Polizia Penitenziaria n.269 febbraio 2019

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PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza anno XXVI • n.269 • febbraio 2019

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1999-2019 venti anni di G.O.M.

2421-2121

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28 Polizia Penitenziaria

In copertina:

Società Giustizia e Sicurezza

il fregio del Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria

04 EDITORIALE Il Sappe esprime solidarietà al Professor Palma di Donato Capece

05 IL PULPITO Il male del Dap è che la poltrona di Capo “vale” trecentoventimila euro di Giovanni Battista de Blasis

06 IL COMMENTO L’uniforme di servizio e il senso di appartenenza al Corpo di Polizia Penitenziaria di Roberto Martinelli

08 L’OSSERVATORIO POLITICO Beppe Grillo sulla “Diciotti”: «Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste» di Giovanni Battista Durante

10 VENTENNALE DEL GOM Auguri ed onori al G.O.M. che compie 20 anni

anno XXVI • n. 269 • febbraio 2019 13 CHI SIAMO?

22 CRIMINI & CRIMINALI

14 CRIMINOLOGIA

18 DIRITTO E DIRITTI Interruzione di un servizio di pubblica utilità di Giovanni Passaro

20 DALLE SEGRETERIE Gold Medal per Stefano Pressello all’11ème édition de l’Eurometropole Master France 2019

21 CINEMA DIETRO LE SBARRE Un condannato a morte è fuggito a cura di G. B. de Blasis

Società Giustizia e Sicurezza

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

24 MONDO PENITENZIARIO

La mediazione penale con la vittime e la tutela dell’affettività nel nuovo Ordin. Pen. Minorile di Roberto Thomas

PoliziaPenitenziaria Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Concordia: un inchino costato trentadue morti di Pasquale Salemme

Analisi ragionata sulle linee guida del Capo Dap di Chiara Sonia Amodeo

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 • fax 06.39733669 e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2019 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994

Chi è il poliziotto penitenziario e perchè il burnout? di Francesco Campobasso

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Il materiale in consegna al personale del Corpo di Gerardo Canoro

27 L’AGENTE SARA RISPONDE... Convocazione come teste in Tribunale

28 COME SCRIVEVAMO Alle origini del manicomio criminale di Assunta Borzacchiello

31 SICUREZZA SUL LAVORO Stress da lavoro correlato di Luca Ripa

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Cod. ISSN: 2421-1273 • web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: febbraio 2019 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

Edizioni SG&S

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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L’EDITORIALE

Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Il Sappe esprime solidarietà al Professor Mauro Palma lanciandogli un appello

N Nella foto: il Professore Mauro Palma

ei giorni scorsi il SAPPE (in particolare il blog di questa Rivista, disponibile all’indirizzo www.poliziapenitenziaria.it) si è trovato, suo malgrado, al centro di una sgradevole polemica mediatica. Faccio riferimento alla notizia che il Garante nazionale delle persone private della libertà avrebbe presentato una querela contro ignoti per alcuni commenti apparsi nella pagina Facebook della Rivista “Polizia Penitenziaria – Società, Giustizia & Sicurezza”. Su quella pagina era stato pubblicato un articolo, ripreso da un quotidiano, che parlava del “Rapporto sul regime detentivo del 41bis” redatto dalla citata Autorità di Garanzia e controllo. Tantissimi sono stati i commenti critici, tra i quali diversi – inaccettabili! – che indirizzavano al Professor Palma inqualificabili minacce e volgari insulti. Proprio a seguito delle numerose segnalazioni che ci sono arrivate, la Redazione, verificato il non condivisibile ed inappropriato contenuto, ha deciso di rimuovere il post. Al riguardo la Rivista “Polizia Penitenziaria – Società, Giustizia & Sicurezza” ha preso pubblicamente le distanze dai contenuti dei commenti al post, evidenziando che gli stessi rispecchiavano esclusivamente l’opinione di coloro che li hanno scritti. In quel contesto, è stata espressa stima ed apprezzamento nei confronti del Professor Mauro Palma, che la redazione della Rivista e il Sappe ritengono essere personaggio di alto profilo umano e professionale. Quel che mi dispiace è che vi è stato chi ha preso spunto da quei vergognosi commenti, come pretesto per puntare il dito contro il primo Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria, il SAPPE, che alcuna responsabilità ha avuto ed ha in questa sgradevole polemica mediatica. Parlo di taluni esponenti di associazioni varie che gravitano ed operano a vario titolo in questo particolare settore dell’esecuzione penale (la c.d. Comunità detentiva), che hanno preso la palla al balzo per criticare il SAPPE che,

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ripeto, altro non ha fatto se non ripubblicare sulla pagina Facebook di questa Rivista un articolo di altro organo di informazione. Ad ogni modo, e per sgombrare il campo da ogni equivoco, Noi abbiamo pubblicamente rinnovato stima ed apprezzamento nei confronti del Professor Mauro Palma, anche se continueremo a denunciare il clima che si vive nelle carceri del Paese, che spesso vede i poliziotti penitenziari soccombere alle violenze di frange violente di detenuti. C’è chi, forse, non vorrebbe che questo si dicesse, ma la situazione penitenziaria si è notevolmente aggravata rispetto al 2017. I numeri riferiti agli eventi critici avvenuti tra le sbarre delle carceri italiane nel 2018 sono inquietanti: 10.423 atti di autolesionismo (rispetto a quelli dell’anno 2017, già numerosi: 9.510), 1.198 tentati suicidi sventati in tempo dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria (nel 2017 furono 1.135), 7.784 colluttazioni (che erano state 7.446 l’anno prima). Alto anche il numero dei ferimenti, 1.159, e dei tentati omicidi in carcere, che nel 2018 sono stati 5 e nel 2017 furono 2. E va anche detto che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri sono passate alla vigilanza dinamica ed al regime penitenziario ‘aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria. E va detto, ancora, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, guidato da Francesco Basentini, non è stato ancora in grado di mettere in campo efficaci strategie di contrasto a questa spirale di sangue e violenza. Perciò, sarebbe davvero apprezzabile se fosse proprio il Professor Palma a recepire questo nostro grido d’allarme, sollecitando anch’egli le Autorità competenti ad assumere provvedimenti immediati per frenare la spirale di violenza che, purtroppo, caratterizza le nostre carceri. F


IL PULPITO

Il male del Dap è che la poltrona di Capo “vale“ trecentoventimila euro

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no dei precetti non scritti del mondo militare (o militarmente organizzato) asserisce: “Quando la truppa si lamenta, aumenta lo stipendio ai generali.” Al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria questo principio è diventato una regola aurea. E, per di più, nel palazzone di largo Daga di “generali” ce ne sono davvero tanti ...troppi. E tutti con retribuzioni altrettanto “auree”. Al vertice dell’apparato siede, com’è noto, il Capo Dap che, come è meno conosciuto, assume anche il ruolo e le funzioni di Capo della Polizia Penitenziaria, con tutte le prerogative che ne conseguono. Una delle prerogative principali, dagli effetti puramente economici, è l’attribuzione di una indennità speciale di comandante generale di una forza di polizia, ovviamente in comune con gli altri tre corpi. Questa indennità, prima della crisi economica e della conseguente introduzione di un “tetto” alle retribuzioni dei dirigenti pubblici (stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione), aveva fatto raggiungere compensi astronomici, fino ad una cifra complessiva di oltre 500.000 (cinquecentomila) euro. Ad horas, lo stipendio del nostro Capo Dipartimento (in quanto Capo della Polizia Penitenziaria) si attesta complessivamente intorno ai 320.000 (trecentoventimila) euro. Un’altra prerogativa dell’incarico (cosa altrettanto sconosciuta ai più) è che l’indennità acquisita rimane anche dopo aver lasciato il posto e, addirittura, anche sul trattamento pensionistico. Insomma, chi diventa Capo del Dipartimento dell’Amministrazione

Penitenziaria raggiunge uno stipendio di 320.000 (trecentoventimila) euro e lo mantiene per sempre, vita natural durante! Inevitabilmente, la poltrona di capo del Dap è uno degli incarichi dirigenziali più ambiti e desiderati dello Stato italiano. Per questa ragione, nonostante siano anni, forse decenni, che continuiamo a lanciare sos sulla necessità che a capo del Dap sia nominato un manager, esperto di organizzazione e, soprattutto, di gestione delle risorse umane, continuiamo a subire la nomina di Capi Dipartimento che non hanno alcuna cognizione di che cosa significhi comandare un Corpo di polizia e senza esperienza manageriale in senso stretto. Questa è anche la ragione per cui la durata media dell’incarico non supera i due anni: dal 1991 ad oggi abbiamo avuto 12 capi dipartimento (più tre reggenti), tutti rigorosamente beneficiari per sempre dell’indennità speciale. In buona sostanza, siamo un Corpo militarmente organizzato comandato da qualcuno che sa poco e niente di organizzazione militare, ma che per farlo percepisce uno stipendio dodici volte superiore a quello di un agente. In buona sostanza, con lo stipendio di Basentini potrebbero essere assunti dodici agenti, così come con lo stipendio di tutti gli altri “generali” ne potrebbero essere assunti centinaia (forse migliaia) fino a ricostruire l’architettura originale della piramide, da mettere al posto di quella “rovesciata” che vediamo adesso. E poi, francamente, nell’Italia della crisi, nell’Italia della recessione, nell’Italia degli esodati, nell’Italia dei disoccupati, nell’Italia dei cassintegrati ...fa davvero impressione sentir parlare di certe retribuzioni. F

Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

I CAPI DELLA POLIZIA PENITENZIARIA 1) Nicolò AMATO (incarico 1991-1993) 2) Adalberto CAPRIOTTI (incarico 1993-1995) 3) Salvatore CIANCI (incarico 1995-1996) 4) Michele COIRO (incarico 1996-1997) 5) Alessandro MARGARA (incarico 1997-1999) 6) Giancarlo CASELLI (incarico 1999-2001) 7) Giovanni TINEBRA (incarico 2001-2006) 8) Giovanni FERRARA (incarico 2006-2008) 9) Franco IONTA (incarico 2008-2012) 10) Giovanni TAMBURINO (incarico 2012-2014) 11) Santi CONSOLO (incarico 2014-2018) 12) Francesco BASENTINI (incarico 2018- ) (più i periodi di reggenza di Salvatore VECCHIONE, Giuseppe FALCONE e Paolo MANCUSO)

Nella foto Francesco Basentini

RETRIBUZIONE*

CAPO DAP

AGENTE PP

all’anno

320.000 euro

26.000 euro

al mese

26.000 euro

2.160 euro

876 euro

71 euro

all’ora

36 euro

3 euro

al minuto

60 cent

4 cent

al giorno

*(RETRIBUZIONE LORDA)

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IL COMMENTO

Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto: mostrine e insegne di qualifica

L’uniforme di servizio ed il senso di appartenenza alla Polizia Penitenziaria l Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha recentemente diramato una lettera circolare, la m_dg.DAP.22/02/2019.0061270.U, sull’utilizzo dell’uniforme degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.

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connaturata funzione di modello ed esempio per tutto il personale e di rappresentanza del Corpo verso "l'esterno" cui essi sono chiamati. “Mi rivolgo”, scrive ancora, “anche ai Signori Generali che continuano con orgoglio a vestire l'uniforme del glorioso Corpo degli Agenti di

In essa, indirizzata ai Direttori Generali del DAP e ai Provveditori regionali ed inviata per conoscenza anche ai Generali del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia e ai dirigenti e funzionari del Corpo, è contenuto un richiamo ad un corretto utilizzo dell’uniforme di servizio, “osservando scrupolosamente quanto stabilito dal regolamento del signor Ministro della Giustizia”. Il riferimento è al Decreto Ministeriale del 10 dicembre 2014 recante appunto le “Caratteristiche delle uniformi del Corpo di Polizia Penitenziaria e criteri concernenti l’obbligo e le modalità d’uso”. Basentini chiede ai Direttori generali ed ai Provveditori regionali di sensibilizzare il personale appartenente alla carriera dei funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria ad attenersi alle precitate disposizioni in maniera ancor più rigorosa, stante l'intrinseca e

Custodia”, che conclude la nota dipartimentale disponendo che “in occasione di ricorrenze, incontri istituzionali, ma anche convocazioni, commissioni e riunioni con i vertici o comunque occasioni di carattere pubblico, il personale è tenuto ad indossare l'uniforme ordinaria”. Esprimo, nel merito, qualche considerazione. In un ordinamento democratico, il comportamento istituzionale testimonia il livello di civiltà del contesto e dei suoi attori. Spesso, però, è giudicato non indispensabile e ciò produce conseguenze negative. Si può infatti essere bravissimi nel proprio lavoro ma, se non si sa come farlo, quasi tutto è perduto. Recentemente, nel suo discorso di fine anno, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sentito l’esigenza di rimarcare il bisogno di comunità dell'Italia e di come difendere

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l'immagine positiva del nostro Paese: «Sentirsi “comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese». In questo contesto, particolare importanza assume l’osservanza della deontologia professionale, che racchiude norme sociali, morali e di buon senso: un insieme di regole che, sostanzialmente, qualificano il rapporto tra chi offre una prestazione e chi ne usufruisce, che esprime i principi di riferimento, le norme di comportamento ed i vincoli a cui attenersi. “Nell’esercizio anche del più umile dei mestieri lo stile è un fatto decisivo”, evidenziò Heinrich Böll, considerato uno dei maggiori rappresentanti della cultura tedesca del dopoguerra, nella sua opera “Lontano dall’esercito”. Se la cultura della legalità deve essere - ed è! - uno strumento di prevenzione che coinvolge trasversalmente tutte le figure professionali a contatto con le persone in esecuzione penale, uno degli impegni fondamentali che caratterizza la mission istituzionale dell’Amministrazione e del Corpo di Polizia Penitenziaria è quello di alimentare e incrementare la cultura della gestione della detenzione basata sul principio della legalità e sul rispetto della dignità della persona. L’Amministrazione Penitenziaria è una realtà che esprime valori forti e condivisi, professionalità, uomini e donne che lavorano con entusiasmo e abnegazione. La deontologia professionale, come noto, è l’insieme delle regole etiche e


IL COMMENTO di correttezza (scritte e non, normalmente formalizzate e variamente denominate – ad esempio codici etici, di condotta, deontologici) che disciplinano il comportamento da tenere nell’esercizio di una determinata professione. Esistono, infatti, codici e norme che disciplinano la deontologia professionale degli avvocati, dei commercialisti, degli ingegneri, degli architetti, dei giornalisti A mio avviso, la deontologia professionale nel Corpo di Polizia Penitenziaria è non solo importante ma fondamentale perché identifica e qualifica – verso gli altri l’appartenenza alla nostra Istituzione, anche in relazione alla specificità dell’impegno ed alla efficienza funzionale. Essa caratterizza l’identità e l’appartenenza, che presuppongono il possesso di solide radici ideali e storiche a cui fare riferimento per capire meglio se stesso ed il proprio percorso di vita professionale. “Al rispetto delle regole di forma, nessuna istituzione, azienda o privato può sottrarsi se non vuole far decadere la propria immagine”, ha infatti autorevolmente evidenziato l’Accademia del Cerimoniale. Il poliziotto penitenziario deve dedicare particolare attenzione, specie nelle relazioni interprofessionali ed interpersonali, proprio alla cura della forma e dell’immagine. “Al rispetto delle regole di forma, nessuna istituzione, azienda o privato può sottrarsi se non vuole far decadere la propria immagine”, ha infatti autorevolmente evidenziato l’Accademia del Cerimoniale. L’uniforme non è un semplice pezzo di stoffa, intercambiabile con qualsiasi altro abbigliamento più generico. Dentro di essa c’è un pezzo di storia, la “nostra” storia... Avere rispetto per come si indossa l’uniforme significa aver rispetto e onore per il Corpo di Polizia Penitenziaria, per la propria Patria, senza mai dimenticare il sacrificio umano pagato dai nostri Caduti. L’uniforme merita rispetto: è simbolo di unità, legalità e sicurezza: è segno

di appartenenza. Chi la indossa, dunque, deve sempre farlo con attenzione e onore: fregiandosi, ad esempio, con stemmi, distintivi e simboli di cui si è stati autorizzati ad indossare. Oltre a trasmettere significati storici e di tradizione (con slancio nel futuro), l’uniforme ha anche un valore fondamentale: crea, già di per sè stessa e poi anche per esplicitazione, un senso di appartenenza, di identità e di relazione. Il senso di appartenenza contribuisce a definire i confini e la struttura di un certo sistema sociale, gruppo, associazione, movimento o Stato: pone il soggetto in una specifica posizione sociale, secondo precise caratteristiche di status e di ruolo. E gli altri giudicheranno, noi e l’Istituzione che rappresentiamo, per come portiamo l’uniforme: “Nate inizialmente per distinguere i nemici dagli amici sul campo di battaglia, le divise militari e quelle delle forze dell'ordine sono diventate uno dei modi per sottolineare esteriormente la propria identità. Un'identità che punta tutto sul gruppo, sullo spirito di corpo, sulla storia che quella divisa incarna. Accanto all'abito d'ordinanza, infatti, c'è un insieme di accessori, di atteggiamenti, di comportamenti e di regole che spiegano per filo e per segno chi è, e che cosa deve pensare, chi lo indossa. Un edificio di norme difficili da catalogare come il frutto di processi storici, visto che molti di questi aspetti appartengono a eserciti di culture ben diverse tra loro sia per epoca sia per collocazione geografica”. Proprio recentemente, in relazione ad alcuni episodi che hanno visto usi impropri ed abusi della nostra uniforma, è stato ripubblicato nel numero di gennaio della nostra Rivista “Polizia Penitenziaria – Società, Giustizia & Sicurezza” un articolo storico tratto dalla Rivista “L’Agente di Custodia” pubblicato più di sessant’anni fa (1955). L’articolo “Amiamo la divisa”, scritto da un collega - “Domenico Canestraro, sottocapo degli AA.CC.,

scritturale presso il Ministero di Grazia e Giustizia”, rende compiutamente l’idea dell’importanza e della rilevanza dell’uniforme del Corpo: “...La prima cosa che colpisce il detenuto è il nostro aspetto esteriore. Egli, che sta lì a guardarci, si farà immediatamente un concetto della nostra personalità dal modo come indosseremo la divisa e dalla cura che dimostreremo di avere della stessa. Come nella vita libera si deve considerare superato il detto che l’abito non fa il monaco, in quanto, ovviamente, non può ispirare simpatia od avere successo

chi sia trasandato nel vestire, così in quella delle prigioni si imporrà al rispetto e, oserei dire, alla considerazione del detenuto quell’agente che gli si presenterà con la divisa in ordine e pulita. Ognuno di noi sente l’imperativo di imporre la divisa in pubblico ed è orgoglioso di indossarla con quella sobria eleganza che desta la cameratesca simpatia degli appartenenti alle altre Forze Armate dello Stato e i favorevoli commenti dei cittadini. Non altrettanto, è inutile negarlo, sentiamo questo imperativo verso i detenuti. Incominciamo col commettere un profondo errore di valutazione, ritenendo che non occorra fare buona figura e che un abbigliamento dimesso meglio si confaccia al luogo ed alle persone. In tal modo veniamo a sminuire noi stessi e la nostra funzione ed a dimenticare i doveri di carattere educativo che abbiamo verso i

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Nella foto: un gruppo bandiera

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IL COMMENTO

Nelle foto: un’insegna di qualifica a destra Beppe Grillo

detenuti... Amiamo la divisa non soltanto in senso figurato, in quanto emblema della nostra attività volta alla vigilanza ed al riscatto morale di una umanità dolorante, ma amiamola anche col non sottoporla ad ingiustificata usura, col conservarla accuratamente. Nelle nostre abitazioni, nelle caserme togliamoci la divisa di dosso senza gettarla in un angolo o accatastarla alla rinfusa nella cassa d’ordinanza come se non ce ne dovessimo servire più, più ma, prima di metterla a posto, dedichiamo ad essa un po’ del nostro tempo allo stesso modo che lo dedicheremmo al nostro migliore vestito che ci sia costato fior di quattrini: lo Stato ci fornisce la divisa gratis, ma siamo noi a pagarla, direttamente e

proposito della vicenda Salvini, relativa alla nave Diciotti e all’autorizzazione a procedere, com’è noto il M5S, attraverso la piattaforma Rousseau, ha chiesto ai propri iscritti di esprimersi sulla linea che i senatori avrebbero dovuto tenere in commissione. Sulla questione è intervenuto Beppe Grillo, il quale ha affermato "Se voti Sì vuol dire No. Se voti No vuol dire Sì. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!", scrive Grillo sui social network. Il riferimento è alla formulazione del quesito. Ovvero: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?"

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al processo, attraverso il si, in risposta alla domanda formulata. Se così fosse, Grillo ha avuto ragione, perché le cose sono andate proprio in questo modo. Molto più interessante, invece è apparso il riferimento alla sindrome di Procuste, che prende il nome da un personaggio della mitologia greca, di statura e forza straordinarie che viveva sulle colline dell’Attica, dove faceva il locandiere e affittava le camere ai viandanti solitari che lì si fermavano per ristorarsi. Si narra che disponesse di due letti di dimensioni completamente diverse: uno molto grande e l’altro molto piccolo, in modo che nessuno vi si adattasse perfettamente, cosa che lui intimamente desiderava. Quando dormivano li legava ai quattro

indirettamente, in quanto non è chi non sappia che lo Stato è universalità dei cittadini che lo compongono e non è chi non consideri che le nostre paghe sarebbero più elevate se dovessimo provvedere direttamente noi al vestiario. Previa, perciò, una buona, energica spazzolata, assicuriamoci che la nostra divisa sia completamente in ordine, che non manchi di un bottone, che non necessiti di qualche piccolo punto, di un colpo di ferro o di un po’ di detersivo. Oltre tutto, saremo al coperto, quando dovremo indossarla di nuovo, da sorprese che non sempre avremo il tempo o l’opportunità di riparare...”. Parole scritte più di sessant’anni fa, ma ancora attuali, valide ed utili a rivendicare il nostro orgoglio di appartenenza al Corpo di Polizia Penitenziaria. F

E’ evidente che chi vota si chiede ai senatori di non autorizzare il processo a Salvini, viceversa, chi vota no, chiede il contrario. La citazione del comma 22 era invece riferita al romanzo di Joseph Heller che racconta le vicende di un gruppo di aviatori statunitensi appartenenti a uno stormo di bombardieri operante in Italia durante la seconda guerra mondiale. Il Comma 22 stabilisce che "chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo". Quindi, c'era l'illusione di una scelta che in realtà nascondeva un'opzione obbligata. Il riferimento è apparso a tutti improprio, atteso che comunque due opzioni c’erano. Forse Grillo voleva alludere al fatto che comunque avrebbe prevalso il no

angoli del letto ed era più piccolo. Procuste continuò nei suoi macabri rituali, fino a quando Teseo lo sfidò a vedere se il suo corpo si adattava alle dimensioni del letto. Una volta sdraiato, Teseo lo legò al letto e lo imbavagliò, dopo di che gli fece lo stesso trattamento che lui aveva riservato ai suoi ospiti per lungo tempo. In seguito, la storia di Procuste iniziò a indicare tutte quelle persone che non sono tolleranti verso chi è diverso o migliore. E’ diventata col tempo oggetto di interesse della psicologia, dove, con sindrome di Procuste, ci si riferisce al disprezzo che una persona prova nei confronti di quegli individui che hanno maggiori capacità e talento. Non si tratta solamente di una sensazione negativa ma, spesso, si traduce anche in azioni tendenti a ed a sabotare l’altro.

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L’OSSERVATORIO POLITICO

Beppe Grillo sulla “Diciotti“: «...Siamo tra il comma 22 e la Sindrome di Procuste!» Chi soffre di queste sindrome è generalmente frustrato e trova soddisfazione nel mettere in atto una competitività negativa, tendente ad ostacolare la persona che ha più talento e, quindi, maggiore possibilità di successo. Si tratta quindi di un disturbo di carattere psicologico che nasce dal non saper accettare la propria condizione, rispetto a persone più dotate o preparate.

per sviluppare disturbi mentali, dato che mostrano un comportamento assolutamente disadattivo. La cosa più interessante e curiosa è che queste persone finiscono per autocondannarsi proprio a ciò che vorrebbero evitare: la mediocrità. I consigli degli esperti per riconoscerli. Si tratta in genere di persone che: • assumono un atteggiamento prepotente, per nascondere

• faticano ad accettare le idee degli altri, le uniche valide sono le loro. Costringono gli altri a seguirle alla lettera, in modo da ottenere assoluta uniformità; • tendono ad accaparrarsi tutti gli incarichi possibili. E’ evidente che non è facile vivere accanto a persone che hanno la sindrome di Procuste. Gli esperti sostengono che la cosa migliore da fare sia di boicottare la

Per dirla in termini più chiari: dal non saper accettare la propria mediocrità. Queste persone non accettano che qualcuno brilli più di loro perché pensano che gli faccia ombra e, quindi, sono loro a gettare ombra su coloro che ritengono dei rivali, al fine di offuscarne le doti e le capacità. Mentre Procuste tagliava gli arti e le teste, queste persone ricorrono al boicottaggio continuo, alla denigrazione sistematica, quando possono all’umiliazione psicologica. Invece di cercare di migliorarsi e sviluppare le proprie capacità decidono di limitare quelle degli altri. Sono persone che spesso distorcono la realtà, perché vivono in un mondo parallelo, creato da loro, dalle loro idee su come dovrebbe essere la realtà. E’ del tutto evidente che vivere in questo modo è stressante, tant’è che queste persone finiscono, molte volte,

l’insicurezza e il sentimento di inferiorità. La paura di perdere la propria posizione li spinge a far inciampare gli altri. La paura e l’insicurezza, spesso, si manifestano attraverso l’arroganza; • reagiscono mettendosi sulla difensiva e attaccando, perché chiunque può diventare un nemico; • deformano la realtà a proprio vantaggio. Invece di accettare la realtà la manipolano affinchè corrisponda all’immagine che essi hanno della realtà; • sono intolleranti, perché non tollerano le differenze; • tendono ad accumulare molte responsabilità e sono infastiditi quando i compiti vengono affidati ad altri, perché lo ritengono un attacco personale; • sono resistenti al cambiamento, perché temono di non riuscire ad adattarsi;

loro strategia, senza perdere la calma. In alcuni casi non si può cambiare il loro modo di essere, ma si può impedire di essere colpiti dagli attacchi. Bisogna sempre avvalersi dell’incontestabilità dei fatti, senza cadere in inutili confronti. E’ importante capire le dinamiche mentali di queste persone ed evitare, se possibile, che ci percepiscano come potenziali nemici. E’ anche importante evitare di trasformarci noi stessi in Procuste. La sindrome può nascere anche da una piccola invidia, da un sentimento di inferiorità o un obiettivo mancato. Per tornare al messaggio di Beppe Grillo, non è che il comico genovese abbia anche voluto mettere in guardia il movimento dalla possibilità che molti di loro possano trasformarsi in novelli Procuste, a seguito del crescente successo della Lega, da quando sono al governo insieme? F

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe giovanni.durante@sappe.it

Nelle foto: sopra migranti sulla nave “Diciotti“ al centro la raffigurazione della storia di Procuste su un antico vaso greco


IL GRUPPO OPERATIVO MOBILE

Il Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria compie vent’anni di vita

Auguri ed onori al GOM

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l Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria è stato istituito con DM 19 febbraio 1999 firmato dal Ministro Oliviero Diliberto con il compito di curare le traduzioni ed i piantonamenti dei detenuti e internati ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione processuale, da effettuare, per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia. Oltre a ciò, fu demandato al Gruppo Operativo Mobile di provvedere o partecipare al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis Ordinamento Penitenziario, laddove esistesse l’opportunità di ulteriori misure di sicurezza; nonché dei detenuti “collaboratori di giustizia” ritenuti

di maggiore esposizione a rischio. E, ancora, intervenire nei casi previsti dal primo comma dell’art. 41 bis legge 26 luglio 1975 n. 354 e curare l’esecuzione di servizi di tutela e scorta assegnati alla responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria dal Comitato provinciale o nazionale dell’Ordine e della Sicurezza Pubblica allorché interessassero personale in servizio presso l’Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di rischio personale. Al GOM fu anche chiesto di predisporre il servizio videoconferenze e, per quanto riguarda questo servizio, il personale Polizia Penitenziaria del Gruppo Operativo Mobile fu inviato a frequentare uno specifico corso di formazione, presso la Telecom. Il personale formato fu successivamente distribuito negli

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istituti penitenziari individuati come sedi per le video conferenze e tale servizio fu, in un secondo tempo, ceduto al personale effettivo del Corpo colà in servizio. Il GOM, nel corso degli anni è stato chiamato più volte per effettuare le perquisizioni straordinarie anche in Istituti dove non sono presenti detenuti ristretti ex art. 41 bis O.P., isole comprese. Nell’anno 2001, il personale del Gruppo Operativo Mobile, secondo la dicitura dell’epoca, contribuisce alla sicurezza del G8 di Genova, occupandosi della scorta degli arrestati e fornendo utili informazioni in sinergia con la Centrale Operativa interforze istituita ad hoc, circa la viabilità in quei giorni cruenti. Dal 4 giugno 2007, a seguito di una più generale riorganizzazione


VENTENNALE

strutturale dell’ Amministrazione Penitenziaria, è stato emanato un nuovo DM per attribuire al Gruppo Operativo Mobile una maggiore e più efficiente versatilità operativa, dettagliandone compiti e funzioni. Il suo Direttore, da allora, viene nominato dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tra gli ufficiali Generali del Ruolo ad esaurimento del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia fino alla disponibilità di qualifiche dirigenziali nei ranghi della Polizia Penitenziaria. Attualmente è diretto dal Generale di Brigata Mauro D’Amico. Lo schema logico strutturale, con cui quest’ultimo provvedimento ministeriale ha riorganizzato il Gruppo Operativo Mobile, prevede delle deleghe, intrinseche all’incarico dirigenziale, che consentono

un’autonoma gestione delle risorse umane e strumentali per intervenire in tutte quelle situazioni di fatto che per la loro criticità debbono essere gestite con le modalità tipizzate dal primo comma dell’art. 41 bis o.p. e di assolvere ai prescritti compiti di vigilanza e custodia dei detenuti destinatari del provvedimento indicato dal secondo comma dell’appena citato art. 41 bis. Per lo svolgimento dei compiti stabiliti dal secondo comma dell’art. 2 del DM del 2007, l’allora Ministro della Giustizia attribuì al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la competenza in ordine alla determinazione dell’organico del personale di Polizia da assegnare al Gruppo Operativo Mobile, su proposta del Direttore del GOM, acquisito il parere della Direzione Generale del

Personale e sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative del Corpo. Il Capo Dap dispose anche l’istituzione dei reparti periferici, presso gli istituti ed i servizi della Amministrazione Penitenziaria, per realizzare in concreto le disposizioni impartite ai sensi dell’art. 41 bis o.p. Attualmente il GOM è costituito da una sede logistica, dislocata presso la Scuola di Formazione Giovanni Falcone di Roma, dove ha sede l’ufficio del Direttore e dove è custodita la Bandiera di Istituto concessa al Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria con DPR dell’11 marzo 2011, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 71, del 28 marzo del 2011. Al personale del Gruppo Operativo Mobile è stata concessa la

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Nelle foto: immagine del Gruppo Operativo Mobile

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VENTENNALE

Nelle foto: immagine del Gruppo Operativo Mobile

Benemerenza dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile per le attività svolte durante il terremoto dell’Aquila. Dal Direttore del Gruppo Operativo Mobile dipendono 12 reparti periferici, 11 dislocati negli istituti penitenziari del centro nord ed uno presso la Casa Circondariale di Sassari, un centro servizi, situato presso il polo di Rebibbia a Roma, un’aliquota di personale presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria per la gestione dei maxi-processi e un’autorimessa, così denominata dall‘Amministrazione Centrale, dove vengono accentrati tutti gli automezzi acquistati dal DAP per essere successivamente assegnati alle varie sedi. Sin dalla sua istituzione il Gruppo Operativo Mobile ha prioritariamente svolto i compiti di custodia e vigilanza dei detenuti sottoposti allo speciale regime penitenziario previsto al secondo comma dell’art. 41 bis della legge n. 354/75, mantenendo a tutt’oggi il principio, già ritenuto rilevante, della rotazione del personale nei vari Reparti Operativi Mobili presenti sul territorio nazionale. F

I Direttori del Gruppo Operativo Mobile Dal 1999 al 2004 Gen. Alfonso Mattiello; Dal 2004 al 2005 Gen. Domenico Scialla; Dal 2005 al 2005 Ten. Col. Bruno Pelliccia; Dal 2005 al 2007 Gen. Mauro D’Amico; Dal 2007 al 2012 Gen. Alfonso Mattiello; Dal 2012 ad oggi Gen. Mauro D’Amico.

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CHI SIAMO?

Analisi ragionata sulle linee guida del Capo Dap

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eggendo il documento stilato dal Capo del Dipartimento ho sentito la necessità di effettuare una recensione e di pronunciarmi su alcuni temi affrontati. E’ innanzitutto rassicurante, seppur scontato, vedere che ha captato i principali problemi dell’amministrazione, cioè la sua condizione generalmente complessa e disarticolata. Andando al punto 2 del testo si parla dell’importanza della comunicazione a partire dal personale direttivo degli istituti, passando per i provveditorati fino ad arrivare al Dipartimento. Beh qui è necessario fare una pausa e chiedersi se non sia necessario aprire magari un indirizzo di posta elettronica in cui i dipendenti possano scrivere direttamente al Capo del Dipartimento perché negli istituti, quando vengono fatte presenti mancanze e necessità alle Direzioni, la risposta è sempre e solo una: “Non ci sono i soldi!” Peccato che fonti ufficiose affermano che quest’anno non sono stati utilizzati la bellezza di milioni di euro che erano a disposizione per l’ammodernamento degli istituti. Eppure ci sono colleghi che prestano servizio presso i centralini degli istituti con telefoni vecchi o aggiustati alla bella e meglio o addirittura comprati a loro spese perché dopo mesi dalla richiesta di sostituzione visto che la risposta era sempre la mancanza di fondi hanno deciso di darsi da fare per crearsi in modo autonomo gli strumenti adatti per il proprio mestiere. Tralasciamo le condizioni delle nostre divise e delle dotazioni; vogliamo parlare dei metal detector? In quanti istituti sono realmente funzionanti? E le fotocopiatrici messe a disposizione per le ragionerie?

Se va bene ce ne sono due che sono da condividere almeno con una decina di uffici. Idem per le condizioni delle scrivanie, delle sedie e dei computer. L’ergonomia è solo una parola, un miraggio. Evidentemente si preferisce investire sulla sanità che deve curare continui mal di schiena e o mancanza di vista dei dipendenti. Questo sempre perché, alla richiesta di avere nuove dotazioni al fine di poter lavorare meglio e con maggior efficienza, la risposta è sempre un diniego motivato dalla mancanza di fondi. Ma allora la domanda sorge spontanea: ma non sarà che si vince un premio se si agisce all’insegna del risparmio? Perché altrimenti non si spiega per quale motivo ci fate lavorare in condizioni pietose. Conviene di più fornire gli strumenti per lavorare correttamente e rispettando il principio del benessere del personale; e parliamo del benessere fisico non di quello psicologico che tanto ci abbiamo rinunciato; anche perché è maggiormente dispendioso pagare la malattia che ha come conseguenza il blocco dei lavori che sono consegnati sempre in ritardo e che inoltre sono effettuati con metodi sempre più obsoleti data la mancanza di tecnologie adeguate. E per vedere bene queste condizioni, caro Capo del Dipartimento, dovrebbe fare come fanno i Garanti dei detenuti: arrivare a sorpresa, senza che nessuno abbia avuto il tempo di organizzarle un picchetto richiamando in servizio colleghi a riposo pur di dimostrare che il personale c’è. Non è un vanto far sembrare meglio quello che non è ed i direttori invece di tenere a farsi belli, ad avere le foto sui giornali, ad essere citati in tv, dovrebbero essere infervorati quando

Chiara Sonia Amodeo rivista@sappe.it

si tratta del benessere del personale, delle condizioni inidonee in cui si lavora. Ma giustamente la priorità è sempre data ai detenuti che hanno avuto l’adeguamento stipendiale e che prendono i soldi della beneficenza.

Arrivando al punto 4, la Polizia Penitenziaria, il più importante, non ho da fare grandi critiche, sono tutte bellissime parole quelle spese nei nostri riguardi: l’importanza di agevolare strumenti per stimolare l’impegno e il senso di appartenenza, le tecniche di autodifesa, la carenza di personale, i gruppi di intervento operativo per affrontare gli eventi critici, il creare condizioni di benessere e agio psicologico ed i corsi di formazione più sintetici e centrati. Non voglio nemmeno soffermarmi su concetti come meccanismo premiale o job expertise perché nella nostra amministrazione va avanti chi sa sempre dire di sì non chi è meritevole; e cercare di accontentare il personale è l’ultima delle priorità; sono concetti che sfiorano il fantascientifico. Rimane solo un commento forse un po’ scontato da fare: saranno solo belle parole oppure ci sarà una concreta realizzazione? Noi, vogliamo i fatti! F

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Nella foto: il Capo del Dap Basentini


Roberto Thomas già Magistrato minorile docente di criminologia minorile presso la Sapienza e la Lumsa Università di Roma

Nella foto: interno scolastico

CRIMINOLOGIA

La mediazione penale con la vittima e la tutela dell’affettività nel nuovo Ordinamento Penitenziario Minorile iprendendo l’egregio articolo di Ciro Borrelli su questa Rivista, n. 267 del dicembre 2018 “Dal 10 novembre è in vigore l’ordinamento penitenziario minorile (d. lgs 121/ 2018 )”, occorre ricordare come la legge 26 luglio 1975 n. 354 introduceva un sistema organico di “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” che riguardava i detenuti di ogni età, con la riserva dell’emissione di una

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Legislativo 2 ottobre 2018 n. 121, estendendosi anche ai giovani adulti di meno di 25 anni (che però abbiano commesso il delitto, per cui stanno scontando la pena in un carcere minorile, quando non avevano compiuto ancora i diciotto anni, ai sensi dell’art. 5 della legge 11 agosto 2014 n. 117 ), intitolato “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 81,83 e 85,lett. p), della legge 23 giugno 2017 n. 103” .

specifica legge per quelli minorenni, prevista nell’art. 79, secondo cui “le norme della presente legge si applicano anche nei confronti dei minori di anni diciotto sottoposti a misure penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge…..le funzioni della sezione di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza sono esercitate rispettivamente dal tribunale per i minorenni e dal giudice di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni.”. Ora, incredibilmente, ci sono voluti ben 43 anni perché il precitato articolo 79 venisse finalmente applicato ai minorenni dal Decreto

Un periodo cronologico lunghissimo per soddisfare l’interesse “superiore e preminente” della persona minorenne, riconosciuto da tutte le leggi nazionali e internazionali attualmente vigenti, e proprio, in particolare, di quello del minorenne più vulnerabile che si trova ristretto nel carcere minorile - denominato Istituto Penale Minorile (IPM )nell’art. 8 del Decreto Legislativo 28 luglio 1989 n.272 - in una situazione oggettiva di grave disagio . La predetta riforma penitenziaria costituisce - per la sua giusta carica di favore del trattamento penitenziario minorile rispetto a quello degli adulti, improntato ad un progetto d’intervento

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educativo ex art. 14 del Decreto Legislativo n. 121 del 2018 - una concreta applicazione della norma “rinforzata” ( in quanto tutela un interesse - quello dei minori prevalente su altri diritti costituzionalmente protetti ) del secondo comma dell’art. 31 della Costituzione , secondo cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” e del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, per il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” . In essa, programmaticamente, all’art. 1. 2, si stabiliscono i principi cardine dell’intera impalcatura normativa, affermandosi che : “L’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime del reato. Tende altresì a favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso a percorsi di istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e di attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero.”. In questo programma, giustamente ambizioso, di concreta rieducazione vi è la grossa novità di favorire, in primo piano, “i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime del reato”, spesso trascurati nella loro importanza nella


CRIMINOLOGIA legislazione precedente, anche perché di assai ardua attuazione, o al più delegati ad attività facoltative lasciate alla buona volontà degli operatori minorili. Indubitabile appare, infatti, la necessità che il minore che ha commesso un delitto comprenda eticamente, al di là della sanzione giuridica giustamente irrogatagli, il male che ha provocato nella sua vittima e conseguentemente deve compiere i passi necessari, indotto in base ad una intima convinzione e non solo per mera convenienza di ottenere sconti di pena, di chiederle scusa, anche qualora essa non sia accolta dalla stessa, come può capitare nei casi dei reati più gravi, compiendo in ogni caso, per il suo pregresso comportamento delittuoso, oltre al mero risarcimento pecuniario del danno, attività di utilità sociale mirate alla collettività di riferimento della medesima , e quindi indirettamente compensative del danno dalla stessa subito, quale, tanto per citare un esempio concreto, la pulizia quotidiana del giardino pubblico vicino alla casa della sua vittima. Sulla medesima linea programmatica verte il richiamo a instaurare percorsi tendente ad inserire nel progetto d’intervento educativo lo svolgimento delle precitate “attività di utilità sociale”, che il legislatore, opportunamente, rende sempre obbligatori per tutte le misure penali di comunità , esterne al carcere (affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà), ai sensi dell’art. 3 .1 della nuova riforma (“Il tribunale di sorveglianza, nel disporre una misura penale di comunità, prescrive lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito, o di volontariato.”). Inoltre la nuova normativa, per tutelare l’obiettivo previsto nel precitato art.1.1 del “pieno sviluppo psico-fisico del minorenne” anche se detenuto , affronta giustamente con grande coraggio sia il problema di evitare il rischio di ulteriore inquinamento della sua personalità per i concreti contatti con soggetti più grandi di età e quindi

tendenzialmente più “esperti” nel crimine, tanto da poter fare da “cattivi maestri” per quelli più piccoli , che quello della tutela della sua affettività, anche essa indispensabile per una sana e completa maturità. Per il primo occorre sottolineare come questo pericolo di “contagio” è, purtroppo, sempre presente in tutte le comunità giovanili, soprattutto se non omogenee per età, in particolare per quelle chiuse, come gli IPM, in cui convivono soggetti dai 14 ai 24 anni. Invero già Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale, denominata successivamente criminologia, nella quinta edizione del 1897 del suo libro “L’uomo delinquente” , a pag. 1.227 dell’edizione Bompiani del 2013, scriveva: “Presso a poco altrettanto fa l’abbandono , come negli orfani, nei trovatelli, nei ragazzi vagabondi, a cui la società – quando pur lo fa – provvede con mezzi che possono dirsi vere educazioni criminali, raccogliendoli in masse, in istituti , dove i viziosi predominano e perciò troveremo una quantità relativamente grande di trovatelli e di orfani nei criminali.”. Per evitare le pericolose contaminazioni precitate che potrebbero trasformare gli istituti penali minorili in luoghi di “educazione” criminale da parte dei detenuti più grandi nei confronti di quelli più piccoli di età, l’art. 15 del precitato decreto legislativo n. 121 stabilisce l’obbligo di “separazione” all’interno della struttura carceraria fra i soggetti entro i 18 anni e quelli di età superiore fino a tutto il ventiquattresimo anno di età, ribadendo la già esistente divisione fra imputati e condannati e quella fra maschi e femmine , queste ultime ristrette in istituti o sezioni apposite. L’articolo 16, poi, sancisce che le camere di pernottamento degli istituti non possono superare la capienza di quattro posti e “devono essere adattate alle esigenze di vita individuale dei detenuti” e l’articolo 17 prevede quattro ore al giorno di permanenza all’aperto per lo

svolgimento di attività fisica e ricreativa dei minori detenuti “in modo organizzato e con la presenza degli operatori penitenziari e dei volontari”, ovviamente affinché questi possano articolare e “indirizzare” correttamente la comunicazione fra i ragazzi. Il secondo obiettivo relativo alla tutela dell’affettività , che costituisce forse la riforma più importante contenuta nel nuovo ordinamento penitenziario minorile, è contenuto nell’articolo 19 intitolato “Colloqui e tutela dell’affettività”. In esso si prevede (ampliando di molto e giustamente la possibilità di comunicazione già prevista per i detenuti adulti, e ciò al fine della promozione dei rapporti affettivi, come volano necessario per un concreto recupero del minore) il diritto di otto colloqui mensili di

un’ora e mezza e tre telefonate settimanali sia con i congiunti che altra giusta novità - con “le persone con cui sussiste un significativo legame affettivo”. Il comma 2 del predetto articolo 19, inoltre, sancisce opportunamente che “per i detenuti privi di riferimenti socio-familiari sono favoriti colloqui con volontari autorizzati ad operare negli istituti penali per i minorenni ed è assicurato un costante supporto psicologico.”. Ma c’è di più in quanto il successivo comma 3 dell’art. 19 rivoluziona la tradizionale struttura del colloquio del detenuto in un parlatorio del carcere, stabilendo che “ Al fine di

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Nella foto: rapporto affettivo con gli animali

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CRIMINOLOGIA

Nella foto: una mensa

favorire le relazioni affettive il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore, con una o più persone di cui al comma 1 ”. Tali visite si devono svolgere in “unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione dei pasti e riprodurre , per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico” . Come si vede il legislatore prevede, giustamente , una invasione pacifica del mondo della famiglia, nella sua quotidianità del desco casalingo, in una struttura di custodia esterna per realizzare, finalmente, in maniera concreta l’interesse del minore alla

rinascita di un soggetto progressivamente diventato più maturo e consapevole del suo destino, pronto ad affrontare con rinnovata speranza l’uscita dal carcere e la ritrovata libertà. In particolare si deve sottolineare come in questa comunicazione tramite i colloqui , le telefonate e le visite in carcere, si realizza per la famiglia del detenuto una tipologia di ascolto assai diverso rispetto a quello attuato durante la normale quotidianità di un minore libero, e ciò deriva non solo per la particolare collocazione del minore in un istituto penale, ma soprattutto a causa del diverso suo stato d’animo assai depresso dalla mancanza della libertà e con un forte senso di colpa dovuto alla perdita

garanzia della tutela della sua affettività, al fine della ricostruzione positiva della sua personalità inquinata dalla commessa violazione criminale . Questa nuova e rivoluzionaria previsione normativa costituisce sicuramente un esempio di saggezza legislativa che conduce necessariamente ad un esperimento pratico di criminologia minorile rieducativa, in quanto il coordinato sforzo dei genitori e delle altre persone con un significativo rapporto affettivo, dal lato esterno, unito a quello dei soggetti che lavorano all’interno (magistrati, avvocati, psicologi, assistenti sociali, educatori, volontari ), dovrebbe rendere la detenzione costruttiva di una nuova

della stima dei suoi parenti che avevano sempre creduto di vedere in lui un bravo ragazzo. Per compensare in qualche maniera siffatta sostanziale diversità comunicativa occorrerà impostare il dialogo parentale sulla base di una forte iniezione di fiducia nei confronti del detenuto , rinnovandogli stima e amore ancor più profondo di prima, proprio perché ha sbagliato e si spera che egli non ripeterà più delle azioni criminali, riscattandosi del negativo passato mediante la sua buona volontà e il concreto aiuto derivante dalla loro presenza affettiva costante. E’ poi assolutamente necessario che la precitata comunicazione esterna familiare si raccordi, come già ricordato, in maniera integrata con

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quella interna alla struttura detentiva dell’équipe psico-sociale, mediante lo strumento del concreto progetto d’intervento educativo individualizzato, da predisporsi dalla predetta equipe e da approvarsi dal magistrato di sorveglianza ex art. 69. 5 dell’Ordinamento Giudiziario del 1975, entro tre mesi dall’inizio dell’esecuzione della pena detentiva, progetto previsto nell’art. 14 del nuovo ordinamento penitenziario minorile, secondo cui “...previo ascolto del condannato , tiene conto delle attitudini e delle caratteristiche della sua personalità. Il progetto contiene indicazioni sulle modalità con cui coltivare le relazioni con il mondo esterno e attuare la vita di gruppo e la cittadinanza responsabile, anche nel rispetto della diversità di genere, e sulla personalizzazione dell’attività d’istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale, nonché sulle attività di lavoro, di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero, utili al recupero sociale e alla prevenzione del rischio di commissione di ulteriori reati.” . Collegato al progetto educativo previsto dal predetto art. 14 è la disposizione dell’art. 24 del nuovo Ordinamento Penitenziario Minorile che sancisce la preparazione delle dimissioni dall’istituto penale nei sei mesi precedenti alla fine della pena a carico del servizio sociale minorile, in collaborazione con l’équipe psicosociale interna alla struttura detentiva, “elaborando programmi educativi di formazione professionale, di lavoro e di sostegno all’esterno ...rafforzando, in assenza di riferimenti familiari, i rapporti con i servizi socio-sanitari territoriali e con le organizzazioni di volontariato, per la presa in carico del soggetto ...individuando le figure educative o le comunità di riferimento...”. Come si vede la norma predetta anticipa nella fase finale della stessa detenzione un particolare trattamento preparatorio del giovane alla


CRIMINOLOGIA riacquisizione completa della sua libertà, tutelandolo con concreti “agganci esterni” che dovrebbero prenderlo in carico, almeno in una prima fase della sua fuoriuscita dal circuito penale, al fine di rafforzare i buoni propositi, maturati in carcere , di cambiare in positivo la sua nuova vita libera e di contrastare i possibili richiami ambientali delle “sirene del crimine” attraverso i rinnovati pericolosi contatti con le cattive compagnie già frequentate precedentemente alla detenzione penale. Si tratta di una previsione normativa che va, indirettamente, nel senso di una mia proposta , già elaborata in un altro articolo di questa Rivista (“L’uscita dei minori dal carcere e la sindrome del palombaro”, n.254 dell’ottobre 2017) da me denominata “sindrome del palombaro” in cui ritenevo che fosse sempre necessaria una preparazione al riacquisto integrale della libertà per un periodo ,graduato a secondo della gravità della pena scontata, da trascorrere in comunità, una volta finita la pena da scontare (e quindi extra pena e non all’interno della stessa, nei suoi sei mesi finali, come prevede l’art. 24), alla pari del palombaro che, riemerso, viene decompresso nella camera iperbarica prima di poter tornare a respirare liberamente. Ma il nuovo Ordinamento Penitenziario Minorile si preoccupa di regolamentare non solo le forme concrete di esecuzione all’interno dell’istituto penale le, come abbiamo visto fino ad ora, ma anche quelle esterne al carcere, mediante la previsione delle misure penali di comunità, contenute nell’art. 2.1 del precitato decreto n. 121 del 2018 , e cioè l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà , l’affidamento in prova in casi particolari, tutte misure disposte dal tribunale di sorveglianza per i minorenni, sulla base della proposta redatta dall’ufficio di servizio sociale per minorenni dipendente dal Ministero della Giustizia (art. 2,2),

tribunale che, ai sensi del precitato art. 79 Ordinamento Penitenziario del 1975, è costituito da una sezione del tribunale per i minorenni. La loro concreta esecuzione “è affidata al magistrato di sorveglianza ( minorile ) del luogo dove la misura deve essere eseguita.” (art.12.1). In sintesi dette misure - sempre modificabili nella loro tipologia e contenuto nel decorso della loro applicazione dal tribunale per i minori (per la tipologia) e dal giudice di sorveglianza minorile (per il contenuto) su istanza dei servizi sociali minorili ministeriali - riproducono terminologicamente quelle già previste nell’Ordinamento Penitenziario del 1975 (ad eccezione dell’affidamento in prova con detenzione domiciliare “in giorni determinati della settimana” ex art. 5, trattandosi, in questo caso, di un affidamento in prova corroborata da una parziale detenzione domiciliare programmata in particolari periodi), differenziandosi dalle precedenti rimaste nella loro configurazione originaria per soli soggetti che si siano macchiati di delitto nella maggiore età, (pur restando applicabili al nuovo ordinamento penitenziario minorile, in quanto compatibili, le vecchie norme del 1975 per il richiamo espresso contenuto nell’ art. 2.12 del decreto legislativo n. 121 del 2018) - sia perché vi è la possibilità di disporle in sostituzione di detenzioni più lunghe rispetto a quanto previsto per gli adulti, che per l’applicabilità obbligatoria per tutte – a differenza del regime previsto per coloro che abbiano commesso un reato da maggiorenni - “dello svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito, e di volontariato”( art. 3.1). Così per l’affidamento al servizio sociale minorile, invece della sostituzione al massimo dei tre anni di pena concreta da scontare prevista per gli adulti (ai sensi dell’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario del 1975), il decreto n. 121 del 2018 allarga per i minorenni il periodo di pena concreta sostituibile a quattro anni (art. 4.1).

Per la detenzione domiciliare, rispetto ai due anni di pena concreta sostituibile con gli arresti domiciliari per gli adulti (ex art. 47 ter,1 bis Ordinamento Penitenziario del 1975), per i minori è prevista la possibilità di una sostituzione della pena detentiva fino a tre anni , “quando non vi siano le condizioni per l’affidamento in prova al servizio sociale e per l’affidamento in prova con detenzione domiciliare” ( art. 6.1 ). Da ultimo, il regime di semilibertà è applicabile al minore quando ha scontato almeno un terzo della pena a differenza di quello previsto per gli adulti soltanto quando questi hanno scontato metà della detenzione , o nei casi più gravi, i due terzi (art. 50 legge sull’Ordinamento penitenziario del

1975 ) – e permette loro di “trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività d’istruzione e formazione personale, di lavoro, di utilità sociale o comunque funzionali all’inclusione sociale...” (art. 7). In conclusione bisogna evidenziare come il nuovo ordinamento penitenziario minorile realizza, sia per ciò che concerne il trattamento all’interno dell’ istituto penale che per le misure penali esterne di comunità, un giusto equilibrio fra le esigenze rieducative e quelle della prevenzione criminale al fine di tutela della sicurezza pubblica, costituendo sicuramente un esempio di civiltà giuridica finalmente adeguata ad una società moderna e democratica. F

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Nella foto: corsi di preparazione professionale


DIRITTO E DIRITTI

Delitti contro la Pubblica Amministrazione: GiovanniPassaro rivista@sappe.it

Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità

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l reato di “interruzione d'un servizio pubblico o di pubblica necessità” è disciplinato all’art. 331 c.p. e figura tra i delitti contro la Pubblica Amministrazione, inserito nel libro secondo (rubricato "Dei delitti in particolare"), titolo II (rubricato "Dei delitti contro la pubblica amministrazione"), capo I (rubricato "Dei delitti dei Pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione"), che statuisce “Chi, esercitando imprese di servizi

Nella foto: aggressione ad un autista di autobus

pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro. I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a tremilanovantotto euro. Si applica la disposizione dell'ultimo capoverso dell'articolo precedente”. La ratio legis della norma tutela il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione, inteso qui come

continuo, regolare ed efficiente funzionamento dei servizi pubblici e di pubblica utilità. Si tratta di individuare mediante quali strumenti giuridicamente rilevanti il funzionamento della pubblica amministrazione sia fatto positivamente interagire dal diritto con le condizioni e con le esigenze contingenti e mutevoli che sono concretamente e dinamicamente correlate alla realtà effettuale nella sua prevalente dimensione politica. Nell’ordinamento italiano il termine “servizi pubblici” è impiegato in contesti e con accezioni diverse, così anche la funzione, a seconda che questa venga utilizzata in ambito penale, amministrativo, di diritto del lavoro o di diritto pubblico dell’economia, non è assegnata in modo automatico. Nell’elaborazione dei pubblici servizi necessita evitare l’errore metodologico di valutare la normativa europea in maniera settoriale, convogliando l’attenzione fondamentalmente sul diritto derivato per determinarne l’applicabilità o meno al caso tangibile, essendo alquanto imprescindibile un riferimento al diritto comunitario considerato nel suo insieme, che costituisce di per sé un ordinamento dal quale ricavare principi generali, in primis quelli in tema di concorrenza, pubblicità, pluralità e confronto delle offerte. È da evidenziare come una simile impostazione è di fatto corrispondente con quella successivamente assunta dalla Commissione europea proprio in riferimento alla questione della definizione e regolamentazione della concessione di pubblici servizi. Inoltre, appare opportuno puntualizzare come il nostro ordinamento non conosca esclusivamente l’espressione “servizi

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pubblici” ma anche quella “servizi di pubblica utilità” o “servizi di preminente interesse generale”, così come disciplinato dall’art. 1 del d.lgs. n. 261/1999, che definisce “la fornitura dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali nonché la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica”. L’interruzione di servizio pubblico o di pubblica necessità è il reato attribuibile agli esercenti di imprese che forniscano servizi pubblici o di pubblica necessità, nel caso in cui interrompano il proprio servizio o sospendano il lavoro degli uffici o dell’azienda, in modo da turbare la regolarità del servizio. Pertanto, la fattispecie delittuosa configura un'ipotesi di reato proprio, dato che può trovare applicazione esclusivamente nei confronti dell'imprenditore che eserciti un'impresa di servizi pubblici o di pubblica necessità. Non integra la fattispecie dell’art. 331 (ma eventualmente quella dell’art. 340c.p.) l’interruzione di servizio commessa: • da chi non eserciti un’impresa (anche individuale); • da chi, pur all’interno di un’impresa non rivesta il ruolo di imprenditore. Tali soggetti, naturalmente, potranno concorrere con l’imprenditore recando un contributo di qualsiasi natura all’interruzione del servizio. Per la configurazione del reato rileva l’elemento oggettivo, ossia il tipo di azione posta in essere e la sua idoneità a creare concretamente un “turbamento” nella regolarità del servizio, verificandone l’entità dell’interruzione, non essendo per contro sufficiente la sospensione o l’interruzione di un singola fruizione o


CONTEST DI FOTOGRAFIA prestazione. Inoltre, sarà utile esaminare elementi che portino a dimostrare l’assenza di motivazioni esterne o di cause di giustificazione. L’imprenditore o l’esercente del servizio risponderà nel caso in cui abbia agito con mala fede, vale a dire con dolo: il soggetto dovrà aver agito con specifica volontarietà diretta a provocare l'interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, ovvero con la consapevolezza che il proprio comportamento possa determinare quegli effetti, accettandone ed assumendosi il relativo rischio. L’imprenditore secondo le regole generali, dovrà anche avere consapevolezza delle sue qualità di esercente di un’impresa di pubblico servizio o di pubblicità necessità, nonostante sia richiesta una conoscenza tecnico-giuridica sulla qualificazione del servizio, bastando la coscienza di esercitare un’impresa, che corrisponda ai requisiti previsti dalla norma penale. Al riguardo appare rilevante: Cassazione penale sez. V 19 dicembre 2013 n. 5271 “In tema di elemento soggettivo del reato di interruzione di pubblico servizio, va disattesa la tesi difensiva di mancanza in capo all'imputato della consapevolezza dell'idoneità della condotta a cagionare l'interruzione o la turbativa del servizio, atteso che, se si percuote con un bastone l'autista di un autobus, che per questo viene trasportato al pronto soccorso dove gli è diagnosticata tra l'altro una contusione cranica, l'accettazione di tale rischio è in re ipsa”. La consumazione della fattispecie in esame si realizza nel momento e nel luogo in cui si verifica uno dei due eventi previsti dalla fattispecie, cioè l’interruzione del servizio o il turbamento della sua regolarità. Il tentativo è certamente punibile sia nel caso che siano compiuti atti idonei e diretti a interrompere il servizio sia nel caso che venga sospeso il lavoro in modo idoneo a turbare la regolarità del servizio, qualora il turbamento, per qualsiasi causa, non si verifichi. F

Partecipa alla gara. Invia una foto Si è conclusa la gara del mese di gennaio con la vittoria di Gennaro Marchesano che con la sua foto ha raccolto 1.220 voti. Dove presti servizio? Presto servizio nella Casa di Reclusione di Saluzzo.

Cosa ne pensi del contest fotografico? Il Contest è una bella bella occasione per conoscere dei volti nuovi...

Racconta brevemente la foto: La foto mi ritrae insieme a mio nipote ed è stata scattata in un momento del tutto spontaneo.

Le foto degli altri partecipanti sono state registrate nell’archivio foto, ognuna nella categoria scelta dall’utente che l’ha inviata. Intanto è in fase di conclusione la gara per il mese di febbraio e a breve inizierà quella di marzo. Invia le tue foto e condividile con i tuoi amici. Ricorda che è possibile votare una volta al giorno per ogni foto. Cosa aspetti?

Regolamento completo su: www.poliziapenitenziaria.it Polizia Penitenziaria n. 269 • febbraio 2019 • 19


DALLE SEGRETERIE in Luglio e il campionato del mondo di Jiu jitsu Brasiliano a Las Vegas in agosto di questo anno. Già avviato, quindi un progetto di preparazione atletica per l'atleta di Ostia Lido di Roma, associata ad una alimentazione ideale grazie al Ristorante "da Gabriele" in Roma via Boccea. Congratulazioni all'assistente Capo Capo Stefano Pressello per il prosieguo della carriera sportiva coronata da tanti successi. F

Roma Gold Medal per l’Assistente Capo Stefano Pressello all’11ème édition de l’Eurometropole Master France 2019 Nelle foto: Stefano Pressello esulta per la medaglia conquistata, in una fase di combattimento, sul podio e impegnato in una lezione

D

ivertirsi insegnando e lottando: è questo lo spirito ideale per progredire e trasmette i valori del sacrificio sportivo, della competenza e dello studio della tecnica, partendo dalla fase adolescenziale. Con queste frasi, l'atleta romano mette a nudo il segreto dei suoi successi nel campo della lotta. Intervistato da Radio Roma Capitale, a seguito del suo ennesimo successo in campo internazionale, Stefano fa tesoro dei suoi valori sportivi e va a segno del suo terzo Oro consecutivo in questa prestigiosa competizione intenzionale. Reduce da un campionato italiano assoluto master 2018, dominando la sua categoria dei 90 kg piazzandosi al primo posto . Un allenamento in trasferta nella Città

del Mexico, a seguire un seminario svolto di Brazilian Jiu Jitsu, nel mese di Gennaio in Francia ha partecipato al torneo più rappresentativo del circuito internazionale, dove l'atleta romano in servizio presso il Dap, ha scalato la vetta più alta del podio, con quattro incontri vinti, di cui due finalizzando nella lotta a terra. Specialista del Brazilian jiu jitsu, Stefano ha dominato i primi due incontri nella fase a terra, con la sua "arma" migliore, finalizzando per strangolamento e leva articolare. Nella fase in piedi ha dominato gli avversari, arrivando in finale e vincendo per ippon (ko), per una proiezione nella fase terminale dell'incontro. Gli obiettivi del lottatore versatile sono gli Europei di Judo nelle Gran Canarie

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la scheda del film Regia: Robert Bresson altri titoli: "Un condamné à mort s'est échappé" - "Le vent souffle où il veut" Soggetto: André Devigny Sceneggiatura: Robert Bresson Fotografia: Léonce-Henri Burel Montaggio: Raymond Lamy Musiche: Wolfgang Amadeus Mozart "Messa in do minore" Costumi: Lisa Tomczeszyn Scenografia: Pierre Charbonnier Produzione: Gaumont, Nouvelles Éditions de Films Distribuzione: Globe Films International Personaggi e interpreti: Tenente Fontaine: François Leterrier François Jost: Charles Le Clainche Blanchet: Maurice Beerblock Pastore Deleyris: Roland Monod Orsini: Jacques Ertaud Hebrard: Jean Paul Delhumeau Terry: Roger Treherne Prigioniero n. 110: Jean Philippe Delamarre Prigioniero X: César Gattegno Capo della sorveglianza: Jacques Oerlemans Ufficiale tedesco: Klaus Detlef Grevenhorst: Scorta: Leonhard Schmidt Genere: Drammatico Durata: 99 minuti, Origine: Francia 1956

CINEMA DIETRO LE SBARRE

a cura di Giovanni Battista de Blasis

Un condannato a morte è fuggito

I

l film Un condannato a morte è fuggito racconta la storia di un partigiano francese imprigionato dai nazisti durante il regime di Vichy, che prepara ed organizza nei minimi dettagli la fuga che dovrà salvarlo dalla condanna a morte. François Truffaut scrisse a quei tempi: “Per me ‘Un condannato a morte è scappato’, oltre ad essere il più bel film di Robert Bresson, è anche il film francese più significativo degli ultimi anni.” La pellicola inizia con l'inquadratura di un carcere francese, nel 1943, dove erano detenute le vittime dei nazisti, con una didascalia di Robert Bresson che informa che il film è tratto da una storia vera. Un’altra didascalia dello stesso regista specificherà dopo i titoli di coda che anche i singoli fatti sono stati raccontati esattamente come si sono svolti nella realtà. Subito dopo il disclaimer iniziale, scorrono i titoli di testa con la colonna sonora della musica di Mozart. Il protagonista della vicenda è il Tenente Fontaine che, dopo essere stato arrestato ed interrogato dalla

gestapo, riesce a fuggire una prima volta ai suoi aguzzini per essere, però, subito ripreso e buttato in carcere. Appreso di essere stato condannato a morte, Fontaine si dedica totalmente alla preparazione di un piano di fuga. Piano di fuga che sarà descritto, passo per passo, dalla voce narrante del protagonista, ad iniziare dal sabotaggio della porta della cella fino alla fabbricazione della corda col gancio. Lo stile visuale è scarno ed essenziale e le scene sono girate esattamente come si sono svolte nella realtà. Le lunghe attese nella sceneggiatura culminano in un finale vivo e carico di tensione, seppur minimale e senza drammatizzare o esaltare gli eventi. Il film è interpretato da attori non professionisti. F

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Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

NOTE: hanno partecipato al film attori non professionisti. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes (1957). RobertBresson è stato candidato al Nastro d'Argento 1960 come regista del miglior film straniero.


CRIMINI E CRIMINALI

Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Concordia: un inchino costato trentadue morti

T

utto il mondo ha ben impresse le immagini di ciò che accadde in Italia il 13 gennaio del 2012, allorquando la nave Costa Concordia naufragò nelle vicinanze del porto dell’Isola del Giglio. L’imponente disastro, sicuramente una delle più grandi sciagure della storia della marineria italiana, seguito dal gran numero di vittime, mi ha portato, peraltro con alcune perplessità iniziali del Direttore editoriale, a ricordare

Nelle foto: sopra la “Costa Concordia“ mentre affonda sotto il Comandante della nave Francesco Schettino

quanto avvenuto quella sera. Una tragedia immane che probabilmente poteva essere evitata se fossero state rispettate le norme di navigazione e non si fosse messa in gioco la sicurezza dei passeggeri. Quando fu varata la Costa Concordia, il 2 settembre del 2005, alla Fincantieri di Sestri Ponente, era la più grande nave della storia della marineria italiana, con una stazza di 114.500 GRT, una lunghezza di 290,2 metri e una larghezza di 35,5 metri; possedeva 17 ponti, di cui 13 dedicati ai passeggeri e poteva raggiungere una velocità di crociera di 21,5 nodi (massima 23,2 nodi). Inoltre, aveva 1.500 cabine, di cui 827 con balcone e poteva trasportare fino a 3.780 passeggeri e 1100 membri dell’equipaggio. La nave, condotta dal comandante

Francesco Schettino, salpa il 7 gennaio del 2012 dal porto di Savona per una crociera denominata “Profumo di Agrumi” nel Mediterraneo. La crociera prevedeva sei tappe: Marsiglia (poi sostituita da Tolone a causa delle avverse condizioni meteo), Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, Civitavecchia. Il tour aveva una durata settimanale e una volta raggiunta l’ultima tappa, ripartiva subito con a bordo nuovi passeggeri per rinnovare la crociera. Venerdì 13 gennaio, alle ore 19.00, la Costa Concordia salpa dal porto di Civitavecchia per fare rientro a Savona con a bordo 4.229 persone (1.023 membri dell’equipaggio e 3.206 passeggeri, di cui 252 bambini e 19 adulti bisognosi di assistenza); la rotta da percorrere comprende un passaggio al largo dell’isola del Giglio e del Promontorio dell’Argentario ed è stata pianificata come la settimana precedente e ritualmente comunicata all’Autorità marittima. In pratica la nave, secondo la rotta programmata, doveva passare a circa metà strada tra l’Isola del Giglio ed il Promontorio dell’Argentario, in mezzo al canale, per poi dirigere la prora verso il canale di Piombino. Poco prima della partenza, però, il comandante Schettino convoca l’ufficiale cartografo, Simone Canessa, per tracciare una nuova rotta che consentisse alla nave di transitare nelle acque immediatamente antistanti l’isola, con il dichiarato intento di fare l’inchino al Giglio, per consentire al maître di bordo, Antonello Tievoli, di “salutare” i propri famigliari residenti sull’isola e per rendere omaggio al comandante Mario Terenzio Palombo, anch’egli presente sull’isola, che aveva seguito Schettino, sin dai primi anni, nella sua formazione al comando. Verso le ore 21.00, mentre la

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Concordia si trova a nord est dell’isola di Giannutri ed avanza con il pilota automatico inserito ad una velocità di 15,5 nodi, la rotta ordinaria Civitavecchia-Savona viene modifica per procedere al passaggio sotto costa dell’Isola del Giglio. Verso le 21.34, il comandate Schettino si recava in plancia per eseguire personalmente la manovra di accostamento all’isola. Senza aver ancora assunto formalmente il comando delle operazioni ed interferendo con la direzione tenuta fino a quel momento dal comandante in seconda, Schettino ordina di disinserire il pilota automatico e di procedere con il timone a mano; per questo motivo il timoniere, Rusli Bin, lascia la postazione di vedetta portandosi al timone, per altro senza essere sostituito. Alle 21.39, Schettino pronuncia la frase di rito “I take the conn” (ripetuta dal suo secondo “Master takes the conn”), ed assume formalmente il comando della manovra. Nel procedere a velocità sostenuta e senza avere riferimenti visivi precisi, in ragione dell’oscurità notturna, il comandante si accorge, forse troppo tardi, della presenza di un gruppo di scogli e del fatto che la nave vi avrebbe inevitabilmente impattato contro. Si trova, quindi, costretto ad impostare, in rapida successione, una serie di manovre per evitare l’ostacolo, compresa la c.d. manovra a baionetta consistente nel condurre il natante tutto alla banda (indica indifferentemente un lato) a dritta (tutto ciò che è posto alla banda destra dello scafo) e poi a sinistra. I predetti spostamenti si rilevarono del tutto inutili dato l’abbrivo (accelerazione iniziale impressa alla nave dalla propria propulsione), la reazione lenta della grossa nave ai comandi e il forte vento che la spingeva verso la costa. Lo scarrocciamento (spostarsi lateralmente rispetto alla linea di rotta per effetto del vento)sul basso fondale scoglioso a 0,15 miglia provoca l'urto della nave con il fianco sinistro contro uno degli scogli facenti parte del gruppo conosciuto come le Scole. Il predetto scoglio funge così da apriscatole e provoca numerose


CRIMINI E CRIMINALI deformazioni e lacerazioni al fondo dello scafo per una lunghezza di circa cinquanta metri e dalla falla principale l'acqua inizia ad entrare velocemente, allagando nel giro di pochi minuti tre compartimenti contigui e mettendo fuori uso l'impianto elettrico e la sala macchine. L’impatto comporta prima la perdita della galleggiabilità e, successivamente, l’ingavonamento (sbandamento originato da varie cause per cui la nave non riesce a riprende il naturale assetto) e arenamento della nave, parzialmente sommersa, in prossimità del porto dell’Isola del Giglio, vicino agli scogli della Gabbianara. Lo squarcio complessivo dello scafo di quasi 53 metri di larghezza per 7,3 metri di altezza rende la nave priva di controllo, a causa della smisurata acqua entrata. La Concordia inizia, quindi, ad inabissarsi e sarebbe interamente affondata se non si fosse arenata su uno scalino roccioso presente sul basso fondale. A seguito dell’urto sulla nave si scatena il terrore, a causa soprattutto della progressiva inclinazione della nave e del black out prolungato. Nessuna comunicazione viene data nei primi minuti dopo l’impatto e, quindi, i passeggeri, privi di indicazioni su come comportarsi, si affidano al proprio istinto: alcuni iniziano ad indossare i salvagente e altri a dirigersi verso le lance. Alle 21.54 viene diramato il primo annuncio che, raccomandando la calma, riferiva solo di un guasto ai generatori della nave. Gli avvisi si susseguono senza che però fosse mai dato l’allarme generale. Solamente alle 22.33 viene dato il segnale di emergenza generale (sette fischi lunghi e uno breve), che non è però seguito dai previsti annunci in favore dei passeggeri, i quali, alcuni minuti dopo – ancora all’oscuro di tutto – vengono invitati a raggiungere il ponte quattro e i punti di raccolta per l’imbarco sulle lance e sui battelli di servizio. Le imbarcazioni d’emergenza non vengono, però, fatte salpare, non essendo ancora stato dato l’ordine di

abbandono nave; che viene ufficializzato solo alle ore 22.54. Il grave ritardo nell’emanazione dell’ordine di abbandono della nave aggravò il regolare svolgimento delle operazioni di evacuazione, in quanto la nave, nel frattempo, aveva raggiunto una inclinazione tale da rendere quasi impossibile la calata delle scialuppe. La grave situazione venuta a crearsi a seguito dell’impatto della nave comportò che i passeggeri presenti sul lato dritto erano riusciti a salire sulle scialuppe e a raggiungere il porto e gli scogli vicini, mentre coloro che si trovano sul lato sinistro del natante sono rimasti bloccati sul ponte n. 4, in quanto le imbarcazioni di salvataggio non potevano essere ammainate a causa dell’inclinazione della nave che aveva raggiunto i venti gradi. Il panico e, soprattutto, la paura fa si che molti passeggeri si gettano in mare e altri ancora, a causa del caotico coordinamento dei soccorsi a bordo, raggiungono zone della nave in cui rimangono bloccati dall’avanzare dell’acqua e successivamente vengono trascinati nei vortici che la stessa, risalendo lungo i vari ponti, aveva creato. Solo alle 23.20 il comandante Francesco Schettino diede l’ordine di abbandonare la plancia di comando e con gli uomini dell’equipaggio, dopo aver ispezionato alcuni ponti, si allontanò a bordo di una delle ultime scialuppe disponibili. Alle 00.30, mentre a bordo della Concordia si consumava la tragedia e, via mare, erano iniziate le operazioni di soccorso (che si sarebbero protratte fino alle 05.45 del mattino), il comandante si trovava sulla scogliera della Gabbianara, impegnato in alcune conversazioni telefoniche, compresa quella – divenuta tristemente nota – con il comandante della Capitaneria di Livorno De Falco. Il naufragio ha causato la morte di 32 vittime (di cui 27 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio) e le lesioni personali di 193 persone, tra passeggeri e personale di bordo, oltre ad un danno ambientale di vastissime dimensioni per l’area adiacente l’isola del Giglio.

L'11 febbraio 2015 Francesco Schettino è stato condannato a 16 anni di reclusione (dieci per omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, cinque per naufragio colposo, uno per abbandono della nave) e un mese di arresto, oltre a numerosi risarcimenti in solido con la Costa Crociere. Il 31 maggio 2016 la Corte d'Appello di Firenze ha confermato la condanna a 16 anni e Schettino è stato anche interdetto per 5 anni da tutte le professioni marittime e il 12 maggio del 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la pena. Il naufragio della Concordia ha di sicuro cambiato qualcosa in positivo, avendo l’incidente contribuito ad introdurre nuove regole nautiche e limitazioni operative più rigide per impedire una così deliberata ed

incauta gestione della sicurezza della navigazione ed una altrettanto approssimativa e criminale gestione delle emergenze. E, proprio in onore della “VII giornata delle vittime della Costa Concordia”, celebrata lo scorso 13 gennaio e istituita dal 2015 dal consiglio comunale dell’Isola del Giglio a memoria imperitura, ho ritenuto doveroso ricordare quanto accadde quella sera e, soprattutto, quanti morirono e soffrirono quella notte per “un inchino”. Alla prossima... F La ricostruzione degli eventi è stata ripresa dalla Sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 2018 del 20 luglio 2016 e dalla Sentenza del Tribunale di Grosseto n. 115 del 10 luglio 2005.

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Nella foto: i resti della nave da crociera “Costa Concordia“


MONDO PENITENZIARIO

Francesco Campobasso Segretario Nazionale del Sappe campobasso@sappe.it

Chi è il poliziotto penitenziario e perchè il burnout? fronte degli ennesimi episodi che hanno visto appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria togliersi la vita, reputo fondamentale appronfondire una tematica sull’essere poliziotto penitenziario, chiedersi, in effetti, chi sono coloro che indossano la blasonata uniforme dei baschi blù nonché il cd. burnout che sempre più attanaglia gran parte degli operatori in carcere.

A

la speranza di poter migliorare la loro vita, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista personale, maturando sempre più il desiderio di soddisfare il bisogno di autorealizzazione, correlato allo sviluppo di una nuova identità personale e sociale impregnata di valori rappresentanti la legalità dello Stato. Entrando negli istituti penitenziari ci si scontra, tuttavia, con una realtà di dolore alla quale non si

Ed è per questo che, nello spazio della mia rubrica mensile, mi dedicherò ad estrapolare quegli aspetti che sempre più determinano nei poliziotti penitenziari un senso di scoramento che – ahimè alla statistica – alimenta sempre più la crescita in percentuale di eventi a pieno titolo considerati critici. Ma facciamo un passo alla volta. Chiediamoci, innanzitutto, chi è il poliziotto penitenziario e perché un ragazzo o una ragazza decidono di arruolarsi nella Polizia Penitenziaria? Per poter rispondere a queste domande è necessario aprire uno spazio di riflessione sulla singola persona, sull’organizzazione per la quale lavora e su tutta la comunità. I poliziotti penitenziari sono persone, ragazzi e ragazze, che si arruolano con

era preparati e per la quale, nonostante il periodo formativo, non sempre si possiedono gli strumenti per poterla affrontare ed elaborare. A ciò, sovente, si aggiunge uno scarso riconoscimento sociale e professionale nonostante il duro lavoro svolto quotidianamente, e tale noncuranza potrebbe provocare effetti sul senso di autoefficacia percepito. All’interno di ogni istituto penitenziario si respira il contagio emotivo della sofferenza, delle aggressioni vissute direttamente o indirettamente, della violenza, degli abusi, delle minacce gravemente lesive la persona, nonché causa principale di stress psicologico e fisico. A questo si aggiunge il carico di lavoro molto spesso intollerabile, i turni definiti sulle 24 ore, nonché un ambiente

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strutturato in modo non sempre troppo favorevole. Quanti e quali altri problemi potremmo elencare? Una miriade. Non è certo cosa nuova che al primo posto, tra i problemi, vi è quello della carenza di personale, problema da cui derivano tutti gli altri. Un’incognita che comporta una maggiore difficoltà nel mantenere la sicurezza e che obbliga i poliziotti a fare lavori che non competono loro, con conseguente mancanza di risorse per altre mansioni specifiche. La vita da poliziotto penitenziario qui, come altrove, diviene un continuo logoramento di nervi che influisce, talvolta, sul modo con cui gli agenti vivono il loro rapporto con i detenuti. I momenti di nervosismo sono inevitabili con conseguente rischio del sereno svolgimento del lavoro. Ma del resto, come affermato da alcuni agenti, è difficile dover ricoprire anche il ruolo di psicologo, confidente di una umanità disperata e problematica. Un lavoro delicatissimo, per cui vengono richieste competenze e attitudini particolari ma che, ad oggi, viene svolto in condizioni al limite del lecito. E lo Stato cosa fa? Taglia proprio là dove, invece, più servirebbe investire. E anche di questo la politica dovrà assumersi qualche responsabilità e agire di conseguenza. E le condizioni economiche? Anche questo è un argomento delicato che suscita non poche polemiche e che è tra le cause del fenomeno del doppio lavoro (sicuramente ingiustificato e non ammesso dalla legge) che molti agenti, e non solo di Polizia Penitenziaria, sono costretti a svolgere per far fronte alle spese. In linea di massima un poliziotto appena assunto guadagna circa 1.200 euro netti al mese; in Germania, tanto per gradire,


MONDO PENITENZIARIO ne guadagna circa 1.600 euro, un francese quasi 1.700; in Inghilterra lo stipendio può arrivare a 2.500 sterline. E le remunerazioni sono un elemento importante per la professionalità di uomini e donne che servono lo Stato con tanta abnegazione e sacrifico. Per non parlare, poi, delle ripercussioni dal punto di vista fisico, cognitivo, affettivo e socio-relazionale che sono inevitabili in talune circostanze. Si inizia con il percepire di non sentirsi bene, non si comprende sempre consapevolmente cosa genera il malessere, ci si lamenta di qualsiasi situazione e si cerca costantemente una via di fuga, si vorrebbe il confronto con altri che vivono la medesima realtà, ma non sempre questo è possibile. L’isolamento lavorativo ed interiore, il senso d’insoddisfazione personale e la poca autostima cristallizzano la vulnerabilità, si perde il controllo sulle proprie emozioni ed a volte anche sul proprio comportamento ed ogni evento acquisisce immotivatamente un valore esponenziale: paura, ansia, stress iniziano a strutturarsi e diventano una realtà con la quale bisogna convivere. Frequentemente capita, soprattutto ai neo-poliziotti, di trovarsi assegnati lontano da casa, a centinaia di chilometri dalla famiglia, coloro che potrebbero offrire il giusto sostegno e le richieste di distacco o trasferimento il più delle volte, non possono essere accolte. Ci si ritrova quindi ad affrontare una realtà burocratica, inflessibile, autoritaria, noncurante e demotivante, impregnata di sofferenza, monotonia, carichi eccessivi di lavoro e stress. Le persone, in questo specifico contesto, potrebbero diventare maggiormente suscettibili a disturbi da stress lavorativo, fino ad arrivare a quello che in psicologia viene identificato con il termine burnout. Quest’ultimo rappresenta un fenomeno psicosociale, una sindrome multidimensionale complessa associata a quelle professioni nelle quali il rapporto con l’utente assume un aspetto emotigeno profondo. Essa determina il deterioramento

dell’impegno nei confronti del lavoro, delle emozioni originariamente associate ad esso ed ostacola l’adattamento tra le persone ed il lavoro, perché quest’ultimo impone carichi che la persona non è in grado di sostenere: la mancanza di controllo, l’insufficienza delle gratificazioni, il crollo del senso di appartenenza comunitario, l’assenza di equità e valori contrastanti sono fra le principali cause eziopatogenetiche nello sviluppo di tale sindrome. Da ciò si evince che fattori sociali, personali, relazionali, oggettivo-professionali, socioculturali, si integrano generando vera e propria sofferenza che si manifesta e si individua in una molteplicità di conseguenze psicofisiche. I segnali della presenza del burnout si inquadrano nell’esaurimento cronico in cui ci si sente esasperati, prosciugati, incapaci di rilassarsi e di recuperare; nelle somatizzazioni come l’emicrania, l’insonnia e i disturbi dell’alimentazione e della digestione; nella depersonalizzazione, nei comportamenti distaccati dal lavoro che portano all’assenteismo, ad un senso di indifferenza, inefficienza e alla perdita della capacità di controllo e del senso critico. Se il burnout viene considerato l’extrema ratio delle sindromi derivanti dall’attività professionale, di non meno importanza sono lo stress ed il dolore interiore causato dall’esposizione a continue situazioni stimolo per le quali la persona non dispone delle risorse necessarie ad affrontarle e fra queste si inquadra anche il cordoglio anticipatorio. Così come la paura, che nelle forme più acute porta a sviluppare emozioni di ansia tali da predisporre lo strutturarsi di vere e proprie patologie a cui la persona non potrebbe mai riuscire a far fronte da sola. Il poliziotto penitenziario non si confronta solo con una realtà lavorativa difficile, esigente e molto spesso destabilizzante, ma anche con una propria interiorità nella quale emergono paura, senso di colpa e vergogna, senso di inadeguatezza, vissuti tali da portare il soggetto non

solo a non chiedere aiuto, ma ad isolarsi nei propri pensieri prima, ed ossessioni interiori poi. Cosa fare quindi per aiutare ogni singolo soggetto? Quali interventi apportare per favorire il benessere di ogni poliziotto, dell’organizzazione e dell’intera comunità? L’Istituzione Ministeriale ed il Legislatore sono consapevoli di tali problematiche già da diversi anni. A prova di ciò, non prima e non ultima, vi è la proposta di Legge 1772/2013, ancora ferma in fase di analisi. Proposte e decreti presenti che impongono di inquadrare le figure tecniche a supporto della grande fragilità e mancanza di resilienza che rappresentano il vero e proprio disagio. Qualcosa si è fatto: sono stati istituiti sportelli di ascolto a Padova e Roma, sono state elaborate ricerche scientifiche ed eseguite pubblicazioni atte ad enfatizzare le problematiche che vive il poliziotto penitenziario, una ricerca-intervento con l’obiettivo di realizzare una trasformazione in termini di aiuto. Ma, per ottenere effetti concreti di benessere della persona, l’intervento dovrebbe essere maggiormente istituzionalizzato, legalizzato e concretizzato in ogni singolo istituto. I poliziotti penitenziari hanno bisogno di maturare nuovamente il senso collaborativo di appartenenza, hanno bisogno di sentirsi avvolti e sicuri all’interno della propria organizzazione lavorativa e tutelati a livello Istituzionale Ministeriale. Hanno bisogno di un vero e proprio sostegno psicologico tale da renderli capaci di elaborare le situazioni particolarmente provanti per la persona, sia dal punto di vista fisico, sia dal punto di vista psicologico. Hanno necessità di sentirsi appagati e gratificati, premiati per i loro meriti. Hanno bisogno di avvicinarsi alla propria famiglia. Hanno bisogno di un clima lavorativo fondato e fondante sul mutuo e reciproco aiuto, su porte aperte all’ascolto, sul rispetto della dignità che permetta di ricostruire ciò che una condizione di estremo disagio distrugge. F

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MONDO PENITENZIARIO

Gerardo Canoro Già Ragioniere dell’Amministrazione Penitenziaria rivista@sappe.it

Il materiale in consegna al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria Un altro problema irrisolvibile

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irca un anno fa ho rappresentato il problema irrisolvibile del maneggio del denaro dei detenuti da parte del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, ora affronterò un altro problema ancora più importante che è quello del maneggio del materiale dell’amministrazione da parte sempre del personale del Corpo. Devo premettere, innanzitutto, che il responsabile di tutto il materiale in uso in un istituto penitenziario è solamente il ragioniere contabile, il quale ogni anno è tenuto a presentare alla Corte dei conti il relativo conto giudiziale, in quanto previsto dalla legge di contabilità generale dello Stato. Ma, come avviene per il denaro dei detenuti, anche il materiale è in gran parte in custodia al personale del Corpo perché è quello che svolge i numerosi servizi all’interno dell’istituto penitenziario, servizi che ovviamente non può svolgere il contabile. Si pensi al magazzino vestiario, alle officine, al magazzino del materiale, tutti locali situati all’interno del carcere e condotti da personale del Corpo che in teoria dovrebbe vigilare soltanto sui detenuti addetti, mentre in realtà “gestisce” anche il materiale di cui è responsabile il ragioniere contabile dell’Istituto, il quale dà le opportune direttive agli agenti addetti ai magazzini, ma limitatamente alla parte contabile. Sono situazioni di fatto da ritenersi illegittime in quanto gli addetti ai magazzini in pratica svolgono le funzioni di “fiduciari del contabile”, compiti previsti dalla normativa contabile ma non dal regolamento di servizio del personale del Corpo, eppure sono servizi importanti per la vita carceraria e mi chiedo come mai questi compiti così essenziali siano stati ignorati dal Regolamento.

Forse è stato osservato che poiché il contabile è giuridicamente il depositario del materiale e ne è responsabile, ai sensi dell’art. 730 del regolamento di contabilità carceraria del 1920, sarebbe stato illegittimo creare dei sostituiti contabili nelle persone degli agenti che devono svolgere soltanto compiti istituzionali. Ma in realtà gli autori del regolamento hanno ignorato queste realtà di un istituto penitenziario, che di seguito descrivo. In un magazzino vestiario ci deve essere per forza un agente, ci sono i detenuti che lavorano nel magazzino; in una officina ci deve essere un agente oltre, se fortunatamente esiste, un capo d’arte civile, in quanto nell’officina vi lavorano i detenuti. Questi agenti che dovrebbero svolgere soltanto compiti di vigilanza dei detenuti addetti ai magazzini, hanno invece in consegna da parte del contabile il materiale, lo custodiscono e lo distribuiscono, svolgendo pratiche amministrative non previste dal regolamento di servizio del Corpo, quali ad es. il carico nel registro di magazzino e lo scarico da esso. Questi compiti contabili vanno svolti dal contabile, ma è impossibile perché egli non può stare per tutto il suo orario di servizio di 6 ore nel magazzino vestiario o nell’officina. Il precedente regolamento del Corpo degli agenti di custodia del 1937 all’art. 136 prevedeva che “gli agenti addetti ai magazzini disimpegnano, sotto la dipendenza del contabile, i compiti loro affidati dal Direttore. Essi quando lasciano anche temporaneamente l’incarico, hanno l’obbligo di effettuare la regolare consegna del magazzino a chi lo sostituisce.” Il regolamento di servizio del 1999, invece, tace in merito e allora? Chi deve svolgere i compiti dell’agente al magazzino che dovrebbe soltanto

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vigilare i detenuti lavoranti? Deve continuare a svolgerli il personale del Corpo perché non può essere diversamente e quindi perché non riconoscere giuridicamente questa situazione di fatto. Ma il colmo si raggiunge nelle colonie agricole ove ci sono le dispense presso le quali arrivano i prodotti di colonia, l’agente addetto li carica sul registro inventario, li vende al personale e li scarica dal registro. Anche qui non può esserci il contabile per tutto il tempo che è aperta la “bottega”. Ma ancora, sempre nelle colonie agricole presso ogni diramazione il bestiame è controllato dagli agenti, i quali inviano alla dispensa i capi di bestiame da vendere al personale compilando delle bolle di accompagnamento, uguale come avviene nelle imprese che spediscono il materiale agli acquirenti. Ed hanno un apposito registro contabile ove vengono annotate le nascite, i passaggi di categoria (ad es. da agnello ad agnellone e poi a pecora) e le spedizioni alla dispensa agricola per la vendita del bestiame. Ma sono compiti previsti dal regolamento di servizio? Dimenticati, eppure nei distaccamenti ci deve essere l’agente perché deve sorvegliare i detenuti lavoranti e il contabile come fa ad essere onnipotente e presente dappertutto ! Non vanno poi dimenticati i compiti dell’agente addetto alla cucina e dell’agente addetto al sopravvitto. Il primo ritira i generi vittuari presso il magazzino dell’impresa di mantenimento e li porta nella cucina per farli cucinare dai detenuti cucinieri, il secondo ritira, sempre presso il magazzino dell’impresa, mediante il buono condizionato da egli preparato, i generi di conforto ordinati dai detenuti e li consegna ai medesimi sulla base della richiesta giornaliera, sempre da lui preparata. Compiti prettamente contabili che non


MONDO PENITENZIARIO possono essere svolti dal ragioniere contabile in quanto la richiesta giornaliera dei generi che richiedono i detenuti va fatta nelle sezioni dei detenuti e, inoltre, vi è la presenza dei detenuti addetti al sopravvitto che consegnano nelle sezioni i generi ordinati da ciascun detenuto. Il vecchio regolamento del Corpo degli Agenti di Custodia del 1937 prevedeva all’art. 137 i doveri dell’agente addetto al sopravvitto, mentre il regolamento attuale del 1999 non prevede la figura dell’agente addetto al sopravvitto e allora tale compito chi lo deve fare se non una unità del Corpo? Da ultimo, non va dimenticato il materiale di armamento di cui è responsabile contabilmente il ragioniere contabile, poiché costituisce una categoria di inventario dei beni in consegna e di cui rassegna il relativo conto giudiziale. In effetti, il contabile non lo vede mai questo materiale, né può accedere all’armeria, alla quale è addetto un agente che gestisce il carico e lo scarico del materiale. In pratica il contabile riceve soltanto le comunicazioni circa tale carico e scarico e provvede alle relative variazioni sull’inventario contabile, ma non può andare nell’armeria per verificare il materiale d’armamento che “contabilmente” è a suo carico ! Ma il paradosso viene raggiunto con il problema delle chiavi, perché ci sono due esigenze che cozzano e non c’è soluzione. Il contabile è responsabile del materiale perché ne risponde davanti alla Corte dei Conti e quindi ha diritto a conservare il materiale stesso nei magazzini detenendo ovviamente le relative chiavi, ma il comandante è il responsabile dei locali dell’istituto e quindi come responsabile della sicurezza deve conservare tutte le chiavi dei locali e magazzini, praticamente in una apposito armadio chiuso a sua volta a chiave. E allora? In pratica la sicurezza dell’istituto prevale sulla contabilità e quindi ne fa le spese il contabile che, in alcuni casi, si è trovato a inventarsi tutti i sotterfugi contabili per eliminare ammanchi di materiale a sua insaputa, per le difficoltà di individuare il vero responsabile, in quanto l’addetto a un

magazzino giustamente afferma: ma io ho smontato dal servizio e ho lasciato le chiavi nell’armadio della portineria quindi non so che è successo durante la mia assenza. E casi del genere, purtroppo, se ne sono verificati tanti ! Chiudo l’argomento rappresentando il grande problema del fuori uso del materiale, che comporta a volte ammanchi che il contabile non sa poi come porvi riparo. Infatti, avviene spesso che materiale inservibile venga praticamente distrutto o buttato nella discarica, per ordine di un capo (comandante o capo sezione), perché non serve più, all’insaputa del contabile il quale invece va avvisato per redigere il verbale di fuori uso e inviarlo al competente Prap per il rilascio dell decreto di scarico. E spesso il materiale accantonato nei cortili viene poi ritirato dai mezzi della nettezza urbana e povero contabile, non potrà mai più dimostrare che quella determinata attrezzatura ritirata inconsapevolmente dalla nettezza urbana era fuori uso. Ecco, questa realtà deve essere conosciuta dal personale del Corpo che di fatto si trova a gestire il materiale in uso nell’istituto. Mi riferisco agli agenti addetti ai magazzini vestiario, ai magazzini del materiale in genere, al personale in servizio nelle sezioni detenuti, i quali dovrebbero far trasportare il materiale fuori uso in appositi locali per essere messo a disposizione del contabile che in tal modo può verificarne la quantità e le caratteristiche, al fine di redigere il prescritto verbale per lo scarico. Dopo aver descritto tutte queste situazioni sconcertanti chiedo come mai il regolamento di servizio del Corpo non abbia previsto tanti compiti amministrativi indispensabili per il buon andamento dell’amministrazione e che debbono essere necessariamente svolti dal personale del Corpo. Mi auguro che chi di competenza provveda a far integrare in sede legislativa il regolamento di servizio dei compiti amministrativi che svolgono gli agenti perché non può farsi diversamente se si vuole assicurare il buon andamento di tutti i servizi della vita carceraria. F

L’AGENTE SARA

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Covocazione come teste in Tribunale iao Agente Sara sono l'Agente Martina, volevo chiederti come funziona nel momento in cui devo presentarmi in Tribunale in qualità di teste per un fatto non inerente il servizio. Devo andarci con un giorno di congedo ordinario?

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Ciao Agente Martina, ti richiamo la circolare del DAP n. 385043 del 10.10.2003 dalla quale si evince chiaramente alla lettera d) ... qualora il dibattimento per fatti non inerenti il servizio, si svolga nell'ambito del comune sede di servizio, al dipendente compete il congedo straordinario in quanto la chiamata a deporre da parte dell'Autorità Giudiziaria, è evento caratterizzato da una insita forza coattiva priva di ogni discrezionalità da parte dell'Ufficio interessato. Agente Sara

Per tutti i vostri dubbi scrivete all’Agente Sara: rivista@sappe.it

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a cura di Giovanni Battista de Blasis

COME SCRIVEVAMO

Alle origini del manicomio criminale

di Assunta Borzacchiello Venticinque anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica Come Scrivevamo che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

I

manicomi criminali nacquero per rispondere all'esigenza di separare i pazzi criminali dai detenuti comuni, in quanto i primi rappresentavano un elemento di pericolo e disordine per l'ordine e la sicurezza delle carceri. Un primo esempio di manicomio criminale si ebbe nel 1850 a Dundrem in Irlanda, un secondo nel 1858 a Perth in Scozia ed un terzo nel 1863 a Broadmoor in Inghilterra. Ma già prima che i pazzi delinquenti venissero custoditi in appositi istituti, in Inghilterra era stato posto il problema della punibilità di individui dichiarati folli. L'Insane offender's Bill del 28 luglio 1800 fu l'atto formale con il quale il Parlamento inglese riconobbe legalmente la follia delinquente, a seguito di tre episodi delittuosi messi in atto da altrettanti individui, riconosciuti insani di mente. Gli episodi vennero ricordati da David Nicolson in uno scritto del 1877 e sono i seguenti: nel 1786 tale Margaret Nilson tentò di assassinare il re Giorgio III, dichiarata folle fu destinata a una cella nell'asilo di Bethlem. Il secondo episodio si verificò quattro anni dopo, nel 1790, quando John Fritz, pazzo conclamato, scagliò una pietra contro il re che passeggiava in carrozza, rinchiuso in prigione per circa due anni l'attentatore fu liberato a condizione che fosse custodito e sorvegliato come malato di mente. Il terzo episodio ricordato dall'autore ebbe luogo nel 1800. Tale Hatfield sparò contro il re nel teatro di Drury Lane. Il dibattimento fu condotto da Lord Kenyon, convinto assertore della pazzia dell'uomo, convincendo il Jury ad emettere un verdetto di non colpevolezza.

Fu questo verdetto ad affermare per la prima volta il riconoscimento legale della follia delinquente, dei pericoli connessi e dei doveri sociali relativi al fenomeno. Il primo Asilo ad accogliere folli criminali fu l'Asilo di Bethlem che accolse 60 internati, seguirono poi altre sezioni per folli criminali all'interno dei tanti altri asili sparsi per il Paese.

Negli Stati Uniti il primo manicomio criminale venne istituito ad Auburn nel 1855 e con legge del 12 maggio 1874 entrò in funzione quello di New York. In Canada nel 1877 con atto del del 28 aprile del 1'877 l'Asilo di Rochvood venne messo alle dipendenze delle carceri di Kingston. In Francia, dove tutti i folli, indistintamente, venivano mandati nel famigerato manicomio di Bicêtre, nel 1876 venne istituita una apposita sezione per i pazzi criminali alle dipendenze delle carceri centrali di Gaillon, una revisione della legge fu votata l'11 marzo 1887. In Germania verso il 1870-75 apposite

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sezioni per folli criminali vennero istituite nelle Case centrali di Bruchsal, Halle e Amburgo. Per quanto riguarda l'Italia l'atto ufficiale di nascita del manicomio criminale ha una sua datazione ben precisa: il 14 aprile 1877, giorno in cui l'on. Righi rivolse interpellanza al Ministro di Grazia e Giustizia, Pasquale Stanislao Mancini, in merito all'esigenza di istituire anche nel


COME SCRIVEVAMO

nostro Paese i manicomi criminali, ma già l'anno prima, nel 1876, l'allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena Martirio BeltraniScalia per sopperire al ritardo legislativo in materia di istituzione di manicomi per delinquenti folli, (sulla spinta delle teorie del delinquente nato di Lombroso e della distinzione operata da quest'ultimo tra delinquenti correggibili e

incorreggibili), trasformò l'antica casa penale per invalidi di Aversa, situata nell'antico convento di S. Francesco, (ad Aversa aveva già sede il manicomio civile), in manicomio criminale intitolandola Sezione per maniaci, sperimentando così quegli stabilimenti speciali per condannati incorreggibili. La sezione accolse un primo nucleo di 19 pazzi criminali rappresentando l'antefatto di quelli che sarebbero stati i manicomi criminali. Stabilimenti che alla loro origine e per diverso tempo accolsero non già i prosciolti per infermità mentale che presentassero un grado di pericolosità sociale, ma soprattutto soggetti impazziti durante la detenzione o detenuti in attesa di perizia. Torniamo, quindi, alle vicende parlamentari che condussero alla istituzione ufficiale del manicomio criminale. A seguito della interpellanza dell'on. Righi, Agostino Depretis, capo della sinistra storica) presentò un apposito

disegno di legge una prima volta il 15 marzo 1881 e una seconda volta il 21 aprile 1884. Seguì un quinquennio di continue reiterazioni di tali disegni di legge e in vista dell'approvazione del Codice Zanardelli si pensò di rinviare in quella sede la soluzione del problema, infatti all'art. 46 si stabiliva che il Giudice, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la consegna all'Autorità competente per i provvedimenti della Legge. Lasciando, in questo modo, alla categoria dei medici impegnati nel settore la responsabilità di decidere sulle sorti degli alienati. Intanto cambiava anche la denominazione dei manicomi criminali i quali dopo il 1890, a un anno dell'entrata in vigore del codice Zanardelli, saranno denominati Manicomi Giudiziari (una ulteriore ridefinizione si avrà nel 1975, allorquando, a seguito della riforma

AVERSA Fin dal 1813 Aversa ospitò il primo manicomio civile del Regno di Napoli per sopperire ai bisogni di tutte le province del Regno, arrivando ad ospitare punte di 900 - 1300 ricoverati. Il manicomio civile nacque come emanazione della sezione per maniaci del grande Ospedale degli Incurabili di Napoli e per la difficoltà di collocare i folli respinti dagli ospedali comuni. La costituzione di questo primo esempio di manicomio rappresentò il riconoscimento ufficiale della follia come malattia da curare accanto a patologie come la tisi, le cardiopatie, ecc... Ma se un primo discorso sulla follia iniziava ad essere affrontato, restava il grande problema dei criminali folli ai quali era ancora più difficile trovare una collocazione tanto più che i manicomi civili facevano a gara per respingerli. Nel 1877, come abbiamo ricordato in queste pagine, con Beltrani-Sacalia si sperimenta la prima sezione per folli criminali. L'edificio che ospitò il manicomio era un antico convento di Paolotti, circondato da abitazioni private, il quale aveva subito nel corso degli anni numerose modifiche, per la sua destinazione ai più svariati compiti carcerari. Nel 1907, per rendere più umane le condizioni di vita dei ricoverati, si pensò di demolire gli edifici che lo circondavano e di costruire nuovi padiglioni. Per i lavori di ampliamento e di rimodernamento furono utilizzati gli stessi ricoverati. Aversa ospitò anche la prima sezione per donne criminali prosciolte (illustri ospiti furono, tra gli anni Trenta e Quaranta; Leonarda Cianciulli detta la saponificatrice e Rina Fori detta la bestia di San Gregorio). Un primo nucleo di 20 ricoverate venne ospitato nella casa succursale di S. Agostino, in seguito affluirono, oltre alle prosciolte, anche le giudicabili. In breve Aversa ebbe l'unica sezione femminile di manicomio criminale su tutto il territorio del Regno. Polizia Penitenziaria n. 269 • febbraio 2019 • 29

Nelle foto: a fianco la copertina del numero di gennaio 1995 nell’altra pagina il cortile di un OPG e il sommario del numero di gennaio 1995 sotto una vecchia immagine del manicomio di Aversa nella pagina seguente la vignetta

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COME SCRIVEVAMO

MONTELUPO F. Il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino venne istituito a dieci anni di distanza da quello sorto ad Aversa, nell'ex villa granducale Medicea, detta dell'Ambrogiana, sito a Montelupo presso Firenze, già utilizzata come casa di pena per donne e istituto per minorenni corrigendi.

penitenziaria, saranno denominati Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Successivamente all'esperimento di Aversa, la Direzione Generale delle Carceri tentò altri esperimenti nel resto dell'Italia. Nel 1876 istituì di propria iniziativa, in assenza di disposizioni di legge, un secondo manicomio criminale a Montelupo Fiorentino e nel 1897 un terzo nacque a Reggio Emilia. I nuovi istituti ebbero un assetto provvisorio nel Regolamento carcerario del 1890, agli artt. 469 e 490, il cui contenuto poteva così riassumersi: i manicomi criminali dovevano accogliere gli alienati criminali condannati, giudicabili e prosciolti; che il governo di costoro fosse affidato a medici alienisti col titolo di Direttori Sanitari alla dipendenza del Direttore carcerario; che tutto il trattamento dei ricoverati fosse demandato a speciali regolamenti interni.

REGGIO EMILIA Il terzo manicomio criminale del Regno d'Italia venne istituito a Reggio Emilia, in un antico convento adibito a casa di custodia e situato ai confini della città. Come era già avvenuto ad Aversa, vennero colà inviati, al posto degli invalidi ivi custoditi, i criminali folli che sostituirono totalmente i primi.

BARCELLONA P.G. Il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto nacque a seguito della legge 15 marzo 1907, a breve distanza dalla linea ferroviaria che collegava Messina a Palermo. La sua costruzione iniziò nel 1908, ma a causa del terremoto che in quell'anno si verificò in Sicilia, i lavori subirono un rallentamento al fine di realizzare i lavori secondo criteri antisismici. 30 • Polizia Penitenziaria n. 269 • febbraio 2019

Con il Direttore Generale Doria i manicomi criminali furono affidati ai medici alienisti, i quali vennero incorporati nel ruolo dei Direttori carcerari. Infine, nel 1930 il codice penale Rocco introdusse le misure di sicurezza stabilendo il cosiddetto sistema del doppio binario, tuttora vigente. F


SICUREZZA SUL LAVORO

Decreto Legislativo n.81/2008: stress da lavoro correlato

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a Medicina del Lavoro definisce lo stress da lavoro correlato come la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell'ambiente lavorativo eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste. Si tratta di una problematica in costante aumento e che colpisce sempre più lavoratori, motivo per cui il datore di lavoro non deve assolutamente sottovalutarla. Egli dovrà avvalersi, al fine di prevenire tale disagio, di ogni procedura utile ed in particolare servirsi dello strumento della valutazione del rischio, elemento quanto mai essenziale per garantire la salute del lavoratore e la produttività aziendale. La presenza di situazioni di stress, inteso come reazione generica dell’organismo rispetto alle richieste a cui viene sottoposto, è normale sia nelle giornate di lavoro sia nella vita privata. Tuttavia, quando diventa eccessivo e continuativo, può sfociare nella manifestazione di sintomatologie fisiche ed emotive che incidono sulla qualità della vita e delle prestazioni lavorative. Lo stress in sé non è una malattia, ma una condizione cagionata da fattori esterni che hanno un impatto sulle capacità del lavoratore. Si parla, infatti, di stress da lavoro correlato quando a causarlo è il protrarsi di fattori tipici del contesto e della modalità lavorativa, caratterizzati di solito da ritmi troppo intensi e/o sproporzionati alle capacità del lavoratore. L’evoluzione dei sintomi dello stress da lavoro da correlato può degenerare in questi casi in una patologia, ed avere effetti negativi sia sulla persona che sulla realtà lavorativa in esame,

traducendosi fattivamente in un: calo delle performance del lavoratore, aumento degli incidenti causati da errore umano, assenteismo o atteggiamenti generalmente negativi. Detta situazione può (per meglio dire deve) essere prevenuta e contrastata, ma è necessario che il datore di lavoro si impegni ad applicare le adeguate linee guida per la valutazione e gestione del rischio da stress lavoro correlato. Il quadro normativo rappresentato dal D.Lgs. 81/08, individua lo stress da lavoro correlato (SLC) come uno dei rischi soggetti a valutazione e gestione, nel rispetto dei contenuti esplicitati nell’accordo europeo 8 ottobre 2004. Anche la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro ha elaborato indicazioni utili alla valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Con la circolare del 18 Novembre 2010 ha delineato un percorso metodologico che prevede anche le tempistiche da rispettare, per un monitoraggio efficace (per esempio, l’obbligo della frequenza di valutazione ogni 2/3 anni, salvo non esistano situazioni pregresse che richiedano l’adozione di provvedimenti più restrittivi). Anche l’Inail dal canto suo ha sviluppato una nuova proposta (ottobre 2017) di facile attuazione per ogni realtà lavorativa. Detta proposta è basata su approcci e procedure che sono frutto di attente ricerche scientifiche. L’obiettivo è sostenere il datore di lavoro, fornendogli tutti gli strumenti e le conoscenze necessarie per prevenire e gestire il rischio stress lavoro correlato: un metodo che in parte ricalca ed integra il modello di management standard predisposto dall’Health and safety executive

(Hse) contestualizzandolo, però, al D.Lgs. 81/08. Il percorso metodologico prevede il coinvolgimento attivo dei lavoratori e delle figure preposte alla prevenzione, ed è articolato in quattro fasi principali: 1. Fase propedeutica: consiste nella preparazione organizzativa delle attività di valutazione e rischio. 2. Fase della valutazione preliminare: in questa fase l’obiettivo è valutare alcuni indicatori organizzativi di natura oggettiva. Viene svolta l’analisi degli eventi sentinella e la rilevazione degli indicatori di contenuto e contesto del lavoro, attraverso un’apposita lista di controllo. 3. Fase della valutazione approfondita: finalizzata alla rilevazione delle percezioni dei lavoratori riguardo gli aspetti di Contenuto e Contesto del lavoro, connessi con il rischio SLC; va obbligatoriamente intrapresa qualora l’esito della valutazione preliminare abbia rilevato la presenza, in uno o più gruppi omogenei, di una condizione di rischio SLC, e gli interventi correttivi attuati non abbiano ottenuto l’effetto di abbattimento del rischio. 4. Fase di pianificazione degli interventi: l’obiettivo di questa fase è sviluppare e pianificare una strategia d’intervento, per evitare che l’eventuale situazione di rischio crei danno ai lavoratori e all’azienda. A dimostrazione dell’impegno verso il tema della prevenzione, l’Inail ha messo a disposizione una piattaforma online per gli strumenti di valutazione del rischio. E’ opportuno precisare, in conclusione, quanto contenuto nel T.U.S.L., il quale, all’art. 28, elenca una serie di obblighi in capo al datore di lavoro, prescrivendo in particolare che la valutazione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori deve riguardare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori ivi compresi quelli riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari tra cui quelli collegato allo stress lavoro correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’08/10/200”. F

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Luca Ripa Dirigente Sappe Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza rivista@sappe.it


a cura di Erremme rivista@sappe.it

LE RECENSIONI Adolfo Antonio Bonforte

MANUALE OPERATIVO DI PUBBLICA SICUREZZA MAGGIOLI Edizioni pagg. 411 - euro 45,00

molteplici ambiti di intervento delle forze di polizia, nonché delle connesse attività autorizzatorie e di controllo: dalle armi alle attività di vigilanza privata, dai pubblici esercizi agli spettacoli, dal gioco agli stupefacenti, ecc.

Italo Cati

E

ccellente questo Manuale tecnico-operativo sul diritto della sicurezza pubblica con orientamento a carattere didattico ma, al contempo, dettagliato nell’enunciazione delle problematiche concrete legate ai singoli aspetti legislativi e alla loro applicazione. Assolve con merito all’obiettivo dell’opera: fornire un supporto che permetta non solo di conoscere in modo semplice ed esaustivo le norme, le disposizioni e gli adempimenti principali in materia di pubblica sicurezza ed essere un utile ausilio sia a chi è impegnato nelle quotidiane attività operative, sia a chi si trovi ad affrontare un concorso o un corso di istruzione nelle forze di polizia. Il Manuale prende in rassegna e analizza tutti gli aspetti legislativi e giuridici delle materie disciplinate dal TULPS e dalle varie normative collegate, in modo da delineare, anche grazie all’ausilio di prontuari e tavole sinottiche, un quadro completo e aggiornato dei

1941-1943 SOLDATI NELLA STEPPA L’Armata Sovietica contrapposta ai soldati italiani... Gruppo Alpini di Cervignano del Friuli pagg. 175

a campagna italiana di Russia rappresentò la partecipazione militare del Regno d'Italia all'operazione Barbarossa, lanciata dalla Germania nazista contro l'Unione Sovietica nel 1941. Venne costituito un corpo di spedizione, forte di tre divisioni, denominato Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), arrivò sul fronte orientale a metà luglio 1941. Inizialmente inquadrato nell'11ª Armata tedesca e poi nel Panzergruppe 1, il CSIR partecipò alla campagna fino all'aprile 1942, quando le esigenze del fronte richiesero l'invio di altri due corpi d'armata italiani che assieme allo CSIR furono riuniti nell'8ª Armata o Armata Italiana in Russia (ARMIR). Schierata a sud, nel settore del fiume Don, l'8ª Armata assieme alla 2ª Armata ungherese e alla 3ª Armata rumena avrebbe dovuto coprire il fianco sinistro delle forze tedesche che in quel momento stavano avanzando verso Stalingrado. Il 13 gennaio 1943 inizia la ritirata dalla Russia del corpo di spedizione italiana, L’ARMIR (Armata Italiana in Russia). Con essa, ebbe inizio il dramma di valorosi combattenti: alpini, fanti, militi, bersaglieri, carabinieri, carristi e cavalleggeri che percorreranno quasi 350 chilometri tra la neve del gelido inverno russo con temperature intorno ai 40 gradi

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sotto zero, privi di vettovagliamento, di trasporti e di ogni genere di fabbisogno per combattere l’avanzata sovietica guidata dal “generale inverno”. In 50000 non faranno ritorno, quasi la metà del CSIR, l’originario corpo di spedizione italiano partito nell’estate di due anni prima quando le sorti del conflitto non lasciavano dubbi sull’imminente vittoria tedesca. Questo straordinario libro di Italo Cati ricostruisce, con la perizia dello storico ed il supporto di documentazione eccezionale, quella pagina tragica della storia d’Italia che non deve mai essere dimentica, esaminando le forze che si contrapponevano.

G. Bacile, E. Bezzen, F. Longobardo

PRONTUARIO DI POLIZIA GIUDIZIARIA. Guida pratica per le attività di indagine... (con formulario) MAGGIOLI Edizioni pagg. 314 - euro 42,00 uesto valido ed importante Prontuario, giunto alla quarta Edizione, permette a tutti gli operatori di polizia giudiziaria, siano essi ufficiali o agenti, di avere a disposizione un valido strumento per acquisire la necessaria padronanza e dimestichezza con le disposizioni del codice di procedura penale e per compiere tutti gli atti di indagine − d’iniziativa o delegati − nel modo più corretto sotto il profilo sostanziale e formale. L’opera si pone l’obiettivo di guidare gli operatori nella quotidianità del lavoro investigativo, facilitandoli in ogni attività di indagine e indirizzandoli verso un approccio più corretto, tutto orientato al processo. Questa quarta edizione, oltre ad essere aggiornata alle ultime disposizioni di legge, si arricchisce con un sostanzioso contributo in materia di sostanze stupefacenti che, con la sezione dedicata ai casi pratici analizzati e svolti in sede giudiziaria,

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LE RECENSIONI intende conferire al Prontuario un taglio sempre più operativo, a beneficio di tutti gli operatori di polizia, fornendo elementi di conoscenza utili alla corretta conduzione dell’attività investigativa e di polizia giudiziaria. I lettori, inoltre, avranno a disposizione tutta la modulistica necessaria, grazie ai numerosi esempi di verbale riportati all’interno del testo, ma soprattutto attraverso la possibilità di consultare e scaricare la ricchissima raccolta di modulistica (ben 199 modelli) inserita all’interno della sezione on line del Prontuario (www.approfondimenti.maggioli.it). I mperdibile, specie per la formazione e l’aggiornamento professionale.

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PRONTUARIO PER IL PRIMO INTERVENTO DELLE FORZE DELL’ORDINE LA TRIBUNA Edizioni pagg. 192 - euro 11,00 olto utile e interessante questo volume, che descrive oltre trecento casi di intervento delle Forze dell’ordine tratti dalle innumerevoli richieste che giungono al numero di emergenza per le più svariate motivazioni. Si va, infatti, dal caso dei writers che imbrattano i muri con le bombolette spray all’insegnante che perquisisce le tasche o gli zaini degli alunni, dal marito che spia la moglie dentro casa con l’uso del registratore ai baci ed abbracci in luogo pubblico tra soggetti consenzienti, dall’antifurto dell’auto che suona ripetutamente al cane del vicino che abbaia di notte. Quest’Opera, aggiornata con il Decreto Legislativo 10 aprile 2018, n. 36 che amplia l’istituto della procedibilità a querela di parte e con il Decreto Legislativo 1 marzo 2018, n. 21, che introduce nuove fattispecie di reato nel codice penale, rappresenta un vero e proprio protocollo operativo, creato in modo tale da indicare

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schematicamente l’iter da seguire nei casi trattati, elencati in ordine alfabetico per una più facile consultazione, permettendo, con estrema semplicità, di individuare la norma, la procedura da applicare alla fattispecie concreta, nonché la procedibilità che può essere a querela di parte o d’ufficio. Imperdibile!

IL TULPS E LE LEGGI COMPLEMENTARI PER LE FORZE DELL’ORDINE LA TRIBUNA Edizioni pagg. 2.030 dizione ad hoc per la Collana che la Casa editrice La Tribuna ha riservato alle Forze di Polizia, questo Codice aggiornato con il Decreto Legislativo 1 marzo 2018, n. 21, che introduce nuove fattispecie di reato nel codice penale, si conferma strumento utilissimo per le attività connesse ai servizi di pubblica sicurezza. Non tralascia alcuno degli argomenti che posso interessare l’operatore delle Forze di Polizia coinvolti in tali servizi e, per tanto, diventa strumento prezioso di consultazione.

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Ken Besinger

CARTELLINO ROSSO. Come la FIFA ha sepolto il più grande scandalo della storia del calcio NEWTON COMPTON Ed. pagg. 406 - euro 14,90

L’

inchiesta che fa luce sullo scandalo sportivo più grande del mondo. E non è ancora finita. «"Cartellino rosso" è accurato e affascinante, una ricostruzione perfetta del caso di corruzione che ha scosso il mondo. Con una scrittura appassionante, Ken

Basinger spiega perché niente sarà più come prima» – Charles Duhigg «Un magnifico lavoro di ricerca, che scava in profondità nelle indagini e racconta un intero mondo criminale» – Kirkus Review «Il libro perfetto per chiunque voglia capire meglio che cosa è successo in questi anni del mondo del calcio» – Booklist Il racconto inedito dello scandalo che ha sconvolto la FIFA: uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni, che ha coinvolto decine di paesi e non ha risparmiato nessun evento recente di uno degli sport più popolari al mondo, il calcio. Il "caso FIFA" è emerso in modo quasi inaspettato: indagando sulle dichiarazioni dei redditi di alcuni dirigenti sportivi, gli agenti si sono ritrovati davanti un enorme caso di corruzione internazionale. Nella sua inchiesta, Ken Bensinger racconta lo scandalo e le personalità che ne sono state travolte. Da Chuck Blazer, a Jack Warner, fino all'uomo più potente di tutto il mondo dello sport, il presidente della FIFA Sepp Blatter, la corruzione era un sistema attivo da anni, un meccanismo oliato di tangenti, frodi e riciclaggio di denaro sporco che non ha risparmiato nemmeno i Mondiali. Questo libro porta alla luce la storia reale, oltre i titoli di giornale, raccontando non solo il più grande scandalo della storia dello sport, ma anche uno dei più grandi casi di corruzione internazionale mai registrati. F

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di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2019 caputi@sappe.it

L’ULTIMA PAGINA Il mondo dell’appuntato Caputo CARI SINDACATI, SE VI HO DETTO CHE VI CONVOCO TRA UNA SETTIMANA VUOL DIRE CHE VI CONVOCO LA PROSSIMA SETTIMANA. NON POTETE SOLLECITARMI OGNI MESE!

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