La crisi economica ci travogerà ?

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La maggior parte delle persone non comprende quello che sta accadendo attualmente nel mondo dell’economia. L’impressione diffusa è che nessuno sappia veramente cosa si possa fare per arrestare un declino economico che sembra devastante. E ci si domanda sempre più frequentemente come mai questa grande crisi non fosse prevedibile. E se lo era, perchè non sono state intraprese azioni adeguate? Se, infine, la crisi non era prevedibile ciò dimostrerebbe che il sistema finanziario è ormai fuori controllo. Tenteremo di dare una spiegazione di quanto è successo, anche alla luce delle grandi crisi economiche che si sono succedute nel corso degli ultimi due secoli. Ognuna di queste crisi è nata da specifiche situazioni e ha avuto un proprio svolgimento. Eppure deve essere possibile cercarvi un filo conduttore. Questo testo propone quindi qualche punto di riferimento storico e un’ipotesi di lettura dell’attuale crisi. Quest’ipotesi ovviamente non è l’unica ed è ben lungi dal chiarire una crisi complessa come quella attuale. Muovendo da una breve analisi delle crisi precedenti analizzeremo innanzitutto la natura dell’attuale crisi finanziaria, soprattutto alla luce dell’attuale fallimento di un mondo a credito basato sui mutui subprime e sui prodotti derivati. Ciò ci consentirà di riflettere sulla legittimazione morale dei precedenti modelli economici e di quello attuale in particolare. In questa crisi un ruolo negativo lo hanno esercitato sia la finanza, che ha preso troppi rischi, sia la tecnologia, poichè troppe aziende non hanno realmente innovato. I rischi del mondo finanzario, a loro volta, sembravano essere protetti da un modello matematico che alla prova dei fatti si è dimostrato in parte inattendibile. La pubblicità, poi, ha esercitato un’influenza negativa creando anch’essa le premesse per un modello di iperconsumo che si è scontrato con la scarsità di consumo dei cosiddetti beni posizionali, ossia di quei beni che non possono essere soddisfatti da tutti contemporaneamente. Ciò ha inevitabilmente condotto a una forma di congestione sociale da cui è nato un eccesso di disuguagliante socio-economiche. E’ compito allora dello Stato cercare di riordinare l’intero scenario: ma come? Verranno allora formulate alcune ipotesi su quanto potrebbe o dovrebbe accadere. Forse, come nel 1792 dopo la battaglia di fronte al celebre mulino di Valmy, sta nascendo un nuovo mondo e noi, come disse Goethe che era lì, potremo dire di esservi stati presenti. Le grandi crisi economiche Crisi economiche della portata di quella attuale erano già avvenute nel passato e sembra, anzi, che si siano ripetute, anche se in modi diversi, secondo una cadenza temporale quasi rigida, in pratica circa ogni cinquanta-sessant’anni. La prima grande crisi dell’era moderna era stata innestata dalla Rivoluzione Francese che aveva totalmente destabilizzato il modello socio-economico di quella che era la nazione più evoluta e popolosa dell’Occidente. A questo trauma erano seguiti quasi due decenni di guerre con le quali la geografia politica dell’Europa era stata più volte ridisegnata, fino a ad arrivare a una sua stabilizzazione con il Congresso di Vienna del 1814-1815. Dopo il Congresso di Vienna era seguita una fase di stabilità che aveva permesso all’emergente borghesia e al modello di produzione capitalistico di consolidare i propri ruoli. Ma già intorno al 1860 una prima grande crisi si abbatteva sul sistema capitalistico con conseguenze non molto dissimili da quelle attuali: fallimenti di banche, disoccupazione, indebitamenti, cadute di governi e infine conflitti militari di grande rilevanza come la guerra di Crimea, la guerra di secessione nord-americana, la guerra franco-prussiana e le guerre risorgimentali italiane. 2


Il sistema si era quindi nuovamente stabilizzato e il ruolo più avanzato nell’economia veniva assunto dagli Stati Uniti che, prima con le ferrovie e quindi con l’elettricità, davano un formidabile impulso all’evoluzione infrastrutturale della loro società. L’avvento delle autovetture, e del petrolio come fonte di energia, unitamente all’espansione delle industrie costruite secondo il modello della catena di montaggio consolidavano definitivamente la leadership nordamericana. Eppure la grande crisi del 1929 metteva in luce una grande debolezza strutturale del sistema dell’economia mondiale che veniva investita da una crisi non dissimile da quella di sessant’anni prima. Ancora una volta fallimenti, disoccupazione e cadute di produzione in differenti settori dell’economia. La grande crisi del 1929 creava le premesse per nuovi conflitti drammaticamente confluiti nella Seconda Guerra Mondiale: un conflitto che ha di nuovo ridisegnato la geografia politica del mondo. Le tre grandi crisi fin qui brevemente descritte sono state crisi strutturali nelle quali l’intero sistema economico è stato lacerato in più parti. Se per certi aspetti le crisi sono simili (fallimenti, accesso al credito, disoccupazione, caduta dei consumi,..) esse tuttavia hanno cause e svolgimenti dissimili. Ma ogni crisi ha rimesso in discussione la legittimità morale del modello economico entrato in crisi. Inoltre nello stesso arco di tempo in cui sono avvenute le tre crisi, ossia più o meno gli ultimi due secoli, diversi cicli tecnologici si sono succeduti a intervalli quasi regolari. Questi cicli sono stati causati dall’evoluzione della tecnologia che in periodi diversi ha consentito la costruzione di prodotti e servizi innovativi. Da quasi due secoli, infatti, l’economia cerca di sfruttare ogni possibile innovazione per accrescere ricchezza e prodotti. E sembrano essere proprio le innovazioni tecnologiche il motore inarrestabile di tale crescita perché maggiori capitali e maggiore manodopera non sono in grado di spiegare da soli la crescita stessa. Anche nei periodi di stagnazione o di crisi l’eventuale decelerazione economica viene contrastata da ulteriori innovazioni. L’economista Joseph Schumpeter è stato il primo a ipotizzare, intorno al 1940, che un’economia vitale non è quella che cerca di ottimizzare le risorse esistenti in un ambiente stabile ma piuttosto quella che viene costantemente pungolata da innovazioni tecnologiche che agiscono come onde di “distruzione creativa”. Secondo Schumpeter a partire dalla prima industrializzazione, più o meno alla metà del diciottesimo secolo, si sono susseguiti alcuni lunghi cicli economici caratterizzati dalla predominanza di particolari tipi di attività industriali. Ciascuno dei cicli iniziava quando un nuovo insieme di innovazioni veniva a costituire una vera e propria infrastruttura tecnologica complessiva, come è accaduto alla fine del 1700 con energia idrica, industria tessile e ferro; a metà del 1800 con vapore, ferrovie e acciaio; all’inizio del 1900 con elettricità, motori a combustione intera e chimica; a metà del 1900 con industria petrolifera, elettronica e aviazione. Ogni ciclo economico, dopo aver raggiunto un punto di massimo ritorno degli investimenti, ha cominciato a declinare, fin quando non è stato seguito da una nuova onda di innovazioni tecnologiche che hanno creato nuove opportunità economiche, attirato nuovi investimenti, creato nuovi posti di lavoro e nuova ricchezza. L’attuale crisi finanziaria La causa che più spesso viene proposta per spiegare l’attuale crisi finanziaria è l’indebitamento delle famiglie americane per l’acquisto di abitazioni attraverso mutui 3


immobiliari. Tra questi un ruolo chiave, in negativo, sembrano aver avuto i cosiddetti mutui subprime. I mutui subprime sono mutui concessi a persone che non hanno accesso a un tasso più favorevole perchè considerati a rischio di insolvenza. Le condizioni dei mutui subprime impongono quindi tassi di interesse più alti. A partire dal 2000, molte banche americane hanno così concesso mutui a persone che forse non sarebbero state in grado di restituire il denaro. Ma come è potuto accadere, e in una misura così grande? Il fatto è che dal 2000, e fino a quasi tutto il 2006, il prezzo delle abitazioni è cresciuto così tanto da creare una vera e propria “bolla immobiliare”. La continua crescita del prezzo delle abitazioni ha creato l’illusione che l’attività di erogazione dei mutui fosse poco rischiosa. Se il mutuo non fosse stato ripagato l’abitazione poteva essere sequestrata e rimessa in vendita a un prezzo più alto. Al tempo stesso i tassi di interesse stabiliti dalla Banca Centrale Americana (la Federal Reserve) erano progressivamente scesi proprio per stimolare l’economia. Ma c’era un altro aspetto molto importante: gli enormi investimenti che la Cina continuava a fare negli USA. Vedremo meglio più avanti la natura di questo meccanismo. Per il momento basti considerare che la quantità di denaro immessa dalla Cina nel mercato statunitense è stata veramente colossale (trilioni di dollari) rendendo disponibile un’ulteriore enorme liquidità. Tornando al meccanismo dei mutui immobiliari è importante osservare che le banche americane erano riuscite a concedere tanti mutui anche in virtù di un meccanismo finanziario, la cosiddetta cartolarizzazione, per mezzo del quale potevano rivendere ad altri gli stessi mutui, trasferendone così il rischio. Possiamo riassumere, brevemente e in modo del tutto semplificato, il meccanismo complessivo della cartolarizzazione. Una banca dispone di una certa liquidità (decine o centinaia di milioni di dollari o di euro) che può erogare in mutui. Una volta che tale liquidità si sia esaurita la banca dovrebbe attendere il rientro di tutte le rate (o di gran parte di esse) per erogare nuovi mutui. Invece può innestare un nuovo processo per ottenere ulteriore liquidità e ridurre i rischi. Può rivolgersi a un altro ente (la cosiddetta società veicolo), che potrebbe essere persino stato creato dalla banca stessa e il cui capitale è rappresentato proprio dai crediti vantati verso i clienti che hanno contratto dei mutui. La società veicolo puo' farsi finanziare dal mercato dando in garanzia sotto forma di obbligazioni (vedi più avanti) i crediti vantati nei confronti dei clienti della banca dalla quale ha ottenuto i mutui e cui ha fornito in cambio la liquidità. La banca stessa con la nuova liquidità può erogare nuovi mutui e ha così ridotto, in linea di principio, i suoi rischi. A questo punto si potrebbe inserire una nuova banca, una cosiddetta banca affari, la quale potrebbe acquistare obbligazioni dalla società veicolo e potrebbe, a sua volta, costituire una nuova società cui destinare le obbligazioni appena acquistate. Quest’ultima società a sua volta potrebbe emettere obbligazioni,… e così via. Una persona ragionevole di fronte a un simile meccanismo cosa può pensare? Non è certamente possibile creare ricchezza con questa sola sequenza di ingegneria finanziaria. E allora? L’unica spiegazione è che il valore delle case deve aumentare nel tempo (coprendo i rischi) e il denaro da restituire dovrà essere prodotto dal lavoro a venire dei mutuatari. Sembra una riedizione del motto che ahimè compariva sui campi di concentramento nazisti, “Arbeit macht frei”, ossia il lavoro rende liberi (dai mutui!). Il pericolo era insito proprio nel meccanismo di rischio. Se qualcosa non avesse funzionato correttamente l’intero meccanismo si sarebbe inceppato e le conseguenze sarebbe state 4


essere molto gravi: come infatti è avvenuto. E già intorno al 2005 qualcosa cominciava a scricchiolare nell’economia americana. I tassi di interesse iniziavano nuovamente a crescere, i mutui da ripagare diventavano più costosi, mentre il prezzo delle abitazioni cominciava a scendere. Le banche iniziavano così a registrare perdite sempre più grandi. I titoli fondati sulle rate dei mutui subprime scendevano drammaticamente di valore e diventavano, come si dice, tossici: in virtù della globalizzazione in atto la crisi si estendeva poi rapidamente all’intero mondo finanziario. Nasceva così una crisi di liquidità e veniva meno l’accesso al credito per persone e imprese. L’insieme dei mutui subprime non è stato peraltro l’unico meccanismo di ingegneria finanziaria. C’è stato anche il fenomeno dei prodotti derivati. Per comprendere cosa sia un derivato occorre partire dal concetto di azione, ossia da quell’entità che rappresenta una quota di una società. Possedere una determinata quota di azioni di una società (per esempio avere il 5% di tutte le azioni della società S) significa avere diritto a una stessa percentuale di utili della società S. E per le società quotate in Borsa il valore delle stesse è pubblico e quotato ogni giorno. Le obbligazioni (bond) rappresentano invece una quota di debito, come si è visto prima descrivendo il meccanismo di cartolarizzazione. Chi emette bond (uno Stato o un ente) chiede al mercato liquidità (ossia denaro) per finanziare proprie attività, come per esempio investimenti in tecnologia. Emettere bond vuol dire in sostanza suddividere su più contraenti la richiesta di una certa liquidità. E’ intuibile che è più facile trovare mille persone che comprano ciascuno bond per mille euro invece di una persona che ne compri da solo l’intera quota. Questi due meccanismi, azioni e bond, sembrerebbero sufficienti a finanziare l’economia liberista. Ma la finanza è molto creativa! Sono stati così creati altri meccanismi finanziari, come fondi comuni e derivati, proprio per rendere tutte le operazioni più flessibili e persino azzardate. In definitiva la finanza vuole correre dei rischi per essere premiata, quasi come in un gioco. Ma il gioco stesso diventa sempre più complicato quasi per favorire chi ci capisce di più ed è pronto a rischiare maggiormente sul futuro. Si getta della liquidità sul mercato sperando che questa produca maggiori utili, ma in una misura più rischiosa delle azioni e quindi potenzialmente più remunerativa. L’idea dei prodotti derivati non è di per sè un’innovazione recente. E’ curioso osservare che già nel 1600 i giapponesi avevano costruito un modello simile per gestire i prezzi dei contratti del riso nel mercato di Osaka e ottimizzare di conseguenza le eventuali speculazioni. Quest’analisi, denominata anche analisi a candela, esaminava i prezzi di apertura, i massimi, i minimi e la chiusura per mezzo di un grafico quotidiano a barre. Attraverso questo strumento grafico si poteva avere una percezione immediata dell’andamento del mercato. La prima generazione di moderni derivati è costituita da opzioni e future. Con le prime diventa possibile comprare o vendere un qualcosa che verrà però acquistato o venduto in futuro. Con un’opzione si sottoscrive un accordo che regolerà un rapporto futuro. Se pensiamo al mercato giapponese del 1600 possiamo capire che il meccanismo era nato sulle transazioni del riso, ma oggi le stesse transazioni possono esser applicate per esempio al petrolio. Si sottoscrive (giusto per fare un esempio) un accordo per comprare fra tre mesi il carico di una petroliera. Viene pagata una certa somma e per tre mesi viene garantita, a richiesta di chi ha comprato l’opzione, la vendita di quel carico. Nel periodo considerato, il possessore 5


dell'opzione puo' decidere di chiudere il contratto o di lasciarlo decadere. Se l’ opzione è quotata sul mercato, il suo valore cambierebbe a seconda del prezzo del petrolio. Se questo sale il valore dell’opzione sale, e viceversa cala se il petrolio scende. E’ una vera e propria scommessa sul futuro. Riassumendo, il derivato vale sul mercato in funzione del valore di un’altra entità sul cui valore si è scommesso. Con i future, poi, una parte si impegna a comprare mentre l’altra si impegna a vendere a un certo prezzo. Ci sono infine derivati più complessi, di seconda o di terza generazione, che esulano da questa semplificata analisi e che hanno reso il mercato finanziario ancora più rischioso o attraente, a seconda dei punti di vista. Ma il tutto resta comunque un meccanismo complessivo di un mondo a credito nel quale, comunque lo si voglia interpretare, ci si stava vendendo il futuro. Come non esiste la macchina del moto perpetuo così non è possibile creare ricchezza dal nulla. In definitiva l’unico meccanismo restava ancora la ricchezza creata con il lavoro a venire di coloro che contraevano mutui o acquistavano derivati, ricchezza che veniva ridistribuita in termini di interessi e rischio a chi prestava, e quindi in ultima analisi agli enti finanziari e agli investitori. L’attuale crisi sembra ancora una volta confermare che la ricchezza delle nazioni non si può costruire solo con operazioni di ingegneria finanziaria ma soprattutto con il lavoro dell’uomo, con la sua capacità di apprendere e di fare, con la tecnologia e la scienza applicate a meccanismi di produzione e di consumo. Eppure è anche vero che l’intero fenomeno è ancor più complesso. La liquidità del sistema finanziario resta assolutamente fondamentale per consentire di intraprendere nuove attività e adottare nuove tecnologie. Quindi è pure giusto che gli investitori vengano in generale ripagati del rischio che corrono, così come è giusto che esista un mercato finanziario che proprio questo permetta. Ma la cartolarizzazione del mercato immobiliare, così come i rischi dei prodotti derivati, non poteva essere considerata a pieno titolo equivalente agli investimenti fatti in realtà concrete, come per esempio in imprese industriali.

La crisi di legittimità morale Tutti i modelli economici hanno necessità di poggiare su di un sistema di valori condivisi, ossia di una base morale. Durante il Medioevo e durante il Rinascimento le repubbliche italiane, così attive e intraprendenti, avevano bisogno di un compromesso con i valori cristiani che vedevano nel profitto economico un pericolo se non un peccato. E l’interesse sul denaro prestato veniva anch’esso visto con estremo sospetto. Per Aristotele non era accettabile chiedere interessi sul denaro prestato. Ma per i romani diventava lecito. Il Cristianesimo rimetteva in discussione questo principio. Nel Discorso della montagna Gesù dice alla moltitudine accorsa: “A chi ti chiede, dà; a chi ti domanda un prestito, non volgere le spalle..” (Matteo, 5,42). Non bisogna quindi chiedere interessi. Gli ebrei però si rivolgevano all’Antico Testamento nel quale Mosè diceva: “…quando presti denaro al mio popolo , al povero che è presso di te, non essere per lui come un usuraio. Non gli imporrete interesse…” (Esodo, 22, 24). A un forestiero si potrà quindi chiedere interesse! Ecco forse la spiegazione del fatto che da allora agli ebrei veniva riconosciuta la possibilità di prestare a interesse ai non ebrei, come appare con drammatica evidenza nel Mercante di Venezia di Shakespeare, quando fa dire a Shylock (rivolto ad Antonio, nel primo atto) : “. Io 6


stavo pensando .… di venirvi in aiuto... senza prendere un soldo di interesse per il mio denaro… con la penale rappresentata da una libbra precisa della vostra bella carne, da essere asportata da quella parte del vostro corpo che, a mia libera scelta, indicherò…”. E fino al Settecento il faticoso compromesso tra l’economia mercantilista e la religione cristiana continuava senza altra forma di legittimazione. Soltanto il calvinismo vedeva nell’affermazione economica una certa forma di predestinazione e quindi di legittimazione etica. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, come avrebbe indicato Max Weber alcuni secoli dopo, sembravano già andare d’accordo. Con Adam Smith e il suo “Saggio sulla ricchezza delle nazioni” appariva una nuova forma di legittimazione: l’apparente contrapposizione di interessi tra i tanti componenti di una società non genera un conflitto permanente ma piuttosto si crea e si stabilizza una una situazione di equilibrio tra i reciproci interessi che genera un vantaggio generale per la comunità. Nella visione ottimistica di Adam Smith, l'equilibrio nato dalla contrapposizione di interessi personali rappresenta una condizione economica naturale, che può essere peggiorata dall'intervento dello Stato nella regolamentazione dell'economia e nelle restrizioni delle libertà di commercio. Se il mercantilismo seicentesco, figlio delle repubbliche italiane, prevedeva l’ intervento dello Stato, con Adam Smith nasceva un totale liberismo economico. Ognuno poteva perseguire i propri interessi perchè esisteva una mano invisibile che regolava la somma dei comportamenti egoistici individuali secondo il più generale interesse della collettività. Adam Smith aveva probabilmente derivato la sua “mano invisibile” dal terzo atto del Macbeth di Shakespeare (III,II), nel quale lo stesso Macbeth esclama :” Vieni notte che sigilli le palpebre. Fascia il tenero occhio pietoso, e con la mano sanguinaria e invisibile annulla e fà a pezzi il grande contratto che mi fa impallidire.” Se per un attimo riflettiamo sull’attuale situazione economica, nell’ambito di una visione liberista, ci accorgiamo che la mano invisibile è veramente sanguinaria, come dice Macbeth! Ma Adam Smith era anche molto attento ai valori morali della società.

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Nel suo altro fondamentale testo, La teoria dei sentimenti morali, egli affermava con chiarezza che lo Stato e le sue istituzioni potevano garantire ciò che il libero mercato non poteva offrire, soprattutto l’aiuto ai più poveri e l’educazione universale. Proprio nelle persone egli individuava sentimenti come altrusimo, fiducia, sincerità, che potevano bilanciare gli eccessi di competitività del libero mercato. Pochi decenni dopo la teoria di Smith veniva perfezionata da un altro grande pensatore liberista, John Stuart Mill, che utilizzava una metafora di grande successo: quella del mulino. L’economia è come un grande mulino per il quale occorrono sia una forza naturale, come l’acqua o il vento, capace di produrre l'energia necessaria al funzionamento della macchina, sia un meccanismo in grado di trasformare l’energia stessa in lavoro, e quindi in ricchezza. L’energia umana presente in una società sarebbe inutile, e potenzialmente dannosa, se non fosse guidata e trasformata da un meccanismo sociale, determinato secondo le leggi dell'etica, capace di distribuire questa ricchezza e di trasformarla in ricchezza sociale. All’incirca nello stesso periodo, di fronte ai grandi sacrifici imposti dalla prima industrializzazione che egli osservava in Inghilterra Marx arrivava ad affermare che il lavoro non è la fonte ma addirittura la ricchezza stessa. Secondo Marx l’elemento chiave dell’economia era la merce, ma quale prodotto dell’uomo. La merce non è altro che lavoro umano cristallizzato, e come tale è il fondamento di ogni economia. Marx è paradossalmente quasi un profeta cristiano. Credeva nel progresso, nell’uguaglianza generale, in una società a venire che qualcuno ha scherzosamente definito il paradiso rosso. Il suo è un vero e proprio universo religioso in cui il giudizio verrà rinviato a più tardi. Ma sappiamo che così non è stato. La sua visione è stata tradotta e tradita da leader politici che hanno compiuto in suo nome enormi crimini. Non solo. Se prevale l’idea che il mercato sia di per sè dannoso allora si genera l’illusione che lo Stato sia l’unica soluzione. Ma l’uno e l’altro sono creazioni dell’uomo e quindi naturalmente imperfette. Anche lo Stato può fallire, con enormi conseguenze quali la mancanza di libertà, di democrazia , di diritti civili, e l’apparizione di tiranni. Ed è questo che in sostanza è avvenuto nei paradisi marxisti. L’economia liberista ha quindi anch’essa grandi virtù, quali soprattutto il senso del rischio e della libertà individuale, e soprattutto della responsabilità. E non ci si può disinvoltamente dimenticare che più volte essa ha creato ricchezza per tanti, anche per nazioni arretrate fino a qualche decennio fa, come la Cina, che si sono comunque adeguate a un modello di economia di mercato. Marx aveva errato sia nel non tenere nel dovuto conto il capitale necessario per gli investimenti e le innovazioni, sia nell’ignorare le caratteristiche di una natura umana che Adam Smith e Stuart Mill avevano intuito essere fondamentalmente egoista, forse per motivi più biologici che etici. Ed è a fronte di queste contraddizioni che è nata la teoria economica di John Maynard Keynes, che è stata ritenuta sostanzialmente valida quasi fino ad oggi. Negli anni successivi alla crisi del 1929 ci si è resi conto infatti che il mercato da solo non riesce a raggiungere una piena stabilità, come dovrebbe essere sotto l’azione di una mano invisibile. Nel 1929, come apparentemente oggi, la grande crisi dei consumi aveva impoverito una gran parte della popolazione, soprattutto a causa di una crescente disoccupazione. Secondo Keynes la crisi economica del 1929 era dovuta ad un’insufficienza di domanda, da parte dei consumatori per i beni di consumo, e da parte delle imprese per i beni di investimento. 8


Era, secondo Keynes, il basso livello della spesa per i consumi e per gli investimenti (da parte delle imprese) ad aver causato la crisi e l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione. Occorreva un intervento dello Stato per uscire dalla crisi e per evitarla in futuro: manovra pubblica in grado di rialimentare la domanda sia dei consumatori sia quella delle imprese. Keynes pensava che la strategia migliore fosse quella di un’ accorta politica fiscale e di un’altrettanto vivace politica di investimenti statali nella costruzione di opere pubbliche, nei servizi d’istruzione, di difesa, e di assistenza sanitaria. Attraverso la spesa pubblica lo Stato poteva aumentare la domanda complessiva di beni e quindi la conseguente ripresa dei consumi che avrebbe a sua volta spinto l’intero sistema verso il pieno impiego. Dopo crisi del 1929, il messaggio di Keynes era comunque molto pessimistico e sembra oggi ancor più attuale alla luce dell’odierna crisi economica. Keynes diceva infatti che: “… il capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, non fornisce alcun bene…”. Sono parole amare ma forse profetiche. Quando dice ancora: …è opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento della vita abbia imboccato una parabola discendente,..” sembra quasi riecheggiare il pessimismo di Oswald Spengler sul tramonto dell’Occidente. Eppure alcuni decenni dopo queste parole, e soprattutto dopo il trauma della Seconda Guerra Mondiale, il mondo sembrava aver ripreso la sua marcia verso un comune benessere e quindi aver smentito le profezie di Keynes. Ed eccoci di fronte a una crisi che sembra del tutto simile a quella del 1929; e non c’è al momento una teoria economica che renda realmente conto di quanto sta avvenendo. Lo scenario è troppo dinamico e complesso per permetterne una valutazione in tempo reale.

Può essere utile, peraltro, riprendere, anche se in modo lievemente diverso, la metafora del mulino di Stuart Mill per cercare di comprendere ruolo e responsabilità della tecnologia e della finanza nell’attuale crisi. Come già accennato, l’economia può essere vista come un grande mulino per il quale occorre sia una forza naturale, capace di produrre l'energia e un 9


meccanismo in grado di trasformare l’energia in ricchezza. Questi due ruoli nell’economia moderna potrebbero essere svolti, in una visione molto semplificata, dalla finanza e dalla tecnologia, La prima attraverso il capitale e il rischio dovrebbe fornire l’energia, la seconda attraverso le innovazioni scientitiche e tecniche, i mezzi per produrre i beni o distribuire i servizi. Sono necessarie entrambe affinchè l’economia possa continuare a produrre ricchezza e quindi benessere. Se anche una sola delle due non funziona si arresta il progresso economico. Il ruolo della tecnologia nell’attuale crisi L’evoluzione dell’economia può essere rappresentata, in maniera molto semplificata, da una circonferenza, simile a quella di un orologio, sulla quale è possibile disporre, come le ore di una giornata, i diversi momenti che l’economia stessa attraversa ciclicamente.

All’inizio della giornata l’economia è in fase di espansione, i profitti delle imprese sono alti, il mercato è vivace, c’è persino carenza di manodopera, mentre i tempi di attesa dei clienti possono essere anche lunghi. Allora si investe per aumentare la capacità produttiva il che abbrevia i tempi di consegna dei prodotti fino a quando l’aumentata concorrenza, la caduta dei prezzi e la minor richiesta del consumatore non creano una situazione di sovracapacità produttiva, che è quanto in questo momento stanno affrontando innumerevoli imprese mondiali. La 10


sovracapacità produttiva e la diminuzione dei prezzi indeboliscono il mercato e inevitabilmente riducono l’esigenza di manodopera. Occorre stimolare il mercato con liquidità e possibilità di lavoro (ossia di creazione di ricchezza), con innovazioni e nuovi prodotti. Oggi si constata che una delle cause dell’indebolimento dell’economia è anche la mancata capacità di innovazione di troppe imprese. Non c’è solo una crisi di liquidità ma c’è stata anche una crisi di strategie. Da tempo alcuni modelli industriali non erano più adeguati, e tra questi soprattutto quello del trasporto privato. I consumi delle autovetture, la progressiva scarsità di idrocarburi e soprattutto i crescenti guasti ambientali hanno anch’essi concorso a determinare una contrazione del mercato dell’automobile con conseguenze preoccupanti per la maggior parte delle industrie automobilistiche. Il mercato dell’automobile deve ora, e in tempi brevi, attuare un profondo rinnovamento tecnologico, il che sembra essere in atto. E la transizione al nuovo modello industriale è ovviamente la fase più dolorosa, che coincide oggi con una fase di crisi finanziaria, e quindi di investimenti e di consumi. Ma lo stesso si può dire anche di altre industrie che non hanno saputo rinnovarsi per tempo e che ora devono affrontare una crisi complessiva di tutta l’economia. Quindi non si può affermare che soltanto i meccanismi finanziari abbiano determinato l’attuale crisi. Quest’ultima è strutturalmente più complessa e quindi più difficile da superare. Si può già intuire che al termine della crisi il mondo sarà sostanzialmente diverso non solo nei meccanismi finanziari ma anche in altre componenti fondamentali quali il trasporto pubblico e privato, le fonti di energia, la tipologia dei consumi e molto altro ancora. Il ruolo della finanza nell’attuale crisi Qual è stato poi il ruolo negativo svolto dalla finanza nell’attuale crisi economica? Una delle caratteristiche più significative dell’odierno scenario economico è la globalizzazione dei mercati finanziari. La possibilità di lavorare in tempo reale e su scala mondiale attraverso reti di computer interconnessi in vario modo ha dato agli investitori un potere crescente, che essi hanno immediatamente utilizzato per ottenere dai loro investimenti i massimi rendimenti e nei tenpi più brevi. Questo comportamento ha inevitabilmente determinato, ancora in virtù della globalizzazione, la delocalizzazione di tante attività con una conseguente compressione di salari e quindi con un minor potere locale di acquisto. In questo contesto si colloca anche la strategia americana di concedere prestiti a basso costo per l’acquisto di abitazioni, con i meccanismi e le conseguenze precedentemente descritti. E ancora occorre sottolineare il ruolo svolto dalla Cina che ha progressivamente aumentato la sua produzione di merci (spesso di basso costo) ricavandone una liquidità che non ha voluto reinvestire nel suo sistema paese. A seguito della grande crisi finanziaria asiatica degli anni Novanta la Cina ha preferito puntare su mercati finanziari evoluti, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che hanno visto così arrivare ingenti investimenti. Tra il 2000 e il 2007 negli Stati Uniti è arrivata una quantità di denaro cinese equivalente al 40% del PIL americano di un anno, e in Gran Bretagna l’equivalente di un 20% del PIL inglese di un anno. C’è da aggiungere che gli enormi investimenti effettuati in dollari hanno mantenuto basso il valore della moneta cinese e quindi molto appetibile la forza lavoro cinese, il che ha consentito tante delocalizzazioni industriali dall’Occidente in Cina. 11


Ora che la crisi economica fa sentire il suo peso diventa ancora più difficile esportare prodotti in Cina e ciò determina un forte arretramento di economie, come quella tedesca, che dalle esportazioni verso la Cina ricavavano molti benefici per la loro bilancia commerciale. Tutto questo denaro offerto dalla Cina doveva essere sapientemente investito e sembrava che i mercati finanziari americano e inglese possedessero tecnologie adeguate per gestire i modelli di rischio. Ma c’è ancora una volta da sottolineare che l’economia non è ancora una scienza. Troppi sono i parametri in gioco e soprattutto troppo forte è l’emotività umana, per non parlare dell’avidità. Le condizioni al contorno non permettono la definizione dell’evoluzione di un modello finanziario, ancor meno di quella di un modello meteorologico nel quale i parametri sono innumerevoli ma il comportamento è retto da leggi fisiche ben conosciute. Di fatto le famiglie americane sono oggi indebitate in misura tale che il loro indebitamento è pressochè equivalente all’intero PIL nordamericano. L’inattendibilità dei modelli matematici Come già accennato, dietro all’attuale crisi economica si nasconde anche un altro spettro, quello degli algoritmi matematici con i quali si credeva che fosse finalmente possibile domare o esorcizzare il rischio. In un lavoro del 1973 Fischer Black e Myron Scholes avevano formulato un’equazione matematica che sarebbe stata ampiamente utilizzata dai modelli finanziari nei decenni successivi. L’equazione si basava anche su precedenti ricerche di Robert Merton. Quest’ultimo, insieme a Scholes, avrebbe poi vinto il premio Nobel per l’economia nel 1997. L’idea su cui si basava l’equazione di Black e Scholes era che un titolo derivato è implicitamente prezzato se il cosiddetto strumento sottostante (ossia quell’attività da cui dipende il derivato) viene scambiato sul mercato. Il modello di Black e Scholes era diventato

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un vero e proprio manifesto della finanza, in grado di convincere gli investitori che quest’ultima fosse quasi una scienza esatta.

Dopo che nel 1971 era stata abbandonata la parità monetaria con l’oro i mercati finanziari desideravano avere uno strumento che in qualche modo li proteggesse contro le variazioni dei cambi tra le valute e successivamente contro le variazioni dei tassi di interesse. In sostanza si desiderava uno strumento che proteggesse dai rischi. Il modello di Black-Scholes sembrava la risposta a una simile esigenza. Per dirla molto semplicemente, sarebbe stato bello poter disporre di una formula che permettesse di conoscere il prezzo di un prodotto composto dai prezzi dei suoi componenti. Emanuel Derman (vedi bibliografia) ha osservato che in un mondo assetato e pieno di idrogeno e ossigeno era stato scoperto come sintetizzare l’acqua. Ma l’equazione di Black-Scholes resta un modello matematico, con tutte le semplificazioni adottate da un modello. La struttura dell’equazione, senza entrare nei dettagli, ricorda quella delle equazioni che in fisica descrivono la diffusione del calore. La volatilità dei prezzi sono però risultate più discontinue di quanto il modello matematico prevedesse. E i meccanismi di cartolarizzazione avevano introdotto un altro elemento di incertezza, difficilmente quantificabile. Ma c’è un ulteriore elemento di cui tener conto ed è il fattore psicologico umano. Già Keynes negli anni Settanta aveva parlato di “Animal Spirits” per indicare le instabilità insite nel capitalismo. I diversi aspetti degli “Animal Spirits” come fiducia, correttezza, avidità, corruzione non fanno parte di un modello matematico. Si è quindi sovrastimato l’approccio razionale, tanto che Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, ha detto che i modelli di rischio non hanno mai avuto un buon fondamento. Secondo Phelps è impossibile prevedere in dettaglio il comportamento di un sistema complesso come un mercato finanziario, e quindi ciò che occorre tuttora è una certa dote di intuito, soprattutto manageriale, che è palesemente mancata.

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Il ruolo della pubblicità L’aggressività dei mercati è anche frutto di una mentalità che ha fatto dei cittadini altrettanti consumatori. E la televisione in questo fenomeno ha avuto un ruolo enorme. Mentre ci si domanda quali potranno essere le conseguenze dell’inquinamento atmsferico e del surriscaldamento della Terra ci si chiede anche perché si dovrebbe cambiare l’autovettura piuttosto che il televisore o il telefono cellulare dopo un anno dall’acquisto degli stessi. La pubblicità è certamente un fondamentale strumento dell’economia e spesso è anche uno strumento di alfabetizzazione; ma la sua attuale invasività ha superato ogni ragionevole limite tanto che l’intera industria mondiale della pubblicità utilizza circa 500 miliardi di dollari l’anno, di cui l’80% nell’Occidente, soltanto per dire di consumare di più. Se quarant’anni fa una persona nell’arco di una giornata si imbatteva in un modo o in altro in una trentina di messaggi pubblicitari oggi ne incontra quasi tremila! Di fronte a questa nuova forma di vero e proprio inquinamento mentale occorre recuperare almeno misura e buon senso. Non deve quindi sorprendere che la televisione francese di Stato abbia posto dei limiti alla diffusione della pubblicità. E c’è di più, anche se la cosa non è conosciuta quanto meriterebbe. La città di San Paolo del Brasile, ossia una delle più popolose metropoli del mondo, da due anni ha bandito ogni forma di pubblicità visiva. A San Paolo sono proibite insegne, cartelloni pubblicitari, e quant’altro possa costituire un messaggio pubblicitario. La reazione della maggior parte della popolazione è stata ampiamente positiva e ha determinato nuove forme di comunicazione pubblicitaria, come per esempio la distribuzione gratuita di giornali con annunci pubblicitari. Tutto ciò è un’indicazione della possibilità di costruire un nuovo mondo, basato su meccanismi economici diversi da quelli attuali e probabilmente adeguati ai tempi che verranno.

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L’iperconsumo si scontra con la scarsità di consumo L’analisi fin qui condotta non può ignorare un ulteriore contributo, molto originale, di un economista inglese che negli anni Settanta scrisse un libro quasi profetico, “I limiti sociali dello sviluppo”. In questo libro Hirsch proponeva la tesi che non esistono possibilità di uno sviluppo illimitato e che i reali limiti dello sviluppo sono sociali e non fisici. Una volta che vengano soddisfatti i bisogni di base (mangiare, vestirsi, dormire in un’abitazione,..) i consumatori si orientano verso una quantità crescente di beni e servizi destinati a soddisfare bisogni non fondamentali. Questi bisogni, che Hirsch definisce posizionali, non possono essere soddisfatti da tutti e contemporaneamente. Essi infatti sono caratterizzati da un'offerta che non può essere aumentata più di tanto nel tempo, perchè essi sono limitati in senso assoluto, come per esempio la vista di un certo paesaggio, o in senso sociale, perchè la loro fruizione è deteriorata dall'eccessiva domanda, come per esempio l’utilizzo di un’autostrada in una domenica pomeriggio. Secondo Hirsch, poi, l’effettiva fruizione dei beni posizionali discende dallo status sociale e dal reddito individuale, ma ciò relativamente allo status degli altri. La mancata fruizione dei beni posizionali crea quindi nelle persone a più basso status sociale una crescente frustrazione. Le teorie liberiste di Smith, Mill e Keynes sono perciò imperfette. Esse, secondo Hirsch, sono in definitiva troppo individualiste. Le società aperte e democratiche, basate sui consumi di massa, devono permettere a tutti di accedere ad alcuni beni fondamentali, come per esempio l’istruzione che deve essere un’assoluta priorità della società.

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La congestione sociale L’accesso ai beni posizionali ha creato anche una psicologia consumistica che a sua volta ha spinto molte persone a cercare di guadagnare il più possibile, e ciò ha finito col creare un eccesso di disuguaglianze sociali, in una misura e in una dimensione che mai si era vista prima. Negli Stati Uniti l’un per cento della popolazione detiene di fatto il 40% delle ricchezze.

Non è facile capire come ciò sia potuto accadere, ma è un fatto che le imprese, prima nordamericane e quindi europee, hanno creduto che un modello retributivo che compensasse in misura rilevante i grandi manager fosse non solo possibile ma in definitiva persino equo. Dovendo realizzare profitti in tempi sempre più brevi per poter esaudire gli appetiti degli azionisti, a loro volta desiderosi di guadagnare nel breve periodo, si è perso il senso profondo del concetto di strategia a medio-lungo periodo, e si è piuttosto deciso di operare in tempi stretti e spesso secondo un modello di delocalizzazione di risorse tipico dell’economia globalizzata. Da una parte si sono compressi (soprattutto attraverso l’inflazione) i salari su base locale e quindi si è dovuti ricorrere al credito per stimolare i consumi, mentre dall’altra parte sono state aumentate a dismisura le retribuzioni dei grandi manager perchè si riteneva che essi fossero in grado di gestire al meglio una situazione così complessa. Ma così non è stato anche perchè, come si è detto, i modelli matematici per la gestione dei rischi si sono rivelati inadeguati.

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Il ruolo dei compensi dei grandi manager in questa crisi resta tuttavia abbastanza controverso. I manager superpagati delle imprese industriali possono aver contribuito all’insuccesso delle loro aziende, ma l’effetto è in definitiva rimasto circoscritto ai dipendenti e, forse, ai fornitori. Diverso invece sembra essere il discorso di manager di grandi banche, il cui insuccesso o fallimento ha coinvolto un numero ben più grande di persone. In questo caso la responsabilità è più ampia e complessa. Le banche non sono imprese simili alle altre perchè esse sono i centri nodali dell’economia, assicurando il funzionamento dei pagamenti e dei crediti. Sono così essenziali all’intero funzionamento di un’economia che nello scorso autunno si è deciso di proteggere al massimo i loro creditori. Qualcuno sostiene che i super-manager del mondo della finanza hanno preso grandi rischi a fronte di meccanismi di compenso approvati da consigli di amministrazione impegnati a ricercare nel breve periodi profitti per i loro enti. Altri affermano invece che gli stessi manager abbiano agito cinicamente: in caso di successo sarebbero stati superpagati, in caso contrario avrebbero preso un superbonus di uscita. Resta il fatto che alcune migliaia di supermanager mondiali hanno percepito negli ultimi anni decine di miliardi di euro di superbonus creando così delle disuguaglianze retributive insostenibili economicamente e moralmente. C’è un limite di disuguglianza economica che nemmeno un sistema totalmente liberista può accettare, ed è questa una delle cause dell’attuale crisi che ancora una volta, come già nel passato, si rivela essere anche una crisi di legittimazione morale. E’ stato recentemente osservato come tra il 2000 e attualmente Wall Street abbia distribuito tra analisti, banchieri e trader 172 miliardi di dollari di premi di fine anno. Allo stesso tempo gli analisti dell’insieme dei derivati sotto cui è collassata l' economia mondiale hanno guadagnato quasi la stessa cifra. Lo stipendio medio per l'amministratore delegato di un' azienda dell' indice S&P 500 è stato nel 2007 di 10,5 milioni, pari a 344 volte la paga di un impiegato medio mentre il rapporto a fine anni ‘90 era di meno di cento volte. Complessivamente ci troviamo di fronte a una quantità di denaro che è poco meno della metà di quanto, con estrema fatica, è riuscito a raccogliere il neopresidente americano Barack Obama per il rilancio dell’intera economina americana. 17


E anche in Europa, pur senza citare cifre che sono ampiamente documentate, le cose non sono state poi tanto diverse. Negli anni a venire nel mondo finanziario saranno certamente necessari manager quanto mai competenti per prendere decisioni su scelte operative molto complesse, quali quelle che l’odierna finanza richiede. L’eventuale presenza dello Stato nel mondo finanziario, oggi necessaria per dare liquidità in una strategia che va ben al di là del modello di Keynes, non dovrà perseguire una generica moralizzazione attuata con tetti retributivi in contrasto con una logica di mercato ma piuttosto dovrà essere molto attenta ai veri meriti professionali dei manager, e ai loro effettivi risultati. La sobrietà che viene chiesta alle classi medie, che costituiscono la spina dorsale delle nazioni occidentali, dovrà essere accompagnata da una profonda revisione del modello capitalistico, e quindi da innovazioni non solo tecnologiche ma anche etiche, perchè soprattutto queste ultime possono ridare vitalità a una società. L’uomo stesso, e quindi anche i grandi manager, deve credere in qualche cosa e la diffusa ingiustizia sociale non può che deprimerne la creatività e lo spirito di collaborazione. Nell’Inghilterra dell’Ottocento, di fronte alle sofferenze e alle miserie generate dal passaggio dal capitale fondiaro a quello industriale sia Charles Dickens sia Karl Marx, in modo apparentemente diverso, avevano condotto un’impressionante analisi del primo capitalismo. Dickens aveva soprattutto esaminato il mondo dei bambini, mentre Marx si era concentrato su quello dei lavoratori. Ambedue cercavano una qualche giustizia e in un certo senso ambedue erano confluiti in una forma di messianesimo utopista. Resta il fatto che le loro analisi restano per molti aspetti inoppugnabili: una parte della società umana non può disinvoltamente sfruttarne un’altra. La congestione sociale dell’attuale modello economico si è dimostrata fallimentare e occorre quindi una revisione del modello stesso, revisione per la quale occorreranno tempi adeguati. Ma come potrebbe essere attuata una simile revisione? Il ruolo dello Stato John Maynard Keynes aveva probabilmente ragione quando sosteneva che l’economia sarebbe stata sana se fosse stato possibile mantenere una piena occupazione e un sistema montario internazionale ben coordinato. Entrambe queste condizioni erano possibili con l’ausilio diretto degli Stati. Keynes aveva però in mente una visione dell’economia costituita da una somma di economie nazionali con capitali investiti a livello nazionale. Oggi invece l’economia è trainata soprattutto da organizzazioni multinazionali in grado di riallocare investimenti e posti di lavoro nelle nazioni più attraenti. La visione di Keynes è tuttavia ancora valida, almeno in parte, perchè come l’attuale crisi sta dimostrando lo Stato può ancora intervenire per sostenere consumi e occupazione attraverso propri investimenti. Ma ciò può avvenire solo nell’ambito di una strategia a lungo termine. Secondo Keynes lo Stato dovrebbe intervenire sulle leve fiscali e monetarie lasciando poi che l’economia di consumo si stabilizzi da sola e liberamente. Il punto è che un mercato totalmente libero e sottoposto solo agli equilibri della competitività è per sua natura imperfetto e come tale esposto al predominio degli oligopoli. Questi ultimi in un’economia globalizzata finiscono col dominare i mercati riallocando gli impieghi dove più vantaggioso, e trasferendo profitti in paradisi fiscali al di fuori del controllo degli Stati. Keynes inoltre non aveva una visione dell’economia come di un’attività complessiva che si evolveva attraverso cicli successivi, sia strutturali sia soprattutto tecnologici. Già Marx, come 18


in seguito soprattutto Schumpeter, si era accorto che la tecnologia costituiva un elemento chiave dell’economia, in grado di svolgere un ruolo importante accanto a quello del capitale. La tecnologia non solo incrementa la produttività (e quindi potenzialmente i consumi) ma determina anche la composizione del mondo del lavoro, spesso distruggendo intere categorie di occupazioni per crearne altre. Le leve fiscali e monetarie non sembrano in grado di determinare da sole l’evoluzione economica. In questo momento si pongono con chiarezza nuove esigenze, quali soprattutto una riduzione dei consumi petroliferi, un minore inquinamento ambientale, una nuova politica dei trasporti sia pubblici sia privati, un nuovo e più diffuso livello di istruzione, una crescente competenza nelle biotecnologie. Come si vede ci sono enormi opportunità per una grande onda di distruzione creativa, come direbbe Schumpeter. In un’economia globalizzata occorre quindi ripensare profondamente sia la crescita sia la distribuzione della ricchezza. La sola produttività non potrà essere più l’unico parametro per misurare la qualità di una società, come l’attuale crisi sembra dimostrare. Negli ultimi anni c’è stata un’enfasi quasi retorica in modelli di downsizing, outsourcing, busineess reengineering, che in realtà hanno finito col distruggere molti posti di lavoro. L’efficienza e la salute di una società si misurano anche dalle possibilità di inclusione sociale piuttosto che dalla congestione cui abbiamo assistito recentemente. Anche l’invecchiamento della popolazione, soprattutto nei paesi occidentali, rappresenterà una sfida e un’opportunità per la creazione di nuove occupazioni e quindi di nuove possibilità economiche. E’ intuibile che nell’ambito degli investimenti del futuro rientreranno sia i programmi sanitari sia quelli di istruzione, ed entrambi sono attività ad alta intensità di lavoro. Una scuola o un’università non possono essere giudicate in funzione del numero di studenti ma, paradossalmente, quasi per l’opposto. Il discorso sulla produttività della futura economia significherà in alcuni settori ridurre piuttosto che aumentare il numero di consumatori per lavoratore. Un minor numero di alunni per insegnante o un minor numero di pazienti per medico sarà forse reso possibile da nuove tecnologie che potranno evolversi se sostenute dagli investimenti, che a loro volta potranno essere favoriti dagli Stati. Ma il tutto deve fare parte di una strategia a lungo termine e non di tattiche a brevissimo termine dettate da azionisti avidi, come sembra essere avvenuto negli ultimi due decenni. Un complesso connubio tra Schumpeter, Keynes, la globalizzazione e l’etica sembrerebbe indicare la possibilità di una nuova grande strategia economica. Ipotesi conclusive La tecnologia e la complessità dei mercati hanno dimostrato l’impotenza degli attuali uomini politici di fronte a una crisi che non riescono a interpretare. La loro impotenza ha aperto la strada alle multinazionali e al capitale. Del resto, come diceva Marx, “il capitale soffre ogni limite come ostacolo”. Ma quando si è cominciato a vendere il futuro in un mondo a credito l’intero sistema ha finito col barcollare. Forse l’odierno capitalismo si salverà con potenti apporti di liquidità da parte degli Stati. Ma i mercati, nel momento in cui viene scritta questo testo, restano incerti per non dire scettici. Ci sono poi tre aspetti forse ancora più gravi della crisi di liquidità. Uno, forse il meno complesso, è la paura di chi deve investire. Qualcuno ha persino parlato di panico degli investitori. Nazionalizzare le banche potrebbe permettere di riportare liquidità nel breve termine, ma in prospettiva occorre un sistema più bilanciato, meno liberista ma 19


certamente non statalista, in sostanza più armonico, nel quale investimenti e ritorni di investimento, produttività e consumi, sobrietà e lusso, moderazione e desiderio si possano bilanciare. Dopo il fallimento del marxismo anche il capitalismo soffre di una profonda crisi strutturale. Il marxismo ha fallito perchè l’esagerato appiattimento della società uccide lo spirito di iniziativa e quindi il progresso. Già Aristotele diceva che l’umanità progredisce soprattutto per il contributo di un numero limitato di persone altamente creative. Ma anche il capitalismo non è riuscito a creare un equilibrio perfetto, proprio a causa dell’intrinseca avidità umana, una smodatezza che porta all'impossibilità di creare una concorrenza perfetta. E’ necessario quindi un nuovo modello economico che permetta una più equa e immediata ridistribuzione della ricchezza prodotta e che combatta l’attuale eccesso di disuguaglianze. E’ necessaria soprattutto la profonda consapevolezza di vivere in una comunità. Forse questo occorre per ridare parte della fiducia agli investitori. Ma c’è poi un secondo problema a parer nostro molto più grave. Ed è quello che riguarda l’onda di distruzione creativa che si sta di fatto abbattendo sull’economia attuale. Spariscono milioni di posti di lavoro; ma usciti dalla crisi questi posti non verranno ricreati in ugual misura e nelle stesse occupazioni. Negli Stati Uniti, per esempio, alcuni osservatori ritengono che ci saranno meno negozi, meno servizi finanziari, meno fabbriche. Ossia ci sarà una profonda ristrutturazione del mondo del lavoro e lo Stato dovrà porre molto impegno affinchè molti di coloro che attualmente perdono il lavoro possano riqualificarsi per un’altra attività. Nell’arco di tre mesi (da dicembre 2008 a febbraio 2009) negli Stati Uniti sono andati perduti circa 650.000 posti di lavoro. Molti di questi posti sono scomparsi nell’industria. Se solo si considera il settore dell’auto si constata che le vendite sono diminuite dai circa 17 milioni di vetture vendute qualche anno fa ai 9 milioni attuali. Se anche si dovesse risalire a 1012 milioni di autovetture la diminuzione di posti di lavoro sarebbe comunque rilevante. E’ quindi evidente che occorrerà un ampio e complesso piano di riaddestramento di una parte significativa del mondo del lavoro, e questo sarà vero anche in Europa e richiederà molti anni. C’è infine un ultimo aspetto che riguarda proprio l’etica, ma soprattutto quella individuale. Come ha recentemente osservato Piero Ostellino : “ che dire di certi datori di lavoro e di certi manager. Molti staccano già il venerdì a mezzogiorno per scappare in montagna d’ inverno, al mare d’estate, magari a spese dell’azienda. E rientrano il lunedì in tarda mattinata. …. Resta il fatto che il cattivo esempio troppo frequentemente scende dall’alto. Nè vale il principio che il pessimo imprenditore sarebbe il primo a farne le spese date le ricadute sociali che ha…. Come riempire l’abisso dell’etica delle coscienze individuali che la crisi finanziaria ha rivelato e far fronte alla caduta del senso di dovere e di responsabilità, a tutti i livelli, cui non è estranea la crisi dell’economia reale? Forse è vero che non tutte le crisi vengono per nuocere”. Questa fenomenologia dello spreco e della dissipazione quasi gratuita di risorse si può estendere anche ai consumi energetici che vengono utilizzati oggi con troppa disinvoltura, quasi che l’energia fosse una risorsa gratuita. La crisi dell’energia è stata solo rinviata, paradodossalmete proprio dalla crisi dell’economia. Nell’estate del 2008 il petrolio aveva superato il valore di 140 dollari al barile e qualcuno prevedeva addirittura un prezzo di 250 dollari. Ma la crisi economica ha talmente depresso i cosumi che la crisi energetica è stata sostanzialmente rinviata, ma non cancellata. 20


Il presidente Obama ha recentemente affidato il ministero dell’energia a Steven Chu, direttore dal 2004 del Lawrence Berkeley National Laboratory e premio Nobel 1997 per la fisica. Chi scrive ha avuto la felice opportunità di poter incontrare un anno fa a Berkeley il prof. Chu, il quale ha esposto la sua visione sul tema dell’energia. Il prof. Chu crede che il riscaldamento globale sia una realtà, ma pensa anche che non sia possibile una transizione immediata alle fonti rinnovabili. Il petrolio scarseggerà mentre il carbone sarà certamente necessario, e ovviamente l’inquinamento da CO2 rappresenterà un problema crescente. Egli pensa che la fusione nucleare sia molto lontana, che le centrali a fissione di quarta generazione siano attraenti ma che il problema delle scorie resti irrisolto. In sintesi, secondo il prof. Chu, la strategia dei prossimi anni dovrà essere quella dell’efficienza energetica e degli investimenti nella ricerca di opportune tecnologie . Come si vede uno scenario non tanto diverso da quello del mondo dell’economia. Il futuro quindi si giocherà soprattutto sull’efficienza, che vuol dire sobrietà e innovazione, in tutti i settori. Ma, e lo ribadiamo ancora una volta, anche efficienza etica. E’ necessaria soprattutto la profonda consapevolezza di vivere in una comunità che deve funzionare complessivamente al di là di differenze di razze, culture e ideologie. La crisi sarà forse lunga ma al suo termine ci sarà un mondo diverso da quello attuale. Rriassumendo: il decalogo dell’attuale crisi economica liquidità iniziale (valore crescente delle abitazioni, tassi di interesse ridotti, grandi investimenti cinesi in USA e UK) mutui subprime – cartolarizzazione – prodotti derivati aggressività degli investitori industrie poco innovative globalizzazione: effetti finanziari a catena nel mondo modelli matematici inadeguati (Black-Scholes) pubblicità troppo aggressiva = iperconsumo congestione sociale su beni posizionali super-manager troppo pagati per rischi (con meccanismi protettivi) etica di gruppo e individuale latente

Come faremo a salire sopra le nuvole? Come sarà possibile far fronte nei prossimi anni a una crisi strutturale che appare così complessa e variegata? E’ ovviamente molto difficile, e persino azzardato, rispondere a questa domanda che è nella mente di una gran parte dell’umanità. Le crisi strutturali si manifestano sempre con un forte senso di discontinuità rispetto al passato, tanto che esse vengono di solito indicate con il termine rivoluzione. Durante il loro manifestarsi si avverte proprio il senso di un mutamento profondo. Com’è noto il termine rivoluzione venne introdotto da Copernico che, descrivendo il moto dei pianeti intorno al sole, voleva esprimere l’idea del passaggio da un punto dell’orbita a un altro a esso opposto e quindi l’idea di un mutamento totale, e non parziale.

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In una crisi strutturale tutti, o quasi, gli aspetti di una società vengono coinvolti e trasformati. Si può allora cercare di immaginare quali potranno essere le conseguenze per la nostra società dell’attuale crisi. In primo luogo occorre considerare che per sopravvivere una società evoluta deve poter disporre di energia sufficiente. Nelle società antiche l’energia veniva fornita dal lavoro di animali e schiavi, e successivamente dall’utilizzo dei mulini ad acqua o a vento. La scoperta dell’energia fossile ha dato all’umanità un patrimonio formidabile, creato dalla natura in centinaia di milioni di anni. Questo patrimonio ha permesso, insieme all’evoluzione dell’agricoltura, una crescita demografica vertiginosa. Ma l’impatto ambientale è devastante. Una prima previsione è che questa crisi ridisegnerà il nostro rapporto con l’energia. Anche se ciò non avverrà in tempi brevi il percorso appare segnato. A parte l’ipotesi di un ulteriore utilizzo dell’energia nucleare sembra che il ruolo delle cosiddette energie rinnovabili sia fuori discussione. Questa evoluzione impatterà in modo decisivo anche il settore dei trasporti, siano essi pubblici o privati. Nuovi veicoli e nuove infrastrutture dovranno essere costruiti secondo criteri di eco-compatibilità ineludibili, anche a fronte di ovvie resistenze di industrie tradizionali affermate da tempo e sostanzialmente conservatrici. In secondo luogo occorrerà rivedere il nostro rapporto con l’alimentazione. Le società abbienti consumano attualmente enormi quantità di carne. Ciò ha delle conseguenze sempre più rilevanti, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista della salute individuale. Gli allevamenti di animali (soprattutto bovini) richiedono una quantità crescente di risorse che la natura da sola non sarebbe stata in grado di fornire. Senza la scoperta nel 1910 del processo di produzione sintetica dell’ammoniaca, da parte di Fritz Haber e Carl Bosch, l’umanità non sarebbe stata in grado di crescere numericamente in modo così accelerato. Ma il prezzo che si paga all’ambiente, soprattutto in termini di acqua utilizzata e di sostanze inquinanti (come metano), è altissimo. Dal punto di vista della salute la maggior parte degli studiosi concorda che un elevato utilizzo di carne è causa di molteplici malattie degenerative. L’uomo si è evoluto, anche per quanto riguarda la durata media della vita, rispetto agli altri primati proprio per l’utilizzo della carne, che ha certamente contribuito anche alla crescita del suo cervello. Ma il processo è avvenuto nell’arco di centinaia di migliaia di anni, durante i quali c’è stato un formidabile adattamento genetico. Adesso invece, nel volgere di pochi decenni, i consumi di carne crescono smodatamente con sostanziali rischi per la salute. Ma è anche vero che la zootecnia ha consentito di avviare programmi sempre più significativi di itticoltura. Il pesce allevato, anche in acqua salata, può rappresentare una valida opzione. Fermo restando che occorre comunque rivedere gli schemi di alimentazione, soprattutto nel mondo occidentale, per educare la gente a un maggior uso di vegetali e frutta. La qual cosa richiede naturalmente un diverso bilanciamento nell’utilizzo del territorio tra zootecnia e agricoltura.In terzo luogo è anche necessario ripensare profondamente i sistemi educativi, soprattutto in nazioni come l’Italia dove si assiste a un decadimento impressionante della scuola e dell’università. Le ragioni sono molteplici ma se ne possono sintetizzare le più significative. Per quanto riguarda la scuola, soprattutto quella elementare, occorre rivedere profondamente il ruolo degli insegnanti e dei bambini. L’insegnante deve essere molto più motivato, non solo economicamente ma anche moralmente. Il suo ruolo nella società è fondamentale. Ciò che il bambino apprende lo apprende durante vere e proprie finestre 22


temporali che una volta chiuse non si aprono più. Ci sono momenti dell’infanzia in cui si acquisiscono concetti fondamentali quali quelli che presiedono alle strutture della matematica piuttosto che della società umana. Il ruolo dell’insegnante in questa fase è decisivo, come ampiamente mostrato dai classici studi di Jean Piaget e Maria Montessori. Per l’università il discorso è diverso e anche più amaro. Si sta diffondendo, come mostrato da molteplici inchieste persino giudiziare, una sorta di familismo amorale che investe tante università dove sempre più spesso il criterio di un’effettiva meritocrazia tra i docenti viene meno. E questo naturalmente si riflette sulla meritocrazia nell’ambito degli studenti. Una società che non sia in grado di attuare un reale programma educativo non potrà essere competitiva negli anni a venire: la sfida che si pone è quindi non solo impegnativa ma è soprattutto fondamentale per la competitività complessiva del modello italiano.

In quarto luogo si pone il ruolo dell’odierna medicina. Le rivoluzionarie scoperte degli ultimi decenni, soprattutto nell’ambito della genetica, stanno profondamente ridisegnando l’evoluzione di questa fondamentale disciplina umana. Dalla fine del XIX secolo le scoperte di batteri, virus, vaccini e antibiotici hanno consentito di debellare moltissime malattie infettive e di allungare considerevolmente l’aspettativa media di vita. In questo lungo periodo anche la chirurgia ha fatto passi da gigante non solo per mezzo di tecniche sempre più raffinate di riparazione di organi, ma anche per mezzo di tecniche di trapianto di interi organi. La formidabile scoperta del DNA ha però aperto la strada a una visione molto più sistematica dell’intero organismo umano e quindi dei suoi processi metabolici. L’invecchiamento della popolazione comporta quasi naturalmente una sostanziale crescita di patologie degenerative ed è qui che oggi si concentrano molte delle ricerche della moderna biologia. La recente scoperta delle cellule staminali, che svolgono un ruolo fondamentale nell’evoluzione di un organismo, ha aperto la porta su di un mondo ancora sconosciuto. Il comportamento delle cellule staminali, come ha recentemente ribadito con 23


enfasi il prof. Dulbecco, è incredibilmente complesso e occorreranno decenni per comprenderne appieno le potenzialità in termini di cure mediche. Ci sono certamente molte perplessità, e le religioni sono ovviamente molto inquiete (e lo si può anche comprendere) di fronte a possibilità che potrebbero celare rischi oggi non valutabili pienamente. Ma occorre tentare. L’etica, come sempre, dovrà poi stabilire la fattibilità morale di qualcosa che oggi non è del tutto chiaro. La tecnologia corre troppo velocemente perchè l’etica riesca a tenerne il passo. La società dovrà per forza provare sul proprio corpo le innovazioni e abituarvisi. Poi potrà legiferare. Già Orazio (Carmina, Liber III, 24) affermava con una splendida espressione : ”Quid leges sine moribus vanae proficiunt”. Persino la società multietnica è oggi problematica; ma certamente non lo sarà più in futuro visto il progressivo mescolamento delle cosiddette razze, cui si sta assistendo in modo quasi accelerato, almeno nei paesi più evoluti. C’è poi un ulteriore aspetto da sottolineare e riguarda la possibilità di nuove aggressioni infettive. Dopo decenni di antibiotici la comunità dei batteri si sta riorganizzando anch’essa. Dobbiamo immaginare, per dirla in maniera molto azzardata, che quella dei batteri sia in realtà un’unica grande comunità, organizzata quasi come su di un Internet biologico. Hanno avuto miliardi di anni per colonizzare la Terra. Le nostre cellule ospitano, in una strana simbiosi, batteri primordiali (i mitocondri) che ci danno energia! L’intelligenza dei batteri è una forma di intelligenza complessiva che si muove globalmente, come appunto Internet. I batteri comunicano tra di loro scambiandosi il DNA e quindi le informazioni relative al successo o meno di loro risposte a situazioni ambientali. E così cominciano a difendersi sempre meglio dai nostri antibiotici, come ampiamente verificato negli ospedali. Che accadrà nei decenni a venire? E’ una domanda inquietante. E anche altre patologie, come soprattutto la malaria, richiederanno ulteriori sforzi e si spera vaccini efficaci. La guerra, in sostanza, continua. In quinto luogo appare finalmente l’economia! Cosa occorre per superare la crisi? Certamente più ricerca industriale, maggior creazione di prodotti innovativi (potrebbero essere auto elettriche piuttosto che centrali solari) e meno finanza creativa. Ma c’è anche un altro aspetto molto importante. Alcuni anni fa ebbe molto successo un libro di Thomas Friedman, Il mondo è piatto, nel quale si sosteneva la tesi che la globalizzazione aveva già trasformato la Terra in un grande campo da gioco nel quale crescenti opportunità andavano solo colte. L’attuale crisi ridimensiona questa visione. Il mondo è meno piatto di quanto lo facesse apparire la globalizzazione; il lavoro, e con esso l’industria, è ancora la vera fonte della ricchezza. Occorre quindi saper fare, dominare la tecnè, farla evolvere, applicarla ove possibile e utile; e questo richiederà normative e regole internazionali che la globalizzazione sembrava ignorare. Delocalizzare brutalmente per avere manodopera a basso costo è certamente utile per gli investitori, ma non è la soluzione ideale per una comunità umana. Occorre un’etica mondiale per l’economia e la politica, come affermato dal teologo Hans Kueng. Se questi cinque fondamentali aspetti della società umana verranno opportunamente ridisegnati l’attuale crisi, pur con il suo greve carico di sofferenze e di ingiustizie, potrà essere persino stata utile. Durante il passaggio dalla società del latifondo a quella della prima industrializzazione le sofferenze patite, soprattutto dai più deboli, furono immense. Ma poi un più elevata qualità della vita si diffuse progressivamente a strati sempre più ampi delle 24


popolazioni, almeno nei paesi più evoluti. Anche ora, probabilmente, di fronte questa grande crisi strutturale molti, forse troppi, dovranno soffrire. Molte attività che sembravano ben consolidate scompariranno per fare posto ad altre attività. Sarà quindi necessario investire nel futuro, prepararsi a nuove professioni, essere flessibili e reattivi, istruirsi adeguatamente. Dopo la Prima Guerra Mondiale apparve un saggio molto complesso, Il Tramonto dell’Occidente, nel quale Oswald Spengler ipotizzava che la civiltà occidentale era destinata a una progressiva decadenza, come già avvenuto con altre grandi civiltà. Diceva Spengler: “ …un mondo artificiale invade e avvelena la natura. La civiltà è diventata una macchina..” Sembrava quasi che avesse già preconizzato l’avvento della globalizzazione, del mutamento del clima, dello sfaldamento delle stesse costruzioni della civiltà occidentale, quasi come per le piramidi egiziane o la grande muraglia cinese. Eppure Spengler concludeva con parole ancor oggi profetiche e forse positive: “… a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anzichè l’altra. Noi ci troviamo di fronte all’alternativa di fare il necessario o di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o a onta di essi. Ducunt fata volentem, nolentem trahunt”. Di fronte all’ attuale crisi economica la nostra riflessione è che converrà approfittarne e volgerla in opportunità per creare una società più equa e vivibile.

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I super bonus per hedge e Wall Street; dal 2000 a oggi 330 miliardi di premi La Repubblica -- 5 febbraio 2009

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