimentale del ciclismo” (Rizzoli)

E quando, stremato, te ne starai immobile sotto la doccia bollente, quando non avrai nemmeno la forza per insaponarti, quando le gambe ti faranno male per i crampi, per la fatica, per la tensione, quando ti accorgerai che ti è rimasto solo un pugno di mosche in mano, quando ti pentirai di esserti illuso, ancora una volta, come un bambino, ecco allora ti chiederai se ne è valsa la pena.

E ti risponderai che sono state le sette ore più belle della tua vita.

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ISBN 978-88-98250-12-7 Editore Agapantos srls – Roma www.agapantos.org Progetto grafico Creativa

“Attaccare o fuggire fanno parte dello scontro.

Quello che non appartiene alla lotta è restare paralizzati dalla paura.”

(Paulo Coelho)

Fausto Coppi e Gino Bartali, le Imprese che hanno segnato un’Epoca

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er un corridore il momento più esaltante non è quando si taglia il traguardo da vincitori.

E’ invece quello della decisione, di quando si decide di scattare, di quando si decide di andare avanti e continuare anche se il traguardo è lontano.

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Fausto Coppi

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Luca Gregorio

FUGA

Due ruote, la strada, il diabete

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Indice Pag. Premessa Introduzione La Milano Sanremo come simbolo Io e la Sanremo La leggenda di Colnago Perché si fugge

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Capitolo I – Il libro di Alcide Capitolo II – Due vecchi amici Capitolo III – La fuga di Andrea Capitolo IV – La fuga di Umberto Capitolo V – La casa di Carlo Capitolo VI – La corsa Capitolo VII – Luisa cambia idea Capitolo VIII – Il medico musicista Capitolo IX – Alfio, il Mister Capitolo X – Mesi dopo

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Papa Francesco

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Premio “Castello d’Oro di Valdengo Gran Galà del Ciclismo Ultimo chilometro Lino e il Diabete Andrea Peron Umberto Poli

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Ringraziamenti

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Paolo Bellino Amministratore Delegato e Direttore Generale RCS Sport

Premessa

Ma con la loro caparbietà tutto è possibile.

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Caparbietà, forza e spirito di sacrificio. Vorrei scegliere questi tre concetti per definire quello che ho sempre visto nel Team Novo Nordisk, dai dirigenti fino ai corridori. RCS Sport si è impegnata molto in questi anni per cercare di dare la giusta visibilità e importanza a questa squadra, che infatti ha partecipato a diverse edizioni della Milano-Sanremo e delle gare negli Emirati. I corridori, ma anche tutti gli altri atleti di alto livello chiamati a convivere col diabete di tipo-1, sono l’esempio migliore di come scienza e impegno personale possano consentire di praticare uno sport di endurance come il ciclismo ad alto livello. La loro forza è quella di sentirsi “normali” e di far sentire noi quasi inadeguati al loro cospetto, ma anche di vivere la quotidianità come se nulla fosse, relegando il diabete a un semplice compagno di viaggio, da tenere sempre sotto controllo. In questo il contributo dei medici e della scienza, che ha fatto passi da gigante, è stato fondamentale per dare ulteriore luce e vigore a questo progetto. E visto che il Team Novo Nordisk veicola un messaggio così importante a livello globale questo libro è un altro segnale splendido per dirci dove stanno andando e in che intenzioni hanno. Il mio augurio è quello di poter collaborare ancora insieme in futuro e di vederli, fra qualche anno, anche sulle strade del Giro d'Italia, che so essere uno dei loro grandi sogni.

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Phil Southerland CEO and Co-Founder Team Novo Nordisk 12

Introduzione

“Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. E’ una frase celebre di Giampiero Boniperti, storico dirigente della Juventus, per inquadrare la filosofia che ha sempre guidato l’azienda bianconera. Una frase ad effetto, coinvolgente, esaltante per i tifosi e che rispecchia a pieno la logica che impera, in genere, nello sport professionistico.

Vincere è fondamentale, nessuno lo nega. Vincere è l’obiettivo di mesi o anni di duro lavoro, qualsiasi disciplina si pratichi. Vincere è cruciale per far contenti gli sponsor e attirarne altri. Ma questo non è un libro di marketing dello sport o che vuole emettere sentenze sulla bontà o meno di questo aspetto.

La frase di Boniperti serve come assist perché nel ciclismo non è per forza così. Oltre alla bellezza dei vincitori, che infiammano anche in questo caso pubblico e strade, c’è un’altra anima (fra le tante che possiede il ciclismo) che quasi sempre emerge nelle corse. Quella di chi va in fuga. E chi entra nella fuga di giornata ha conquistato la sua vittoria.

Così come si nasce (o si diventa in certi casi) velocisti e scalatori, gregari e campioni, così è un’arte riuscire a diventare un “fughista”. Se guardate alle varie epoche del ciclismo vi accorgerete che ogni periodo storico ha i suoi specialisti delle fughe.

Quali sono le caratteristiche di un fughista o fugaiolo? Non c’è un elenco predefinito, ma certo bisogna essere reattivi, avere la gamba buona, saper cogliere l’attimo giusto e studiare bene il percorso. Oltre a capire con chi si può andare in fuga.

Nel ciclismo c’è un copione che spesso si ripete, pur non essendo assolutamente studiato a tavolino. Che si tratti di una corsa in linea di un giorno o di una tappa in un grande Giro lo sviluppo della gara è quasi sempre prevedibile. Pronti-via e cominciano gli scatti di quelli che vogliono andare in fuga. In certi casi ne è sufficiente uno, in altri la bagarre è più accesa e per veder materializzarsi la fuga di giornata possono servire dai 10 ai 50km. Ripeto, non c’è una regola scritta e dipende dall’umore e dalla voglia del gruppo.

La fuga poi, il più delle volte, viene ripresa. Quando? Anche qui non c’è uno schema fisso. In genere, se si 13

tratta di una tappa per velocisti, la fuga può prendere un margine fra i 2 e i 4 minuti, col gruppo che va a chiudere a una ventina di km dal traguardo (ma anche meno). Se si tratta di una tappa con tante salite il ricongiungimento può avvenire un po’ prima.

Il punto-chiave è comunque sempre capire se la fuga andrà in porto o meno. Nessuno ha la sfera di cristallo ed è per questo che ogni volta chi va in fuga offre allo spettatore e al telecronista una storia da raccontare, con un bel punto di domanda su come si risolverà la questione al traguardo.

Gli specialisti delle fughe sono quasi sempre corridori di squadre Professional o Continental (non World Tour) che hanno tutto l’interesse nel piazzare i propri uomini nella fuga di giornata per motivi di “vetrina pubblicitaria”. Sono corridori che non avrebbero grandi chance di vittoria al traguardo e sfruttano così i primi tre quarti della corsa per far parlare di sé e del proprio team.

Spesso le fughe servono anche al pubblico per uscire dal seminato dei soliti nomi noti, scoprendo volti e storie che altrimenti resterebbero confinate, se non addirittura nascoste.

Il Team Novo Nordisk fa parte della schiera di squadre che devono andare in fuga. Non potendo partecipare, per regolamento (dato che non appartiene al circuito World Tour), a tutte le corse più rilevanti del calendario mondiale, la formazione americana deve sfruttare al meglio gli inviti che le vengono fatti in alcune gare di prestigio internazionale. Su tutte la Milano-Sanremo, ma anche il UAE Tour, il Giro di Polonia o il Giro di California. Corse che hanno un appeal e un richiamo internazionale, con una copertura televisiva (e mediatica in generale) di primissimo piano.

Nato con la dicitura Team Type 1 a livello dilettantistico nel 2005, su spinta di Phil Southerland e Joe Eldridge, il gruppo di ragazzi tutti affetti da diabete di tipo 1 è passato professionistico nel 2008. Il punto di svolta c’è stato però nel 2011, con l’ingresso nel novero delle squadre Professional-Continental e la conseguente partecipazione a corse rinomate come il Tour de Suisse o il Giro di Turchia. Dal 2013 la squadra porta il nome attuale Team Novo Nordisk e nel 2015 è arrivato il primo invito a partecipare alla MilanoSanremo. Proprio la Classicissima di Primavera è diventato il fiore all’occhiello della squadra in queste ultime stagioni, con i propri atleti capaci di entrare sempre nella fuga di giornata. Il sogno, non troppo tacito, è quello un giorno di poter essere al via di una grande Giro, possibilmente il Tour de France, ma intanto la politica dei piccoli passi ha pagato e dato i suoi primi frutti.

Andare in fuga, per questi ragazzi, assume ancora più valore. Sono portatori delle proprie ambizioni e dei propri sogni ovvio, ma sono soprattutto portatori di un messaggio che sta risuonando sempre più potente in giro per il mondo. Anche con il diabete di tipo-1 si può fare sport e lo si può fare ai massimi livelli.

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Servono impegno, dedizione, attenzione, una dieta precisa e meticolosità certosina. Ma ciò che poteva sembrare impossibile o irraggiungibile fino a qualche decennio fa, oggi è realtà.

Andare in fuga diventa dunque, per il Team Novo Nordisk, un obiettivo e una missione. Da vivere con il sorriso. In questo libro sentiremo le storie e le testimonianze dirette di alcuni ragazzi, capiremo meglio la storia della squadra e cercheremo di capire quali saranno i traguardi da raggiungere.

Per un telecronista storie come queste sono vitali. Aiutano a uscire dal seminato. Aiutano ad avere altri punti di vista. Aiutano a cambiare prospettiva nella valutazione del rapporto fra sport, vita e successo.

Aiutano a ritornare ai valori profondi e irrinunciabili del ciclismo e dello sport in generale. Aiutano a capire che, dietro ad un’apparente semplice pedalata che si ripete milioni di volte, c’è un mondo. Unico. Da scoprire. Da raccontare.

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Nonostante per esperienza sapessi che un’azione di quel genere difficilmente sarebbe arrivata in porto, vedere in fuga diversi corridori della Novo Nordisk, tra i quali anche i due italiani Poli e Peron, pensando alla loro storia e alla loro voglia di dimostrare che anche con il diabete si può correre ad altissimi livelli ed essere protagonisti, è una cosa che mi ha entusiasmato.

Finché è durata la fuga, ho fatto il tifo per loro.

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Lo sport è testimonianza. Lo è sempre stato, dai tempi di Olimpia e poi nell’epoca moderna.

I campioni di sport sono modelli, esempio per tutti. Quando veicolano valori positivi realizzano pienamente quella che è una delle mission dello sport: educare. Nello sport e facendo sport ci si forma ed anche si “informa” chi ci sta vicino. Per questo motivo la testimonianza dei ragazzi della Novo Nordisk mi sembra un perfetto esempio di sport.

Renato Di Rocco Presidente Federazione Ciclistica Italiana

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La Milano-Sanremo come simbolo

Se parlate con tanti addetti del settore vi diranno che la Milano-Sanremo, da un punto di vista tecnico, è una corsa banale. Non ci sono le pietre ruvide della Roubaix con i suoi settori infernali. Non ci sono i muri imballati di gente del Giro delle Fiandre. Non ci sono le cotes della Liegi. E non ci sono nemmeno i 4000 metri di dislivello del Giro di Lombardia, coi suoi passaggi iconici dal Ghisallo o sul Muro di Sormano.

Eppure la Sanremo è la Sanremo. E’ la classica-monumento che, di fatto, apre la stagione del grande ciclismo. La gente la attende con ansia. La primavera viene accesa dalla Classicissima. Anche se a volte fa ancora freddo. Anche se a volte sul Turchino si può trovare ancora la neve.

300km senza grossi sussulti. Prima la pianura padana, poi tutta l’Aurelia da Genova a Sanremo. Il Turchino è una piccola gobba. Una salitella. Un solletico per questi corridori. Negli ultimi 30km, però, arrivano Cipressa e Poggio. Non sono Stelvio e Gavia, ma dopo 270km nelle gambe le loro pendenze tutt’altro che proibitive possono dar vita a un gioco ad eliminazione.

La Milano-Sanremo è così affascinante perché impronosticabile. Sulla carta la possono vincere tutti. Non è un affare solo per velocisti. Non è esclusiva per finisseur o velocisti resistenti. Non sarebbe per scalatori, ma Claudio Chiappucci l’ha vinta nel 1991, Vincenzo Nibali nel 2018 e Marco Pantani ci ha provato.

Ogni corridore che parte da Milano, dentro di sè, può godere di una chance. Però c’è chi non regge l’urto dei 300km. Una distanza da primi del Novecento. Una corsa che ti usura e che la variabile meteo può rendere ancora più cervellotica.

Se guardi l’albo d’oro ti accorgi che tutti i grandi, più o meno, l’hanno vinta. Dall’inarrivabile Eddy Merckx (7 trionfi!) a Costante Girardengo (6 volte a segno); dai poker di Bartali e Zabel ai tris di Coppi e De Vlaeminck. Senza dimenticare che la Milano-Sanremo brilla pure nella bacheca di Francesco Moser, Giuseppe Saronni, Laurent Fignon, Raymond Poulidor, Felice Gimondi, Sean Kelly e Gianni Bugno. Fino ad arrivare ai più recenti Paolo Bettini, Mario Cipollini, Fabian Cancellara, Oscar Freire (tre successi), Alessandro Petacchi e Mark Cavendish.

Vincenzo Nibali, vincitore nel 2018, pur avendo già trionfato in precedenza nei tre grandi giri a tappe, ha

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capito sul traguardo di via Roma cosa genera imporsi in questa classica-monumento. È entrato nell’olimpo dei grandissimi e la sua popolarità ha subito un’ulteriore e decisa impennata. Perché la Sanremo è la Sanremo. Affascinante nella sua apparente semplicità. Aperta come nessun’ altra corsa in tutto il calendario.

Gli occhi del mondo ciclistico, a metà marzo, sono tutti puntati sulla riviera ligure. Una corsa dal massiccio impatto e seguito mediatico. Il modo migliore “per farsi vedere”. E’ per questo che i ragazzi del team Novo Nordisk l’hanno sempre interpretata all’attacco. Con Andrea Peron nel 2015 e 2016, con Umberto Poli nel 2017, con Charles Planet nel 2018 e addirittura con ben quattro rappresentanti nell’edizione del 2019: gli “abbonati” Peron, Poli e Planet in compagnia pure di Jonas Hentala. Un piccolo grande record.

Ragazzi in fuga. Ragazzi in missione. Quale missione? Quella di dire al mondo che ragazzi apparentemente diversi perché colpiti da diabete di tipo-1 possono essere protagonisti in una delle gare più ambite e gloriose al mondo. In queste pagine sentiremo il loro racconto e le loro emozioni. Perché non hanno vinto la Sanremo, ma per 150-200 km sono stati là davanti a tutti. Per far conoscere la loro storia. E il loro messaggio.

Che, alla fine di questo libro, vi sarà sicuramente un po’ più chiaro. Anche attraverso la magia intrinseca della Milano-Sanremo...

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Ogni squadra nelle manifestazioni più importanti, si pone determinati obiettivi: ci sono squadre forti, organizzate che puntano a vincere e magari il Team Novo Nordisk non ha ancora nelle sue file un corridore in grado magari di tagliare per primo il traguardo a Sanremo. Però l’obiettivo che si erano prefissati ha avuto una visibilità enorme, è andato in mondovisione e quindi anche questi ragazzi hanno ottenuto la loro vittoria.

I ragazzi del Team, di cui conosco personalmente i manager, hanno sempre tenuto un comportamento esemplare e il loro messaggio è forte: lo sport, anche se non può fermare la malattia, comunque aiuta a condurre una vita normale.

Mauro Vegni Direttore Milano Sanremo

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Io e la Sanremo Il Magro arriva puntuale sotto casa mia alle 6.15. Forse anche qualche minuto prima. La Sanremo è la corsa che sente di più. L’ha corsa dieci volte in carriera. Non ha mai vinto, ma è lì che per la prima volta ha pedalato al fianco di Eddy Merckx. L’ha francobollato fino al Turchino praticamente, cercando di capire da vicino come mai quel belga lì avesse un motore così eccezionale. Cannibale certo, ma anche monsieur Sanremo, visti i suoi sette trionfi. Roba da matti. Anzi, roba da fenomeno.

La Milano-Sanremo è una gara che ti rapisce e ti coinvolge. Riccardo non ci dorme la notte. Oggi dobbiamo andare a commentarla sul traguardo di via Roma. Una prima volta storica per me, e idem per Riccardo, che in 15 anni di carriera da opinionista tv ha visto sul campo Mondiali e Fiandre, ma mai la Classicissima.

Se io mi sento un bambino sulla giostra del luna park, anche per lui poco ci manca. Non ha dormito tutta la notte. Gli era successo anche l’anno prima, nel 2018, quando poi vinse Nibali. Era una giornata da tregenda. Almeno a Milano. Pioggia forte, freddo, cielo grigio e cattivo. Ci eravamo trovati in piazza Castello per tastare l’atmosfera e vedere le facce dei corridori. I belgi, che fra pioggia e vento ci nascono, ci crescono e ci pedalano quotidianamente, sembravano a proprio agio come se dovessero prendere un caffè al bar. Altri più intirizziti e intimoriti. Partire con queste condizioni e avere nella mente il pensiero di dover affrontare 300 km non è propriamente la migliore delle premesse. Io che odio il maltempo posso solo immaginare cosa può passare nella testa di molti corridori. Li vedo da vicino passare e penso dentro di me che sono dei fottuti eroi. Alla faccia di chi li attacca per il doping o altre scemenze. Chi fa questo mestiere è un grande. Punto.

Io e Riccardo ci dirigiamo verso i bus delle squadre e all’improvviso ci si staglia davanti la sagoma di Vincenzo Nibali. Tiratissimo. Concentratissimo. Tirato a lucido. Proviamo a salutarlo, ma lui tira dritto. È già nel mood giusto. È già in clima gara. Una corsa che, sulla carta, non è che sia proprio nelle sue corde.

Ma la bellezza profonda della Sanremo è proprio questo. Alla partenza tutti hanno una chance di vincerla.

Perché è imprevedibile. Poi, mediamente, vincono solo i super campioni. Ma azzeccare il pronostico è una delle cose più difficili.

Insomma, lo squalo se ne va, il Magro si gira e mi fa: “Oh, ma hai visto che faccia aveva! Mamma mia...”.

Io annuisco, ma resto scettico sulle possibilità di Vincenzo. Ci dirigiamo verso la partenza, scambiamo due battute con Cavendish e Gilbert e poi via a casa che poi si commenta dalla redazione.

Ovviamente la Sanremo del 2018 la conquista Vincenzo Nibali, con un numero da maestro, che gli consente 25

di arrivare da solo, a braccia alzate, in via Roma. Fuoriclasse. Del resto, “cane vecchio sa”. Il Magro aveva capito che la sua, in piazza Castello, era una faccia da vincente.

Un anno più tardi siamo pronti a raccontare la gara proprio dalla postazione-tv di via Roma a Sanremo.

Un sogno. Arriviamo prima delle 10. Ci godiamo il sole. La corsa è ancora lontana, la diretta (alle 14) pure.

Cammino nella zona transennata, passo sotto il traguardo e vengo colto da un brivido. Su questo asfalto si è fatta la storia, anzi la leggenda del ciclismo. Oggi tocca a me, proprio da qui, urlare il nome del prossimo vincitore. Non so chi immaginarmi lì sul palco delle premiazioni che vedo davanti alla nostra postazione.

Mi piacerebbe Viviani. Il Profeta, come l’ho soprannominato. Vedremo.

Faccio altri due passi per i vicoli della città dei fiori e poi entro pure io in modalità-corsa. Quando mi infilo cuffie e microfono stop, si entra in un mondo parallelo. Fantastico. Unico. Non si può fare questo mestiere senza vivere ogni volta una sorta di esperienza mistica o trascendentale. Sono un privilegiato. E mi voglio godere ogni telecronaca come se fosse l’ultima. E quindi viverla con tutta l’emozione possibile. Poi è chiaro che anche per me, come per un corridore, una gara può essere più “pesante” emotivamente rispetto ad un’altra. Oggi è la mia seconda trasferta “sul campo” dopo il Giro di Lombardia del 2018. Ma qui a Sanremo si apre la stagione. C’è tantissima attesa. E sembra primavera. “five, four, three, two, one...” il conteggio dalla regia che ci viene da Parigi è chiaro. Siamo live. Parte lo show.

“E’ la corsa che tutti sognano, che tutti amano, che in molti vogliono conquistare ma che solo in pochi vincono per poi entrare nel mito. Appassionati di ciclismo benvenuti alla Milano-Sanremo, la prima classica-monumento della stagione...per Eurosport Luca Gregorio e Riccardo Magrini...”

Il ghiaccio è rotto. Ora dobbiamo trasferire tutta l’emozione di questa corsa ai nostri amici appassionati che ci seguono da casa. Raccontando anche le storie e i personaggi meno conosciuti. “come da copione Magro è andata via una fuga, con ben dieci corridori che hanno preso quasi dieci minuti di vantaggio. Si tratta di Fausto Masnada dell’Androni Giocattoli-Sidermec, Mirco Maestri e Alessandro Tonelli della Bardiani-Csf, Guy Sagiv della Israel Cycling Academy, Luca Raggio e Sebastian Schonberger della Neri Sottoli-Selle Italia-Ktm) e poi pensa ci sono ben 4 elementi del Team Novo Nordisk: Joonas Henttala, Charles Planet, Andrea Peron e Umberto Poli...

Magro: “c’è da dire Luca che a questi ragazzi vanno fatti i complimenti. È vero che siamo abituati a vedere sempre una fuga in queste situazioni, però in giornate del genere è ancora più difficile entrare nell’attacco giusto perché sono in molti che ambiscono a questa vetrina. Vedere sei italiani dentro questi dieci mi rallegra molto. E in più devo sottolineare la bravura dei ragazzi del Team Novo Nordisk, perchè riuscire a piazzare

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quattro elementi nella fuga di giornata è una cosa molto rara e quindi vuol dire che hanno delle qualità” Luca: “e tra l’altro, agganciandomi proprio a loro, è stupendo il progetto che sta dietro a questa formazione, perchè non dimentichiamoci che annovera nelle sue fila solo ragazzi/atleti col diabete di tipo-1. Un messaggio, quello del poter fare sport ad alto livello nonostante questo problema, che il team vuole portare in giro per tutto il mondo facendo conoscere le storie di questi corridori. E direi che la vetrina della MilanoSanremo è la migliore che potevano scegliere. Anzi, dobbiamo dire che ormai è la vetrina che scelgono sempre, perchè anche nelle passate edizioni sono andati sempre in fuga e quindi anche oggi i ragazzi del team Novo Nordisk hanno tenuto fede a quella che sta diventando una tradizione...”

I km passano, il vantaggio cala, il gruppo spinge. Cipressa e Poggio, i punti nevralgici della corsa, si avvicinano. La fuga pian piano si sgretola. Masnada è l’ultimo che viene ripreso. Sul Poggio esplode la gara fra i migliori. Nel gruppetto, risicato, dei migliori ci sono anche calibri da novanta come Nibali, Trentin, Sagan, Valverde, Alaphilippe, Kwiatkowski, Van Aert e Naesen. Trentin prova a sorprendere tutti sparando la sua cartuccia a circa un km dal traguardo. Bel tentativo, ma annullato. Ce la si gioca in volata. Il mio cuore è a mille. Li vedo arrivare come frecce... “siamo all’epilogo di una giornata fantastica. Quasi tutti quelli più attesi sono qui a giocarsi la vittoria.

Attenzione ci siamo..rompe gli indugi Mohoric, che a sorpresa apre la volata. Alla sua ruota Alaphilippe con anche Kiato e Naesen....Alaphilippe salta facile Mohoric e si lancia a tutta verso il traguardo. Non lo prendono, non lo prendono piùùùùùù. Julian Alaphilippe!!!!!!!! Il moschettiere infilza tutti sul traguardo di via Romaaaaa!!!!”

Non so fino a dove mi abbiano sentito urlare. So solo che ero in trance e mi sono alzato sulla sedia col cuore che è finito chissà dove. Forse ho esagerato, forse no. Non mi importa molto. Ho vissuto quel momento come mi è venuto. Come volevo viverlo. Come l’istinto mi ha detto di viverlo. E ho goduto.

Gli arrivi in volata sono i più entusiasmanti. Perchè non sai come andrà a finire. E l’escalation emotiva è da fuori di testa. Se poi ti capita in una Milano-Sanremo e sei lì a raccontarla, capite bene che è tutto amplificato. In più se vince un corridore che adori, il passo verso il delirio è molto breve.

Gli ultimi minuti della telecronaca servono a stemperare emozioni troppo forti. C’è l’intervista al vincitore, la premiazione sul podio e poi via coi saluti e appuntamento alla prossima corsa.

La giornata volge al termine. Una cenetta in riva al mare per fissare bene tutte le immagini e i personaggi che hanno animato queste ore e poi rotta su Milano. Si torna a casa. Felici. Soddisfatti. Pieni di vita. Ancora più innamorati di questo sport. Pronti per una nuova gara. E nuove storie...

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Io credo che la cosa più importante sia la consapevolezza. Intendo dire che i nostri obiettivi devono tenere conto delle grandi potenzialità di questi ragazzi, sia come squadra che come individualità, ma anche del fatto che convivono con una malattia. La consapevolezza deve aiutarci a crescere, piano, ma con costanza; ma senza consapevolezza perderemmo di vista gli obiettivi reali che sono alla nostra portata.

La fuga alla Milano Sanremo era sicuramente uno di questi obiettivi e, dal mio punto di vista, è stato pienamente raggiunto. Quattro ragazzi con la nostra maglietta lì davanti hanno voluto dire molto e sono orgoglioso per la loro impresa.

Massimo Podenzana Direttore Sportivo Team Novo Nordisk

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Giuseppe Saronni Campione Mondiale e Medaglia d’Oro Goodwood 1982

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La leggenda di Colnago

Vi è un paesino della Brianza, Cambiago, che per gli appassionati di bici è famoso in tutto il mondo.

Un paesino di poco di più di 7000 anime dove è nato Ernesto Colnago e dove si è sviluppata la “leggenda” delle bici che portano il suo nome, sinonimo di perfezione a livello mondiale e che sono legate da alcuni anni anche a Umberto e Andrea e a tutti gli atleti del Team Novo Nordisk.

Ernesto Colnago è proprio quello che si può dire “un imprenditore che si è fatto da solo”. Viene da una famiglia contadina e a 13 anni comincia a lavorare a Milano in una fabbrica di bici la “Gloria”. Di quel 25 Novembre, di 75 anni fa, Ernesto ricorda anche i dettagli. Aveva falsificato la carta d’identità di un anno, per poter iniziare a lavorare come aiuto saldatore, indossava un pastrano militare, “eredità” della Guerra di Russia dello zio Ambrogio, che la mamma gli aveva accorciato, “ma non ci arrivavo a mettere le mani in tasca, perché erano troppo basse”. Il giorno dopo ebbe la sua prima “lezione di vita”, quando litigando con un ragazzo della sua età, Ernesto Formenti che poi divenne campione olimpico di pugilato, abbandonò il suo posto di lavoro per inseguirlo e al ritorno l’operaio che lavorava con lui a cottimo, gli bruciò la mano con la fiamma ossidrica, dicendogli “quando si lavora non si guarda in giro”, una frase che Ernesto ha fatto sua per tutta la vita.

Otto anni dopo nel 1954, nasce la storia imprenditoriale di Colnago nella piccola bottega di Via Garibaldi 10 a Cambiago. Ma per iniziare l’attività occorrono soldi, così è necessario arrangiarsi. Suo padre perciò taglia un gelso di proprietà per fabbricare il banco da lavoro ed Ernesto comincia a pensare che le sue biciclette debbono essere le migliori del mondo.

L’occasione gli capita l’anno successivo quando durante una pedalata incontra Fiorenzo Magni, che si lamenta per un dolore alla gamba. Ernesto gli fa notare che le pedivelle sono montate male, e sistemandole risolve il problema. In questo stesso anno parte per il suo primo Giro d’Italia come vice meccanico nella squadra del campione, che poi conquisterà la maglia rosa.

Ma Ernesto vuole bici più elastiche e moderne e nel 1956 gli viene l’idea di piegare a freddo i tubi delle forcelle, per mantenerli più elastici, riuscendo a ottenere i risultati sperati facendo leva su due pezzi di legni fissati sul tavolo da lavoro.

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Ormai Ernesto è sulle ammiraglie segue come meccanico le corse e si accorge di un ragazzo pieno di talento, il sedicenne Gianni Motta: capisce che diventerà un campione del ciclismo italiano, e decide di fornirgli bicicletta e assistenza. Motta, tra i molti successi sotto la guida di Colnago, vincerà il Giro di Lombardia nel 1964, finirà terzo al Tour de France nel ’65 e trionferà al Giro d’Italia nel ’66.

Colnago è uno che conosce veramente la bici e Eddy Merckx, quello che poi sarà per tutti il “cannibale” ma all’epoca appena agli esordi tra i professionisti, nel 1966 lo chiama chiedendogli delle ruote affidabili e registrate ad arte da usare alla Milano-Sanremo che vuole vincere. Il lavoro di Ernesto è perfetto e Merckx vince la sua prima Milano-Sanremo.

Un binomio che negli anni cresce e si rafforza e già nel 1972 Ernesto non è più da tempo un semplice meccanico: è ormai un costruttore a tutti gli effetti, e realizzare le biciclette di Merckx, anche 20 in un anno, è la sua definitiva consacrazione. Il vero capolavoro è la bici usata dal campione belga per il record dell’ora.

Lì si capisce che il sogno di Ernesto di avere le migliori bici al mondo è diventato realtà.

Gli anni ‘80 sono tutti votati a far crescere la tecnologia delle proprie bici. Colnago è un instancabile innovatore tecnologico, ma anche un imprenditore di grande intuito. La collaborazione tecnica e commerciale con l’Unione Sovietica porta un prezioso ritorno d’immagine, oltre a importanti successi come la vittoria olimpica a Mosca nella cronometro a squadre e nel 1982 Ernesto Colnago aderisce al progetto della famiglia Del Tongo di creare una squadra a livello mondiale, e nello stesso anno Saronni vince infatti il Campionato del Mondo a Goodwood. Migliorare sempre diventa il suo mantra e lui vuole investire sul futuro, sull’innovazione e sulla qualità. Non smettere mai di crederci. Ferrari e Colnago hanno molto in comune, e non a caso sviluppano un’amicizia che porterà a molti progetti rivoluzionari. Il Drake, proponendo nel 1976 a Colnago di collaborare, chiarisce subito: “Voglio solo cose belle, all’altezza delle Ferrari”.

Nel 1995, la sera prima del debutto di una bici in carbonio, la C40, alla massacrante Parigi Roubaix, Colnago riceve una telefonata da Giorgio Squinzi, patron dello “squadrone” Mapei: “… Ernesto, ma sei proprio sicuro che i nostri corridori domani non avranno problemi? Il telaio non rischia di rompersi? E poi quella forcella tutta dritta…”. La C40 trionferà in questa edizione e in altre 4 delle successive 5. E’ il trionfo della tecnologia.

Nel 2013 lega per la prima volta il marchio Colnago delle sue bici al Team Novo Nordisk e dal 2016 questo legame diventa stabile e destinato a proseguire anche in futuro.

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Enzo ed Ernesto Colnago

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Credo nei valori veri del ciclismo e vedo in questa squadra la passione genuina per il ciclismo. Questi ragazzi trasmettono tanta gioia e voglia di impegnarsi, auguro a loro un futuro ricco di soddisfazione e successi

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Ernesto Colnago

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Perché si fugge La fuga ci appartiene come la pelle, il carattere, l’odore. Si fugge dai ricordi, da un amore, da un tradimento, da un rimorso. Si fugge dal bello e dal brutto, si fugge per paura o per coraggio ma tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato a fuggire.

Quando si fugge sei costretto a voltarti indietro per non dimenticare quando tutto è cominciato, per difenderti da chi cerca di raggiungerti e di riunirsi a te. Puoi anche ascoltare le loro voci “Ma dove pensi di andare? Ma che stai combinando? Resta qui, smettila di correre, tanto non ce la farai mai “. Sono le voci di chi ha provato a fuggire prima di te, ma non ce l’ha fatta, sono le voci dell’invidia, sono le voci della paura, la paura che qualcuno ce la faccia. La paura che tu ce la possa fare.

Quando ti senti inseguito hai tanto tempo per pensare, puoi sentire addirittura il rumore dei tuoi pensieri come i passi affrettati di qualcuno che cerca di raggiungerti, di metterti le mani sulle spalle per tirati indietro e poi magari abbracciarti, come si fa sempre per consolare i perdenti. Come avviene sul ring, quando il vincitore abbraccia lo sconfitto perché l’abbraccio non è consolazione, è resa.

E mentre ti senti inseguito sei anche costretto a guardare avanti verso il tuo traguardo, verso quello per cui sei fuggito, verso il sogno. Perché la fuga è questo, uno sguardo indietro e uno in avanti, tra salite e discese, tra euforia e scoraggiamento. Non sai mai se riuscirai nella tua impresa perché la fuga non ti regala mai risposte chiare. La fuga è luce e buio, è mistero, incertezza, dubbio e se tutto questo non c’è, allora non è vera fuga, sai già che ti riprenderanno, sai già che il tuo è solo un tentativo.

Con le fughe non si può mentire, la fuga si accorge subito se hai intenzione di fare sul serio o se stai solo “facendo scena”. Lo sa la tua fuga, lo sanno gli altri, ma soprattutto lo sai tu. Puoi anche provare a mentire con te stesso quando senti le forze che ti abbandonano, piano, ma progressivamente, e tu pensi “E solo un momento, adesso riparto”. Ma in realtà sai di aver perso come quando bari facendo un solitario.

Ma un fatto è certo: la storia ci ha tramandato grandi fughe, ma sono le tante piccole fughe a fare la storia, quelle di uomini e donne senza un nome, senza un volto, tante volte senza neanche una speranza.

La storia del ciclismo è ricca di grandi fughe, da soli o in gruppo, fughe che per i loro protagonisti hanno significato gloria, successo. Ma alla Milano Sanremo è diverso: qui la fuga ha dei confini ben precisi: si fugge 39

subito dopo la partenza e si viene ripresi sei, sette ore dopo, a pochi chilometri dall’arrivo. E’ un copione scritto e provato decine di volte: quattro, cinque, dieci coraggiosi che partono con il gruppo che, sornione, resta in attesa. Due corse diverse: davanti si tira, si fatica, si bestemmia. Di dietro si pedala. E si aspetta.

Ma allora, si starà chiedendo qualcuno, perché?

Provate a chiederlo a loro, ai protagonisti: vi parleranno di un’emozione unica e indescrivibile, con le telecamere di tutto il mondo puntate su di te, sul gruppetto di testa dove ogni 15, 20 secondi si chiede il cambio per mettersi nella scia del compagno, per prendere fiato, per bere un sorso d’acqua.

Provate a chiederlo ai ragazzi della Novo Nordisk che corrono per urlare al mondo che con il diabete si può fare tutto, anche diventare ciclisti, anche vincere, anche andare in fuga.

Il vantaggio sale: 5, 8, 10 minuti, sembra un’eternità. Ma in realtà, alla Milano Sanremo, non è così. Arrivano i Colli, arriva il Poggio, arriva la Cipressa e quelli dietro iniziano a mordere l’asfalto, sono freschi e si rimangiano tutto il distacco perché tu non ne hai più. E da primo che eri ti ritrovi novantesimo, centesimo.

E mentre il gruppo ti passa, tu speri che lì in mezzo ci sia un tuo compagno di squadra, uno che può dire la sua in volata, uno per il quale è valsa la pena sacrificarsi. Uno che dia significato alla tua fuga.

Quando taglierai il traguardo sarà tutto finito, magari avranno già fatto la premiazione e nessuno ha più pensato a te mentre arrancavi su quelle salite ormai scomposto con l’unico obiettivo di arrivare alla fine.

Ora è il momento di celebrare i vincitori, non di accogliere i fuggitivi.

E quando, stremato, te ne starai immobile sotto la doccia bollente, quando non avrai nemmeno la forza per insaponarti, quando le gambe ti faranno male per i crampi, per la fatica, per la tensione, quando ti accorgerai che ti è rimasto solo un pugno di mosche in mano, quando ti pentirai di esserti illuso, ancora una volta, come un bambino, ecco allora ti chiederai se ne è valsa la pena.

E ti risponderai che sono state le sette ore più belle della tua vita.

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Non voglio dire che tutte le persone con diabete dovrebbero diventare agonisti perché è comunque appurato che qualsiasi tipo di attività fisica è utile, anzi indispensabile, nella terapia. Però è chiaro che l’interesse mediatico che questo team riesce a muovere, in tutto il mondo, è di un’importanza vitale e diventa un punto di riferimento importante per tutte le associazioni e per tutti noi.

Marcello Grussu Presidente Associazione Nazionale Atleti Diabetici

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Capitolo I Il libro di Alcide

Inforcò gli occhiali a mezze lenti. Non amava quel gesto e lo faceva sempre lontano da occhi indiscreti, una forma di pudore, quasi fosse una sconfitta, un dazio da pagare alla vecchiaia. Per il resto però, a parte questa presbiopia che accelerava anno dopo anno, Alcide era in buona forma. Il cuore, la prostata, l’intestino facevano il loro dovere e anche i polmoni, considerando che era un accanito fumatore, non gli davano particolari problemi a parte una bronchite che puntualmente, tra gennaio e febbraio, lo costringeva a un riposo forzato.

Il suo medico curante era un anziano professionista molto provato e deluso dalla vita dalla quale, dopo la laurea, si aspettava qualche soddisfazione in più. Faceva il suo lavoro, ma era annoiato dai suoi pazienti, in larga parte anziani che affollavano il suo angusto studio più per passare il tempo che per reali esigenze.

In compenso la sua segretaria era molto efficiente e con gli anni aveva acquisito una competenza che le consentiva di dispensare consigli anche di tipo farmacologico. Anna rispondeva al telefono, che squillava in continuazione, preparava le ricette, gestiva gli appuntamenti del dottore con meticolosità certosina: conosceva e chiamava per nome tutti i pazienti, come fosse un parroco di campagna. In realtà era una signora divorziata sui 45, tutto sommato ancora piacente che però faceva fatica ad arrendersi e sfoggiava spesso minigonne e calze a rete che Alcide trovava, francamente, un po’ ridicole.

Quella mattina, seduto al bar in piazza, isolato dagli altri vecchi del paese che trascorrevano a quei tavoli gran parte della mattinata, Alcide si godeva un po’ del tepore primaverile: le mimose erano già in fiore, ma questo significava poco per chi conosceva il meteo meglio dell’aeronautica. Alcide sapeva bene che l’inverno non era ancora finito e quindi si sedeva a uno di quei tavoli senza farsi troppe illusioni. Qualcuno si prendeva qualcosa da bere, qualcun altro giocava a carte ma lui amava prendersi il suo tempo, aprire un libro e leggere in solitudine. Non era un tipo taciturno o scontroso, era solo uno che sapeva stare in compagnia dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. In soffitta, sepolto tra vecchie cianfrusaglie, aveva trovato un libro che ricordava di aver letto tanti anni prima. Narrava le storie di campioni del passato da Pelè a Borg, da Thoeni a Cassius Clay. Ma per lui, grande appassionato di ciclismo, era il capitolo su Fausto Coppi il suo preferito.

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Alcide ordinò un caffè e iniziò a leggere.

L’airone che volava in bicicletta “E’ maschio…. Domenico …guarda…è maschio!!! Sospirava gridando Angiolina pensando che due braccia in più avrebbero contribuito al riassetto del bilancio familiare. “Bah …- grugnì Domenico - Sarà al massimo un paio di chili – sentenziò con non poca delusione prendendolo in braccio – ‘sto qui pei campi non l’è bon!”

Venne al mondo così, Fausto Coppi, da una madre raggiante e un padre deluso. Fin dai primi minuti di vita era riuscito a dividere la gente. Fu sempre quello il suo destino: dividere la gente, tra chi lo adorava e chi lo accusava, tra chi si riconosceva nelle sue tristezze e chi non riusciva a coglierne le profondità. Tra chi si commuoveva per i suoi sentimenti e chi se ne prendeva gioco.

Da ragazzino, per guadagnare due lire, Fausto fa le consegne in bicicletta e pedala forte, forte, forte e sogna di pedalare un giorno per lavoro, di diventare un ciclista.

Partecipa al suo primo Giro d’Italia nella Legnano, come gregario di Gino Bartali, la stella dell’epoca.

Tanto Coppi è introverso, così Bartali è spavaldo. Tanto Coppi è parco nel mangiare e nel bere, tanto Bartali è goliardico. Insomma tanto uno è piemontese, tanto l’altro è “toscanaccio”.

Coppi non ha rispetto per il suo capitano e sull’Abetone si invola: spinge sui pedali con una naturalezza che sembra innaturale, non suda, non fatica, almeno apparentemente, semplicemente vola e plana come un airone verso il traguardo e verso la maglia rosa che mantiene, da quel momento, fino alla fine del Giro.

Alla Milano- Sanremo di quell’anno Coppi si presenta in forma smagliante, sembra avere una marcia in più, il radiocronista che racconta lo svolgimento della corsa annuncia “Fausto Coppi ha vinto la Milano Sanremo: in attesa del secondo classificato trasmettiamo musica da ballo”. Il distacco alla fine è abissale:14 minuti.

Nel ’49 al Giro d’Italia si corre la tappa da Cuneo a Pinerolo, 192 chilometri attraverso 5 valichi alpini. E’ una tappa massacrante, di quelle temute dai ciclisti che avevano paura non tanto di un cattivo piazzamento quanto dell’eventualità di non farcela, di doversi inchinare davanti alla strada, la loro vera avversaria.

Quando la radio inizia a trasmettere, milioni di italiani sono in attesa di sentire la voce del cronista Mario Ferretti, il quale lancia nell’etere la frase che lo renderà celebre “Un uomo solo è al comando- si ascolta nelle case della gente - la sua maglia è bianca e celeste, il suo nome è Fausto Coppi”.

Nel ‘53 Fausto diventa Campione del Mondo a Lugano, infliggendo 6 minuti di distacco al belga Derycke.

Sul podio si vede un Coppi inusuale, raggiante, al suo fianco compare, per la prima volta in pubblico, la

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dama bianca.

Si chiama Giulia Occhini, ha 27 anni e un marito medico, Enrico Locatelli ricco, più vecchio di lei di 20 anni. Hanno due figli, Lolli e Maurizio. Anche Fausto è sposato, con Bruna Ciampolini e ha una figlia, Marina.

Il loro amore dividerà, ancora una volta, un’Italia bigotta e puritana tra innocentisti e colpevolisti.

Lo scandalo era di pubblico dominio, a Coppi non veniva più permesso di visitare sua figlia Marina e, in quelle condizioni, era difficile ritrovare la motivazione che occorreva per gareggiare, vincere, guadagnare.

Per un piccolo compenso Coppi decide di partecipare ad una manifestazione celebrativa per l’indipendenza di un Paese africano. Ma accetta soprattutto perché ha la possibilità di una battuta di caccia, la sua altra, grande passione. Dorme in un albergo molto modesto e divide la camera con un suo amico, anche lui ciclista, Raphael Geminiani .

“Fummo presi d’assalto dalle zanzare - dirà Geminiani - Fummo martoriati. Appena dopo Natale ci telefonammo. Fausto voleva gli combinassi una squadra di corridori francesi per lanciare la sua bici, la bici Coppi.

Gli dissi che stavo male, che avevo una strana febbre. Mi rispose che anche lui si sentiva addosso l’influenza e che si sarebbe messo a letto”. La sera del 27 dicembre Fausto Coppi, esausto e giallo come un limone, si infila sotto le coperte: ha 40 di febbre. Qualcuno chiama Ettore Allegri, il suo medico. Diagnosi: influenza asiatica. Antibiotici. In Francia Raphael Geminiani va in coma. Il suo sangue viene portato all’Istituto Pasteur. Responso: malaria.

Lo bombardano col chinino e lo salvano. La moglie di Raphael telefona a Villa Carla (casa Coppi) per avvertire che il marito aveva la malaria e che anche Fausto, nel frattempo fortemente peggiorato, era sicuramente stato colpito dalla stessa malattia. Un medico le dice di non impicciarsi e che il Coppi l’avrebbero curato loro. Si decide per un consulto e la diagnosi è broncopolmonite.

L’esito di quel consulto di “cervelli” è disastroso. Agli antibiotici viene aggiunto il cortisone ed è come benzina sul fuoco. Non c’è niente di peggio del cortisone per un malato di malaria.

Il fratello di Geminiani ritelefona per sincerarsi delle condizioni di Fausto e quasi urla al telefono “il chinino…dovete dargli il chinino!!”.

Non c’è niente da fare, i medici non ne vogliono sapere. Coppi peggiora e a questo punto anche il chinino, sul suo fisico bombardato da antibiotici e cortisone, non avrebbe potuto evitargli la morte. Il primo gennaio i medici decidono di ricoverarlo. Quando Coppi arriva in ospedale a Tortona sono pronti gli esiti degli esami: è malaria.

Il due gennaio 1960, alle 8,45, Fausto Coppi, l’airone bianco, chiude per sempre le sue ali.

Scriverà un giornalista francese “Questa triste morte, prematura e ingiusta, santificherà un eroe e ne farà un martire. Di un campione ha fatto un immortale”.

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Nel ciclismo professionistico non puoi nasconderti, non hai tempo per respirare o per cambiare strategie. Ma alla fine della giornata il giusto allenamento porta sempre i giusti risultati. E questo vale nello sport come nella gestione del diabete Vassili Davidenko General Manager Team Novo Nordisk

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Capitolo II Due vecchi amici Alcide chiuse il libro, guardò l’orologio e si accese una sigaretta, la prima della giornata come gli aveva raccomandato il suo medico “Mai prima delle 11 di mattina”. Era un lettore lento, di quelli che amano fermarsi dopo poche pagine per riflettere su quello che hanno appena letto. Per questo preferiva i racconti ed evitava accuratamente i libri gialli di autori svedesi come Stieg Larsen dove si perdeva nel ricordo dei nomi impronunciabili dei protagonisti.

A quell’ora iniziavano ad arrivare le prime mamme con i passeggini dirette al parco. Per tanti anni era stato un nonno perfetto, puntuale, amato dal nipote. Ma con il tempo anche quel ruolo aveva perso di significato. Giulio ormai era grande, andava all’università, prima o poi sarebbe diventato un avvocato. Prima o poi. Perché in effetti Giulio era un bravo ragazzo, ma un po’ indietro con gli esami. Certo, giurisprudenza è una facoltà dura, lunga e Giulio era un po’ distratto dalle partite a calcetto e dalle “amichette”. Le chiamava proprio così, ragazze di una notte, conosciute in vacanza o in discoteca, senza futuro, solo per il piacere di qualche ora insieme. In fondo che male c’è.

Giulio era rimasto molto legato al nonno, lo andava spesso a trovare nella casa di campagna soprattutto dopo la morte di nonna Rina. Alcide era rimasto da solo in quella casa troppo grande, troppo vuota, troppo rumorosa. Perché aveva scoperto che in una casa dove hai vissuto e amato, ogni piatto, ogni mobile, ogni dettaglio ti parla. E’ il linguaggio del silenzio, della solitudine, del ricordo che a volte può diventare frastuono. Per questo Alcide usciva di casa ogni mattina e andava a sedersi in quel bar, lontano dal chiasso della sua isolata casa di campagna.

La lingua rasposa di Brio gli arrivò sulla mano e lo fece sobbalzare. Carlo, con il suo bracco italiano, stava in piedi davanti a lui.

“Oh, Alcide, ma che dormi?”

“Macché. Non mi ero accorto che eri arrivato” “Allora, che si dice?” Carlo prese una sedia di plastica verde per accomodarsi “Me lo porti un caffè?” disse rivolgendosi verso l’interno del bar.

“Stamattina Brio sembrava risorto. L’ho portato nel bosco ed è partito in emanazione. Deve aver sentito

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qualche passata, magari un fagiano che pedinava, vattelapesca…”

“E’ la passione per la caccia. Ce l’ha nel sangue” rispose Alcide accarezzando le lunghe orecchie del bracco.

Brio, in effetti, non solo era stato un grande cacciatore, era stato anche un grande atleta. Quando vedeva Carlo attaccare il carrello alla macchina entrava in agitazione, iniziava a mugolare di gioia, a girare su se stesso. Partivano che era ancora buio in direzione Tollara, una zona addestramento cani in provincia di Alessandria. Lì Brio mostrava tutto il suo valore di cane da ferma: iniziava con dei larghi lacet, sempre al trotto perché il bracco italiano, quando caccia, non galoppa. Il setter è un centometrista, il bracco italiano un maratoneta. Sembra volersi prendere il suo tempo, godersi l’azione ben sapendo che prima o poi, quel fagiano, lo trova. Magari nel fitto dei rovi, oppure in una catasta di legna, ma lo trova. Quando Brio sembrava aver chiari in mente i confini del terreno di ricerca, iniziava a restringere il suo campo d’azione, rallentava ancora di più l’andatura, ogni tanto si voltava a controllare che Carlo fosse lì, a portata di schioppo.

Perché un bravo cane da caccia sa bene che senza il suo padrone tutto sarebbe inutile. Io il fagiano te lo trovo, sembrava dire Brio, ma poi sta a te tirarlo giù.

Poi, ad un tratto, Brio fiutava la preda, il suo corpo veniva spasmodicamente pervaso da tremiti. E alla fine si bloccava in una ferma statuaria: la zampa anteriore sollevata da terra, la coda allungata, il naso all’insù. Tante volte Carlo aspettava qualche secondo prima di assecondarlo, anzi di servirlo come direbbe un bravo cacciatore, restava ad ammirare questo splendido esemplare roano nella massima espressione delle sue caratteristiche venatorie. Poi, lentamente, si avvicinava e Brio, rassicurato dalla sua presenza, si accovacciava e iniziava la “guidata”. E’ un’azione molto delicata in cui il cane deve avvicinarsi al selvatico: fagiano, starna, quaglia o, nella stagione adatta, beccaccia, la regina del bosco. Brio riusciva a spostarsi, a chiudere ogni via di fuga fino al frullo. Il resto lo faceva la doppietta Franchi di Carlo. A quel punto Brio correva, stavolta sì, a prendere l’animale abbattuto: lo teneva in bocca senza stringerlo per non danneggiarne le carni e lo depositava tra le mani di Carlo come un bene prezioso. “Questo è per te – sembrava dire Brio – a me bastano le carezze, i complimenti e magari un bocconcino premio”.

L’abilità di Brio era indiscussa e le sue vittorie nei campionati per cani da ferma lo avevano portato a conquistare diverse volte il titolo di CACIT, il massimo riconoscimento internazionale. Brio era diventato una leggenda nel mondo della caccia sportiva e le sue monte, molto ben retribuite, avevano permesso a Carlo di comperare una Panda nuova.

“Povera bestia, è invecchiato tutt’a un botto. Proprio come il padrone”.

“No, ti sbagli – lo corresse Alcide – tu sei invecchiato molto più in fretta”.

“E invece tu…che leggi ?”

“Niente, un libro” “Ah, pensavo fossero le analisi delle urine”

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“Un libro, racconti, storie di campioni, Coppi” Carlo mise mezza bustina di zucchero nel caffè. “A proposito, da te o da me?”

“E’ una proposta d’amore? ” “Oh, Alcide, sveglia!! La Milano Sanremo, domenica… dove ce la vediamo?”

“Ma dove ti pare. L’anno scorso dove eravamo?”

“Da me” “E allora, ha vinto Nibali, no? Vediamocela da te, magari porta bene”.

“Madonna, non vedo l’ora. Per me è la gara più bella dell’anno, meglio del Giro, del Tour, di tutto” “Non c’è lotta. E pensa che era nata come gara podistica”.

“Cioè?”

“Proprio così, oh, parliamo di tanti, tanti anni fa. E comunque non ebbe successo, pochi iscritti, forse terrorizzati dall’idea di farsi tutta quella strada a piedi, anche se la gara era divisa in due tappe: da Milano a Acqui e da Acqui a Sanremo. Poi, l’anno dopo, si pensò di farla correre in bicicletta. L’idea fu di un giornalista, Tullio Morgagni, ma al via si presentò solo una trentina di partecipanti, più o meno la metà degli iscritti. Troppo, freddo, troppo vento, troppa fatica.

“Che storia. E comunque alla Sanremo bisogna spesso fare i conti con le condizioni meteo. Ho letto che nel 1910, in una giornata d’inferno, i corridori cercavano di rifugiarsi nelle case lungo il percorso. Pensa a come erano le strade in quegli anni e questi poveracci bussavano alle porte dei contadini per chiedere riparo, una coperta, una tazza di brodo. Alla fine arrivarono in sette su sessanta partenti. Una mattanza. Non solo, ma ho letto che il vincitore, un francese di nome Christobal…Christophe…insomma qualcosa del genere era convinto aver sbagliato strada. Sai, all’epoca non c’era un grande servizio di assistenza lungo il percorso, le segnalazioni scarseggiavano insomma questo povero Cristo scollinò e riconobbe le case sul mare di Sanremo. Si rese conto di essere sulla strada giusta, si guardò intorno, era solo, pensò io scendo giù, poi vediamo.

Si buttò in discesa, tagliò il traguardo non si sa come, e solo allora capì di aver vinto”.

“Roba da pazzi. Magari avrà fatto pure qualche chilometro in più”.

“Ah, può darsi, sai le cronache del tempo lasciano a desiderare. E poi iniziò il periodo di Girardengo” “Un grandissimo, piccolo, ma con un cuore enorme. Sei vittorie alla Sanremo “.

“Ma l’hai mai visto correre?”

“Ma che dici, parliamo degli anni ‘20” “Vai Girardengo, vai grande campione, nessuno ti segue su quello stradone…”

Alcide guardò l’amico inarcando un sopracciglio “E’ De Gregori, bestia! Ma tu la musica proprio niente, eh?”

“Poca roba. Qualcosa di classico…”

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“Ho capito, ma parliamo di De Gregori, un grande, e che diamine…Comunque da ragazzo andavi a vedere il passaggio della corsa, no?”

“Eccome. Ho visto pure Bartali, nel 39, sulle spalle di mio padre. Andava via come una spada. E pure l’anno dopo, era unico” “Anche se il vero re della Sanremo è stato Eddie Merckx” “Stiamo parlando di un fuoriclasse: sette vittorie, record assoluto” “Secondo te, quest’anno abbiamo speranze?”

“E’ difficile, la Sanremo non ha favoriti, anzi spesso a vincere è uno fuori dai pronostici” “Come Nibali, l’anno scorso, non ci avrei scommesso una lira, eppure…”

“Vedremo. Allora d’accordo. Domenica mattina a casa tua” “Dai, Brio, è ora di tornare a casa” Carlo si alzò un po’ barcollante. L’intervento all’anca era riuscito, ma se stava troppo tempo seduto faticava a rimettersi in moto “Per il caffè ci pensi tu?”

“E figurati, il solito ligure” “Sono solo un povero pensionato” “Già e io invece un reale di Windsor”

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Io credo che un bravo medico, insieme alle migliori medicine per il diabete, dovrebbe sempre prescrivere l’attività fisica, proprio sul ricettario, in base alle possibilità e alle esigenze di ogni paziente. Tra tutti gli sport che ho praticato, il ciclismo è quello più idoneo a determinare benefici sulla glicemia, a compensare e stabilizzare l’insulina.

Il messaggio dei professionisti del TNN è poi esaltante da questo punto di vista ed è altamente incoraggiante per chi come noi diabetici e ciclisti amatoriali, trae da loro quell’ispirazione che ci fa stare bene e desiderare di inseguire i nostri sogni. Da sempre noi di Ciclismo & Diabete siamo tifosi di questi ragazzi e li seguiamo “dal vivo” in tutte le loro presenze in Italia.

Andrea Guerra Presidente Associazione Ciclismo & Diabete

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Andrea Peron Ciclista professionista Team Novo Nordisk

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Capitolo III La fuga di Andrea Quando ero piccolo avevo paura del buio, della notte, del sonno. Non ne capivo il significato: ore e ore in un mondo parallelo, diverso da quello che conoscevo. Facevo dei sogni strani di cui perdevo il ricordo appena sveglio. Spesso sognavo di volare, ma questo è abbastanza comune. Ma altre volte sognavo personaggi misteriosi, situazioni angoscianti che dovevo affrontare da solo. Ecco, nei miei sogni la solitudine era una costante. Ecco perché, al momento di andare a letto, cercavo di prendere tempo, leggendo fino a notte fonda.

Volevo dormire con la porta aperta e la presenza di mia madre lì vicino mi dava tranquillità: ogni tanto cercavo un pretesto per attirare la sua attenzione: “Mamma ho sete”, “Mamma ho freddo”. E la povera donna si alzava per prendere un bicchiere d’acqua o una coperta più pesante. E poi la sentivo ciabattare fino al suo letto dove finalmente riusciva a riposare.

Nelle domeniche di primavera mi svegliavo presto. Lasciavo le tapparelle socchiuse così che le prime luci dell’alba filtravano nella mia stanza. Mi lavavo frettolosamente, bevevo una tazza di latte e uscivo di corsa.

Perché io, da piccolo, non camminavo. Correvo. Correvo per entrare in classe, correvo per andare in piazza a giocare con gli amici, correvo quando mia madre mi chiedeva di andare a prendere il pane, correvo se mio padre mi chiedeva di andare dal tabaccaio o dal giornalaio.

Forse era un modo infantile di andare in fuga.

La corsa ha sempre avuto un fascino particolare per me, anche quando giocavo a calcio con gli amici. Non ero bravo, però mi piaceva correre, anche con il pallone tra i piedi.

“Passa!!! Andrea passa!!!”

Ma niente, io mi involavo sulla fascia fino alla fine del campo mentre i miei compagni mi mandavano al diavolo. “Questo è un gioco di squadra, la palla la devi passare, testone!!”

L’erba nei prati era ancora bagnata per la rugiada, ma si asciugava in fretta con il primo sole. Percorrevo, naturalmente correndo, la strada che dal paese saliva verso i colli, tagliavo i tornanti e andavo a sedermi sul prato in attesa dei primi concorrenti.

Erano gare di poca importanza, a livello regionale, ma riuscivo comunque a emozionarmi alla vista dei colori delle maglie dei ciclisti. I vecchi del paese, con la Gazzetta nella tasca del giubbotto, commentavano 61

ad alta voce il passaggio della corsa: conoscevano per nome i ciclisti, li spronavano, discutevano sul vantaggio che i primi avevano accumulato. “Stavolta Pinin ce la può fare” “Ma no, sta per scoppiare, piuttosto Attilio…vedrai che in discesa lo riprende” “Ma che dite, Gregorio sta lì, nel gruppone, aspetta il momento buono e se li beve come un sorso d’acqua” Io non conoscevo Pinin, Attilio o Gregorio ma fu su quelle strade, in quelle mattine di primavera, che iniziai ad amare il ciclismo. Ancora oggi non so dire perché, mentre i miei amici la domenica andavano al parco giochi, io mi inerpicavo su quei tornanti. E rimanevo lì fino al passaggio dell’ultimo corridore per poi iniziare a corrergli dietro, per qualche decina di metri, finché non lo vedevo scomparire dietro a una curva.

Il giorno della mia prima comunione, la prima domenica di maggio, la chiesa era piena di gente. Il parroco aveva un paio di occhiali con la montatura dorata e un po’ di forfora sui capelli. Fu una cerimonia veloce: le bambine erano vestite come piccole suore e noi maschietti indossavamo giacca e cravatta acquistate con non pochi sacrifici dai nostri genitori. Ci eravamo preparati a lungo per quel giorno, due anni di catechismo, ma finalmente eravamo pronti ad entrare nel mondo dei bravi cristiani. Don Luciano tenne un discorso che probabilmente aveva provato e riprovato decine di volte, ma noi ragazzi eravamo un po’ distratti: tanta gente, troppa. Tanta emozione, troppa. Tanti dubbi, troppi.

Mio padre, Giuliano, se ne stava seduto in una delle prime file tenendo per mano mia madre Cristina. E’ un uomo semplice, vive del suo lavoro, vende ricambi per trattori, non ha vizi, né grilli per la testa. E, come tutte le persone semplici, è di poche parole.

Chi parla tanto e soprattutto “difficile”, come un avvocato o un politico, è considerato importante, chi parla poco e soprattutto “semplice” un mediocre. Ma la dignità e i valori non si misurano con le parole, si misurano con i fatti.

Dopo la cerimonia salimmo in macchina e andammo a Rustega, un paesino a 5 chilometri da Camposampiero, dove ogni anno, nella prima domenica di maggio, si tiene la Fiera della Zootecnia. E’ un appuntamento che ha più di 40 anni di storia, al quale non si può mancare: ci sono macchine agricole ma soprattutto animali da lavoro e da compagnia. Cavalli, mucche, asini, pecore. Per i ragazzini è una pacchia: possono correre liberamente, cosa per me fondamentale, e fermarsi ad ascoltare il canto di uccelli di ogni tipo. C’è addirittura un concorso canoro a loro dedicato.

Mangiammo qualcosa nel capannone in mezzo a migliaia di persone venute da tutto il Veneto e poi ci fermammo per guardare i fuochi d’artificio. Io me ne stavo immobile con il naso all’insù quando mio padre si avvicinò.

“Domani pomeriggio devi venire con me” mi disse mettendomi una mano sulla spalla. Non era una richiesta, altrimenti avrebbe detto “Hai impegni domani pomeriggio”? Mio padre è sempre stato rispettoso dei miei tempi, delle mie esigenze, anche quando ero molto piccolo. E quindi feci sì con la testa mentre continuavo ad ammirare i fuochi.

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Il giorno dopo prendemmo la strada per Castelfranco Veneto e ci fermammo davanti a un negozio su una strada di campagna in un paese che si chiama Salvatronda. Un piccolo centro, poco più di duemila anime, ma di grande importanza per la storia del ciclismo italiano.

Nel negozio, dietro al bancone, si muoveva un uomo di bassa statura, ma con uno sguardo che difficilmente potrò mai dimenticare: due occhi vivi, piccoli, asiatici che erano lo specchio del suo carattere. Ci venne incontro tenendo in mano una chiave inglese e ci accolse con grande gentilezza.

“Dunque è lui il bocia?- disse stringendomi la mano - “Mi chiamo Ciano, e tu?”

“Io sono Andrea” risposi in automatico perché in realtà, entrato in quella bottega, ero rimasto estasiato.

Bici ovunque, telai, selle, manubri, cerchioni e poi una cosa che mi è sempre rimasta impressa: il profumo del grasso. Per qualcuno può essere puzza, per altri solo odore, ma per me era profumo. Una volta mi capitò di sentire un’intervista a Giulio Borsari, capomeccanico della Ferrari dal 64 al 73, che sosteneva come il profumo del grasso avesse indirizzato le sue scelte professionali.

“Appena potevo scendevo dal meccanico sotto casa e mi mettevo a guardarlo mentre lavorava. Iniziai così a capire come funziona un carburatore o uno spinterogeno. Ma soprattutto mi inebriava il profumo del grasso, è una cosa che non riesco a spiegarmi, ma ancora oggi mi emoziono quando lo sento”. Per me era lo stesso.

Mi guardavo intorno intontito, inebetito mentre un ragazzo più grande di me, alto e robusto, stava discutendo con un meccanico sulla regolazione dei freni.

“Ieri, in discesa, la sentivo scodare. Non mi sentivo tranquillo e non sono riuscito a stare dietro ai fuggitivi” stava chiaramente commentando la gara del giorno prima.

“Adesso diamo un’occhiata, ma secondo me è un problema di pressione delle gomme” aveva risposto il meccanico, un tipo basso e cicciottello, con una tuta sporca e due baffoni da fare invidia al testimonial della Birra Moretti.

“Mi avevi detto che hai qualcosa per lui” la voce di mio padre mi riportò alla realtà. Probabilmente si sentiva fuori luogo. Lui era esperto di trattori, non di bici. E poi tutta la scena si svolgeva in un silenzio surreale.

Si entrava nel negozio di Luciano Rebellato come in una sagrestia e i clienti spesso si riunivano in capannelli per sussurrare consigli e raccontare, a bassa voce, le loro esperienze di ciclisti amatoriali.

“Vieni con me” rispose Luciano e mio padre mi prese per mano per accompagnarmi verso il retro del negozio.

“Eccola lì, è come nuova” Luciano ci indicò una bici gialla adatta a un ragazzino della mia età. Io non potevo credere ai miei occhi, ero rimasto con la bocca spalancata. Ci avvicinammo a quello splendore e io iniziai ad accarezzare il telaio, su cui spiccava il marchio Rebellato, la sella, il manubrio.

“Con questa ti puoi divertire - disse Luciano sorridendo - adesso dipende solo da te”

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Mio padre si mise una mano nella tasca dei pantaloni di velluto marroni e tirò fuori un bel rotolo di banconote. Oggi penso a quanti sacrifici doveva aver fatto per potersi permettere quell’acquisto, ma in quel momento pensai solamente che quella bici sarebbe stata mia.

Non so perché, ma tutti questi pensieri mi vengono in mente proprio oggi, alla partenza della Milano Sanremo. Ho davanti a me 290 chilometri di gara, un percorso unico, durissimo, leggendario. Insieme a me altri 174 corridori, gente che sarebbe disposta a qualsiasi sacrificio pur di scrivere il proprio nome su questa gara.

I ciclisti sono tutti un po’ pazzi. E questa è forse l’unica caratteristica che abbiamo in comune. Per tutto il resto siamo molto diversi.

Ci sono i sognatori, ragazzi che sono felici anche solo di essere qui: sono per lo più molto giovani, ambiziosi, guasconi. Sanno di non avere ancora l’esperienza necessaria per una grande classica, ma questo non gli impedisce di fantasticare perché sanno anche che, tra di loro, c’è il campione di domani, quello che è un predestinato, uno che infiammerà le folle di tutto il mondo. Per tutti gli altri resta solo il sogno, che comunque non è poca cosa.

Poi ci sono i cacciatori. Eh sì, perché la corsa è piena di trappole. I cacciatori ti attirano, ti illudono, ti tentano. Ma devi stare attento perché in realtà, alla fine, rischi di abboccare alle loro esche o cadere nella loro rete. Le squadre di professionisti sono piene di cacciatori, il loro apporto è spesso fondamentale per le grandi vittorie.

E infine ci sono i campioni. Li riconosci subito perché hanno intorno giornalisti, fotografi, ragazzini che gli chiedono l’autografo. Alla Milano Sanremo ci sono tutti, si guardano in cagnesco, non si parlano anche se sono molto amici. Ma qui l’amicizia non conta: ci sarà solo un vincitore, il secondo arrivato sarà solo il primo degli ultimi.

Noi del Team Novo Nordisk, però, abbiamo un’altra caratteristica comune: il diabete, un avversario in più, un avversario subdolo che ti può togliere le forze, le idee, le strategie e persino i sogni.

Oggi la mia glicemia è perfetta, non avrò problemi, in realtà il diabete, per me, non è mai stato un problema.

Ci muoviamo in gruppo da Piazza Castello verso via della Chiesa Rossa. Sono 7 chilometri di trasferimento in cui si ha tempo per gli ultimi controlli e qualche sguardo d’intesa con i compagni del team. Ognuno sa quello che deve fare, ci siamo preparati per questo appuntamento, ne abbiamo discusso tra di noi e con i team manager. Ora è il momento di mettere in atto i nostri buoni propositi e dimostrare al mondo intero che con il diabete si può fare tutto, anche correre da professionisti una gara tosta come la Milano Sanremo.

E poi ognuno di noi deve dimostrare a tutti che l’occasione che ci è stata offerta e la fiducia che ci è stata concessa sono il giusto riconoscimento alla nostra passione.

Non abbiamo grandi carte da giocarci per la vittoria finale. Una delle tante cose che mi ha insegnato il ci-

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clismo è l’umiltà e dobbiamo riconoscere che ci sono squadre più esperte, più forti, con più assi nella manica.

Per vincere una Sanremo ci vuole talento, cervello e cuore e se vuoi essere un campione queste tre doti le devi avere, scegli tu l’ordine.

Però è nostra intenzione metterci in mostra, dimostrare al mondo intero di che pasta sono fatti i professionisti del Team Novo Nordisk, i ciclisti con il diabete. Abbiamo un’unica possibilità: la fuga.

Oggi è una splendida giornata, la giornata ideale per una bella fuga. Mi sono svegliato presto, alle 5,30, e ho fatto un’abbondante colazione ricca di carboidrati: pane, burro, marmellata, cereali. Qualcuno si è mangiato un piatto di pasta ma, sinceramente, a quell’ora del mattino mi viene la nausea solo a pensarci. Sono salito in camera per gli ultimi preparativi, ho preso lo zaino e sono sceso nella hall dell’albergo per salire sul pullmino della squadra.

Lungo il tragitto verso la partenza non si parla, l’aria si taglia con un coltello, sappiamo che sarà durissima.

Siamo tesi, concentrati, determinati a dare il massimo, le parole non servono, ci vogliono i fatti.

Il ciclismo non è come la politica dove vincono tutti e non perde mai nessuno. Non è come il calcio, dove puoi perdere per un rigore negato: qui non ci sono trucchi o errore, qui c’è uno che taglia il traguardo con le braccia al cielo e gli altri che arrivano con lo sguardo basso.

Guardo fuori dal finestrino e vedo una città assonnata: c’è un signore anziano a spasso con il suo bassotto, c’è qualche runner mattiniero, c’è anche qualcuno che sta rientrando a casa traballante sulle gambe, dopo una notte di bagordi.

Arriviamo in Piazza Castello più o meno insieme agli altri team, ognuno si avvicina alla sua bici, in silenzio, siamo tutti al massimo della concentrazione. Intorno ai grandi nomi c’è il solito capannello di gente: vedo Sagan, il primo ciclista slovacco a laurearsi campione del mondo. Ride e scherza, ma è solo un modo per combattere la tensione. Poi c’è Gaviria, un colombiano soprannominato El misil, anche se a lui non piace.

Lui è uno che può dire la sua in un arrivo in volata. E poi vedo Ewan, un australiano, piccolino, leggero come una piuma: quello se in volata ti prende un metro poi è dura.

Saliamo in sella, uno si fa il segno della croce, un altro si tocca i maroni. Davanti a noi 290 chilometri d’asfalto, qualcuno si sta chiedendo se riuscirà a vincere, qualcun altro se riuscirà ad arrivare.

Un primo tratto in città praticamente in passeggiata e poi, finalmente, partenza. Sappiamo bene quello che dobbiamo fare e così, a pochi chilometri dal via, scattiamo. Siamo in dieci ma, quello che più conta, siamo in quattro della Novo. Con me c’è Umberto, l’altro italiano del team; e poi ci sono Joonas e Charles.

Mentre forziamo l’andatura mi viene in mente l’inizio di questa avventura.

Il giorno che venni al mondo, il 28 ottobre 1988, era un venerdì e pioveva a dirotto. Naturalmente non mi ricordo niente di quel giorno perché ero impegnato a imparare a piangere e a respirare. La mia nascita non fu un grande evento per il paese e tutto sommato passò nell’indifferenza generale, a parte la gioia e l’emo-

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zione dei miei genitori.

In realtà nei bar e nelle strade di Camposampiero si parlava d’altro: Senna e Prost di lì a poche ore se le sarebbero date di santa ragione. La domenica infatti si sarebbe disputato, in Giappone, l’ultimo gran premio della stagione di Formula 1 con i due piloti della Mc Laren impegnati a disputarsi il primato. Tra i due non correva buon sangue e solo poche settimane prima, in Portogallo, Senna aveva spinto Prost contro un muretto rischiando di compromettere la gara e la stagione di entrambi. Alla fine erano volate accuse e parole grosse e, insomma, se l’erano promesse alla prossima e ultima gara.

Il paese era diviso, come accade spesso nello sport: i dualismi fanno vendere più “ombre” nei bar e più copie dei giornali che naturalmente sguazzano in queste polemiche. Mazzola o Rivera, Coppi o Bartali, Benvenuti o Mazzinghi sono nomi di atleti che non ho mai conosciuto ma che, ancora oggi, infiammano i ricordi dei tifosi.

Tanto per la cronaca, subito dopo il via il motore di Senna si spense e il brasiliano riuscì a riattivarlo sfruttando una lieve pendenza della griglia di partenza. Prost ne approfittò e prese il comando della corsa anzi, per entrare nel merito della mia storia, andò in fuga. Ma Senna andava forte, forte davvero; iniziò a rincorrere, a superare avversari, uno dopo l’altro, inesorabilmente. Gli spettatori urlavano ad ogni sorpasso, urlarono per tredici volte quel giorno. Si urlava all’autodromo e si urlava nei bar di tutto il mondo, da Rio de Janeiro a Camposampiero. Finché, durante il ventottesimo giro, approfittando di un doppiaggio, Senna prese la testa della corsa e diventò imprendibile. Il titolo era suo per la gioia dei suoi tifosi, di chi aveva scommesso sul suo trionfo e, diciamolo francamente, del suo conto in banca.

I primi anni della mia vita trascorsero in serenità. Una famiglia molto unita, due genitori presenti e responsabili. A scuola andavo bene, nulla di clamoroso, ma non ho mai avuto grandi problemi.

Si può dire che la mia vita cambiò quel giorno, nella bottega di Luciano, quando caricammo la Rebellato gialla nella macchina di mio padre. Durante il viaggio verso casa, ogni tanto mi giravo a controllarla, come se fosse un malato in ambulanza. “Tutto bene?” avrei voluto chiederle,” hai freddo? Hai sete? In realtà non stavo più nella pelle, stavo praticamente delirando di gioia e non vedevo l’ora di provarla.

Fino a quel momento l’unica bici da corsa alla quale mi ero avvicinato era quello di mio padre. Me la ricordo grande. Grande e intoccabile. Io mi accontentavo della mia mountain bike con la quale mi buttavo giù per i campi, soprattutto in discesa perché l’alta velocità mi fa impazzire.

Ma con la Rebellato era diverso. Con quella mi sentivo un’altra persona, imbattibile, pronto per le grandi sfide. Mia madre, a dire la verità, era un po’ preoccupata. La sentivo la sera, in cucina, mentre si lamentava con mio padre.

“Ma cosa ti è venuto in testa? Una bici da corsa. E’ un ragazzino, sta tutto il giorno per strada, in paese mi hanno detto che in discesa va come un matto”.

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“Ma no, Cristina, dai, ha la testa sulle spalle” rispondeva mio padre apparecchiando la tavola.

“Ancora per poco. E comunque obbligalo a mettersi il caschetto”.

“Ce l’ha già, stai tranquilla”.

“Io non sto tranquilla per niente, siete due incoscienti, solo che lui è un bambino e tu un uomo. E adesso vai a lavarti le mani che è pronta la cena”.

Nell’arco di qualche settimana sorse un altro problema. Sentivo che con quella bici non avevo rivali: salite, discese, sprint, non ce n’era per nessuno. Insomma avevo voglia di partecipare alle gare.

Così, quando vidi la locandina di una corsa per la categoria giovanissimi, presi la mia decisione. Approfittai di una buona interrogazione in matematica, presi un bel respiro e mentre mia madre ci metteva la pasta nel piatto partii alla carica.

“Oggi ho preso sette e mezzo in matematica” “Scritto o orale”? mia madre si tolse il grembiule “Orale, ma allo scritto ho già un buon voto”.

“Bravo, stai facendo progressi” commentò mio padre mentre grattava il parmigiano nel piatto.

“L’anno prossimo, me lo avete promesso, potrò iniziare a gareggiare con la bici” “Sì sempre se sarai promosso”.

“E che problema c’è? Ho tutti bei voti. Già – presi un bel respiro- Però, nel frattempo, domenica ci sarebbe una garetta. Una corsa per giovanissimi. E’ proprio qui vicino, a Fiumicello, un paio di chilometri da casa” presi una lunga pausa grattando il parmigiano nel piatto. “Papà, posso andare”?

Mia madre guardò mio padre con aria di rimprovero “Ci avrei giurato. Gli hai dato quel giocattolo e adesso ne paghiamo le conseguenze” fu il suo unico commento.

“Ma dai, mamma, è una corsa per ragazzini, non c’è nessun rischio”.

Mio padre disse solo “Poi vediamo” ma per me era un sì. Mia madre alzò gli occhi al cielo e questo confermò la mia ipotesi. Ce l’avevo fatta.

La notte prima della gara non riuscii a chiudere occhio. Costrinsi mio padre ad accompagnarmi parecchio tempo prima del via. Mi venne dato un numero, il mio primo pettorale, indossai il caschetto. Man mano che arrivavano gli altri concorrenti, mi rendevo conto che alcuni di loro erano grandi il doppio di me, qualcuno addirittura con qualche pelo sulle guance mentre io ero proprio un bambino, forse addirittura più piccolo della media per la mia età.

Era l’inizio di settembre, una giornata tipicamente autunnale con la nebbia nelle prime ore del mattino che lentamente si alzava verso i colli. La corsa prevedeva un percorso di circa 5 chilometri, più o meno in piano. Dopo la partenza cercai di rimanere nel gruppo dei primi. “Tanto poi li brucio nello scatto” mi dicevo mentre gli spettatori lungo il percorso ci incitavano a gran voce. Tenevo soprattutto d’occhio un

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paio di ragazzini che mi erano stati indicati come i più forti. E, in effetti, erano loro a fare l’andatura.

“L’importante è restare qui, vicino a loro, e poi a un centinaio di metri dal traguardo li infilo come tordi nello spiedo” continuavo a ripetermi.

Solo che a un centinaio di metri dall’arrivo furono loro a partire, io cercai di reagire ma…niente da fare, andavano più forte.

Mi classificai sesto o forse settimo, comunque a pochi metri dai primi. Ma non ero soddisfatto perché io, quella gara, la volevo vincere.

“Sei stato bravo” mi disse mio padre sulla via del ritorno.

“Non abbastanza. Sarei stato bravo se avessi vinto”.

“Ma dai, Andrea, quelli erano grandi il doppio di te. Alla tua età un anno o due fanno la differenza, credimi”.

Sì, erano belle parole, ma non riuscivano a lenire la mia delusione. Ero affranto, deluso, mi veniva da piangere e mio padre mi disse una cosa che ancora oggi ricordo con grande affetto.

“Nello sport non si perde mai – sussurrò chiudendo la portiera della macchina- o si vince o si impara” Tornato a casa scaricai la bici, la pulii pensando che il mio esordio non era quello che avevo immaginato, che non ero forte come pensavo ma, soprattutto, che gli altri erano troppo più grandi di me. Quella sera, a cena, ero taciturno: mi madre aveva preparato la polenta ma io non avevo tanta fame “Andrea, guarda che è buonissima. C’ho messo pure i funghi”.

“Lo so, mamma, ma non ho fame”.

“Te la stai prendendo troppo” disse mio padre “vedrai che l’anno prossimo andrà meglio. Quest’anno la stagione è praticamente finita, hai fatto questa gara proprio perché era dietro casa. Adesso pensa ad allenarti e irrobustirti. Quindi mangia la polenta, tanto per cominciare”.

L’anno prossimo. A me sembrava dovesse passare un secolo, mesi e mesi senza gareggiare. Non sapevo se ce l’avrei fatta.

“Bene ragazzi, 4 minuti. Avete 4 minuti di vantaggio. Dai, dai, continuate a spingere” qualcuno dall’ammiraglia ci da indicazioni sulla nostra fuga. Stiamo bene, ci alterniamo al comando del gruppetto per non stancarci troppo. Noi della Novo stiamo collaborando bene con gli altri ragazzi italiani Fausto, Luca, Mirco e Alessandro. Ma anche con gli stranieri, è bastato uno sguardo d’intesa.

“Dietro che fanno?” chiedo ai tecnici “Per il momento nulla, sembra siano in gita – mi risponde Massimo Podenzana dal finestrino dell’ammiraglia- Ma tu non preoccuparti di quello che fanno dietro, pensa a quello che stai facendo tu. E’ una cosa grossa”. Massimo Podenzana, il Pode, un ligure sempre sorridente, una vera rarità. Come ciclista è una leggenda: 30 anni di esperienza, due volte campione nazionale su strada, leader del Giro d’Italia per nove

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giornate nel 1988. Ma soprattutto la vittoria di tappa nel tour de France nel ‘96 dopo essere andato in fuga solitaria a 4 chilometri dal traguardo. Insomma uno che di fughe se ne intende.

“Piuttosto come va con la glicemia? – mi chiede il dottore -Tutto bene?”

“Ma che vuoi che me ne freghi della glicemia. Comunque sì, nessun problema”.

“E tu, Umberto?”

“Sì, tutto a posto” “Bene, allora datevi da fare” Siamo in pianura, verso Ovada. Aumentiamo l’andatura. Le telecamere di tutto il mondo ci stanno seguendo e immagino che in paese saranno tutti incollati davanti alla televisione. Mio padre e mia madre a casa, seduti in soggiorno, emozionati. Mia moglie Alessia con in braccio il piccolo Filippo, un occhio a lui e uno allo schermo. Chissà se anche lui avrà la mia stessa passione per il ciclismo, oppure magari diventerà un medico, un giudice, magari un architetto. Anche io ho frequentato l’università, dopo il diploma di perito informatico: un paio d’anni, ero iscritto a statistica, una facoltà dura. Poi ho fatto la mia scelta, la bici.

Vorrà dire che il mondo accademico se ne farà una ragione.

Di certo non lo forzerò, se avrà voglia, capacità e spirito di sacrificio, bene. Altrimenti è meglio cercare altre strade. Non sarò insomma uno di quei padri che la domenica mattina si sistemano a bordo campo, oppure lungo le vasche delle piscine e iniziano a urlare verso i loro figli frasi sconnesse di incitamento finendo con il terrorizzarli. Con il risultato che quelli un bel giorno piantano tutto. Per non parlare delle madri che sanno essere anche peggiori dei mariti. Una volta mi è capitato di assistere ad una partitella di calcio di ragazzini, avranno avuto al massimo 10 anni, dove una “signora” in pelliccia ha urlato frasi irripetibili verso un compagno di squadra di suo figlio reo di non avergli passato il pallone al momento giusto. Naturalmente la mamma di questo bambino si è risentita: insomma è scoppiato un parapiglia che ha coinvolto i mariti, gli amici, gli altri genitori. Insomma uno spettacolo indegno: i bambini fermi in mezzo al campo che guardavano le tribune dove i genitori se le cantavano e suonavano di santa ragione.

I miei, per fortuna, sono sempre rimasti ai margini della mia carriera di ciclista, anche l’anno successivo al mio debutto, quando sono entrato a far parte del GS Fiumicello, categoria giovanissimi. C’erano ragazzi più grandi e altri della mia età. Tra quelli più grandi c’era Marco Marcato, un ragazzo di San Donà di Piave, che andava veramente forte. Veniva dal pattinaggio a rotelle perché nella provincia di Venezia il pattinaggio era molto popolare. Sua madre lo aveva iscritto a un corso e lui aveva anche ottenuto buoni risultati prima che l’amore per il ciclismo lo convincesse a cambiare sport. Oggi è gregario di Fabio Aru e corre per la UAE Team nelle gare più importanti della stagione.

Io sognavo di tornare a casa con una coppa da esibire, da mettere sulla credenza, da far vedere agli amici, ai parenti. Insomma volevo un trofeo. Ma fu un’attesa lunga, tanti bei piazzamenti, ma quel maledetto

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primo posto sul podio tardava ad arrivare.

Oggi è la giornata ideale per una Milano Sanremo. C’è un bel sole e calma di vento quando scolliniamo il Passo del Turchino e ci buttiamo in discesa verso Genova. Abbiamo sei minuti di vantaggio dopo tre ore di gara. Mi sento bene e la discesa mi ha sempre dato un’ebrezza particolare. Mi piace la velocità, 70, 80 chilometri l’ora, con punte oltre i 100. Mi accartoccio intorno alla bici, divento un tutt’uno con telaio, ruote, pedali come se fossimo una cosa sola. Ho sempre avuto un rapporto molto fisico con la mia bici, mi piace curarla nei dettagli, naturalmente insieme ai meccanici. Ma in discesa è la sensibilità a fare la differenza: basta toccare troppo le leve dei freni, magari mentre sei lanciato sull’asfalto bagnato, e ti ritrovi a gambe all’aria e puoi farti anche molto male.

Arenzano, Varazze, Albisola, Spotorno. Qualcuno dice che la riviera di Ponente sia meno bella di quella di Levante. Beh, certo, il fascino delle Cinque Terre non si discute. Quei paesi a picco sul mare, la via dell’amore, le vigne basse dove per vendemmiare ti devi mettere in ginocchio e spaccarti la schiena. E poi, come risultato, lo Sciacchetrà, un vino fantastico, ammesso che tu riesca a trovarne ancora una bottiglia genuina, cosa non facile.

Con mia moglie siamo andati un’estate in vacanza da quelle parti e ne ho un bellissimo ricordo. Si prende il treno dalla stazione di La Spezia e poi c’è solo da girare a piedi per i “carrugi” di Vernazza, Corniglia, Manarola con il profumo del pesto che ti fa compagnia. Il ricordo più bello è quello dei porticcioli con le barche dei pescatori tirate in secco. Erano lì, ferme, sembravano riposare dopo tante miglia di fatica, ma pronte a ripartire.

Però il Ponente non è da meno. Me ne accorgo mentre passiamo per Spotorno, davanti all’isolotto di Bergeggi, subito dopo Savona: un’oasi naturalistica dove non ti puoi avvicinare se non a nuoto o in canoa. Un mare incredibile che d’estate diventa la meta preferita dei turisti di tutto il mondo. Anche se a ferragosto diventa difficile parcheggiare non dico un’auto, ma persino una bicicletta.

Ferragosto, un giorno storico, almeno per me. Quel giorno di tanti anni fa si correva nella categoria esordienti. Avevamo tutti 13, 14 anni e io restavo un po’ piccolino rispetto ad altri ragazzi, però non mi arrendevo mai e poi potevo contare sulla mia velocità in volata.

In quegli anni correvo con una Fondriest bianca perlata, una bici che amavo molto: mio padre ha conservato il telaio in garage, insieme a quello delle altre mie biciclette. Ogni tanto, quando sono a casa, mi piace entrare in quel garage, rivedere le mie bici, accarezzarle. Ognuna di loro rappresenta un ricordo indelebile della mia carriera e la Fondriest bianca perlata, beh, quella è davvero speciale.

Quel giorno di ferragosto si correva in provincia di Padova, 30 chilometri, la distanza giusta per rimanere nel gruppo e giocarsi le carte migliori negli ultimi metri. Solo pochi giorni prima ero rimasto incollato davanti alla televisione per vedere Fiona May vincere l’oro nel salto in lungo ai mondiali di Edmonton, in

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Canada. Fiona May, grande atleta. Ecco, se non avessi avuto questo amore per la bici, forse avrei potuto dedicarmi all’atletica: mi piacciono gli sport individuali, quelli dove sei responsabile dei tuoi errori, ma anche artefice dei tuoi successi. In quale specialità? Ma non c’è neanche da pensarci su, i 100 metri piani.

Qui non c’è tattica, devi solo essere veloce, tenere la testa bassa nelle prime falcate, non guardare gli avversari, concentrarti solo sul filo di lana perché è lui il tuo unico avversario. Devi essere un po’ pazzo, forse un po’ nevrotico per correre i 100 metri. Dieci secondi, anche meno, e in quei dieci secondi ti giochi tutto: anni di sacrifici, di allenamenti massacranti, di diete, pesi, allungamenti, di rinunce.

Chissà se in quei 10 secondi ha il tempo per pensare, per ricordare la tua vita, i tuoi inizi, le tue prime vittorie. In 10 secondi non hai tempo per pensare, per respirare o per morire come urlava Galeazzi nelle sue telecronache. Però sono sicuro che, anche se hai solo 10 secondi a tua disposizione, la vita ti passi davanti come un film: un giorno mi piacerebbe chiederlo a Bolt! Sì, magari.

Dunque il giorno di ferragosto del 2001, a pochi giorni dalla tragedia che avrebbe per sempre cambiato il mondo, sentivo che era arrivato il mio momento. Avevo ottenuto tanti buoni risultati, tanti arrivi in volata, ma la vittoria no. Non ero riuscito a portare a casa quella maledetta coppa.

Ma adesso basta, mi dicevo lungo il percorso, oggi è il mio turno. Devo solo rimanere qui, nel gruppo di testa, anzi dobbiamo rimanere qui, io e la mia Fondriest bianca perlata. Mi sento bene, non sto faticando a tenere l’andatura anche se vicino a me ci sono ragazzi grandi e grossi, almeno io me li ricordo così. C’è uno di Padova con la maglia bianca e celeste, è uno forte, così mi hanno detto, uno che ha già vinto.

A 300 metri dall’arrivo “Rambo” si alza sui pedali e parte come una schioppettata. Gli altri sono sorpresi, ma io no. Avevo visto un lampo nei suoi occhi pochi istanti prima dello scatto. Sono il primo a reagire, prendo la sua ruota.” Rambo” spinge come un ossesso, ma io sono lì, gli altri a 10 metri. Non si gira, sa che sono incollato alla sua ruota, che ce la stiamo giocando io e lui.

Al momento giusto, saranno mancati 70/80 metri all’arrivo, mi sposto sulla destra, quello mi vede con la coda dell’occhio e mi stringe: ma è troppo tardi, non ci sono più. L’ho superato a sinistra e mi sto involando verso il traguardo. Sono troppo veloce, non mi può riprendere, bye bye “Rambo”, è fatta… è fatta…è fat… ma porca put…“ Accade l’impensabile: mi si sfila il piede dal pedale, rischio di perdere l’equilibrio e cadere sul traguardo, non posso più spingere, vedo l’arrivo che mi viene incontro ma non posso far niente per accelerare. Posso solo sfruttare l’abbrivio, aspettare e pregare, pregare e aspettare. Dieci metri, cinque, due, alzo le braccia al cielo. Si tratta di secondi, anzi frazioni di secondo, ma mi sembra una vita. Ho vinto, questione di centimetri, ma ho vinto.

Mio padre è il primo a venirmi incontro ad abbracciarmi in silenzio, ma qualche lacrima gli riga il viso. E’ felice perché sa bene quanto questa vittoria fosse importante per me, per il mio morale, per la mia squa-

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dra.

Entro in casa stringendo al petto la mia coppa, mentre mio padre scarica la bici dalla macchina. Mia madre non può credere ai suoi occhi luccicanti mentre si asciuga le mani sul grembiule. Mi accarezza, mi bacia sulla testa ancora sudata.

Metto il trofeo sulla credenza, poi vado a farmi la doccia. Resto a lungo sotto il getto dell’acqua bollente, anche se fa un caldo bestia. Rivivo i momenti salienti della corsa, mi sento imbattibile adesso, non vedo l’ora di tornare a gareggiare. Poi scendo in garage, vado a salutare la mia Fondriest, l’accarezzo come si farebbe con una cosa o una persona cara. Mi giro, mio padre è lì, sorride, penso che oggi sia fiero di me.

Abbiamo un vantaggio di meno di 6 minuti quando affrontiamo i Capi: Capo Mele, Capo Cervo, Capo Berta.

Possono sembrare tanti, ma in realtà ci informano che dietro hanno iniziato a tirare. So già che presto ce li troveremo tutti attaccati.

Io non ho mai pensato di poter fuggire dal diabete. Nel settembre del 2004 correvo per l’UC Giorgione, la squadra più forte del Veneto, una società con oltre 100 anni di storia. Si iniziava a fare sul serio: ritiri, allenamenti 2/3 volte a settimana, l’ambizione di vincere nelle categorie allievi e juniores.

Io stavo andando forte. Fin dalle prime gare della stagione mi ero messo in luce per alcuni piazzamenti e qualche vittoria. Poi, verso la fine della stagione, iniziai a sentirmi sempre stanco e, quel che è peggio, ad accusare i crampi dopo appena un’ora di allenamento. Fino a quel momento non sapevo neanche cosa fossero. Mi sentivo molto giù, la notte poi era diventata un incubo. Bevevo tre litri d’acqua, andavo continuamente in bagno.

Lo studio del medico era modesto: poltroncine in plastica nella sala d’attesa, qualche rivista stropicciata, una copia della Tribuna vecchia di una settimana.

“Ciao” Un bambino di otto, dieci anni si era avvicinato. “Ciao” gli risposi mentre la mamma sorvegliava che non mi desse fastidio. Era una donna trasandata, sfatta dalla fatica, probabilmente si era presa un paio d’ore di permesso dal suo datore di lavoro. Aveva l’aria di essersi alzata presto e di non vedere l’ora di tornare a dormire. Ma ancora doveva preparare la cena, fare il bagno al bambino, lavare i piatti…

“Devi vedere il dottor Ferraris?”

“Sì, penso di sì” “Ma hai anche tu il diabete?”

“No, non credo”. Mi sembrò deluso dalla mia risposta o forse si stava chiedendo” E allora che ci fai qui?”

Continuava a fissarmi in silenzio, forse avrebbe voluto farmi altre domande quando la mamma lo riprese “Giacomo, non dare fastidio, vieni a metterti seduto”.

“Ma no, signora, quale fastidio?”

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“Scusalo, sai, in realtà è timido, ma qui nello studio di Ferraris cerca sempre qualcuno con cui parlare.

D’altra parte è logico, un po’ d’ansia c’è sempre…”

Io continuavo a non capire perché fossi lì anche perché mio padre era chiaramente preoccupato, cercava di distrarmi, ma in realtà leggevo nei suoi occhi la tensione accumulata in quelle settimane. Forse aveva intuito qualcosa leggendo gli esami del sangue che avevo fatto pochi giorni prima: di certo non capiva molto di valori glicemici, ma di certo aveva parlato con qualche amico al bar più esperto di lui, magari con qualche medico.

“Non devi preoccuparti – continuava a ripetermi – sarà una cosa da nulla, magari dovuta all’età”. Ma era proprio il fatto che continuava a ripetermi queste parole, come una litania, che mi faceva preoccupare. E poi da qualche giorno mia madre non sorrideva e questo, per me che ero abituato alla sua perenne allegria, suonava come un campanello d’allarme. Una sera, rientrando in casa, li sorpresi a discutere in soggiorno, ma smisero appena sentirono i miei passi nel corridoio.

“Beh, che succede?”

“No…niente…” ma erano chiaramente imbarazzati.

Un’infermiera magrolina ci introdusse nella stanza del dottor Ferraris. Era un medico anziano, con il camice che gli tirava sullo stomaco, frutto di qualche birra di troppo con gli amici. Ci fece accomodare e studiò le analisi in silenzio, toccandosi ogni tanto la punta del naso. Sulla parete alle sue spalle il diploma di laurea, diversi attestati di partecipazione a congressi, seminari, conferenze in Italia e all’estero. E, al centro della parete, un’immagine di Padre Pio quasi a dire che dove la scienza non può arrivare è la fede a doverci dare le giuste risposte.

Poi si tolse gli occhiali e mi guardò dritto negli occhi.

“Devo dirti un paio di cose, una brutta e una bella” In quel momento mi tremavano le gambe e mio padre teneva lo sguardo rivolto verso la punta delle sue scarpe.

“Andrea, purtroppo ti devo dire che hai il diabete” Io non sapevo neanche cosa fosse il diabete. Quindi guardavo il medico e guardavo mio padre in attesa di spiegazioni.

“Nessun problema, si può tenere sotto controllo. Al momento non esiste una cura definitiva, però con una corretta alimentazione e alcune punturine potrai fare la tua vita di tutti i giorni” Ero senza parole. Il diabete, a me. E che cos’è sto’ diabete? E poi perché proprio a me?

“Solo che io, tutti i giorni, vado in bicicletta e con i crampi le assicuro che…”

“E qui viene la bella notizia. Potrai continuare ad andare in bicicletta e, con una cura adeguata, i crampi resteranno solo un brutto ricordo”.

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Queste parole, per me, suonarono come una bella musica, una poesia per le mie orecchie. Non ho mai avuto problemi con il diabete, anche adesso che sto correndo la Milano -Sanremo, il diabete è l’ultimo dei miei problemi, proprio come diceva il dottore.

Capo Mele, Capo Cervo, Capo Berta: strappi duri, ma non impossibili. Un tempo era il Passo del Turchino a fare la selezione, ma oggi con gli allenamenti moderni e la tecnologia delle nostre bici, il Turchino non fa più paura.

Quando ero ancora un dilettante la Milano Sanremo mi teneva incollato davanti alla televisione; erano gli anni di Felice Pozzato, un vicentino che vinse l’edizione del 2006 con uno scatto nel finale molto ben protetto dai compagni di squadra, Bettini e il campione del mondo Tom Boonen, che si sacrificarono per la sua vittoria. E proprio il lavoro del gigante belga, era alto più di un metro e novanta, sta a sottolineare il valore del gioco di squadra in una gara dura e selettiva come questa.

Proprio in quell’anno passai dilettante con una squadra molto forte. Erano stati selezionati i ragazzi più promettenti tra Toscana e Veneto e io ero stato chiamato a farne parte. Avevo 18 anni, tanta voglia di arrivare e questo primo ingaggio voleva dire tanto per me. Innanzitutto era un riconoscimento concreto dopo tanti sacrifici; poi stava a significare che anche con il diabete avrei potuto competere ad alti livelli. E infine, pecunia non olet, iniziavo a guadagnare qualcosa, a essere indipendente.

La squadra si chiamava Veloce Club Breganze e io ne ero il capitano. E non è una cosa da poco: ti senti addosso il peso della responsabilità, i ragazzi ti guardano, si aspettano delle risposte, sanno che la tua vittoria sarà la loro vittoria.

Quando arrivai alla Breganze mi accolse il direttore sportivo Carlo Finco, un ex gregario di Bugno al quale sono rimasto molto affezionato.

Le sue prime parole furono: “Ora sono gli altri che devono stare attenti a te”. E aveva ragione. Carlo è un grande personaggio, di poche parole come capita spesso a noi veneti, ma con un cuore grande come una casa. Ancora oggi si dedica con passione al ciclismo dei ragazzi, dei dilettanti e lo fa con un amore che è un esempio per tutti quelli che lo hanno conosciuto.

L’8 settembre del 2010 si correva l’Astico - Brenta, una gara classica con quasi 100 anni di storia. Quell’anno l’edizione si presentava particolarmente interessante per la presenza della nazionale dilettanti russa e del tecnico della nazionale dilettanti, Marino Amadori. 182 chilometri con un’acqua torrenziale e un freddo che ti ghiacciava i muscoli. E’ una corsa che attira ciclisti da tutto il mondo, è una classicissima per i dilettanti che si corre su un territorio impervio, tra i due fiumi Astico e Brenta, con ripide salite a susseguirsi una dopo l’altra. I miei compagni me l’avevano promesso: “Oggi ti portiamo fino al traguardo. Poi, negli ultimi metri, te la devi vedere da solo. Ma stai tranquillo che non facciamo scappare via nessuno. Puoi metterci una mano sul fuoco”.

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Furono di parola e respinsero ogni attacco: c’era sempre uno con la maglia del Breganze pronto a lanciarsi all’inseguimento del fuggitivo.

Scollinammo in 20 o forse 30, tutta gente pronta a lanciarsi in discesa a velocità folli. I ragazzi del team fecero un lavoro prezioso e mi consentirono di restare nel gruppo di testa. Ma, a parte gli avversari, erano il freddo e la pioggia i miei nemici. Stavo congelando e chiesi all’ammiraglia di passarmi una giacca a vento per ripararmi.

“Ma cosa vuoi metterti?” Mi urlò Carlo dal finestrino “Pensa a pedalare, è la tua occasione, fregatene della pioggia, caz…!!”

Già, facile a dirsi, ma su quella sella ci stavo io, lanciato sull’asfalto bagnato insieme ad altri pazzi che sarebbero stati disposti a farsi tagliare quello che avevano di più caro pur di arrivare per primi sul traguardo.

70/80 chilometri orari, se tocchi i freni rischi di ritrovarti in un dirupo, il pubblico ti scorre accanto, non sono facce sono solo ombre. Tutta la tua concentrazione è su quelle due ruote, tutto il tuo obiettivo e restare incollato ai primi e poi infilarli negli ultimi metri. Il tuo sogno è entrare nella gloria, scrivere il tuo nome a fianco di quello di grandi campioni del passato.

Mi preoccupava soprattutto il brasiliano Rafael Andriato, che l’anno scorso aveva vinto il Giro del Veneto e che poteva contare sul compagno di squadra Filippo Fortin. E poi ci sono Davide, Alberto e Sonny della Zalf Desiree Fior. Ma anche io posso contare sul mio compagno Alex Simoni, sento di potermi giocare le mie carte.

L’arrivo a Rossano Veneto è allo sprint, proprio come mi aspettavo. In volata riesco a infilarmi, a guadagnare quel metro che è prezioso come un conto in banca. Non lo mollo più quel metro, mi devi sparare se vuoi quel metro perché, certo, adesso che l’ho preso non te lo restituisco più. Alzo le braccia al cielo e urlo, alzo le braccia al cielo e urlo, alzo le braccia al cielo e urlo. Un urlo lungo, straziante, misto al pianto: un urlo contro il diabete, contro la fatica, contro il freddo. Ma è anche un urlo di gioia per me stesso, per i miei genitori, per Carlo, per i compagni di squadra.

Quel giorno, l’8 settembre del 2010, con quell’urlo, capii che la mia vita era cambiata: sarei diventato un professionista.

E adesso eccomi qui, alla Sanremo, con questo gruppetto di incoscienti mentre dietro hanno ripreso a tirare e presto ce li avremo addosso. Masnada si allunga di una decina di metri e imbocca la salita della Cipressa.

Inizio a sentire un rumore metallico. E’ un rumore quasi impercettibile, all’inizio, poi sempre più vicino.

Sono i rocchetti dei cambi di cento, centocinquanta corridori che per quasi sette ore ti sono corsi dietro.

Qualche voce, qualche bestemmia sussurrata in un dialetto che non conosci. Qualche richiesta di aiuto a un compagno di squadra, qualche incitamento da un’ammiraglia. E poi eccoli, ti passano accanto, non ti dicono niente mentre la folla assiepata lungo la strada li incita. E tu non ne hai più.

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Lasciano una scia, un odore acre di sudore che ha il sapore del sogno per chi, a questo punto della corsa, inizia una nuova avventura, quella di una possibile vittoria. Tu ti fai da parte, sai di aver compiuto la tua impresa e sei pronto a ricevere i complimenti di chi ha creduto in te.

Per quasi sette ore siamo stati in testa alla corsa, una fuga iniziata subito dopo il via. Sono tante sette ore, ti danno il tempo per pensare, per ricordare. Anche se siamo un piccolo gruppo, in realtà ciascuno di noi è rimasto solo con i suoi pensieri. Durante una fuga così lunga hai tempo per rivivere le tappe della tua vita, quelle belle e quelle brutte. Sono i ricordi che ti danno la forza di pedalare, i volti di chi ti è stato sempre vicino Sono ricordi confusi, che si accavallano mentre spingi sui pedali, mentre la fatica ti morde i polpacci. Mentre tu sai che adesso hai un solo obiettivo: tagliare il traguardo.

Da questo momento inizia un’altra gara, la loro gara, quella per la vittoria. Il gruppo è rimasto lì dietro, in attesa, senza fretta. Perché il gruppo non sbaglia mai. Mentre mi passano riconosco qualche volto, quello di qualche campione favorito anche se alla Sanremo favoriti non ce ne sono mai. E’ il bello di questa classica: tutti possono portarsi a casa la vittoria. Non certo noi della fuga che abbiamo speso ogni briciola di energia.

Sono gli ultimi chilometri di una gara dove non hai più niente da chiedere, hai solo tempo per assaporare il significato della tua fuga, di quello che ha voluto dir per la tua squadra, il Team Novo Nordisk, quello dei ciclisti con il diabete.

E’ stato il mio primo ingaggio da professionista, anche se dopo la mia vittoria nella Astico Brenta non sono mancate le occasioni.

“Ti hanno cercato – mi diceva Carlo – vorrebbero ingaggiarti. Ma il tuo diabete non ti ha aiutato. Non se la sentono, è una responsabilità troppo grossa” “E quando mai” rispondevo io. Ma non mollavo, sapevo che prima o poi l’occasione buona sarebbe arrivata.

Anche perché quell’anno andavo veramente forte, sette, otto vittorie, insomma ero pronto per il grande salto.

L’occasione arrivò nel 2013. Carlo mi chiamò al telefono.

“Ciao Andrea, tutto bene? Senti mi ha chiamato Vassili Davidenko” “Scusa non ho capito. Chi ti ha chiamato?”

“Vassili Davidenko. E’un campione russo, ha partecipato alle Olimpiadi nel ’96, al Giro d’Italia…insomma è uno con le palle” “Sì, credo di aver capito” “Insomma Vassili si è ritirato dalle gare e sta mettendo insieme una squadra di professionisti. Gente giovane, con voglia di fare. Ti vuole incontrare”.

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“Già e dopo tante belle parole viene fuori la storia del diabete e non se ne fa più niente” “E qui sta il bello. Il diabete non sarà un problema, anzi è il motivo per cui Vassili ti vuole conoscere. La squadra sarà composta da soli atleti con il diabete “ “Tutti con il diabete?”

“Proprio così. Ragazzi provenienti da tutto il mondo per dimostrare che con il diabete si può fare tutto, magari anche vincere una Milano Sanremo. Il team si chiamerà Novo Nordisk, una casa farmaceutica che produce insulina.”

“Sì, la conosco. Carlo mi tremano le gambe, è una notizia bellissima” “Dai, passo a prenderti, Vassili ci aspetta a Verona” “Quando?”

“Ma come quando, oggi” Durante il viaggio in macchina continuavo a fare domande a Carlo, non riuscivo a stare zitto, ma lui non sapeva rispondere.

“Ma sei sicuro che mi prendono?”

“Ti ho solo detto che ti vuole incontrare” “E quanti saremo?”

“Boh, dieci, quindici” “E a quali gare parteciperemo?”

“Andrea non… lo… so” rispondeva spazientito scandendo le parole “ Raggiungemmo l’hotel dove ci aspettava Vassili. Fu un incontro veloce, in inglese, e io feci un po’ fatica ad esprimermi, ma quello che dovevo capire lo capii “La squadra è praticamente fatta - mi disse Vassili stringendomi vigorosamente la mano - ma per te un posto lo troviamo. Ci vediamo ad Alicante, per il raduno”.

Carlo mi guardava senza capire una parola di quello che stavamo dicendo, cercava solo di leggere nei miei occhi. E il mio sorriso a 32 denti fu la risposta più chiara. Firmammo il contratto in pochi minuti e me ne tornai verso casa con il mio primo ingaggio da professionista in tasca, un’emozione unica, avrei voluto mettermi a saltare di gioia. Ma adesso ero un professionista e dovevo stare attento a non esagerare.

Una volta lasciato l’albergo di Vassili, lontano da occhi indiscreti, saltai addosso a Carlo e lo abbracciai con una tale forza che quello momenti soffoca. “Fermo, Andrea, ma che fai? Così mi stritoli!!” urlava commosso, in fondo era una grande vittoria anche per lui e se lo meritava.

Qualche settimana dopo, ad Alicante, iniziava la mia esperienza tra i pro. Conobbi gli altri ragazzi del team, i medici, gli allenatori, i meccanici, i fisioterapisti, lo staff. Non ero abituato a tutto questo, la mia prima sensazione fu quella di sentirmi protetto, 24 ore al giorno. E non solo per quanto riguardava il diabete, che certamente veniva monitorato con attenzione, ma anche le mie esigenze, le mie debolezze, i miei riti. Il

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team è come un grande scudo sotto il quale noi atleti ci ripariamo dagli avversari e dal mondo esterno, dalla diffidenza, dal luogo comune. Se hai un problema fisico, psicologico, personale c’è sempre qualcuno del team pronto ad aiutarti e proteggerti. E questo, soprattutto per i ragazzi più giovani che si trovano a vivere lontano da casa, è molto importante.

Il lavoro di questi anni ha dato grandi frutti: ho ottenuto ottimi piazzamenti, ma mi manca la vittoria.

Certo tra i pro è più difficile, ma sono sicuro che prima o poi…

Ho avuto anche tante delusioni, una in particolare, nel 2017. Avevo partecipato alla Tirreno Adriatico in preparazione alla Sanremo. Ero caduto e mi si era gonfiata una gamba.

Il mercoledì sera ricevetti a casa la visita dell’antidoping e mi resi conto che la gamba mi faceva sempre più male e era diventata livida. Così andai al Pronto Soccorso, pensando che con un paio di antinfiammatori avrei risolto il problema.

Il medico di guardia era molto giovane, ma già esperto in traumi di questo tipo “Per caso lei è caduto?”

“Sì, qualche giorno fa, con la bicicletta” “Anche io, quando posso, vado in bici” “Sì…beh…veramente io lo faccio per mestiere” “Accidenti!!!Un professionista” “Già. Domenica devo essere a Milano. C’è la Sanremo” “Mmmhhhh….signor Peron….non so come dirglielo ma c’è un problema…qui c’è una brutta infezione” “Va bene, mi dia qualche pasticca, magari qualche pomata” “Vede Peron, non è un problema di pasticche o di pomate, è una faccenda un po’ più seria. In verità non credo che lei sia in grado di correre”.

“Ma sta scherzando, forse non si rende conto di quello che sta dicendo, la Milano Sanremo è una delle corse più importanti della stagione. Che sarà mai una gamba gonfia!!”

“Il problema non è il gonfiore, ma quello che il gonfiore significa. Nei prossimi giorni, prima che la terapia inizi a fare effetto, avrà grandi dolori, quella gamba non riuscirà a muoverla, figurarsi pedalare per duecento e passa chilometri” Mi crollò il mondo in testa, mesi di allenamenti buttati, la delusione dei compagni di squadra, la sofferenza di dover restare a casa, davanti alla televisione. E comunque quel giovane dottore non aveva torto: rimasi fermo per due mesi prima di tornare ad allenarmi e certamente la commissione medica non mi avrebbe concesso di prendere il via a quell’edizione della gara.

Mi mancano pochi metri, sono stremato, ma felice. Non ce la faccio ad alzarmi sulla sella, ma riesco a spingere sui pedali. Taglio il traguardo mentre tutti festeggiano il vincitore, ma anche noi del Team Novo Nor-

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disk abbiamo motivo per festeggiare: tutto il mondo ha saputo di noi, dei nostri sacrifici, del nostro diabete.

Certo guardo verso il podio e ho un po’ di invidia per chi salirà sul gradino più alto. Alaphilippe è un campione, si merita il successo anche se non saprà mai quanto questa fuga sia stata importante per me, per mettere in ordine i miei ricordi, le mie emozioni, le mie speranze.

Mentre tanti mi abbracciano, e qualcuno mi sorregge per aiutarmi a scendere dalla bici, mi viene da pensare a quanto mi sarebbe piaciuto prendere parte a quello sprint per la vittoria, la mia specialità. Magari arrivare alla Sanremo al top della forma, come ero in estate. Ma il corpo umano non è una macchina.

Mi resta l’enorme soddisfazione per un risultato che tutti noi del team abbiamo voluto con forza e determinazione.

Mi resta l’emozione della fuga, una corsa solitaria verso un traguardo immaginario, una gara che finisce dove inizia la gara.

Mi resta la fretta di tornare a casa per abbracciare Alessia e Filippo.

E poi mi resta il sogno. Ma questa, magari, sarà un’altra storia.

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Per me il ciclismo significa competizione, io sono nato con la voglia di vincere.

Non ho mai nascosto a nessuno di avere il diabete e non mi sono mai vergognato dei miei momenti tristi perché ho sempre potuto contare sul sostegno di chi mi è vicino come il mio team, la mia famiglia e la mia compagna. Il mio ricordo più bello è la maglia di Most Coragious Rider indossata al Tour della California: è stato un grande onore, per me, indossare quella maglia per due giorni e correre al fianco dei ciclisti più forti del mondo

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Charles Planet Ciclista Team Novo Nordisk

Umberto Poli Ciclista professionista Team Novo Nordisk

Capitolo IV La fuga di Umberto Gli piaceva arrivare presto, guardarsi intorno quando la sala era vuota. Aveva scoperto che i piccoli particolari si notano quando non ci sono clienti, quando la tensione per il servizio non è ancora montata. Si accorse così che una rosa del grande vaso sotto la finestra era sbocciata precocemente e che i petali avevano assunto un coloro sbiadito e presto sarebbero caduti. Alfredo era meticoloso, scrupoloso, probabilmente per i suoi dipendenti un rompicoglioni. D’altra parte era nato nel mese di settembre e il suo carattere aveva assunto, nel bene e nel male, le caratteristiche tipiche del segno della vergine.

Quando non indossava la giacca da chef, Alfredo era comunque molto attento al proprio abbigliamento: non indossava quasi mai la cravatta, a parte le occasioni formali, ma maglioni di cachemire e pantaloni di velluto a costa larga in inverno, Lacoste e fresco lana in estate. Per le scarpe solo modelli inglesi, con le stringhe, mai mocassini. Inorridiva davanti ad un paio di sandali alla tedesca, quelli con i lacci incrociati, tanto per intenderci, ma in cucina calzava sempre un paio di Crocs celesti, come un chirurgo in sala operatoria. Forse era un vezzo o forse la necessità di stare comodi per tante ore, in piedi davanti ai fornelli; certamente era un dettaglio che aveva imparato quando era sous chef in un ristorante stellato di Milano. Il ruolo del sous chef è fondamentale per l’organizzazione di un ristorante importante. Innanzitutto è lo chef in seconda, in grado anche di sostituire l’executive chef, il grande capo: deve quindi essere in grado di svolgere tutte le mansioni del capo cuoco quando questo è assente e garantire che la cucina funzioni senza intoppi.

E poi al sous chef fanno riferimento i diversi cuochi capo partita (chef saucier, chef poissonier, chef rôtisseur, chef garde-manger, chef pâtissier...), i commis di cucina e tutto il personale di cucina, incluso il lavapiatti.

Un lavoro massacrante, sei giorni a settimana, ma è anche l’unico modo per imparare a cucinare rubando i segreti dell’executive e cercando di inventare nuovi piatti all’altezza del ristorante. I primi tempi Alfredo era molto intimorito: il suo capo era uno di quelli da far tremare il sangue nelle vene. Un vero e proprio genio dell’alta cucina, osannato dalla critica e dai media, ma con un carattere dispotico, arrogante, presuntuoso da far invidia al Vittorio Sgarbi delle occasioni migliori. E d’altra parte Alfredo era alla prima

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esperienza importante: si era diplomato cuoco, aveva lavorato in alcuni ristoranti di Padova e di Verona prima di essere chiamato alla corte di Sua Maestà. Una grande prova di fiducia da parte sua, ma Alfredo capiva che quella sarebbe stata l’occasione della sua vita, non poteva sbagliare.

Nei due anni che aveva trascorso a Milano aveva imparato tanto, era anche stato costretto a subire rimproveri e umiliazioni pesanti, ma le aveva messe in conto. Poi con l’aiuto dei genitori e di una piccola banca locale si era deciso al grande salto: aprire un ristorante suo, “Il fogher”, piccolo, pochi tavoli, ma di alta classe. E i risultati non si erano fatti attendere: clienti soddisfatti, ottime critiche, al punto che adesso, Alfredo, aspirava alla prima stella Michelin. Non sapeva se e quando sarebbe arrivata, ma per Alfredo quella stella rappresentava un traguardo concreto.

Iniziarono ad arrivare i furgoni dei fornitori: Alfredo ispezionò personalmente le cassette di verdura, il pesce, la carne, sapeva che la materia prima è fondamentale per qualunque piatto e aveva scelto meticolosamente i produttori, i coltivatori e gli allevatori migliori. Per i vini si era affidato ad un’enologa giovane ma molto preparata: era una bellissima ragazza con due metri di gambe, ex giocatrice di basket e la sua presenza era sempre ben accolta dal personale. Oggi la cantina del Fogher poteva offrire ai clienti bottiglie di diverso valore, vini bianchi e rossi, mossi e fermi, ma tutti di altissima qualità.

Alfredo respinse una cassetta di capesante “Queste le porti alla trattoria qui davanti” disse al pescatore che giurava e spergiurava sulla freschezza del pesce. Ma lo sguardo di Alfredo pose fine alla discussione e il povero vecchio dovette ammettere che sì, erano fresche, magari un giorno o due…

Una volta controllata tutta la spesa, Alfredo indossò la giacca: era il segnale che, da quel momento in poi, i suoi assistenti erano tenuti al silenzio e al rispetto dei ruoli e delle regole.

Si andava in scena. **********

Io ho paura di due cose: le discese sul bagnato e le punture. Il che, per un ciclista professionista con il diabete, non è proprio il massimo. Ma quando sono lontano dalle gare il problema non si pone.

Oggi, ad esempio, è il giorno del girobar, una sgambata con un gruppetto di amici: un’oretta in bici, poi sosta al bar, e ritorno a casa. Certo, negli ultimi tempi, dopo la lunga fuga alla Sanremo, anche il girobar è diventato faticoso: tutti mi chiedono, tutti vogliono sapere. Mentre pedaliamo o mentre ce ne stiamo seduti davanti a un bel cappuccino caldo.

“E’ stata dura?”

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“Ma, sinceramente, hai mai pensato alla vittoria?”

“Che hai provato quando ti hanno ripreso?”

“E adesso, l’anno prossimo, che conti di fare?”

“Ma questo Alaphilippe, quanto è forte?”

Io cerco di rispondere a tutti, mi dispiacerebbe deluderli, sembrare supponente, perché in realtà io detesto la presunzione.

Ci sono tre cose che ho imparato dal ciclismo: una è che la presunzione non paga perché quando sei in sella alla tua bici o vai forte o vai piano, non ci sono vie di mezzo. E a niente serve tirarsela perché poi, alla fine, sono i risultati che contano.

Devi essere umile, rispettoso del tuo mezzo e dei tuoi mezzi, fisici e mentali. E poi devi rispettare le regole e gli avversari: e questa è la seconda cosa che ho imparato, non approfittare delle situazioni. Se qualcuno buca o deve fermarsi per esigenze fisiologiche, gli altri lo aspettano, non se ne approfittano. Nel ciclismo non servono le moviole perché non esistono i simulatori: non è come nel calcio dove ti butti a terra in area di rigore urlando di dolore quando il tuo marcatore non ti ha nemmeno sfiorato.

Nel ciclismo sono i vecchi corridori a indicarti la via del rispetto, ti dicono di scansarti quando devi dare il passo, ti insegnano a stare al tuo posto soprattutto se sei un giovane con la testa calda. Ci sono regole scritte, ma quelle che contano te le insegna la strada e l’esperienza, te le insegna il silenzio degli avversari perché non ti sei comportato bene, te le insegna lo sguardo basso dei tuoi compagni perché li hai traditi.

Per tutte queste ragioni il ciclismo è uno sport unico, uno sport individuale, ma anche di squadra, uno sport che non si insegna, ma si impara. Non esiste la figura del maestro come nel tennis, nel nuoto, nel golf.

Impari a pedalare da solo, prima sul triciclo rosso, poi sulla bici con le rotelle, al parco, magari aiutato dal nonno: impari a pedalare come hai imparato a parlare, a piangere, a camminare Poi, se sei un predestinato, dovrai imparare a soffrire. Potrai avere un fisico bestiale e un talento unico, ma se non saprai soffrire sarà tutto inutile, il ciclismo non si accorgerà di te e resterai sempre un amatore, uno che la domenica magari si alza presto, con il sole e con la pioggia, e se ne va con la sua bici in giro per i colli.

I miei allenatori mi hanno sempre detto che, per quanto forte tu possa essere, non sarai mai tu a scegliere di diventare un professionista, sarà il ciclismo a scegliere te.

E questa è la terza cosa che ho imparato dal ciclismo: io, Umberto Poli, ciclista con il diabete, sono stato scelto.

Una volta a casa mi sono fatto una doccia e mi sono sdraiato sul divano con la musica dei Darkness in sottofondo. La casa profumava di pulito, segno che mia madre doveva aver approfittato della mia assenza per fare ordine: da quando ero andato a vivere da solo, tra noi c’era un tacito accordo. A lei faceva piacere

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prendersi ancora cura di me e io fingevo di non accorgermene, ma detto tra noi, rientrare in una casa pulita fa sempre un bell’effetto.

Mi piace starmene sdraiato sul divano dopo un allenamento, anche se il girobar è poco più che una passeggiata, e godermi il mio tempo, il mio spazio. Presi una barretta di zucchero perché sentivo che la mia glicemia stava scendendo, quando squillò il cellulare.

“Umberto ? Che fai?” era la voce del mio migliore amico “Ciao Lorenzo…niente…mi riposo. E tu ?”

“Guardo la tele. Tra poco gioca il Verona. La vediamo insieme ?

“No, lo sai, il calcio non mi interessa” “Ma dai, giocavi pure bene, un bel difensore”.

“Altri tempi”.

“Senti, stasera hai impegni?”

“No, nulla di particolare” “Ok, allora, stiamo organizzando una zingarata” “Con chi?”

“I soliti. Giulio, Massimiliano e Luca. Pensavamo di andare a cena fuori. Hanno aperto un ristorante di cui si parla bene e vorremmo provarlo” “Perché no?”

“Allora passo a prenderti alle 8” “Sì, però non facciamo tardi. Domattina devo alzarmi presto” “Macché tardi, sei proprio un vecchio. E comunque al massimo alle 11 sei a letto. Dai, inizia la partita, ci vediamo dopo” “A dopo” Il ristorante “Al fogher” era molto curato e da fuori prometteva bene.

“O, ma non è che qui ci spennano?” disse qualcuno “Ma no, mi sono informato, prezzi nella media. E poi, una volta ogni tanto…”

Il gruppo di amici entrò e prese posto al tavolo prenotato da Lorenzo. Come centro tavola un mazzetto di fiori freschi.

“Meno male che hai chiamato, non c’è un tavolo libero” “Te l’ho detto, si mangia bene e si spende il giusto” “Dunque, raga, che mi raccontate?”

“Tu piuttosto, alla Sanremo, complimenti!”

“Ah, lascia stare”

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“No, no, hai fatto un miracolo… Tu e gli altri del team” “Anche troppi” “In che senso?”

“Eravamo troppi in quattro in fuga, bastavamo due, tre al massimo” “Io questa storia della fuga non la capirò mai. So che me l’hai spiegata un milione di volte, ma non riesco a capirla”.

“E’ il ciclismo, non farti troppe domande. Piuttosto, come vanno gli studi?”

“Bene” rispose Massimiliano “a giugno dovrei laurearmi” “Ottimo, e poi, che specializzazione prendi?”

“Pensavo anestesia. E’ una branca completa e poi c’è il fascino della sala operatoria” “E allora, se ti piace tanto la sala operatoria, perché non fai il chirurgo?”

“Troppa tensione. E poi, lo sapete, sono timido, faccio fatica a parlare con la gente, i pazienti che si lamentano, che ti raccontano le loro storie. Ho pensato che come anestesista li addormento e risolvo il problema” “Basta che poi riesci anche a risvegliarli” commentò Luca, una branda di due metri, seconda linea del Petrarca, il collo leggermente incassato tra le spalle e due mani che avrebbero stritolato un toro. Suo padre gli aveva messo il pallone ovale nella culla perché a Padova il rugby è seguito come il calcio a Rio de Janeiro o lo sci in Val Badia.

“Che hai fatto sulla fronte?”

“Niente, una tacchettata in mischia, tre o quattro punti. Comunque abbiamo vinto facile” “Ma il caschetto no, eh?”

“Ah.. roba da femmine: Piuttosto ho una bella notizia. Mi hanno convocato per la nazionale” “E vai, grande. Sei Nazioni?”

“No, magari, è un test match con l’Argentina. Gente tosta. Ma la partita vera c’è domenica prossima: il derby con Rovigo. Praticamente si ferma la città nemmeno fosse il Superbowl. Se perdi nei bar non ti guardano neanche in faccia, ma se vinci ti offrono il caffè. E pure la brioche” “Non mi sembri tipo da caffè e brioche. Secondo me, per colazione, ti mangi una bistecca con le patate” “Oppure un piatto di cavallette” intervenne Giulio “Oddio che schifo” “Guarda che è il futuro, presto la popolazione mondiale si ciberà di insetti, sono altamente proteici e praticamente non hanno costo”. Giulio era molto preparato sul tema. Dopo la laurea in agraria si era dedicato a sviluppare uno speciale tipo di pasta realizzato con la farina dei grilli.

“A proposito, come va il tuo progetto”?

“Bene, ho ricevuto una piccola borsa di studio e sono in contatto con alcuni produttori. Il problema sono

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i cavilli, la burocrazia, questo Paese non riesce a guardare oltre il proprio naso. Sto pensando di andare in Gran Bretagna. Pensate che lì hanno aperto un sacco di ristoranti dove si mangiano solo insetti” “Sarà, comunque noi accontentiamoci delle prelibatezze che offre il menù. Tu, Giulio, mangiati pure i tuoi insetti, io vado su qualcosa di più sostanzioso” Giulio scosse la testa come a dire che era inutile, non avrebbero mai capito.

Il maitre se la tirava un po’, ma ci consigliò bene. Io presi una “sopa coada”, un piatto che non mangiavo da tempo perché non è facile da trovare nei ristoranti e richiede una lunga preparazione. L’ingrediente base sono i piccioni ma il problema è la cottura, almeno 5 ore. Devo dire che era buonissima, così come il cappone alla vicentina di Lorenzo e il risotto con verze e luganiga che ordinarono Giulio, Luca e Massimiliano. Ma la vera sorpresa fu il dolce, i rufioli, mezzelune di pasta sfoglia ripieni di mostarda veneta, piccantissimi e, stranamente, non fritti! Veramente una cosa insolita, da leccarsi i baffi. Una bella bottiglia di Bardolino fu la giusta cornice al tutto.

“Ciao Umberto” Mi girai verso quella voce e mi trovai davanti un tizio con il cappello da chef che mi sorrideva a trentadue denti.

“Scusami, ci conosciamo?”

“Tu sei Umberto Poli, no? Il ciclista” “Mmmhhh…. Sì” ero incuriosito dal fatto che qualcuno mi avesse riconosciuto “Ti ho visto in televisione, alla Milano Sanremo. Andavi via come il vento” “Già. Però poi, alla fine…”

“Non ha importanza. Hai fatto una cosa grande, la fuga, e che fuga, quasi 300 chilometri!!!”

Non sapevo che dire, ero un po’ imbarazzato e i miei amici avevano preso a ghignare e darsi di gomito. “Il nostro campione” disse Luca per pigliarmi per i fondelli.

“Così proprio non mi riconosci” Lo guardai bene, ma sinceramente quel volto non mi diceva niente.

“Sono Alfredo, eravamo insieme all’alberghiero” Improvvisamente mi si accese una lampadina.” Come no? Alfredo… certo che mi ricordo… tu eri all’ultimo anno e io invece iniziavo la specializzazione di cuoco… come stai?”

Mi alzai e ci abbracciammo “Io benissimo. Mi fa veramente piacere vederti” “Oh, a proposito, guarda che abbiamo mangiato alla grande. Adesso ti metto qualche recensione su Tripadvisor” “Grazie, spero che anche i tuoi amici siano rimasti soddisfatti”

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“Eccome – disse Giulio- anche se con le farine degli insetti…”

“Sei proprio andato in fissa. Lascia stare i grilli e le cavallette e goditi questo ben di Dio!” “Ma tu, Umberto, come ti è venuto in mente di mollare tutto?”

“Forse quella della cucina non era la mia strada. E poi questa passione per il ciclismo”.

“Sì, mi ricordo che già ai tempi dell’alberghiero avevi questa fissa per la bicicletta. Però pensavo che fosse una passione, non un lavoro” “Devo dirti la verità, a quel tempo non ci pensavo neanche io. Ma non pensavo neanche che un giorno sarei diventato un cuoco, o addirittura uno chef come te”.

“Senti Umberto, adesso io ho un po’ da fare. Però mi farebbe piacere stare un po’ insieme, così, per capire, avrei un sacco di domande da farti. Domani è giorno di riposo, però io sono qui: ho un appuntamento con l’enologa che mi deve far assaggiare dei vini biologici. Perché non passi nel pomeriggio? Ci prendiamo un caffè”.

“Domani? Sì, perché no. Magari mi presenti pure l’enologa. Vale la pena?”

“Se vale la pena? Eccome. Ma non farti illusioni perché è strafidanzata”.

“E allora ? Io non sono mica geloso…”

“Va bene, allora a domani. Ragazzi, buona serata”.

Quando rimanemmo soli Lorenzo ruppe il silenzio “Braccino corto eh?”

“Chi?” “Il tuo amico, lo chef. Poteva almeno invitarti a pranzo anziché a prendere un caffè: o ancora meglio, fare una gran figura e dire stasera siete tutti ospiti miei. In fondo so che con i grandi calciatori si fa così”.

“Già, ma io non sono un grande calciatore. E quindi questo è il conto, caccia i soldi” “Porca zozza!!! Settanta euro a testa” “E io c’ho ancora fame – disse Luca alzandosi dalla sedia – mi sa che mi vado a fare una bella pizza”

**********

Me ne stavo quasi dimenticando. In realtà non avevo molta voglia di andare nel locale di Alfredo, ma ormai avevo promesso.

Mentre parcheggiavo notai una splendida ragazza uscire dal ristorante e salire su una 500. Capelli lunghi, alta almeno un metro e ottanta, un paio di jeans attillati.

“L’enologa?”

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“Già, ma te l’ho detto. Non sprecare il tuo tempo. Dai accomodati, faccio i caffè, tu inizia a raccontare” “Che ti devo dire? E’ stata un’esperienza straordinaria, perché la Milano Sanremo è una corsa straordinaria.”

“No, no, partiamo dall’inizio, da questa passione, mi ricordo che già all’alberghiero correvi in bici” “Beh, è iniziato tutto tanto tempo fa. Avrò avuto sei anni e un vicino di casa, un certo Lino, Lino Scapini, aveva messo su una squadretta di ragazzini. Il mio amico Lorenzo, era qui ieri sera a cena, si era iscritto e mi convinse a provare. Erano gare brevi, 50, 100 metri. Ma io andavo forte, tanto forte per la mia età. Considera che era un gioco, più che uno sport, ma Lino credeva in me, aveva visto delle qualità, non so, quello ha un occhio particolare.

Sta di fatto che mi diede una bici nuova, una Bianchi celeste ma lì iniziarono i problemi” “Cioè, non riuscivi più a vincere?”

“No non è tanto quello, anzi le vittorie non mancavano. Il problema era mio padre, non era mai soddisfatto, se non vincevo mi rimproverava” “Ma perché, lui è stato un campione?”

“No, è fatto così di carattere, mi stava addosso, non mi divertivo più. E se a un ragazzino togli il divertimento, è finita.

Qualcuno un giorno ha scritto che i figli prima adorano i i genitori, poi li giudicano e infine, qualche volta, li perdonano. E’ una frase molto profonda” “Ti capisco benissimo. Quando ho iniziato questo mestiere, mio padre era contrario. Questo paese è pieno di cuochi, farai fatica a trovare lavoro, insomma una lagna continua.

Io non sarò cuoco, sarò chef, continuavo a dirgli. Ma lui niente: cuoco o chef non fa differenza. E sai quando si è convinto? Quando ha iniziato a vedere Masterchef in televisione, quando ha sentito Cracco e Cannavacciuolo, ecco allora ha capito cosa vuol dire alta cucina. E’ il potere della televisione. E comunque, se sono diventato quello che sono, lo devo solo alla mia testardaggine” “E lo dici a me? Io sono più testardo di un mulo! E comunque, in quegli anni, fu mia madre a convincermi a mollare. Non mi piace sentirvi discutere, te e tuo padre, Umberto, fammi la cortesia, lascia perdere la bici. Così iniziai a giocare a calcio e poi il judo, per quattro anni, sempre insieme a Lorenzo. Eravamo inseparabili e lo siamo tuttora.

Però ogni giorno passavo davanti alla porta di Lino e lui era lì ad aspettarmi. Io tornavo a casa da scuola, con lo zaino sulle spalle, e da lontano vedevo la sua figura, magro da far paura, con i capelli lunghi. E quando ero davanti a casa sua, lui mi indicava la Bianchi celeste e mi diceva: è qui che ti aspetta, quando vuoi cambiamo i rapporti, perché sei cresciuto, ed è pronta” “Anche lui un bel testardo, eh?”

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“E’ stato molto importante per me, soprattutto nei primi anni, gli devo molto. Comunque a 12 anni non ce l’ho fatta più. Ne ho parlato con i miei e si sono resi conto che, senza bici, non potevo stare, che quello era il mio sport, altro che tatami o campetti di calcio. Io volevo la strada” “E Lino?”

“Felice come una Pasqua. Anche perché stava mettendo insieme una squadra forte. La nostra punta di diamante era Attilio Viviani, il fratello minore di Elia” “Elia Viviani? Il campione?”

“Proprio lui. Attilio vinceva sempre e noi dovevamo lavorare per lui perché anche nelle squadre di ragazzi bisogna usare la strategia. Era una squadra forte e rimasi con Lino fino ai 15 anni.

Poi, proprio all’ultima gara della stagione, ero in fuga, mi sono mancate le forze. Guarda, mi ricordo pure la data, il 7 ottobre del 2012. Un senso di spossatezza, completamente svuotato di ogni energia. Non ricordo neanche se riuscii a finire la gara, ma a casa continuavo a sentirmi male, mi girava la testa, non ce la facevo a stare in piedi”.

“Mamma mia, un incubo, chissà la preoccupazione dei tuoi genitori” “Te lo puoi immaginare, fino al giorno prima stavo bene. Comunque mi portarono all’ospedale di Bovolone e da lì venni trasferito a Legnago. I medici non ebbero dubbi: diabete, di tipo 1, quello insulino dipendente, il peggiore”.

“Panico?”

“Non riuscivo a capire, ero frastornato, non sapevo cosa fosse questo diabete però le facce dei miei e quelle dei dottori mi dicevano che non era nulla di buono. Poi, sai, ero un ragazzino, non è che mi rendessi proprio conto. Quando poi mi dissero delle punture mi prese un colpo. Io ho il terrore degli aghi o meglio, lo avevo.

Perché ormai mi sono abituato”: “E dunque fine anche del ciclismo?”

“No, quello mai, dovevo solo trovare una squadra che mi accettasse per quello che ero, un atleta diabetico.

E incontrai un uomo che mi ha aiutato tanto. Ma ti interessa tutta sta roba?”

“Tantissimo. E poi vedo tante similitudini tra il ciclismo e la cucina” “Questa non l’ho capita”.

“Nel ciclismo e in cucina devi sempre pedalare, se ti fermi, se perdi il ritmo, sei finito. Ma forse è la vita a funzionare così. Einstein diceva che la vita è come una bicicletta, devi pedalare sempre se vuoi restare in equilibrio”.

“Bella, me la rivendo” “Anche io, nel mio lavoro, ho incontrato persone che mi hanno aiutato a crescere non solo professionalmente, ma come uomo. Quando sei lontano da casa, dai tuoi affetti e sai di poter contare solo su di te, non è facile.

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E poi la cucina ha le sue regole, i suoi tempi, le sue gerarchie, non puoi sgarrare altrimenti sei fuori. Insomma mi dicevi di questa persona che ti ha aiutato” “Sì, si chiama Remo Cordioli. Mi portò nella sua squadra, la Service 2000 insieme ad Attilio. Era una squadra importante, c’era passato anche Elia. Remo era molto severo e soprattutto mi trattava come gli altri ragazzi, non ci pensava nemmeno al mio diabete. E questo mi ha aiutato molto a non sentirmi diverso.

Io spingevo tanto, ero sempre in fuga anche per dimostrare che ero forte, che ce la potevo fare. E poi è in fuga che ti fai le gambe perché in allenamento, anche se vai al massimo, sei in una condizione diversa.

Guarda Alfredo, la fuga è una cosa difficile da spiegare”.

“Dai, prova, mi interessa” “Quando vai in fuga è come se ti chiudessi una porta alle spalle portandoti via la chiave. Gli altri, dietro, spingono, cercano di buttare giù quella porta, mentre tu scappi via. Immagina un chicco d’uva spremuto tra due dita: il seme schizza via. Quel seme sei tu.

Quasi sempre quella porta, a furia di spingere, si apre e se anche ti sei preso un vantaggio di sette, otto, dieci minuti, quelli dietro ti riprendono perché loro sono in tanti, si aiutano, risparmiano le energie, condividono la fatica.

E quando ti sono ormai attaccati, ti apprezzano per quello che hai fatto, non c’è mai un gesto di umiliazione.

Nessuno ti chiederà mai perché hai chiuso quella porta perché tutti sanno che la fuga era necessaria per te, che ti sei sacrificato e che avevi l’esigenza di metterti in mostra. Ma anche per loro, i velocisti, che sanno che adesso se la possono giocare ad armi pari.

Un tempo era diverso, altre strade, altre bici, altre organizzazioni, forse anche altre gambe. E le fughe spesso arrivavano alla fine. Ma ora non è più così: tutti abbiamo lo stesso mezzo, lo stesso peso, 6 chili e ottocento, gli stessi rapporti, due davanti e undici dietro e alla fine i più forti vincono sempre: Nibali, Elia Viviani o Alaphilippe come l’ultima Sanremo. Però anche Andrea avrebbe buone chance, va veramente forte e prima o poi avrà l’occasione buona”.

“Andrea chi?”

“Peron, il mio compagno di squadra, è un velocista” “Anche lui con il diabete, immagino” “Certo, come tutti noi della Novo Nordisk. Ma guarda, sinceramente, il diabete non è un problema: io, ad esempio, ho imparato a gestirmi da solo, mi rendo conto se ho un calo degli zuccheri e mi basta una barretta per rimettermi a posto. Comunque sull’ammiraglia c’è il dottore, ci sono le penne di insulina…”

“E in caso di necessità come ve la fate?”

“Mentre pedali, senza problema. Ma a me non è mai capitato”.

“Ma raccontami un po’ di questo Team Novo Nordisk. Come ti hanno contattato?”

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“Dunque, correvamo l’Orobica, una corsa a tappe di tre giorni. Adesso non si corre più ed è un peccato perché da lì sono usciti tanti campioni. Era una gara che mi piaceva molto perché adoro le corse a tappe.

Comunque io sono andato sempre all’attacco, mi sentivo bene, altro che diabete, adesso ve la faccio vedere io, mi dicevo.

Alla fine della gara, Remo mi disse C’è una persona che ti vuole conoscere, a Treviso, si chiama Vassili, potrebbe essere importante” Vassili è il team manager della Novo Nordisk. Ci incontrammo e lui mi propose di andare 3/4 giorni negli Stai Uniti, ad Atlanta, per un test. Io non stavo più nella pelle, mi sembrava di volare.

Fu un’esperienza meravigliosa: 60 ragazzi provenienti da tutto il mondo, tutti con il diabete, tutti con il ciclismo nella testa. Io, lo dico senza presunzione, ero il più bravo. Ero talmente euforico che, appena atterrato in Italia, mi iscrissi a una gara senza preoccuparmi della stanchezza e del jet lag. Mi ritirai perché ero veramente stanco, ma questo per dirti in che stato di ebrezza mi trovavo”.

“E lo credo bene. Ma, quindi, ti offrirono un ingaggio?”

“Ancora no, mi invitarono al Tour del Galles, come stagista e alla fine mi offrirono un contratto come under 23. Poi, per un paio d’anni, ho fatto avanti e indietro con gli Stati Uniti: i ritiri ad Alpharetta, a venti chilometri da Atlanta, e poi gare su gare in giro per l’America.

Mi sentivo in bilico, sapevo che il passaggio a pro era alla mia portata, ma contemporaneamente ne avevo paura perché sarebbe stato un passo dal quale non si poteva tornare indietro. E poi, comunque, avevo da completare gli studi.

Tornai in Italia per l’esame di maturità e ne approfittai per parlare con Elia. Mi ricordo ancora quel pomeriggio e le sue parole. Devi tenere duro, Umberto, con un paio di vittorie è fatta.

Il giorno dopo l’esame ero già sull’aereo per gli Stati Uniti, determinato più che mai: sono rimasto in America tutta l’estate e ho vinto tre gare. A quel punto mi hanno offerto un contratto da pro. Ho chiamato subito Elia che mi ha detto: firma subito, non pensarci due volte”.

“Insomma questo Elia Viviani, ti è sempre stato vicino” “Una grande persona e, sulla bici, un fuoriclasse assoluto. Ne ho visti pochi come lui, una classe innata, una leggerezza sulla sella che ti lascia senza parole. Sembra quasi che non fatichi. E poi sempre disponibile, mi ha presentato un sacco di gente soprattutto i primi anni, quando mi sentivo un po’ intimorito. Devi capire, io ero un ragazzino in mezzo a tanti campioni”.

“La prima gara da pro?”

“A Dubai, mi sembrava di vivere un sogno. Tanti campioni, tante facce note e noi un po’ intimiditi. Sai nel nostro team non c’è un vero e proprio fuoriclasse e forse proprio questa è la nostra forza. Sappiamo che solo se restiamo uniti possiamo ottenere un buon risultato: comunque c’è Andrea, c’è Charles Planet, c’è

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Davide Lozano, lo scalatore…”

“Una montagna di muscoli!!”

“Esattamente il contrario: lo scalatore deve avere poco peso, pochi muscoli, perché il muscolo pesa più del grasso”.

“Questo non l’avrei mai detto” “E poi ci fu quella telefonata” “Scusa?”

“Nel marzo del 2017, alla vigilia della Milano Sanremo. Andrea si era infortunato e il team cercava un sostituto per la gara. Gli altri ragazzi erano all’estero, mentre io ero qui a Verona, a cena dai miei genitori.

Mi chiamò Massimo Podenzana, il nostro responsabile tecnico.

Umberto, tutto bene?

Sì Pode, mi sto allenando E sei in forma?

Direi di sì, non al top, ma mi difendo Allora se hai una poltrona vicino, mettiti a sedere I miei genitori mi fissavano mentre parlavo al cellulare, avevano capito che era una cosa importante perché mi ero alzato da tavola ed ero andato a sedermi in soggiorno Domani passo a prenderti, andiamo a Milano, fai la Sanremo Quella sera ho capito che una telefonata ti può cambiare la vita, sai come lo spot della Telecom? Per alcuni minuti rimasi in silenzio, seduto, senza il coraggio di affrontare la realtà. Io alla Milano Sanremo, ma ti rendi conto?

Quando raggiunsi la sala da pranzo i miei genitori erano rimasti immobili, con la forchetta a mezz’asta, in attesa di una brutta notizia. Non avevano il coraggio di chiedere niente, aspettavano solo che parlassi io.

Domani parto, corro la Milano Sanremo Mio padre saltò in aria per la gioia, mia madre tirò un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Abbracci, baci, pacche sulle spalle, ma io ero assente, inebetito, era come se avessi vinto una lotteria, una roba del genere.

Torno a casa. Vado a dormire.

Ma almeno finisci la cena.

Scusami, mamma, non ho più fame Ma in realtà avevo solo voglia di restare con i miei pensieri, di riordinare le idee, di vivere quel momento con un’intensità tale che solo la solitudine ti può dare. Ero come in trance, non ricordo nulla di quella notte, non so neanche cosa ho buttato in valigia, ma avevo chiara in mente una sola certezza: 290 chilometri, io,

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non li avevo mai fatti” “Cristo Santo, un salto nel buio. E’ come se mi chiedessero di organizzare un banchetto a Buckingham Palace” “Forse, ma guarda che avere davanti agli occhi 290 chilometri, non è che ti fa stare proprio sereno. Per preparare una Sanremo ci vogliono mesi, non so se rendo l’idea: palestra, stretching e poi prove di sforzo, di tenuta, insomma non è una cosa che tu dici salgo in sella e arrivo dove arrivo. Parliamo della Milano Sanremo, hai i riflettori puntati addosso, tutto il mondo ti guarda. E io mi chiedevo: sarò all’altezza? Non deluderò i miei compagni, il team?

Queste domande le facevo a me stesso, ma soprattutto le ho fatte la mattina dopo, in macchina al Pode.

E lui fu bravissimo.

Ascolta Umberto – mi disse – so benissimo quello che ti stiamo chiedendo. Sarai il più giovane in gara e per di più senza allenamento, chiamato il giorno prima. Però sei testardo e tutti ci fidiamo di te, farai una bella figura, me lo sento.

Poi, dopo una breve pausa, aggiunse Certo, se andassi in fuga…

Ma chi, io? In fuga? Alla Sanremo?

Pensa al messaggio: il più giovane in gara, diabetico, a far da lepre, sarebbe magnifico!

Dunque, pensai, è questo che mi stanno chiedendo. E decisi di accontentarli, sono in ballo e devo ballare.

Così, subito dopo la partenza, un compagno mi lasciò un varco e via!

Per circa 7 ore in testa, insieme ad altri corridori, una decina. Non ti so dire le sensazioni, uniche. Poi sulle salite ci ha ripreso il gruppo, io ho cercato di tenere in discesa, ma ero veramente stanco. E poi la discesa mi fa paura, soprattutto sul bagnato. Così mi sono unito a un altro gruppetto e sono riuscito ad arrivare al traguardo. Non so nemmeno come mi sono piazzato, per me l’importante, a quel punto, era arrivare”.

“E il team? Sono rimasti contenti”?

“E’ stato il momento più bello. Tutti intorno a farmi festa. In fondo avevo vinto anche io. Ma anche gli altri corridori venivano a congratularsi: qualcuno lo faceva in italiano, qualcun altro in un idioma incomprensibile. Non mi ricordo i loro nomi, ero completamente frastornato, mi sentivo dentro un frullatore di emozioni.

Tornai a casa con la macchina dei Viviani all’una di notte e trovai i miei genitori ad aspettarmi. Avevano visto la corsa in televisione, erano emozionati, credo di avergli regalato una grande gioia.

La mattina dopo mi chiamò Elia per dirmi che c’erano le mie foto su tutti i giornali, la Gazzetta, il Corriere, L’Arena, persino su Oggi. E da lì interviste in radio, televisione, insomma un trionfo neanche avessi vinto la Parigi Roubaix, che, detto per inciso, resta il mio sogno, anche se si corre sul pavé bagnato, in discesa un incubo.

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Ma quello che mi fece più piacere fu che tanti genitori di bambini con diabete tipo 1 mi mandarono messaggi di ringraziamento perché non pensavano che con la malattia si potessero compiere imprese sportive di quella portata”.

“Umberto, ma questa è una storia bellissima”.

“Poi c’è stata l’edizione del 2018, vinta da Nibali, ma qui fu diverso. Caddi sulle rotaie e per tutto il percorso venni tormentato dal dolore. Pensa che quell’anno c’erano pure i miei genitori, erano venuti a vedermi, ma non ne ho un bel ricordo, troppa sofferenza. Comunque, anche in quella occasione, riuscii ad arrivare”.

“E poi l’impresa di quest’anno” “Una giornata bellissima con quattro della Novo in fuga fino a pochi chilometri dall’arrivo. Forse in troppi.

Se Andrea fosse rimasto nel gruppo chissà…”

“Insomma, mi sembra di capire che non puoi proprio farne a meno”.

“Di che cosa?”

“Della fuga, ovviamente”.

“Innanzitutto io vado in fuga perché rimanere nel gruppo, per me, non avrebbe senso. Non sono uno sprinter, sono un passista.

E poi penso che il ciclismo sia una metafora della vita e le mie fughe stanno a significare che, forse, non ho ancora capito dove posso arrivare. Le mie non sono mai fughe dalle responsabilità, sono fughe dai pregiudizi, dai pensieri negativi, dalle chiacchiere degli ignoranti, dai pettegoli, dalle mamme iperprotettive, dai medici che non ti ascoltano, che non capiscono o che non vogliono capire. Mentre fuggo mi sembra di sentirle quelle voci, è un vero e proprio coro stonato che ti corre dietro, esattamente come fa il gruppo. Ma mentre il gruppo apprezza quello che stai facendo, gli altri no perché stai facendo qualcosa che non riescono a capire. E tu sei lì, da solo, a spingere sui pedali finché ne hai, per seminare quel coro: e man mano che prendi vantaggio quelle voci si allontanano, diventano un sussurro e poi silenzio. E in quelle ore ti prendi le tue rivincite come atleta e come diabetico.

All’arrivo sentirai solo ovazioni e complimenti, ma io so che, da domani, tutto tornerà come prima, che dovrò ricominciare da capo, che dovrò tornare in fuga. E’ la vita, Alfredo, oggi sei un eroe e domani un incosciente. Noi del Team Novo Nordisk non siamo né eroi né incoscienti, siamo solo ragazzi di tutto il mondo con una passione in comune e una malattia in comune. E quello che vogliamo dimostrare è che le due cose possono convivere Ti dicono, come nel film di Totò, Il paziente deve avere pazienza, sennò che paziente è?

Ecco io non voglio essere un paziente, è una parola che detesto, che mi umilia, mi mortifica, mi fa sentire una merda. Io non solo non ho pazienza, ho il fuoco dentro, la rabbia contro i luoghi comuni, e sfogo tutto questo quando salgo in sella alla mia Colnago.

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Io con il diabete ci convivo, ma non ci vado d’accordo, semplicemente lo ignoro perché, secondo me, è questo l’atteggiamento giusto. Ignorarlo è il mio modo di vendicarmi: lui ha cercato di tradirmi, di pugnalarmi alle spalle, di impedirmi di fare ciò che ho sempre sognato. E io lo frego: mi curo, ma lo ignoro come si fa con le persone che non stimi, quelle che hanno perso la tua fiducia.

E’ facile prendersela con un ragazzino che non sa neanche cos’è il diabete, che certo non ha mai fatto prevenzione, semplicemente perché nelle sua famiglia non ci sono mai stati casi di diabete. E lui che fa? Ti attacca alle spalle, quando meno te lo aspetti, ma non in maniera violenta, in maniera silenziosa, subdola: un po’ più di sete, un po’ più di pipì, un po’ più di stanchezza. E tu pensi, anzi i tuoi genitori pensano, passerà, è un problema di crescita, questione di giorni. E poi vai in crisi e sei fortunato se trovi un medico del pronto soccorso che fiuta il pericolo. Perché sui giornali leggi pure di ragazzini più sfortunati che…lasciamo perdere.

Ti ho spiegato perché vado in fuga, ma voglio dirti un’ultima cosa: io non andrò mai in fuga dal diabete semplicemente perché vorrebbe dire dargli una soddisfazione. Io continuerò ad andare in fuga per il diabete, e sottolineo per, perché quel coro stonato di cui parlavamo prima si decida a tacere o, almeno, a trovarsi un bravo direttore in grado di trasformare una lagna in una melodia.

E una cosa è certa: io non fuggo dalla malattia, è la malattia che deve fuggire da me.”

Alfredo era rimasto in silenzio davanti a questo fiume di parole. E devo dire che anche io ero stupito perché non mi capitava spesso di riuscire ad esprimere questi concetti, non solo con i miei amici più cari, ma neanche con i miei medici.

“Umberto, sono senza parole. E non è un modo di dire. Sei un ragazzo in gamba, e non lo dico per piaggeria.

Pensavo di aver raggiunto qualcosa nella mia vita: questo locale, il successo, la prima stella. Ma ascoltando il tuo racconto, mi sono reso conto che è poca cosa” “No, questo non è vero” “Lo dico sul serio. Nel mio piccolo qualche fuga l’ho fatta pure io, ma oggi ho capito che…insomma… certi traguardi li puoi raggiungere solo se riesci ad essere protagonista del tuo tempo, delle tue emozioni e del tuo futuro. Mi ha fatto veramente piacere parlare con te” Ci salutammo come due vecchi amici, anche se non lo eravamo. Lasciai il locale che il sole stava tramontando, salii in macchina e accesi la radio a palla. Lungo la strada fino a casa cantai a squarciagola, da solo, come un matto.

E pensai che, come cuoco, sarei stato una frana.

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“

Il ciclismo è sempre stato la mia grande passione. Quello che mi affascina è il senso di libertà che solo salendo in bici riesco a provare.

All’inizio decisi di tenere nascosta la malattia ai miei compagni, temevo che i miei controlli avrebbero rallentato la crescita del team. Ma ora che sono insieme ad altri ragazzi nelle mie stesse condizioni, anche la gestione del mio diabete è migliorata.

Joonas Henttala, Ciclista Team Novo Nordisk

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Capitolo V La casa di Carlo Due camere da letto, soggiorno, bagno e cucina. Carlo viveva in quei pochi metri quadri praticamente da sempre.

La prima volta che l’avevano vista, lui e Giovanna, se n’erano innamorati tanti, tanti anni prima e avevano firmato un contratto d’affitto che, per due professori di liceo, era l’unico modo per potersi assicurare un tetto. Lì avevano vissuto la loro storia d’amore, lì era nato Simone, lì, pochi anni dopo, si era ammalata Giovanna. Una malattia rara, bastarda, lunga, dolorosa, maledetta. Lì Carlo era rimasto solo.

“Scusa” gli aveva sussurrato in un orecchio Giovanna prima di chiudere gli occhi per sempre e Carlo per tutta la vita aveva continuato a chiedersi “Di che cosa?”.

Un minuto, sarebbe bastato un minuto in più per conoscere la risposta. E per quel minuto Carlo avrebbe sacrificato ogni cosa.

Con il suo stipendio era riuscito a far studiare il figlio e mettere quattro soldi da parte, frutto anche di una piccola eredità. Aveva così deciso di comperarle, quelle due camere da letto, soggiorno, bagno e cucina: aveva versato un acconto e acceso un mutuo che riusciva a pagare senza eccessivi sacrifici.

Non amava parlare del suo amore per Giovanna semplicemente perché era convinto che a nessuno fregasse niente ma non aveva mai pensato, neanche per un momento, di rifarsi una vita.

“Sei ancora giovane”, “Hai tutta la vita davanti”, “Fatti un bel viaggio, magari incontri qualcuno che come te…” le conosceva bene quelle voci, quegli incoraggiamenti ma un po’ per il suo carattere scontroso, un po’ forse perché era stato poco fortunato, sta di fatto che occasioni nella vita non ne aveva avute più.

Quando si resta soli, i ricordi si nutrono della tua anima. E questa è una frase banale, un luogo comune, ma è la verità. Tra i tanti ricordi dei pochi anni vissuti insieme ce n’era uno che Carlo amava più degli altri.

Gli era sufficiente chiudere gli occhi e l’immagine diventava subito nitida: loro due in soggiorno, nudi, dopo aver fatto l’amore in modo rabbioso, violento, improvviso come accade ai giovani. Sul tavolo due bicchieri di vino rosso, una lampada accesa e una pila di compiti in classe da correggere: numeri ed equazioni, per lui, Cicerone e Seneca, per lei.

Giovanna che raccoglie i lunghi capelli biondi in un elastico, prende una matita rossa e blu, si porta il bicchiere alle labbra. Lui guarda il suo profilo, i seni pieni, i capezzoli ancora induriti dall’emozione e dal piacere.

Un momento, un’immagine che non era sbiadita negli anni ma anzi, ogni volta che Carlo la richiamava alla mente, mostrava particolari inediti: una riga di ombretto, le labbra socchiuse, una mano che distrattamente attorciglia una ciocca di capelli, un quarto di luna che appare dalla finestra. Una fotografia che diventava sempre più ricca, più attuale e che consentiva a Carlo di tenere vivo il ricordo della persona che più aveva amato al mondo.

Era ancora lì, quella matita rossa e blu, dopo tanti anni, su quel tavolo. Perché lui, dal passato, non aveva mai pensato di fuggire.

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Non ricordo un solo giorno della mia vita in cui non desiderassi andare in bicicletta, un amore sbocciato quando avevo soltanto due anni. Da quando avevo 14 anni iniziai a correre e volevo farlo il più velocemente possibile malgrado mi avessero diagnosticato il diabete tipo 1 e i medici mi invitassero continuamente a condurre una vita tranquilla, a non esagerare con le sfide. Ma in quegli anni ho capito che tutte le persone con diabete hanno un futuro brillante davanti. Sei tu l’unico a poter stabilire i tuoi limiti.

Brais Dacal Ambasciatore Team Novo Nordisk

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Capitolo VI La corsa In piedi, come due ragazzini, Alcide e Carlo seguivano gli ultimi metri della corsa. Era stata una giornata lunga, iniziata diverse ore prima.

Più o meno verso le 12 Alcide era arrivato portando un vassoio di paste.

“Sono passato da Trevisiol, secondo me è la pasticceria migliore. Non le mettere in frigo, per carità” Brio aveva subito avvertito un profumo piacevole e aveva preso a scodinzolare e a girare su se stesso.

“O, sembra un vecchio, ma davanti ai cannoli siciliani riprende vita. Dai, siediti” “Come stiamo andando?”

“C’è un gruppetto in fuga, una decina di corridori” “Come sempre” Alcide si accomodò su una vecchia Frau e Brio iniziò ad annusargli le mani. Si accese una Marlboro Light.

“Hai mai pensato di smettere?”

“Come no? Come diceva Mark Twain: smetto di fumare ogni giorno, non è difficile” “Mmhh…che cultura” Dopo alcuni colpi di tosse, sottolineati con un applauso da Carlo, Alcide ritrovò la voce “Ci sono italiani?”

“Sì, ma soprattutto ci sono quattro diabetici” “Come diabetici?”

“Eh, proprio così. C’è un team, si chiama…boh…un nome difficile. Comunque i ragazzi di questo team hanno tutti il diabete, l’ha detto il telecronista” “Avrai capito male” “No, no, l’ha detto più di una volta. Hanno il diabete” “Ma ti pare che con il diabete corri la Milano Sanremo. E vai pure in fuga” “Oh, guarda che sei tosto, ti dico che è così. Quattro di questo team hanno il diabete e sono in fuga. E vanno come treni, guarda là” La voce del telecronista interruppe la discussione “Vediamo Andrea Peron e Umberto Poli che si danno il cambio alla testa dei fuggitivi. Dietro di loro anche Planet e Hentala nel gruppetto. Ricordiamo che questi 115

ragazzi del Team Novo Nordisk hanno tutti il diabete di tipo 1 ed è superfluo specificare che per loro questa fuga ha un sapore particolare” “Ma allora hai ragione!”

“Te l’avevo detto, ma tu non ci volevi credere perché hai la testa dura come un mulo. E’ pazzesco, mio nipote ha il diabete giovanile, deve farsi 4/5 punture al giorno ma la mamma non lo manda neanche in palestra, ha paura che si senta male. Lui ha il tipo 1, questo deve essere una forma diversa, più lieve” “No, no è proprio quello, si chiama diabete infantile e giovanile, oppure tipo 1” “Ma tu che ne sai?”

“L’ha appena detto il telecronista. E meno male che sarei io il testardo” Carlo si alzò dalla Frau e chiese a Alcide: “Faccio una telefonata” “Fai come a casa tua” Brio si alzò dalla cuccia per seguire il padrone e Alcide iniziò a sfogliare il giornale. In prima pagina la notizia dell’attentato sventato da un gruppo di ragazzini di seconda media. Un pazzo alla guida del pullman sul quale viaggiava la classe aveva cosparso di benzina il mezzo. Voleva puntare sull’aeroporto di Linate e fare una strage. Ma un ragazzino è riuscito a dare l’allarme con il cellulare e la polizia lo aveva bloccato.

Fuoco, fumo, urla ma per fortuna tutti salvi. Una brutta avventura.

Carlo stava usando il telefono fisso perché non riusciva a trovare il cellulare. Glielo aveva regalato suo figlio, ma lui ne avrebbe fatto volentieri a meno di quell’attrezzo infernale con i tasti troppo piccoli per le sue dita tozze. E poi lo perdeva. In continuazione. Se lo dimenticava nella tasca di qualche giubbotto, oppure in qualche cassetto. Una volta lo ritrovò, dopo giorni, nel frigorifero.

“Pronto, Luisa, sono Carlo. Tutto bene?”

“O Carlo, ciao, che succede?”

“Niente di particolare. Devi solo accendere la televisione, vai su Eurosport e soprattutto falla vedere a Diego” “Diego non c’è, è al parco con tuo figlio. Stamattina abbiamo pure discusso perché oggi fa un po’caldo e io non voglio che corra, che si stanchi, che sudi” “Non vuoi che corra? Accendi la televisione, Eurosport” “Ma che ti prende stamattina? Va bene, ecco qui…aspetta un momento…ecco…c’è la Clerici” “Oddio, ma che Clerici. Vai su Eurosport, ti ho detto” “Aspetta un attimo che io, con questo telecomando non ci capisco niente. Calcio, tennis, Formula 1…ecco qua…Eurosport. C’è una corsa ciclistica” “ E’ la corsa ciclistica non una corsa ciclistica: è la Milano Sanremo” “Va bene, ma lo sai, per me lo sport…”

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“Fa niente, comunque li vedi i corridori? Ce ne sono quattro con la stessa maglia, sopra c’è scritto team Novo qualche cosa, li vedi?”

“Sì, li vedo, e allora?”

“Allora quei quattro sono diabetici, tipo 1, proprio come Diego” “Ma che dici, avrai capito male, con il diabete certe cose non si possono fare” “Questo lo dici tu” “No, lo dicono i medici” “E allora cambia medici perché mentre tu hai paura che Diego corra al parco insieme agli altri bambini della sua età, questi qui si sparano 290 chilometri nelle gambe. Alla faccia del diabete e dei medici” Luisa seguiva incredula le immagini “Veramente, se ti devo dire la verità, sono io ad avere paura. I medici dicono che Diego potrebbe fare le stesse cose degli altri bambini, anche lo sport. Anzi dovrebbe. Ma io non me la sento, la sola idea che vada in ipo, che corra un pericolo, che possa sentirsi male quando io non ci sono, guarda non ci voglio neanche pensare.

Quando a Diego venne diagnosticato il diabete fu un vero e proprio trauma. Tuo figlio ed io eravamo increduli, nessuno in famiglia ha mai sofferto per questa malattia. E ti assicuro che non è stato facile da accettare, abbiamo avuto anche un momento di crisi” “Me lo ricordo bene. Certe situazioni non sfuggono agli occhi di un padre, di un nonno” “Decidemmo, come si dice, di prenderci una pausa. Andai in vacanza con Diego mentre Simone rimase in città. Avevamo bisogno di riordinare le idee, ci eravamo detti cose pesanti, ma erano frasi dovute alla tensione. Ci vogliamo bene e in poche settimane la situazione si era ricomposta” “Per fortuna anche perché Diego stava iniziando a sentirsi responsabile” “Come, responsabile?”

“Sì mi disse che da quando stava male mamma e papà non facevano che litigare per colpa sua. Disse proprio così” “Oddio, Carlo, mi stai dicendo una cosa terribile. Noi non ce n’eravamo accorti, mi dispiace” “Adesso sei tu a colpevolizzarti. Sono cose che succedono in tutte le coppie, non ti devi preoccupare. L’importante è che tu tuo marito vi rendiate conto che Diego è un ragazzino pieno di forze e di energie, anche con il diabete” “Può darsi, ma quando lui è a scuola, tanto per fare un esempio, io non sono tranquilla. Figurarsi in una palestra o in un campo sportivo” “Stai sbagliando Luisa, così lo fai sentire diverso” “Diverso sì, ma vivo”

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“Mamma mia che esagerazione. Comunque non voglio intromettermi nelle vostre scelte. Per carità, i nonni devono stare al loro posto. Però pensaci. Me lo prometti?”

“Dai, ci provo. Grazie per la telefonata e dai un bacio ad Alcide” Carlo tornò a sedersi in poltrona.

“Problemi?” chiese Alcide che nel frattempo si era stappato una Moretti Baffo d’Oro “No, niente, quella testona di mia nuora è convinta che Diego non possa fare sport. Prima dice che sono i medici ad averlo raccomandato, ma poi salta fuori che è lei ad aver paura” “Ma perché non parli con tuo figlio?”

“Non voglio mettermi in mezzo. Diego è figlio unico, lo hanno avuto tardi, dopo anni di tentativi. Lo ricoprono di attenzioni, gli stanno sempre addosso, poi, sai, con questa storia del diabete. Io capisco tutto, però non lo fanno mai respirare. Mettiti la felpa, non correre, non sudare, ma che vita è per un ragazzino di 10 anni.

Metto l’acqua sul fuoco. Un amico mi ha portato un pezzo di guanciale da Amatrice” “Grande, bucatini all’amatriciana!” Alcide era entusiasta all’idea “I bucatini non ci sono. Spaghettini?”

“Spaghettini all’amatriciana? Ma ti rendi conto? E’ una bestemmia. E comunque mi raccomando, almeno falli al dente” “Certo, 14 minuti” “Ma che siamo all’ospedale? Per i bucatini, quindi regolati di conseguenza, dieci minuti al massimo e poi li ripassi in padella. E non ci mettere né aglio, né cipolla” “Magari solo un po’” “Fermo lì. Se ti sente Cannavacciuolo ti denuncia. Taglia il guanciale a tocchetti e mettilo in padella senza olio, tanto caccia il grasso. Deve essere croccante. Poi aggiungi i pelati, mi raccomando non la polpa o la salsa: i pelati. E quando il sugo è pronto, ci versi dentro i bucatini, aggiungi un po’ dell’acqua di cottura per mantecarli e pecorino a pioggia” “O, ma che palle! Da quando guardi Masterchef non ti si regge più! E comunque i pelati non ce li ho, c’è la salsa di pomodoro. E nemmeno il pecorino. Se ti va bene è così sennò te ne vai al ristorante” Carlo prese la padella dalla credenza e Alcide si sedette sconsolato in poltrona.

“Preferisco non guardare: spaghettini all’amatriciana senza pelati e senza pecorino, roba da pazzi” fu il suo unico commento.

“Tu intanto tienimi aggiornato sulla corsa” “Niente di particolare, la fuga continua, il gruppo è distante, ma questo conta poco, tanto poi sui colli li riprendono”

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“Io punto su Viviani, è in grande forma” “Beh, è uno dei favoriti, anche se alla Milano Sanremo è difficile fare pronostici. In volata può accadere di tutto. Piuttosto stavo guardando questo gruppetto di fuggitivi, guarda che stanno facendo un gran lavoro, magari chissà riescono a tenere fino in fondo” “Impossibile. Se tiri per duecento e passa chilometri in sette, otto, dieci non ce la puoi fare. Devi metterti in testa al gruppetto per mille volte, fendere l’aria, faticare il doppio e quando iniziano le salite hai le gambe molli. Io non me la ricordo una fuga vincente alla Sanremo” “Hai ragione. Però questa è una fuga diversa, mi ha colpito molto questa storia del diabete, questi qui dimostrano di avere le palle. E poi, magari, nel gruppo c’è qualche loro compagno che allo sprint potrebbe avere qualche possibilità” “E’ difficile, quando il gruppo li prende arrivano i campioni, le squadre esperte che ti chiudono, che lasciano uno spiraglio solo per i capitani, i grandi nomi. Vincere una Sanremo ti cambia la vita” “Certo che l’anno scorso Nibali fece un capolavoro sul Poggio. Forse non pensava neanche di vincere, voleva solo stoppare l’attacco. Ma poi evidentemente si sentiva bene, gli ultimi due chilometri sul falsopiano riusciva a usare un rapporto alto, ha guadagnato quei 10, 12 secondi e allora, si è detto, a questo punto o la va o la spacca” “Parliamo di un grande. Mi ricordo che soprattutto all’inizio c’era un tempo da lupi, pioggia, vento. Oggi, invece è primavera, guarda che belle immagini, viene voglia di mettersi il costume e scendere in spiaggia.

Lì sulla curva c’è un chioschetto dove fanno dei panini buonissimi. E poi hanno una birra artigianale prodotta da certi monaci…Insomma ti piazzi al sole e passi una giornata da Dio” “Mi sa che lo conosco quel chioschetto perché poco più avanti c’è un ristorante sulla spiaggia. Lo gestisce un pescatore che la mattina esce in barca e la sera cucina il pescato. Poche pretese, ma un gusto unico e una frittura di paranza che ci mangi in due, forse in tre. Comunque vieni a sederti a tavola, è pronto” Alcide guardò il suo piatto con sospetto. Poi arrotolò una forchettata di spaghettini.

“Eh? Allora, che mi dici?”

“Dico che sono immangiabili. Una poltiglia, ma quanto li hai cotti?”

“Dieci minuti, come avevi detto tu. E poi li ho ripassati 3,4 minuti in padella” “Ma io avevo detto dieci minuti per i bucatini. Questi sono spaghettini, si cuociono prima! Carlo, ti posso dire una cosa? Fanno veramente schifo” “Questione di gusti, a me sembrano ottimi. E poi, che sughetto eh? “ “Lasciamo perdere, guardiamoci la corsa che è meglio. L’anno prossimo cucino io” Alcide, con una smorfia di disgusto, si alzò per gettare gli avanzi nel sacchetto verde destinato all’organico.

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“Fermo, non li buttare, li do stasera a Brio” “Secondo me, fanno schifo pure a lui. Prendi le paste che ho portato. Almeno mangio anch’io”. Alcide scartò il pacchetto e prese un cannolo mugolando di piacere. Brio si sedette accanto a lui nella speranza di rimediare qualcosa” “Non gli dare niente che poi si sente male” “Ma mi guarda con certi occhi…”

“Lo so, lo fa sempre, ma non farti fregare. Piuttosto guarda che bella l’Aurelia che inizia a salire. Ora iniziano i colli, Capo Mele, Capo Cervo, Capo Berta: la corsa entra nel vivo”.

“E la fuga è ancora davanti” “Sì, ancora per poco. Ormai il gruppo è a un paio di minuti” “Eh, ho paura di sì. Secondo te chi è stato il miglior cronista della Sanremo” “De Zan e, prima di lui, forse Gianni Brera. Ma i più vecchi ricordano un giornalista dell’Unità, parliamo di tanti, tanti anni fa. Ti faceva vivere la corsa come nessuno al mondo. Si chiamava Attilio Camoriano, era stato un partigiano, a quei tempi lo chiamavano Biondo” “In casa mia L’Unità non entrava, mi chiamo Alcide non te lo scordare, un motivo ci sarà” “E io Carlo, mio padre leggeva Marx. E L’Unità. Comunque, dopo la guerra, questo Camoriano era diventato un giornalista sportivo specializzato nel ciclismo: aveva uno stile unico perché mischiava le parole ai versi dei corridori, li faceva ansimare in salita, li faceva pregare in discesa, entrava nei loro pensieri, nelle loro strategie. E naturalmente nelle loro fughe. Insomma io non me lo ricordo, parliamo degli anni ’50, però ho sentito dire che era un maestro di giornalismo”.

“E poi, che fine ha fatto ?”

“E’ morto ancora giovane, all’ospedale di Genova, nel ’74, ma aveva già smesso di scrivere per L’Unità perché non si riconosceva più nel partito, era deluso, amareggiato. Ha pubblicato pure un paio di libri sulla lotta partigiana, qualcosa su Bartali, ma sono praticamente introvabili” “Peccato. Comunque nel frattempo Masnada si è staccato di una decina di metri” “Troppo presto, lo riprendono sicuro, ormai sono a una trentina di secondi. Manca ancora la salita della Cipressa e poi la discesa. Dai, faccio il caffè” “Per me no, grazie, altrimenti non dormo. Magari c’è dell’orzo?”

“Orzo? No, mi dispiace” “E figurati se uno che non ha in casa pecorino e pelati poteva avere l’orzo. Dai vieni a sederti che ormai ci siamo” “Secondo me anche stavolta si decide sul Poggio” “Può darsi. Nel frattempo il gruppo è arrivato. Ora è un terno a lotto”

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“No, è un gioco di squadra. Adesso bisogna bloccare tutti i tentativi e giocarsela negli ultimi metri” “C’è Bonifazi, c’è Trentin e c’è anche Nibali, anche se è impossibile ripetersi a certi livelli” “C’è una salita e una discesa prima del falsopiano di via Roma. Diciamo sei minuti per la salita e quattro per la discesa. Una decina di minuti in tutto” “Sarà una bella volata finale” “Eh sì, ci sono tutti: Sagan, Nibali, Alaphilippe. Vai, vai, vai!!”

I due amici si gustarono gli ultimi metri in piedi e quando il francese tagliò il traguardo tutti e due urlarono “Te l’avevo detto, io” dandosi reciprocamente una pacca sulle spalle in segno di vittoria.

“Che bella corsa, in fondo ha vinto il migliore” “Sì, quest’anno è in gran forma” “Ha allungato sul Poggio, si è lasciato riprendere e poi ha piazzato la stoccata finale. Grande prova” “Resta però l’impresa dei ragazzi, quelli con il diabete, mi hanno colpito molto” “Fantastici, non ho parole”.

Alcide e Carlo rimasero incollati alla televisione per le interviste, la premiazione, i commenti tecnici. Poi, quando ormai fuori era buio: “Vabbè, io quasi quasi mi avvio verso casa. Programmi per domani?”

“Devo portare Brio dal veterinario, per i vaccini” “Ah, allora dai, ci si vede al bar” Alcide salì sulla sua Punto, mentre Carlo iniziò a riassettare.

Pelati – pensò- bucatini, pecorino, quante storie. Un piatto di pasta è un piatto di pasta.

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La squadra del team Novo Nordisk rappresenta il fine ultimo della perfetta alleanza che deve crearsi tra medico curante e persona con diabete.

Soprattutto nei bambini e nei giovani con tipo 1 è fondamentale far capire ai pazienti che non hanno meno chance dei loro coetanei, che non partono svantaggiati. Anzi proprio la consapevolezza della patologia e l’autodisciplina che questi ragazzi apprendono nei campi scuola e nelle altre attività formative rappresentano un valore importante che si porteranno dietro per tutta la vita.

Agostino Consoli Presidente eletto Società Italiana di Diabetologia – SID

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“Lino per gentile concessione di AGD ITALIA, ha accompagnato come mascotte l’impresa dei corridori del Team Novo Nordisk alla Milano Sanremo del 2019”

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Capitolo VII Luisa cambia idea Non avrebbe mai pensato di rimanere incollata davanti alla televisione per una corsa ciclistica, neanche fosse lo sbarco sulla luna. Ma quei ragazzi l’avevano conquistata: Luisa era rimasta seduta a farsi delle domande e quando Diego e Simone erano rientrati dal parco era rimasta silenziosa.

Aveva misurato la glicemia al figlio e aveva preparato il pranzo seguendo, come sempre, le indicazioni del medico. Anche a tavola non era stata del solito umore.

“Petto o coscia?” aveva chiesto “Per me coscia – aveva risposto Diego – me la sgranocchio tenendola con le mani” “Tutto bene?” le aveva chiesto Simone a quel punto “Sì, sì, tutto bene” “Mi sembri un po’ assente” “No, è che…dai ne parliamo dopo” Per tutto il pomeriggio Simone si chiese cosa fosse successo. Era un padre attento e un marito innamorato, tutto lavoro e famiglia. Il negozio di ferramenta, ormai ben avviato, assicurava una sicurezza economica a tutta la famiglia. E poi c’era il lavoro di Luisa come traduttrice, un lavoro che poteva fare da casa garantendo a lei un’indipendenza economica senza toglierle il tempo necessario per assicurare a Diego le necessarie attenzioni. A parte il diabete, il ragazzino attraversava un momento difficile: il passaggio dalle elementari alle medie, nuovi compagni, nuova scuola, le prime domande alle quali è difficile rispondere.

Dopo cena Simone si versò un goccio di amaro e si accomodò sul divano. Diego era andato a dormire e Luisa si sedette pensierosa accanto a lui.

“Allora, ti va di parlare?”

“Oggi mi ha chiamato tuo padre” “Che è successo? Si sente poco bene?”

“No, tranquillo, niente di tutto questo. Voleva solo dirmi di guardare la televisione, la corsa ciclistica, la Milano Sanremo: io, lo sai, non sono mai stata una sportiva, a malapena guardo le partite della nazionale con te e Diego. Però in questa corsa c’era un gruppo di ragazzi con il diabete, voglio dire ciclisti con il diabete”.

“Ciclisti con il diabete?”

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“Sì, una squadra, sono professionisti, corrono insieme ai campioni, però hanno il diabete. Insomma questi ragazzi sono andati in fuga, ho imparato che si dice così, per quasi tutta la gara sono stati in testa. Non so come è finita e sinceramente non me ne importa molto. Quello che mi ha colpito è la loro forza. Lo sottolineava anche il telecronista.

Allora dopo pranzo sono andata su internet e ho scoperto che nello sport professionistico ci sono diversi atleti con il diabete: calciatori, nuotatori, giocatori di pallavolo. Insomma mi stavo chiedendo se, con Diego, stiamo seguendo la strada giusta”.

“Ma Diego ha il tipo 1” “Anche loro, i ciclisti, tutti tipo 1” “Saranno supermen” “Niente affatto, Sono ragazzi normalissimi, vengono da tutto il mondo”.

“E come fanno con i controlli, con la glicemia…”

“Non hanno problemi, se vanno in ipo prendono un po’ di zucchero, in caso di necessità si fanno l’insulina, così, mentre pedalano, come se fosse la normalità. Ed è questa la parola chiave, quella che mi è rimasta impressa: normalità “ “Non capisco bene dove vuoi arrivare” “Dico semplicemente che forse dovremmo smetterla di considerare Diego un ragazzino speciale. Noi lo facciamo con tutto l’amore di cui siamo capaci, lo proteggiamo, lo curiamo. Però, forse, a lui manca proprio questo: la normalità” “Ma i medici ci hanno sempre consigliato prudenza, moderazione, controllo” “E’ vero, ma questo non significa privazione. Diego è cresciuto sotto una campana di vetro, ora è il momento che prenda coscienza della sua normalità. E lo sport può essere un fattore chiave: può iniziare magari giocando a calcio nella squadretta del quartiere. In fondo lui ha sempre amato il calcio. Oppure il tennis, il basket, il nuoto, lasciamo scegliere lui” “Ma, e se poi si dovesse sentire male?”

“Simo, ho capito che è più un problema nostro che suo. Diego è maturato, è in grado di gestire tutti i suoi valori, ormai ne sa più di noi. Frequenta i campi scuola della Federazione Diabete Giovanile, ha imparato tutto quello che deve sapere sul piano terapeutico e psicologico: ha fatto un gran lavoro ma lì ha incontrato ragazzi e ragazze nelle sue stesse condizioni. Io vorrei che uscisse da questo steccato, che entrasse nel modo dei normali, che è un termine orrendo, ma serve a rendere l’idea. In fondo che rischi corriamo?”

Simone era perplesso ma la determinazione di Luisa lo aveva colpito.

“Dai, proviamo. Ma secondo me Diego non la deve percepire come una concessione, per lui lo sport deve essere, come dicevi tu, una cosa normale che, come dicevi tu, è un termine orrendo, ma anche una conquista.

Facciamo così: ne parliamo con il dottor Laurenti, lasciamo che sia lui a valutare. E adesso vieni qui che mi sei mancata, tutto il giorno imbronciata”

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Lo sport può essere una straordinaria palestra per imparare a gestire il diabete in ogni situazione, specialmente quelle complesse che si vivono quando si pratica un’attività fisica, in questo caso molto intesa e impegnativa. Ciò che questi ragazzi fanno è estremamente utile per loro, perché si portano a casa un bagaglio di conoscenze, competenze ed esperienze che gli rimarrà per tutta la vita, e per gli altri a cui si apre una nuova prospettiva: il diabete non può essere considerato una barriera, se non siamo noi stessi che ci poniamo dei limiti.

Paolo Di Bartolo Presidente Associazione Medici Diabetologi (AMD)

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Capitolo VIII Il medico musicista Come era sua abitudine, dopo pranzo, Massimo Laurenti si sedette al pianoforte. Improvvisò un ragtime: suonava da Dio e la signora Dorota, che gli teneva in ordine la casa, gli preparava da mangiare e gli stirava le camicie, iniziò a saltellare a ritmo di musica mentre ripuliva i fornelli. Aveva iniziato a studiare pianoforte da piccolo, all’età di 6 anni, grazie alle cure della nonna che, ai suoi tempi, era stata un’apprezzata concertista e, a un certo punto della sua vita, aveva anche pensato di iscriversi al Conservatorio per trasformare quella passione in una professione.

Ma suo padre, un austero quanto autoritario cardiochirurgo, non aveva sentito storie “Sarai un medico – gli disse dopo la maturità classica – perché di medici ci sarà sempre bisogno” “Anche di musicisti” “Forse, ma non salvano vite. E poi Paolo Borsellino ha scritto che esistono solo tre mestieri utili e tutti e tre con la M: il maestro, il magistrato e il medico” “Allora aggiungiamo un’altra M: il musicista” “Non se ne parla” Certo Massimo Laurenti avrebbe potuto imporsi, in fondo la vita era sua. Ma non aveva il carattere per fronteggiare il padre, non era sostenuto da sua madre, una donna del sud che per cultura e tradizioni non avrebbe mai contraddetto il marito. Solo la nonna avrebbe potuto aiutarlo, ma ormai era stanca e indebolita dalla vecchiaia. E poi, per dirla tutta, non è che a Massimo Laurenti dispiacesse l’idea di diventare un medico: il problema era che si impressionava alla vista del sangue, della sofferenza, del dolore. Così, dopo una brillante laurea con 110 e lode conseguita alla prima sessione del sesto anno, sotto gli occhi soddisfatti del padre, aveva scelto una specializzazione come diabetologia.

“Non potrei mai essere un bravo chirurgo papà – furono le sue parole – mi dispiace ma ho scelto un’altra strada” “Lo fai per vendetta?”

“No, lo faccio perché credo che come diabetico sarò in grado di ascoltare e di capire. Lo faccio perché questa è forse l’unica branca della medicina in cui il dottore può condividere la malattia con il paziente. E poi lo faccio perché lo voglio fare” 131

“Bene, prendo atto della tua decisione. Però se come chirurgo avrei potuto aiutarti, come diabetologo dovrai fare affidamento solo sulle tue capacità. Io mi chiamo fuori” “Bene, ne prendo atto. Ce la farò da solo”.

Quella scelta, per Massimo Laurenti, diede inizio alla sua fuga.

Chiuse il pianoforte e si preparò ad uscire. Il Centro antidiabete era vicino alla sua abitazione e Laurenti inforcò la bicicletta. Alla soglia dei 50 anni si conservava in splendida forma: alto un metro e novanta, magro, fisico atletico, lunghi capelli grigi, occhi azzurri. Non aveva mai voluto sposarsi, anche se aveva vissuto storie d’amore lunghe e coinvolgenti, perché teneva molto alla sua indipendenza. Arrivò allo studio in pochi minuti: quel pomeriggio la sala d’attesa era particolarmente affollata e la sua assistente gli portò un caffè e l’agenda degli appuntamenti. Luisa, Simone e il piccolo Diego entrarono per primi.

“Ecco qui il mio amico Diego. Allora, come andiamo?”

“Molto bene. Ma vorremmo chiederle un consiglio” “Vediamo prima il diario “Laurenti studiò scrupolosamente la documentazione. “Direi che ci siamo. Bravo Diego. Con le nuove penne come ti trovi?”

“Tutto bene” sussurrò il ragazzino un po’ imbarazzato “Allora – Laurenti si rivolse a Luisa e Simone – di cosa volevate parlare?”

“Di sport. Domenica scorsa alla Milano Sanremo di ciclismo c’era un team di ciclisti diabetici” “Li conosco bene” “Ecco, ci stavamo chiedendo se non fosse il caso che anche Diego iniziasse a praticare qualche sport” “Signora Luisa, ne abbiamo parlato milioni di volte. Lo sport fa parte della terapia, come l’insulina e l’alimentazione. Non è qualcosa in più: è parte della terapia. Le ho detto che anche io ho il tipo 1 eppure gioco a tennis e vado in bicicletta. Dovete superare questo problema, non c’è alcun rischio” “Allora perché non posso giocare a calcio insieme a Tommaso?” intervenne Diego che sembrava distratto, ma in realtà aveva seguito con molta attenzione il dialogo “Tu devi giocare a calcio, se ti fa piacere” Laurenti marcò proprio quel verbo prima di rivolgersi ai genitori, mentre Diego iniziò a saltare di gioia.

“Ascoltate, Diego ha bisogno di fare sport, di stare in uno spogliatoio con gli altri ragazzini della sua età, di condividere le gioie per una vittoria e i piccoli dispiaceri per le sconfitte. Deve abituarsi alla vita e il diabete non può essere un freno al suo sviluppo. In una parola: lasciatelo vivere, lasciate che si diverta. D’accordo?”

“D’accordo. Se lo dice lei…” sussurrò Luisa con un filo di voce mentre Simone strinse forte la mano al dottore “Sì, lo dico io. Ciao campione. A proposito, per chi tifi?”

“Sampdoria, e lei?”

“Grifone, dalla testa ai piedi” 132

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Quali gli strumenti per avere una vita più lunga e di migliore qualità? Acquisire sin dalle prime età le abitudini più favorevoli per crescere e mantenere un organismo forte e per garantire uno sviluppo neuropsicologico ottimale, così importanti per affrontare al meglio gli accadimenti dell’esistenza.

E lo sport, che è impegno, umiltà, costanza, fatica, gioia e delusione, è un’attività indispensabile per raggiungere questi obiettivi.

Claudio Maffeis Presidente Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica

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Capitolo IX Alfio, il Mister Il passaggio dal dire al fare non fu semplice. Luisa e Simone si rivolsero alle varie società di calcio vicine alla loro casa, ma trovarono solo porte chiuse.

“Signora, con tutta sincerità, non mi posso prendere questa responsabilità” era la risposta più frequente, quasi un disco. Al punto che i due genitori stavano per perdere ogni speranza.

“Forse non dovremmo dirlo” si sfogò Luisa dopo l’ennesimo tentativo andato in fumo “ in fondo nessuno potrebbe accorgersene” “No, non sono d’accordo” rispose Simone “non c‘è nulla da nascondere. E poi mi sembrerebbe di fuggire dalla realtà. E non sarebbe giusto, soprattutto per Diego” Finché non incontrarono Alfio. Aveva giocato negli allievi della Roma, lui che era nato a Primavalle con il cuore mezzo giallo e mezzo rosso. Era stato una vera promessa, destinato probabilmente a diventare una stella, prima che un brutale intervento in area di rigore gli spezzasse insieme i legamenti e i sogni. Per Alfio la fuga terminò su quel maledetto campo in tufo, alla periferia della città.

Aveva così iniziato a lavorare nella bottega di suo padre, come elettrauto, ma la passione per il calcio non era finita e Alfio aveva seguito il corso per diventare allenatore delle squadre giovanili. Tre pomeriggi a settimana si metteva in tuta e scarpini per dirigere gli allenamenti e i ragazzi avevano grande soggezione di questo omone grande e grosso.

Quando Luisa e Simone lo incontrarono, le sue uniche parole furono “Nun c’è problema. Diego se po’ allenà co’ noi” “Ma ha capito bene? Diego ha il diabete” “E chi se ne frega. Si è bravo, si s’allena bene, si se da da fa’, gioca. Sinnò se siede in panchina. E regole so’ queste, diabete o non diabete” E così il martedì successivo Diego si presentò al campo. Era emozionato come poche volte nella sua vita.

Luisa fece per entrare nello spogliatoio per aiutarlo ma Alfio intervenne subito.

“Eh no signo’, mo’ qui commanno io. Diego pija la borsa e viè co’ me” Appena entrati nello spogliatoio, i ragazzi smisero di fare chiasso.

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“Allora ragazzi, silenzio. Lui è uno novo, se chiama Diego. Diego c’ha un problema, ‘na malattia, se chiama diabete. Si ve vedo che lo trattate in maniera diversa, che nun entrate, che nun lo pijate a spallate, a carci o, peggio ancora, che nun je passate la palla, ve caccio dar campo. Intesi?”

“Sì mister” rispose qualcuno “Nun ho capito” “Sì mister” urlarono tutti in coro Luisa seguì tutto l’allenamento dalla tribuna. Giri di campo per riscaldamento, un po’ di tecnica con i birilli, stop e tiri in corsa e poi una partitella otto contro otto. Diego fu bravissimo, seguiva tutti gli ordini di Alfio e quando qualcuno della sua squadra segnava un goal era il primo a festeggiare.

Alla fine dell’allenamento Luisa si avvicinò allo spogliatoio, aveva visto Diego stanco e voleva aiutarlo a rivestirsi.

“Che jò detto, signora? Qui è zona mia. Adesso Diego se fa la doccia e quando è pronto esce. Se ricordi che la doccia co’ gli altri regazzini fa parte dell’allenamento. E’ qui che se socializza, sotto l’acqua carda” Passarono dieci minuti e Diego fresco e profumato come una rosa varcò la porta metallica dello spogliatoio.

Era raggiante.

“Allora come è andata?”

“Tutto bene” “E che ti ha detto il mister?”

“Niente. O forse qualcosa mi ha detto, ma parla in modo strano, non è che lo capisco molto” “Ahò, Diego!”

Alfio lo stava chiamando dal campo dove aveva iniziato ad allenare i ragazzi degli Esordienti.

“Sì?”

“Sei stato bravo. Se vedemo venerdì” A cena Diego non stava più nella pelle, continuava a raccontare a Simone quanto si fosse divertito a correre con il pallone tra i piedi.

“Ma non è che ti sei stancato troppo?”

“No, a un certo punto però non ce la facevo più a correre dietro a Riccardo. Quello è una freccia” “E poi per te era la prima volta, magari sei un po’ a corto di fiato” “Ecco, adesso mi ricordo, me lo ha detto anche il mister. Mi ha detto: Diego non ti preoccupare, sei fuori allenamento, è normale” Eccola la parola magica. Per la prima volta una ex promessa del calcio, un elettrauto che parlava romanaccio, aveva capito di cosa aveva bisogno Diego: lo aveva fatto sentire un atleta, lo aveva spronato, redarguito, incoraggiato proprio come faceva con gli altri ragazzi della squadra.

E soprattutto gli aveva detto: “E’ normale” 138

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La delegazione del Team Novo Nordisk consegna a Papa Francesco la maglia ufficiale del Team 140

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Il Team Novo Nordisk è la prova che il diabete può essere gestito in maniera ottimale e non rappresentare un ostacolo al raggiungimento di obiettivi ambiziosi. Siamo orgogliosi di aver avuto il privilegio di incontrare il Pontefice in una celebrazione così importante come la Giornata Mondiale del Diabete. Sarà uno sprone per i ragazzi della squadra per continuare a gareggiare sempre meglio per essere d’esempio e incoraggiamento per le persone con diabete.

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Phil Southerland CEO Team Novo Nordisk

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Capitolo X Mesi dopo Carlo arrivò puntuale alle 10 di sera.

“Fai piano che Diego dorme. Domani è il suo compleanno ed è molto eccitato. Abbiamo organizzato una festina con i suoi amici, i compagni di scuola, i compagni di squadra. Figurati che viene pure il mister” “Dove la metto?”

“Qui in soggiorno, così appena si sveglia la trova” “Secondo me gli prende un colpo. Dai, dammi una mano a scaricarla dalla macchina. Stamattina mi sono svegliato con il mal di schiena. Secondo me devo cambiare il materasso, ne devo prendere uno più duro” “E più costoso, tu vai in giro a cercare le offerte e poi ti compri un materasso che si imbarca. Ci credo che ti viene il mal di schiena. Scommetto che hai risparmiato pure su questa” “Col cavolo, è una Colnago, proprio come quelle dei ciclisti diabetici” “Allora stavolta hai esagerato. Lui sa andare in bici, ma non è che…”

“Oh ma non ti va mai bene niente. E’ un regalo per mio nipote e ci tengo. Perciò falla finita” “Il caschetto l’hai preso?”

“Certo, eccolo” Si accomodarono e Luisa li raggiunse “Ciao Carlo, allora hai portato il mostro?”

“Eccola, guarda che meraviglia” Luisa fece grandi cenni di approvazione, ma in realtà di bici da corsa non capiva nulla.

“Mi avete promesso che gliela farete usare per andare a scuola, vero?”

“Sì, magari quando ci avrà preso la mano” “Oh, ragazzi, non facciamo scherzi sennò la ricarico in macchina e tanti saluti. I patti erano chiari. Che vi ha detto il dottore? Dovete lasciarlo respirare, la scuola è a poche centinaia di metri, non ci sono macchine né pericoli. Pensate alla faccia dei compagni di scuola quando vedranno Diego arrivare in sella a questo missile” “Non esageriamo: missile. Deve essere prudente, andare piano, fermarsi agli incroci…”

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“Ma sì, sì, l’importante è che si diverta. Poi, se dovesse diventare una passione…”

“Papà non metterti strani pensieri in testa. Per Diego questa bici sarà importante, ma nulla di più. Per adesso gioca a calcio ed è già una conquista” “E come gioca? In che ruolo?”

“Sta in difesa, non è un fenomeno soprattutto se vedi certi ragazzini alla sua età che fanno cose incredibili: dribbling, cross, colpi di testa. Ce n’è uno che sembra Maradona, basta passare la palla a lui ed è goal sicuro.

Diego è disciplinato, mantiene la sua posizione, sta attento a quello che gli dice il mister, ogni tanto qualche bella sgroppata sulla fascia, insomma uno che porta sempre a casa il 6 in pagella.

Però quello che conta è che si fa la doccia con gli altri, non si nasconde. Se qualcuno gli chiede qualcosa lui gli spiega che ha il diabete. Insomma è un miracolo” “Meno male che vi siete convinti. Meglio tardi che mai. Va beh, io vado. Allora domattina, a che ora si sveglia Diego?”

“E’ domenica, dovrebbe dormire un po’ di più, ma sarà eccitato. Direi che se passi verso le 8,30 dovrebbe andare bene” Alle 8 in punto Carlo suonò il campanello. Luisa aprì in vestaglia.

“Oddio scusa, ti ho svegliato?”

“No, entra, stavo facendo il caffè” rispose Luisa sbadigliando.

“Bene, proprio quello che ci vuole” Carlo si sedette e aprì la Gazzetta.

“Ciao pa’” “O, Simone, dormito bene?”

La risposta arrivò con un grugnito. “Ieri sera abbiamo fatto un po’ tardi. Diego è rimasto con la baby sitter e noi siamo andati a cena da amici. Troppo cibo, troppo vino, troppa grappa” “Comunque ve l’ho già detto: quando avete bisogno chiamatemi, ci sto volentieri con Diego senza bisogno di baby sitter” “Grazie papà, ma non ce n’è bisogno” “A proposito che fa? Dorme?”

“Sì, ma vedrai che tra qualche minuto scende” Proprio in quel momento si sentì il rumore delle ciabattine. Diego era uscito dalla sua stanza e stava scendendo i primi gradini della scala interna. La vide subito, davanti al caminetto, fiammante. Rimase con la bocca spalancata e non per modo di dire: Diego immobile, in pigiama e pantofole, incredulo con gli occhi spalancati e la mandibola prolassata.

Ci fu un lungo silenzio prima che il ragazzino iniziasse a ridere. Una risata contagiosa mentre i genitori e il nonno intonavano Tanti auguri a te.

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“Ma…è mia?”

“Certo, è tutta tua” “E ci posso andare?”

“No – rispose Carlo – la puoi solo guardare” Diego si ammutolì. Il suo viso si fece serio.

“Ma sto scherzando, scemo, certo che ci puoi andare. A scuola – Luisa fece gli occhiacci al nonno - al parco, in giro con gli amici. Sempre con il caschetto, però” Carlo non aveva neanche finito di parlare e Diego si era già precipitato in camera sua: maglietta, pantaloni, una rapida lavata di muso e di denti. Poi si buttò giù per le scale, prese la bici, si strinse il caschetto sulla testa” “Pensa, Diego, che c’è una squadra di ciclisti con il diabete – disse Carlo - ciclisti professionisti, che fanno le gare che si vedono in televisione…”

Ma Diego non lo stava più ascoltando, ebbe giusto il tempo di dire Grazie, grazie a tutti. Poi saltò in sella e imboccò la strada verso il centro inseguito dalle ultime raccomandazione di Luisa: attento alle macchine!!!

La prima pedalata, la prima emozione, il primo contatto con una realtà che Diego non conosceva, quella della vita reale, lontano dai pregiudizi, la vita delle persone normali.

Quella, in una mattinata di sole, proprio nel giorno del suo compleanno, fu la prima, grande fuga della sua vita.

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Il Team Novo Nordisk viene premiato alla presenza di Eddy Merckx e dell’Onorevole Roberto Pella

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Premio “Castello d’Oro di Valdengo Gran Galà del Ciclismo “Un premio al merito e alla tenacia, un gruppo sportivo votato alla sensibilizzazione e alla lotta contro il diabete, una malattia terribilmente comune e debilitante. Un Team capace di infrangere il muro dell’indifferenza, tesserando solo atleti afflitti dalla succitata patologia. Una squadra vincente comunque a prescindere dai risultati. Straordinari nel portare il messaggio che con il diabete si può convivere senza infrangere i sogni”

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Ringraziamenti Un libro è come una squadra. C’è il capitano che rifinisce (o finisce) il compito, ma dietro c’è il lavoro preparatorio e di supporto di tante persone. Ecco perchè questo libro è una vittoria collettiva. A cui hanno dato un contributo cruciale persone come Federico, Alessandro, Marco e tutta la Novo Nordisk, che prosegue nel suo impegno globale per diffondere un messaggio importantissimo.

Un libro che avrebbe avuto poco senso senza il racconto a cuore aperto di Andrea e Umberto, che con le loro storie e le loro emozioni hanno dato un’anima a queste pagine. Loro due, come tutte le persone con diabete, ogni giorno posso veicolare imprese, battaglie, difficoltà e modi per affrontare al meglio questa situazione.

E infine grazie al ciclismo. Un mondo che ormai ha catturato la mia intera esistenza. Capace ogni volta di regalarmi un nuovo sorriso e una nuova emozione. Un dono venuto da Dio che non voglio sprecare.

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L’Assessore allo Sport e Giovani della Regione Lombardia Martina Cambiaghi insieme a Lino, Andrea Peron ed Umberto Poli durante la Conferenza stampa di presentazione della Milano-Sanremo

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Lino e il Diabete, AGD Italia e Team Novo Nordisk Il progetto “Lino e Il Diabete” nasce, ad opera di AGD Italia, dal desiderio di integrare gli usuali strumenti di educazione sanitaria, coinvolgendo e facendo immedesimare nei personaggi del libro chi in età precoce viene travolto dall’insorgenza del diabete. Il peluche, morbido e coccoloso, dotato di fasce colorate a tinte vivaci, non è solo un gioco, ma vuole essere anche un mezzo affinché i bambini imparino con leggerezza in quali zone del corpo praticare l’iniezione di insulina.

Come genitori abbiamo sperimentato come l’esordio è un momento destabilizzante per il bambino che si sente il fulcro di una situazione dolorosa e fortemente stressante. La storia di Lino, ideata e proposta grazie alla sensibilità di AGD Italia, intende fornire un esempio dei pensieri che i bambini talvolta esplicitano, ma molto spesso, non sanno come o pensano di non dover esprimere. Nel racconto gli autori, forti della loro esperienza sul campo, dimostrano come sia possibile rispondere con chiarezza, spontaneità e modi rassicuranti persino alle domande più importanti e difficili. Rispondere con parole ma anche con piccoli gesti, che, come ha ben messo in evidenza l’illustratore, costruiscono un clima relazionale di intimità e fiducia. Il Team Novo Nordisk ha sposato in pieno il progetto mettendo a disposizione il proprio contributo in termini di sport ed esperienza di vita.

“Lino per gentile concessione di AGD ITALIA, ha accompagnato come mascotte l’impresa dei corridori del Team Novo Nordisk alla Milano Sanremo del 2019” 153

Ultimo Chilometro “Tutti hanno bisogno di esempi da seguire” Nel giugno 2012 ho incontrato Phil Southerland, fondatore di quello che in seguito diventerà il Team Novo Nordisk. Ha condiviso una visione che immediatamente ha avuto risonanza con me dal momento che era molto simile alla visione di Novo Nordisk per responsabilizzare le persone con diabete e cambiare il loro diabete in meglio. È diventato l'inizio di una partnership che ha portato alla creazione del Team Novo Nordisk, il primo e unico team di ciclismo professionistico al mondo di soli atleti con diabete.

Ci è diventato chiaro che per fare qualcosa di veramente unico e speciale, qualcosa che potesse dare speranza alle persone con diabete, il team doveva consistere solo di persone con diabete. Da questa decisione seguì che tutti nel team potevano essere ambasciatori di Changing Diabetes raccontando le loro storie di vita a persone con diabete, storie di difficoltà ma anche storie di speranza e ispirazione.

Quando mi è stato diagnosticato il diabete nel 1978, non c'era il Team Novo Nordisk. Non c'era nessuno che potesse darmi speranza, nessuno che potesse essere quell’esempio e farmi credere che la vita con il diabete potrebbe essere come la vita senza di esso. In qualche modo, ci sono riuscito – probabilmente sono stato solo fortunato. Ma la vita personale e professionale mi ha insegnato quanto significhi essere motivati a credere – tutti abbiamo bisogno di esempi da seguire. L'incontro con Phil Southerland mi ha fatto capire che il Team Novo Nordisk e questi straordinari individui che perseguono il

sogno della loro vita potrebbero essere quel catalizzatore per milioni di persone con diabete.

Il Team Novo Nordisk ci ha regalato innumerevoli momenti magnifici. Ne citerò solo due che spiccano per me fra i molti. Nel 2016 a San Jose, quando il Team Novo Nordisk aveva terminato la terza tappa al Tour della California, un ragazzino con diabete di nome Austin e suo padre incontrarono i ciclisti esausti del Team Novo Nordisk. Mai in pausa quando le persone con diabete vogliono incontrarli nonostante la loro stanchezza fisica, i ciclisti invitarono Austin sul bus del team, dandogli il classico saluto degli sportivi: “il cinque”. Austin lasciò l'autobus del team sentendosi più “figo” degli altri bambini, perché aveva il diabete come gli atleti del Team!

E nel 2017, nella più lunga gara di un giorno al mondo, la MilanoSanremo con la partecipazione dei migliori ciclisti del mondo, il più giovane ciclista del plotone Umberto Poli del Team Novo Nordisk, a soli 20 anni, condusse una fuga di 250 km per la maggior parte della gara, impersonando l’esempio che le persone con diabete possono raggiungere tutto ciò che sognano. Quei momenti sono speciali! Questi magnifici giovani atleti, diagnosticati diabetici, hanno creato speranza, ispirazione e motivazione per le persone con diabete e le loro famiglie, dimostrando di poter competere contro i migliori ciclisti professionisti del mondo. I loro risultati sportivi sono notevoli – tuttavia, per me la parte più importante è il messaggio che trasmettono alle persone con diabete. Corrono per dimostrare che il diabete non è una barriera per vivere i propri sogni.

Il Team ispira, educa e responsabilizza le persone affette da diabete.

E questo è molto importante per me e per le persone con diabete e le loro famiglie. Perché... Tutti hanno bisogno di esempi da seguire

Carl M. Bilbo Corporate Vice President Novo Nordisk

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"Alla fine della stagione, sarei felice se potessimo raggiungere tutti gli obiettivi che il team e io abbiamo in mente sia personalmente che professionalmente".

Diagnosi : 16 anni

Andrea Peron Ritorna nel 2020 per la sua ottava stagione con il Team Novo Nordisk è l'uomo veloce italiano Andrea Peron. Sulla scia di una consistente campagna 2019 che è stata completata con i primi 10 piazzamenti dall'Amgen Tour of California a maggio al Tour of Taihu Lake a ottobre, Peron ha cavalcato sul piede anteriore con il momento clou che era un podio sulla Fase 3 del Tour dell'Estonia e seconda nella classifica dei punti finali.

Il 31enne veneto è noto per la sua potenza e la sua impavidità negli sprint. Nel primo anno del Team Novo Nordisk, ha ottenuto 14 tra i primi dieci posti, compresi i podi al Tour de Beauce canadese e al Tour of China. Tre volte Peron ha corso nella principale fuga della giornata durante l'iconica gara italiana di un giorno Milano-San Remo per gran parte dell'evento di 298 chilometri, portando con orgoglio l'attenzione mondiale della maglia del Team Novo Nordisk.

Ulteriori punti salienti della sua carriera professionale includono nove prime 10 posizioni nella stagione 2019, un podio nella Fase 5 del Tour de Korea (2015), due prime cinque classifiche al Volta Ciclística Internacional do Rio Grande do Sul (2016) del Brasile e la quinta posto nella Fase 1 del Tour of Estonia (2018).

Peron è stato attratto dallo sport in tenera età. All'inizio gli piaceva correre, ma a 10 anni i suoi genitori lo trovarono troppo rischioso, quindi passò al ciclismo e presto iniziò a gareggiare. Ha subito riscosso successo e stava già vincendo le gare nel suo primo anno. Mentre continuava a vincere in tutta Italia, si rese conto che poteva avere il talento per essere un ciclista professionista.

A 16 anni, quando a Peron fu diagnosticato il diabete di tipo 1, pensò che il suo sogno di correre fosse finito. Fortunatamente, il suo medico lo ha incoraggiato a continuare l'allenamento e ad usare la bici come modo per gestire le sue condizioni. Dopo quattro stagioni di successo con il Cyber Team-VC Breganze, il giovane velocista è stato presentato al Team Novo Nordisk Sport Director, Massimo Podenzana, e si è unito al team la stagione successiva.

Fuori dalla bici, il 31enne ama rilassarsi a casa con la sua famiglia. Lui e sua moglie sono orgogliosi genitori di un figlio.

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"Non si deve mai smettere di sognare per inseguire il proprio obiettivo!"

Diagnosi : 16 anni

Umberto Poli Il 2020 segna il quarto anno del nativo veronese Umberto Poli nelle file professionali con il Team Novo Nordisk. Un solido anno di corse nel 2019 ha visto Poli tornare al suo monumento di casa, Milano-Sanremo, e recitare per la seconda volta nella giornata principale della sua carriera prima di intraprendere un programma internazionale che ha raggiunto il nono posto nella classifica della montagna al Giro della Danimarca.

Nel 2018, il suo straordinario risultato stava raggiungendo l'ottava tappa nella terza tappa del Tour de Tochigi e nel 2017, durante la sua stagione di debutto, l'italiano ha subito lasciato il segno sul gruppo professionista dopo aver ricevuto una chiamata a fine gara per l'iconico giornata italiana, Milano-San Remo.

Ha iniziato come il più giovane pilota in gara e ha corso nella fuga principale della giornata per gran parte della gara di 298 chilometri, portando con orgoglio l'attenzione mondiale sulla maglia del Team Novo Nordisk. Ha anche ottenuto il suo primo risultato top 10 in una gara classificata UCI 2.HC quando è arrivato decimo nella Fase 4 del Tour of Hainan (2017).

Poli ha trovato il suo amore per la bici quando era un ragazzino e ha iniziato a gareggiare per sei, ma da bambino non ha mai creduto di poter correre professionalmente. All'età di 16 anni e in seguito a una gara ciclistica, Poli notò che non si sentiva bene. Fu portato in ospedale dove gli fu diagnosticato il diabete di tipo 1. Con il supporto della sua famiglia affiatata, amici, allenatori e team medico, presto tornò ad allenarsi e correre.

Quando Poli compì 18 anni, si rese conto che con dedizione e impegno poteva guadagnare un contratto professionale. Presto un allenatore ha messo in contatto Poli con il Team Novo Nordisk attraverso il direttore sportivo Massimo Podenzana, che lo ha invitato a partecipare al campo di Talent ID dell'estate in Georgia.

Sulla base di questi risultati, "Umbe" ha guadagnato un posto nel team di sviluppo 2016.

Nella sua prima stagione, ha vinto la Fase 2 e la Fase 6 del Georgia Cycling Grand Prix ed è arrivato secondo sul Monte. Victory Road Race. Poli attribuisce il suo tempo al team di sviluppo come aiutandolo a crescere come ciclista e imparare a gestire meglio il suo diabete.

Quando non viaggia in giro per il mondo, Poli ama passare il tempo con la famiglia e gli amici ed esplorare la sua città natale in bici.

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Libro realizzato con il contributo non condizionato di Novo Nordisk S.p.A.