Anterem N. 80

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L’ESPERIENZA POETICA DEL PENSIERO

5 EDITORIALE 7 Aldo Giorgio Gargani La nascita attraverso la scrittura (nota di Cecilia Rofena) 11 Alberto Folin L’abnegazione del poeta 14 Yves Bonnefoy Narrazioni (tr. Feliciano Paoli) 20 Nicole Brossard Nuche 2 (tr. Silvana Colonna) 26 Ida Travi Citare, recitare 29 Christian Hubin Il senso. Il dire (tr. Margherita Orsino) 32 Christine Huber Da oltre misura e rapide (tr. Gabriella Rovagnati) 42 Jacques Garelli Del poema in forma di paesaggio (tr. Federico Leoni) 44 Flavio Ermini Poesie 47 Franc Ducros Dar da pensare (tr. Anna Chiara Peduzzi) 50 Antonio Prete La luce del confine 52 André du Bouchet Assiomi (tr. Maria Obino) 62 Luce Irigaray A proposito di un pensiero necessariamente poetico 66 Ranieri Teti Endosfera 69 Cecilia Rofena Poesie 72 Giorgio Bonacini - Stefania Roncari Scritture 78 Marco Furia Fisionomia dissimile 80 Caroline Zekri Della memoria (tr. dell’Autrice e di Alessandro De Francesco) 82 Tiziano Salari Piacere della conoscenza e questione della verità 86 Giacomo Bergamini Sul mio nuovo testo mento 88 Clemens-Carl Härle Ciò che resta del senso 92 AUTORI DI QUESTO NUMERO 94 PREMIO DI POESIA LORENZO MONTANO

LE IMMAGINI Oan Kyu Scrittura prima della scrittura


I luoghi verso i quali ci dirigiamo non hanno consistenza propria. Assumono quella che noi intendiamo conferire loro. L’esperienza poetica è andare verso qualcosa e, nello stesso tempo, costruire quella cosa stessa. Silvano Martini

Il numero 80 di “Anterem” inaugura una nuova serie della rivista, la sesta, con la quale ci proponiamo di enunciare e approfondire alcune questioni relative all’esperienza poetica del pensiero. È un numero problematico. Mette in pagina una pratica conoscitiva che, senza indulgere all’illusione di potersi costituire in sistema, si declina in molte articolazioni. Entra subito nel merito della tematica e chiede al lettore un ascolto particolare: un ascolto “attivo” che gli consenta di attendere quel che può essere davvero detto dal pensiero, quando questo si mette all’altezza di una parola proveniente da un altro luogo. Questo numero documenta quanto mobile sia la disposizione interrogativa alla quale ci affidiamo e mostra il preciso configurarsi di una tensione riflessiva che trae la propria linfa da elementi propri della poesia. In ciò si rivela decisivo l’intervento di poeti e pensatori che, accogliendo nel pensiero qualcosa di impensato, aiutano a comprendere e a salvaguardare la parola nella sua purezza e nelle sue tonalità emotive. «Siamo marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto» annota Otto Neurath, annunciando il fallibilismo di ogni riflessione filosofica e scientifica che tenda a proporsi come enunciato protocollare. Il che non significa coltivare l’incertezza e l’indecisione, ma prepararsi ad assumere la finitudine del pensiero e delle sue parole più appropriate come guida. In questo senso abbiamo deciso di scommettere su alcune poetiche e su un pensiero che, orientando verso la frontiera di una lingua incognita, sono in marcia verso di essa, pur nella consapevolezza di non poterla mai compiutamente attraversare. L’uomo non può sapere tutto ciò che dice ed è esposto, se vuole saperlo, alla possibilità dell’errore. Il dire prevarica sul detto e dà luogo a un pensiero incamminato verso quanto si sottrae, così come richiede la poesia che non può permanere in nessun senso, né stabilirsi in alcuna interpretazione. Un pensiero che – schiudendo le porte della coscienza ai dubbi e alle interrogazioni – nulla lascia intatto di quanto di accomodante si perpetua nel pensare. Non c’è un fondamento al quale aggrapparsi. Formulare una domanda sul linguaggio non significa cercare per essa una risposta adeguata, ma esplorare lo spazio stesso dell’interrogazione. E non potrebbe essere altrimenti se ogni domanda sul linguaggio presuppone il suo parlare già dal linguaggio. Ed è lì che si tratta di

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operare ogni volta un rivolgimento, nella cui incompiutezza c’è qualcosa di silenzioso che viene a interrogarci. I saggi qui raccolti si affidano a un pensiero che vuole restare in cammino. L’intento che li anima è di raggiungere alcuni luoghi in cui l’esperienza del pensiero si raccorda con la poesia; prestando la massima attenzione all’intersecarsi in un punto, senza tuttavia perdere di vista il tracciato dei fili che lavora alla sua formazione. Abbiamo abdicato dalla centralità del metodo e seguiamo le tracce che portano alla natura metamorfica del linguaggio. La scelta di questa via obliqua ci pare forse la più idonea a seguire il cammino di un pensiero che non ama essere ordinato in una struttura categoriale. Il nostro ricercare intende corrispondere all’estremo rigore del dire pensante. Ecco la questione sulla quale rimane situato e imperniato il nostro pensiero. Nell’ordire l’intricata rete dei testi poetici, narrativi e teorici che formano questo numero, abbiamo inteso privilegiare la precisione nell’aderenza al tema, individuando ogni volta le difficoltà, misurandole; di volta in volta sforzandoci di trovare una risposta o accogliendo come dato ineludibile l’incompiutezza. I passaggi tra i vari testi non risultano univocamente determinati. Ogni contributo di indagine e di riflessione muove da attese create dagli altri lavori che trovano spazio nel numero e conducono non verso una teoria critica conclusa, ma verso un’interminabile interrogazione. Bisogna intendere bene cosa sia l’esperienza poetica del pensiero. Queste pagine cominciano a mostrare in quali radici affonda e in che cosa consiste la sua radicale differenza e irriducibilità rispetto ad altre forme di conoscenza, più specificamente filosofiche e scientifiche. Il colloquio tra il pensiero e la parola poetica – quando il pensiero si mette all’altezza di una parola proveniente da un altro luogo – è un momento strutturale, decisivo del pensare che accade nel linguaggio. Nel rapporto che si istituisce, ognuno dei due termini viene sospinto al limite del proprio senso, per offrirsi a una produzione di senso principiale. Flavio Ermini

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VOIX ENTENDUE PRÈS D’UN TEMPLE Ils vont, dans cette campagne. Une campagne? Non, pas vraiment. Des cailloux, des buissons épineux, une herbe dure entre de grandes plaques de pierre grise, c’est la garrigue, il n’y a jamais eu ici de cultures. Et personne non plus, à errer sur cette terre déserte. Si déserte qu’ils sont tentés de penser qu’ils ne savent pas d’où ils viennent. Et les voici devant quelques murs ruinés, sans doute les restes d’une bergerie. Et, c’est irrésistible, ils en franchissent la porte, étroite, envahie par les branches d’un figuier. Attends, dit-il. À deux mains, il soulève les plus basses de ces grosses branches noueuses, et son amie se penche, elle passe. Ils sont dans une salle. Le plafond est encore en place, le sol encore couvert de dalles. Les murs... Mais ce sont des figures! s’écrie-t-elle. En effet, sur une paroi, non, sur deux, sur trois, des hommes et des femmes, grandeur nature, debout dans le crépi qui s’écaille. Oh, effacés! Oh, de bien peu de couleur, désormais! À peine si du rose et du bleu sont visibles dans les effritements du vieux plâtre. Quant aux visages! Combien y en avait-il? Un seul peut-être. Un qui s’est élevé, au dessus de ces corps qui semblent nus comme une montgolfière à l’horizon d’un soir d’été, et bientôt on ne la sait plus. Sommes-nous bien sûrs de ce que nous voyons? dit-il, ou dit-elle. Non, se disent-ils. Mais ils sont maintenant dans une autre salle. Et là un socle, avec rien dessus sauf une inscription, presque effacée. Crois-tu que nous pourrions déchiffrer ces signes, si nous cherchions? demande la jeune femme, agenouillée, presque nue, tout contre la pierre, sur le gravier presque rouge où il y a des brindilles. Et montrant du doigt à son ami un certain groupe de lettres, six ou sept, un peu en retrait des autres. Non, je ne crois pas, répond-il. Ce ne sont pas des mots que nous ayons sus, dans nos vies. Il se penche, pourtant. Même, il s’agenouille, à son tour, il tend sa main, lui aussi... Non, n’essayons pas de comprendre. Et d’ailleurs c’est si sombre, ici. Nous sommes dans un temple, dit-elle. Nous sommes dans les ruines d’un temple. Ils s’attardent. Ils vont d’une salle à une autre car il y en a de nombreuses. Ils vont comme ils l’auraient fait dans leurs vies. Avec maintenant du sable sous leurs pieds, dont ils aiment la chaleur. Et soudain... Ah, qu’est-ce que c’est? s’effraie-t-elle. Il répond: Quelqu’un a crié. – Non, pas crié, appelé. – Appelé, non, c’était trop...

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Yves Bonnefoy Traduzione di Feliciano Paoli

VOCE UDITA VICINO A UN TEMPIO Stanno andando, per questa campagna. È una campagna? No, non proprio. È la gariga. Sassi, cespugli spinosi, un’erba dura tra lastroni di pietra grigia. Qui mai ci sono state colture. E neppure qualcuno che vagasse su questa terra deserta. Così deserta che quasi indulgono al pensiero di non sapere da dove vengono. Ed eccoli davanti a dei muri diroccati, deve essere ciò che resta di un ovile. Ed è più forte di loro, ne varcano la porta stretta invasa dai rami di un fico. Aspetta, lui dice. Solleva con ambedue le mani i più bassi dei grossi e aggrovigliati rami, e la sua amica si china, passa. Sono dentro una sala. È ancora integro il soffitto, per terra ancora il pavimento di lastre. I muri… Lei prorompe in un grido: guarda le figure! In effetti, su di una parete, no, su due, su tre, uomini e donne a grandezza naturale, in piedi sull’intonaco che si sta scagliando. Oh, sono pressoché stinte. Oh, ormai non hanno quasi più colore! Si vede appena un po’ di rosa e blu nelle scaglie del vecchio intonaco. E i visi? Quanti ce n’erano? Non più di uno, forse. Uno che è andato su, sopra questi corpi che sembrano nudi come una mongolfiera all’orizzonte di una sera estiva; e presto non la si vedrà più. Dicono, lei o lui: siamo così sicuri di ciò che vediamo? Si dicono che no. Ma ora sono in un’altra sala. E c’è uno zoccolo, che non ha nulla sopra se non un’iscrizione, quasi sparita. E se provassimo a decifrarli questi segni, tu credi che potremmo riuscirci? chiede la giovane, quasi nuda, inginocchiata a ridosso della pietra, sulla ghiaia rossastra e sparsa di ramuncoli. E così con un dito mostra al suo amico un gruppo di sei o sette lettere, un po’discoste dalle altre. No, le risponde, non credo. Non sono parole che abbiamo conosciuto, nelle nostre vite. E tuttavia si china, anzi s’inginocchia, a sua volta, protende la mano, anche lui... No, non cerchiamo di capire. E d’altronde fa così scuro qui, siamo in un tempio, dice lei. Siamo tra le rovine di un tempio. Indugiano. Vanno dall’una all’altra delle numerose sale. Vanno come l’avrebbero fatto nelle loro vite. Ora c’è della sabbia sotto i loro piedi, e ne amano la calura. E d’improvviso… Ah, che cos’è? si chiede impaurita. Lui risponde: qualcuno ha gridato. – No, non gridato, ha chiamato. – Chiamato, no, era troppo…

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Il hésite, il ajoute: c’était trop... seul. Et qu’il est épais, maintenant, ce silence qui entoure le temple, qui règne aussi dans ces salles, ce silence de grand été avec rien que quelques cigales et ce peu de vent qui remue des tuiles sur ce qui reste du toit! – J’ai peur, dit-elle. – Non, dit-il. Nous n’avons peut-être rien entendu. Mais alors, et comme en réponse, le second de ces cris, ou de ces appels, et c’est bien plus long cette fois, une sorte de hululement où il y a de la plainte, mais aussi du très lointain, du sauvage, du triste. Quelques secondes de cette modulation, puis tout de même elle cesse. Et à nouveau si grand le silence. Si, comment dire, indéchiré. Si impénétré. – C’était là. – Oui, tout près. Ils savent que c’est dehors mais tout près. À deux pas dehors, à gauche de cette autre porte qui ouvre devant eux sur l’herbe très haute dans la lumière, une herbe désordonnée, cachant presque l’horizon des montagnes bleues. Une herbe avec des fleurs jaunes. BÊTE EFFRAYÉE Ils l’on heurtée dans ces buissons qu’ils écartaient pour se faire voie. À hauteur de leurs yeux dans les branches où elle avait grimpé, maintenant enchevétrée dedans, prise au piège. Ils la voient, elle les regarde. Son regard est un cœur battant, une pensée. Et voici que tu la prends dans tes mains, la retire de ce feuillage, elle ne se débat pas, dirais-tu même que tout son corps se détend? Comme si elle se savait déjà morte, avec l’ultime recours, sous le ciel clair, c’est l’après-midi encore, d’essayer de feindre de l’être. Morte, pour être abandonnée sur ces pierres qui n’ont pas de cesse sous leurs sandales, et là-bas, dans cette guarrigue, c’est déjà un peu de la nuit. Touche ce pelage, c’est doux. Mais attention à ces griffes! Le pelage est le marron sombre d’une chataigne tombée, il a même cette étroite zone de blanc qu’offrent, par en dessous, les chataignes. Mais c’est aussi la couleur que prend maintenant le flanc de cette colline que jusqu’à présent nous suivions. Bien finies les étincellances qui bougeaient dans ses ajoncs, il y a un instant encore. Monte la terre brune sous le vert sombre et le peu de jaune et de rouge. Et regarde ces yeux! Les yeux sont l’énigme du monde. Car est-ce un regard, ce que tu vois dans cette vie que tu tiens dans tes mains, en commençant à te demander ce que tu

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Lui esita, aggiunge: era troppo… solo. E com’è spesso ora questo silenzio che circonda il tempio, che regna anche dentro le sale, questo silenzio di un’estate vasta e niente se non cicale e un vento lieve che smuove i coppi su i ruderi del tetto. – Lei dice, ho paura. – Lui dice, no. Forse non abbiamo sentito nulla. Ma allora, e quasi in risposta, il secondo di questi gridi, o di questi richiami, e questa volta dura molto di più, una sorta di ululato con dentro del pianto e in più, ma da molto lontano, un che di selvatico, di triste. Alcuni momenti di questa modulazione poi anche questa cessa. E di nuovo il silenzio, così grande. Così, come dire, inviolato. Così impenetrato. – Era là. – Sì, vicinissimo. Sanno che è lì di fuori, ma molto vicino. Fuori a un paio di passi, a sinistra di questa altra porta che dà davanti loro sull’erba molto alta nella luce, un’erba disordinata, che quasi nasconde l’orizzonte delle montagne azzurre. Un’erba con fiori gialli. UNA BESTIA SPAVENTATA Ci hanno sbattuto contro, tra questi cespugli che scostavano per farsi strada. All’altezza dei loro occhi tra i rami dove si era arrampicata, ora vi è imprigionata, presa in trappola. Loro la vedono, lei li guarda. Il suo sguardo è un cuore che batte, un pensiero. Ed ecco che tu la prendi nelle tue mani, la togli da quel fogliame, lei non si dibatte, diresti perfino che tutto il suo corpo si rilascia. Come se sapesse di essere già morta, con l’ultima difesa di far finta di esserlo, sotto il cielo chiaro di un pomeriggio che dura. Morta, per essere abbandonata, su queste pietre che sentono a non finire sotto i loro sandali, e laggiù in questa gariga, sta per farsi notte. Senti che pelo morbido. Ma fa attenzione agli artigli! Il manto è il marrone scuro di una castagna caduta, è identica perfino la striscia di bianco che si vede sotto nelle castagne. Ma ora è lo stesso colore che prende il fianco di quella collina che abbiamo fin qui costeggiato. Il tremolante scintillio nei suoi cespugli è finito adesso, da appena un attimo. Sale la terra bruna sotto il verde scuro con appena un tocco di giallo e di rosso. E guarda che occhi! Gli occhi sono l’enigma del mondo. Non è forse uno sguardo che vedi in questa vita che tieni tra le mani, mentre ti stai chiedendo che cosa ne farai,

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vas faire d’elle, oui, lui rendre sa liberté, mais quoi d’abord? D’autant que ni toi ni moi ne savons lui donner de nom. Une belette, une baleine, disait Hamlet. Ou rien que la dérive des nuages dans le ciel de la nuit maintenant tombée. Le flageolet a des trous sur lesquels nos doigts ne savent pas se poser! Une belette, dis-tu, un furet? Qu’est-ce qu’un furet, qu’est-ce qu’un blaireau? Je voudrais connaître les noms, dis-tu. Moi je voudrais en imaginer, mais le langage est aussi fermé sur ses ajoncs et ses pierres que le sol de cette colline, tout près de nous, même sous nos pieds. Et je ne vois même plus, si, tout de même un peu, ces petits yeux, ce regard. Et brusquement la bête se débat, se libère presque. Et tu resserres tes mains, tes doigts. Elle est à nouveau tout immobile. Va la poser sur cette pierre, là, devant nous. Cette pierre qui brille un peu, car voici que la lune s’est levée, elle a quelques lueurs pour cet affleurement du rocher, une étendue presque nue, et plate, bien qu’elle ait des bosses mais légères. On croirait la table d’un sacrifice. Je touche le dos de la bête, ne dois-je pas lui dire adieu, avant qu’elle ne s’échappe, dans ce monde qui ne nous a pas enseigné tous les mots qu’il faudrait, tous les gestes qui délivreraient? Et déjà tu te penches, mais nous sursautons, l’un et l’autre, un cri a été poussé, làbas, près de ces ruines où nous étions, tout à l’heure. Un cri, puis, nous écoutons, quel silence, et à nouveau c’est lui, et qui se prolonge, cet hululement, puis s’arrête. C’est le même, nous disons-nous. Et de même qu’auprès du temple, nous avons peur. Mais rien, rien d’autre, rien de plus dans le silence de là-bas et de toutes parts, ce silence qui fait corps avec ce qu’il y a de nuit tout autour de nous, et en nous. Car c’est vrai, je l’ai déjà dit, qu’il fait nuit maintenant, sauf toutefois sur cette petité étendue de pierre grise, presque brillante. Distraitement tu as posé la bête sans mouvements sur la pierre. D’un bond elle se déploie et déjà elle a disparu dans les broussailles noires voisines.

NOTE Deux fois déjà je me suis demandé comment, premier homme et première femme que nous étions, nous sommes sortis du jardin originel. Et je me poserai la question encore. Nos mots sont si peu capables de rendre compte du plus évident, du plus simple! Il ne peuvent que s’en approcher par des récits qui varient avec nos humeurs d’un jour ou d’un autre. Mais aujourd’hui je me tiens loin de la grande porte qui s’est refermée derrière nous. J’erre, nous errons, en d’autres régions de ce grand plateau désert qui s’étend presque à l’infini devant elle, parsemé de pierres, de maigres buissons bas, avec parfois des pins d’Alep dans les creux et des chênes verts. En français, mes chers amis italiens, nous appelons cela des garrigues. Yves Bonnefoy

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sì, ridarle la sua libertà, ma a cosa anzitutto? Se né tu né io sappiamo darle un nome. Una donnola, una balena, diceva Amleto. O solo la deriva delle nubi nel cielo della notte che intanto è calata. Il piccolo flauto ha dei buchi sui quali le nostre dita non sanno posarsi. Una donnola, tu dici, un furetto? Cos’è un furetto, cos’è un tasso? Tu dici, vorrei conoscere i nomi. Vorrei, io, immaginarne, ma il linguaggio è chiuso nei suoi cespi di spini e nelle pietre come la terra di questa collina, vicinissima a noi, che con i nostri piedi calchiamo. E oramai vedo appena questi occhietti, questo sguardo. E l’animale si dibatte bruscamente. Quasi si divincola. Tu però con le mani e con le dita stringi la presa. E allora lei ridiviene immobile. Mettila là, su quella pietra davanti a noi. Questa pietra che un po’ riluce, è la luna che intanto si è alzata, ed ha un po’ di lucore per queste rocce affioranti, una nuda e piatta distesa, pur con dei timidi bozzi. Viene da pensare all’ara di un sacrificio. Tocco la schiena dell’animale, non devo dirgli addio, prima che se ne fugga, in questo mondo che non ci ha insegnato tutte le parole di cui si avrebbe bisogno, tutti i gesti che ci avrebbero liberato? E ti stai già chinando, ma tutti e due abbiamo un soprassalto, c’è stato un grido laggiù vicino le rovine dove eravamo un momento fa. Un grido, poi, ascoltiamo, che silenzio, e ricomincia quel prolungato ululo, poi smette. È quello di prima. Ci diciamo. E proprio come prima, vicino al tempio, abbiamo paura. Ma niente, nient’altro, niente di più nel silenzio di laggiù e di ovunque, questo silenzio che fa corpo con quanto di notte c’è intorno a noi, e in noi. È vero infatti, l’ho già detto, che ora è annottato, ma non su questa piccola distesa di pietra grigia, che quasi risplende. Tu, con fare distratto, hai posato la bestiola immobile sulla pietra. Con un salto balza più in là ed è già sparita tra i neri e vicini cespugli.

NOTA Già per due volte mi sono chiesto in che modo siamo usciti dal giardino originale, quando eravamo il primo uomo e la prima donna. Ed è una domanda che ancora mi porrò. Le nostre parole sono così poco adatte a dare conto del più evidente, del più semplice. Non possono che avvicinarsi con racconti che variano, da un giorno per l’altro, secondo i nostri umori. Ma oggi me ne sto lontano dal portone che si è richiuso dietro di noi. Sono errante, siamo erranti, in altre regioni di questo vasto altopiano deserto che si estende quasi all’infinito davanti alla porta del giardino, con pietre sparse, cespugli bassi e sparuti, e a volte con querce verdi e pini di Aleppo qua e là nelle doline. Sono garrigues. Nella lingua francese, noi le chiamiamo così, cari amici italiani. Yves Bonnefoy

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Aldo Giorgio Gargani

LA NASCITA ATTRAVERSO LA SCRITTURA* Nell’istante in cui parliamo della nostra persona essa sembra sfuggirci in quanto, anziché apparire come l’unità coesa e integrata che ordinariamente crediamo, essa manifesta un campo di tensioni e di incoerenze che rivelano il carattere paradossale della nostra esistenza. E naturalmente si tratta del confronto tra ciò che noi effettivamente siamo e ciò che noi non siamo, che peraltro non è una parte meno rilevante ai fini del significato della nostra persona. Ci siamo lasciati dietro di noi migliaia di cicli di esperienze che corrispondevano alla nostra irrealtà di cui dovevamo impadronirci, e tuttavia non ne siamo rimasti separati nemmeno per un istante, ogni giorno ci troviamo ancora faccia a faccia con esse, eppure per quanto strano possa essere noi non ci siamo mai incontrati. Il linguaggio ordinario è impotente a restituire la paradossalità di questa condizione esistenziale, e precisamente perché esso non riesce a farsi carico della nostra realtà mai accaduta, che è ineffabile, indicibile e che si manifesta attraverso i buchi, le lacune e gli abissi che si aprono nel corpo del testo nel quale la scrittura ci racconta. In questa scrittura in effetti noi siamo e poi anche non siamo, ed è questa ambiguità che sfugge al linguaggio ordinario denotativo, il quale non afferra il cono d’ombra che l’irrealtà del nostro essere proietta su ciò che siamo e su ciò che siamo diventati, sottraendo la nostra persona alle sue astrazioni, alle sue idealizzazioni proiettive e agli arbìtri della volontà, in cui ci illudiamo che la nostra realtà consista, e restituendola al gioco tra sfere chiare e oscure nelle quali per la verità la nostra esistenza trascorre e si declina. È questa condizione indivisa di essere e non essere, di sogno e veglia, di zone illuminate e di recessi oscuri della nostra coscienza che va al di là del linguaggio ordinario, il quale uncina soltanto fatti opachi, sordi e muti, che costituiscono la pelle indurita della nostra persona, ma sotto la quale scorre la nostra esistenza alla ricerca del suo sogno oscuro. Ed è questo sogno oscuro lo scenario possibile ed eventuale di quella trasformazione di noi stessi che può culminare in una nuova nascita. Noi siamo al tempo stesso attori e spettatori di un grande dramma dell’esistenza; dramma che coinvolge anche la scienza * Il 18 giugno 2009 è scomparso Aldo Giorgio Gargani. Era uno dei nostri più preziosi collaboratori e costituiva per noi un punto di riferimento costante nell’elaborazione delle tematiche letterarie e filosofiche che via via negli anni andiamo approfondendo su “Anterem”. Lo ricordiamo riproponendo un testo pubblicato in “Anterem” 60 (giugno 2000). Sono pagine che, come emerge dall’intervento di Cecilia Rofena in memoriam, anticipano la tematica che affronteremo in questa sesta serie della rivista – L’esperienza poetica del pensiero – e appropriatamente inaugurano questo numero.

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e che, come ha osservato il fisico Niels Bohr, ci pone di fronte all’esigenza di ricorrere a linguaggi alternativi, tra loro incoerenti e perfino paradossali per trattare con le particelle atomiche. Anche la teoria relativistica ha la sua premessa nel sogno di un’irrealtà che Einstein, all’età di sedici anni, si era figurato domandandosi come gli sarebbe apparso il mondo fisico se egli l’avesse sorvolato a cavallo di un’onda luminosa. Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori, e che poi è modellata dalle autorità parentali, familiari, sociali, culturali e da tutte queste istanze noi siamo resi di colpo responsabili senza per così dire averlo richiesto. Ma poi c’è una nuova nascita, che non è quella recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura che stabilisce il nuovo stile secondo il quale noi ora esigiamo di essere compresi dagli altri. È questa la nascita che noi attraversando la vicissitudine imprevedibile della scrittura ci diamo da noi stessi. Ma essa non è l’effetto di un atto arbitrario che la nostra volontà compie a suo piacimento e d’altronde essa non è nemmeno il resoconto obiettivo e neutrale della nostra esistenza passata. Da un lato la ricerchiamo e la definiamo come una legge misteriosa ma necessaria del nostro essere e dall’altro la scopriamo come la nostra vera nuova vita che si forma e si costituisce attraverso l’atto della nostra scrittura. La nostra nuova, seconda nascita emerge da questa relazione nella quale essa appare sospesa tra scoperta e invenzione, ed è davvero sorprendente come la realtà dell’esser nostro debba essere raggiunta attraverso un processo paradossale mediante il quale bisogna reinventarsi per mezzo della scrittura per diventare alla fine quello che si è. Noi siamo noi stessi e poi siamo ancora qualcosa di più di noi stessi e la nuova nascita che ci attribuiamo attraverso la scrittura è lo sguardo rinnovato che trema nella dismisura dell’indecisione tra quello che noi siamo in quanto persone definite dai contorni della nostra esistenza passata e quello che in noi stessi si spinge avanti come ciò che non ha stabilità, né struttura rigida, che è continuamente trascinato via e che indica un destino aperto di segni. L’arco di questa tensione, il quale costituisce l’inquietante campo di forze che attraversa lo spazio della nostra esistenza divisa tra l’ansietà delle origini e l’innovazione della nostra seconda nascita, è portato al suo compimento da una risoluzione etica essenziale che è immanente all’atto stesso della scrittura. Anziché una semplice, alternativa versione estetica della nostra persona, la nuova nascita è invece implicata nello sforzo etico che fa muovere nuove parole. Da un certo punto in poi una storia segreta di noi stessi ci rivela che le parole trasmesse dai nostri predecessori, parenti, amici, interlocutori, che hanno contribuito a formare la versione ufficiale della nostra persona, non sono più in grado di raccontare il nostro essere. Ma quelle parole peraltro ci sono familiari, sono parti di noi che al tempo stesso noi non riusciamo più a incontrare anche se abbiamo a lungo coabitato con esse; dobbiamo compiere un atto di coraggio etico per rimuoverle da noi, per sacrificarle, perché colui che non è disposto a scendere nelle profondità di se stesso, in quanto è troppo doloroso, è poi destinato alla superficialità anche nella sua scrittura. Una via è solo una via, ve ne possono essere tante altre, ma noi scegliamo quella che è indicata dall’esattezza intellet-

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tuale dell’emozione che ci fa riconoscere l’esser nostro precisamente in quello che noi non siamo ancora. La nostra nascita non è quello che noi riferiamo, non abbiamo la nostra nuova nascita davanti come un oggetto compiuto da descrivere; questa sarebbe un’illusione e una superstizione di noi stessi. E invece noi raccontiamo nella nostra scrittura le vicissitudini di una passione etica che richiede il coraggio di una nuova via e il sacrificio di quello che eravamo stati. Ci ridescriviamo, raccontiamo da capo noi e la nostra storia, trattiamo del sacrificio delle parti vecchie di noi, è di queste soprattutto che parliamo, e allora poi all’orizzonte di questa rivisitazione del nostro passato si dischiude ed emerge la nostra seconda nascita, che si è compiuta con noi mentre raccontavamo tutto quello che siamo stati e tutto il dolore che abbiamo attraversato.

Polifonia del pensiero In memoriam. Nota sull’opera di Aldo Giorgio Gargani

Quale pratica e quale progetto filosofico emergono dall’opera di Aldo Giorgio Gargani? È una trama fitta, i cui fili d’indagine disegnano scenari intellettuali che restituiscono la tonalità degli studi a Pisa, il carattere di una tradizione e della trasformazione impressa da uno dei maestri di Gargani, Francesco Barone, rivelando la pluralità e i piani intersecantisi di molte figure e istituzioni, come l’Istituto poi Dipartimento di Filosofia di Pisa, la Scuola Normale Superiore, il Wissenschaftskolleg di Berlino, l’Università di Vienna e Oxford, la Österreichische L. Wittgenstein Gesellschaft. Nella polifonia del pensiero di Gargani risuonano, infatti, molte voci, una storia d’influenze e scambi che testimoniano un periodo in cui le istituzioni pubbliche e private, anche italiane, impegnavano le loro migliori energie nel moltiplicare spazi e occasioni di confronto fra pratiche filosofiche e scientifiche, fra saperi confrontabili e criticabili (è da augurarsi che questo sia sempre e ancora possibile). Le scuole di Oxford e Cambridge, la filosofia di Ludwig Wittgenstein,

il neopositivismo logico, la Vienna fin-de-siècle, le origini della filosofia analitica e l’epistemologia contemporanea sono i luoghi che Gargani ha attraversato nella ricerca del contributo «rivoluzionario», nel senso di Thomas Kuhn, all’origine di nuovi vocabolari e «prima di ogni nuova scoperta», usando l’espressione di Wittgenstein: alcune sue direttrici conducono a Quine, Sellars, Davidson, Brandom, Nozick, altre all’analisi di testi e contesti storico-letterari come i saggi su Musil, Hofmannsthal, Beckett, Bernhard, Bachmann, al confronto con la psicanalisi (Freud, Bion, Matte Blanco, Resnik) e all’interesse originario e originale per la riflessione sui problemi epistemologici e gli aspetti filosofici delle scienze fisico-matematiche (in particolare gli studi su Galilei, Newton, Mach, Boltzmann, Einstein). Una motivazione forte unisce gli aspetti di questa ricerca: ripensare la filosofia nel suo rapporto con i differenti saperi, nel confronto fra metodi e domande. La prospettiva d’indagine si misura allora con i limiti e le possibilità della razionalità, con

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lo stato attuale delle questioni e dei problemi filosofici, per mettere alla prova quella ricchezza della capacità analitica della disciplina che Gargani interpreta nel rapporto con l’esperienza, secondo una radice etica e sulla scia di un’influenza pragmatista che annovera nel fine filosofico gli effetti del linguaggio sui modi di pensare e vivere. In quanto esercizio di una razionalità non necessitante, impegnata a trovare vie praticabili della chiarezza concettuale, il metodo abbandona la teoria e si risolve nell’analisi critica di aspetti influenti del dibattito filosofico contemporaneo. L’intenzione di quel movimento filosofico si spinge fino a incorporare i differenti linguaggi e codici, esplicitandone limiti e sviluppi, per tradurne i differenti assunti in una formulazione di sintesi, fino all’esercizio di nuove forme o generi di scrittura filosofica come in Sguardo e destino, Il testo del tempo e L’altra storia. Esercizio di critica e, nello stesso tempo, moto di variazione sul tema, dal singolo autore al problema filosofico, ripetuto in un sistema di rimandi e conferme interne, nella lezione orale e scritta che diventano tracce di un percorso attraverso la cultura scientifica, filosofica e letteraria. Orientarsi nella storia del pensiero mantenendo una misurazione e valutazione degli strumenti a disposizione, secondo una verifica

della capacità descrittiva e costruttiva dei criteri adottati, è il modo della sua pratica analitica: così il dialogo con Richard Rorty, ma anche il confronto, dal lato dell’epistemologia, con Hilary Putnam o, dal punto di vista dell’estetica, con l’interlocutore Stanley Cavell (vi sono gradi d’influenza da esplicitare, come nel confronto con Michel Foucault accostato da Arnold I. Davidson nella sua lettura del Sapere senza fondamenti, recentemente ripubblicato). Realizzazioni diverse dell’esercizio filosofico, nella prassi dell’analisi applicata anche a differenti aspetti della cultura (il cinema, il teatro, la musica, l’organizzazione aziendale), sono in Gargani la controparte degli esercizi interpretativi, quasi un esperimento o una prova di tenuta dell’analisi concettuale. Da questa attenzione e modulazione delle differenti forme di sapere impegnate nella decifrazione della realtà, regioni rese abitabili dalla filosofia, possiamo allora trarre un motto e un compito di consapevolezza: il metodo estende il campo cui si applica. Come cerchiamo e come domandiamo dice ciò che stiamo cercando, i nostri modi di interrogare definiscono i limiti e i confini del campo che, nei casi più felici e riusciti, contribuiremo a estendere, “provando e riprovando”. Cecilia Rofena

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Giacomo Bergamini

SUL MIO NUOVO TESTO MENTO Misuro più volte la distanza che mi separa dal vuoto. Aggiungo un’altra maschera al mio essere. Credo che stiano chiamando. È un lamento di sillabe lontane, che compongono un nome. Un nome gridato forte, che non accetto per mio. Nemmeno da piccolo mi chiamavano così. Non ricordo bene come mi chiamassero. Non certo con quel nome lunghissimo. Troppe consonanti appuntite, dolorose da ascoltare tutte insieme. Poi sembrano accostate alla rinfusa. Come se le vocali si fossero messe tutte in coda, per paura. Non riconosco quel nome per mio. Forse sono un altro a mia insaputa? Forse qualcuno me l’ha dato e io l’ho perduto senza saperlo. Provo a togliere dal nome qualche consonante. Nulla. Mi vengono nomi piccoli, ridicoli, che chiunque rifiuterebbe. Sigillo questo nome e il grido che lo crea. Il messaggio è già in questa busta, che getto nel fiume. Lascio la mia casa, i miei figli e le loro madri. Parto. Il mio compito è quello di sorvegliare il messaggio che il fiume trasporta. È così piccolo e puro che potrebbe aver paura dello stesso suo pensiero. Sono in viaggio da molti anni, con questo sogno portato dalle acque. Forse non tornerò più indietro. Perlomeno con la ragione, io non tornerò. Cammino lungo questo fiume, nel quale inevitabilmente andrò a morire. Comunico con il mondo, emettendo un silenzio scritto. Il mio respiro va, come a decomporsi in un grido dentro la bocca. Mi sono allontanato, forse, perché cedevo ormai al sonno, alla morte. Avevo attraversato la città nella parte più labirintica. Entravo in un sogno di carta, mentre qualcuno mi gridava negli orecchi. Camminavo sulla neve dell’illusione, tracciando dei segni, con un ventaglio di palpebre socchiuse. Volevo spazzare il passo al tempo. Vedevo ormai tutto di profilo. Soltanto una ragazza che portavo, per vanto, sempre con me e che spesso dimenticavo nelle tasche, incominciava a un mio ordine a spogliarsi tra le mie dita. Le porgevo continuamente nuovi abiti, che lei indossava e toglieva in continuazione. Ma i ritmi e i luoghi segreti del suo corpo li celavo a chiunque li leggesse. Arrotolavo la fanciulla nei miei quaderni, dissimulando impronte e ansia. Sebbene fossi entrato in lei, mi era a volte estranea. Ma era sempre con me, con le sue numerose voci, quando mi perdevo nella labirintica scrittura. «È tutto inutile?» le chiedevo, dimenticando sovente la risposta. La portavo comunque, dentro il mio essere. La mostravo a pochissimi amici. «Non voglio che si parli di lei!» ripetevo. «Non voglio che si parli di lei con la cipria sulle labbra!» Ma per quanto la scacciassi questa paura ritornava in me. «Si è soli», mi diceva a volte, accompagnando le parole con le mani. Lei tornava sempre a danzare sopra il foglio di carta, mostrandomi i suoi giochi e le ingegnose trappole e rivelandomi i suoi giocattoli, attraverso uno

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strip tease esemplare. Una sua parte è arrotolata dentro le mie tasche. La porto a morire in questo estremo viaggio. Che io faccia finta di fingere è un dubbio che lascio ai “migliori fabbri”. Intanto l’illusione si fa sempre più grande e incomprensibile. Occorrerebbero le acque di più fiumi, sovrapposti come fogli trasparenti, per capire il più possibile la profondità del mio vuoto. Ma io ricevo costantemente un’infinità di domande sui miei padri. Non so cosa rispondere. Mi hanno strappato di dosso i diari, registrati i passi, la voce. «Ecco», dicono, «è la tua!». Non conosco questa voce, per la quale sono condannato a scrivere. «È necessariamente giusto scrivere?», mi chiedono. «Fortunatamente», rispondo «questo viaggio non avrà termine. Non ho infatti con me né mappe né desiderio di arrivare». In questo racconto le parole sono come estranee tra loro. Ma sempre sul punto di presentarsi. Sebbene, a volte, si mostrino al medesimo ballo e io le nomini in assenza di un significato preciso. Pretendono di essere ugualmente ascoltate: il silenzio pretende di essere ascoltato. Esso si insinua nel messaggio come in una festa, dove tutti gli invitati recitano, ma senza essere costretti a patteggiare la recita. Ho abbandonato la mia casa, per una ragazza che vive ormai una stanza vuota e fredda. La guarda soltanto un muro giallastro. Mi chiama per nome e ciò mi dà fastidio. Mi dà fastidio anche perché vuole ispezionare i miei pensieri. La mia testa è vuota. Qualcuno ha portato via tutte le mie carte. Mi sento nudo. Lei mi accusa di incapacità. «Di quale padre sei?», mi chiede ridendo. Mi porge insistentemente carta e penna, che rifiuto. Il mio rifiuto può apparire più un diario esploso, che la riflessione sulla seduzione di un viaggio. Vorrei restituire alla fanciulla tutte le parole che mi ha donato, ma si restituisce soltanto ciò che si è posseduto. Forse l’amo ancora, per questa sua ilarità pensosa, che non garantisce nulla. Ho accettato, confesso, di custodire il messaggio, perché da esso mi attendo il senso di questa storia. Due uomini siedono sull’argine di un fiume. Stanno pescando. Hanno tutta l’aria di essere ciechi. Uno dei due muove il capo lentamente. «Credo di non vedere quello che vedo», dice, «da questo lato pare che la mia vita sia già finita. Dal tuo?». «Il mondo è fatto di verità sospette», risponde l’altro che gli sta accanto, «perché dal mio lato sembra che sia la mia vita quella già finita». Pescano infine il messaggio, che rigettano in acqua. Forse sono loro l’aria, il fango e il fuoco che alimentano questo fiume. La voce che allarga le zampe, come cicala dalla voce bruciata. E se il messaggio fosse tutto qui? Ho abbandonato i miei figli, le mie donne, la città, soltanto per la follia. Mi sono allontanato troppo ormai. Non conosco la distanza che mi separa dal vuoto. Mi sono troppo allontanato. E tutto per avere il mio nome inciso in una nicchia.

Giacomo Bergamini (1945-2004) è uno dei poeti più significativi della seconda metà del Novecento. Lo attestano le raccolte di poesia Hiatus (1980), Il martello di Faust (1983), 8 poesie sulla paura (con Giorgio Guglielmino, 1996), La malattia delle parole (1997), oltre ai numerosi testi pubblicati, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, in riviste, antologie e quaderni collettivi. Formatosi alla scuola di Adriano Spatola – in quella straordinaria officina poetica che è stata “Tam-Tam” –, Bergamini ha poi fatto parte per oltre vent’anni della redazione di “Anterem”, collaborandovi fino agli ultimi giorni di vita con una ricerca verbale dolorosa e personalissima, che questo intenso e acuminato racconto inedito testimonia.

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