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VERSODOVE 0.

Il testo che segue è una sorta di resoconto, di passaggio attraverso la storia della rivista e del progetto che la sosteneva. Si è scelto la forma del testo per appunti, scrivendo o utilizzando frammenti di pezzi redazionali, di editoriali e di lettere, per rispondere in modo aperto al questionario. 1.

Versodove nasce a Bologna, come gruppo, nel 1988, a seguito della Biennale dei giovani artisti dell’Europa mediterranea, non da un manifesto, da una dichiarazione di poetica a priori, ma da un progetto di ricerca a vasto raggio per superare - nella convinzione che la scrittura si alimenti di dialoghi il principale problema della scrittura poetica di quegli anni: il riflusso nel privato, la sospensione della riflessione critica e del dibattito pubblico. La prima parte della sua attività è infatti orientata in questo senso, con la costituzione di un centro di documentazione, l’organizzazione di reading aperti al pubblico, di incontri con altri gruppi di giovani scrittori e con studenti delle scuole superiori; punti di arrivo sono il foglio di scrittura e grafica “Campimagnetici”, l’antologia Rzzzz! (Transeuropa 1993) e la fondazione della rivista, nel 1994, che condivide l’orientamento al sondaggio, all’esplorazione, al dialogo, alla ricerca, al confronto. 2. Quello che a noi risultava chiaro era l’esigenza di confrontarci trasversalmente, con tutti, sul terreno della scrittura, in un momento storico in cui il paesaggio testuale da indagare si estendeva ormai dall’accademia alla scrittura di ricerca, senza troppe discontinuità all’insegna del nemo legit, omnia licet. L’unico atteggiamento possibile ci è quindi parso quello di dare spazio ai diversi punti di vista, di farli dialogare, di fare insomma da cassa di risonanza alla pluralità di voci, perché queste non si perdessero nel rumore di fondo di polemiche ormai obsolete. A sorreggere tutto questo c’era e c’è l’idea che la letteratura debba confrontarsi anche con tutte le sue possibili contaminazioni, con tutti quei luoghi in cui la scrittura vive non solo come parola scritta, ma anche detta, recitata, cantata, tradotta: dal teatro alla musica, dal fumetto al cinema sino all’architettura del numero 13. Com’è evidente, a fondamento di queste operazioni sta sempre una riflessione (né può essere altrimenti): che per sussistere la poesia, la scrittura, abbiano bisogno di una qualità di attenzione, debbano cioè fare i conti con il proprio situarsi, con il compito di orizzontarsi. Per fare questo è necessario un supplemento di pensiero, contro l’industria dell’ingenuità e i sacerdoti del silenzio e dell’ignoranza: i canti smemorati sono troppo facili da intonare in un postmoderno che è tutto una canzone. La presenza della voce non sta quindi nella scrittura come effetto sonoro, finzione scenica, ma è il ritmo delle parole nei giorni: un’attitudine partecipativa, cui si deve la capacità di essere nel flusso linguistico (a contatto con il pop e le «lingue di massa», le «lingue ricevute») senza tuttavia arrendersi al frammento e alla «mimesi del rumore», ma sempre con un’inclinazione interpretante. Secondo una scelta che accomuna molti autori giovani (in senso largo), il modello – per necessità, non per posa intellettuale – è quello della «descrizione e narrazione» implicito alla struttura della critica. Lo sforzo di «riuscire a vedere» il disagio epidermico rispetto a un clima e dunque includerlo, e includere l’io piccolo, nello sguardo più ampio dell’atmosfera, consente l’apertura di campo alla «situazione», un qui da cui pronunciare la voce, in luogo dell’io fragile e fallibile. Il rapporto con il paesaggio si propone allora come forma privilegiata del rapporto con la percezione fenomenologica della spazialità, del corpo nello spazio: con l’«essere al mondo» come territorio d’incontro degli spazi e degli sguardi che apre alla dimensione plurale, uscendo dal soggettivismo, senza per questo ricercare collettività epiche o neorali, ma aprendo essenzialmente alla dimensione architettonica dell’esperienza comune e restituendo un senso storico alla poesia, non come programmatico elemento contenutistico o decorativo. L’immagine del paesaggio nella nostra prospettiva non è più per il poeta «luogo dell’anima», ma «luogo del corpo» fisico, cui spetta il compito di abbracciare la complessità delle trame e delle intersezioni dialogiche: una peculiare «mappa», insomma, resa indispensabile dal bisogno di orizzontarsi dell’uomo moderno nel «labirinto gnoseologico-culturale». Sono di ormai molto tempo fa le analisi della struttura labirintica della nostra contemporaneità: il pensiero debole ha poi creduto di risolverle con l’accettazione di un piacevole caos, del frastuono della neoralità. Cercare la forma del paesaggio è invece la volontà di leggere una forma riconoscibile delle rappresentazioni culturali del nostro «essere al mondo», un possibile orientamento precario, senza

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