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crimini e criminali
Daniela Cecchin: Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it
Nella foto: Daniela Cecchin
Polizia Penitenziaria n.229 giugno 2015
«invidiavo la sua felicità» egli ultimi tempi mi ritrovo, sempre più spesso, a riflettere su quanto sia incomprensibile capire gli esseri umani e mi verrebbe da chiedere: «Ma tu che sei un uomo, dimmi un pò, spiegami...». Mi ha sempre affascinato carpire il pensiero dell’uomo “normale” e soprattutto i segreti che ognuno di noi porta con sé. Segreti che spesso hanno a che fare con un passato buio, che nasconde ricordi incancellabili e che costituiscono, molto spesso, il preludio di un’esplosione.
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Inoltre, i contesti sociali e gli stati psicologici (impulsi passionali e forti emozioni), in particolari contesti, possono innescare ulteriormente la miccia, sino al punto che, chiunque, può diventare un potenziale criminale. Negli ultimi anni, si sono susseguite una serie di condotte criminose, da parte di persone “normali”, amici occasionali e colleghi, conosciute nel corso della mia vita, che mi hanno segnato moltissimo, e che hanno rafforzato, ancora di più, la mia convinzione che in ogni uomo “normale” si nasconda un lato oscuro della personalità. Il mio dilemma è cosa libera i comportamenti antisociali? Quali sono le motivazioni alla base dell’assunzione di una condotta delittuosa? Sigmund Freud ha scritto: “L’uomo ha istinti aggressivi e passioni primitive che portano allo stupro, all’incesto, all’omicidio; sono tenuti a freno, in modo imperfetto, dalle Istituzioni Sociali e dai sensi di colpa Nella personalità di ogni individuo c’è un lato nascosto, oscuro, normalmente represso che, se
liberato, ci trasformerebbe in criminali, in crudeli assassini e pericolosi delinquenti”. Se è davvero così c’è seriamente da preoccuparsi anche del vicino di casa! Ho condiviso queste mie riflessioni, una sera, con un portiere d’albergo a Firenze, mio conoscente “normale” occasionale, che forte della sua esperienza lavorativa e della varietà di personaggi che, nel corso della sua vita professionale, aveva incontrato, alimentava con degli esempi la discussione. Mi raccontava, tra l’altro, la storia di un omicidio avvenuto in via Della Scala 39, nel centro storico, a due passi dalla stazione di Santa Maria Novella, allorquando una donna apparentemente “normale” aveva sgozzato un’altra donna. Il racconto si sposava così bene con lo scambio di vedute sul lato criminale delle persone normali che decidevo, nel corso delle settimane successive, di approfondire la vicenda. La mattina dell’8 novembre del 2003, viene rinvenuto il corpo senza vita di Rossana D’Aniello, una funzionaria di banca di 46 anni, sposata con un farmacista e madre di due figlie di 16 e 12 anni. All’interno dell’appartamento, Rossana D’Aniello giace a terra, senza vita, la testa quasi separata dal corpo e schizzi di sangue sparsi dovunque sui muri della stanza. Diciotto anni dopo l’ultimo duplice delitto delle coppiette del “Mostro”, seppur in un’ambientazione completamente diversa, Firenze piomba nuovamente nell’incubo. Il corpo senza vita della donna è scoperto dal marito, Paolo Botteri, al rientro a casa con le due figlie. La scena che si presenta agli occhi dei familiari è agghiacciante, c’è sangue dappertutto: sulla porta di casa, sul soffitto, sulle pareti, sulle lampade. Anche il pavimento è macchiato e mostra una lugubre scia del trascinamento del corpo della vittima per casa con la gola lacerata. All’arrivo sulla scena del crimine, alla polizia risaltano subito i segni lasciati in giro per la casa, successivamente all’omicidio, dall’assassino: asciugamani, fazzoletti ed
abiti macchiati di sangue sparsi per ogni angolo della casa. Sulla scena del crimine non ci sono impronte digitali sospette, ma c’è molto sangue in giro da cui si può ricavare il DNA e in questo caso ne vengono isolati due, entrambi di donna. Gli inquirenti ipotizzano un tentativo di rapina finito male, ma dalla casa non è stato asportato nulla se non un giaccone del marito della donna prelevato dall’armadio. Altro aspetto non di poco conto è che la vittima conosceva il suo carnefice, considerato che non c’erano segni di effrazione sulla porta d’ingresso dell’appartamento. La signora Rossana D’Aniello era una persona molto riservata e timida e non avrebbe mai fatto entrare nessuno nella sua casa: anche in considerazione che al momento del ritrovamento il cadavere indossava una vestaglia. Gli inquirenti iniziano a setacciare la vita della vittima e del marito, affinché possa emergere qualche collegamento con la barbara uccisione, riservandosi di fornire notizie concrete ai giornali, i quali si scatenano alimentando ulteriormente la psicosi – sempre corrente a Firenze - del “mostro”. Sarà proprio il marito, inconsapevolmente, ad essere l’anello di congiunzione tra la vittima e il suo carnefice. Dopo lunghi interrogatori, il marito si ricorda che la moglie era ossessionata da delle telefonate anonime notturne, che nel periodo precedente alla sua uccisione, giungevano sull’utenza telefonica familiare. Saranno proprio le telefonate anonime a condurre il Capo della Squadra Mobile di Firenze, Gianfranco Bernabei, all’assassino. Dai controlli dei tabulati telefonici delle telefonate in arrivo a casa Botteri, risulta che le chiamate notturne provengono tutte dalla stessa cabina, ubicata nei pressi dell’abitazione della vittima. L’assassino utilizza carte telefoniche prepagate i cui codici sono ben presto identificati dalla polizia, che verifica tutte le telefonate in uscita fatte con le schede identificate, sino a scovare una conversazione telefonica verso un’utenza privata di Vicenza. La titolare dell’utenza telefonica riferisce di avere una figlia che lavora a Firenze. Inoltre, la polizia ha l’esito delle analisi del sangue trovate su di un asciugamano che appartengono ad una donna. Il cerchio si è chiuso, l’indiziata, che si rivelerà essere l’assassina, è Daniela Cecchin, 47 anni, una persona