
4 minute read
I NEET l’abitudine i vizi e la volpe
from Brain. Aprile 2023
by Brain
Questo numero è dedicato ad i giovani ed in particolare ad una delle fasce più fragili, numerose ed allo stesso tempo fonte di grande preoccupazione per la società, dei nostri giorni: I NEET la quota di giovani che non studiano, non lavorano e neppure si addestrano a compiere una qualsiasi attività.
Sono giovani tra i 15 ed i 35 anni e sono in Italia, come descritto nell’articolo sui NEET che trovate in questo numero di Brain, una schiera incredibilmente elevata. Sono giovani fermi e improduttivi, hanno i motori spenti. Molti di loro non li hanno mai accesi. L’Italia ha il record negativo dell’ultimo posto tra i 27 Paesi della Ue: nella fascia d’età 15-34 anni la numerosità ha superato quota 3 milioni, (3.047.000 per la precisione). Secondo la fotografia del 2020 scattata dal governo e pubblicata all’interno del decreto del Ministero Politiche Giovanili-Lavoro, per l’adozione del piano “Neet Working”, gli oltre 3 milioni di ragazzi Neet rappresentano il 25,1% dei giovani italiani tra i 15 e i 34 anni, praticamente 1 giovane su 4.
Advertisement
Sono questi i giovani che il presidente Mario Draghi definì durante il suo mandato di presidente del consiglio la “lost generation”.
Per cercare di comprendere le cause che sono alla base del fenomeno è possibile fare una serie di tentativi per dissezionare il campione in sottogruppi in cui si tenga conto delle cause del loro stato, del perché sono così e del motivo per cui non cambiano.
Se provassimo a percorrere questa strada ci troveremmo di fronte a tutte quelle motivazioni che descrivono il disagio giovanile come: ambiente sociale di provenienza, grado di istruzione, le esperienze di vita, utilizzo di sostanze, le situazioni familiari, differenze nord-sud, condizione del mondo del lavoro, momento storico-economico del nostro paese, conseguenze della pandemia da Covid, conseguenze dirette ed indirette del conflitto russo-ucraino.
Nel corso della mia pratica clinica come psichiatra incontro di frequente giovani che appartengono alla categoria dei NEET. Sono, tra gli altri, giovani afflitti da disturbi della salute mentale, da problemi di dipendenza o da entrambi. La condizione di inattività di questi è giustificata dall’incapacità di applicarsi, di mantenere un impegno, di sostenere una relazione. Questi ragazzi, quando riescono ad affrancarsi dalla malattia o dalle sostanze, vivono spesso la ripresa con il desiderio di applicarsi e “di fare”, sembrano assetati di “vita reale”.
Altri giovani, vivono in famiglie in cui svol- gono un quieto ruolo di caregiver di familiari con problemi di salute mentale. Altri ancora, e sono forse questi il sottotipo più indecifrabile sono incistati nelle loro case, inattivi, senza programmi, senza desideri e senza sogni da realizzare. Vivono il loro stato senza l’dea di doverlo modificare. Non hanno un’attività propria e non la cercano. Ciondolano tutto il giorno e riescono a restare per anni in questa sorta di limbo. I genitori che li accompagnano al consulto espongono la loro condizione ed esprimono tutta la loro preoccupazione per lo stato dei figli. Loro appartengono alla generazione precedente. Hanno lavorato, formato una famiglia e raggiunto quella condizione economica che consente ai loro figli, paradossalmente, di vivere senza avere nessun impegno produttivo.
Ma cosa determina questa condizione?
Quali sono gli elementi che la sostengono nel tempo? Le possibili risposte alla prima domanda le abbiamo accennate più sopra, prima tra tutte la scarsa disponibilità delle occasioni di lavoro che innescano la partenza della condizione provvisoria di inoccupato che si cronicizzerà col tempo.
La risposta alla seconda domanda sta nell’emergere ed affermarsi di un fenomeno che è forse il più potente uniformatore del comportamento umano: l’abitudine. L’abitudine è la tendenza a compiere ripetutamente una determinata azione ed a riproporre una determinata esperienza in maniera ripetitiva.
La nostra vita è regolata dalle abitudini. I NEET al di là delle motivazioni che li hanno portati nella loro condizione, si trovano lentamente incistati nel loro stato. Lo perpetrano nel tempo e molte volte sembrano quasi non accorgersi più della loro condizione. L’abitudine li ha resi schiavi ed adattati.
In neurofisiologia l’abitudine sensoriale è un fenomeno che consiste nell’abolizione della risposta a uno stimolo dovuta al suo ripetersi. E’ il fenomeno dell’adattamento recettoriale. Un esempio pratico banale è l’etichetta della camicia che ci dà fastidio sulla pelle del collo e che dopo un po’ smettiamo di avvertire. I recettori cutanei, quando lo stimolo si ripete, smettono di comunicare al cervello la presenza dell’etichetta. Si sono abituati. Hanno cioè subito il fenomeno dell’adattamento.
Una volta che l’abitudine all’inattività si è instaurata, questi giovani sono in grado di passare anni sempre nella stessa condizione. L’adattamento alla situazione riduce la consapevolezza del loro stato che col passare del tempo diventa la loro “normalità”.
Qualsiasi attività che preveda il recupero di questi giovani deve tenere conto dell’abitudine un nemico oscuro e silenzioso. Pensare al loro reinserimento nella rete sociale, dell’istruzione, del mondo del lavoro senza pensare anche a come battere questo nemico invisibile è un peccato di ingenuità. L’idea che chi ha vissuto una condizione di inattività per anni si accenda al primo colpo e riparta spedito è un’illusione. E tanto più è datata la condizione di inerzia, tanto più lento e faticoso sarà il cambiamento di un comportamento che è diventato la prassi.
L’argomento che riguarda le soluzioni è complesso ed anche la minima proposta per affrontarlo risulta complicato. Di certo lasciare dei ragazzi inattivi li predispone al peggio. L’età giovanile è l’età dell’energia, dell’entusiasmo, dei grandi progetti. Una possibile ricetta per aiutare questi ragazzi è dargli la possibilità di tenere accesi questi fuochi stimolandoli precocemente e finché la fiamma resta accesa.
Corsi, apprendimenti pratici, stage di lavoro nelle aziende, scambi internazionali, coinvolgimento nel mondo del lavoro a tutto campo, affiancamenti e tutto quanto possa togliere dalla casa dei genitori questa generazione sfortunata è quello che dobbiamo poter fare.
Il rispetto di regole, orari, relazioni sociali, sono alla base della convivenza civile. L’impegno ed il cimento alla base della motivazione personale e della volontà di progredire e migliorarsi. Abituare i giovani a vivere in attività, ognuno secondo le proprie tendenze, facendogli scoprire l’esercizio e la pratica del lavoro li porterà all’abitudine virtuosa dell’attività, della dedizione e dell’entusiasmo. Prima che si inneschino le cattive abitudini.
Certo cambiare un’abitudine negativa non è facile. Lo sapeva anche Svetonio che nella vita di Vespasiano ammoniva: “la volpe perde il pelo ma non il vizio”. Speriamo che i nostri giovani siano più fortunati.