Polizia Penitenziaria - Giugno 2015 - n. 229

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anno XXII • n. 229 • giugno 2015

ISSN 2421-2121

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Polizia Penitenziaria, Polizia di Stato o Polizia di Giustizia?



sommario

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anno XXII numero 229 giugno 2015

Per ulteriori approfondimenti

www.poliziapenitenziaria.it

l’editoriale

donne in uniforme 22

Unificazione delle Foze di Polizia

Lo sceriffo-fo

di Donato Capece

5

il pulpito Il Principio di Peter

di Laura Pierini

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Giovanni Battista De Blasis

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il commento

La sanità in carcere nel Congresso Simspe di Roberto Martinelli

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Redazione politica: Giovanni Battista Durante

di Valter Pierozzi

criminologia Il bullismo minorile di Roberto Thomas

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giustizia minorile La famiglia di fronte al reato di Ciro Borrelli

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lo sport

Le Fiamme Azzurre agli Europei di Baku di Lady Oscar

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Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

Convegno sull’unificazione delle Forze di Polizia

La misura è oramai colma

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Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme

salute e sicurezza

diritto e diritti Il diritto alla rieducazione di Giovanni Passaro

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

mondo p

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Addio agli OPG ma non agli internati di Emanuele Ripa

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

l’osservatorio di Giovanni Battista Durante

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In copertina: Il Segretario Generale del Sappe Donato Capece e il Capo del Dipartimento Santi Consolo al Convegno sull’unificazione delle Forze di Polizia.

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Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, Donato Capece, Giovanni B. de Blasis, Giovanni B. Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2015 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669 e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994 Cod. ISSN: 2421-1273 web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: giugno 2015 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

mondo p

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Il sistema informatico interforze CED-SDI di Luca Pasqualoni

dalle segreterie

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Trieste, Ferrara, Milano, Sulmona, Orvieto, Chieti

crimini e criminali 28 Daniela Cecchin: «invidiavo la sua felicità» di Pasquale Salemme

l’intervista

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A colloquio con Antonella Tuoni direttrice dell’OPG di Montelupo F. di Francesco Falchi

cinema

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10 secondi per fuggire a cura di Giovanni Battista De Blasis

le recensioni

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ALPES, GIAPPICHELLI, GRUPPO ABELE Edizioni

ultima pagina

34

il mondo dell’appuntato Caputo di De Blasis & Caputi

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

l’editoriale

Unificazione delle Forze di Polizia ovvero unificazione della dirigenza penitenziaria

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roficuo, partecipato e molto significativo il convegno che abbiamo organizzato insieme all’Anfu nella sala della piccola Protomoteca del Campidoglio lo scorso 11 giugno. Unificazione delle Forze di Polizia il tema del dibattito, al quale ha partecipato praticamente tutta la dirigenza del Dap, il Vice Presidente del Senato Maurizio Gasparri e il Procuratore Aggiunto di Messina Sebastiano Ardita. Durante il confronto non sono mancati i riferimenti ai lavori della Commissione Gratteri (nella quale è presente anche il Cons. Ardita) soprattutto in relazione alla proposta di istituzione della Polizia di Giustizia con l’obiettivo di creare una forza dell’ordine presente anche sul territorio, che possa eseguire ordini di arresto per gli imputati con condanne definitive, ricercare latitanti, controllare gli arrestati domiciliari e i soggetti sottoposti alle misure alternative, proteggere i collaboratori di giustizia e presidiare gli uffici giudiziari. In un simile scenario futuro, però, il carcere dovrebbe essere riservato solo a coloro che hanno commesso reati di particolare allarme sociale smettendo di essere un contenitore/discarica sociale quale è adesso. Nell’affrontare temi più attuali, poi, si è parlato della necessità che tutte le competenze e le attribuzioni della Polizia penitenziaria siano riunite in una unica unità organizzativa in grado di svolgere coerentemente le funzioni di direzione e di coordinamento di tutti i reparti e servizi del Corpo. Si è immaginato che, nella fase dei decreti attuativi della riorganizzazione del Dap, possa essere istituito un Ufficio di Staff della Polizia Penitenziaria alle dirette dipendenze del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In tale ufficio andrebbero collocate tutte le competenze operative della Polizia penitenziaria, quali l’Uspev, il Gom, il Nic, il Servizio Navale, le Scuole di Formazione, le Traduzioni e i Piantonamenti, il Vestiario e l’Armamento, la gestione dei mezzi e delle caserme, le Specialità e i gruppi sportivi. Alla direzione di questo Ufficio andrebbe preposto un dirigente della Polizia Penitenziaria, mentre ai singoli Servizi un funzionario del Corpo. Pertinenza della Polizia Penitenziaria potrebbero essere anche gli istituendi Presidi Territoriali nelle città dei

soppressi Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. La direzione di questi Presidi potrebbe essere affidata al ruolo direttivo del Corpo, in quanto non più sedi dirigenziali, così da assicurare la prossimità territoriale per l’addestramento del personale, l’efficienza dell’armamento, del munizionamento e dell’equipaggiamento, nonché del vestiario uniforme, il coordinamento dei servizi operativi ed in particolare di quello delle traduzioni e dei piantonamenti, la gestione della Centrale Operativa regionale e con essa dei Protocolli operativi regionali relativi ai piani di emergenza e difesa degli istituti penitenziari, l’attività delle sezioni di polizia stradale, nonché quella di polizia giudiziaria, senza tralasciare la possibilità di proseguire con le attività dei nuclei territoriali VISAG (vigilanza di istituti e servizi amministrazione della giustizia), compreso il servizio di rappresentanza del Corpo di Polizia Penitenziaria. Ragionare, poi, in prospettiva significa guardare alla dirigenza del Corpo di Polizia Penitenziaria, la quale potrebbe essere concepita come dirigenza unica, avuto riguardo al D.Lgs 63/2006, tanto che ai futuri dirigenti della Polizia Penitenziaria potrebbe essere demandata la direzione di quegli Istituti penitenziari classificati di secondo e terzo livello, come da D.M. del 2007, anche se ciò dovesse comportare la perdita della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, analogamente a quanto avviene nella Polizia di Stato per la carica di Questore e per quella di Prefetto. Ritengo, insomma, che i tempi siano maturi per affidare la direzione degli Istituti penitenziari anche agli uomini in divisa, che presentano percorsi formativi universitari e post universitari corrispondenti per titoli a quelli posseduti all’attuale dirigenza penitenziaria, entrata nell’Amministrazione, in alcuni casi, partecipando al concorso di collaboratore penitenziario e non già di direttore di carcere. Ma ritengo anche, infine, che potrebbero essere cadute tutte le barriere culturali e professionali che fino ad oggi hanno impedito di ragionare sulla possibilità di unificare la dirigenza penitenziaria nel senso inverso e cioè contemplando la possibilità che siano i direttori ad entrare nel Corpo della Polizia Penitenziaria. Ma questo è un altro discorso... H

l principio di Peter è una teoria, solo in apparenza paradossale, sulle dinamiche di carriera per meritocrazia all’interno delle organizzazioni gerarchiche. La teoria è anche nota come Il principio di incompetenza e fu formulata per la prima volta nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter, in un libro dal titolo The Peter principle, pubblicato nello stesso anno in collaborazione con il comico Raymond Hull. Il principio illustrato nel saggio di Peter e Hull esprime in maniera scherzosa gli effetti dei meccanismi che consentono gli avanzamenti in carriera dei lavoratori dipendenti, evidenziandone i risultati paradossali. La teoria, in buona sostanza, può essere riassunta così: «In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza» Il principio di Peter, quindi, va inteso nel senso che, in una organizzazione gerarchica, coloro che dimostrano doti e capacità nel proprio lavoro vengono promossi a funzioni superiori. Questa dinamica, di volta in volta, li porta a raggiungere nuove posizioni, in un processo che si ferma soltanto quando si arriva ad una posizione poco congeniale, per la quale non si posseggono le necessarie capacità. Questa posizione inadeguata viene definita dagli autori «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera dell’interessato si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione. Il principio di Peter può arrivare anche ad una ulteriore formulazione: «Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.» Questa declinazione del principio fu fatta dallo scienziato William R. Corcoran, che la formulò a seguito delle sue ricerche sullo sviluppo di sistemi precauzionali per gli impianti nucleari. Corcoran si accorse, infatti, della tendenza a utilizzare congegni efficaci per un determinato lavoro per altre funzioni come, ad esempio, usare un

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il pulpito aspirapolvere per aspirare fumi e sostanze tossiche in vece di appositi sistemi di aspirazione, oppure affidare a impiegati amministrativi la redazione dei piani di emergenza invece di incaricare di tale compito personale specializzato con competenze sulla materia. Il dottor Lawrence Peter applicò il principio alle strutture umane per valutare gli effetti complessivi sul funzionamento degli organismi, tenuto conto che, in una organizzazione gerarchica, le promozioni dei dipendenti sono conseguenza diretta delle capacità dimostrate nello svolgimento dei compiti loro assegnati. Insomma, finché il funzionario si dimostra in grado di assolvere ai compiti assegnati, viene promosso al livello immediatamente superiore, nel quale dovrà assolvere compiti differenti. Alla fine del processo, coloro che hanno raggiunto il proprio «livello di incompetenza», ovvero la condizione in cui non sono più in grado di svolgere i compiti assegnati e pertanto non hanno più alcuna possibilità di avanzamento, mettono fine alla propria carriera nell’organizzazione. In realtà, l’incompetenza non dipende dal fatto che la posizione gerarchica elevata preveda compiti più difficili di quelli che il dirigente è in grado di svolgere bensì, più semplicemente, i compiti sono di natura diversa da quelli svolti in precedenza e richiedono quindi esperienze lavorative che il dirigente evidentemente non possiede. Ad esempio, un operaio specializzato nella tornitura che svolge il suo lavoro in maniera eccellente potrebbe essere promosso caporeparto, posizione in cui, però, non è più essenziale l’abilità a manovrare il tornio ma la capacità di trattare con il personale sottoposto. Allo stesso modo, può capitare (ed è capitato) che un bravo Provveditore promosso ad incarichi dirigenziali al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non si riveli all’altezza dell’incarico. Oppure che un ottimo direttore di istituto penitenziario si riveli un pessimo direttore di ufficio al dap, perché pensa di gestire il proprio ufficio come fosse il carcere dal quale proviene. In sostanza, l’idea che c’è dietro il

Il principio di Peter e il livello di incompetenza dei dirigenti del Dap principio è che le promozioni sono sì date ai «migliori», ma che la competenza richiesta a ogni livello sia essenzialmente indipendente (o almeno molto diversa) da quella richiesta al livello precedente. Del resto, il Principio di Peter pare trovare piena conferma con la nomina del Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria allorquando, nella maggior parte dei casi, arriva sempre una persona di grande spessore e con curriculum straordinario ma che, poi, dimostra inequivocabilmente di aver raggiunto “il proprio livello di incompetenza”... Il funzionamento del principio fu addirittura oggetto di studi matematici che cercarono di dimostrare la sua validità teorica con le simulazioni. Un team di ricercatori dell’Università di Catania ha lavorato sull’assegnazione casuale e non meritocratica delle promozioni dimostrando con delle simulazioni matematiche che un’organizzazione può evitare gli effetti negativi del Principio di Peter adottando criteri casuali per gli avanzamenti di carriera. Gli autori della ricerca sono Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda e Cesare Garofalo e, dopo aver pubblicato i risultati sulla rivista Physica, si sono aggiudicati il prestigioso Ig Nobel (1) per il Management nel 2010. Secondo i tre ricercatori, quindi, soltanto se il conferimento degli incarichi di vertice viene fatto in maniera casuale e non meritocratica si può evitare “l’effetto incompetenza”. Per quello che mi riguarda, sono costretto a dissentire da Pluchino e co., perchè altrettanti studi matematicostatistici effettuati da me medesimo sull’organizzazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa i criteri di nomina dei dirigenti apicali e le procedure di avanzamento in carriera, hanno dimostrato che

l’esclusione di ogni criterio meritocratico nelle promozioni e nelle nomine verticistiche non risolve affatto il problema della cattiva amministrazione e della mala gestione burocratica. Indubbiamente, essendo i miei dati basati su ben 35 (trentacinque) anni di studio, ritengo di gran lunga più attendibile la mia ricerca che non quella – seppur insignita di Ig Nobel – del Prof. Pluchino. Anzi, credo piuttosto che un bel Ignobel andrebbe assegnato proprio al dap e ai suoi criteri di attribuzione degli incarichi dirigenziali, che spesso sfuggono all’umana comprensione. Ma l’esclusione, nell’amministrazione penitenziaria, di competenza e merito dai criteri per gli avanzamenti in carriera e per le promozioni, non ha salvato affatto l’organizzazione dipartimentale dalle disfunzionalità previste dal Principio di Peter perché, a dispetto di ogni teoria o sperimentazione scientifica, sono presenti al posto giusto e al momento giusto tutti coloro che sono giunti al massimo livello di incompetenza. Non dimenticherò mai una esclamazione del Consigliere Giuseppe Falcone quando si imbatteva nell’incapacità di qualcuno: “...due braccia strappate alla terra!” H (1) Il premio Ig Nobel viene assegnato annualmente a dieci ricercatori autori di ricerche “strane, divertenti, e perfino assurde”, quel tipo di lavori improbabili che “prima fanno ridere e poi danno da pensare”. Lo scopo dichiarato del riconoscimento è “premiare l’insolito, l’immaginifico e stimolare l’interesse del pubblico alla scienza, alla medicina, e alla tecnologia”.

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto: il Prof. Babudieri (a sinistra) e il Prof. Lucanìa

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il commento

La sanità in carcere nel Congresso Simspe S pesso ho trattato, su queste colonne, la particolarità della nostra professione di Operatori della Sicurezza in un contesto assai complicato quale è quello penitenziario. Le ricerche presentate i primi giorni di giugno durante il XVI Congresso Nazionale Simspe-Onlus/L’Agorà Penitenziaria 2015 che si è tenuto a Cagliari dal titolo “Se il Paziente è anche Detenuto” hanno confermato autorevolmente e scientificamente specificità, rischi, pericoli e realtà delle nostre carceri.

l’ambiente, è un ottimo risultato, specie se lo si confronta ad esempio con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti con virus negativo nel sangue è inferiore al 45%, livelli che in Italia si registravano all’inizio degli anni Duemila. «Il titolo “Se il Paziente è anche Detenuto” è già eloquente – ha spiegato il Prof. Babudieri, Coordinatore Scientifico del Congresso e Presidente della Simspe Si tratta di un richiamo per tutta la nostra categoria di medici, ma

L’importante Assise, che ha contato la presenza di oltre 250 specialisti, italiani ed europei, è stato organizzata e presieduta da Sergio Babudieri, Professore di Malattie Infettive all’Università di Sassari nonché Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). I numeri che sono emersi sono inquietanti: 2 detenuti su 3 sono malati, per il 48% sono affetti da malattie infettive, 1 su 3 con epatite, e per il 32% da disturbi psichiatrici. Più dell’80% della popolazione detenuta Hiv positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia. Oltre il 73% dei detenuti trattati ha infatti dimostrato una massima efficacia antivirale: considerato

anche per infermieri, operatori sanitari, agenti di Polizia Penitenziaria che operano all’interno dei 199 istituti penitenziari italiani, che deve ricordare che stiamo parlando di pazienti. Sono detenuti, ma in primo luogo sono dei pazienti. La peculiarità della medicina penitenziaria è che anche le persone che sono sane ricadono sotta la giurisdizione del magistrato di sorveglianza che ha la responsabilità della loro salute; peraltro, per sapere che una persona non è malata è necessario comunque un atto medico. Quindi stiamo parlando di 60mila persone giornalmente in carcere e di circa 100-110mila che sono transitate nel

sistema penitenziario italiano nel corso di ogni anno: una popolazione simile ad una media città italiana che ha una serie di forti esigenze in tema di salute». «La sanità penitenziaria appartiene alla medicina sociale – ha aggiunto il Prof. Luciano Lucanìa, attuale vicePresidente SIMSPe - il carcere non è un luogo di cura o di ricovero, ma una residenza, ospitando coattivamente delle persone che altrimenti sarebbero altrove. Ciò che avviene nelle carceri ha dunque una valenza socio-sanitaria, in quanto il carcere resta una parentesi transitoria nella vita di un individuo: la questione sociale è dunque una componente del problema». Dai dati del Centro Europeo per il Monitoraggio sulle Droghe e le Dipendenze (EMCDDA), esaminati nel corso dei lavori, quando un utente arriva in carcere con un’incriminazione o una sentenza relativa all’uso ed allo spaccio di droghe, è soprattutto la cannabis la sostanza incriminata, per il 73,7% delle persone. Di questa percentuale, l’84,9% arriva in carcere per uso, il 12,6% per spaccio. A seguire, le altre sostanze stupefacenti sono la cocaina (8,4%), anfetamine (5,7%), altre sostanze (5,3%), eroina (4,7%), ecstasy (1,2%). Ma la dipendenza colpisce e affligge anche all’interno delle mura carcerarie, ed è questo un dato allarmante che deve fare seriamente riflettere: in Italia circa il 60% dei detenuti fa uso di droghe, il 33% cannabis, il 40% cocaina e circa il 5% anfetamine. Lo scambio di Buone Pratiche in ambito Sanitario Penitenziario è stato un altro dei temi dibattuti, nel quale sono emersi dati che riportano una realtà europea penitenziaria allarmante: la popolazione europea


il commento che è transitata durante un anno in carcere si aggira intorno a 6 milioni. Molto spesso per reati legati alle droghe le cause principali della detenzione in carcere, ma la problematica non si ferma all’esterno delle mura penitenziarie e colpisce anche il loro interno. Oggi c’è ancora una elevata percentuale di persone che muore di overdose nelle prime settimane successive all’uscita dal carcere, oltre a persone che nel primo anno rientrano in carcere perché compiono nuovamente dei reati. «Lasciare a se stessi questi pazienti – ha sottolineato il Prof. Roberto Monarca, Presidente SIMSPe-onlusespone loro stessi a elevati rischi per la loro salute e la società stessa per la recidività dei reati. Studi americani confermano che nei primi 5 anni dalla liberazione, circa

avviene mediante rapporti sessuali con persone dello stesso sesso. Il 78,2% delle donne detenute affermano che, complessivamente, non ritengono di riuscire a soddisfare i propri bisogni sessuali in carcere (PerugiaCapanne100% vs Roma-Rebibbia 66,7%). Parlando di malattie infettive in carcere, i dati rilevati sulle patologie infettive a livello internazionale indicano che l’HIV, l’HCV e le malattie a trasmissione sessuale sono più frequenti nei detenuti rispetto alla popolazione generale. In Italia, la prevalenza del virus dell’HIV all’interno delle mura carcerarie è circa dieci volte maggiore rispetto al mondo dei cittadini liberi (2,08% vs 0,20%), così come all’interno delle mura carcerarie è stata rilevata una prevalenza di malattie infettive di circa sei volte maggiore rispetto alla popolazione

garantire, da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, costanti e continue pratiche di tutela igienico-sanitaria per la salute degli operatori di Polizia Penitenziaria impiegati in servizi di controllo e sicurezza nelle sezioni detentivi, nelle traduzioni, nei piantonamenti ed in tutte le attività in cui vi sia il possibile e probabile contatto nonché percorsi di formazione e aggiornamento professionale sul primo soccorso. Perché, come ha ricordato con estrema chiarezza il Prof. Babudieri, «Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all’estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell’acquisizione di

il 75% rientra in carcere; il 43% solo nel primo anno. In Italia non abbiamo percentuali così elevate, ma nel primo anno siamo comunque intorno al 30%. Questi sono dati che vengono dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dove esiste una capacità di monitoraggio di queste situazioni molto precisa». Fanno riflettere anche le conclusioni della ricerca sui comportamenti sessuali: il sesso rappresenta infatti l’argomento maggiormente ignorato all’interno del carcere, al punto che ad oggi esistono scarsissimi studi in merito. Dai dati rilevati si evince che il 6% del campione dichiara che in carcere hanno una attività sessuale: il 100% di loro affermano che ciò

libera (6,64% vs 1,10%). Nello specifico in uno studio condotto dal gruppo della Prof.ssa Rosaria Alvaro e del Prof. Giovanni Antonetti, è emerso che il 9,1% delle detenute sono affette da epatite C, il 7,3% da epatite B, il 3,6% da HIV, il 3,6% da Herpes genitale, il 3,6% da HPV e l’1,8% da Candida. A questo si aggiunga, come già detto, che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti, tra malattie infettive (48% dei presenti), disturbi psichiatrici (32%), malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Questi dati devono fare comprendere come sia assolutamente necessario

una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori». E questo passa attraverso adeguate tutele e garanzie verso coloro che stanno a contatto quotidiano con i detenuti, a cominciare proprio dagli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. H

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Nelle foto: a sinistra ancora il Prof. Babudieri e il Prof. Monarca (a destra) sopra l’immagine del Congresso Simspe L’Agorà Penitenziaria 2015

Polizia Penitenziaria n.229 giugno 2015


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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

l’osservatorio

Convegno del Sappe a Roma sull’unificazione delle Forze di Polizia 11 giugno 2015, presso la sala della Protomoteca, in Campidoglio, si è svolto il convegno dal tema Unificazione o razionalizzazione delle Forze di Polizia: Prospettive per il Corpo di Polizia Penitenziaria. Il convegno è stato organizzato dal SAPPe e dall’ANFU, al fine di dare impulso ad un tema attualmente dibattuto, quello, cioè, della unificazione e/o razionalizzazione delle Forze di polizia, con particolare riferimento al Corpo della Polizia Penitenziaria che, rispetto agli altri Corpi di polizia ad ordinamento civile, ha dei disallineamenti, riferibili ai

L’

Nelle foto: il tavolo della Presidenza del Convegno e la platea

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ruoli sovrintendenti, ispettori e commissari. E’ quindi auspicabile – come ha sottolineato anche il capo del Dipartimento Santi Consolo nel suo intervento – che prima di procedere a qualsiasi riforma si provveda a riallineare tali ruoli a quelli della Polizia di Stato e del Corpo Forestale dello Stato. Quest’ultimo merita un discorso a parte, considerato che si sta procedendo per legge al suo assorbimento in un’altra forza di polizia che dovrebbe essere la Polizia di Stato, anche se qualcuno sostiene, con argomentazioni peraltro


l’osservatorio

condivisibili, che l’organizzazione territoriale del Corpo Forestale dello Stato è più simile a quella dei Carabinieri. Esiste, però, un problema insormontabile rispetto ad un’eventuale transito nei Carabinieri che è dettato dall’ordinamento militare di questi ultimi. Non è certo possibile militarizzare la Forestale per farla transitare nei Carabinieri, è sicuramente più facile gestire la loro attuale organizzazione nell’ambito del Dipartimento di Pubblica Sicurezza. La discussione si è sviluppata sulle linee guida tracciate dalla relazione

del segretario generale Donato Capece. Non posso non fare riferimento ai lavori della Commissione presieduta dal Dott. Nicola Gratteri – ha detto Capece - tesa a riformare alcuni aspetti chiave della macchina giudiziaria. Per quanto riguarda la Polizia Penitenziaria l’idea sarebbe quella di trasformarla in un modello di “polizia della giustizia”: agli agenti dovrebbero essere attribuiti compiti di primo piano a differenza della situazione attuale che li vede confinati nella sola funzione di custodia dei detenuti.

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Nelle foto: alcune fasi del Convegno

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Nella foto: la consegna delle targhe ai Segretari della Consulta Sicurezza

Nella foto a destra : il Commissario Durante con il dott. Ardita

Polizia Penitenziaria n.229 giugno 2015

l’osservatorio L’obiettivo sarebbe quello di creare, al di là del nome, una forza di polizia presente anche sul territorio, arricchendola di nuove competenze: eseguire gli ordini di arresto per gli imputati con condanne definitive, ricercare latitanti, controllare gli arrestati domiciliari e i soggetti sottoposti alle misure alternative,

Corpo Forestale dello Stato. Il Capo del Dipartimento, Santi Consolo, ha anche sottolineato come la Polizia Penitenziaria sia una polizia specialistica che non può e non deve assumere compiti che non sono propri, in quanto contrasterebbero con norme europee. Molto apprezzato l’intervento del

proteggere i collaboratori di giustizia, i tribunali e i magistrati e, più in generale, gli obiettivi ritenuti sensibili. I nuclei operativi del servizio di protezione dei “pentiti” potrebbero subire modifiche e gli agenti incaricati di questa missione transiterebbero sotto un’unica polizia, quella della giustizia. Luca Pasqualoni, segretario dell’ANFU - Associazione Nazionale Funzionari Polizia Penitenziaria - in linea con quanto espresso da tutti i relatori, ha evidenziato come l’idea originaria di una unificazione delle Forze di Polizia, seppur predicabile in astratto, stia lasciando il posto a più ragionevoli e concrete forme di revisione, razionalizzazione, modernizzazione ed omogeneizzazione delle funzioni di polizia, soprattutto di carattere strumentale, attraverso l’eliminazione di sovrapposizioni, di duplicazioni e di superfetazioni di competenze a cui si accompagnerà il riordino delle funzioni di polizia in materia di tutela dell’ambiente, del territorio e del mare, con la possibilità anche di un assorbimento del Corpo Forestale dello Stato nella Polizia di Stato. Il segretario dell’ANFU ha anche evidenziato la necessità di procedere al più presto al riallineamento dei funzionari della Polizia Penitenziaria con quelli della Polizia di Stato e del

dottor Sebastiano Ardita, Procuratore aggiunto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Messina, componente della commissione presieduta da Nicola Gratteri, per la riforma della giustizia e del sistema penitenziario, che è intervenuto al convegno, in qualità di relatore, portando il suo autorevole contributo di esperto, sia del sistema processuale penale, sia dell’Amministrazione penitenziaria, dove ha lavorato per dieci anni, come Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento. Il dottor Ardita ha dapprima sottolineato come sia necessario rivedere l’impianto generale del processo penale italiano, in parte ispirato al sistema americano, del quale, però, non ne condividiamo la cultura e l’impostazione ideologica. Il Procuratore Ardita ha sottolineato l’importanza dell’istituzione del ruolo direttivo ed ha auspicato un graduale passaggio dall’attuale dirigenza penitenziaria a quella dei dirigenti della Polizia Penitenziaria. L’auspicio di Sebastiano Ardita è anche il nostro, considerato che sono ormai maturi i tempi perché la Polizia Penitenziaria possa assurgere ad un ruolo guida all’interno dell’amministrazione penitenziaria. Infatti, non esiste più alcun gap culturale tra i dirigenti

dell’amministrazione penitenziaria ed i vertici della Polizia Penitenziaria. Ogni dissenso rispetto ad un’ipotesi di questo tipo non potrebbe che avere esclusivamente connotazioni di carattere ideologico. Certo! Chi ha l’ardire di nominare Adriano Sofri in un comitato di esperti incaricato di predisporre le linee di azione per lo svolgimento della consultazione pubblica sulla esecuzione della pena denominata “Stati generali sulla esecuzione penale”, senza neanche porsi il problema se sia opportuno o meno inserire anche qualche dirigente dell’amministrazione penitenziaria e qualche appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria, non sarebbe mai d’accordo su un’ipotesi che preveda gli attuali vertici della Polizia Penitenziaria a capo delle carceri e degli altri servizi dell’amministrazione penitenziaria, ma come dicevamo poc’anzi si tratterebbe solo di posizioni ideologiche e prive di ogni argomentazione logica. Al convegno è intervenuto il Vice Presidente del Senato Maurizio Gasparri che ha sottolineato l’importanza della razionalizzazione e della riorganizzazione dei compiti e delle funzioni delle Forze di polizia, piuttosto che dell’unificazione. Bisogna senz’altro evitare duplicazioni di compiti e di funzioni, senza ricorrere ad assorbimenti e transiti che creerebbero solo problemi. Al convegno sono intervenuti anche gli altri tre componenti della Consulta sicurezza: Gianni Tonelli, segretario generale del SAP, Marco Moroni, segretario generale del SAPAF e Antonio Brizzi, segretario generale del CONAPO.H


salute e sicurezza sul lavoro

è

incredibile ancora oggi dover costatare che negli istituti di pena in Italia, si verificano incendi più o meno propagati, che comportano seri danni al personale con ricoveri in ospedale per intossicazione dei fumi, o addirittura ricoveri in camera iperbarica. Eppure col D.lgs 626/94, poi sostituito dal D.lgs 81/08 integrato dal 106/09, il datore di lavoro è obbligato a porre in essere specifiche misure preventive (DVR), al fine di limitare questi eventi. In particolare gli artt. 45 e 46 del decreto legislativo, prevedono che un congruo numero di personale sia “formato” come addetto ASA (Addetti al Servizio Antincendio) e un numero altrettanto congruo, sia “formato” per quanto riguarda il primo soccorso. Nei numerosi sopralluoghi che abbiamo effettuato negli istituti, ci risulta invece che il personale è formato poco e male e che le direzioni non hanno messo a disposizione, o lo hanno fatto solo in parte, quei DPI che permettono di salvaguardare le vie respiratorie in caso di incendio. Parliamo in questo caso di maschere con filtro polivalente antifumo ed eventuali autorespiratori a circuito aperto (aria compressa respirabile). E queste omissioni persistono nonostante numerose specifiche circolari Ministeriali, del DAP e dei Prap, ingiungano ai direttori di acquistare detto materiale, che reputo salva vita e prioritario a prescindere dalle priorità di spesa. Peraltro, ci giunge notizia che parecchi autorespiratori sono depositati in magazzino, per mancanza di manutenzione della ditta specializzata a causa di mancanza di fondi. A mio avviso, a parte le disposizioni normative, andrebbe messo a disposizione del personale anche un DPC (Dispositivo di Protezione Collettivo), che a differenza della maschera antifumo è molto più efficace, poiché l’aria respirata dalla bombola in sovrappressione, non permette all’agente chimico di penetrare nella maschera. Grave anche l’annoso problema che riguarda gli estintori ubicati nell’istituto laddove, a causa di cavilli burocratici, ci si limita ad una manutenzione semestrale, o addirittura annuale, creando non pochi problemi

alla loro efficienza rischiando di non avere sempre a disposizione estintori efficaci. Pensate che se, dopo il controllo semestrale, alcuni estintori si dovessero scaricare per essere stati adoperati in un principio incendio, o per difetto della valvola, secondo l’amministrazione si deve di nuovo fare una gara d’appalto!!!

La misura è ormai colma

Per quanto riguarda il primo soccorso, è vero che in tutti gli istituti operano le Aziende Sanitarie Locali, ma è altrettanto vero che queste non coprono di certo la turnazione di 24 ore al giorno. E le squadre di soccorso non hanno a disposizione quei DPI per far fronte a un eventuale intervento su di una vittima a terra, sia un detenuto o un agente o un eventuale avventore. Come vedete purtroppo, la burocrazia, lenta e inefficiente, dell’amministrazione non fa che aumentare il rischio di eventi come incendi, infortuni, ecc. ecc. Forse pochi direttori ricordano che l’art. 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro a salvaguardare l’integrità, sia fisica che morale, dei dipendenti e che l’art. 15 del D.lgs 81/08 elenca dettagliatamente tutta un’altra serie di obblighi del datore di lavoro. Purtroppo, nemmeno per gli infortuni dei lavoratori sui luoghi di lavoro ci si discosta molto da quanto detto prima. Le statistiche dell’INAIL e i registri interni dell’amministrazione confermano che i dati in tal senso sono molto preoccupanti. Dispiace dire che questo accade, soprattutto , oltre per la mancanza di informazione e formazione (art. 36 e 37 del D.lgs 81/08) anche per la mancanza di idonei DPI, sebbene il DPR 2001 e numerose direttive della Comunità Europea diano precise

indicazioni di protezione individuale. L’amministrazione, invece, sulla pelle dei lavoratori cerca di acquistare al ribasso detto materiale nelle gare d’appalto tramite CONSIP nonostante in regime di valutazione dell’acquisto sia prevista almeno una via di mezzo, in altre parole non alto ma neppure basso. Ad esempio, mi risulta che l’amministrazione ha comprato scarpe “antinfortunistiche” che non corrispondono ai requisiti previsti in alcuni settori a rischio specifico. Mi domando, in questi casi, l’organo di vigilanza VISAG, in merito alle controversie in materia di sicurezza e igiene sul lavoro, che fa? Le verifiche e le osservazioni fatte dalle OO.SS. dal 1999 fino a oggi cosa hanno prodotto? Noi vorremmo che certi episodi, come il tragico evento del Pertini, le malattie professionali, gli infortuni permanenti, non accadessero più o, quantomeno, si riducesse il più possibile. Tutto questo sarebbe possibile solo se l’amministrazione stanziasse più fondi anziché tagliarli per la sicurezza sul lavoro. I lavoratori sono un bene prezioso che va salvaguardato soprattutto dalla negligenza, dall’imperizia e dalla scarsa sensibilità della materia. Ringraziando i lettori, rimando al prossimo numero ulteriori notizie in merito. H

11 Valter Pierozzi Dirigente Sappe Esperto di salute e sicurezza sul lavoro rivista@sappe.it

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12 Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma la Sapienza rivista@sappe.it

criminologia

Il bullismo minorile li atti di bullismo minorile, specialmente quelli in ambito scolastico, costituiscono un serio allarme sociale che coinvolge tantissime famiglie preoccupate per la serenità e l’equilibrio psicologico dei loro figli, che ne sono le vittime. Certamente siffatti deprecabili comportamenti si sono sempre verificati per il passato, ma ciò che li rende particolarmente odiosi, attualmente, destando una giustificata e grave inquietudine nella collettività, è l'odiosa prassi attuata sovente dai minori bulli di riprendere, con i loro cellulari, le turpi scene in cui infieriscono sulla vittima designata, e di diffonderle per via informatica, circostanza questa che moltiplica i considerevoli danni morali subiti dalla medesima, spesso irrisa ingiustamente da una platea globale di persone che “navigano” su internet (cosiddetti “internauti”), fenomeno che, ovviamente, non esisteva fino ad una ventina circa di anni fa, non essendosi ancora diffuso capillarmente l’uso della rete informatica . Se il fenomeno coinvolge, in larga parte, il costume e l’educazione dei comportamenti, in quanto allo stato attuale non esiste formalmente nel codice penale una tipologia di reato denominata specificatamente bullismo, esso sconfina, però, prepotentemente, nel campo criminologico quale sostanziale contenuto del reato di cui all'art. 612 bis cod. pen. intitolato “atti persecutori” (il cosiddetto stalking ), oltre ad entrare nella configurazione di altre fattispecie tipiche di delitti quali le lesioni, il furto, la rapina, il sequestro di persona e la violenza sessuale, che possono essere un derivato del bullismo, concorrendo con il reato precitato di atti persecutori. L’art. 612 bis cod. pen. recita : “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o

G

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molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Questa fattispecie penale - che è nota alla maggior parte del pubblico per essere applicata alle continue molestie telefoniche e agli appostamenti sotto casa del soggetto che non s’acquieta alla separazione dalla persona amata, cercandone una impossibile riconquista - si verifica, spesso, con la reiterazione di provocazioni moleste e minacce nei confronti di vittime fragili e indifese, che bulli minori orgogliosi di una loro presunta superiorità - che in realtà è una rozza e turpe voglia di prevaricare violentemente i più deboli - spingono a gravi stati di ansia e di paura, costringendoli a forme di isolamento e depressione che, talora , possono giungere fino al suicidio, come si rileva dalle inquietanti notizie diffuse dai mass media. La personalità dei minori che commettono atti di bullismo si riporta a due tipologie psicologiche, quella dei “coatti” ( e cioè coloro che sono orgogliosi della loro rozzezza e che si identificano con soprannomi “di battaglia”, un particolare vistoso abbigliamento e, talora, tatuaggi diffusi ampiamente sul corpo ) e l’altra dei “ribelli” (i trasgressivi per antonomasia, che esprimono un generalizzato malessere esistenziale che li conduce a rifiutare violentemente le regole sociali del mondo degli adulti). Essi - da una ricerca svolta dal Provveditorato agli Studi di Roma nel 2000 (di cui fece parte anche l'autore di questo articolo, pubblicata dall'editore Franco Angeli nel 2001, col titolo “La legalità imperfetta”, a

cura di Luigi Barone), in cui veniva somministrato un questionario a 2040 studenti fra gli 11 e 19 anni di quaranta scuole di Roma e provincia rappresentanti un campione con estrazione casuale - venivano quantificati in una percentuale assai significativa fra gli studenti, pari al 14, 7 % (di cui i coatti erano il 2,5% , mentre i ribelli costituivano il 12,2 del campione statistico in oggetto). Ciò significa, qualora si volesse riconoscere la validità dei predetti risultati campionari estesi all'intero sistema scolastico nazionale, che in una classe tipo, che è frequentata dai 25 ai 30 alunni, vi sono dai due ai tre elementi, in media, con tendenze di prevaricazione sugli altri e quindi con caratteristiche tipiche proprie del bullo, un dato che è sicuramente assai allarmante!!!! L'allarme poi si incrementa ulteriormente quando si leggono i dati desunti dal CENSIS nella “Prima indagine nazionale sul bullismo” del 2008 secondo cui : “Altissima, e pari al 49,9% del totale, risulta la quota di famiglie che segnala il verificarsi di prepotenze di diverso tipo (verbale, fisico, psicologico ) all'interno delle classi frequentate dai propri figli, con una diffusione che risulta elevata in tutti gli ordini di scuola, e particolarmente nella scuola secondaria inferiore dove raggiunge il 59,0 % delle classi. La frequenza delle segnalazioni è invece la stessa nelle quattro arie geografiche maggiori ( si va da un massimo del 50,8% al Nord ovest, ad un minimo del 48,3% al Nord est ) e nei diversi centri abitati, con una leggera flessione nelle aree urbane di dimensioni medio-grandi ( nelle città fra i 100 e i 250.000 abitanti le famiglie che segnalano sono il 43,7 del totale)... Analizzando i dati con maggiore profondità, si ha che in circa un quarto delle scuole elementari si verificano offese ripetute; nel 19,1% botte, pugni e calci; nel 19,6% isolamento. Alle scuole medie le percentuali aumentano: il 43,3% dei genitori riferisce offese ai danni di uno stesso alunno; il 31,3 di botte, pugni e/o scherzi pesanti; il 27,3 di furti di


criminologia oggetti personali. Alle scuole superiori si verificano isolamento (25,3% dei casi ) e scherzi pesanti (24,3 %). Infine il ciberbullismo è praticamente assente nelle scuole elementari, mentre coinvolge il 7% delle classi della media inferiore e il 6,1% di quelle della media superiore...” Il bullo scolastico è generalmente connotato per la presenza nel suo curriculum studentesco di una grande ignoranza delle materie di studio, non tanto per carenze intrinseche di ritardo cognitivo , quanto per una conclamata mancanza di voglia di studiare, che lo rende spesso ripetente per plurime bocciature, che vanta come esempio di intelligenza superiore rispetto agli altri compagni , dichiarando di “divertirsi”, mentre loro, poverini, stanno a “sgobbare” sui libri . Dal che ne consegue che essendo più grande dei suoi compagni è, conseguentemente, fisicamente più sviluppato, in genere, per forza ed altezza, soprattutto nelle scuole medie inferiori, dove utilizzando la sua maggiore prestanza fisica, spesso impone con la violenza una forma di rispetto autoritativo sugli altri scolari e di spregio verso gli insegnanti. Assolutamente trasgressivo in famiglia, rifiutando il concetto stesso di regola da rispettare, non riconosce altra autorità che un suo astratto potere di libertà che si estrinseca, in genere, nel disturbare (nella fase iniziale più blanda), e poi, successivamente, nel commettere violenza, spesso gratuita (sicuramente non ideologica, in quanto generalmente slegata da idee politiche di qualsiasi tipo), contro i parenti conviventi, turbandone la serenità, nonché nei riguardi degli studenti e dei professori della sua scuola (quando raramente vi si presenta, stanco di bighellonare nel quartiere in cui abita, frequentando dei conoscenti consimili, che usano marinare la scuola e fumare spinelli). Quasi completamente anaffettivo considerando, sovente, il legame sentimentale quale una debolezza da evitare per non perdere la patina di “duro” che si è costruita per affermare il suo potere sugli altri,

possiede un alto senso di autostima che è una forma che spesso nasconde una profonda insicurezza, basata sulla negazione immotivata di qualsiasi minimo senso di responsabilità. Geneticamente il bullo vive sovente in un ambiente familiare in cui i suoi genitori, per un disagio psicologico, sociale o economico, tendono a trascurarlo più che ad educarlo, non essendo essi stessi capaci di farlo per i motivi sopraddetti. In pratica la carenza educativa da parte dei genitori, soprattutto nei primi sei anni di vita del loro figlio, determina un basso livello di autocontrollo del minore che si riverbera successivamente sui loro atteggiamenti di natura deviante, in particolare di quelli di bullismo, durante l'adolescenza. Ciò è in linea con la spiegazione della devianza , fornita data da Gottfredson ed Hirschi (in “A general theory of crime”, Stanford University Press, 1990 ) e che viene denominata appunto “teoria del basso autocontrollo” o anche “teoria del legame sociale”. Invero i predetti autori rilevano come la carente socializzazione dei minori, soprattutto nei primi anni della loro vita, dovuta a delle scarse competenze genitoriali, possa determinare un livello debole di autocontrollo, non introiettandosi negli stessi i valori più riconosciuti del “legame sociale” che unisce gli individui alla loro collettività di riferimento, determinandone conseguentemente la probabilità di mettere in atto comportamenti devianti o criminali. Normalmente frequentatore di palestre, per conservare la sua vigoria fisica, e dei bar di zona ( i cosiddetti “baretti” ), dove “discutere” della squadra di calcio del cuore e di motori, vanta una approfondita (spesso fasulla!) conoscenza della vita spericolata (come ricorda il titolo di una famosa canzone di Vasco Rossi), che è, in realtà, un vuoto siparietto delle sue deprecabili gesta. Usa saltuariamente la droga leggera, ma, assai raramente, è un drogato cronico che perde contatto con la realtà che deve essere utilizzata sempre, in maniera “ lucida”, per

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esibire la sua “bravura” nello scegliere attentamente la vittima designata, connotata, generalmente, per la sua fragilità, salvo a modificare il suo obbiettivo, se dovesse accorgersi che la predetta metta in mostra delle capacità, assolutamente inaspettate , di contrastarlo. In questo senso costituisce la vera figura del vigliacco, approfittatore della debolezza altrui.

Il bullo tradizionale si è “modernizzato” nel senso di utilizzare il computer come mezzo di trasmissione in rete dei filmati, ripresi con il telefonino, delle sue turpi bravate, come già ricordato in precedenza, per dimostrare , se ce fosse bisogno, la sua natura estremamente esibizionistica. Infatti la vera gratificazione per lui consiste nell’ottenere una visibilità informatica globale, per avere, attraverso i social network, l’approvazione dei suoi frequentatori e gonfiare ulteriormente il proprio senso di autostima nel poter pensare “quanto bravo sono stato io”, “sono sicuramente il migliore” e così via . Invero la sua condotta trasgressiva serve per affermare nel web di avere, come biglietto da visita , un’ottima “reputazione” , rendendo di pubblico dominio la sua azione, quasi fosse connotata da un “manto regale” . Nel suo distorto pensiero, invero, il comportamento da bullo gli offre quasi una patente snobistica di “nobiltà” nei confronti dei tanti estimatori (forse anche ipocritamente adulatori) che trova nella rete informatica, e che costituiscono dei veri conniventi della sua turpe azione, diventando, pertanto, essi stessi dei bulli “indiretti” che servono come

Nella foto: l’azione violenta viene ripresa col telefonino

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criminologia amplificatori delle sue gesta scellerate. Prende in giro (in una prima fase) i suoi conoscenti (studenti o meno ) per indagare meglio sui loro “limiti” in cui sono praticamente indifesi, per poi iniziare una vera e propria graduale attività di bullismo dagli “sfottò” scanzonati, alle parole ingiuriose che colpiscono spesso una caratteristica fragile o comunque discriminante della vittima (ad esempio, “negro di merda”, “troia che la dà a tutti”, ecc. ), passando progressivamente dalle minacce semplici (come, “ti rompo il culo”, “ti ammazzo” ecc.), alle tentate estorsioni minacciose (ad esempio, “ti ammazzo se non mi dai i soldi che tieni in tasca”), che spesso diventano consumate con la consegna del denaro da parte della vittima, e alle estorsioni violente che degenerano sovente in vere e proprie rapine (come accade quando si colpisca con pugni il malcapitato e ci si impossessi del suo cellulare), con le conseguenti lesioni personali, fino a giungere al sequestro di persona (ad esempio, costringendo, con violenza, la vittima a restare chiuso in un bagno durante la ricreazione scolastica, o in una stanza di un appartamento, durante una festa), e alla violenza sessuale, alle volte ripetuta in più occasioni, di una persona bloccata dal terrore e a cui viene intimato di non fiatare con nessuno circa l’accaduto. Vi è in genere, pertanto, una progressiva escalation nella gravità dei comportamenti di bullismo che vengono per così dire fortificati dall’assenza di una qualsivoglia reazione da parte di una vittima intimidita e sempre più chiusa in se stessa, senza alcuna possibilità di difesa, che non sia quella di abbandonarsi inerme nelle mani del bullo, il suo carnefice. Come si vede non esiste una particolare tipicità degli atti di bullismo, che sono pertanto sussunti, come si è visto, in varie situazioni criminologiche di rilevanza penale, tranne quella più onnicomprensiva (e penalmente più blanda) della violazione già ricordata ex art. 612

bis cod. pen. e cioè gli “atti persecutori”. Ed è proprio da tale definizione che si può desumere il collante, la finalità unica a cui tutti essi rispondono nella mente depravata del bullo minore, cioè la volontà persecutoria nei confronti della vittima, il volere prevaricarla, imponendo il proprio turpe “potere”, per tenerla imprigionata nell’ansia e nel terrore dell’attesa della ripetitività della crudele azione, molte volte senza scampo, perché il bullo, come si è visto, impone con la violenza alla vittima la sua legge del silenzio verso tutti (in particolare delle continue sofferenze che le impone crudelmente). Le caratteristiche sopra descritte sono proprie di un bullo minore che agisce da solo ma, nella realtà, il bullismo, soprattutto quello scolastico, può coinvolgere anche un gruppo di ragazzi, appartenenti alla stessa classe, che trova una propria identità - beninteso negativa - nella persecuzione di un solo compagno considerato “diverso“, e quindi da affliggere quotidianamente con derisioni, vessazioni e violenze psichiche e fisiche . Invero, quando avviene l’aggregazione fra più minori con i particolari requisiti di personalità propri di un bullo, sotto un profilo criminologico più corretto, si dovrebbe parlare di baby gang di criminalità persecutoria, in cui vi è la figura di un leader che ispira le varie azioni delittuose con finalità di bullismo. Alle volte, siffatte baby gang criminali, commettono delitti anche gravi (quali rapine, estorsioni, violenze sessuali), non tanto allo scopo di godere quello che normalmente non si possiede (il denaro o un sincero amore con una coetanea), quanto per un vuoto senso di onnipotenza, derivato da gravi carenze affettive che i loro componenti si sono trascinati durante la loro infanzia (quali, ad esempio, la mancanza di un vero affetto familiare, per la rottura traumatica dell’unità della coppia genitoriale, ovvero un abuso sessuale subito in ambito parentale), in un clima sociale di contraddizioni manifeste, che non

propongono ai giovani delle condivise e stabili offerte di validi valori di riferimento (quali in passato, per le generazioni dell'immediato dopoguerra, si racchiudevano nella triade un pò enfatica di Dio, Patria e Famiglia) che non siano quelli della mera apparenzavisibilità presso il maggior numero di persone possibile: una esteriorità cangiante di continuo a secondo delle situazioni temporali e locali che è stata definita giustamente “liquida” dal sociologo Z. Bauman nel suo libro “Liquid Modernity”, trad. it., Laterza, 2002 Una forma particolare di bullismo estremamente inquietante è quello cibernetico, che si esplica attraverso la rete telematica, e costituisce un fenomeno propagatosi a macchia d’olio negli ultimi anni, in corrispondenza con l’estensione del possesso e dell’uso di mezzi informatici (p.c., tablet ecc. ) da parte dei minori della cosiddetta generazione digitale, che a me piace definire “ciatto-web-formata” dal computer che costituisce il loro “ciattoformatore”, per il loro modo di colloquiare liberamente, tramite la rete web e i suoi social network, ricevendo e inviando informazioni di natura ed estensione globale . Attualmente i minori incominciano ad usare il mezzo elettronico - che vedono usare in casa dai loro genitori fin dalla nascita - a cominciare dal secondo anno di vita, per misurarsi con i videogiochi attraverso il tablet . Poi, con l’inizio dell’età scolare, di pari passo con l'apprendimento, si avventurano con maggiore sicurezza nei meandri, talora infidi, del mondo virtuale, diventando sempre più esperti nell’uso del computer, sovente al di fuori di ogni possibile controllo dei loro parenti . Il video gioco diventa meno attraente e già verso i dieci anni iniziano a utilizzare i social network per comunicare con gli altri, “ciattando” sempre più con interlocutori anonimi, talora pedofili sotto mentite spoglia, con gravissimi ed evidenti rischi, oppure attivando azioni di cyberbullismo sovente contro i compagni di scuola. Il cyberbullo si distingue dal bullo tradizionale per due fondamentali motivi.


criminologia Il primo è costituito dal fatto che il cyberbullo attua esclusivamente le sue deprecabili azioni non in un contesto di realtà quotidiana, come faceva quello tradizionale, ma virtualmente, ciattando al computer nella sua abitazione. Per lui l’invenzione del computer è stata una vera e propria manna scesa dal cielo ! Perché utilizzare i tradizionali metodi, evidenziati in precedenza, che ponevano il bullo ad un contatto visuale e materiale diretto con la vittima designata, quando il narcisismo spinto al massimo del proprio ego può meglio realizzarsi con la “platea globale” della rete da cui ci si aspetta condivisione ed entusiastiche approvazioni, senza metterci la faccia, standosene comodamente seduto a casa? Tanto è vero ciò che il bullo, approfittando della globalità della rete, può assumere come bersaglio anche una vittima da lui non conosciuta nella realtà; l'importanza principale per lui, invero, è esibire semplicemente le sue doti bullistiche, a prescindere da chi colpire, pensando: “nulla di personale, è solo un gioco d'abilità”, perverso, aggiungo io . La seconda differenza è relativa al fatto che il cyberbullo non deve necessariamente appartenere alla tipologia psicologica del “coatto” o del “ribelle” già citate. Invero egli può essere anche un soggetto cosiddetto normale, che nella realtà non compirebbe mai azioni persecutorie verso altri individui, ma approfittando dell'anonimato garantito, sia pure in certi limiti, dall'uso del computer (cosiddetto effetto di tecnomediazione), scatena il suo istinto represso del proibito, realizzando una trasgressione dannosa rispetto ad altre persone assolutamente sconosciute. Il cyberbullo colpisce incessantemente la povera vittima , mettendola “alla berlina” dei globali frequentatori della rete, senza possibilità di alcuna difesa da parte di questa, soprattutto qualora sia minore, che può avvenire solo con la fine di tale odioso fenomeno grazie ad una denuncia alla Polizia Postale fatta dai suoi genitori,

quando siano messi al corrente dal proprio figlio, ormai stremato dalla continua persecuzione informatica. Infierire sulla vittima prescelta sempre di più è lo scopo precipuo del cyberbullo: con determinazione continua a battere sui lati deboli del soggetto preso di mira , talora a blandirlo fingendosi amico di cui potersi fidare e poi ...far scoprire in un colpo la sua vera fisionomia di carnefice, approfittatore delle debolezze altrui. Si pensi al caso del minore che, avendo una relazione amorosa con una coetanea, illudendola di amarla, riesce a convincerla di farsi fotografe , attraverso skype, in pose discinte . Ottenuto il suo risultato, il “traditore” divulga in rete tali fotogrammi, attuando il cosiddetto “sexting” e cagionando un gravissimo danno psicologico alla disgraziata vittima, tacciata, via etere, di essere una puttana , una poco di buono ecc.ecc. La poverina, vorrebbe nascondersi dalla vergogna, ma non può più : il suo onore ha ormai subito un marchio d’infamia difficilmente cancellabile, a differenza dei suoi fotogrammi impudici, che spariranno dalla rete, per l’intervento dell’autorità (la già citata Polizia Postale ), solo se denuncerà tali atti persecutori . Già perché il minore cyberbullo compie sempre, attraverso l’uso del web e dei relativi social network, dei veri e propri atti persecutori, come sopra evidenziato, inquadrabili nel già ricordato reato previsto dall’art. 612 bis cod. pen. Per questo alcuni autori, soprattutto in relazione ad individui adulti, preferiscono usare la definizione di cyberstalking, intendendo una serie ripetuta di comportamenti persecutori realizzati attraverso l'uso del computer e la loro diffusione in rete che cagionano stati persistenti di paura nelle vittime. Così la precitata diffusione di immagini “privatissime” , come abbiamo visto, ovvero, in altre ipotesi, l’incalzare ripetuto di ingiurie e minacce le sue vittime attraverso la diffusione della rete informatica, cagiona loro non solo lo stato d’ansia, richiesto dalla precitata norma penale,

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ma addirittura un vero e proprio terrore da cui, talora, esse non vedono più alcuna via di uscita, tanto da arrivare, caso che negli ultimi tempi si verifica, purtroppo, abbastanza di frequente, alla soluzione finale di una “liberazione totale”, suicidandosi. Alcuni anni fa, come pubblico ministero minorile di Roma, ebbi l’avventura d’interrogare alcuni minori, studenti e figli di “buona famiglia”, che erano indiziati di aver commesso il reato di “istigazione o aiuto al suicidio” (previsto nell’art. 580 cod. pen. per il quale :

“Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito,se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punto con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.” ) perché avevano più volte inviato delle email ad un loro coetaneo, compagno di classe, scrivendogli frasi del tipo “sei gay, lo sappiamo, è inutile nasconderlo”, “non vogliamo la tua compagnia, insozzi la nostra classe” e altre simili . Quel povero ragazzo si era così sentito mortificato ed escluso dai suoi compagni, tanto da isolarsi sempre di più in uno stato depressivo che dissimulava all’interno della sua famiglia . Dopo alcune settimane di insulti del tipo indicato, inviati soltanto in maniera informatica, mentre a scuola le ore scorrevano in un tacito silenzio reciproco, guardandosi bene i suoi persecutori dall’esporsi all’insidia di

Nella foto: un bullo in azione

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criminologia un “intervento di controllo” degli insegnanti, il quattordicenne sospettato o semplicemente “canzonato” di essere omosessuale, si tolse la vita gettandosi dal balcone del suo appartamento del quarto piano, senza un urlo o una lettera d’addio ai suoi. Durante il loro formale interrogatorio da parte mia, i persecutori del povero suicida si difesero affermando che non era stata assolutamente loro intenzione quello di spingere il compagno di scuola a quel gesto estremo, avendo voluto soltanto deriderlo per un puro scherzo, forse troppo “invadente” .

Nella foto: atti di bullismo

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Si dichiararono sconvolti dell’esito della vicenda, per loro assolutamente imprevedibile, e dimostrarono un forte senso di colpa per l’accaduto. Ovviamente vennero completamente prosciolti dall’accusa di istigazione al suicidio, non essendo stato possibile dimostrare un qualsiasi loro dolo, cioè la volontà di voler concretamente realizzare tale istigazione come richiesto dalla norma penale contenuta nel citato art. 580 del codice penale. A mio parere il verificarsi nei ragazzi da me interrogati di questo passaggio da “carnefici” a minori estremamente angosciati per un lutto assolutamente non voluto e che stravolgeva le loro finalità perversamente ludiche costituisce, forse, la chiave di volta psicologica per comprendere a fondo il fenomeno del cyberbullismo. Invero il “fare” i bulli mediante l’informatica, digitando in casa, al sicuro da sguardi indiscreti, è una forma di agire propria di minori che senza rendersene ben conto sono in realtà depressi, portandosi dietro vari “fallimenti” (quello familiare

derivante dalla separazione dei genitori, quello scolastico e così via ). Con il cyberbullismo tali adolescenti s’illudono di trovare una “sicurezza” derivata dal “plauso” degli internauti frequentatori della rete informatica che condividono le loro gesta , spesso di grande malvagità, che hanno come vittime coetanei ancor più fragili di loro, che non sono in grado di reagire e difendersi, sempre in via telematica, rilanciando sui loro persecutori il fango che inevitabilmente li investe. Infatti i cyberbulli - all’apparenza così sicuri e addirittura “strafottenti” nei loro comportamenti persecutori sovente dissimulano una debolezza caratteriale nel nascondersi nell’anonimato del web, che costituisce per loro una rete protettiva, differendo in tal modo dai bulli tradizionali che, soprattutto a scuola, non si nascondevano certamente quando, ad esempio, intonavano in coro la provocatoria e ripetuta cantilena dello “scemo”: ma quelli erano altri tempi ! Tempi in cui le generazioni minorili erano forgiate ad una rigida disciplina familiare e scolastica (improntata ai “tu devi" ubbidire, studiare e così via ) e quindi più “forti” a sopportare le provocazioni bullistiche, e talora pronti a “rintuzzarle” con consimili comportamenti. Per contrastare il fenomeno ormai dilagante del bullismo on line , è stato approvato a Roma l'8 dicembre 2014, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, un Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo. In esso gli operatori della rete che hanno aderito all'iniziativa (in particolare Google e Microsoft) si sono impegnati a “attivare appositi meccanismi di segnalazione di episodi di cyberbullismo (art.1)... che... devono essere adeguatamente visibili all'interno della pagina visualizzata, semplici e diretti , in modo da consentire loro l'immediata segnalazione di situazioni a rischio e di pericolo (art. 2) ...Gli aderenti s'impegnano a rendere efficienti i meccanismi di risposta alle segnalazioni (effettuati

da personale opportunamente qualificato) azionati in termini di tempi di rimozione dei contenuti lesivi per la vittima di cyberbullismo, non superiori alle due ore dall'avvenuta segnalazione , al fine di evitare che le azioni si ripetano e/o si protraggano nel tempo, amplificando gli effetti che la condotta del cyberbullo ha in Rete sulla vittima (art. 3) ...s'impegnano altresì a sensibilizzare con campagne di formazione e d'informazione sull'uso consapevole della Rete ...l'utenza Internet sulla possibilità, per chi pone in essere comportamenti discriminatori e denigratori con l'intento di colpire o danneggiare l'immagine e /o la reputazione di un minore, di essere scoperto, e per le vittime sulla concreta possibilità di difesa offerta dal presente Codice ( art. 4 ) ...la cui applicazione sarà controllata periodicamente da un Comitato di monitoraggio istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico (art. 5 ) . Si deve inoltre rilevare che è stata presentata la proposta di legge n. 1896 del 23 gennaio 2014 (d'iniziativa dei deputati Campana ed altri ) che prevede l'introduzione di uno specifico delitto di bullismo (punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni ) per che compie atti di bullismo così specificati : “Art. 2 Sono atti di bullismo : a) i comportamenti reiterati che si traducono in insulti offese, derisioni; b) le voci diffamatorie e le false accuse ; c) i piccoli furti, le minacce, la violenza privata, le aggressioni ; d) le offese che hanno ad oggetto l'orientamento sessuale, la razza, la lingua,la religione, l'opinione politica, le condizioni personali e sociali della vittima; e) le lesioni personali volontarie e il danneggiamento delle cose altrui. Art. 3 Sono considerati atti di bullismo informatico : a) i messaggi on line violenti e volgari mirati a suscitare battaglie verbali in un forum;


giustizia minorile b) la spedizione reiterati di messaggi insultanti mirati a ferire la vittima;offendere qualcuno al fine di danneggiarlo gratuitamente e con cattiveria via e-mail, messagistica istantanea sui social network ; c) la sostituzione di persona al fine di spedire messaggi o pubblicare testi reprensibili; d) la pubblicazione d' informazioni private o imbarazzanti su un'altra persona; e) l'ottenimento della fiducia di qualcuno con l'inganno al fine di pubblicare o condividere con altri le informazioni confidate via mezzi elettronici ; f) l'esclusione deliberata di una persona da gruppi on line al fine di provocare un sentimento di emarginazione ; g ) le molestie e le denigrazioni minacciose mirate ad incutere timore ; h) la registrazione con apparecchi elettronici di video o di audio degli atti di bullismo di cui all'art. 2 e la pubblicazione degli stessi sui siti internet. I precitati testi normativi ( soprattutto la futura trasformazione in legge della previsione del reato specifico di bullismo ) sono certamente utili per la repressione di un comportamento così diffuso ed inquietante. Però bisogna valutare le possibilità concreta di una prevenzione di siffatti deplorevoli atteggiamenti che dovrebbe far capo alla famiglia, alla scuola e alle altre agenzie aggregative a sfondo educativo- culturale che dovrebbero far introiettare nei minori una serie di messaggi educativi positivi di contrasto alle odiose prevaricazioni delle azioni proprie di un bullo. Purtroppo è nota la grave crisi identitaria dell'ambiente familiare e di quello scolastico che riflette una loro incapacità di poter gestire adeguatamente tale grave problema. A tale deficit possono soccorrere in parte le numerose campagne pubbliche e private, anche tramite internet, promosse per combattere la diffusione di un fenomeno di così grave allarme sociale, svolte anche in un contesto generale di lotta alla devianza e alla criminalità minorile. H

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La famiglia di fronte al reato Azioni sperimentali a supporto delle famiglie dei minori autori di reato

Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole G. Minorile borrelli@sappe.it

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enerdì 19 giugno 2015, dalle ore 9:30 alle ore 14:00, si è tenuto a Roma, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Via Santa Maria in Via 37, il Convegno conclusivo del progetto “La famiglia di fronte al reato. Azioni sperimentali a supporto delle famiglie dei minori autori di reato”. L’iniziativa progettuale è stata realizzata con il supporto finanziario del Dipartimento per le Politiche della famiglia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, grazie al secondo Accordo di Collaborazione siglato il 17 dicembre 2013 con il Dipartimento per la Giustizia Minorile - Ufficio Studi e Ricerche e Attività Internazionali. L’evento, a partire dalla focalizzazione dei punti forti della sperimentazione, disseminazione ed implementazione condotta in questi anni all’interno del Sistema della Giustizia Minorile, e non solo, nei vari territori quali: Ancona, Bari, Bologna, Cagliari, Campobasso, Firenze, Genova, Lecce, L’Aquila, Milano, Napoli, Padova, Perugia, Potenza, Reggio Calabria, Roma, Sassari e Palermo, intende favorire il trasferimento delle competenze professionali acquisite dagli operatori dei servizi (70% appartenenti alla Polizia Penitenziaria), ai governi territoriali; il chiaro intento è quindi affidare alle comunità locali, professionalità e strumenti innovativi di intervento alle famiglie di minori autori di reato. Sono stati invitati a partecipare ai lavori del Convegno il Sottosegretario del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Franca Biondelli, il Sottosegretario del Ministero della Giustizia Cosimo Ferri, il Capo del Dipartimento per le Politiche della Famiglia Ermengilda Siniscalchi, il Capo Dipartimento per la

Giustizia Minorile Annamaria Palma Guarnier, il Direttore Generale Ufficio II Politiche per la Famiglia, Dipartimento per le Politiche della Famiglia, Presidenza del Consiglio dei Ministri Luciana Saccone, il Direttore Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari reggente Luigi Di Mauro, il Direttore Generale, del Personale e della Formazione Riccardo Turrini Vita, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Professore in Dottrina Sociale della Chiesa dell’Università LUMSA di Palermo Giuseppe Savagnone e la Dirigente dell’Ufficio Studi, Ricerche e Attività Internazionali Isabella Mastropasqua. La rivoluzione operativa che ne ha conseguito ha dimostrato come quella del lavoro con le famiglie dei minori a rischio sia una strada che deve essere percorsa con decisione, proprio al fine di rendere più efficace l’azione rieducativa messa in atto dal Corpo di Polizia Penitenziaria che opera all’interno di strutture non adeguate, con sacrificio e impegno, spesso in anonimato e senza mai ricevere i giusti riconoscimenti. H

Nelle foto: sopra l’immmagine del Convegno sotto la dott.ssa Annamaria Palma Guarnier

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Lady Oscar rivista@sappe.it

lo sport

Le Fiamme Azzurre ai Giochi Europei di Baku iù di 6.000 atleti, da 50 paesi europei, questi i numeri dei partecipanti all’edizione inaugurale dei Giochi Europei di Baku (Azerbaigian). Alla manifestazione multi sportiva, che in qualche modo ricalca le orme di competizioni di illustri tradizioni come ad esempio i giochi asiatici o

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Vincenzo Mangiacapre (pugilato), Delian Stateff ed Elena Petrini (triathlon). Diamo di seguito il dettaglio dei risultati raggiunti a dieci giorni dal termine della competizione dalle Fiamme Azzurre che hanno avuto modo di gareggiare in terra azera.

Nelle foto: sopra, accanto al titolo la bandiera dei Giochi di Baku e la mappa dell’Azerbaigian a fianco Giovanni Pellielo con la medaglia conquistata

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quelli panamericani, dal 12 al 28 giugno nell’edizione d’avvio si confrontano e affrontano i campioni, emergenti o pluridecorati, del Vecchio Continente. Per la Polizia Penitenziaria ben 14 le Fiamme Azzurre presenti in otto discipline differenti Massimiliano Mandia (tiro con l’arco), Sofia Campana e Norma Murabito (canoa), Giovanni Pellielo (tiro a volo), Niagol Stoyanov (tennis tavolo), Elena Cecchini, Tatiana Guderzo e Rossella Ratto (ciclismo), Marco Maddaloni, Domenico Di Guida e Giulia Cantoni (judo),

Tiro a volo La prima storica medaglia per le Fiamme Azzurre di questi Giochi Europei l’ha conquistata l’immenso Giovanni Pellielo: bronzo nella fossa olimpica sulle pedane di Baku (16-17 giugno). Con l’ennesimo podio il fuoriclasse vercellese in forza alla Polizia Penitenziaria dal 1995, è salito a quota 180 medaglie in competizioni ufficiali internazionali. A 45 anni continua ad essere uno dei campioni più prolifici del panorama

sportivo nazionale, al di là dei meriti indiscussi che del solo tiro a volo ne fanno un’autentica leggenda vivente e di quelli personali che nonostante tutto questo lo contraddistinguono per sobrietà e umiltà. Si poteva addirittura sperare in un metallo più pregiato se in semifinale il piattello colpito per lo shoot-off contro il russo Alipov non gli fosse stato considerato invalido costringendolo a giocarsi la finale per il bronzo anziché la finalissima per l’oro. La lotta per il terzo gradino del podio l’ha vinta contro il venticinquenne britannico Ling, che da un punto di vista anagrafico potrebbe addirittura essere suo figlio ma sportivamente non ha potuto far altro che constatarne la giovinezza e longevità. Ma fino a quando il nostro “Johnny” continuerà a regalare soddisfazioni ed imprese al servizio dello sport azzurro? Glielo hanno chiesto in molti dopo questa ennesima medaglia vinta e lui ha elegantemente glissato invitando a pensare piuttosto al numero di piattelli rotti. L’esempio del ct italiano Albano Pera (argento alle olimpiadi di Atlanta 1996 a 46anni) ne guida le ambizioni, ma sappiamo che in vista del prossimo appuntamento a cinque cerchi di Rio


lo sport 2016 la sua corsa sarà per l’oro, l’unica medaglia che ancora gli manca tra tutte quelle del suo incredibile palmares. BAKU (16/17 giugno) European Games – fossa olimpica M: (1) Erik Varga SVK, (2) Aleksey Alipov RUS, (3) GIOVANNI PELLIELO (3Q/122, 3sf: 13/15, T7-8, F3/4: 13-11), (4) Edward Ling GBR, (5) Manuel Mancini SMR, (6) Jesus Serrano ESP

Canoa

In attesa di giocarsi la qualificazione olimpica per Rio 2016 ai Mondiali di Milano (19/23 agosto) le rappresentanti delle Fiamme Azzurre Sofia Campana e Norma Murabito a Baku (14/16 giugno) hanno centrato un’importante finale nel K2 200 metri e due semifinali K2 e K4 500m. Nella finalissima l’oro é andato alla Bielorussia seguita dalla Serbia, argento, e dall’Ucraina al terzo posto. BAKU (14/16 giugno) European Games – K2 200m: (1) Bielorussia

37”399, (2) Serbia 37”699, (3) Ucraina 37”719, (8) ITALIA (NORMA MURABITO-SOFIA CAMPANA) 39”678 (4b2 39”174, 3sf1 37”906); K2 500m: (11) ITALIA (NORMA MURABITO-SOFIA CAMPANA) 5sf1 1’43”297 (6b1 1’47”487); K4 500m: (13) ITALIA (Federica Nole-Irene Burgo-NORMA MURABITO-SOFIA CAMPANA) 7sf1 1’36”004 (7b1 1’39”840)

Tennis Tavolo

Nel tennis tavolo (16/18 giugno) non è riuscito a brillare il rappresentante della Polizia Penitenziaria Niagol Stoyanov. Dopo aver superato il primo turno contro lo spagnolo Carlos Machado per 4 a 2 si è fermato contro il croato Andrej Gacina, a sua volta sconfitto dal vincitore della gara maschile, il tedesco Dimitrij Ovtcharov. BAKU (16/18 giugno) European Games tennis tavolo – singolare M: (1) Dimitrij Ovtcharov GER, (2) Vladimir Samsonov BLR, (3) Ley Kou UKR, (17) NIAGOL STOYANOV (64: V/Carlos Machado ESP 4-2/11-4,11-8 12—10, 10-12, 12-14, 11-7; 32: S/Andrej Gacina CRO 0-4/1-11, 11-13, 6-11, 4-11).

Prima la bielorussa Alena Amialiusik con 3h20’36”, seconda la polacca Katarzyna Newiadoma e terza l’olandese Anna Van Der Breggen. BAKU (18/20 giugno) European Games, ciclismo su strada – cronometro F (25.8km): (1) Ellen Van Dijk NED 32’26”, (2) Ganna Solovey UKR 33’03”, (3) Annemiek Van Vleuten NED 33’33”, (23) TATIANA GUDERZO 36’18”, (25) ROSSELLA RATTO 36’22”; prova in linea F (120.7km): (1) Alena Amialiusik BLR 3h20’36”, (2) Katarzyna Newiadoma POL st, (3) Anna Van Der Breggen NED st, (5) ROSSELLA RATTO a 2’01”, (11) ELENA CECCHINI a 5’17”, (27) TATIANA GUDERZO st. H

19 Nelle foto: per la canoa Norma Murabito e Sofia Campana per il tennis tavolo Niagol Stoyanov

Nelle foto: a fianco le cicliste delle Fiamme Azzurre Rossella Ratto, Elena Cecchini e Tatiana Guderzo

Ciclismo Nella prova in linea di ciclismo (18/20 giugno) il quinto posto di Rossella Ratto è stato il migliore dei piazzamenti delle azzurre portacolori della Polizia Penitenziaria. Ad esso hanno dato un apporto fondamentale le colleghe Elena Cecchini e Tatiana Guderzo, giunte rispettivamente undicesima e ventisettesima.

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diritto e diritti

Il diritto alla rieducazione Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

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noto come quel generico richiamo che la Carta costituzionale fa del principio rieducativo, è adottato come criterio orientativo nel descrivere il fine ultimo delle pene da parte del legislatore ordinario. Questo richiamo così generico del termine, ha consentito di interpretare lo stesso in termini differenti dandogli il significato più confacente alle rispettive teorie politico-criminali. Vi è stato chi ha attribuito al termine “rieducazione” il merito del superamento della teoria retribuzionistica presente nel nostro sistema penale e, invece, chi ha definito il termine come un criterio di continuità rispetto al precedente ordinamento. Data la generalità del termine, sono tutte ipotesi comunque accettabili, ma, se l’intento è quello di ricreare per lo meno un significato minimo, ma concreto, tale da costituire un punto di riferimento per il legislatore, non può non essere interpretato che alla luce degli altri principi costituzionali. Linee guida saranno sicuramente l’art.3 e 13 della Costituzione. Traspare, così, dalla lettura congiunta delle norme, che il tentativo di rieducazione del reo non può essere solo eventuale, né può avere un carattere di semplice emenda, ma al contrario, costituisce “un compito della Repubblica” e deve avere un carattere risocializzante, nel senso che deve essere diretto alla rimozione di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Art. 3 comma 2 Cost.)(1), ma anche come

la nostra Carta costituzionale conferisca valore di assoluta supremazia alla libertà personale. Dal quadro costituzionale possiamo, dunque, ricostruire l’ideologia rieducativa seguendo una duplice direzione: individuando gli obiettivi che la stessa opera rieducativa deve perseguire e la metodologia attraverso la quale può essere intrapresa. L’obiettivo potrà dirsi sicuramente raggiunto, non quando il condannato diventi un cittadino “modello” (nel senso di soggetto che agisce in adesione alla moralità prevalente tra i consociati), ma quando il medesimo abbia acquisito la capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale, circoscrivendo l’area di illeciti penali ai soli fatti lesivi di valori legittimamente assumibili a punto di riferimento di un processo rieducativo, cioè, quei valori costituzionalmente rilevanti. Sotto un profilo metodologico, invece, la rieducazione non potrà costituire “un escamotage” attraverso il quale restringere ulteriormente la libertà personale del condannato rispetto a quanto già previsto dalla sentenza di condanna, trovando spazio quella parte della libertà personale che si traduce nella libertà di autodeterminazione e nel correlativo divieto per lo Stato di ricorrere a forme coattive di riorientamento della personalità del reo (2). Qualsiasi forma coattiva sarebbe lesiva della dignità umana e violerebbe quindi il disposto dell’art. 27 comma 2 Cost. che stabilisce il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità, nonché l’art.13 comma 4 Cost. che punisce ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale.

In conformità a quanto finora detto, si può configurare il diritto del condannato, nascente direttamente dalla Costituzione, e ascrivibile tra quei diritti inalienabili, assoluti e indisponibili della personalità. Sulla stessa scia, le norme dell’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento d’esecuzione, pongono l’accento in più punti, su come il trattamento rieducativo debba essere attuato con il consenso di chi ne è destinatario. A titolo d’esempio, all’art 13 Ord. Pen. si ribadisce come “sia favorita la collaborazione dei condannati e internati alle attività di osservazione e di trattamento”, ma in particolar modo la norma che più di tutte sembra incarnare la

consensualità nel trattamento rieducativo è l’art. 1 comma 2 del suddetto regolamento, ove è descritto il modo in cui deve essere perseguita la finalità di “modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, dei condannati e internati, e delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”: gli operatori penitenziari non sono chiamati a determinare coattivamente la suddetta modificazione, ma solo a promuoverne il processo (3). Una prima forma di tutela del diritto in esame è data dall’attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza in merito all’approvazione del programma di trattamento, infatti, l’art. 69 comma 5 Ord. Pen. stabilisce che “se si ravvisa nel programma elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, il programma viene restituito, con osservazioni al fine di


diritto e diritti una nuova formulazione” (4). Quanto fin qui esaminato, rientra nella dimensione negativa del diritto alla rieducazione, cioè, quella dimensione che identifica le posizioni soggettive del condannato e dell’internato, e che il trattamento rieducativo non può intaccare. Ma vi è anche una dimensione positiva del medesimo diritto, rappresentata dalla pretesa dei condannati a che l’amministrazione penitenziaria offra loro un trattamento rieducativo, cioè, a detta della Suprema Corte, “costituisce da un punto di vista giuridico, un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria, cui corrisponde un diritto del detenuto”. E da ciò ne discende un corollario

importante: in quanto diritto del detenuto, l’amministrazione penitenziaria non potrà escludere un detenuto dalle attività di osservazione e di trattamento, seppure lo ritenga non rieducabile o non bisognoso di rieducazione, e ciò perché, il potere discrezionale riconosciuto alla stessa amministrazione attiene all’organizzazione del singolo trattamento. Proprio seguendo questo corollario la Corte costituzionale ha dichiarato contra ius quell’orientamento penitenziario che individuava tra le regole del trattamento suscettibili di sospensione, quelle inerenti ai detenuti sottoposti al regime del 41bis, e lo ha censurato in quanto lesivo sia del diritto alla libertà personale (con sentenza del 1996 n. 351), sia del diritto alla rieducazione (con sentenza del 1997 n. 376). La Consulta ha perciò sostenuto che il regime differenziato, di cui all’art. 41-

bis comma 2 Ord. Pen., “non può comportare la compressione delle attività di osservazione e di trattamento individualizzato previste dall’art.13 dell’ordinamento penitenziario, né la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della personalità, previste dall’art. 27 dello stesso ordinamento, le quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee ad impedire quei contatti e quei collegamenti i cui rischi il provvedimento ministeriale tende ad evitare”. Si è conformato così all’operato della Corte l’amministrazione penitenziaria, rimuovendo quel divieto d’incontri tra i detenuti sottoposti al regime speciale e il personale dell’area educativa, proprio al fine di assicurare l’attività di osservazione e di trattamento individualizzato, e riconoscendosi obbligata ad organizzare attività in comune di tipo culturale, ricreativo e sportivo. Inoltre, all’interno della dimensione positiva del diritto alla rieducazione bisogna riconoscere anche un secondo aspetto: la legittima pretesa del detenuto a usufruire, qualora sussistano le condizioni richieste dalla legge, quelle misure extramurarie attraverso le quali la rieducazione assume caratteristiche prettamente risocializzanti, quali la liberazione condizionale, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà e la liberazione anticipata. E’ stato, infatti, correttamente osservato, da parte della dottrina, come la legge sull’ordinamento penitenziario “consenta di configurare l’applicazione delle misure alternative alla detenzione in termini di provvedimento dovuto e, quindi, l’accesso alle medesime in termini di diritto per i condannati che ne abbiano maturato i presupposti” (5). Sebbene le prosperose premesse fin qui descritte, è opportuno notare come ancora oggi il detenuto non goda a pieno dell’effettivo esercizio del

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diritto al trattamento rieducativo, e ciò perché, quel che manca è un meccanismo giurisdizionale capace di sopperire all’eventuale inerzia dell’amministrazione penitenziaria, la quale, di fatto potrebbe: non proporre mai al magistrato di sorveglianza un programma di trattamento; non rispettare il termine di cui all’art. 27 comma 2 Reg. Esec.. In tutti questi casi, non è possibile invocare un potere sostitutivo del magistrato di sorveglianza, al quale, come detto poc’anzi, la legge attribuisce esclusivamente la facoltà di restituire al mittente il programma di trattamento “al fine di una nuova formulazione” e la cui competenza è, comunque, estranea ai profili tecnicooperativi del trattamento (6). H Note (1) A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag. 70. (2) In tal senso, G. FIANDACA, commento all’Art.27, c. 3, Cost., in commentario alla Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, Zanichelli, Bologna, 1989, pag. 235 (3) A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag. 74. (4) Trattasi comunque di una forma di tutela non giurisdizionale, in quanto il potere di verifica del magistrato di sorveglianza, in merito all’approvazione del programma del trattamento, prescinde totalmente da qualsiasi forma procedimentale, ed esclude la partecipazione, sia diretta che tramite una difesa tecnica, dell’interessato. (5) Così, V.GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in V. GREVI (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, pag.51. Dello stesso avviso, con specifico riferimento alla liberazione condizionale, M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Polizia Milano, Giuffrè Editore, 2010. (6) A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag.78.

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Laura Pierini Vice Segretario Sappe Firenze rivista@sappe.it

donne in uniforme

Lo sceriffo-fo Lo sce-rif-fo-fo Ha due baf-fi-fi Il cap-pel-lo-lo La cin-tu-ra-ra Gli sti-va-li-li Le pis-to-le-le Ma non sa sparare PIM PUM PAM!!! con questa canzone dello Zecchino d’Oro che inizio, cercando di sdrammatizzare su di un argomento che invece è serio e degno di riflessioni. Quando si tratta di parlare di formazione del personale e si tocca l’argomento ‘Addestramento all’uso delle armi’ non pochi sono i Dirigenti che inarcano le sopracciglia, come se all’improvviso si ricordassero che siamo una forza di Polizia e che pertanto abbiamo in dotazione un’arma. Abituati a vederci all’interno degli istituti penitenziari, dove per ovvi motivi di sicurezza le armi non vengono portate, impegnati in attività custodiali trattamento e rieducazione, si dimenticano che la nostra attività non si ferma a quello. Siamo agenti e ufficiali di P.G. in servizio h24 ed effettuiamo servizi di ogni genere: traduzioni e piantonamenti, scorte a magistrati, a politici e collaboratori di giustizia, attività di indagini, di ordine pubblico... e potrei continuare ancora un po’. Le Direzioni stesse quando si tratta di inviare il personale per l’addestramento in bianco o presso i poligoni, molto spesso storcono la bocca, non ne comprendono l’importanza, vedendolo solo come un motivo per distogliere il personale dai servizi interni e scombinando l’ ordinaria programmazione dell’ Istituto. Parlo con cognizione di causa, in quanto istruttore di tiro dal 1998.

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Nei miei anni di attività ho visto periodi in cui, a seconda dei Dirigenti nei locali Provveditorati e Direzioni, le attività si sono svolte con regolarità raggiungendo gli obiettivi prefissati ed altri in cui niente è stato fatto adducendo ragioni di mancato finanziamento sul relativo capitolo di bilancio o di carenza del personale. Si ritorna al concetto di prima: il problema risiede nel riconoscimento del valore all’attività di addestramento all’uso delle armi. Purtroppo sono stati gli eventi recenti che hanno visto coinvolto il personale di Polizia Penitenziaria in servizio di traduzione ed il loro intervento con le armi a riportare in primo piano la questione. Perché dunque sia importante effettuare con regolarità attività di formazione e aggiornamento per le armi ed in cosa consista cercherò di spiegarlo. In Toscana stiamo portando avanti un programma su doppio binario, differenziando l’addestramento in bianco e quello a fuoco a seconda che sia destinato al personale in servizio presso i nuclei traduzione o all’interno, seguendo il ‘Disciplinare tecnico sull’addestramento all’uso delle armi’ che prevede vari step a seconda del livello del discente. Qual è l’obiettivo che si vorrebbe raggiungere? Nessuno ha intenzione di formare sceriffi o ‘giustizieri della notte’ anzi, direi l’esatto opposto. Ricordo che a parte quanto appreso durante il corso da allievi per ottenere l’abilitazione all’arma, in seguito il personale viene lasciato a se stesso. Ho avuto colleghi in addestramento che non toccavano l’arma da anni, che si erano dimenticati le basilari norme di sicurezza e di funzionamento, con laniccio ed oserei dire ragnatele all’interno e che però, per un motivo od un altro, potevano essere comunque chiamati a prenderla ed uscire in servizio armato. Non vengono a voi i brividi? A me sì. Che dire poi del personale che effettua servizi specifici di scorta e traduzione e che si può trovare coinvolto in un’evasione o in un conflitto a fuoco, nella pubblica via in mezzo alle

persone, dove interviene in maniera preponderante il fattore psicologico dell’evento critico, improvviso. La risposta ad un evento del genere non può essere lasciata al buon senso o alla buona sorte del singolo. La parola chiave della nostra attività di addestramento è SICUREZZA seguita dalla conoscenza delle norme di LEGGE che indicano i casi in cui utilizzare l’arma ed infine la TECNICHE operative. Solo una combinazione corretta di sicurezza-legge-tecniche può scongiurare un epilogo catastrofico, se non ci si vuole affidare come detto prima e voglio ripeterlo, al buon senso e alla buona sorte! Un addestramento regolare, continuo, dove intervengono le varie professionalità. Un intenso lavoro di addestramento fatto non di sole parole, che presto verrebbero dimenticate, bensì anche di maneggi e simulazioni di contesti e situazioni che permettano a chi le effettua di comprendere le difficoltà, i propri limiti e l’importanza di lavorare in squadra nel caso dei nuclei traduzioni. Il tutto seguito poi dalla verifica in poligono dove si aggiunge quello stress psicologico del dover sparare, fatto di rumore, movimento dell’arma, bersaglio da colpire, presenza mentale e sicurezza nei maneggi. Prendere coscienza di tutto ciò cambia radicalmente il rapporto con l’arma, in positivo ovviamente. Non sceriffi quindi, ma personale professionalmente preparato, consapevole, che non si ritrovi ad utilizzare l’arma perché preso dal panico, mettendo a rischio la vita propria e altrui. Mi auguro quindi che a livello centrale e decentrato raggiungano questo grado di consapevolezza e che le Direzioni degli Istituti Penitenziari, che devono di fatto inviare il personale in addestramento, si convincano della necessità di inserire nel programmato mensile, al pari delle unità operative, la voce addestramento ai tiri. Riepilogando : Addestramento -> sicurezza-legge-tecniche -> PROFESSIONALITA’. A Voi le eventuali riflessioni. Per quanto mi riguarda, a presto. H


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l positivismo criminologico di fine ottocento e inizi del novecento portò all’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del sistema sanzionatorio definito a “doppio binario”, il quale prevede per un verso l’applicazione delle pene per i soggetti imputabili, assolvendo di fatto ad una funzione prevalentemente general-preventiva, e per l’altro l’applicazione delle misure di sicurezza per i soggetti considerati socialmente pericolosi, attraverso una funzione che è soprattutto specialpreventiva. Il ricovero in Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) è la misura di sicurezza detentiva riservata, ai sensi dell’art. 222 c.p., agli autori di delitti dolosi puniti in astratto con la reclusione superiore nel massimo a due anni, che siano stati prosciolti per vizio totale di mente determinato da infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o per sordomutismo, e che siano stati ritenuti socialmente pericolosi, essendo probabile che tornino a commettere nuovi reati. La Corte Costituzionale, con sentenza n.253/2003 del 18/7/2003, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del codice penale (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), “nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. La Suprema Corte ha quindi giudicato incostituzionale l’automatismo con il quale il giudice disponeva, nei confronti degli infermi di mente, la misura detentiva dell’ospedale psichiatrico giudiziario anche quando quest’ultima poteva essere sostituita con una misura meno “segregante e totale”. Il 31 marzo 2015 è scaduta la proroga che era stata fissata dalla Legge 30 maggio 2014 n. 81 (conversione del decreto legge 31 marzo 2014 n. 52) con il conseguente definitivo

superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, processo già avviato con il D.P.C.M. 1 aprile 2008 , il quale prevedeva la chiusura degli O.P.G. ed il trasferimento, entro il 2010, degli internati in strutture sanitarie regionali gestite dalle A.S.L. L’anno di proroga sarebbe dovuto servire, come indicato nella relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del D.L. 52/2014, per “contemperare, da un lato, le esigenze rappresentate dalle regioni di avere a disposizione un maggior lasso di tempo per concludere i lavori per la realizzazione e la riconversione delle strutture sanitarie destinate ad accogliere i soggetti oggi internati negli OPG, e, dall’altro, l’esigenza di dar corso in tempi rapidi al definitivo superamento degli OPG”. La legge de quo, prevede che gli internati che necessitano ancora di un sostegno psichiatrico siano destinati alle Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), le quali però non potranno ospitare più di venti degenti e quindi avranno dei posti limitati. Gli altri saranno affidati a strutture alternative, tra le quali gli istituti penitenziari presenti nella regione; altri ancora, infine, potranno accedere a percorsi terapeuticoriabilitativi individuali di dimissione. Nonostante lodevoli siano le intenzioni del legislatore, questa norma desta molte preoccupazioni sia tra i medici psichiatrici, i quali evidenziano la carenza, a tutt’oggi, di comunità terapeutiche e di strutture adeguate all’accoglienza delle persone “inferme”, come i Dipartimenti di salute mentale delle ASL che avrebbero dovuto accoglierli, sia nell’ambito della magistratura, che pone l’accento su questioni legate alla “sicurezza”. Al riguardo, di particolare rilievo è la missiva indirizzata dal Giudice del Tribunale di Roma, Paola Di Nicola, all’Associazione Nazionale Magistrati con la quale pur riconoscendo che la riforma è ispirata a giusti principi, si sottolinea che “sarebbe necessario che il legislatore si fosse fatto carico per tempo, di un opportuno, efficiente ed adeguato sistema di

Addio agli OPG ma non agli internati

approdo della riforma, specialmente sotto il profilo sanitario, che temo non sia stato sufficientemente realizzato in concreto sui territori su cui la riforma inevitabilmente ricadrà, con ciò che ne consegue in termini di impatto sociale e di sicurezza”. La magistratura nello specifico solleva forti perplessità sulla disposizione introdotta dal Senato, al comma 1 quater dell’articolo 1, che dispone che “Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima” (eccezione fatta nei reati per i quali è previsto l’ergastolo). Ciò significa che persone ritenute ad alta pericolosità sociale potrebbero essere rimesse in libertà senza che siano state ancora predisposte le necessarie misure sanitarie, sociali e giudiziarie. Che la chiusura definitiva degli OPG possa essere considerato un grande gesto di sensibilità e di civiltà non vi è dubbio, ma la questione necessita comunque di un’attenta e doverosa analisi. Max Weber, uno dei teorici politici, che più di ogni altro ha evidenziato

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Nella foto: una veduta dell’OPG di Montelupo Fiorentino

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l’ineludibile contrasto tra l’azione morale e l’azione politica distingue: l’etica della convinzione, ovvero l’agire in base al rispetto rigoroso di alcuni principi ritenuti validi indipendentemente dalle conseguenze che ne possono derivare, e l’etica della responsabilità, ovvero l’agire tenendo in considerazione il risultato della propria azione e quindi valutando come buona l’azione che raggiunge lo scopo prefissato e cattiva quella che, diversamente, non lo ottiene. È proprio questa teoria che Weber definisce delle “due etiche” che deve invitarci a riflettere e a valutare se sia più giusto seguire l’etica della convinzione, e quindi proseguire sulla strada della chiusura indiscriminata degli OPG, indipendentemente dalle possibili ripercussioni sul piano sociale e della sicurezza, o se, invece, seguire l’etica della responsabilità, e quindi dare rilievo al risultato di tenere i soggetti psichiatrici in strutture dove potrebbero essere meglio curati e recuperati, e solo nei casi più gravi contenuti. Questo è l’eterno contrasto che ogni giorno accompagna chi è deputato a fare scelte nell’interesse della collettività: mantenere fede in maniera aprioristica a principi universalmente riconosciuti o, invece, considerare esclusivamente il bene della società, prendendo in taluni casi, decisioni che cozzano con i valori che ciascuno di noi, preso singolarmente, indubbiamente ha. Al buon senso di ciascuno di noi è rimessa la valutazione se sia più giusto, o opportuno, agire seguendo l’una o l’altra etica. Quello che ci si auspica, però, è che non si debba correre il rischio che questi soggetti escano dalla porta degli OPG per poi fare ingresso dalla finestra dei tanti “centri clinici” o “reparti infermerie” dei diversi istituti penitenziari andando a gravare, ancora una volta, sulle già estenuanti condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria, che come spesso ormai accade, si troverebbe a gestire questa così delicata tipologia di soggetti priva di risorse, di strutture e di un’idonea formazione professionale. H

Il sistema informatico interforze CED-SDI

ra le molteplici incombenze che gravano sui Comandanti di Reparto degli Istituti e dei Servizi penitenziari vi è quella di responsabile del Sistema d’indagine interforze, più noto con l’acronimo di S.D.I,, discendente proprio dalla posizione apicale rivestita all’interno del reparto del Corpo di Polizia Penitenziaria che si è chiamati a gestire, sebbene, in tal senso, sia detto per inciso, non sia prevista alcuna indennità compensativa: tale lacuna ben poterebbe essere colmata nell’ambito dell’annuale sottoscrizione decentrata del FESI. Infatti, i Capi degli uffici e i Comandanti dei reparti delle Forze di polizia vigilano sull’attività di raccolta e comunicazione delle informazioni e sono responsabili della loro rispondenza agli atti originali (art. 5 D.P.R. 378/1982 e art. 54 D.Lgs. 30/6/2003, n. 196). Come è noto, l’articolo 21 della Legge 26 marzo 2001, n. 128 e le sue disposizioni attuative impongono a tutte le Forze di Polizia di alimentare, con completezza e tempestività, il Centro Elaborazione Dati (C.E.D.), istituito in forza dell’art. 8 della Legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. In particolare, i dati raccolti a mente della richiamata disposizione sono custoditi nel c.d. Sistema d’Indagine (SDI) e posti a disposizione esclusivamente delle Forze di Polizia, tanto da connotarsi quale sistema chiuso, accessibile, cioè, solo da postazioni di lavoro certificate che

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consentono l’acquisizione delle informazioni in sede locale utilizzando una rete intranet, blindata quindi alle eventuali contaminazioni correlate alla rete pubblica. L’accesso alla Banca Dati, quindi, è possibile solo a persone debitamente autorizzate in sede locale dal proprio Funzionario/Ufficiale Responsabile e previa abilitazione di un apposito profilo, diversificato a seconda delle informazioni che il personale deve conoscere, in ragione delle mansioni da svolgere, avuto riguardo anche all’incarico ricoperto in seno alla propria Forza di Polizia. Per quanto più ci riguarda, allo stato, nell’ambito delle direttive del Dipartimento di pubblica sicurezza, il suddetto profilo viene fornito dal focal point individuato in ogni Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, che provvede al rilascio delle pertinenti e personali credenziali necessarie per l’accesso allo S.D.I., le quali, se non utilizzate per un certo periodo, vengono dapprima sospese e poi successivamente e automaticamente cancellate. E’ fatto obbligo al personale delle cinque Forze di Polizia indicate nell’art. 16 L. 121/81 di far confluire senza ritardo nel Centro elaborazione dei dati del Dipartimento di Pubblica Sicurezza le informazioni acquisite nel corso delle “attività amministrative” e delle “attività di prevenzione o repressione dei reati” (art. 2 comma 1 L. 128/2001). Le informazioni acquisite dalle “Polizia Locali” e dalle altre “strutture di vigilanza” sono


mondo penitenziario invece fornite al Centro per il tramite delle Questure, dei Commissariati o dai Comandi dell’Arma dei Carabinieri. Nel C.E.D. “devono confluire” dettagliate informazioni su ogni fenomeno censito dalle Forze di Polizia: vale a dire, sia le notizie relative alle attività di vigilanza e controllo (sulle strade, sul mare, sugli esercizi pubblici, ecc.) sia quelle risultanti da sentenze o procedimenti giudiziari sia quelle desunte da atti di polizia giudiziaria svolte ad iniziativa o in esecuzione di ordini dell’Autorità Giudiziaria. Nel C.E.D. non va inserita la documentazione dell’attività compiuta (ad esempio, verbale di identificazione, perquisizione, arresto, ecc.), ma esclusivamente la “sintesi essenziale” di essa. Chi accede alla Banca dati e prende visione della sintesi può successivamente richiedere l’atto all’Autorità che lo ha originato (art. 7 comma 1 Legge 121/81). Se necessario per la prosecuzione delle indagini, non è però impedito all’Autorità Giudiziaria di disporre, con decreto motivato, il ritardato inserimento delle notizie su singoli atti. Il Sistema informatico interforze, poi, consente di accedere ai dati contenuti in altri datebase esterni cui è possibile connettersi direttamente (si pensi a quelle delle Anagrafi tributarie, camerali, comunali, ecc.). Il Sistema si avvale anche del «S.I.S.» (Sistema di Informazione Schengen), quale rete informatizzata in cui confluiscono i dati dei Paesi aderenti all’Accordo di Schengen per la gestione in comune delle informazioni e segnalazioni sulle persone, veicoli e oggetti ricercati da ciascun Paese. La “catalogazione delle informazioni” che pervengono al C.E.D. avviene mediante un «Sistema di Indagine» (S.D.I.) che non prevede schedari ma si fonda sulla memorizzazione dell’evento che ha dato origine all’inserimento e dal quale derivano, automaticamente e logicamente, i collegamenti con i soggetti in esso coinvolti, con gli oggetti che lo riguardano (armi, auto, documenti o altri beni), con le

denunce e i provvedimenti (misure c.d. pre-cautelari, cautelari o di sicurezza) che ne sono discesi nonché, infine, con qualsiasi altra segnalazione utile per individuare le caratteristiche dei soggetti interessati (pericolosità, soprannomi, alloggi e passaporti utilizzati, controlli cui sono stati sottoposti (art. 7 D.P.R. 378/1982). Trattandosi di un database che archivia informazioni di molti cittadini, il C.E.D. è soggetto al controllo del Garante per la protezione dei dati personali, il quale non ha mancato di intervenire in detta materia con specifiche direttive, avuto riguardo al diritto all’oblio e ai diritti riconosciuti ai cittadini dall’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003. L’accesso, in via generale, è consentito agli ufficiali di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, ai funzionari dei servizi per le informazioni e la sicurezza ed agenti di polizia giudiziaria autorizzati. Quando si tratta di informazioni relative ad un procedimento penale,

della Pubblica Sicurezza – e i loro nominativi sono comunicati al Procuratore della Repubblica competente per territorio (del luogo ove essi svolgono le loro funzioni). La consultazione o la utilizzazione indebita delle notizie inserite nel C.E.D. configura uno specifico delitto punito sia a titolo di dolo che di colpa (art. 12 Legge 121/81). Se non si tratta di condotte indebitamente tenute, ma di condotte più gravi perché realizzate con violazione dei propri doveri o abusando delle proprie qualità, il delitto configurabile è invece quello di cui all’art. 326 c.p. (Rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio). L’alimentazione del sistema avviene mediante «modelli informatici standardizzati». Da ultimo, è bene rammentare che l’articolo 12 della citata legge 121/81 punisce “il pubblico Ufficiale che comunica o fa uso di dati ed informazioni in violazione delle disposizioni della presente legge”.

segrete o segretate (art. 144 e 329), la loro consultazione è riservata a ufficiali di polizia giudiziaria assegnati ai Servizi di polizia giudiziaria previsti dall’art. 56 c.p.p., alla D.I.A, alla Direzione centrale per i servizi antidroga ed agli Uffici centrali della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri deputati al contrasto del terrorismo. Gli ufficiali di polizia giudiziaria di cui sopra sono individuati dal Ministro dell’Interno su proposta del Capo della Polizia – Direzione Generale

L’articolo 615 ter c.p. sanziona “chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo”. La medesima norma prevede, altresì, un’aggravante “se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”. H

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Luca Pasqualoni Commissario Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it

Nelle foto: sala operativa in alto il logo dello S.D.I.

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dalle segreterie Trieste

rivista@sappe.it

Ancora una vittoria per il collega triestino Raffaele Incarnato i è svolto presso il palasport “Palamico”di Castelletto Ticino (No), il secondo Campionato interregionale di Karate della WUKA (World Union karate Associations)denominata “Spring Cup”. Una Kermesse agonistica che ha visto una forte partecipazione numerica da parte di atleti agonisti di più regioni italiane e di altre federazioni. Nei pesi massimi (+90

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Ferrara Torneo di solidarietà con ospite a sorpresa

kg)ancora una vittoria dell’agente scelto Raffaele Incarnato, in servizio presso la Casa Circondariale di Trieste che ha superato con un 7-5 il suo collega di categoria. Una vittoria non semplice in quanto Incarnato, a un minuto dalla fine, perdeva 4-2. Ma con due tecniche di Ippon(2 punti), grazie ai kizami tsuki diretti (il jab della boxe) e ad una tecnica di wazari(1 punto) con un kizami seguito da un gyako tsuki (pugno diretto) immediato, ha ribaltato totalmente il risultato contro un avversario molto forte e molto potente che ha lottato fino all’ultimo secondo per riprendersi ciò che gli era sfuggito, ovvero la vittoria. Ma la voglia di vincere e le doti fisiche del collega della Casa Circondariale di

L’iniziativa è finalizzata ogni anno a raccogliere fondi per le persone disabili. Si tratta di un torneo di calcio interforze che quest’anno ha visto l’autorevole partecipazione di Rino Gattuso. La Polizia Penitenziaria ha partecipato con una formazione mista a giocatori della Spal. H

Trieste (1,98 d’altezza per oltre 100 kg di peso)hanno avuto la meglio sul proprio avversario. H

Milano Tante le onorificenze al Merito della Repubblica consegnate presso la Prefettura in occasione della Festa del 2 giugno ra i sessantotto cittadini che hanno ricevuto dal Prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca, le Onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” per aver reso lustro all’Italia nel campo della cultura, dell’arte, dell’economia, nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari, oppure per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari, figura anche un nostro appartenente al Corpo, l’Isp.re Capo Nico Costa, insignito a “Cavaliere”. La cerimonia si è tenuta, in occasione della Festa della Repubblica, nei giardini della Prefettura di Milano. Esprimiamo vivo compiacimento e congratulazioni al nostro collega. H

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li uomini della Polizia Penitenziaria di Ferrara, guidati dal commissario Paolo Teducci, hanno partecipato al tredicesimo trofeo della solidarietà, invitati da Davide Fratini, organizzatore dell’evento.

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dalle segreterie Sulmona Il Sappe espone i problemi e i rischi dell’istituto abruzzese

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l capoluogo peligno ed il Centro Abruzzo sono esposti al rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata. L’allarme è stato lanciato dal segretario provinciale del Sappe Marco Chiarelli, in conferenza stampa con il segretario generale del sindacato, Donato Capece, il segretario regionale Giuseppe Ninu e il vice segretario regionale, Edoardo Colella. Nel carcere di Sulmona sono cinquecento i detenuti tutti classificati come As, ossia alta sicurezza, che

scontano pene soprattutto per reati di mafia. Intanto restano irrisolti i problemi di organico del penitenziario di via Lamaccio. «Resta la necessità di ulteriore personale di polizia penitenziaria, non si possono chiedere sempre sacrifici e provocare stress psicofisico continuo ai danni degli agenti in servizio - ha precisato Donato Capece - Anche gli agenti hanno diritto al riposo per garantire la propria salute ma anche per prestare un servizio efficiente». Attualmente sono 250 i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere peligno a fronte della presenza di 500 detenuti. «Ne occorrono almeno trecento per garantire turni adeguati e ferie agli agenti‚ ha concluso Capece, appellandosi all’amministrazione penitenziaria, perché i diritti degli

agenti penitenziari non siano ancora disattesi e cessino preoccupazioni e tensioni. La costruzione di un nuovo padiglione del penitenziario, con l’arrivo di altri 300 detenuti, rappresenterà un problema “esplosivo” per il penitenziario sulmonese. H (reteabruzzo.com - g.f.)

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Chieti

Orvieto Un saluto e un grazie a Salvatore e Claudio a segreteria locale SAPPE di Orvieto vuole ringraziare e salutare i colleghi Sovrintendente Salvatore Quattrocchi e l’Assistente Capo Claudio Trentavizi, posti in quiescenza dal mese di giugno 2015, dopo una specchiata carriera di 35 anni di lodevole e ammirabile servizio prestato nel disciolto Corpo

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degli Agenti di Custodia e nel Corpo di Polizia Penitenziaria. Esprimiamo i nostri migliori auguri a loro e alle proprie famiglie, affinché possano avere davanti una vita piena di soddisfazioni e di felicità. Ci fa piacere evidenziare la loro rettitudine e lo spirito di Corpo, dimostrato con la presenza in servizio fino all’ultimo giorno utile, senza scorciatoie di nessun tipo e senza accusare nessuna patologia tipica “dell’ultim’anno di servizio”. Grazie Salvatore e Grazie Claudio, è all’esempio di persone come voi che ci vogliamo ispirare per innalzare il livello di professionalità e d’immagine del glorioso Corpo di Polizia Penitenziaria, che con tanto amore, passione ed orgoglio avete onorato e servito per tanti lunghi anni. H F.B.

ella foto inviata dal collega Antonio Gervasio ammiriamo il figlio Simone in perfetta uniforme che supporta il Comandante Valentino Di Bartolomeo. Grazie a Gervasio per averci regalato una immagine così bella. H

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crimini e criminali

Daniela Cecchin: Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nella foto: Daniela Cecchin

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«invidiavo la sua felicità» egli ultimi tempi mi ritrovo, sempre più spesso, a riflettere su quanto sia incomprensibile capire gli esseri umani e mi verrebbe da chiedere: «Ma tu che sei un uomo, dimmi un pò, spiegami...». Mi ha sempre affascinato carpire il pensiero dell’uomo “normale” e soprattutto i segreti che ognuno di noi porta con sé. Segreti che spesso hanno a che fare con un passato buio, che nasconde ricordi incancellabili e che costituiscono, molto spesso, il preludio di un’esplosione.

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Inoltre, i contesti sociali e gli stati psicologici (impulsi passionali e forti emozioni), in particolari contesti, possono innescare ulteriormente la miccia, sino al punto che, chiunque, può diventare un potenziale criminale. Negli ultimi anni, si sono susseguite una serie di condotte criminose, da parte di persone “normali”, amici occasionali e colleghi, conosciute nel corso della mia vita, che mi hanno segnato moltissimo, e che hanno rafforzato, ancora di più, la mia convinzione che in ogni uomo “normale” si nasconda un lato oscuro della personalità. Il mio dilemma è cosa libera i comportamenti antisociali? Quali sono le motivazioni alla base dell’assunzione di una condotta delittuosa? Sigmund Freud ha scritto: “L’uomo ha istinti aggressivi e passioni primitive che portano allo stupro, all’incesto, all’omicidio; sono tenuti a freno, in modo imperfetto, dalle Istituzioni Sociali e dai sensi di colpa Nella personalità di ogni individuo c’è un lato nascosto, oscuro, normalmente represso che, se

liberato, ci trasformerebbe in criminali, in crudeli assassini e pericolosi delinquenti”. Se è davvero così c’è seriamente da preoccuparsi anche del vicino di casa! Ho condiviso queste mie riflessioni, una sera, con un portiere d’albergo a Firenze, mio conoscente “normale” occasionale, che forte della sua esperienza lavorativa e della varietà di personaggi che, nel corso della sua vita professionale, aveva incontrato, alimentava con degli esempi la discussione. Mi raccontava, tra l’altro, la storia di un omicidio avvenuto in via Della Scala 39, nel centro storico, a due passi dalla stazione di Santa Maria Novella, allorquando una donna apparentemente “normale” aveva sgozzato un’altra donna. Il racconto si sposava così bene con lo scambio di vedute sul lato criminale delle persone normali che decidevo, nel corso delle settimane successive, di approfondire la vicenda. La mattina dell’8 novembre del 2003, viene rinvenuto il corpo senza vita di Rossana D’Aniello, una funzionaria di banca di 46 anni, sposata con un farmacista e madre di due figlie di 16 e 12 anni. All’interno dell’appartamento, Rossana D’Aniello giace a terra, senza vita, la testa quasi separata dal corpo e schizzi di sangue sparsi dovunque sui muri della stanza. Diciotto anni dopo l’ultimo duplice delitto delle coppiette del “Mostro”, seppur in un’ambientazione completamente diversa, Firenze piomba nuovamente nell’incubo. Il corpo senza vita della donna è scoperto dal marito, Paolo Botteri, al rientro a casa con le due figlie. La scena che si presenta agli occhi dei familiari è agghiacciante, c’è sangue dappertutto: sulla porta di casa, sul soffitto, sulle pareti, sulle lampade. Anche il pavimento è macchiato e mostra una lugubre scia del trascinamento del corpo della vittima per casa con la gola lacerata. All’arrivo sulla scena del crimine, alla polizia risaltano subito i segni lasciati in giro per la casa, successivamente all’omicidio, dall’assassino: asciugamani, fazzoletti ed

abiti macchiati di sangue sparsi per ogni angolo della casa. Sulla scena del crimine non ci sono impronte digitali sospette, ma c’è molto sangue in giro da cui si può ricavare il DNA e in questo caso ne vengono isolati due, entrambi di donna. Gli inquirenti ipotizzano un tentativo di rapina finito male, ma dalla casa non è stato asportato nulla se non un giaccone del marito della donna prelevato dall’armadio. Altro aspetto non di poco conto è che la vittima conosceva il suo carnefice, considerato che non c’erano segni di effrazione sulla porta d’ingresso dell’appartamento. La signora Rossana D’Aniello era una persona molto riservata e timida e non avrebbe mai fatto entrare nessuno nella sua casa: anche in considerazione che al momento del ritrovamento il cadavere indossava una vestaglia. Gli inquirenti iniziano a setacciare la vita della vittima e del marito, affinché possa emergere qualche collegamento con la barbara uccisione, riservandosi di fornire notizie concrete ai giornali, i quali si scatenano alimentando ulteriormente la psicosi – sempre corrente a Firenze - del “mostro”. Sarà proprio il marito, inconsapevolmente, ad essere l’anello di congiunzione tra la vittima e il suo carnefice. Dopo lunghi interrogatori, il marito si ricorda che la moglie era ossessionata da delle telefonate anonime notturne, che nel periodo precedente alla sua uccisione, giungevano sull’utenza telefonica familiare. Saranno proprio le telefonate anonime a condurre il Capo della Squadra Mobile di Firenze, Gianfranco Bernabei, all’assassino. Dai controlli dei tabulati telefonici delle telefonate in arrivo a casa Botteri, risulta che le chiamate notturne provengono tutte dalla stessa cabina, ubicata nei pressi dell’abitazione della vittima. L’assassino utilizza carte telefoniche prepagate i cui codici sono ben presto identificati dalla polizia, che verifica tutte le telefonate in uscita fatte con le schede identificate, sino a scovare una conversazione telefonica verso un’utenza privata di Vicenza. La titolare dell’utenza telefonica riferisce di avere una figlia che lavora a Firenze. Inoltre, la polizia ha l’esito delle analisi del sangue trovate su di un asciugamano che appartengono ad una donna. Il cerchio si è chiuso, l’indiziata, che si rivelerà essere l’assassina, è Daniela Cecchin, 47 anni, una persona


crimini e criminali qualunque e “normale” che lavora come archivista all’Ufficio d’Igiene del Comune di Firenze. A seguito di perquisizione domiciliare nell’appartamento della Cecchin, all’interno della lavatrice è ritrovata l’arma del delitto, un coltello Opinel con una lama lunga 30 centimetri. Daniela Cecchin era nata nel novembre del 1956, a Montebello, in provincia di Vicenza. Il papà è un ingegnere delle Ferrovie dello Stato; la madre, laureata in matematica, dava lezioni private in casa, per occuparsi dei quattro figli. La famiglia, per ragioni di lavoro del padre, si trasferisce a Firenze. Daniela è una bambina tranquilla, forse un po’ introversa e timida, con una grande passione per la religione, ma sostanzialmente nella norma per una bambina della sua età. Nei primi anni 70, Daniela si iscrive al liceo classico Michelangelo di Firenze. Uno strano mutismo e un atteggiamento di chiusura fanno si che la ragazza è isolata e, a volte, derisa dai compagni di classe, soprattutto per la sua manifesta osservanza della fede. Il disagio sociale ed esistenziale che vive contribuisce ad una serie di fallimenti che aumentano la sua insicurezza e che rappresentano i sintomi di sentimenti di rancore e rabbia verso il mondo. Nell’estate del 1975 consegue il diploma, con la votazione di 42/60, con il seguente giudizio: «Tranquilla, comportamento diligente, più portata alle materie tecnico-scientifiche. Un po’ introversa e silenziosa, molto attenta alla religione». L’implosione arriva l’anno successivo, dopo l’iscrizione alla facoltà di Farmacia, presso l’Università di Firenze, probabilmente per una frustrazione amorosa o un esame andato male. Fatto sta che la ragazza lascia gli studi e si chiude in casa. Trascorre le giornate al buio, leggendo il Vangelo e libri gialli, ascoltando musica sacra e guardando e riguardando film horror di Hitchcock. Che cosa è scattato nella mente di Daniela? E soprattutto perché decide di uccidere? Tre anni prima del delitto, per caso, aveva incrociato per strada a Firenze un suo vecchio compagno di facoltà, Paolo Botteri. Paolo, ai tempi dell’università, era stato l’unico ragazzo ad invitarla ad uscire ed era stato sempre gentile con lei. Lei, peraltro, aveva rifiutato l’invito e Paolo non aveva

insistito più di tanto. Decide di seguirlo, anche nei giorni seguenti, per scoprire dove abita e dove lavora. Paolo, a sua differenza, ha terminato gli studi ed ha aperto una farmacia nel centro di Firenze, ha una moglie, Rossana D’Aniello, e due bambine. La scoperta del contesto familiare e della realizzazione professionale di Paolo Botteri incide grandemente sulle precarie condizioni psichiche della donna. Pensò che forse una vita così sarebbe potuta capitare anche a lei: la felicità, una famiglia, un uomo gentile che non la deridesse. Inizia così a maturare un’invidia verso la vittima, tanto da pedinarla e spiarla al fine di ricostruirne i movimenti e poterla coglierla di sorpresa. L’8 novembre, l’ira e il desiderio di vendetta raggiungono l’apice. Suona alla porta di Rossana D’Aniello, fingendo di dover consegnare un pacco e, quando la donna apre, l’accoltella senza pietà, spingendola all’interno e continuando sino a sgozzarla. Il movente del suo omicidio: “Invidiavo la sua felicità”. Nel dicembre del 2004 la condanna, con rito abbreviato, a 30 anni di reclusione. Nell’aprile del 2006 la sentenza d’appello conferma la condanna inflitta dal GUP, ritenendo l’imputata pienamente in grado di intendere e di volere quando commise l’omicidio. La prima sezione della Corte di Cassazione, nel gennaio del 2007, ne dispone l’annullamento, con rinvio della sentenza di secondo grado, ritenendo le motivazioni prive di «serietà scientifica» sia riguardo il movente dell’omicidio sia riguardo l’asserita mancanza «di segni di un difetto della capacità di intendere e volere» da parte dell’ imputata. Il 30 gennaio del 2008, la Corte d’Assise d’Appello di Firenze, giudicando in sede di rinvio e accogliendo la richiesta di patteggiamento, in base all’accordo tra le parti, ha ridotto a 20 anni di reclusione la pena, giungendo alla seguente conclusione: «Al momento della commissione del reato, Daniela Cecchin era (ed è tuttora) affetta dalla seguente severa infermità: disturbo della personalità paranoide» cosa che ha «grandemente scemato la sua capacità di intendere e di volere». Il Disturbo Paranoide di Personalità, come riportato dalla Direzione degli Psicologi Italia (www.psicologi-italia.it), è

caratterizzato dalla tendenza persistente ad interpretare i comportamenti, le intenzioni e le azioni degli altri come malvagie con la paura ingiustificata di essere attaccati in ogni momento, senza alcuna ragione, finendo per assumere comportamenti sospettosi e ostili. Gli individui che presentano questa patologia vivono in un continuo stato di pericolo e si sentono vittime di complotti in presenza di qualunque gesto o parola che per loro assume un significato di minaccia. Tale comportamento definisce col tempo una chiusura in se stessi e comporta grosse difficoltà ad intraprendere e mantenere relazioni con gli altri. Nel disturbo paranoide di personalità non è la realtà ad essere distorta (come avviene in altre patologie) ma l’interpretazione di essa. Criteri diagnostici Secondo il DSM IV, del Disturbo Paranoide di Personalità sono: • sospetta, senza una base sufficiente, di essere sfruttato, danneggiato o ingannato; • dubita senza giustificazione della lealtà o affidabilità di amici o colleghi; è riluttante a confidarsi con gli altri a causa di un timore ingiustificato che le informazioni possano essere usate contro di lui; • scorge significati nascosti umilianti o minacciosi in rimproveri o altri eventi benevoli; • porta costantemente rancore, cioè, non perdona gli insulti, le ingiurie o le offese; • percepisce attacchi al proprio ruolo o reputazione non evidenti agli altri, ed è pronto a reagire con rabbia o contrattaccare; • sospetta in modo ricorrente, senza giustificazione, della fedeltà del coniuge o del partner sessuale. Ci sono volute ben tre perizie psichiatriche, nell’arco di cinque anni di processi, per “comprendere” la personalità di una donna che, come tante, quotidianamente incrociamo sul nostro cammino. Una donna dallo sguardo glaciale, impenetrabile, che vestiva come una suora laica, che non disdegnava la musica heavy metal e che non aveva esitato a farsi un doppio intervento al seno: per tenerlo su e per tirare fuori il capezzolo. Daniela Cecchin sta scontando la sua pena nel carcere fiorentino di Sollicciano. Alla prossima... H

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30 a cura Francesco Falchi Vice Segretario Regionale del Sappe Toscana rivista@sappe.it

Nella foto accanto al titolo: la dott.ssa Antonella Tuoni

l’intervista

A colloquio con Antonella Tuoni Direttore dell’OPG di Montelupo Fiorentino a riforma del febbraio del 2012 (d.l. 22.12.2011, n. 211, convertito con modificazioni, nella legge n. 9 del 7.2.20129), ha disposto il “definitivo superamento” degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari entro il 1° febbraio 2013, termine peraltro più volte prorogato sino ad arrivare al 31 marzo 2015. Non si tratta dell’abolizione della relativa misura di sicurezza detentiva “terapeutica”, i cui presupposti, oltre alla commissione di un fatto di reato, sono rappresentati dall’accertata presenza di un’infermità psichica e dalla pericolosità sociale, bensì della realizzazione di nuove strutture, su base regionale, che si caratterizzeranno per l’esclusiva gestione sanitaria al loro interno. I sei O.P.G. presenti in Italia – Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, e Castiglione delle Stiviere – saranno gradualmente chiusi e le loro strutture riconvertite in altre tipologie di istituti penitenziari, ad eccezione di quello di Montelupo Fiorentino, in provincia di Firenze, il cui destino resta nell’incertezza più assoluta. L’anomalia di Montelupo ci ha incuriosito a tal punto da indurci ad intervistare la Dott.ssa Antonella Tuoni, Direttore di quell’Istituto Psichiatrico Giudiziario.

L

irettore la ringraziamo della disponibilità a rispondere alle nostre domande, con l’auspicio che il nostro servizio aiuti tutti noi a comprendere le imminenti sorti dell’OPG di Montelupo Fiorentino e del personale dell’Amministrazione che vi opera.

D Polizia Penitenziaria n.229 giugno 2015

Voi siete rimasti l’unico OPG che non è stato ancora convertito dal Ministero della Giustizia – DAP in una casa circondariale. E’ una questione di mancato

adeguamento della struttura o ci sono altre ragioni? Ringrazio a mia volta il SAPPE per la sensibilità che dimostra nel dedicare uno spazio di lettura e di riflessione rispetto al futuro della struttura che dirigo dal 2011 e che impegna circa ottanta poliziotti penitenziari nella multiproblematica gestione degli internati. Premetto che come dirigente penitenziario non posso che recedere di fronte alle decisioni dell’Amministrazione alla quale appartengo. Ciò precisato, non conosco i motivi, poiché non esplicitati alla direzione di Montelupo, che hanno determinato il cambiamento di rotta. Nella Relazione sullo stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria, presentata dal Ministro della giustizia Orlando alla Camera dei deputati e trasmessa alla Presidenza l’8 agosto 2014, a pag. 10, a proposito dell’Ospedale Psichiatrico di Montelupo Fiorentino, si legge testualmente “è stato stipulato il contratto per i lavori di recupero della sezione c.d. Ambrogiana - per 30 posti -, da anni inutilizzata”. Evidente è la volontà ministeriale di riconversione della struttura in carcere ordinario. A fine dicembre 2014, in occasione della tavola rotonda svoltasi a Montelupo Fiorentino, presenti Bassanini (Cassa Depositi e Prestiti), Cantone (Provveditore toscano Amministrazione Penitenziaria), Lotti (Sottosegretario, di Montelupo), Reggi (Agenzia del Demanio), Rossi (Governatore toscano) e promossa dal sindaco di Montelupo Masetti, per la prima volta si parla di dismissione della struttura. Nella stessa progettualità regionale, rispetto ai circuiti penitenziari, fino al dicembre 2014, si è parlato di riconversione della struttura in carcere per detenuti che avessero da scontare pene medio brevi; tanto è vero che nel corso del 2014 è stato finanziato un importante progetto di adeguamento della zona detentiva ad avanzati standard di vivibilità: in particolare è stata prevista

l’installazione di un impianto di ricambio dell’aria delle camere di detenzione a tutela dei non fumatori, ristretti e lavoratori, costata circa 170.000 euro; inoltre, nel novembre 2014, quindi a fine esercizio finanziario, il Provveditorato ha stanziato, per la manutenzione straordinaria dell’istituto, una cospicua somma. In altri termini, fino al dicembre 2014, l’istituto doveva essere riconvertito. Escludo che il ripensamento sia imputabile a deficit strutturali poiché, fermo restando che la porzione della villa destinata a zona detentiva ha ancora necessità di migliorie, dal 2007 ad oggi, secondo una stima, approssimata per difetto, del tecnico che lavora presso la direzione, lo Stato ha speso circa 7.500.000 di euro. La porzione detentiva è sostanzialmente conforme ai parametri del regolamento penitenziario del 2000: tutte le celle sono dotate di bagno con doccia e bidet, ampi sono gli spazi destinati al trattamento e anche i passeggi sono stati completamente ristrutturati. Mi scusi se insisto con la domanda. Ma se la struttura è stata ampliamente riammodernata come mi spiegava e se le somme di denaro pubblico impiegate sono state così ingenti, non sarà per caso che manca sul tavolo del Ministro della Giustizia un valido progetto di riconversione della struttura? La villa reca in sé un’enorme potenzialità poiché consentirebbe, in concreto, di coniugare tre fondamentali articoli della nostra carta costituzionale: l’art. 3, l’art.27 e l’art. 9 i quali parlano di rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, di rieducazione e di tutela del patrimonio artistico. Guardando in prospettiva vedo la parte nobile della villa, restaurata, accessibile a tutti e riqualificata quale polo museale e convegnistico e perché no di


l’intervista intrattenimento e la porzione meno nobile, ex scuderie, riconvertita in istituto penitenziario per detenuti a basso indice di sicurezza, impegnati nella manutenzione, nella ristorazione e comunque al servizio dell’uso della villa. Ci sarebbe anche posto per le donne detenute che potrebbero dedicarsi, per esempio, a una lavanderia per le necessità domestiche e carcerarie del circondario. Vedo, insomma, un istituto in piena simbiosi con il territorio. Un progetto ambizioso che non potrebbe prescindere dalla sinergia dell’Amministrazione Penitenziaria con gli Enti Locali. Pertanto, se non sarà riconfermata l’attuale destinazione d’uso della villa, quale istituto penitenziario, non sarà certo perché manca un progetto valido. Quindi la struttura penitenziaria dell’OPG, prima che possa ragionevolmente tramutarsi in un altro servizio, è destinata alla completa dismissione. A pro di chi o di che cosa? Non mi piace fare dietrologia, preferisco piuttosto essere propositiva. Pertanto le rispondo elencando sinteticamente quelli che ritengo essere i vantaggi conseguenti alla riconversione della struttura in carcere a basso indice di sicurezza, al servizio dell’apertura al pubblico della villa medicea: • Evitare la mobilità dei lavoratori di Montelupo e non solo quelli penitenziari ma anche quelli sanitari; • Capitalizzare i soldi spesi nella ristrutturazione della parte detentiva; • Offrire a circa 150 detenuti condizioni di vita dignitose; • Impiegare la manodopera detenuta in lavori funzionali al godimento della villa (manutenzioni, pulizie, ristorazione…); • Valorizzare un bene artistico riqualificandolo come polo museale, espositivo, convegnistico, di intrattenimento ecc...; • Sfruttare l’accessibilità al pubblico della villa quale creazione di indotto per il territorio comunale; • Offrire condizioni dignitose di lavoro ai dipendenti; • Curare il benessere del personale tramite la realizzazione di spazi ricreativi per il dopolavoro; • Abbattere la recidiva che è scientificamente dimostrato essere inversamente proporzionale all’inserimento lavorativo dei detenuti,

offrendo loro concrete occasioni di riscatto sociale; • Aumentare la sicurezza della collettività attraverso serie strategie di occupazione dei detenuti al servizio del godimento della villa; • Aumentare la ricettività delle strutture penitenziarie toscane decongestionando le grandi case circondariali di Sollicciano e Prato fornendo loro servizi. Sono ben consapevole dei costi della gestione della struttura ma sono altrettanto convinta che un oculato piano di riqualificazione del compendio architettonico dal punto di vista di una detenzione operosa e non oziosa al servizio della collettività possa compensare le spese di funzionamento, fermo restando che lo Stato non è un’azienda e la scelta, rispetto alla destinazione d’uso di un bene demaniale, non può essere orientata da mere ragioni economiche; in soldoni, in termini di risparmio di spesa, il saldo fra costi e benefici non può non tenere in debita considerazione vantaggi immateriali difficilmente quantificabili e che hanno a che fare poco con l’utile finanziario e molto con il welfare.

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Penitenziaria per protesta contro l’atteggiamento che il DAP ed il PRAP mantengono in questa vicenda. Il suo personale davanti a tutto ciò come sta reagendo? Con grande responsabilità e grande senso del dovere. Ho seriamente temuto, da parte del personale, una reazione che potesse mettere a repentaglio i delicati equilibri su cui si regge la quotidianità di un carcere e a maggior ragione di un ospedale psichiatrico giudiziario ove i baschi blu lavorano ormai da anni, per la precisione sette, surrogando l’assenza di operatori dedicati a curare persone internate con gravi patologie psichiatriche. Così non è stato grazie alla maturità di poliziotti che, pure delusi, frustrati e demotivati, hanno saputo incanalare la ferma contrarietà al progetto di consegnare le chiavi all’amministrazione comunale nelle sedi deputate al dialogo con le istituzioni (incontri sindacali, comunicati stampa, consiglio comunale ecc.).

Nel frattempo gli internati che fine hanno fatto? E’ vero che siete rimasti quasi senza utenza? Assolutamente no. Sono ancora presenti circa cento persone internate. Ma se i numeri dell’utenza sono rimasti pressoché invariati, qualcosa tra Legge, REMS e DAP non sta funzionando al meglio. Ci spiega secondo lei perché i numeri degli internati non scendono? Essenzialmente perché le regioni afferenti al bacino di competenza dell’OPG di Montelupo (Toscana ovviamente, Liguria, Umbria e Sardegna) al 1° aprile, contrariamente a quanto previsto dalla legge, non hanno predisposto le strutture recettive ovvero le REMS. E nel frattempo in nostri colleghi “Baschi Azzurri” che fine hanno fatto? Sono ancora qui, esattamente come le persone internate. Il SAPPe non ha sottoscritto la recentissima bozza di intesa locale per la Polizia

Direttore ci dia il suo pronostico sul risultato finale di questa silente partita. Stia attenta che se lo azzecca poi ritorniamo con le telecamere ad intervistarla! Poiché come ho detto preferisco il più rispetto al meno (più benessere, più lavoro, più sicurezza e perché no più bellezza) mi auguro che il Ministro Orlando non firmi il decreto di definitiva dismissione della struttura. Credo che ospitare un carcere in un luogo inserito nel patrimonio mondiale dell’umanità sarebbe un bel lasciapassare per un paese che è ancora sorvegliato speciale da parte della CEDU e credo che se l’OPG fosse davvero dismesso non sarebbe sufficiente l’intervista rilasciata da un semplice direttore di carcere, vi dovreste rivolgere un po’ più in alto. H

Nella foto: l’ingresso dell’OPG di Montelupo Fiorentino

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cinema dietro le sbarre

10 secondi per fuggire a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

americano Jay Wagner, interpretato da Robert Duvall, rimane vittima di un complotto ordito dal ricchissimo nonno Hawk Hawkins e da un suo socio. A seguito della cospirazione dei due, Wagner subisce in Messico un’ingiusta condanna per omicidio e, per questa, viene condannato a ventotto anni di carcere da scontare in un penitenziario messicano. Ann Wagner, la moglie di Jay, però, non si rassegna alla detenzione del marito e si rivolge ad uno spregiudicato avventuriero, Nick Colton, interpretato da Charles Bronson, specializzato in traffici clandestini e in ogni sorta di operazione illecita, per tentare di far evadere Jay dal carcere messicano. Purtroppo, però, Ann è ignara del coinvolgimento del nonno di Jay e finisce ingenuamente per rivelare a Hawk tutti i piani e i progetti di Colton.

la scheda del film Regia: Tom Gries Altri titoli: Breakout Tratto dal racconto "Ten second Jailbreak" di Warren Hinckle, William Turner ed Eliot Asinof Soggetto: Eliot Asinof, William Turner, Warren Hinckle Sceneggiatura: Elliott Baker, Howard B. Kreitsek, Marc Norman Fotografia: Lucien Ballard Montaggio: Bud S. Isaacs Scenografia: Alfred Sweeney Musica: Jerry Goldsmith Costumi: Bill Thomas Effetti: Augie Lohman

L’

Produzione: Columbia Pictures Corporation Distribuzione: CEIAD, Columbia Tristar Home Video Personaggi ed Interpreti: Hawkins riesce, così, per ben due volte, a sventare i tentativi di Nick di far evadere Jay. Fortunatamente per loro, però, Colton non si scoraggia e, dopo aver imparato velocemente a pilotare un elicottero (era già pilota d’aerei), atterra nel bel mezzo del penitenziario

Nick Colton: Charles Bronson Jay Wagner: Robert Duvall Ann Wagner: Jill Ireland Hawk Hawkins: Randy Quaid Myrna: Sheree North J.V: Emilio Fernández Harris Wagner: John Huston Genere: Azione, Thriller Durata: 90 minuti, USA, 1975

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

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e, con l’aiuto di tre amici, imbarca Jay e lo porta in salvo negli Stati Uniti. Dopo aver sventato anche il tentativo di uccisione di Wagner da parte del socio del nonno e finalmente riportato Jay dalla moglie Ann , Nick è libero di godersi la generosissima ricompensa ottenuta per l’impresa. 10 secondi per fuggire non è certo un capolavoro e, pur tuttavia, si lascia guardare piacevolmente e, nonostante alcune situazioni da commedia, riesce a tenere lo spettatore in tensione e incollato davanti allo schermo fino alla fine. H


le recensioni

Maura Manca e Loredana Petrone

LA RETE DEL BULLISMO. IL BULLISMO NELLA RETE ALPES Edizioni pagg. 228 - euro 14,00 l termine bullismo è la traduzione italiana dell’inglese “bullying” e viene definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona più potente nei confronti di un’altra percepita come più debole (Farrington, 1993). Il bullismo si manifesta in tre forme principali. E’ diretto quando si manifesta con attacchi sia fisici sia verbali nei confronti della vittima; è indiretto quando si consuma più sul piano psicologico, ad esempio, con l’isolamento sociale e intenzionale di un minore dal gruppo; è elettronico, quando dal piano reale si sposta su quello digitale, con la diffusione di sms, e-mail, messaggi in chat, immagini, mms, video che sono offensivi o non rispettosi della riservatezza e della dignità altrui. In quest’ultimo caso, si parla di cyberbullismo, fenomeno che rispetto al bullismo tradizionale si distingue per alcune peculiarità: la difficoltà per la vittima di risalire al molestatore; l’indebolimento delle remore morali, agevolato dalla possibilità di celarsi dietro un nickname; l’assenza di limiti spazio temporali nel senso che il cyberbullismo investe la vittima ogni volta che questa si collega alla Rete. Secondo l’indagine “I ragazzi e il Cyberbullismo” realizzata da Ipsos per Save the Children nel 2013, attraverso 810 interviste con questionari compilati online da ragazzi di età compresa fra 12 e 17 anni, nel periodo che va dal 20 al 26 gennaio 2013, i 2/3 dei minori italiani riconoscono nel cyber bullismo la principale minaccia del proprio tempo. E percepiscono, soprattutto le ragazze, alcuni degli ultimi tragici fatti di cronaca molto (33%) o abbastanza (48%) connessi al fenomeno. Per tanti di loro, il cyber bullismo arriva a compromettere il rendimento scolastico (38%, che sale al 43% nel nord-ovest) erode la volontà di aggregazione della vittima (65%, con picchi del 70% nelle ragazzine tra i 12 e i 14 anni e al centro), e nei peggiori dei casi può comportare serie conseguenze

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psicologiche come la depressione (57%, percentuale che sale al 63% nelle ragazze tra i 15 e i 17 anni, mentre si abbassa al 51% nel nord-est). Più pericoloso tra le minacce tangibili della nostra era per il 72% dei ragazzi intervistati (percentuale che sale all’85% per i maschi tra i 12 e i 14 anni e al 77% nel sud e nelle isole, ), più della droga (55%), del pericolo di subire una molestia da un adulto (44%) o del rischio di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile (24%). Tutte queste cifre e considerazioni sono utile per far comprendere l’importanza di questo libro che offre un’attenta analisi del bullismo e le sue nuove manifestazioni (cyberbullismo) sotto un profilo psicologico, sociale e giuridico. Tale fenomeno, sia nella sua forma tradizionale che in quella tecnologica, è fortemente diffuso nelle scuole di ogni ordine e grado. Gli Autori, con il loro libro, forniscono un contributo alla comprensione del bullismo e del cyberbullismo descrivendo, in particolare, le modalità con cui si manifesta e gli esiti psicopatologici a cui vanno incontro bulli e vittime, fornendo alcune linee guida per la valutazione (con il Questionario per la rilevazione del Cyberbullismo) e per la messa in atto di interventi di prevenzione efficaci per contrastarlo. Sono state prese, inoltre, in considerazione le leggi in materia di bullismo in ambito civile e penale dando indicazioni utili per la valutazione del danno da bullismo.

Torreggiani), provvedimenti che hanno ridisegnato l’assetto della fase esecutiva della pena. L’opera, davvero eccellente, offre un supporto del quale non si può fare a meno se si vuole avere una buona conoscenza della normativa penitenziaria. L’esecuzione presso il domicilio delle pene brevi, l’affidamento in prova al servizio sociale e quello terapeutico, la detenzione domiciliare e la semilibertà, la liberazione anticipata speciale, i permessi premio, il lavoro all’esterno, l’espulsione dello straniero, l’esecuzione della pena per i giovani adulti, e molto altro ancora. Il libro non tralascia nulla, davvero nulla, ed è per questo che si configura come uno strumento di ausilio al nostro lavoro fondamentale.

33 a cura di Erremme rivista@sappe.it

Quaderno Antigone

OPG: la follia sta per chiudere? GRUPPO ABELE Editore pagg. 170 - euro 15,00

l primo numero dell’anno del quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario “Antigone” focalizza principalmente l’attenzione sulla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, avvenuta (almeno sulla carta) il 31 marzo a cura di Francesco Caprioli 2015. Ed affronta compiutamente e Laura Scomparin l’argomento, a partire da una interessante ricostruzione della SOVRAFFOLLAMENTO scelta ‘abolizionistica’ e della CARCERARIO E ‘disciplina della follia’. Tra gli DIRITTI DEI DETENUTI altri saggi che compongono il Quaderno, l’illustrazione del G. GIAPPICHELLI Edizioni sistema penitenziario in Guineapagg. 305 - euro 29,00 Bissau, lo studio sugli ostacoli posti dal diritto vivente all’accesso uesto libro si rivela un prezioso e dello straniero irregolare alle valido strumento di consultazione misure alternative alla detenzione, il destino delle pene incostituzionali alla e informazione per tutti coloro che hanno a che fare – per lavoro, studio luce della “sentenza Gatto”, il lungo cammino per l’effettività dei rimedi o semplice interesse – con i temi della risarcitori di cui all’articolo 35 ter giustizia penale, del carcere, della Ordinamento penitenziario. Completano legislazione penitenziaria. Adegua infatti il fascicolo le recensioni a lavori teorici la normativa vigente agli intervenuti e ricerche empiriche che affrontano il provvedimenti di legge approvati in tema del carcere, della giustizia penale relazione alla condanna dell’Italia da e, in generale, del controllo sociale. H parte della CEDU (l’arcinota Sentenza

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l’ultima pagina Ruben De Luca

AMARE UNO STALKER Guida pratica per prevenire il femminicidio ALPES Edizioni pagg. 185 - euro 16,00 on il solito libro teorico sullo stalking, ma una guida di facile lettura piena di esempi pratici sul comportamento dei manipolatori durante una relazione sentimentale. Dopo aver analizzato

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come amano uomini e donne e i cambiamenti della società italiana responsabili dell’attuale epidemia di “femminicidi”, il manuale elenca una serie di indicazioni per uscire da una relazione patologica “prima che sia troppo tardi”. Tutte le frasi, i consigli e i suggerimenti sono tratti da casi realmente accaduti e da situazioni di vita quotidiana. L’ultimo capitolo tratta l’“autodifesa psicologica”, l’insieme di strategie utili per prevenire i

crimini. Una donna sicura di sé, con un atteggiamento assertivo e capace di valutare correttamente i pericoli ambientali, è una donna che difficilmente diventerà vittima e vivrà un’esistenza libera da condizionamenti negativi. Prefato da Cinzia Tani, offre una disamina approfondita su un tema, purtroppo, sempre più al centro delle cronache. Una lettura imprescindibile per chi vuole affrontare l’argomento per studio, lavoro o anche solo per conoscenza. H

Comunicato agli abbonati Per esigenze di Poste Italiane si è dovuto procedere alla revisione del database per la spedizione della Rivista. Qualora si fossero verificate delle esclusioni, si pregano i sigg. abbonati di comunicarlo tempestivamente alla Redazione.

il mondo dell’appuntato Caputo L’unificazione delle Forze di Polizia secondo Caputo di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2015

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www.mariocaputi.it

Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it

Formato 15 x 23 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052



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