PrimaVera Gioia 2014 - N.20

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Pubblicazione periodica d’informazione indipendente | free press

agricoltura e metereologia

Crisi occupazionale

un tornado vola sul giardino

due facce della stessa medaglia

ansaldo e capurso al bivio

gli abusi militari a gioia del colle

strutture sportive

la prima di Étranger

Federico Fiumani

i fondi ci sarebbero

Da Albert Camus alla narrazione cinematografica

il lato confidenziale


Copertina: Potranno tagliare i fiori ma non fermeranno

la primavera.

Direttore responsabile ed editoriale: Vito Stano Progetto grafico: Giuseppe Resta ValeriaSpada AntonioLosito Pierluca Capurso Pubblicità: info: 3489157655 | 3293646844 | 3889338124 Redazione:

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Stampa: IGM di Masiello Antonio | Cassano d. Murge | Bari Editore: Associazione La PrimaVera Gioia | via Pio XII 6 Gioia del Colle | Bari Sede Via De Deo 14, Gioia del Colle | Bari ©PrimaVera Gioia, 2012 Tutti i diritti sono riservati testata iscritta presso i Registri del Tribunale di Bari al Ruolo Generale 1505/2012 e al Registro di Stampa al n. 23

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Copertina ispirata dalle grafiche di Tilman.

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Ouverture Leggere e migrare all’incontrario Lesson number one

Vito Stano / Direttore

FB/ vito.stano1

INDICE 3 Ouverture 4 Mozzarella. Analisi dei costi 6 Popolo di migranti in lotta con l’oblio 8 Agricoltura e meteorologia 10 Crisi occupazionale 12 Un tornado sta volando sul mio giardino 14 Fumo sulla città 15 Strutture sportive 16 Federico Fiumani 17 La prima di Étranger 19 Alla scoperta del primitivo 20 Basket di strada 22 La riforma dell’Università 23 Intervista al sarto Paradiso

I

nnanzitutto non posso esimermi da spendere due righe sulla nuova veste che indosseremo da questo mese: non ci troverete più nelle edicole, ma (per il momento) on line sulla piattaforma di pubblicazioni issuu. Naturalmente proveremo a rimbalzare sui social networks sia i singoli articoli e che il periodico per intero. A Voi lettori il compito arduo di diffondere il nostro modesto lavoro sulla rete e tra le piazze di Gioia del Colle. Per entrare subito in tema, mi rivolgo a chi di Voi usualmente inizia (come me) a leggere dall’ultima pagina anziché dalla prima: a Voi porgo l’invito a fare un’eccezione per questa volta e restare su queste righe perché voglio anticipare un tema trattato da Rosario Milano nella sua invettiva finale. Migrazioni, questo il tema nel quel voglio imbattermi cercando di rispondere con un palleggio degno della peggior partita di ping-pong della storia. La storia che vado a raccontarvi è una storia triste e alquanto paradossale di un migrante italiano, il quale accompagnato da perdurante rammarico ha lasciato la sua amata Bari per un lavoro in fabbrica nella noiosa Portsmouth, città marina a sud della Gran Bretagna. Il giovane (trentenne), dopo due mesi o poco più di vita inglese, riceve una e-mail da una società italiana (pugliese), che, probabilmente confidando nella voglia di tornare in patria del migrante, offre lui l’agognata possibilità di un lavoro degno della laurea specialistica conseguita dal giovane trentenne. E fin qui sembrerebbe una storia a lieto fine, se non fosse che c’è il colpo di scena dopo che il nostro eroe contemporaneo preso da domande esistenziali ha abbandonato la casa che l’aveva accolto nella calda estate inglese, lasciando il lavoro che l’avevo reso indipendente, per far ritorno a casa in Puglia.

L’epilogo, ahimè, è triste, come accennavo qualche rigo sopra. Il nostro amato dopo il primo mese di lavoro scopre che non c’è uno stipendio mensile fisso, come promesso; non ci sono le garanzie contrattuali promesse. Ci sono soltanto delusioni e molto, troppo lavoro non rispondente a quello promesso nell’e-mail. Insomma le aspettative del nostro migrante di ritorno vengono tradite con un cinismo da manuale. Per comprendere appieno la tragicità di questa piccola storia è bene che condivida con Voi l’amarezza provata dal sottoscritto quando ho incontrato il nostro per le viuzze dell’amatissima Puglia immaginando la sua gioia per la sua nuova-vecchia vita. Ma inchiodato alla sedia metallica di un bar qualsiasi ho ascoltato inorridito i dettagli della sua disavventura ricevendo (saggiamente) consigli da condividere con coloro i quali hanno voglia di tornare in Italia dopo aver iniziato una vita all’estero. «Non tornate, raccontale la mia storia».¿ PrimaVera Gioia 3


MOZZARELLA l’analisi dei costi e il caso dell’azienda Paradiso

Fabio D’Aprile |

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Continuando l’analisi del mercato della mozzarella avviata sul numero precedente di PrimaVera Gioia, questa volta focalizziamo l’attenzione su una delle tre figure principali che intervengono nel processo produttivo: gli allevatori (le altre due sono i commessi e i trasformatori). Facendo una ricognizione non esaustiva delle aziende agricole del territorio della Murgia, abbiamo raccolto alcuni dati relativi a costi e ricavi per fare un vero e proprio bilancio. I costi I costi diretti sono tutti quelli collegati al bestiame. In media il numero di vacche per azienda (la maggior parte di razza Brunalpina) è di 25/30 unità, ciascuna delle quali produce circa 9mila kg di latte all’anno; i costi maggiori sono quelli legati all’alimentazione, che può essere naturale, se esclusivamente a base di foraggio e altre erbe, o spinta, se integrata con mangimi e concentrati, nel caso in cui le superfici foraggere destinate alla produzione degli alimenti zootecnici, mediamente di 20-25 ettari per azienda, risultino insufficienti a soddisfare il fabbisogno nutrizionale del bestiame (la proporzione ideale, anche per un allevamento biologico, sarebbe infatti quella di due vacche per ettaro e non sempre si riesce a rispettarla). 4 PrimaVera Gioia

L’allevamento condotto in queste condizioni provoca maggiore stress per la bovina, che risente dello stato di cattività rispetto al pascolo, vivendo 8/10 di tempo in meno e producendo latte di qualità più scadente. A ciò si aggiunge, sotto il profilo economico, un continuo aumento del prezzo dei mangimi (circa del 120% in dieci anni) che ha permesso alle principali aziende produttrici (Specialmangimi, Galtieri, Veronesi) di realizzare i propri ìmperi, consapevoli che gli allevatori sono costretti a subire i prezzi da loro imposti. Altri costi sono quelli delle quote latte in affitto, dei macchinari, del carburante, delle spese mediche e delle varie autorizzazioni (in continuo aggiornamento).


Fattori di produzione Da considerare infine i costi dei fattori di produzione: capitale, terra e lavoro. I principali motivi che spingono gli allevatori a richiedere un finanziamento è l’acquisto di macchinari; il fattore terra non rappresenta un costo rilevante, in quanto le masserie sono circondate da estensioni fondiarie di proprietà (chi invece ha necessità di qualche ettaro in più deve sostenere un canone di fitto in media di 500,00 euro per ettaro). Anche la manodopera non rappresenta un costo notevole, visto il carattere familiare delle aziende prese in considerazione: il margine tra ricavi e costi, infatti, è talmente minimo che difficilmente riuscirebbe a coprire anche i costi della manodopera. Dal lato dei ricavi, come detto nel numero precedente, il prezzo del latte non si discosta da 0,41 euro/litro (negli ultimi 10 anni ha avuto un incremento del solo 10%). Analizzando gli indicatori di reddito (come da tabella) derivanti soltanto dalla produzione e dalla vendita di latte, i dati sono tali da giustificare la chiusura di molti allevamenti e la vendita di quote ad aziende del nord Italia. Ecco perché, da qualche anno a questa parte, molte aziende agricole hanno affiancato alla vendita del latte quella di carne e dei prodotti derivanti dalla trasformazione del latte, dedicandosi anche (nel caso delle sole aziende pugliesi) ad attività agricole in grado di fornire altri redditi (produzione di olio e vino) o all’avviamento di veri e propri agriturismi.

il margine tra ricavi e costi è talmente minimo che difficilmente riuscirebbe a coprire i costi della manodopera. Il caso Parlando di allevatori, significativa ed emblematica è la storia del signor Nicola Paradiso di 85 anni, figlio di agricoltore, e allevatore principalmente di ovini e cavalli nella zona di Marzagaglia. Nel 1954 conosce l’attuale moglie e il matrimonio, che segna la separazione dal nucleo familiare di origine e la costituzione di uno nuovo, è accompagnato, come spesso accade, da un dono, in questo caso una mucca. Trasferitosi a Matera, incrementa il suo allevamento, ma non avendo un terreno di proprietà dove impiantare un’azienda agricola, si dedica alla semplice vendita del latte da lui prodotto. Ritornato a Gioia del Colle, all’inizio degli anni Sessanta, trova un’estensione fondiaria con annessa una masseria della famiglia Petrera. Incrementa così il pascolo, arrivando a 7 mucche e 70

pecore. Accende un mutuo per comprare 10 ettari di terreno (attuale residenza) dove, dal 1972, inizia la costruzione della sua azienda (la prima stalla è ultimata nel 1976) fino alle dimensioni attuali, con grande orgoglio del signor Nicola, che lascia la sua attività nel 2004 passandola al figlio. Produttività e posizione nel mercato L’elevata produttività delle sue mucche, fino a 6 litri in più delle altre, gli ha permesso di stringere una partnership duratura con il caseificio Ferrante di Gioia del Colle. La maggiore produttività è stata possibile grazie a tecniche di stabulazione all’avanguardia (le bovine cioè entravano in stalla solo per mangiare e per la mungitura), alla selezione personale dei capi che l’allevatore ha appreso grazie allo sviluppo di rapporti professionali e di amicizia con altri addetti ai lavori (come il commerciante trentino Balzarini) e anche grazie ad un’alimentazione equilibrata del bestiame con l’impiego notevole di mangimi, causa però di un eccessivo sfruttamento delle mucche nel tempo. «Questo è un aspetto che ancora oggi crea contrasti tra allevatori e casari: i primi ovviamente vorrebbero spuntare un prezzo più alto dai caseifici per un latte di alta qualità ottenuto senza uno stress eccessivo della bovina; i secondi invece vorrebbero più latte ad un prezzo inferiore», commenta il signor Nicola, per 24 anni vice presidente dell’Assoallevatori. Il suo racconto si conclude con l’invito ai giovani allevatori ad avere tanto coraggio e buona volontà, soprattutto per la selezione morfologica dell’animale che «trattavo meglio di me, arrivando a fare 60 litri di latte da una Brunalpina che normalmente ne produce 30». ¿


Popolo di migranti in lotta con l’oblio l’Italia che accoglie poco e male

Lyuba Centrone |

/ lyuba.centrone

Qualche giorno fa a Corato un uomo originario del Gambia è stato preso a sassate. Questo il fatto. Uno dei tanti, potremmo aggiungere. Il pericoloso accanimento che stiamo registrando nei confronti dei migranti e l’ancor più pericolosa superficialità della maggior parte dei mezzi d’informazione, ci spinge ad assumerci la responsabilità di ripulire da strati e strati d’ignoranza un argomento bistrattato dalle strumentalizzazioni. Abbiamo dunque deciso di analizzare tre affermazioni abusate per riportarle sui binari del realismo:

ne per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), gli immigrati pagano più tasse rispetto ai servizi di cui usufruiscono, sono in età più favorevole e finanziano il sistema pensionistico. In Italia, includendo nel calcolo le pensioni, l’impatto è positivo per lo 0,9%. Questo studio ricorda, inoltre, che in assenza di migranti, entro il 2020, il numero di quanti entreranno nel mercato del lavoro sarà inferiore del 30% rispetto agli anziani che usufruiranno della pensione, quindi ancora una volta, la presenza dei migranti risulta essere utile al nostro Paese.

1) Gli immigrati pesano sull’economia italiana. Non è vero. Secondo le recenti indagini dell’OCSE (Organizzazio-

2) L’Italia è invasa dai migranti. Altro assioma non vero. L’ultimo outlook sulle migrazioni in-

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ternazionali pubblicato sempre dall’OCSE individua una nuova geopolitica in fatto di migrazione. La grande recessione che ha colpito l’Europa ha avuto un impatto anche sulle tratte migratorie: rispetto al 2007 l’Italia registra un meno 44%. La meta che registra un incremento maggiore è il Belgio con un +52%. Non dimentichiamo però le radici culturali dell’Italia e di noi Italiani: qualcuno ci ha definiti la razza meno pura di tutte, una multiforme mescolanza di diversità, il prodotto di centinaia di anni di dominazioni. Il Mediterraneo n’è il maggiore complice. Il fatto che un Paese come la Svezia, nell’estremo nord dell’emisfero terrestre, abbia concesso permessi temporanei di tre anni ai prigionieri politici siriani, deve necessariamente portarci a riflettere: non abbiamo ancora imparato a fare i conti non la diversità. Se la Svezia non ha avuto paura delle grandi cifre, è perché gli

il livello d’istruzione dei migranti che scelgono il nostro Paese: tra i più bassi d’Europa svedesi sono un popolo che vive quasi con ossessività il rispetto delle regole. Sarebbe petulante intraprendere il solito sermone sulla tendenza alla piccola illegalità quotidiana che passa anche attraverso il gettare un mozzicone di sigaretta sul marciapiede. Ve lo risparmiamo. Abbiamo il dovere però di riportare che laddove superficialità e sciatteria sono il biglietto da visita degli stessi nativi, diventa ontologica la tendenza anarchica anche nel migrante, il quale, per di più, proviene da una cultura totalmente diversa dalla nostra e ha tutto da imparare. Se insegniamo loro l’indecenza, l’indecenza impareranno. Un altro dato su cui riflettere riguarda il livello d’istruzione dei migranti che scelgono il nostro Paese: tra i più bassi d’Europa. L’Italia non è in grado di attrarre forza lavoro specializzata che potenzialmente potrebbe avere un impatto molto positivo sul PIL come avviene in Lussemburgo (+2%). 3) L’Europa ci lascia soli. Non è così.Il programma Solidarietà e Gestione dei flussi migratori predispone quattro fondi per la gestione degli oneri più gravosi per la gestione dei flussi migratori: -Fondo per le frontiere esterne: finanziamenti a Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Marina Militare, Capitanerie di Porto e Ministero degli Affari Esteri. -Fondo per i rimpatri: gestito dal Ministero degli Interni, copre il 50/75% delle spese -Fondo europeo per i rifugiati: è destinato ai progetti per l’accoglienza durevole negli Stati membri. -Fondo per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi: le somme

del fondo vengono gestite dal Ministero dell’Interno e più precisamente dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione. Inoltre il 4 giugno scorso, a Malta, è stato firmato l’accordo tra l’Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo (Uesa) e il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno. Secondo quanto stabilito, l’Italia potrà avvalersi di 42 iniziative di supporto tecnico ed operativo offerte dall’Uesa, destinate a far conformare l’Italia agli standard europei per la tutela del diritto di asilo. Ciò che non viene detto Per la legge Bossi-Fini, un migrante non può: - Essere soccorso durante un naufragio: l’8 agosto del 2007 i capitani tunisini di due pescherecci salvarono 44 naufraghi, provenienti dall’Africa e li portarono nel porto più vicino, quello di Lampedusa. Vennero sospettati di essere scafisti, subirono un processo lungo quattro anni (con una prima condanna a più di due anni), 40 giorni di carcere e il sequestro degli strumenti di lavoro. - Scioperare: per il colosso del latte Granarolo lavorano due cooperative che impiegano egiziani, tunisini, marocchini. Un anno fa, in nome della crisi, si decide per il taglio dello stipendio: da 1.050,00 a 500,00 euro, per dodici ore al giorno. In 51 vengono messi alla porta. Il 20 novembre del 2013 i migranti scioperano, ma i cancelli della fabbrica vengono chiusi. Le ipotesi di reato sono violenza privata e blocchi stradali per 170 persone. - Ammalarsi - Avere un infortunio sul lavoro: già, perché se malauguratamente un osso si spezzasse, il tempo di convalescenza sarebbe

Per la legge Bossi-Fini, un migrante non può ammalarsi troppo lungo. Scatta il rimpatrio. - Chiedere il ricongiungimento con i genitori qualora questi abbiano meno di 65 anni - Partecipare ad un concorso pubblico - Giocare in un qualsiasi campionato sportivo per il quale serve il rinnovo annuale del permesso di soggiorno¿

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Agricoltura E meteorologia due facce della stessa medaglia

Gianni Galasso

Risulta facile trovare degli aggettivi per descrivere l’estate che sta per terminare: anomala, singolare, insolita. Se chiedessimo ad un agricoltore, forse risponderebbe con termini più pesanti, come ostile o impietosa. Sta di fatto che, a memoria d’uomo, non se ne ricorda una caratterizzata da un “bollettino di guerra” così terribile. A questo proposito è emblematico il comunicato della Coldiretti: «Decisivi sono in particolare i danni sulle api, che per la troppa pioggia faticano a volare e quindi ad impollinare tutte le specie agrarie i cui frutti portiamo sulle nostre tavole, dalle mele alle mandorle, dalle pesche alle pere, dalle melanzane all’uva, dai cetrioli alle fragole, solo per citare alcune delle 71 colture su 100 che provvedono all’alimentazione umana, le quali vengono impollinate dalle api […]; dalle vigne devastate dalle grandinate ai campi di pomodori e ortaggi finiti sott’acqua, il maltempo ha colpito e continua a colpire duramente le campagne della Penisola, con danni che in diversi casi interessano fino al 60 per cento dei raccolti […]; i raccolti di pomodori, melanzane, peperoni sono fortemente danneggiati, mentre la stagione per i meloni è da dimenticare. Ma le piogge stanno impedendo anche le operazioni di sfalcio del fieno ed infine bombe d’acqua e grandine hanno colpito in particolare vigneti e ulivi, con percentuali di danno che in alcune aziende sono arrivate al 30-40 per cento della produzione». Se si analizza il settore vitivinicolo, tanto caro alla Puglia, i dati sono agghiaccianti: non siamo ancora a metà ven8 PrimaVera Gioia

demmia e la Coldiretti afferma che «è dal 1950 che non si registra una campagna così misera, per cui quest’anno l’Italia perderà il primato mondiale nella produzione di vino a vantaggio della Francia dove le stime per il 2014 danno una produzione di 47 milioni di ettolitri». La causa è il maltempo che ha fatto scendere la produzione del vino a 41 milioni di ettolitri, ossia il 15% in meno della produzione registrata nel magro 2013, in particolare in Puglia e Sicilia dove si stimano cali fino al 30%. Ma in c he modo le avver sit à at mosfer ic he hanno inc iso in manier a così profonda, compromet t endo l a b uona r iusc it a dell’annat a 2014? S ono st at i dete rminant i i danni diret t i, c ioè q uelli ar rec at i dall’a zio ne immediat a delle avver sit à (vent o, g r andine, piogge) o q uelli indiret t i, c ioè q uelli der ivat i dalla per sis te nza delle st esse? S e si pot esse st imare una percentual e , pot remmo dire c he i danni diret t i hanno inc iso pe r il 25%, ment re q uelli indiret t i per il rest ant e 75%. Ne l pr imo c aso, i mag g ior i responsab ili sono da un l ato il vent o, c he aspor t a t r alc i, g er mog li e – più difficil ment e perc hé or mai lig nif ic at i – g r appoli e dall ’al tro lat o la g r andine, c he c ausa dappr ima le sc alfitture ad asola sug li ac ini in acc resc iment o e poi lo sco ppio con conseg uent e colat ur a sug li ac ini a f ine maturazione. Ma sono i danni indiret t i q uelli c he hanno inf ic iat o la resa produt t iva dei vig net i. Malat t ie co me l’oidio, la b ot r it e e pr inc ipalment e la peronospo ra,


provo ca te so p ra t t u t t o d a l l a p e r s i s t e n z a d e lla pioggia , so n o sta te l e c a u s e c h e h a n n o fa t t o disper are vitico l to ri e imp re n d i t or i vi t i v i n i col i . Pe r i n o n a d d et t i a i l avor i , l a p e ron os p or a r apprese nta l a p iù grave m a l a t t i a c r i t t og a m i c a (or ig inat a d a f u n gh i p a ra s s i t i d e i ve g et a l i ) c h e l a p i ant a della vite s u b is ce , l a c u i i n fe z i on e i nt e re s s a t u t t e le par t i verd i d e l l a p ia nt a (fog l i e , g e r m og l i e g r a p p oli) e contro l a q u a l e l a l ot t a com i n c i a qu a n d o s i ve r i f ic ano le co n d iz io n i d ei tre 1 0 : t e m p e r a t u r a m i n i m a super iore ai 10°C ; a l men o 1 0 m m d i p i og g i a ; g e r m og l i più lungh i d i 10cm . I p r i m i s i nt om i s u l l e fog l i e s ono visib ili s u l l a l o ro p a g i n a s u p e r i ore , ove s i for m ano zone spa rse, to n d e gg i a nt i , s i m i l i a m a cc h i e d ’ol i o , in corr i sp o n d e n z a d e l l e q u a l i è p os s i bi l e os s e r vare, sulla pa gin a in ferio re , e ffl ore s ce n ze b i a n c a s t re . S i t r at t a d el l e f ru ttif ica zi on i d e l fu n g o, c h e p os s on o deg ener a re in u n tota l e d i s s e cc a m e nt o d e l l e m bo fog liare. Ma l ’ef fetto p iù t r a u m a t i co è qu e l l o c h e quest a pato l o gia ca gio n a s u i g r a p p ol i : n e l c a s o d i u n at t acco n el l a f a s e d i f io r i t u r a , i g i ova n i p e d u n col i possono r i co p rirs i d i u n a c a r a t t e r i s t i c a m u ffa bi a n cast r a. S e

invece la piant a sub isce l’at t acco nelle pr im e fas i di acc resc iment o deg li ac ini, q uest i ult imi mos trano un par t icolare marc iume b r uno e poi dissec ano, pe r cui si par la di «peronospor a lar vat a». N o n o s t a n t e c i ò , s i p u ò s p i e g a r e l ’e s p l o s i o n e d e l l a peronospora solo per la presenza di condizioni climatiche favorevoli allo sviluppo della patologia? O anche gli agricoltori sono responsabili? Ascoltando le opinioni dei diretti interessati, molti dichiarano di non aver effettuato, sia per una questione di costi che per impraticabilità dei terreni, ulteriori trattamenti di copertura dopo le piogge di dilavamento che hanno reso i vigneti suscettibili a qualsiasi tipo di attacco, con gli effetti tragici che t u t t ’o g g i s i o s s e r v a n o . Q u a l i s o n o l e p r o s p e t t i v e ? Gli addetti ai lavori affidano le ultime speranze sia ad un miglioramento delle condizioni climatiche (meno piogge e quindi meno umidità), che alla capacità dei prodotti ad azione sistemica (assorbimento nei tessuti vegetali) di tamponare l’incedere della patologia e portare a raccolta la quantità di uva rimasta ¿


Crisi occupazionale Ansaldo Caldaie e F.lli Capurso al bivio Emanuele Donvito |

/ emanuele.donvito.7

Derive e prospettive: tra liberismo e diritti Torna sulle prime pagine dei quotidiani nazionali la discussione sul mercato del lavoro italiano: articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, flexicurity e contrattazione aziendale in deroga sono i temi guida all’interno del dibattito animato nelle ultime settimane soprattutto dalla coalizione di governo che appoggia Matteo Renzi, dalla segreteria nazionale del PD e dai sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL). Come sempre, lo scontro tra le parti verte sulla tutela dei diritti acquisiti dai lavoratori. Infatti secondo Susanna Camusso (segretario nazionale della CGIL), l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è lo scalpo che i falchi dell’UE porteranno a casa dopo aver imposto le solite politiche ultraliberiste. Cercando di calare le dinamiche politicosociali nella realtà territoriale alla quale facciamo riferimento, sarà utile spiegare i processi in materia di contrattazione collettiva che vanno innescandosi a Gioia del Colle. Dunque, in ordine ai settori produttivi locali, quali sono le argomentazioni che preoccupano maggiormente i lavoratori e le parti sociali operanti sul territorio? Certamente le priorità sono: ritornare quanto prima a parlare dell’Ansaldo Caldaie nelle sedi istituzionali e analizzare le differenti emergenze del settore lattiero-caseario gioiese. Ansaldo: il ritardo Mancano solo sei mesi alla fine della concessione della cassaintegrazione in deroga per i lavoratori dell’Ansaldo Caldaie, dopo di che le alternative saranno pochissime: licenziamenti o contratti di solidarietà; questi ultimi considerati rischiosi dai sindacati, in quanto non andrebbero a garantire la tutela dei diritti dei lavoratori, soprattutto per quel che riguarda tempi, orari di lavoro, mansioni e produttività. Secondo la testimonianza di qualche rappresentante dei lavoratori dell’Ansaldo, la direzione aziendale con sede a Gallarate (Milano) avrebbe confermato un rapporto commerciale con dei partner egiziani, ma l’inizio dei lavori non è stato ancora definito e i tempi non sembrano essere brevi. Tuttavia la commessa non garantirebbe posti di lavoro sul lungo periodo e ad ogni modo la priorità è affrontare prima di tutto 10 PrimaVera Gioia

la questione licenziamenti nel prossimo marzo 2015. In questo senso pare sia sotto accusa l’ITEA Spa (operante anche all’interno dello stabilimento gioiese), la cui mission è la diffusione di investimenti in impianti ad ossicombustione, ossia utili a separare e stoccare Co2 durante il processo produttivo, riducendo così l’inquinamento atmosferico. Le accuse rivolte a questa azienda consistono nella scarsità degli investimenti in ricerca e sviluppo e nella mancata formazione del personale dello stabilimento in questione. Secondo l’opinione dei sindacati, la mancanza di queste prerogative sottrae competitività e dunque lavoro alla fabbrica gioiese. Nemmeno pensare ad un blocco della produzione sembrerebbe essere utile, dato il basso numero di commesse che l’azienda ha da rispettare e i pochi lavoratori impegnati. Nonostante la ristretta tempistica, il numero dei lavoratori a rischio non è stato ancora comunicato dall’azienda, la quale ha dato appuntamento nei prossimi mesi al sindacato di categoria FIOM-CGIL per un ulteriore aggiornamento. Settore lattiero-caseario: un primo passo Per il settore lattiero-caseario, invece, il 6 agosto 2014 è stato raggiunto un importante risultato sindacale da parte della FLAICGIL presso l’Assessorato al Lavoro della Regione Puglia guidato da Leo Caroli. I soggetti della trattativa sono stati il sindaco di Gioia del Colle Sergio Povia, l’amministratore unico dell’azienda F.lli Capurso Giuseppe Capurso e Gaetano Mincuzzi in rappresentanza della FLAI-CGIL. Povia, Capurso e Mincuzzi si sono impegnati davanti all’assessore regionale ad affrontare un processo di rilancio aziendale, ipotizzando uno spostamento di parte della produzione presso il nuovo stabilimento sito nella zona artigianale di Gioia del Colle, che permetterebbe un’organizzazione del lavoro di maggiore qualità. Inoltre i licenziamenti sono stati congelati, ma la ricerca di nuovi mercati sembra ormai un’urgenza. Restano tuttavia ancora aperte molte questioni in questo settore tra cui quelle attinenti alle rappresentanze sindacali e alle piattaforme di negoziazione. ¿


Fuga dalle idee e rincorsa alla poltrona politica allA resa dei conti Dario Magistro |

/ Dario.Magistro223

«E il naufragar m’è dolce in questo mare». Contrapponendosi all’Infinito di Leopardi, il naufragio della sinistra gioiese non è stato affatto dolce e le immaginarie onde, ad oggi, tendono a trasportare più detriti, che speranze di vita e di salvezza. Traendo spunto dalla storia di Adamo ed Eva e soffermandoci unicamente sulle dinamiche locali, potremmo dire che in seno alla sinistra gioiese alberga una sorta di peccato originale; che questo sia la caduta di Mastrovito, il consenso all’odierno grande centro poviano o qualsivoglia altra situazione, non c’è dato saperlo. È indubbio, comunque, che la situazione e l’aggregazione interna è alquanto compromessa e il PD è visto parimenti come fulcro della disgregazione e capro espiatorio dell’intera crisi. Certo, non è facile esimerlo da colpe. Gli ultimi consigli comunali, infatti, hanno manifestato un coordinamento pressoché assente tra la segreteria locale e i rappresentati istituzionali (per intenderci, tra il gruppo del segretario L’Abbate e gli amministratori). Non a caso, in linea con l’ultimo atto della passata segreteria Valletta, ad un anno di distanza passato senza sostanziali cambiamenti nel modus operandi dell’attuale maggioranza, il PD locale redige un nuovo documento di uscita dalla maggioranza, con annesso invito di dimissioni per l’assessore Masi e azioni similari per i consiglieri Ludovico e Giannico. Come un anno fa, il partito chiede ma nessuno risponde. I motivi di questo appello disatteso vanno ricercati nei prossimi impegni elettorali dello stesso partito: le elezioni del consiglio metropolitano e le elezioni per la presidenza regionale. Come tutte le competizioni, si cerca sempre di arrivare alla gara al meglio delle proprie possibilità e un partito spaccato, presumibilmente, non permetterebbe di

raggiungere i risultati pronosticati. La conseguenza naturale di tutto ciò sembrerebbe essere un intervento da parte della segreteria provinciale del PD, organo deputato anche al supporto e al controllo dei circoli locali ma, paradossalmente, il sopra citato intervento è in realtà un non intervento. Il motivo di tutto ciò non è dato saperlo ma, ad esser maliziosi, c’è da immaginare una semplice valutazione d’importanza, di voti o di strategie che spinge l’organo provinciale a mantenere lo status quo non operando alcun tipo di provvedimento nei confronti dei consiglieri e dell’assessore. In realtà qualcosa nel buio si sta muovendo. È sempre più ossessiva nel paese la voce di un’azione di sfiducia nei confronti dell’attuale segretario L’Abbate, reo di non fornire opportune garanzie di continuità all’attuale maggioranza. Si parla, a tal proposito, di una raccolta firme tra gli iscritti a cui vanno aggiunte le dimissioni di tre membri del coordinamento eletti nella lista a sostegno dello stesso L’Abbate. A questi ultimi però andrebbero aggiunti anche gli otto precedenti dimissionari dell’area della Sinistra Riformista, per un totale di undici dimissionari su venti e la conseguente perdita della maggioranza all’interno del coordinamento. Per recuperare i numeri l’attuale segretario sembra intenzionato a chiedere la surroga dei dissidenti con altri di sua nomina, manovra che lasciarebbe perplessi i più. Nel caso ciò non avvenisse, si andrebbe incontro al commissariamento della sezione di Gioia del Colle, con congelamento di tutte le decisioni in campo amministrativo sino alle prossime regionali. È facilmente immaginabile come quest’ultima ipotesi sia la più ricercata da parte degli attuali amministratori in quota PD. Nella migliore tradizione meridionale, «tutto cambia affinché nulla cambi».¿


Un Tornado sta volando sul mio giardino Gli abusi militari sulla testa di gioiesi e italiani Roberto Cazzolla Gatti Ascoli, 19 agosto 2014. La canicola estiva viene squarciata da un tuono. Ma non è un temporale. Improvvisamente una serie di incendi divampano distruggendo centinaia di ettari di vegetazione. Un danno ecologico immenso. Incendio doloso per il quale nessuno sarà punito. Eppure una volta tanto si sa chi è il colpevole. C’è ben altro da pensare. Muoiono quattro persone. Tutti i piloti a bordo dei due Tornado, aerei militari con ali a geometria variabile impiegati a partire dagli anni Ottanta dalla RAF e dall’aeronautica araba durante la Guerra del Golfo, restano vittime dell’incidente. Questi caccia multiruolo non sono stati, però, utilizzati solo dalle aeronautiche estere. L’Italia ha fatto la sua parte e il palcoscenico d’elezione è stato Gioia del Colle (Bari). I Tornado italiani presero parte alla guerra del Golfo nel 1991 con l’operazione Locusta. Otto di questi velivoli sono decollati dall’aeroporto militare di Gioia del Colle verso Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti, come contributo italiano alla coalizione. Gli stessi Tornado IDS sono stati utilizzati poi durante la guerra del Kosovo nel 1999 per i bombardamenti e la soppressione dei radar e delle difese antiaeree jugoslave. Non c’è stata pace nemmeno quest’estate del 2014. L’incidente nel marchigiano ha scosso per qualche giorno le coscienze dei cittadini sul pericolo che vola proprio sopra i giardini di ville e città. È durato poco però. L’apprensione, come sempre, ha lasciato il passo al calciomercato, alla tintarella e al concerto sulla spiaggia. Sono morti quattro militari, quattro persone, e questo ovviamente addolora. Sono andati a fuoco immensi boschi, si è disperso un quantitativo enorme di carburante e si sono diffusi nell’aria contaminanti pericolosi per la salute a causa delle combustioni ad alte temperature. Ma erano coinvolti mezzi militari e nessuno ha voluto approfondire più di tanto le responsabilità. Cordoglio 12 PrimaVera Gioia

per le vittime, questo è quanto. Pochi giorni dopo, e per molti giorni ancora, in questa turbolenta estate, i cicloni meteorologici, o meglio i tornado, hanno preso le fattezze di spaventosi uccelli della morte e non hanno smesso di far notare la loro presenza. Il 29 agosto, intorno alle 11:30, tre velivoli Eurofighter (quelli che dal 2005 hanno sostituito i Tornado del 36° Stormo dell’Aeronautica Militare) partiti dalla base di

Una pace costosa. Migliaia di euro per un singolo volo di addestramento. Milioni di euro per una flotta di aerei mal costruiti e inutili Gioia del Colle, nell’ambito dell’attività di addestramento, hanno effettuato un passaggio supersonico, cioè hanno infranto il muro del suono, per cinque minuti. I boati si sono uditi da tutta la costa di Taranto, allarmando gli ignari bagnanti e i molti turisti provenienti da altre regioni, che si sarebbero aspettati di trovare l’ennesima medusa in acque riscaldate e inquinate dagli impianti industriali tarantini o, al massimo, una tracina appostata sotto


la sabbia con la sua spina pettorale irta, ma mai che il pericolo potesse provenire dal cielo. Mai che coloro che si ergono a difensori della pace nazionale potessero minacciare la quiete e la sicurezza dei propri stessi cittadini. E sì, perché se un boato provoca panico, inquinamento acustico e irrita il sistema nervoso dei già suscettibili lavoratori concentrati nelle ferie di una calda e affollata settimana di agosto, un aereo militare che ti precipita mentre passeggi in campagna o poti le rose nel giardino crea ben altro disturbo. A meno che non sia precisato in qualche articolo nascosto della Costituzione che l’Italia ripudia la guerra, quando non ci sono interessi economici in ballo, ma gioca a farla a casa sua e i bersagli sono gli Italiani. È una questione di sicurezza, diranno gli addetti ai lavori. Ah, sì? E un aereo che rischia di schiantarsi sulla mia casa come dovrebbe tranquillizzarmi? È una questione di difesa, argomenterebbero nelle caserme. Ah, è vero? E come dovremmo difenderci dai tremendi rumori, dai gas di scarico tossici e dalle radiazioni dei potenti radar che ci piovono sulla testa durante tutto l’anno? Questa è stata un’estate di fuoco. Non solo per l’incendio scatenatosi sui monti del Piceno. Decine di voli di addestramento hanno devastato i timpani, e si scoprirà – ne sono certo – i polmoni degli abitanti della città di Gioia del Colle. Un comune che vive in simbiosi con un aeroporto militare costruito a meno di 500 metri dall’ospedale pubblico (per altro ormai inesistente, nonostante il serio pericolo di attacco o incidente aereo che corrono i gioiesi). Un aeroporto che ha le piste puntate verso le case, da cui partono voli di addestramento che superano i decibel consentiti in qualunque discoteca romagnola, che spargono nuvole nere di gas di scarico intrisi di diossina sulle teste della gente. E a Gioia? Muti. Per dirla alla Luzi. I cittadini, i più almeno, sembrano essersi assuefatti ai suoni e agli odori. Ma la vista gli è rimasta. E come ignorare allora quei mostri che solcano il cielo a poche decine di metri dalle abitazioni? Come non vedere quel vergognoso monumento alla “gloria militare” che campeggia proprio tra l’aeroporto e l’ospedale, tra quella no mansland che separa il civile dal soldato all’ingresso del paese? Perché la stupidità della guerra, lo scarso vanto di avere un pericoloso aeroporto a pochi passi dovrebbe accogliere il forestiero? Perché non una fiaschetta di vino primitivo o una mozzarella quale effigie di tipicità? Cosa c’è di tipico nelle bombe, nelle mimetiche, negli Eurofighter? C’è di caratteristico il senso della storia umana. Un lungo susseguirsi di guerre, conquiste e dominazioni spacciate al popolo come esplorazioni, diritto alla difesa e missioni di pace. Una pace costosa. Migliaia di euro per un singolo volo di addestramento. Milioni di euro per una flotta di aerei mal costruiti e inutili che l’Italia scambia come figurine per far piacere ai capi di Stato ricchi di petrolio e risorse naturali. Certo, dopo il pericolo dei Tornado e degli Eurofighter, un manipolo di F-35 che fa acrobazie sulle nostre teste non guasterebbe. Inoltre, aumenterebbe

il PIL nazionale, per quanto lordo, di lerciume, questo sia. E se occhi, orecchie e nasi non ne hanno avuto abbastanza dei soprusi di un corpo militare che nessuno monitora (basti pensare che a Gioia del Colle non sono mai state installate centraline di rilevamento smog e rumore, forse per non monitorare strumentalmente ciò che ogni cittadino sa da tempo), un ulteriore vergognoso scandalo caratterizza la base gioiese. Sembra, infatti, che con ordinanza del Sindaco e dopo i tre gradi di giudizio dei tribunali, a un privato cittadino custode di alcuni pini secolari nel proprio giardino di casa sulla via Vecchia per Matera sia stato ingiunto di abbattere gli alberi centenari, rei di intralciare il volo degli aerei militari in partenza dalla pista gioiese. Ora in molti si chiederanno come possano degli alberi, seppur enormi, dell’altezza di 15-20 metri, intralciare il volo di aerei militari che, per la sicurezza di chi non gioca a fare la guerra e resta a terra, dovrebbero volare a centinaia e non a poche decine di metri dal suolo? Ebbene, si narra che tale misura d’abbattimento risulti necessaria all’Aeronautica Militare di Gioia del Colle per ottenere un marchio di qualità, un analogo della quinta stella alberghiera, dalla NATO – di cui l’Italia è partner strategico – e che la presenza di «oggetti intralcianti o potenzialmente pericolosi nel cono di volo» non permette di ricevere. Sarà necessario abbattere gli alberi per garantire il lustro al 36° Stormo? Il proprietario e molti cittadini sono già, è proprio il caso di dirlo, sul piede di guerra. Com’è possibile che debbano essere sacrificati degli alberi secolari piantati su un suolo privato perché potenzialmente pericolosi e non si valuti quanto possa, quindi, essere rischioso il passaggio radente di quegli aerei a pochi metri d’altezza sulle abitazioni? Com’è possibile che il Sindaco di un Comune, che dovrebbe in primis tutelare la sicurezza dei propri cittadini, la ignori e ordini di abbattere dei secolari testimoni del tempo per garantire libertà di volo ai devastatori del cielo? È come voler uccidere i propri nonni perché nella loro stanza si vuol costruire una moderna taverna. Sarebbe il momento di iniziare una grande protesta civile contro i soprusi delle forze militari che hanno la presunzione persino di poter decidere dove gli alberi vadano piantati o possano crescere. All’ingresso di Gioia del Colle, come di tutte le altre città militarizzare, dovrebbe campeggiare non un aereo militare, ma un grande striscione con scritto ciò che diceva il già citato poeta italiano Mario Luzi: «[…] a gara derubano della loro persona gli incolpevoli, a gara li umiliano e li vendono o all’alba si ritrovano il loro sangue sotto le unghie – e voi che alzate gli occhi su di loro e subito li chiudete bene e forte col sigillo delle dita timorosi di conoscerli, spaventati di ravvisarvi, non è questo, lo so, che volete sentirvi dire eppure non c’è nulla a cui più appassionatamente pensi – parla alto, parla distintamente sotto la grande cupola di sordità la mia ben poca anima ancora viva tra le sue rovine. E voi? Muti».¿


Fumo sulla città Taranto tra passato e futuro Alessandro Digregorio |

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Nell’ultimo appuntamento del ciclo di incontri titolati Dialogo tra un IMPEGNATO e un non so , a cura di PrimaVera Gioia e del circolo Arci Lebowski, la cittadinanza gioiese ha avuto modo di ascoltare Alessandro Leogrande (vicedirettore del mensile Lo straniero ) in occasione della presentazione del suo ultimo libro Fumo sulla città : un reportage che mostra come Taranto sia stata fucina di alcuni tra i fenomeni più devastanti della nostra contemporaneità: dalla politica televisiva all’emergenza rifiuti, passando per la crisi dell’industria. Il libro è frutto di un lavoro portato avanti per diversi anni, una stratificazione di testimonianze che accompagna il lettore alla scoperta della città dei due mari dagli anni Novanta fino ad oggi. Il viaggio parte esplorando la figura di Giancarlo Cito: ex picchiatore fascista, telepredicatore, eletto a furor di popolo primo cittadino di Taranto dopo il crollo della Prima Repubblica e successivamente passato in giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa. La disamina della società e dell’industria, strette in un reticolo inestricabile e fittissimo, è il momento successivo della narrazione. Una coltre di silenzio ha coperto per molti anni le conseguenze dell’inquinamento causato dal più grande polo siderurgico europeo. Il caso Ilva, infatti, è sotto i riflettori nazionali solo dall’estate 2012 grazie al lavoro della Procura di Taranto e in particolare alla tenacia della dottoressa Patrizia Todisco, magistrato tarantino già in forze al Tribunale dei Minori. La svendita dell’Italsider nel 1995, ceduta al gruppo Riva, è

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il punto di partenza di numerosi effetti oggi lampanti. Infatti l’unico obiettivo dei Riva è stato massimizzare il rendimento degli impianti, senza tenere in alcun conto le condizioni in cui versavano gli operai, gli abitanti del quartiere Tamburi e più in generale tutta la città di Taranto. Per tornare alla narrazione, la concatenazione tra società, politica ed economia si riflette nella struttura tripartita del libro: che parte dall’analisi di una Taranto passata, viziata dalla politica corrotta segnata da tangenti e favoritismi, per arrivare alla parte finale in cui Leogrande offre uno «Zibaldone delle polveri», in cui raccogliere stralci e visioni degli ultimi mesi. Il punto di vista di Alessandro Leogrande è quello di un tarantino che ama profondamente la sua terra, ma che ora, con sguardo malinconico, si scaglia aspramente contro l’antipolitica, contro il disinteresse cittadino che ha contribuito a trasformare Taranto da città rurale di inizi Novecento in una città profondamente incentrata sul sistema industrialcapitalistico. Allo stesso tempo Leogrande mantiene accesa la speranza: il sogno che Taranto, consapevole del suo passato, possa finalmente guardare al proprio futuro. Questa voglia di sperare si riflette nella scelta da parte dell’autore di dedicare alla sua città una delle ultime poesie di Pier Paolo Pasolini rivolta ai giovani: «Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni». ¿


Strutture sportive i fondi ci sarebbero Alessandro De Rosa |

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Sono ormai trascorsi quasi tre anni da quando un’ordinanza dell’allora sindaco Piero Longo rendeva agibile (quando forse agibile non lo era del tutto) gran parte della pensilina che funge da copertura per la tribuna del campo sportivo. Da allora la sfortunata pensilina è ancora là, in attesa di una sistemazione che dovrebbe riguardare il patrimonio immobiliare sportivo della città, considerato che vanta già un decennio di vita e in questo arco di tempo non ha mai goduto di un restyling strutturale. A vantare i danni maggiori, e dunque a necessitare degli interventi più urgenti, sono proprio quelle strutture che hanno rappresentato il fiore all’occhiello delle passate amministrazioni: campo sportivo e palazzetto. Del primo già s’é detto della pensilina che, non essendo agibile, non permette agli spettatori di usufruire della tribuna per assistere agli incontri casalinghi delle squadre di calcio, e si spera un giorno anche di rugby. Anche il manto erboso è oramai al collasso tanto da non essere più idoneo a far disputare partite di categoria. Infatti, in una missiva dell’11 gennaio 2012 indirizzata al Comune di Gioia del Colle, la LND Servizi srl, società che per conto della Lega Nazionale Dilettanti sovrintende alla regolarità dei campi da gioco, indicava che «la durata media dei campi in erba artificiale a cavallo degli anni 2003/04 è dell’ordine degli otto/dieci anni» (il campo Martucci è del 2003). Inoltre «durante i test dell’ultima ri-omologazione i tecnici indicano che il campo potrà essere utilizzato per un numero di anni definito e improrogabile». «La data di scadenza – recita ancora la missiva – dell’omologazione in essere porta la data del 04/01/2014»; in conclusione «il campo dovrà essere ristrutturato e riprogettato alle conformità regolamentari in essere a quella data». Non sta meglio il palazzetto, al cui interno pare ci sia un continuo gocciolamento nei giorni di pioggia, segno che la guaina che copre il tetto necessita manutenzione. Quanto al parquet , in vari punti presenta listelli marci a causa dell’acqua assorbita dal sistema di serpentine per il riscaldamento presente al di sotto della pavimentazione. Senza volgere lo sguardo ad altre strutture (come quelle scolastiche, il pala Kuznetsov e altre ancora) le cui valutazioni sconforterebbero i contribuenti gioiesi, sarebbe oppor-

tuno cominciare a chiedersi se la delibera di Giunta n. 96 del 5/06/2013 avrà mai un seguito. In questa delibera, siglata dopo che la Consulta dello sport segnalò nel 2013 fondi statali per la ristrutturazione degli impianti sportivi, nel prendere atto che gli impianti sportivi necessitavano di lavori di ristrutturazione straordinaria, in particolare si parlava di sostituzione del manto di erba sintetica, del rifacimento della copertura della tribuna, della riparazione della struttura portante della copertura sia del campo sportivo che del palazzetto. Il tutto al costo di 1 milione e 350mila euro, per oltre la metà finanziabili. Quello che ci chiediamo oggi è: il Sindaco e l’assessore allo Sport avranno considerato la nota protocollata via e-mail da parte della Consulta dello sport, con cui il 24/07/2014 si segnalava l’esistenza di un bando regionale (con scadenza il 13/08/2014) che stanziava centinaia di migliaia di euro? Forse no, considerato che all’interrogazione del consigliere comunale di minoranza Donato Lucilla del 18/08/2014 il sindaco Sergio Povia rispondeva di non aver ricevuto nulla in merito. Nell’era della spending review e dei tagli inesorabili che i trasferimenti statali hanno subito pare non possano esserci altre strade se non quelle dei fondi strutturali per ridare slancio ad un patrimonio che, oltre a rappresentare un investimento di denaro pubblico, rappresenta per molti ragazzi la possibilità di essere avviati ad una disciplina sportiva. Intanto passando dalla manutenzione strutturale alla gestione economico-finanziaria le cose non cambiano. È di questi giorni la bozza del bilancio preventivo dell’ente dalla quale si apprende un sostanzioso deficit per quel che riguarda la differenza fra entrate e uscite che gli impianti generano. Rimandando ad altre occasioni l’analisi delle singole voci contabili, adesso forse è il momento di prendere coscienza del fatto che un cambio di strategia è ineludibile. Questi impianti devono essere fonti di reddito, almeno per autosostenersi. Magari utilizzando uno schema di convenzione che affidi ad un privato la gestione, riservando all’ente l’espletamento dei servizi essenziali per la comunità sportiva, a determinate condizioni economiche e lasciando, magari, alla libera iniziativa privata lo studio di ulteriori possibilità di utilizzo.¿

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Federico Fiumani: il lato confidenziale di una tribolata anima punk rock Filippo Linzalata |

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PrimaVera Gioia ha avuto l’onore di collaborare alla realizzazione dell’emozionante workshop dedicato al frontman di una delle più longeve band musicali che dalla fine degli anni Settanta ha “sfornato” la bellezza di 30 album, i Diaframma. L’incontro, svoltosi durante la due giorni dedicata al Gioia Rock Festival 2014, V edizione, è stato reso possibile grazie agli sforzi encomiabili del gruppo informale Rockerella, con la collaborazione di Nojarella (sorellastra noiana del progetto Rockerella), Arci Lebowski e PrimaVera Gioia. Il ritorno dei desideri, titolo del workshop dell’8 agosto scorso, accolto nel laboratorio urbano Bandèapart di via Arciprete Gatta, ha ospitato una trentina di spettatori tra stampa, fan e addetti ai lavori. Una giornata unica che ha permesso di tracciare dapprima le linee guida della vita artistica dell’eclettico Fiumani, svelandone aneddoti, racconti e considerazioni sul mondo musicale attuale (dalla produzione, al web , al booking ), approcciandosi poi tecnicamente alla disquisizione sulle differenze tra testo e poesia e infine ad una prova live dell’artista marchigiano assieme al gioiese Kecco Recchia. Federico Fiumani ha coinvolto la platea districandosi nei meandri della sua psiche, manifestando un’orgogliosa infelicità esistenziale, sempre pronta a sposare la sua viscerale creatività. «Eravamo una band molto triste». L’esordio dei Diaframma viene descritto così da Fiumani, che spesso e volentieri non si risparmia dall’incoronare con una genuina malinconia le emozioni della Firenze anni Ottanta (dieci band per dieci locali), i rapporti con i colleghi (Piero Pelù su tutti, a cui dedicherà il brano Ottovolante ) e le cupe intuizioni che hanno portato a Siberia , capolavoro indiscusso della loro discografia. La storia del musicista di Osimo, trapiantato a Firenze, muove i primi passi proprio nel capoluogo toscano, vero terreno fertile della primavera musicale italiana degli anni Ottanta, 16 PrimaVera Gioia

che ha visto esplodere, oltre al talento dei Diaframma, quello dei Litfiba, Neon e tanti altri. Dai primi concerti nella Rokkoteca Brighton di Settignano, gestita da Nicola Vannini, che per una parentesi temporale è stato cantante della band , ad oggi le cose sono cambiate. Federico Fiumani si è proposto in live sia con i Diaframma, sia da solista (due album all’attivo), sia da cantautore, che da poeta. E pensare che negli anni Novanta i discografici della Ricordi lo avrebbero voluto rockstar televisiva e radiofonica sulla scia dell’ascendente Marco Masini, una strada questa che Fiumani disertò a favore delle produzioni indipendenti. Scelta azzeccata, vista l’affluenza di pubblico che Fiumani riesce ancora a far avvicinare ai suoi versi, con un ricambio generazionale promettente. «Allora era impensabile vivere di musica, ora la musica mi dà da vivere» e nell’ultimo progetto in uscita, Un ricordo che vale 10 lire , fa rivivere brani italiani della sua memoria discografica in un album di cover che spaziano da Paolo Conte, a Lucio Battisti, finanziato tramite la piattaforma di crowfounding musicale Music raiser. Un ultimo tuffo romantico nella line up a cui è più affezionato, quella di Siberia in cui Federico Fiumani era alla chitarra e Miro Sassolini alla voce, un binomio durato poco e che tutti i fan sperano di tornare a vedere. L’unica cosa certa è che i fruitori del workshop si sono interfacciati ad un artista a tutto tondo, in cui il lato solitario e rock cattura lo sguardo, apre le menti, generando fibrillazioni interessanti ancor prima di sentire quelle tre note incipit di Siberia, divenute marchio di fabbrica della produzione Diaframma. Bisogna doverosamente ringraziare gli organizzatori e coloro i quali, provenienti da parti disparate non solo della Puglia, hanno colto l’occasione, insolita e per questo imperdibile, di entrare nell’universo artistico di un grande della musica. Meno cospicua la partecipazione locale ma poco importa: a distanza di una ventina di giorni si saranno rifatti con il genio di Pòvia. ¿


la prima di Étranger Da Albert Camus alla narrazione cinematografica Lyuba Centrone |

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«Dinanzi a questa notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Sentendola così simile a me, così a me fraterna anche, ho capito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, per sentirmi meno solo, arrivai ad auspicare che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accogliessero con grida di odio». Questo breve stralcio è tratto dal romanzo L’Étranger di Albert Camus, l’opera letteraria che ha dato il titolo all’edizione zero del festival cinematografico Étranger film festival . La manifestazione realizzata dall’11 al 13 settembre all’interno della Corte del Castello, è nata per favorire l’integrazione globale e valorizzare visioni in grado di rappresentare la diversità culturale, etnica, religiosa, sessuale, politica e di genere, attraverso lo strumento cinematografico.

Una prima edizione già ben architettata, complessa sia per le tematiche, che per la vastissima quantità di opere che si sono proposte alla selezione: ben 576, da 38 Paesi differenti. Solo 22 titoli però hanno concorso al Premio Étranger , vinto dal cortometraggio Aissa del francese Clément TréhinLalanne «per la purezza stilistica con cui descrive l’esclusione di una giovane immigrata da parte di una società che ne misura il corpo ma non l’umanità». Un festival giovane, germogliato grazie alla creatività e tenacia di giovani ancora salvi dalla disillusione che ci attraversa, tanto desiderosi di affermare la propria unicità da essere arrivati a creare un sofisticatissimo riferimento con il romanzo di Camus, considerato da molti la più imponente opera letteraria del Novecento. Telaio che è riuscito a tessere le più infinitesime spie del naufragio umano dell’era contemporanea. Meursault, il protagonista, avvertiva l’estraneità da se stesso e dalle proprie abitudini, alimentata dall’incapacità di provare empatia per la madre, amore per la propria compagna, pentimento per l’aver ucciso un uomo. L’Étranger raccontava nel 1942 il tracollo dell’essere umano nell’oceano dell’incomunicabili-

tà, una tremenda profezia rivelatasi in tutta la sua assoluta insensatezza e che questo festival ha tentato di analizzare, forse superare, attraverso il cinema. Non solo attenzione per la diversità, ma anche ricerca di identità: il secondo premio del festival, infatti, è stato dedicato a Ricciotto Canudo, il teorico e critico cinematografico gioiese che ha consegnato il cinema all’olimpo dell’arte: dopo architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza, il neonato metodo cinematografico divenne la settima arte agli inizi del Novecento. Lo hanno chiamato premio Le Barisien perché in Francia veniva soprannominato così, Canudo, da Guillaume Apollinaire, il poeta, e coscienti della profonda importanza del pubblico e della sua necessaria rieducazione per una riforma sostanziale del cinema di qualità, il Premio Le Barisien è stato commissionato proprio al giudizio popolare che lo ha assegnato a sua volta al cortometraggio Bella di notte di Paolo Zucca. In concomitanza con il festival cinematografico, è andata in scena anche un’altra iniziativa ad esso connessa: Étra , una mostra di arte contemporanea ospitata dal 10 al 25 settembre presso l’antico palazzo Romano. Tutti pugliesi di fama gli artisti esposti. La mostra si concentra sui linguaggi artistici e su come questi vengano percepiti come diversi. Una manifestazione che quindi ha cercato di coinvolgere una fetta di appassionati molto ampia. Le impressioni che abbiamo avuto dall’incontro con gli organizzatori, Maria Castellano, Giuseppe Procino e Lara Angelillo, sono assolutamente positive. Quello di quest’anno è da considerarsi il primo passo verso l’istituzionalizzazione di una realtà che mira a raggiungere le vette più alte della qualità cinematografica. Le basi ci sono, la perseveranza anche. Avanti Étranger ! ¿ PrimaVera Gioia 17


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Ci ste la frasche, se venne u mjire alla scoperta del Primitivo Vito Roberto Cardilli «Ci ste la frasche, se venne u mjire» recitava un antico detto gioiese, riferendosi alla consuetudine da parte dei contadini di appendere un ramo, spesso di olivo, al di fuori delle proprie cantine per la vendita e la mescita del vino. In quelle cantine scorrevano litri di vino dal colore impenetrabile, dall’odore intenso e dall’inequivocabile gusto deciso: era senz’altro U’ Primative, il Primitivo. Lasciando un attimo indietro il ricordo nostalgico di bambino che abitava nel centro storico e che tra settembre e ottobre respirava l’odore acre dei tini in fermentazione, oggi posso parlare ed esporre le mie considerazioni da tecnico e da semplice appassionato. Il Primitivo, pianta che vede la sua scoperta proprio in territorio gioiese nel Settecento, coltivato ad alberello pugliese (u c’ppon), a spalliera o tendone, produce un frutto a bacca violacea ricoperta da un fitto strato di pruina, sostanza cerosa naturale protettiva e che, a piena maturazione fenolica, presenta una cospicua presenza di acini passiti. Maturazione fenolica? Si, perché fatte salve le tradizioni e i ricordi, oggi ogni cantina ha bisogno di ricevere e vinificare le uve secondo approcci che uniscano la tradizione ancestrale della produzione enoica, alla scienza (enologia) e alle tecnologie. Prima di ricevere le uve per la trasformazione, infatti, è buona norma controllare il grado zuccherino, dal quale si ricava l’alcool potenziale, l’acidità totale e il pH, nonché le estraibilità di antociani e polifenoli, per intenderci il potenziale colore del vino e il persistere degli aromi. Una volta arrivate a maturazione le uve vengono raccolte e portate nelle zone di ricezione uve della cantina. Niente stivaloni e pigiature molleggiate alla Celentano, oggi si procede in modo diverso con macchinari adatti a preservare la qualità. L’uva viene sottoposta a diraspatura, cioè alla separazione dell’acino dal raspo, attraverso l’uso della diraspa – pigiatrice – e il risultante prodotto viene introdotto in tini di acciaio inox, anfore capienti o botti di legno, a seconda delle tecniche delle diverse cantine, naturalmente non prima di averle perfettamente igienizzate. L’igiene è la prerogativa fondamentale dell’agire enologico odierno, senza il quale vengono meno le speranze di ottenere prodotti di qualità. Una volta poste le uve diraspate e pigiate, segue il periodo di fermentazione che consiste nella trasformazione degli

zuccheri contenuti nelle uve da parte dei lieviti, in alcool. Una volta terminata la fermentazione alcoolica e la macerazione sulle bucce, per estrarre più colore possibile e renderlo più stabile nel tempo, si procede alla separazione del mosto dalle uve. Questa operazione, nella maggior parte dei casi, viene effettuata tramite pressatura delle bucce risultanti dalla separazione del mosto in altro recipiente, immettendo le stesse in macchinari che, attraverso la pressa, esauriscono le vinacce bagnate. Il vino-mosto così ottenuto andrà a svolgere la fermentazione malo lattica, che consiste nella naturale degradazione dell’acido malico in acido lattico, dovuta all’intervento dei batteri lattici presenti nel vino, che sancisce la definitiva maturazione da mosto a vino. Nel corso dell’anno il vino viene travasato più volte per procedere all’affinamento o all’invecchiamento in botti, barriques (botti francesi da 225 lt) o altri contenitori, a seconda delle tecniche, peculiarità e tradizioni delle cantine. Preceduto per fama dal cugino di Manduria o dall’emigrato Zinfandel californiano, il

il Primitivo D.O.C Gioia del Colle è tra i più apprezzati sul mercato Primitivo di Gioia del Colle ha vissuto tempi duri fatti di vendita come vino da taglio per andare ad arricchire i vini delle cantine settentrionali, fino al fallimento di diverse Cantine Sociali, passando attraverso l’espianto di diversi ettari di alberelli nodosi e secolari, quando oggi l’Unesco ha riconosciuto e tutela come patrimonio dell’umanità i territori vitati delle Langhe-Roero e del Monferrato. Attualmente il Primitivo D.O.C Gioia del Colle è tra i più apprezzati sul mercato, soprattutto internazionale, per le sue caratteristiche eccezionali e uniche e, tra i produttori pugliesi, le cantine di tutto il bacino D.O.C sono le più premiate sulle guide nazionali e ai concorsi enologici di tutto il Mondo. E pensare che eravam partiti dalla frasca e dal bicchiere contadino… Prosit! ¿


Dall’asfalto nascono fiori: l’esperienza del basket di strada Filippo Linzalata |

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Il rumore della rete dopo un canestro a ciuffo, l’ossessione maniacale per l’arco dei tre punti, la gioia orgasmica per un punto allo scadere. Se non avete mai avuto una palla a spicchi tra le mani, non potrete capire. Il basket, uno degli sport più diffusi al mondo, vive da anni momenti di alti e bassi nella ridente, e mica tanto, Gioiosa del Colle. Parliamo oggi della situazione cestistica con Enrico Giordani, attivista e portavoce del gruppo Strittboll Gioia.

comprese tra i 16 e i 40 anni che in pianta stabile si danno appuntamento almeno due volte a settimana da maggio a settembre. Parlaci della situazione gioiese nel 2014. A livello giovanile le due società attualmente operanti a Gioia (Olimpia e Minozzi) sono molto attive e forniscono una formazione più che adeguata a ragazzi tra i 10 e i 17 anni, coinvolti in vari corsi e campionati. Per gli over 18, invece, ad

oggi non esiste una competizione federale che li coinvolga. Ciao Enrico. Raccontaci del movimento Strittboll Gioia. Cos’è e quando nasce? Parlare di movimento attualmente credo sia prematuro. Il nome Strittboll Gioia nasce per gioco: dovevamo scegliere una scritta da apporre sulle maglie da basket per identificarci meglio durante le nostre partite. Dallo scherzo è nato un bel logo e un nome che oggi identifica una minoranza tutt’altro che silenziosa. Il gruppo nasce grazie all’aggregazione di ragazzi che non si conoscevano nemmeno tra loro ma, avevano in comune la passione per un gioco meraviglioso che a Gioia ormai è difficilissimo praticare. L’inaspettata costruzione di campetti da basket outdoor a Gioia ha risvegliato la voglia di giocare in ragazzi che, come il sottoscritto, non toccavano un pallone da anni. In un paio di estati il gruppo ha raggiunto cento membri su facebook con una trentina di giocatori, provenienti anche da Acquaviva e Mottola, di età 20 PrimaVera Gioia

Due anni fa la Minozzi ottenne sul campo una meravigliosa promozione, vincendo i playoff di Prima Divisione, ma lo scorso anno non si è iscritta al campionato. Le cause sono molteplici: dalla difficoltà di reperire fondi per le iscrizioni alla mancanza di un movimento capace di unirsi per far fronte alle tante necessità. Il movimento Strittboll nasce anche sulle macerie del basket gioiese. Credi sia prospettabile la costruzione di fondamenta più stabili per dare forza al movimento cestistico della città? Il nostro piccolo gruppo ha accolto moltissimi protagonisti dell’ultimo campionato di prima divisione giocato dalla Minozzi. A mio avviso il problema principale del basket gioiose è la mancanza di coesione tra società: bisognerebbe far


fronte comune e costituire un polo di attrazione più credibile dal punto di vista sportivo e soprattutto politico per tornare ai livelli raggiunti anni fa. Molte società hanno deciso di non puntare più sulla squadra senior, concentrandosi solo sui settori giovanili. Palesi scelte economiche, alcune volte dettate da una mission morale, altre volte no. Non pensi che i giovanissimi debbano ambire a una squadra senior da cui prendere esempio? Questo è un po’ il nocciolo della questione. La pratica del basket non può essere limitata ai diciassettenni. Questo non giova a chi avrebbe ancora molto da dire, ma soprattutto agli stessi giovani che, arrivati a diciotto anni, non hanno di fatto una squadra che permetta loro di continuare la loro evoluzione sportiva. Ragazzi che non hanno i mezzi o le possibilità di raggiungere un altro paese o che non sono tanto forti da attrarre l’interesse di altre società. Perché un ragazzo che ama uno sport non deve poterlo praticare a casa propria? Il campetto di strada accoglie tutti questi ragazzi e il livello di gioco è comunque buono, la competitività sana e le amicizie salde. Non è questo il fine ultimo e più nobile dello sport? O le belle parole hanno una data di scadenza al compimento dei diciotto anni? Oltre al ruolo di chioccia, pensi che i componenti più adulti possano ancora dire la propria affrontando nuovamente la sfida di un campionato federale? Un esempio su tutti: Giambattista Buono, bandiera del basket gioiese, a quarantadue anni è in uno stato di forma da fare invidia a un sedicenne, continuando con noi a consumare scarpe e cartilagini sul cemento. Due anni fa ha segnato quasi da centrocampo il tiro decisivo all’ultimo secondo della finale playoff. Avrebbe ancora molto da dire e da dare al basket ed è un esempio per tutti. Non vederlo giocare in un campionato fa male al cuore. Oltre a Giambo, ci sono tanti ragazzi che potrebbero dire ancora la loro in un campionato, come Angelo Paradiso, Giuseppe D’Onghia, Tommaso Milano e Alessandro Morolla, che continua a rifiutare numerose proposte da altre squadre perché vuole fortemente giocare a Gioia. Ad oggi una squadra fatta di gioiesi potrebbe vincere il campionato di prima divisione e non sfigurare in promozione. Poi ci sono i giovani: Nicola Sabato, Giuseppe Lillo, Alessandro Pardea, Francesco Morolla e tanti altri, cresciuti moltissimo negli ultimi due anni, che trarrebbero sicuro gio-

vamento da un’esperienza anche minima di basket organizzato. Perché non sfruttate la vostra esperienza e il vostro entusiasmo per mettere su una società scevra da dinamiche economiche legate al guadagno, ma concentrate al sostentamento del movimento, come nel caso del Granada Rugby? È un nostro obiettivo che riteniamo realizzabile. Sarà sicuramente durissima, ma se le cose continueranno così, ci proveremo. Non ci sono altre soluzioni. Oltre ai campetti di via Einaudi e di piazza Berlinguer, c’è la possibilità di vedervi anche in versione indoor? C’è un confronto con gli addetti ai lavori, allenatori, dirigenti? Siamo riusciti a catturare l’interesse delle società gioiesi e con loro stiamo lavorando in cerca di spazi che possano permetterci di praticare basket decentemente, vista la mancanza di strutture e di ore a disposizione. Ringrazio Andrea Polucci e Francesco Fiorente dell’Olimpia, Franco Venere e coach Rino Di Bari della Minozzi per il tempo che dedicano alla nostra causa. Capitolo strutture sportive. Data la mancata omologazione del palestrone, è possibile effettuare basket solo presso il palazzetto, la cui ripartizione degli orari prevede complessivamente 44 ore al volley (6 società) contro le 18 riservate alle 2 società di basket. Che idea ti sei fatto? Un’idea schietta e sincera: politicamente il basket non interessa a nessuno, non è un trofeo da sbandierare e non offre apparentemente nulla di tangibile. Nessuno guadagna nulla da quattro gatti che vogliono giocare a basket. Lo sappiamo bene. Se fossi un politico, mi interesserei per riportare in auge un movimento importante come quello gioiese. Avete qualcosa in cantiere per la prossima stagione? Stiamo tentando di trovare almeno due ore per allenarci in inverno, sperando di trovare fondi per iscriverci al campionato di Prima Divisione. Se non ci riusciremo, lavoreremo su altri fronti che ci porteranno a qualcosa di interessante nel 2015, migliorando la nostra struttura interna e organizzando tornei o leghe estive di basket. Non ci arrenderemo e non resteremo relegati a un campo in asfalto. Pretendiamo di più. ¿


La riforma dell’Università #passodopopasso Lino Digregorio |

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Nel fittissimo programma dei #millegiorni del Governo Renzi si fa largo con tanti rumorosissimi proclami la pianificazione di una riforma del mondo della formazione. In realtà nulla di nuovo, da una parte perché l’ultima riforma della pubblica istruzione (quella del ministro Mariastella Gelmini) risale a non più di quattro anni fa, ma soprattutto perché non cambiano le parole d’ordine e le idee su cui si fonda questo nuovo progetto di riforma. Non cambia, neppure sul piano retorico, la convinzione drammatica che si possa sanare la crisi delle assunzioni degli insegnanti, cambiando ancora una volta il percorso di abilitazione all’insegnamento. Non si è ancora compreso, dopo una delle più tragiche riforme dell’Università (il riferimento è ancora alla riforma Gelmini), che non si possono risollevare le sorti della formazione pubblica sulla base della concorrenza aziendalistica fra gli atenei, fra le scuole e dentro le scuole fra i docenti, in una lotta serrata contro severi vincoli di sostenibilità economica, che spesso significano tagli dell’offerta formativa e, in generale, ridimensionamenti al ribasso degli standard di qualità reale dell’istruzione. Cosa significhi nello specifico tutto questo ce lo racconta con estrema chiarezza la situazione attuale dell’Università degli Studi ‘Aldo Moro’ di Bari che, giusto per chiarire gli ordini di grandezza, è uno dei più grandi atenei italiani e la sede degli studi di una considerevole parte degli studenti pugliesi. È notizia delle ultime settimane l’approvazione, con delibera del Consiglio di Amministrazione dell’8 settembre, del piano di rientro che dovrebbe permettere all’ateneo di risanare un disavanzo di bilancio milionario con il quale l’amministrazione fa i conti da molto tempo. Prima di entrare nel dettaglio del piano di rientro va tuttavia individuato il senso più tangibile di cosa significhi per una sede universitaria soffrire di ristrettezze finanziarie e instabilità economiche. Secondo l’attuale normativa, il finanziamento pubblico agli atenei viene predisposto dal Ministero, per una parte considerevole della sua totalità, sulla base di un meccanismo premiale. Si assegnano cioè più risorse alle sedi che risultano più virtuose rispetto ad alcuni parametri che tengono 22 PrimaVera Gioia

conto in maniera molto rigida della stabilità economica, da una parte, e dall’altra non si tiene conto della qualità effettiva della didattica offerta e della ricerca effettuata. Coerentemente con questa logica, fortemente punitiva e non meritocratica, viene per esempio distribuita fra gli atenei la possibilità di assumere il personale docente e i ricercatori. Tutto ciò genera inevitabilmente una situazione di impoverimento continuo di alcune sedi universitarie in favore di altre che riescono, nei pochi contesti economici e sociali favorevoli, a mantenere una disponibilità di risorse ampia e margini di sviluppo concreti. Per questi motivi l’obiettivo dell’ateneo barese di risanamento del proprio bilancio è l’ennesimo estemporaneo tentativo di evitare un’ulteriore fuga di finanziamenti, in un quadro di disponibilità di risorse già estremamente critico. Come sempre però, di fronte alla necessità dell’amministrazione di battere cassa, a pagare le conseguenze sono gli studenti e le loro famiglie, poiché una parte della strategia di rientro si poggia sull’aumento della tassazione universitaria. Sebbene sia stato scongiurato per questa volta un incremento della contribuzione diretta, è stato predisposto un aumento dei costi di molti servizi, senza che questi vengano nei fatti migliorati o ampliati, e una cancellazione definitiva di ogni residuo incentivo economico agli studenti. Per fare qualche esempio: verrà eliminata la possibilità di concedere un rimborso parziale delle tasse versate agli studenti che si laureano in regola con i tempi previsti; aumenterà il costo del certificato di laurea in lingua straniera (da 2,00 a 60,00 euro); sarà ridotto del 50% il finanziamento ai dottorati di ricerca; verrà introdotta una nuova tassa (variabile in base al reddito con un tetto di 50,00 euro) giustificata da presunti diritti di segreteria. È in questo modo che l’Università statale di Bari apre le sue porte per il nuovo anno accademico e questi sono i dati con cui deve fare i conti l’ambizioso tentativo di riforma del Governo. Se davvero le intenzioni fossero quelle di riformare radicalmente la scuola e l’università, se davvero si volesse restituire dignità ai lavoratori della conoscenza e a tutti i soggetti in formazione, il primo passo da compiere dovrebbe essere un decisivo investimento e un rifinanziamento adeguato della formazione pubblica. Ogni riforma dovrebbe partire da questo sostanziale dato di fatto. ¿


INTERVISTA AL SARTO PARADISO Laura Castellaneta |

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Sarebbe assai superficiale decidere di trascurare una figura tra i celebri “cimeli“ dell’artigianato locale reduci dall’estenuante selezione naturale professionale presentatasi nel corso degli ultimi decenni, quale quella del sarto. La testimonianza concessa da Francesco Paradiso, in questo caso, tende a motivare una scelta di vita che si è più volte contrapposta alle difficoltà che frequentemente hanno compromesso e compromettono tuttora la presenza di tali entità lavorative nell’attuale contesto sociale. Da quanto tempo svolge questa professione a lei tanto cara? Cosa lo ha convinto a intraprendere questa strada? Ho cominciato a conoscere questo mestiere dall’età di otto anni, precisamente sessantotto anni fa. I genitori dei fanciulli a quel tempo erano soliti affidare i propri pargoli alle botteghe artigianali allora smisuratamente presenti a livello locale. Vi erano varie professioni alle quali i giovani potevano avviarsi, tra cui appunto quella del sarto. Negli anni ‘70 ho deciso di lavorare presso una vera e propria sartoria di Bari che purtroppo non ha retto la crisi del settore degli anni ‘80 e ‘90 e gli elevati costi, e quindi questa esperienza si è prolungata fino a poco tempo dopo. Ormai da più di venti anni ho deciso di esprimere le mie conoscenze e capacità al meglio grazie a questa piccola bottega. Dopo anni di profonde trasformazioni, cosa rimane della richiesta da parte della clientela nei confronti di una modesta attività artigianale come questa? Col passare del tempo sempre meno persone si rivolgono all’attività di bottega se non per esigenze di riparazione. Bisognerebbe comunque mettere in chiaro che la vera fonte di lavoro per quanto riguarda questo mestiere è rappresentata dalla vera e propria elaborazione di nuovi abiti. Questo richiede molto tempo sia in termini di raccolta delle dimensioni e delle materie prime utili sia in fase di realizzazione del prodotto stesso. Non a caso la maggior parte della gente ormai fa riferimento ai negozi di abbigliamento a favore di una maggior immediatezza nell’acquisto. Quali sono i reali vantaggi di un abito fabbricato direttamente in una bottega sartoriale? Notando gli abiti che ricevo per necessità riparatorie, percepisco più volte l’impressione che fra un capo e l’altro non vi sia differenza. I prodotti che si vendono nei negozi hanno tutti una misura standard a cui si devono attenere e che non risaltano le caratteristiche fisiche della persona per come essa si presenta.

Un abito artigianale, definito con le sue misure potrà essere indossato quasi esclusivamente dal cliente che lo ha richiesto secondo le sue proporzioni. Il tempo sicuramente provvederebbe a ripagare l’acquirente in termini qualitativi. Cosa ha condizionato la riduzione sul territorio di botteghe artigianali di questo particolare settore? Un consistente carico di responsabilità è attribuibile sicuramente all’esplosione del boom della confezione degli anni ‘70-’80. A causa della globalizzazione e del fenomeno della produzione di massa il settore della sartoria ha ricevuto un duro contraccolpo. Non bisogna trascurare che fino a pochi anni prima i vicoli traboccavano di queste piccole realtà artigianali. Con lo sviluppo dell’industria molti sono stati assunti da aziende che garantivano una maggiore stabilità economica presenti maggiormente nel nord Italia, altri sono emigrati all’estero. Questo ha favorito la graduale scomparsa di queste piccole entità commerciali. Se dovesse fare i conti con un periodo di grande crisi occupazionale come quello che stiamo vivendo, quale strada sceglierebbe di percorrere nell’ambito lavorativo? Non posso nascondere che dedicherei ancora la mia vita a svolgere questo mestiere. Potrebbe sembrare scontato, ma la scelta di fare il sarto appartiene ormai al mio DNA e sarebbe impensabile pensare di poter lasciare spazio ad altre opportunità. Ne avrei comunque colto l’occasione a tempo debito. Crede che questa possa ripresentarsi come opportunità lavorativa in futuro? A mio avviso, risulterà molto difficile sperare che questo mestiere abbia una sorta di previsione futura. Allo stato attuale sembra quasi impossibile pensare di imparare un mestiere come questo senza averlo prima appreso. Le botteghe si stanno ormai estinguendo del tutto e molti giovani sono attratti da altre aspettative occupazionali che tra l’altro non trovano terreno fertile nel nostro ambito locale. Questo ad oggi non permetterebbe la sopravvivenza di attività del genere. ¿ PrimaVera Gioia 23


, Viva l Anarchia

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Rosario Milano

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° febbraio1979, la popolazione di Teheran accoglie il ritorno in patria dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, tornato dal suo esilio parigino 16 giorni dopo la partenza dell’ultimo scià di Persia. Il consiglio di reggenza non sarà mai eletto: l’ultimo governo della dinastia Pahlavi si dimise l’11 gennaio allorché l’esercito annunciò il ritiro nelle caserme. Era la prima rivoluzione iraniana, alla quale nel corso dei successivi mesi seguì una seconda più silenziosa, ma non meno importante, che segnò la nascita del regime degli ayatollah, come oggi lo conosciamo, o meglio ci illudiamo di conoscere. Le rivoluzioni sono state codificate dagli studiosi che hanno individuato alcune costanti, due delle quali sono generalmente presenti in tutti i fenomeni di radicale cambiamento di un regime vigente in una comunità politica. In primo luogo la presenza di masse popolari urbanizzate che condividono un forte disagio sociale ed economico, le quali percepiscono il cambiamento non solo come auspicabile e necessario, ma soprattutto possibile, concreto, a portata di mano. Ai milioni di giovani disoccupati iraniani, illusi dal boom petrolifero e schiacciati dalla deflazione degli anni ‘76-’77, non sarebbe bastata la rabbia se questa non fosse stata organizzata da «un’élite disponibile». Questa la seconda condizione necessaria e non sufficiente di una rivoluzione, che non può prescindere dal ruolo dominante di

un gruppo sociale abbastanza forte e organizzato, o meglio motivato e disponibile a reggere le fila della rivoluzione. In Iran fu il clero sciita, alleato dei mercanti Bazarì, sicuramente il gruppo più organizzato all’interno della società iraniana, a guidare la rivoluzione, costringendo anche gli altri soggetti politici che componevano l’opposizione allo Scia Reza Pahlavi all’alleanza impari con gli ayatollah, i quali, di fatto, nel giro di qualche mese si liberarono di liberali costituzionalisti, socialisti, comunisti e nazionalisti per instaurare la versione radicale della Repubblica Islamica dell’Iran. Il tema della rivoluzione è ricorrente, costituisce un comodo rifugio per gli adolescenti, per i frustrati, per i nostalgici, per tanti altri, ma alla fine racchiude in se un principio di conservazione. In fondo, cos’è la rivoluzione in astronomia se non il moto di un corpo celeste intorno al sole? La rivoluzione in definitiva esiste solo a condizione di tradire se stessa. Non si illudano i puri di essere dalla parte della ragione, come pure gli austeri liberali non si illudano che i servi non sappiano che il mondo va in una certa maniera. È tutta finzione e ognuno in cuor proprio sa – anche quando recita preghiere in chiesa, mentre discute animatamente, mentre vota e manifesta – che nulla potrà mai cambiare; la rivoluzione non esiste. Una soluzione è però sempre possibile, la rinuncia a illudersi, il gesto più

Una soluzione è possibile, la rinuncia a illudersi, il gesto più rivoluzionario che esista

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rivoluzionario che esista. Direbbe il senatore Antonio Razzi: «Amico mio, fatti i cazzi tuoi». Abbandoniamoci pure al qualunquismo, rinunciamo, pentiamoci di tutto questo attivismo, diamo un taglio all’estetica dell’antagonismo, di essere contro poiché in definitiva non siamo diversi da coloro i quali critichiamo, siamo fatti della stessa anima contaminata dall’economia politica e dal bisogno incessante di avere, di distinguerci. Facciamoci una buona dose di fatti nostri, campiamo alla giornata e accontentiamoci di una economia predatoria. Allora sembrerà tutto più bello, come nella Corea del Nord campione del mondo di calcio 2014. «L’immaginario è il luogo della trascendenza sociale, dove nasce il potere», scrive Jean Baudrillard. Qui tutti siamo buoni, tutti siamo bravi e democraticocristiani. In questo mondo circense immaginario, faremo finta che le stesse persone che, solo per amore del bene pubblico, fanno gli amministratori da vent’anni, non siano responsabili della situazione attuale che viviamo. L’irresponsabilità è sacrosanta e per una città affollata di impuniti e impunibili, piena di arroganti faccendieri pronti a scrivere in ciclo-stile querele per diffamazione: ma qual è la fama che state difendendo? Usano le leggi come scudo al giovedì e il giorno dopo aggirano e violano le norme con una violenza che farebbe invidia agli odierni tagliatori di teste dell’Eufrate. Ma questa è pura realtà, a noi piace l’immaginario. Scrive Eric Hobsbawn in The Age of Empire (1987) che «il liberalismo è lo stato di anarchia dei borghesi, e noi tutti borghesi e disimpegnati vivremo i benefici di questa anarchia legalizzata, dove gli sfigati aspetteranno le briciole cadere dalla tovaglia imbandita sulle ceneri dello stato di diritto e dello stato sociale». Ciononostante, sappiamo anche che l’individuo è attraversato da pulsioni che l’ordine delle cose non può sopprimere, può pensare di irreggimentare, sfumare, contenere, ma non può in definitiva abolirle. Per quanto possiamo sforzarci di non pensare, tutto questo sangue che ci sta attorno, questa disperazione che vediamo avanzare intorno a noi non ci da tregua, non ci lascia tregua. Come la corsa dei tori a Pamplona, l’idea dell’azzardo c’impone di muoverci in fretta, per la necessità di mostrarsi, ma anche per il bisogno di ritrovare una dimensione collettiva.

Tuttavia, se il clero sciita guidò la piazza di Teheran, se i bolscevichi di Lenin s’impadronirono della rivoluzione russa e i borghesi impoveriti guidarono le masse italiane verso il fascismo, oggi chi potrà mai guidare la nostra resurrezione? Dove sono le masse e dove le élite disponibili? Animals (1977) fu il decimo album dei Pink Floyd. La leggendaria band raffigurava la società britannica degli anni Settanta composta da animali, come nell’opera di George Orwell The Animal Factory (1947). Ci sono i maiali, ovviamente i politici, i cani, i custodi dell’ordine, quindi, i tutori della legge, e le pecore, ossia il popolo obbediente. A queste specie occorrerebbe sommarne altre per descrivere appieno la fauna sociale, ad esempio i cani randagi, che nella fattoria non trovano spazio e che si dannano l’esistenza a frugare tra i rifiuti, a guastare la festa, a disorientare le pecore, a minacciare l’apparente tranquillità. Bene, se proprio dobbiamo autoraffigurarci preferiamo pensarci cani randagi, in attesa che il popolo di pecorelle sempre pronte a rinunciare a qualsiasi atto d’autonomia scelgano finalmente di trasformarsi in masse politiche coscienti della propria condizione e che trovino finalmente un’élite capace di organizzarsi. Per ora all’orizzonte ci sono solo atomi, solo individui con un ego smisurato incapace Ruhollah Khomeyni di costruire un’alternativa all’anarchia selvaggia dei liberali al potere, ognuno attento alla proiezione della propria ombra, nessuno ancora capace di mettere tra parentesi l’io a favore della proposta collettiva. Se gli adepti del re Sole hanno ormai fagocitato questo Paese, fuori dalle mura l’assedio ancora non inizia perché continuano a nascere sigle, eroi e vessilli da portare, ma mancano leader capaci e, soprattutto, mancano le masse da guidare. Anche per questo chiederemo a tutti i ragazzi di buona volontà di partire, abbandonare questa terra dove nulla sarà mai possibile mutare. Abbandonate questo Paese, costruitevi una speranza lavorativa e culturale, andatevene e lasciate che questo paesuccio sia retto dai rivoluzionari con i calzini turchesi e da peppa pig, che è quello che meritiamo. La nostra speranza ad ottobre si chiama Mario D’Alessandro, Spoki, che oggi lavora presso la Corte Penale Internazionale per i crimini in Cambogia, a Phnom Penh, un altro sul quale nessuno avrebbe scommesso eccetto se stesso e mamma Santa, un altro miracolo che porta i colori della PrimaVera. Buon lavoro Mario. Dedicato a tutti gli emigranti. PrimaVera Gioia 25



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