Altri orizzonti

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Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze Theodor W. Adorno

Disegno di copertina di Ludovico Carrino

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PIERO LUCIA

ALTRI ORIZZONTI Diverse Storie di Politica e Cultura

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Indice Prefazione

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Avvenimenti Salerno e la Valle dell’Irno: dall’industrializzazione ottocentesca alla

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fine dell’industria tessile Il secondo dopoguerra, la stampa democratica a Salerno: «Libertà» e

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«L’Ora del Popolo Salerno e il dopoguerra: l’inizio di una difficile ripresa, civile e cultu-

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rale «Cronache Meridionali»

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Secondo dopoguerra: l’impetuosa ascesa degli Stati Uniti

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1968-1969: dal biennio irripetibile ad un mondo nuovo in tumultuoso

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movimento Eboli, Maggio 1974, a proposito del libro di Alfonso Conte, La rivolta

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popolare di Eboli,(4-8 maggio 1974) La chiusura della Marzotto Sud, novembre 1983

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Ex Jugoslavia, venti anni dopo

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La Cgil, Brevi cenni di storia, Cgil e Funzione Pubblica, 9 Luglio 2015

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DEMOCRAZIA E DIRITTO, Numero Monografico sul Sindacato,

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(aprile 2014) Discutendo con Giustina Laurenzi

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25 gennaio 2015, GIORNATA DELLA MEMORIA, Scuola Media

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«Picenzia» Pontecagnano ( Salerno) Divagazioni: Bruno Ravasio, Una Vita nel pallone

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Personaggi

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Nicola Fiore: un raro esempio di resistenza intransigente al fascismo

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Luigi Cacciatore: la vita politica di un socialista a 100 anni dalla nasci-

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ta ( Mercato San Severino, 24 luglio 1900- Roma, 17 agosto 1951) Benedetto Croce

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Giuseppe Di Vittorio e movimento sindacale nel secondo dopoguerra

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Leopoldo Cassese

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Carlo Levi (Torino 1902-Roma 1975)

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Note sulla lezione di Togliatti

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Politici italiani del Novecento: Ugo La Malfa

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A 100 anni dalla nascita di Giorgio Amendola

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Omaggio a Giorgio Amendola di Ludovico Carrino

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In memoria di Giancarlo Mazzacurati

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Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtù

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Ricordo del senatore Gaetano Di Marino

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Ludovico Carrino

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Questioni di immediata attualità Campania, Mezzogiorno Salerno e la Provincia: alcune priorità per lo sviluppo Il Congresso del Partito Democratico

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L’immigrazione e i diritti violati: San Nicola Varco

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La decisività della Cultura La crisi e l’opportunità della Cultura

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Il “Corriere del Mezzogiorno”, spunti sull’organizzazione della cultura

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a Salerno La Cultura, contributo per una discussione

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Cultura e mondo del lavoro, nuova alleanza per il futuro della societĂ

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italiana Riferimenti bibliografici

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Prefazione Il lettore delle seguenti note si troverebbe senz’altro fuori strada nel caso immaginasse d’imbattersi in un testo organico e compiuto, al proprio interno interconnesso nelle distinte parti in cui è composto. Si tratta, invece, di scritti diversi, venuti alla luce in fasi temporalmente distanti tra di loro, storicamente datati, e spesso frutto d’improvvise riflessioni. Assemblando i distinti materiali, comunque si è finito per distendere una trama in cui l’attenzione si concentra, in particolare, su fatti e personaggi, sintomo ed espressione della contraddittorietà dei tempi moderni in cui viviamo, dell’incertezza delle possibili, ambivalenti evoluzioni, di segno espansivo o regressivo, rispetto agli orizzonti dell’immediato, prossimo futuro. Persiste, da tempo immemorabile, un aspro contenzioso, che sempre in nuove forme si rinnova, tra due distinti fronti, tra forze di riforma e progressive ed altre ancorate alla conservazione, inalterata e statica, di regressivi equilibri di potere preesistenti. E sempre pronte, come più volte si è storicamente dimostrato, al ricorso ad ogni mezzo estremo, finanche a quello più cinico e spietato. Storia troppo tortuosa, complessa e accidentata, quella del Novecento, densa di un continuo susseguirsi di molteplici tensioni e di conflitti, in alcune fasi particolarmente acuti e sanguinosi. I primi decenni del XX Secolo vedevano affermarsi in Italia prima, nel 1922, e poi in Germania, nel 1933, le forme di Stato e di governo più brutali e autoritarie, rivolte ad imporre i più spietati tratti di dominio, di rigido, indiscutibile comando su ogni dialettica e dinamica espressione dell’evoluzione della società. Una situazione apparsa a un certo punto in quei paesi senza più alcuna opposizione, con un polo di forze reazionarie nettamente prevalenti, coeso, inalterabile e teso ad espandere dovunque la propria egemonia, nel tempo tormentato che si succedeva. Si realizzava un blocco potente, di tipo reazionario, e un brusco e repentino arretramento della storia umana, volto nella sostanza ad accentuare il ruolo ed il potere di antiche e secolari gerar-

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chie. Il paradosso era che tale involuzione si dispiegava, nel modo più feroce, con aberranti forme di prevaricazione e di violenza, in specie in uno degli Stati più evoluti e progrediti della vecchia Europa, luogo privilegiato di produzione di filosofia e di scienza, di arte e di cultura nei campi più svariati dell’agire umano. Erano progressivamente e sistematicamente eliminate le diverse voci, anche lievemente dissonanti, ed una tale azione progrediva, purtroppo sostenuta dalla grande maggioranza, se non addirittura dall’insieme del popolo tedesco1. A tal proposito, intense e illuminanti del profondo sentimento di angoscia, circa la responsabilità del popolo tedesco in relazione a ciò, le espressioni pubblicamente usate, l’8 maggio 1975, da parte di Walter Scheel, Presidente della Repubblica Federale Tedesca dal 1 luglio 1974 al 30 giugno 1979. Nell’occasione, il Presidente si espresse in questo modo : “ Hitler voleva la guerra … trasformò il nostro paese in un gigantesco macchinario da guerra e ognuno di noi ne era un piccolo ingranaggio. Avremmo potuto rendercene conto, ma avevamo chiuso occhi e orecchie, sperando che non fosse così … L’8 maggio 1945 rappresenta una data contraddittoria nella storia tedesca … Fummo liberati da un giogo terribile, dalla guerra, dall’omicidio, dalla schiavitù e dalla barbarie … Ma non dimentichiamo che questa liberazione è giunta dal di fuori, che 1

Negli anni del secondo dopoguerra si è molto spesso continuato a discutere sulla responsabilità diretta del popolo tedesco nell’avere trasformato l’Europa in un campo immenso di odio e di tortura ed in quel paese si è auspicata una radicale riflessione e revisione critica su quanto era accaduto e sui motivi che avevano generato tutto ciò. Uno dei maggiori scrittori tedeschi, il premio Nobel per la letteratura Gunter Grass, autore tra l’altro de Il tamburo di latta, si è proposto, con le sue opere assai acute, come anima critica della nazione che doveva rivisitare quella fase tragica della storia umana non rifuggendo, ed anzi riconoscendo a pieno, le proprie responsabilità per quanto era accaduto. Per Grass l’onta di cui si era macchiata la Nazione tedesca restava indelebile ed eterna, un marchio nero ed una responsabilità profonda e imperitura verso l’insieme dell’umanità. Il grande scrittore, attirando su di sé critiche assai aspre, nell’autocritica feroce a un certo punto, pochi anni prima della morte, accuserà anche se stesso di corresponsabilità nella tragedia, avendo richiesto, da giovanissimo, l’arruolamento come volontario nelle SS. Un episodio grave, rimasto a lungo celato per pudore, per scelta personale e sua esclusiva responsabilità.

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noi, tedeschi, non siamo stati capaci di sbarazzarci da soli da quel giogo … Abbiamo accettato che la nostra libertà, la libertà del nostro prossimo, la libertà dei nostri vicini venisse profanata. Abbiamo accettato che i nostri diritti, i diritti del nostro prossimo, i diritti dei nostri vicini fossero calpestati. In nostro nome milioni di uomini furono uccisi … Noi non fuggiamo davanti alla nostra storia”2. Intense e drammatiche espressioni, dell’acuto senso storico di colpa accumulato, difficilmente cancellabile, che è continuato a persistere in Germania. L’Europa e il mondo intero hanno conosciuto, nel corso del XX secolo, le drammatiche esperienze di due conflitti mondiali, il cui esito, in alcune fasi, è stato particolarmente incerto. Solo nel 1945, con la vittoria finale delle potenze alleate contro il nazifascismo, veniva finalmente chiusa una pagina particolarmente dolorosa e drammatica della storia dell’umanità. Il mondo che ne derivava appariva diviso in due distinte sfere di influenza, con l’egemonia degli Stati Uniti in l’Occidente e dell’Urss sopra i territori dell’Oriente. Un rigido equilibrio, destinato a protrarsi per oltre settant’anni, prima di entrare definitivamente in crisi nel 1989. Chi scrive ha il vantaggio di aver potuto vivere ed osservare attentamente quel passaggio epocale, rimasto fissato con precisione nella mente.Si è ridisegnata allora una nuova e ben diversa geografia del mondo in precedenza conosciuto. E la realtà attuale si presenta in uno scenario inedito, nella profondità mutato, in conseguenza di quegli smottamenti, con la secca scomposizione di secolari, antecedenti gerarchie. La storia drammatica, ed al contempo esaltante, del vecchio Novecento, aveva alimentato diffuse speranze ed illusioni, scioltesi col tempo come neve al sole. Gli ultimi sussulti del secolo morente producevano invece grandi deflagrazioni. Il primo, decisivo, grandioso spartiacque della storia è stato senza dubbio il 1989, con la frantumazione del Muro di Berlino, vicenda intrisa di straordinarie suggestioni ed al contempo ricca 2

Alfred Grossner- HélèneMiard-Delacroix, La Germania, Il SaggiatoreFlammarion, Milano, 1997, pp.72-73.

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di future implicazioni. Il vecchio mondo, rimasto a lungo come congelato in un equilibrio inalterabile, delle distinte aree di influenza e retto dall’equilibrio del terrore, col rischio permanente della guerra nucleare, finiva rapidamente per scomporsi e liquefarsi, assumendo poi una fisionomia completamente nuova. Le immagini, diffuse istantaneamente in ogni più lontano angolo del globo, fissavano per sempre – ad un livello planetariol’incontenibile momento di gioia popolare che travolgeva ogni barriera come un fiume in piena e frantumava -con forza inarrestabile- i confini artificiosamente eretti al centro di Berlino nel 1961. Tra i vecchi contendenti, dopo un così lungo scontro, uno soltanto restava sulla scena. Il socialismo reale, ormai da tempo eroso nelle sue strutturali fondamenta, evidenziava al proprio interno le sue crepe, in specie la principale, l’avere edificato una costruzione poi rivelatasi fragile ed incapace di coniugare sviluppo economico con l’espansione di libertà diffuse, di tipo individuale e collettivo. Un vizio d’origine mortale, carico di future implicazioni, e che riduceva in crisi comatosa la grande illusione venuta dall’Oriente. Si disgregava, e poi moriva, in un solo istante l’utopia, rivolta a costruire l’uomo nuovo, in quanto le veniva progressivamente meno l’indispensabile e convinto sostegno delle masse popolari. Totalitarismo, statolatria esasperata, burocratismo, stato di polizia, a ondate inarrestabili e con rapidità stupefacente, erano liquidati in via definitiva. Fattore al contempo strutturalmente decisivo l’incalzare e l’aggrovigliarsi, senza soluzione, di una crisi economica profonda che riduceva, in maniera secca e verticale, tenore e qualità di vita della popolazione, accentuando la criticità della situazione. L’assenza di equilibrio negli indirizzi della crescita economica, la bassa produttività d’insieme del sistema, i deficit finanziari accumulati, l’avere privilegiato seccamente la linea della rincorsa agli armamenti, investendo gran parte delle risorse disponibili in quella quasi esclusiva direzione, avevano sacrificato, in modo irreversibile, crescita e modernizzazione dell’insieme degli altri settori produttivi, a partire da quello vitale

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dell’agricoltura. Da ciò ne derivava una miscela, che poi all’improvviso esploderà, in maniera devastante e incontrollata. L’ossatura portante degli Stati di “Socialismo reale” finirà per sfaldarsi, senza riuscire ad opporre in conclusione alcuna valida e significativa resistenza. Tra i due modelli in campo, l’unico che vince e sopravvive -nei successivi decenni che verranno- è quello capitalista, destinato a smentire gli innumerevoli profeti di sventura che ne avevano preconizzato la fine imminente e ineluttabile. I dati economici, circa la differenza tra la Germania dell’Ovest e quella dell’Est, erano al proposito quanto mai eloquenti. La Germania Orientale, nel corso degli anni ’80, procedeva a grandi passi verso il fallimento dello Stato. Più della metà delle strutture industriali erano ormai rottami ed il 53,8% dei macchinari solo da demolire. Il 50% dei mezzi di trasporto versava in una condizione di gravissimo degrado. La produttività complessiva era inferiore del 40% a quella dell’Ovest. Il debito pubblico schizzato da 12 miliardi di marchi nel 1970 a 123 nel 1988. Nello stesso arco di tempo, i debiti contratti verso gli Stati capitalisti e le banche avevano registrato un incremento pauroso, da 2 a 49 miliardi di marchi occidentali. Una situazione assolutamente disastrosa3. A Berlino, nelle giornate finali del novembre 1989, sotto la Porta di Brandeburgo, immense folle di cittadini dell’Est e dell’Ovest si ritrovano a manifestare insieme, senza più steccati divisori. L’antecedente suddivisione non esiste più e la Germania si appresta ad essere nuovamente unita, uno Stato nuovo, e destinato a diventare ben presto di nuovo assai potente, con ruolo leader al centro dell’Europa. Sarà portata a compimento, a tappe accelerate, una riunificazione vera ed effettiva, anche a livello di condizione economico-sociale. Un quadro ed un processo del tutto diversi, ed anzi completamente opposti, rispetto all’Italia e al Mezzogiorno, ove invece le distanze tra il centro nord e il Sud hanno continuato a crescere e a dilatarsi in progressione e a dismisura. E’ quanto ha di re3

F. Taylor, Il Muro di Berlino, 10 Agosto 1961 - 9 Novembre 1989, Il Giornale- Biblioteca Storica, 2014, pag. 330.

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cente e drammaticamente confermato il Rapporto Svimez 20154. Allo stato dei fatti il Sud, che -secondo la stessa fonte- nel corso della lunga crisi di questi ultimi anni è cresciuto in percentuale di oltre 40 punti in meno delle Regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%), è concretamente a rischio di un’effettiva “desertificazione industriale”. Inoltre, l’assenza di adeguate risorse umane, imprenditoriali e finanziarie disponibili potrebbe ostacolare ed impedire in via definitiva all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa, trasformando la crisi ciclica in un sottosviluppo strutturale permanente. Il dato di fondo, l’avere ripetutamente negato le conseguenze complessive sull’insieme del paese della questione meridionale per come si è andata storicamente a definire e delle ragioni strutturali della sua persistente arretratezza, ha condotto -nel corso dei decenni- alla scissione ed alla dicotomia attuale. Per questo motivo, di eccessiva sottovalutazione del problema e delle sue specificità, si sono nel tempo accumulati più fattori, di stagnazione e di grave arretramento. In una diversa fase della nostra storia nazionale, all’indomani del secondo dopoguerra, si determinò un sussulto democratico importante, un forte intreccio tra movimenti di massa e iniziativa politica unitaria che aprì la strada ad una grande stagione meridionalistica. Essa investì, come non era mai accaduto in precedenza, e come non sarebbe più avvenuto poi, la politica e la cultura italiana, obbligando l’insieme delle forze in campo ad un confronto assai intenso, ampio e appassionato. La sinistra italiana fu il motore portante dell’impegno profuso in quel periodo, che impose l’adozione di importanti provvedimenti- pur contraddittori- di governo, a partire dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. 4

Il Rapporto Svimez 2015 mette tra l’altro in evidenza che, dal 2000 al 2014, la crescita del Mezzogiorno è stata equivalente alla metà della crescita della Grecia, di recente interessata dalla devastante crisi economica e finanziaria che ha rischiato di travolgere la nazione ellenica. Il sud in questo periodo è cresciuto solo del 20,6%, nel mentre il suo settore manifatturiero ha contemporaneamente perso il 34,8% del proprio prodotto ed ha più che dimezzato i propri investimenti (- 59,3%) contro il - 13,70 del Centro Nord.

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Poi, sempre di più, negli anni seguenti, la spinta iniziale è andata progressivamente ad esaurirsi, pur considerando gli avanzamenti, civili ed economici, che senza dubbio si sono realizzati. Oggi, però, si deve purtroppo registrare che, ormai da troppi anni, il dibattito politico e culturale meridionalistico, tranne in limitate circostanze, sostanzialmente langue. Ed il posto che la questione meridionale dovrebbe assumere nelle analisi e nelle proposte politiche e programmatiche dei partiti e dei sindacati, così come nelle riflessioni dell’intellettualità italiana, è obiettivamente sempre più marginale, sintomo del fatto che da più parti si ritiene impossibile raggiungere nuovi e più avanzati risultati rispetto a quanto finora si è ottenuto. Eppure, la situazione meridionale è giunta ad un grado assai accentuato di criticità e costituisce una grave emergenza persistente. Ed il Mezzogiorno appare troppo solo nel fronteggiare l’insieme di problemi che ostacolano, sui più diversi piani, l’avvio di una fase decisamente nuova. Ad ogni modo, tornando alle vicende della caduta del Muro di Berlino, il tripudio di gioia popolare appariva tanto più significativo in quanto si realizzava procedendo come per inerzia, con naturalità assoluta. Si sfaldava rapidamente il vecchio Stato, insieme ai suoi apparati, e il tutto avveniva senza alcun ricorso alla violenza, più volte nel passato autentica levatrice della Storia. E tuttavia, lo sgretolamento progressivo del vecchio sistema di potere degli Stati Socialisti non assumerà le stesse forme ovunque. Inizierà a disgregarsi dall’interno il grande colosso dell’Urss ed avrà fine il potere politico e statuale imperante continuativamente dal 1917. Si avvierà in quell’area, per i destini del mondo comunque decisiva, una subitanea transizione di regime. Falliti i tentativi di democratizzazione e di riforma, promossi dal Presidente Gorbačëv, la direzione del governo e dello Stato sarà assunta da Boris Eltsin, senza che si debba assistere, tranne che in alcune, limitate aree dell’immenso continente geograficamente infisso tra l’Europa e l’Asia, a drammatici scontri sanguinosi, in genere derivati dall’emersione di nuovi e incontrollabili conflitti di tipo

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nazionalista, etnici o religiosi, come quello che opporrà Azeri e Armeni. Rispetto al rischio concreto di una deflagrazione incontrollata, in un’area disseminata di centrali e di armi nucleari, con le ovvie conseguenze che ne sarebbero potute derivare per il destino del Mondo nel suo insieme, verrà alla luce un nuovo, inedito scenario, che darà luogo alla RSI (Repubblica Stati Indipendenti). Romania e Jugoslavia vivranno invece un’agonia assai più lancinante e dolorosa. Drammatico -alla fine del 1989- il rovesciamento e la tragica conclusione del regime comunista in Romania, con scontri armati, a Bucarest e nelle principali città rumene, e infine la cattura, il processo sommario e poi la morte per fucilazione dei coniugi Ceausescu. Gli anni ’90 sono attraversati dall’esplosione di un acuto e sanguinoso conflitto in Jugoslavia, nel centro dei Balcani, dentro al cuore profondo della vecchia Europa. Esso, protrattosi per anni in maniera particolarmente crudele e sanguinosa, terminerà con lo sgretolamento del vecchio Stato unitario in cui, sotto la guida autorevole di Tito, avevano a lungo convissuto plurali e differenti etnie. Una crisi in cui l’Europa mostrerà, in maniera plateale, come più volte avverrà poi anche in futuro, la propria colpevole incapacità d’incidere in modo tempestivo ed efficace. Non deve apparire troppo sbilanciato ed eccessivo l’essersi dilungati sulla situazione di quella parte specifica del mondo. E’ in quella direzione, infatti, che negli scorsi decenni, e fino a tempi relativamente più vicini, hanno guardato- con grande fiducia e con speranza- la grande maggioranza dei personaggi presenti in questa trattazione. Un’attesa poi venuta drammaticamente meno. Ebbene, il nuovo Mondo, per come si presentava agli albori del XXI secolo, lasciava presagire l’avvio di un diverso scenario, completamente nuovo, in cui s’immaginava avrebbero finito per placarsi e ricomporsi, in larga parte, le ragioni delle tensioni e dei conflitti antecedenti. In verità, non verrà concretizzata l’inedita utopia di un nuovo Mondo ben più pacificato. Anzi, col trascorrere del tempo, si accentuano i conflitti e le contrapposizioni, anche militari- tra gli Stati. In Europa, negli ultimi

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tempi, si sono riaccesi preoccupanti focolai di tensione. La guerra è tornata nelle regioni orientali dell’Ucraina. La Russia, oltre che in quell’area, è anche intervenuta- in precedenza- altrove, annettendo la Crimea. Nel Mare della Cina si sta inoltre accentuando l’azione egemonica dell’impero celeste, assai abile negli ultimi decenni ad estendere diffusamente il proprio ruolo, tramite l’uso combinato della diplomazia e dei vantaggi derivategli dall’imponente crescita economica e finanziaria realizzata. La maggiore potenza asiatica, in specie negli ultimi periodi, è entrata di frequente in rotta di collisione con paesi come il Giappone e le Filippine, tradizionali ed importanti alleati degli Stati Uniti. Una contraddizione nuova, e dalle dimensioni imprevedibili, è apparsa all’orizzonte, in un periodo in cui all’opposizione tra Est ed Ovest se ne sostituisce un’altra assai profonda, quella tra Nord e Sud del mondo. Il terrorismo di matrice islamica si propone -a livello planetariocon una violenza cieca ed estrema, in specie in occasione del terribile attacco alle Torri Gemelle americane dell’11 settembre 2001 che causerà la morte di circa 3000 vittime innocenti. Un episodio, seguito poi da altri numerosi e ripetuti atti di guerra e di violenza, disseminati in ogni continente, e che continuano con estrema veemenza ancora oggi, con l’esplicita intenzione manifesta di dare luogo ad una mortale “guerra di contrapposte civiltà”. La guerra scatenata in precedenza, in Iraq ed in Afghanistan dalle potenze occidentali, e in specie dagli USA, non ha prodotto la fine dei conflitti, né il conseguimento dei risultati attesi. Il terrorismo non è stato sradicato, ed anzi è apparso sempre di più come un pericolo impellente che, nei successivi attacchi, ha preso di mira altre città, come Londra, Madrid o Parigi, fin dentro al cuore della vecchia Europa. Il terrorismo colpisce, in più punti del globo e all’improvviso, disseminando indiscriminatamente la terra del sangue di vittime innocenti. Una minaccia gravissima per il mondo intero, accentuata ulteriormente dal ruolo assunto nel frattempo dall’ISIS, il cosiddetto “Nuovo Stato Islamico”, impiantato al centro dell’Iraq e della Siria, e con diramazioni fino in Libia ed in ampie propaggini

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dell’Africa del Nord. E che ha dichiarato guerra mortale agli “infedeli”, all’Occidente e all’Islam moderato ed è ancora purtroppo ben lungi dall’essere estirpato. Il 13 novembre 2015 la Francia, dopo il sanguinoso attacco effettuato il 7 gennaio 2015 contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, è stata ancora una volta colpita da un’azione di inenarrabile ferocia. La città di Parigi è divenuta bersaglio di un nuovo attacco terroristico, dagli effetti particolarmente devastanti. Un commando armato dell’Isis, composto da almeno 8 persone, ha portato a compimento, quasi contemporaneamente in 7 diversi punti della capitale, un attentato rivendicandone la paternità : 130 morti ed alcune centinaia di feriti, anche molto gravi, il tragico bilancio conclusivo di un’azione spregevole. Venivano colpite, tra le altre, le aree intorno allo Stade de France, di Saint-Denis, nella regione dell’Ile de France ed il Teatro Bataclan, frequentato in larga prevalenza da giovani, dove si attuava la strage tra tutte più sanguinosa, con 89 morti. Un’azione ripugnante, e un atto di oltraggio a tutta l’umanità, rivolti a diffondere dovunque un senso di angoscia e di paura incontrollata, ideato ed eseguito con cinica freddezza da giovani sedicenti “combattenti” della jahad islamica, in prevalenza cresciuti ed allevati nel cuore dell’Europa. E’l’atto di gran lunga più grave portato a compimento in Europa, dopo quello di Madrid dell’11 Marzo 2004, con le esplosioni in 4 treni che causarono la morte di 191 persone ed il ferimento di oltre 2000. Qualsiasi città del mondo, senza eccezione alcuna, è diventata al giorno d’oggi uno degli innumerevoli bersagli potenziali del terrorismo di matrice islamica più estremo e si è elevata ulteriormente e a dismisura la soglia di tensione e d’incertezza per la comune sicurezza e per la pace. Una situazione inedita, e quasi irreale, con cui è facile purtroppo prevedere che si dovrà ancora a lungo convivere nel prossimo futuro, prima che il cancro sia estirpato e vinto in via definitiva. Si stanno già innestano profondi cambiamenti nei modi d’essere e nei quotidiani comportamenti delle società democratiche. Il

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Presidente Hollande, immediatamente dopo l’attentato di Parigi, ha dichiarato lo stato di emergenza. In ogni caso, tra tutti quelli in campo, per la comunità mondiale è questo senza dubbio il primo, più urgente e più complesso problema da affrontare con azioni comuni e concordate a largo spettro. A caldo, si può dire che appare necessario intervenire- contemporaneamente- sui più diversi fronti, senza rinchiudersi in sé stessi, facendo vincere la rassegnazione e la paura. E che a questo punto è obiettivamente e innanzitutto indispensabile il rilancio, in ogni articolazione della società, di una decisa azione di contrasto, sul piano dell’impegno e della lotta ideale e culturale, in modo da esaltare e da difendere valori superiori, in specie il diritto di ognuno alla difesa della vita e della pace. E inoltre favorire, nelle aree più acutamente interessate dalla crisi, l’avvio di una nuova fase della storia, che inizi a fare leva sulla creazione di una situazione economica e sociale ben diversa rispetto a quella conosciuta nel passato più o meno recente, avviando finalmente uno sviluppo endogeno, per quelle popolazioni in forte ritardo di sviluppo, più percettibilmente valido ed efficace. In parallelo, va resa più incisiva la lotta di contrasto, anche sul piano militare, fino alla realizzazione del prosciugamento sistematico delle diverse fonti di finanziamento che hanno consentito, fino ad ora, al cosiddetto Stato Islamico ed alle diverse formazioni terroristiche, agenti ed operanti in ogni angolo del mondo, di agire ed operare col terrore. In tale contesto, appare indispensabile la definizione di una comune strategia e di un’azione preventivamente concordata innanzitutto tra Stati Uniti, Europa, Russia e Cina, con l’egida dell’ONU, così da estirpare per sempre dalla terra il male velenoso che, con varie complicità, ha potuto agire e prosperare fino ad ora. C’è al proposito comunque da osservare come finora il ruolo dell’ONU, pur producendo un significativo contributo in vari campi, sul piano della collaborazione tra gli Stati, in genere è risultato purtroppo ininfluente nel disinnescare i focolai di crisi, anche a causa dei reciproci veti che, da parte dei maggiori paesi, si sono di volta in volta esplicitati. E tuttavia in tale direzione è necessario agire, con intelligenza e con lungimiranza, avendo l’attenzione di produrre sempre le necessarie distinzioni,

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incrementando e rafforzando la capacità di reciproco dialogo e confronto col mondo islamico che, nella stragrande maggioranza, rifiuta l’ideologia del terrorismo, della violenza, delle stragi. Si deve in conclusione riuscire ad evitare ad ogni costo, nell’analisi, di ridurre- in modo semplicistico- il tutto ad unità indifferenziata. E’ utile in tal senso ricordare che, in tutti questi anni e fino ad ora, islamica è stata la grande maggioranza delle vittime del nuovo terrorismo. Né vanno replicate situazioni, proprie dei conflitti sviluppati, in aree come l’Irak, l’Afganistan o la Libia dove, in seguito all’intervento militare occidentale, più che ridurre, si è finito per ampliare ulteriormente l’insorgere di ulteriori conflitti incontrollati. La Siria è diventata, ormai da tempo, insieme all’Irak, l’epicentro di un drammatico conflitto distruttivo, che ha già causato innumerevoli vittime e ha messo in moto una situazione inedita e di complicatissima gestione. Un immenso numero di profughi, composto da centinaia di migliaia di persone, che tentano di sfuggire dalla guerra e dalle carestie, affronta rischi e pericoli mortali, cercando rifugio e protezione entro i confini della vecchia Europa. Una crisi epocale, accentuata ulteriormente dall’enorme portata dei cambiamenti climatici nel corso del tempo intervenuti, la cui entità e le conseguenze sono ancora sottovalutate in modo miope. La spoliazione della terra, il problema dell’acqua e la questione delle diverse fonti di energia, hanno assunto proporzioni prima inimmaginabili, costituendo una criticità assai pericolosa, che pesa sul futuro e l’equilibrio del mondo nel suo insieme. Masse di disperati, in fuga dalle loro terre, in prevalenza provenienti dall’Africa subequatoriale, dalla Siria, dalla Libia, dal Kurdistan, spesso interrompono in maniera tragica il loro esodo verso la libertà. Il Mare Mediterraneo è già diventato per migliaia di loro una grande tomba. Emergenze gravissime, destinate a protrarsi ancora a lungo negli anni che verranno, e che purtroppo non sono affrontate in maniera univoca e coesa dall’Europa, i cui diversi Stati non riescono ad operare all’unisono, praticando efficaci politiche co-

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muni. In aree definite del vecchio continente ed in alcuni Stati anzi- vengono riproposte e si rafforzano posizioni apertamente e violentemente xenofobe. Ed appare sempre più grave la responsabilità di non essere riusciti ancora dare vita ad organismi sovranazionali, gli Stati Uniti d’Europa, agenti ed operanti -sui diversi piani- in maniera unitaria e coordinata. E’ miope immaginare di riuscire ad affrontare, o addirittura risolvere, gli immensi problemi della contemporaneità, chiusi ed arroccati nelle anguste dimensioni nazionali. I singoli fatti hanno infatti un’evidente ed immediata interconnessione tra di loro, e le specifiche vicende, che insorgono in definite aree della terra, si riflettono -in modo immediato e inesorabile- sul quadro più generale nel suo insieme. Nel testo si troverà poi anche il richiamo a più passaggi della nostra specifica vicenda nazionale, alla funzione esercitata da alcune personalità, della politica e della cultura, che hanno svolto senz’altro un ruolo di rilievo, all’utilità ed all’attualità di tali insegnamenti per il destino futuro dell’Italia intera. In questa parziale galleria, di storie e personaggi,c’è la riprova della validità delle intuizioni circa le strade più opportune da percorrere per la difesa ed il rafforzamento della nostra democrazia repubblicana. Rispetto alle specificità italiana, nel senso comune si è sempre di più affermata una realistica visione condivisa sulla qualità della lotta politica, da sviluppare sempre, al di là delle contingenti asprezze, sull’esclusivo terreno del confronto democratico. Un indirizzo sancito ed esplicitato chiaramente nel nostro dettato costituzionale. Da ciò il soffermarsi su protagonisti, della politica e della cultura nazionale, che sono risultati decisivi nella scrittura della Costituzione Italiana. Il loro insegnamento, pur nella considerazione ovvia delle diverse novità nel corso del tempo necessariamente intervenute, è il solido tracciato su cui necessariamente continuare e proseguire. Un ultimo aspetto, degno di nota, è quello legato alla riconferma dell’insostituibile ruolo del mondo del lavoro nell’azione di

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edificazione di una società più libera ed eguale, con minori ingiustizie e differenze al proprio interno. Soltanto insieme, e con l’impegno continuo, convinto e consapevole, delle masse organizzate, dei più diversi orientamenti, è possibile costruire feconde possibilità per l’avvenire, in specie nel nostro mezzogiorno, dove la situazione è diventata, per più aspetti, ancora più grave e problematica rispetto al passato più recente5. Il mondo del lavoro appare al giorno d’oggi assai diverso, molto modificato nella sua struttura ed attraversato da contraddizioni nuove e inedite, con troppe condizioni diseguali. Inoltre, come in precedenza già avvenuto in altri grandi paesi dell’Europa, quali Germania e Francia, esprime al proprio interno una presenza rilevante di stranieri immigrati, che sono ormai giunti ad essere milioni6. Come si è già accennato, non sarà possibile- nell’immediato e nel futuro- garantire maggiore sicurezza, dentro le cittadelle dell’Occidente più evoluto, se non si riuscirà contemporaneamente a realizzare un governo del Mondo rivolto finalmente ad estirpare, con progressività e alla radice, l’insieme delle ragioni strutturali causa dell’insorgere di crisi e dell’attuale devastante smottamento. 5

Il rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, già ricordato, precisa ancora che il divario di PIL pro capite tra il centro Nord ed il Sud è addirittura tornato ai livelli del secolo scorso. Nel 2014 il Sud è sceso al 63,9% del valore nazionale, un picco negativo mai registrato dal 2000 in poi. Secondo la Confindustria, negli anni della recente recessione al sud sono state disperse risorse per 50 miliardi di Euro di prodotto interno. Gli occupati sono 5,8 milioni, il livello più basso dal 1977. Tra le donne d’età tra i 35 ed i 64 anni solo 1 donna su 5 lavora. Nel mentre nell’Europa a 28 l’occupazione è nella media del 64%, al sud è del 35,6%. I consumi pro capite al Sud equivalgono al 67% di quelli del centro Nord. Tra le regioni meridionali le situazioni a più alto rischio di povertà sono quelle della Sicilia e della Campania 6 L’Istat rileva che, nel 2015, il numero di stranieri residenti in Italia ha superato i 5 milioni ed essi sono utilizzati nelle più diverse attività, dall’industria, all’agricoltura, ai servizi. Non esiste ancora un dettagliato censimento complessivo di questa forza-lavoro articolato per i diversi segmenti produttivi. In ogni caso è diventato molto rilevante, ed in alcuni settori imprescindibile, il contributo da essi fornito all’attività economica ed alla formazione del PIL della nazione.

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L’acuta durezza del reale, per come si propone al giorno d’oggi, le troppe differenze persistenti sono un atto di accusa durissimo e impietoso che mette in discussione la miopia, i gravi limiti e gli errori di strategie adottate nel passato, con l’inadeguatezza di modelli, di crescita e sviluppo, ingiusti e diseguali. In conclusione, nella contemporaneità si stanno presentando problemi nuovi e condizionanti alla radice i destini del mondo nel suo insieme. Anzitutto, l’eccezionale rilievo assunto dalla rivoluzione tecnologica e scientifica e dall’accentuazione dei processi di condizionamento indotti dalla finanza che, procedendo in maniera troppo separata rispetto al rapporto con l’economia reale, trasferisce le nuove contraddizioni insorte nel pianeta ad altre sfere, su cui appare obiettivamente assai complesso intervenire. Questioni certo inedite, mai in queste forme insorte nel passato, di dimensione planetaria, e che soltanto a quel livello, e di comune intesa tra gli Stati, si può sperare d’iniziare ad affrontare. Ebbene, da parte del pensiero laico, democratico e di sinistra, non si dimostra ancora -a tale livello delle necessità- una capacità teorica e politica adeguata, in grado di intervenire in maniera ben più efficace ed incisiva sul reale, in specie e soprattutto come Europa. Ancora insufficienti appaiono la capacità d’analisi delle contraddizioni insorte, l’esatta individuazione delle cause originarie e strutturali dei problemi, le terapie più valide da usare per fronteggiarli con successo. Le grandi questioni dell’oggi, nel mondo e in specie nell’Europa, sono tra loro sempre più strettamente interconnesse, ed una qualsiasi crisi locale, all’apparenza pur delimitata e circoscritta, può invece immediatamente riversarsi altrove ed espandere il contagio, diffondendo ovunque molteplici e incontrollabili fattori d’instabilità. Urgente è la necessità di attrezzare una risposta, teoricamente, economicamente e politicamente nuova, più incisiva e convincente, in grado di indicare credibili soluzioni a questo livello delle contraddizioni insorte. Un tema irrisolto, e tuttavia di assoluta, stringente attualità, innanzitutto per le forze politiche democratiche e di sinistra d’Europa e di tutto il mondo intero.

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Per ultimo, il punto, su cui mi è parso opportuno insistere più volte, della centralità strategica, e della decisività, della cultura e della formazione permanente della persona per tutto il corso della vita. Un viatico essenziale per assicurare, al nostro paese ed all’Europa, un ruolo in avvenire ancora di rilievo. Il flusso della storia umana è in continuo e perenne divenire e pronto a proporre sempre inediti scenari: ciò necessariamente impone ad ogni persona che ha a cuore il destino dell’Italia, dell’Europa, del mondo nel suo insieme, di non restare mai passivi e indifferenti rispetto a ciò che accade. Anzi, ciascuno, per quanto gli è possibile, dovunque collocato, deve continuare a esercitare, nei tempi complessi e turbinosi che viviamo, con intelligenza e responsabilità, con grande passione civile e con coscienza critica, al meglio il proprio impegno. E’ questa una possibile lettura di ciò che si è proposto all’attenzione, il filo rosso che lega tra di loro le singole storie, i fatti e le diverse vicende raccontate.

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Mondo Africa Asia Europa America latina e Caraibi

2015

2030

2050

2100

7.349 1.186 4.393 738 634

8.501 1.679 4.923 734 721

9.725 2.478 5.267 707 784

11.213 4.387 4.889 646 721

396

433

500

47

57

71

Nord Ameri- 358 ca Oceania 39

FONTE: Onu, Dipartimento affari economici e sociali, Divisione demografica, Word populationPsospects: The 2015 Revision

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AVVENIMENTI

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Salerno e la Valle dell’Irno: dall’industrializzazione ottocentesca alla fine dell’industria tessile E’ stato pubblicato, qualche tempo fa, un volume che ci fornisce l’occasione di ripercorrere, in una ricostruzione scarna ma essenziale, alcuni dei caratteri peculiari e distintivi dello sviluppo economico, sociale, paesaggistico ed ambientale della Valle dell’Irno nel periodo intercorso tra i primi decenni dell’Ottocento e la fine del XX secolo7. Un vasto arco temporale caratterizzato da una straordinaria vitalità, da grandi fermenti e profonde mutazioni. Ci si trova di fronte ad una fase di transizione, particolarmente accelerata, che finirà per produrre duraturi cambiamenti nelle forme e nei modi dell’organizzazione del lavoro, nei rapporti di produzione e di scambio, finendo per incidere sulle consuetudini, anche elementari, in cui si struttura la vita sociale della realtà locale. Le dinamiche messe in circuito trasformeranno la stessa articolazione delle classi sociali mutandone, fin nel profondo, fisionomia e identità. Nei territori della Valle dell’Irno, a partire dal primo decennio dell’Ottocento, saranno in sostanza introdotti, dall’esterno, più fattori – produttivi ed organizzativi - che indurranno uno sviluppo accelerato e d’un rilievo tale che, prima d’allora, non era mai stato conosciuto. Si avvia infatti, per la prima volta nella storia secolare di quell’area territoriale- su basi del tutto nuove- la nascita, il consolidamento e lo sviluppo della grande impresa manifatturiera. E’ il comparto tessile il campo di sperimentazione di questa profonda innovazione. Si tratterà di un’esperienza, densa di implicazioni più ampie e generali, destinata a rivelarsi di particolare pregnanza per tutto il Mezzogiorno d’Italia. Lo slancio decisivo all’industrializzazione vedrà protagonista un illuminato manipolo d’imprenditori e di tecnici, per lo più di provenienza svizzera e tedesca, che apporteranno innovazioni radicali nella concezione del modo di fare impresa. Essi impian7

Gerardo Villari,Economia e Società della Valle dell’Irno negli ultimi due secoli, Litografia Gutenberg, Penta, 2004.

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teranno grandi opifici tessili nella Valle dell’Irno, dando vita a manifatture, di estesa dimensione, la cui attività produttiva verrà organizzata in maniera rigorosa e scientifica. Iniziano ad essere rapidamente costruiti grandi capannoni nei quali sono montati nuovi e moderni macchinari e, per realizzare tale impresa, sono reclutati migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori, fino ad allora impiegati in larga parte nel lavoro agricolo o nelle botteghe artigiane, molte dislocate lungo gli argini del fiume Irno, da tempo adibite alla lavorazione della lana. La storia di questo originario nucleo d’imprenditori svizzeri, che si sono mossi insieme alle proprie famiglie ed a gruppi di tecnici specializzati nella lavorazione del cotone, s’intreccerà e condizionerà, a lungo ed in profondità, le vicende del territorio che è stato individuato quale area, alternativa alla Svizzera, più idonea in cui investire. E’ noto come il blocco continentale, emanato a Berlino dai francesi e da Napoleone il 21 Novembre 1806 contro gli Inglesi, avesse deprivato le industrie svizzere delle materie prime provenienti dall’America. Eppure esse erano indispensabili per l’avvio del ciclo produttivo. Una tale situazione aveva senz’altro concorso a fare maturare negli imprenditori elvetici l’idea di valutare, con favore, l’opportunità di ricollocare altrove, in altra sede rispetto al proprio tradizionale cervello industriale e produttivo, parti consistenti delle proprie attività. La società locale, fino ad allora strutturata secondo tratti e fisionomie di tipo essenzialmente agrario- contadino, condizionata in larga parte dai poteri del latifondo assenteista indulgente all’esercizio d’una prassi di sostanziale stagnazione, finirà per plasmarsi intorno ad un nuovo centro, ad un nucleo, ad un’areasistema che si rimodulerà in maniera differente rispetto al contesto d’insieme che fino a quel momento s’era conosciuto. Il territorio lambito dall’Irno era in passato cresciuto facendo convivere, al proprio interno, una pluralità di distinte tipologie e funzioni produttive. Piccoli opifici coesistevano assieme ad imprese siderurgiche, come la Fonderia Fratte, nata nel 1837 in funzione della produzione di macchinari tessili, la Fonderia di Vincenzo Pisani, a Sava di Baronissi. Qui sarebbero stati fabbricati i pezzi per la linea ferroviaria Napoli - Portici aperta nel

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1839. A Fisciano era inoltre particolarmente fiorente la lavorazione del rame, esistevano nel circondario conservifici e tabacchifici di medie dimensioni, nell’agricoltura era stata sviluppata la coltivazione della vite e notevole era la produzione ed il raccolto di castagne e nocciole, tra i principali prodotti dell’alimentazione. C’era ricchezza di boschi e di foreste ed il legno costituiva la principale fonte energetica, che forniva anche la materia prima da cui era estratto il tannino, sostanza utilizzata nell’industria conciaria e nelle tintorie di lana e di cotone. Era inoltre coltivata la vite, ed era garantita, seppure in limitata quantità, una buona qualità di vini, bianchi e rossi. Questo, a grandi linee, il contesto generale nel quale era stata possibile la lunga coesistenza di una pluralità differenziata di varie tipologie merceologiche. L’abbondanza di acqua, il clima umido e ventilato particolarmente idoneo alla lavorazione della lana, l’estrema diffusione di allevamenti di ovini, la grande facilità con cui, ricorda Villari, era possibile risolvere il problema dell’approvvigionamento di materia prima allo stato greggio dalle Puglie, il tutto concorreva a definire quadro e caratteristiche d’insieme del contesto produttivo ed ambientale. I comuni di Baronissi, Pellezzano, ed i casali di Coperchia, Capriglia, Cologna, Acquamela, Aiello, Antessano, Gaiano, in sintesi pressappoco l’area che si estendeva da Salerno a Mercato San Severino, lambita dal fiume Irno, rappresentava la linea direttrice lungo cui erano nate, fin dal lontano 1300, miriadi di botteghe e d’imprese, di piccole e piccolissime dimensioni. Esse avevano dimostrato un’abilità particolare nell’arte della lavorazione della lana. Attività che, col passare dei secoli, s’era conservata, finendo per svilupparsi sempre di più, in maniera fitta ed estesa, nell’area tra i Comuni di Baronissi e Pellezzano, con molti lavoratori occupati, che raggiungevano livelli di remunerazione ben superiore a quella degli addetti contemporaneamente impiegati nell’agricoltura. In più punti della Provincia di Salerno e nella Valle dell’Irno preesisteva, da secoli, un’organizzazione produttiva, decentrata, a domicilio, una “catena lavorativa” a tipologia prevalentemente artigianale e domiciliare. Essa, col trascorrere del tempo, si era

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poi ramificata professionalizzandosi, originariamente, in particolare nella lavorazione del lino, della lana, della canapa, del cotone. Un’organizzazione, diffusa e capillare, che riusciva a saturare i bisogni essenziali del mercato locale. Un’ossatura primitiva d’impresa, di fabbrica familiare, disseminata sul territorio della Valle dell’Irno e con vaste propaggini nelle aree prospicienti di Cava dei Tirreni e dell’Agro Nocerino-Sarnese. Un tipo di manodopera che avrebbe potuto essere addestrata ai nuovi compiti lavorativi, questa la supplementare valutazione degli Svizzeri, con relativa facilità. L’antica e tradizionale vocazione esisteva in tutta la Campania con aree, come la Terra di Lavoro, impiegate- da tempo immemorabile- nella coltivazione del cotone e nella lavorazione della seta8. E’ così che, per una serie di circostanze oggettive e peculiari, favorevoli e forse irripetibili, si crea-nei primi decenni dell’Ottocento-, la grande occasione. L’immissione di massicci macchinari meccanici, di notevole e superiore potenza, se comparata alle imprese operanti fino ad allora, produrrà in un breve arco di tempo un fortissimo incremento quantitativo e qualitativo della massa produttiva. Dagli opifici si inizieranno a ricavare massicce quantità di prodotti disponibili su scala industriale. Si riuscirà persino a garantire, rapidamente, un’ampia diversificazione dei colori dei panni lavorati, che inizieranno ad essere smerciati ben oltre i limitati confini, provinciali e regionali, del Regno delle Due Sicilie. 8 Già Ferdinando IV di Borbone aveva istituito una comunità, la Reale Colonia di San Leucio, nei pressi della Reggia di Caserta, inizialmente pensata come luogo adatto “alla meditazione e al riposo dello spirito” e poi sede di realizzazione del suo progetto di un’ideale comunità manifatturiera. Fu così creata una struttura industriale per la lavorazione di sete grezze che avrebbe da un lato dovuto rappresentare un modello di riferimento per lo sviluppo dell’industria nello Stato e dall’altro svolgere una funzione essenzialmente morale, mirante alla felicità dei membri della colonia. Un’idea poi assunta e fatta propria dal pensiero degli economisti napoletani più avanzati del tempo. Tale comunità avrebbe dovuto raccogliere i fanciulli del luogo evitando che essi divenissero un giorno “scostumati e malviventi”. I lavoratori impiegati nell’impresa, nell’utopica visione del sovrano, avrebbero goduto d’una perfetta eguaglianza e di condizioni di particolare vantaggio, rispetto al resto della popolazione, per trattamento economico e qualità delle proprie abitazioni, per sé e le proprie famiglie.

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Capitani d’industria, animati da instancabile ed ottimistico dinamismo, e portatori di una visione esasperata dell’etica del lavoro, s’insediarono nelle aree dell’Irno e poi del Nocerino, con l’idea di realizzare l’ambizioso progetto di creare una grande, diffusa, moderna impresa manifatturiera. Una potente struttura in grado da un lato di saturare la domanda del mercato locale, ma anche d’ampliare la propria egemonia produttiva, al punto da riuscire a competere con la concorrenza più forte e qualificata del tempo sul terreno della graduale conquista di ulteriori e più ampi spazi, generali, di mercato. Era un’esperienza del tutto innovativa, mai prima in passato immaginata. L’idea di fondo era quella di dar vita ad un sistema produttivo ampio, diffuso, integrato nelle sue diverse parti, in grado di operare su larga scala in maniera industriale, e d’intercettare la diffusa domanda inevasa del mercato, ovvero fronteggiata fino a quel momento da altri soggetti imprenditoriali anch’essi prevalentemente stranieri9. L’idea originaria era destinata ad affermarsi, col trascorrere del tempo, in maniera sempre più forte al punto da ridefinire, strutturalmente, le antiche gerarchie economiche che, fino ad allora, s’erano manifestate nelle funzioni economiche e produttive della Valle dell’Irno. E’ l’inizio di un grande processo di trasformazione e di concentrazione produttiva destinato ad inglobare, nel suo seno, le antecedenti forme di produzione ed a strutturarsi, in maniera sempre più profonda, al punto da dare vita, per un ampio arco temporale, ad un sostanziale, indiscusso monopolio nel settore cotoniero. Gli imprenditori svizzeri influenzano e condizionano le scelte e gli indirizzi dei pubblici poteri, determinano i prezzi dei prodotti insieme alla loro fluttuazione, suscitano e modellano, con la 9 Giovanni Wenner, traccia un bilancio dell’origine, dello sviluppo e del consolidamento dell’imprenditoria svizzera nella Valle dell’Irno e nel salernitano, nel suo volume : Giovanni Wenner, L’industria tessile salernitana dal 1824 al 1918, a cura di Ugo Di Pace, Società Editrice Napoletana, 1983, (Prima Edizione: Salerno, Camera di Commercio Industria e Artigianato,1953) dedicando l’opera “Ai lavoratori salernitani e ai miei antenati che con assidui sacrifici e lavoro tenace fecero del distretto di Salerno la Manchester del Regno delle Due Sicilie ”.

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propria offerta, la domanda di consumi. Finiscono per esercitare, per così dire, una funzione non solo produttiva, ma anche eminentemente “politica”. Mostrano una straordinaria capacità, intuizione, competenza, propensione all’innovazione. S’aggiornano di continuo, viaggiando per più punti dell’Europa. Visitano gli stabilimenti tessili inglesi, a quel tempo indiscussi leader mondiali nella produzione e nella commercializzazione delle produzioni cotoniere, acquistano - con regolare periodicità - macchinari sempre più moderni e potenti, in grado di incrementare e differenziare, con ciclica regolarità, quantità e qualità delle produzioni. Lo straordinario dinamismo del quale mostrano d’essere capaci, la visione esasperata dell’etica del lavoro, la competenza, la tenacia, la passione per loro impulso immessa nelle imprese producono, col trascorrere del tempo, radicali mutazioni sia dal versante della crescita dei profitti e della divisione degli utili tra i soci, sia per ciò che attiene l’immissione d’elementi di strutturale modificazione dei caratteri e della fisionomia dei gruppi sociali, fino allora prevalenti nella realtà locale. Il centro, il cervello, la regia di tutto il sistema produttivo locale e regionale, con le sue estese articolazioni territoriali, è concentrato nei territori della Valle dell’Irno. Imprenditori come i Wenner10 hanno ben chiaro, fin dall’inizio dell’impresa, l’utilità di muoversi nella prospettiva di creare, a tappe accelerate, un sistema cotoniero flessibile ed integrato nella diversa articolazione delle sue funzioni, un ciclo produtti10

In particolare Alberto, Federico Alberto, Roberto Wenner. Quest’ultimo fu un vero precursore dell’industrializzazione del Mezzogiorno “non fu più il vecchio fabbricante della vecchia tradizione, ma quello dell’industriale di formato americano, molto intraprendente, cosmopolita e, nello stesso tempo, animato dal pensiero fisso di fare dell’Italia meridionale un paese industriale, procurando ai suoi abitanti l’agiatezza ed uno standard di vita più elevato” (in Giovanni Wenner, op. cit., pag.61). Roberto non riuscì a concentrare in un’unica società, a direzione svizzera, i Cotonifici Riuniti di Salerno e le Manifatture Cotoniere Meridionali. Sarà invece la Banca Italiana di Sconto, il 15 maggio 1918, a rilevare la totalità delle azioni di proprietà svizzera delle Manifatture Cotoniere Meridionali e dei Cotonifici Riuniti di Salerno. In sostanza si concluderà allora l’avventura degli imprenditori svizzeri nell’area salernitana. Alla diretta dipendenza di Roberto Wenner lavoravano in quell’anno 7.000 persone, giravano 180.000 fusi, erano in azione 1.400 telai.

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vo capace della più ampia e diffusa autonomia in ogni fase della propria attività lavorativa, non eccessivamente dipendente dal vincolo dell’approvvigionamento della materia prima nè sottoposto a strozzature nei vari passaggi del complesso circuito di lavorazione verso il prodotto finito. I governi che si succederanno, dall’Unità d’Italia in poi, dimostreranno- periodicamente- la propria inadeguatezza e l’incapacità di cimentarsi sullo specifico terreno della difesa e del rafforzamento di quelle funzioni industriali. Le aziende dell’area tessile salernitana ne risulteranno particolarmente danneggiate. L’ambizioso progetto industriale immaginato dal Wenner non si realizzerà nei modi e nei tempi che sarebbero stati necessari. L’instabilità, da tempo incalzante, della situazione politica internazionale ed i conflitti prima in gestazione, e poi esplosi tra le principali potenze europee, finiranno per sfociare nella Grande Guerra, che concorrerà, anche a causa dell’eccesso esasperato di xenofobia che si registrerà in Italia, a mettere in crisi il decennale rapporto fiduciario tra gli imprenditori svizzeri ed il paese che aveva accettato di ospitarne le imprese. Una miscela destinata, con l’andare del tempo, a deflagrare ed a condurre ad una sorta di deciso e finale disimpegno di quella operosa presenza straniera che aveva dato tutte le prove di abilità e di capacità prima richiamate. Il sistema cotoniero soltanto attorno al 1920, quasi un secolo dopo l’inizio della sua avventura, finirà per fondersi, organicamente, in un ciclo integrato nelle sue differenziate funzioni. Antesignano e pioniere dell’industrializzazione era stato Egg che, nel 1813, aveva creato la prima fabbrica a capitale svizzero a Piedimonte d’Alife. Sulla sua scia s’erano poi mossi Davide Vonwiller, Escher, Schlaepfer, Zueblin, Freitag e G. R. Zollinger a Scafati, i tedeschi Aselmeyer e Pfister e diversi altri ancora. Gli imprenditori stranieri decidevano i siti di localizzazione delle loro attività dopo un’accurata e scientifica indagine delle caratteristiche del territorio, anche avvalendosi di collaborazioni e competenze scientifiche di prim’ordine. In particolare i Wenner, esercitando a lungo in questo scenario un ruolo di primissimo rilievo, finiranno per identificarsi con tutta la storia dell’industria manifatturiera tessile della Valle

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dell’Irno e, in generale, di tutto il Regno. E’ di questa famiglia il merito di aver dato vita al più grande polo dell’industria tessile di tutto il Mezzogiorno. Può essere perciò sufficiente questo esclusivo rilievo a rafforzare la convinzione dell’opportunità di rivolgere privilegiata attenzione al comparto tessile ed a questi soggetti imprenditoriali. Il loro esempio produrrà un diffusivo contagio, ben al di là degli specifici confini geografici del territorio d’insediamento, in tutto il contesto sociale circostante. Si consideri ancora soltanto che negli stabilimenti del gruppo delle Manifatture Cotoniere Meridionali arriveranno a prestare la propria attività, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, ben 12.000 lavoratori, in maniera diretta e nell’indotto. Attorno al 1830 si è conclusa la fase di costruzione delle prime fabbriche tessili di proprietà svizzera. Attorno al 1848 si sceglierà l’opzione dell’abbandono delle antiche produzioni della lana, del lino, della seta e ci si concentrerà, essenzialmente, solo sul cotone. Questa lavorazione, infatti, consente- rispetto ad altre similari - ben più alti margini di remunerazione e di profitto. Si presta la massima attenzione al miglioramento della qualità dei prodotti finiti e si realizza un’ampia diversificazione produttiva. Le imprese sono periodicamente ricapitalizzate ed assai ampio è il margine di ricavi che può essere in parte reinvestito ed in parte distribuito tra i soci e gli azionisti. Attorno al sistema industriale tessile sorge, soprattutto nella Valle dell’Irno, qualcosa di molto simile ad una piccola città-fabbrica, di micro- dimensioni, con asili, scuole, case e villini per i dirigenti, chiese per il culto, un cimitero per i membri della comunità straniera. L’ingresso in un nuovo paese, così diverso da quello d’origine, con differenti consuetudini e tradizioni, pur tuttavia non comporta la drastica recisione dell’originaria identità. La specificità delle proprie radici, culture, convinzioni non solo non è messa affatto in discussione, ma è anzi difesa, con particolare determinazione e tenacia. Si realizza come un’osmosi tra soggettività e funzioni territoriali che, assemblandosi, si vanno ad integrare. D’altronde, ancora oggi chi intenda percorrere la strada che da Fratte porta a Capezzano trova di fronte a sé, nel suggestivo pa-

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esaggio che gli si presenta agli occhi, più segni di una storia ed esplicite tracce di un’identità culturale di difforme estrazione rispetto alla tradizione autoctona. Intorno al perimetro dell’impresa si dipana il sistema di strade che collegano a villini e abitazioni, traccia ancora attuale, e non estinta, di quell’operosa avanguardia industriale. Per diretta emanazione, da questo centro si realizza la diffusione di tutto un notevole indotto, in cui sono impiegati tanti altri operai e lavoratori del circondario. E varie imprese, di settori diversi, a loro volta producono macchinari per il polo cotoniero. E’ noto come questa impresa produttiva che, nei primi decenni di vita, ha imboccato un’ascesa che sembra inarrestabile si scontrerà, nel procedere del tempo, con ardue difficoltà che si dimostreranno insormontabili. Ad un certo punto si avvierà, lenta ma inarrestabile, la china declinante. Essa coinciderà, sostanzialmente, con le fasi nelle quali, per varie ragioni, internazionali e interne, gli imprenditori esteri matureranno la scelta di un proprio definitivo disimpegno ed abbandono. Non è questo, naturalmente, il caso di ripercorrere, passo per passo, tutte le fasi e le vicende che porteranno all’inversione di marcia rovinosa. Fatto è che, ad un certo punto, s’imbocca la discesa e la caduta diviene inarrestabile. L’assenza di un diffuso e qualificato substrato d’impresa, con la limitatezza o l’assenza di servizi ed infrastrutture moderne, la scarsa relazione e positiva integrazione e simbiosi tra impresa, istituzioni, territorio si configurano quali cause prime che impediranno di far fronte, con successo, nei decenni a venire, ad una competizione sempre più agguerrita che ormai opera da tempo su aree di mercato ben più ampie ed estese di quelle prevalentemente locali e regionali. Per reggere efficacemente questo nuovo e ben più impegnativo livello della concorrenza sarebbe stato invece essenziale continuare sulla via dell’accurata e circostanziata conoscenza d’ogni dettaglio delle realizzazioni innovative introdotte nei sistemi produttivi della imprenditoria mondiale più qualificata. Sarebbe potuta risultare vincente la carta d’investire ancora, con decisione, sul costante aggiornamento, sull’immissione, nel sistema, di tutte le novità che venivano periodicamente introdotte

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nei processi produttivi dalle aziende leader nel settore, sulla diversificazione, su piani ambiziosi di rafforzamento delle proprie reti commerciali, sulla sistematica ricerca e innovazione. Non si doveva rinunciare ad innestare un meccanismo, a cascata, che avrebbe dovuto coinvolgere tutto il sistema, dalle figure dirigenziali ai lavoratori a più bassa professionalità. Si sarebbe probabilmente dovuto scommettere, ancora e di più, sulla centralità e decisività del fattore umano. Una scelta che, condotta senza ambiguità, avrebbe dovuto essere capace di superare ogni eventuale obiezione circa la capacità di valorizzazione della grande creatività, dell’insieme di competenze, culturali e scientifiche, accumulate in anni di intenso tirocinio, di cui ancora ci si sarebbe potuto a lungo continuare ad avvalere. Non doveva essere sacrificata, né dispersa, l’antica capacità di saper cogliere - anticipatamente - il senso e la direzione dei cambiamenti in corso che, dopo un lungo e sotterraneo lavorio, finiscono per attecchire nel processo di specifica formazione dei caratteri della domanda. D’altra parte, qualsiasi tentativo di competizione, specialmente coi paesi del terzo e quarto mondo, diviene impossibile ove ci si limiti al confronto, esclusivo ed improponibile, sul costo del lavoro. Questo insieme di precondizioni minime, ma indispensabili, non si realizzerà e, a conferma delle tesi che prima sono state enucleate, non si farà avanti, non a caso, alcun gruppo privato disposto a subentrare all’imprenditoria straniera nelle funzioni di direzione e di gestione delle diverse attività d’impresa. E si succederanno, nei decenni a venire, ristrutturazioni, ripetuti salvataggi, interventi di supplenza diretti da parte dello Stato, fino all’ingresso, all’indomani del secondo dopoguerra, prima dell’IRI e poi dell’ENI11, nel giugno 1970. 11

L’originario progetto dei principi dell’Ottocento contemplava per Fratte un ciclo di produzione completo. Esso invece finirà per procedere specializzandosi esclusivamente nella fase di nobilitazione finale del prodotto finito, quella del finissaggio, ovvero della tintura e della stampa. Prima dell’intervento dell’IRI (1950) e dell’ENI (1970) le Manifatture erano passate dalla Società Cotonificio Salernitano (1918) al Banco di Napoli (1930). L’organizzazione industriale del comparto cotoniero s’articolava in precedenza negli stabilimenti di Angri, Nocera, Scafati, Piedimonte d’Alife, Napoli. Lo stabilimento di Fratte è l’evoluzione di questi impianti preesistenti. L’area su cui insiste

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Il disimpegno del capitale svizzero coincide con l’ avvio del processo, lento ma progressivo e inarrestabile, di declino industriale di questa grande esperienza industriale della Valle dell’Irno. Di recente, nel tentativo di critica rilettura, è riemersa una visione storiografica, unilaterale e di parte, che ha teso a riproporre un’idea secondo cui la ricostruzione più oggettiva dovrebbe muoversi registrando la netta diversità tra una prima ed una seconda fase. La prima coinciderebbe, in sostanza, col periodo della dominazione borbonica, ovvero col tempo in cui si sarebbe verificato il massimo di fioritura e di valorizzazione del settore cotoniero. Al contrario, le azioni profuse dai rappresentanti del nuovo Regno d’Italia avrebbero determinato, per ciniche scelte politiche operate a vantaggio delle imprese concentrate nel Nord del Paese, la messa in crisi, progressiva e inarrestabile, del sistema cotoniero meridionale e salernitano. Indubbiamente forte era stata la protezione accordata dall’autorità borbonica all’attività delle imprese laniere e cotoniere locali. La politica di forti dazi protettivi metteva i prodotti e le aziende locali al riparo dalla concorrenza degli altri produttori del settore. E’ però del tutto irrealistica ed antistorica l’illusione che tale stato di cose avrebbe potuto protrarsi all’infinito. I cambiamenti geopolitici ridisegnano ed ampliano le antiche frontiere. Si moltiplicano, sensibilmente, le aree di libero mercato ed in questa nuova situazione si deve dimostrare di sapere reggere con gli altri, confrontandosi con successo sul prezzo e sulla qualità. La competizione per la conquista ed il consolidamento di fette di mercato diviene sempre più aspra. Prescindere da ciò ed assumere un’angolatura di lettura parziale, astratta, preconcetta, immobile e di parte, non capace di scavare fin nelle pieghe più profonde delle ragioni di fondo dei processi messi in moto, da quei primi decenni dell’Ottocento e ben più avanti in maniera sempre più marcata, è del tutto deviante. Densa di tortuose contraddittorietà è infatti questa storia. l’impianto di Fratte è di circa 58.000 mq. coperti su una superficie totale di oltre 120.000 mq. L’ipotesi di Piano regolatore attualmente in discussione ne prevede la delocalizzazione.

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La rivoluzione produttiva che si era realizzata era infatti proceduta, questo l’altro aspetto del problema, attraverso il ricorso al massimo sfruttamento, intensivo, della manodopera. Le attività di produzione si erano articolate in un rigido sistema di turni, lunghi e durissimi, con modalità di controllo sulle maestranze di tipo poliziesco, col ricorso, eccessivo, e spesso immotivato e gratuito, alle multe. Vigevano regolamenti durissimi, applicati per tutti allo stesso modo, per adulti e per bambini. Ed il padronato svizzero si distinguerà per scegliere d’impegnare, da subito, fin quasi dall’atto del proprio insediamento nella Valle dell’Irno, un numero considerevole di donne e di bambini, in una misura assai più elevata rispetto ai propri concorrenti. Un tipo di manodopera facilmente reperibile, soprattutto, nelle campagne dell’Agro nocerino, dove sorgerà un secondo insediamento svizzero. Le retribuzioni dei minori erano assai più basse di quelle degli operai. E c’era il vantaggio di poter svolgere, con la stessa abilità dell’operaio adulto, una serie di operazioni -poco complessenelle quali non appariva necessario il possesso di una particolare specializzazione. I bambini venivano utilizzati, di giorno e di notte, in un lavoro di semplice supporto all’attività di funzionamento dei macchinari, almeno di quelle macchine a complessità minore. I bambini, anche piccolissimi, verranno impiegati più nelle filature che nelle stamperie e tintorie, operazioni queste ben più dure e pericolose a causa del maneggio dei coloranti e di vari agenti chimici. Si dovrà attendere fino al 1907 perché lo Stato Italiano, con un’apposita legge, proibisca il lavoro in fabbrica ai ragazzi fino ai 12 anni ed il lavoro notturno per le donne e i minori. In tale occasione sarà sancito il principio della non superabilità dell’orario di 11 ore di lavoro al giorno per i ragazzi e di 12 ore giornaliere per le donne. Potrà allora risultare utile in questo scenario richiamare, seppur fugacemente, la marcia- lunga e tenace- dei lavoratori per conquistare un più avanzato livello di tutele, normative e salariali, col riconoscimento di diritti primari elementari. Un percorso che risulterà particolarmente aspro e difficile e nel quale, a lungo, si registreranno molte più sconfitte che conquiste.

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Tante lotte saranno necessarie prima di conquistare il riconoscimento del diritto ad un salario appena dignitoso e tanti duri scontri dovranno essere sostenuti dal mondo del lavoro prima dell’accettazione del principio che è legittimo dotarsi di una propria, specifica organizzazione di difesa, il Sindacato. Le sconfitte, numerose, saranno causate, fondamentalmente, dal diverso peso e dalla diversa capacità di condizionamento delle forze in campo che lottano tra loro. La grande potenza economica e sociale, la dura intransigenza politica di un padronato di antica tradizione capitalistica, non incline ad accettare il principio dell’agitazione operaia né a concepire in alcun modo l’opportunità di un qualsiasi compromesso, che possa in qualche modo interferire con l’unilateralità dell’esercizio di un ruolo e d’una funzione presuntivamente indiscutibili, saranno a lungo i fattori, negativi, che decideranno, a vantaggio dei datori di lavoro, l’esito dei ciclici conflitti che pure esploderanno. Naturalmente sarebbe il caso, in altra occasione, di soffermarsi sulla ricostruzione della storia, precisa e circostanziata, degli scioperi e delle agitazioni operaie che si succederanno, in specie nei settori cotonieri. E’ per ora utile limitarsi a ricordare che bisognerà attendere il 1897 per assistere al grande sciopero delle filatrici e che solo nel 1901, alla Schaepfer-Wenner di Fratte, si riuscirà ad ottenere un incremento di salario attorno al 5%. L’ultima lotta operaia del settore tessile si avrà, in pieno fascismo, nel periodo tra il 1922 ed il 1924. L’ultimo grande sciopero tessile è del Novembre 192412. Poi un lungo silenzio, prima della ripresa dell’immediato dopoguerra e delle lotte sviluppate 12

Lo sciopero sarà diretto da Luigi Cacciatore, a quel tempo segretario Regionale Fiot. Un’accurata ricostruzione del ruolo e della funzione di Luigi Cacciatore e del suo instancabile impegno per i lavoratori e l’unità delle forze di sinistra si ritrova in G. Cacciatore, Socialismo, Meridionalismo e Unità della Sinistra in Luigi Cacciatore, in Rassegna Storica Salernitana, Nuova Serie, Boccia Editore, Dicembre 1991. Sulle lotte dei tessili degli anni 1922-1924 contro la disdetta del CCNL ed in difesa dello stabilimento “Irno” , contro i licenziamenti ed il trasferimento al Nord di parte dei macchinari, sull’ultimo sciopero dei tessili del Novembre 1924, sul ruolo svolto dalla Confederazione generale del Lavoro e su alcuni aspetti della figura di Nicola Fiore vedasi anche G. Amarante, Memoria Storica, Scritti vari 1997- 2000, Edizioni Marte, 2001, in particolare pp. 121-133.

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negli anni ‘50 e nei decenni successivi in difesa delle fabbriche e dell’occupazione. Scarno richiamo ad un ulteriore capitolo di storia ancora oggi solo parzialmente completato. Si notava in precedenza come l’imprenditoria straniera, che ha immesso nei caratteri dello sviluppo locale la fortissima accelerazione di cui si è detto, dovrà fronteggiare nel tempo, e più volte, difficoltà e problemi. L’arretratezza o l’indifferenza del sistema bancario, il parassitismo e la non propensione all’impiego di capitali di rischio da parte dell’imprenditoria locale, la lentezza con cui si perverrà alla messa in atto dell’intuizione, illuminata, degli imprenditori svizzeri del vantaggio d’integrare tra di loro le diverse fasi della lavorazione del cotone, dall’origine (raccolta ed approvvigionamento della materia prima) al prodotto finito ed alla sua commercializzazione, costituiranno alcuni degli ostacoli maggiori che, combinati all’arretratezza estrema del sistema d’infrastrutture, risulteranno alla fine decisivi nell’incapacità di resistere nel confronto competitivo. Cause tra le prime, queste, che - più avanti nel tempo impediranno alle imprese cotoniere di reggere sui mercati mondiali continuando, come nella prima parte della loro vita era sempre avvenuto, a produrre utili e non perdite d’esercizio. Lo studio del Villari, da cui hanno preso vita queste righe, espandendo lo sguardo in più direzioni, tende a coniugare l’insieme delle prevalenti caratteristiche orografiche del territorio, la mobile armonia del contesto ambientale, i segmenti d’interconnessione di più ruoli e funzioni, la varietà delle funzioni produttive di un’area nella quale risalta la grande ricchezza e disponibilità di risorse naturali e del sottosuolo, la presenza plurima di fonti e sorgenti d’acque, variegate. Ragioni di fondo, decisive, per la scelta di localizzazione in quest’area dei grandi opifici manifatturieri svizzeri. S’evince come la valle dell’Irno non è stata soltanto, in questi ultimi due secoli, l’ambiente in cui sono stati calati grandi investimenti dall’alto, separati da un contesto d’insieme che pur possedeva, oltre alle notevoli esperienze professionali, anche importanti specificità culturali e produttive, d’antica qualità. Sarebbero stati necessari un territorio ben attrezzato per infrastrutture ed un’azione istituzionale in grado di accompagnare, questo a me

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sembra il punto, meglio di quanto invece accadde, il processo di cambiamento e d’innovazione organizzativo, meccanico, tecnologico e produttivo che era stato potentemente e impegnativamente avviato. Un forte sistema di regia e di sostegno che favorisse il percorso, ambizioso, della specializzazione ulteriore e dell’armonizzazione delle diverse tipologie preesistenti nella società locale. E’ in realtà mancata la capacità di far procedere il complesso delle forze locali, economiche, ma anche politiche ed istituzionali, all’unisono e nella stessa direzione. Il percorso, virtuoso, s’interrompe e si vanificano le attese - non utopistiche - d’una duratura diffusione di generale benessere, che avrebbe dovuto migliorare, non solo temporaneamente, la qualità della vita di tutta una comunità e non solo dei gruppi più privilegiati. Si sono strutturati nuovi ceti e figure sociali, s’è impiantata una mutazione genetica di una società, sono sorte nuove individuali e collettive identità. Uno dei prevalenti tratti distintivi della fine del XIX secolo e di tutto il secolo XX è proprio l’avvento dell’industrialismo. Il segno più profondo di un cambiamento, nelle forme produttive e nei rapporti di produzione che, pur procedendo su contraddittori sentieri nei quali convivono fattori propulsivi con elementi di rinnovate e non di rado odiose e diffuse forme d’ingiustizia, arretratezza, discriminazione, pur finirà, nel complesso, per assicurare condizioni generali, migliori e più progredite, di vita, di benessere e civiltà. Aumentano i redditi individuali e familiari, cresce il benessere sociale, iniziano ad essere affrontati nodi, essenziali e dirimenti, in materia di tutela del lavoro. Si configura un’azione di garanzia e di difesa dei diritti primari, s’afferma un concetto del lavoro non più concepito quale discrezionale ed unilaterale elargizione, ma quale elemento, primario e distintivo, dei diritti di cittadinanza. Iniziano a nascere prime forme di mutualità, s’ affrontano, per la prima volta, contenuti essenziali quali la garanzia della salute pubblica e l’obbligo dell’istruzione primaria. Temi che confluiranno, tutti a pieno titolo, nel grande capitolo dell’azione sviluppata in Europa dalle forze di progresso più avvertite per

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l’organizzazione di un nuovo Stato Sociale. Ci si inizia a porre il problema di garantire ai lavoratori un alloggio dignitoso. Le innovazioni organizzative, produttive, la nascita ed il consolidarsi della grande impresa propongono nuovi orizzonti nei quali devono essere trovate convincenti risposte a bisogni diversi e nuovi che emergono ora. Nodi essenziali, gravidi di conseguenze, che finiscono per travalicare la sola ed esclusiva relazione, pur senza dubbio essenziale, tra prestazione data e retribuzione ricevuta. La ricostruzione e lo sviluppo d’una trama valida nei suoi interni presupposti produce la supplementare esigenza d’interrogarsi su ulteriori quesiti per i quali individuare risposte persuasive. Un livello, per così dire, di supplementare riflessione, che ci consenta di riprendere oggi, col relativo distacco storico possibile, un discorso più aggiornato e costruttivamente critico. E’ il caso di sintetizzarne solo alcuni. Una forte organizzazione del lavoro, nella quale sono organicamente inseriti migliaia e migliaia di lavoratori e che consente, a lungo, una maggiore crescita e stabilità economica, che anzi favorisce la diffusione d’una superiore consapevolezza dei propri diritti e della dignità del mondo del lavoro, col procedere del tempo poi progressivamente decade, si perde, muore. E ciò inizia a verificarsi quasi in coincidenza degli anni in cui si operano cambiamenti proprietari e societari ed agli svizzeri subentrano nuove presenze imprenditoriali o finanziarie, per lo più pubbliche e statali. In questo nuovo quadro si attuano ripetute azioni di sostegno finanziario e di salvataggio, soprattutto nell’arco temporale in cui si registra il diretto intervento della mano pubblica, dell’IRI e dell’ENI13. 13

In realtà il ruolo dell’ENI è istituzionalmente concentrato sull’attività energetica, sugli idrocarburi, la ricerca e produzione mineraria, il trasporto e la distribuzione del metano, gli oleodotti, la raffinazione, la distribuzione di prodotti petroliferi e su varie attività ausiliarie a questa funzione principale. La presa in gestione, da parte dell’ENI, di aziende chimiche e tessili di provenienza privata, in relazione a specifiche decisioni assunte dal Governo Nazionale, si rivelerà a consuntivo un’operazione di corto respiro. La storia dagli anni ‘70 in avanti mostrerà così un lento e progressivo disimpegno della mano pubblica. Il gruppo ENI si caratterizzerà infatti per una politica di disinvestimenti e dismissioni nel settore tessile, particolarmente evidente e grave nel

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E’ nelle pieghe di questi cambiamenti si avrà la mutazione, da aziende produttive e che generano utili, ad imprese che invece ora accumulano perdite, anche consistenti. Per garantire la pace sociale, si finirà per operare, in tempi più recenti, con misure assistenziali piuttosto che continuare nella qualificazione industriale, investendo ancora sull’innovazione di processo e di prodotto. L’avvio di una decadenza che, originata anche dalla sostituzione di leadership qualificate con altre di più ridotto prestigio e qualità, finisce per attuarsi in una china sempre più discendente, con accelerazioni fortissime a partire dal secondo dopoguerra in avanti. Una tendenza che non si riuscirà ad arrestare. Si realizzerà un’autentica desertificazione dell’industria cotoniera tradizionale pur avendo sviluppato le forze del lavoro, le Organizzazioni Sindacali, lo schieramento politico progressista una strenua e generosa lotta di resistenza in difesa del lavoro e dell’occupazione, fin dalle aspre lotte degli anni ‘5014. Mezzogiorno ed in specie negli stabilimenti della Valle dell’Irno e del salernitano, nè si attiverà alcuna integrazione tra settore chimico e tessile. Nel 1970 saranno investiti nel tessile 7,6 miliardi di lire; nel programma quinquennale investimenti tecnici 1971-1975 invece solo la risibile cifra di 0,9 miliardi, fatto 100 il globale. Gli stabilimenti dell’Irno e del salernitano avranno meno di un quarto del totale. 14 Nel fascicolo di settembre 1955, in “Cronache Meridionali” pp.594- 604, oggi in G. Di Marino, La scelta Democratica, “la grande lotta delle MCM di Salerno in difesa dell’Industria”, pp. 29-42, Arti Grafiche Boccia Edizioni, 2002, è pubblicato un articolo dal titolo “Il Problema”. In esso si ricostruisce, a grandi linee, la dura lotta sostenuta dai lavoratori tessili a metà degli anni’50 contro la minaccia di chiusura della Filanda Fratte- Pellezzano, dove 900 operai verranno sospesi dal lavoro a tempo indeterminato. Si ricorda come in provincia di Salerno l’industria tessile maggiore impieghi stabilmente circa il 40% della manodopera occupata della Provincia. Si ricostruiscono alcuni passaggi dell’occupazione della fabbrica durata 23 giorni, ed il grande sostegno ricevuto in quella vertenza dal movimento democratico e popolare. In grandi assemblee pubbliche nei Comuni di Baronissi, Nocera Inferiore, Eboli, Fratte, Pellezzano, si esplicita pubblicamente la netta solidarietà ai lavoratori in lotta. Sono raccolte circa 50.000 firme, molte sottoscrizioni in danaro. Si dà vita ad un esteso Comitato Interpartitico ed Intersindacale. L’ampio ed esteso movimento popolare e politico, l’estrema determinazione mostrata dagli operai riusciranno, per una fase, ad impedire il progetto di smantellamento. La lotta sviluppata in difesa delle MCM s’intreccerà con quella, più generale, avviata in quegli anni per l’industrializzazione della Provincia di Salerno.

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In alternativa all’industria che s’avvia a morire, non sorgeranno nuove ed avanzate esperienze produttive, in altri settori diversi e innovativi, strettamente correlate alle necessità del territorio. Problemi nuovi e d’enorme impatto, quali ad esempio quello rappresentato dal tema, essenziale, della tutela dell’ambiente, che avrebbe potuto costituire un’idea progettuale efficace di sviluppo alternativo, e di lungo periodo, degli investimenti pubblici non viene presa in nessuna considerazione. Non sorge alcuna attività che, pur con caratteri diversi dal passato, avrebbe potuto concorrere ad assicurare un futuro di progresso e modernità alle popolazioni di quella parte della provincia di Salerno, coniugando, contestualmente, l’esigenza della crescita virtuosa con la tutela dell’occupazione. Eppure numerosi, a tal proposito, e solenni sono stati gli impegni assunti dai rappresentanti di Governo, come si ricava dalla semplice lettura di atti e interpellanze parlamentari che su questa vicenda si sono susseguiti. Viene inesorabilmente preclusa ogni ipotesi diversa dallo sbocco rovinoso, cui malinconicamente si giungerà attorno agli anni ‘80, gli ultimi del XX secolo. Una conclusione inevitabile o invece sarebbe stato possibile intraprendere un’altra direzione capace di realizzare, strategicamente, una ben differente prospettiva? Senza dubbio alla fine è prevalsa una sottovalutazione, grave, della specifica funzione propulsiva dell’impresa manifatturiera che, per la prima volta nella storia, ha concorso all’immissione in un contesto d’internazionalizzazione del territorio della Valle dell’Irno. Non se ne è più difesa la funzione, né aiutato e sostenuto il rilancio. Come mai tutto ciò è potuto accadere? Problemi e quesiti complessi, di difficile soluzione, domande a cui non è possibile rispondere in maniera schematica. Nodi in ogni caso essenziali per comprendere, meglio, l’ispirazione di fondo delle dinamiche che a un dato punto si sono messe in moto e la responsabilità della loro regia. La fase discendente dell’industria manifatturiera locale s’accentua sempre più, in sostanza, dagli anni 1950-1960 in avanti.

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La situazione precipiterà negli anni ‘7015 per peggiorare ancora ulteriormente negli anni ‘80 raggiungendo il punto limite nei primi anni ’9016. Il settore, che è tra i più esposti alla concorrenza internazionale, si troverà all’interno di una contraddizione apparentemente irrisolvibile. Le frequenti innovazioni, l’introduzione di macchinari sempre più veloci, moderni ed avanzati, di per sé producono come immediata conseguenza - la riduzione del numero di operai e di lavoratori. La macchina sostituisce drasticamente, in più fasi della lavorazione, il lavoro umano. Forti investimenti sono d’altronde indispensabili per l’incremento della produttività, per migliorare la qualità, per reggere il confronto con la concorrenza più qualificata. Se non si immettono nelle varie fasi del circuito produttivo consistenti innovazioni scientifiche e tecnologiche , con la tempestività che è necessaria, tutto il sistema inesorabilmente frana. La mano pubblica ed il governo assumeranno un cambio d’indirizzo di 360 gradi. Non s’investirà ma di disinvestirà. Le risorse pubbliche che, tramite il ripianamento delle perdite d’esercizio, avevano consentito la continuità della produzione, fronteggiando - seppure a fatica - le difficoltà contingenti del ciclo economico, vengono 15

La perdita globale di esercizio denunciata dall’Assemblea degli azionisti della Lanerossi, caposettore tessile del Gruppo ENI, nel bilancio approvato il 30 Giugno 1979, ammonterà a 44 miliardi 826 milioni di lire. In proporzione, le perdite delle MCM, come gruppo, erano risultate nel maggio 1971 di 23 miliardi negli ultimi 5 anni (Replica del sottosegretario Principe all’interpellanza parlamentare n. 187 del Senatore Colella e n. 450 del Senatore Catalano del 7 Maggio 1971). Negli anni seguenti le perdite continueranno ad essere superiori alla media delle altre aziende del gruppo Lanerossi. Gli impegni assunti in varie occasioni dal Governo di “adottare i sistemi tecnologici più avanzati nei processi produttivi, di risolvere il problema del personale esuberante, assicurandone la ricollocazione in aziende alternative competitive nel quadro di una politica economica territoriale, l’impegno a riorganizzare le aziende utilizzando un vasto patrimonio di innovazioni tecnologiche in tutte le fasi del ciclo produttivo” saranno completamente disattesi. Gli investimenti della capofila così si ridurranno, progressivamente, sempre di più. 16 A quel punto gli investimenti in ricerca industriale per le imprese del Gruppo MCM e per quelle attività allocate nella Valle dell’Irno risulteranno del tutto eliminati.

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dirottate in differenti direzioni. Da queste decisioni finiranno per trarre vantaggio soltanto i grandi gruppi privati nazionali del Nord. Il concorso della classe politica e di governo al tipo di soluzione che ne deriverà, con gli indirizzi della ristrutturazione che verrà realizzata, è del tutto chiaro. La funzione svolta dalle classi dirigenti, diffusamente intese, sia dal versante politico ed istituzionale che da quello più squisitamente economico e produttivo, la comprensione attenta di come finisce per orientarsi l’azione della mano pubblica, la contemporanea funzione dell’impresa privata e la sua capacità d’incidenza e di condizionamento sulle scelte di governo sono materia da indagare in maniera ancora più approfondita, in ogni specifico dettaglio. In tutti i passaggi nodali, che alternativamente innestano dinamiche positive di tenuta e di sviluppo, ovvero in quelle che porteranno alla decadenza o alla crisi, definitiva, dell’industria manifatturiera, in specie di quella di grandi dimensioni, essenziale è l’indirizzo assunto dalle scelte politiche di fondo dei governi nazionali che si succederanno e dal modo in cui saranno definite le intese con gli altri paesi produttori. In genere essi finiranno per privilegiare, sempre, i processi di concentrazione produttiva, l’ innovazione, la diversificazione delle manifatture, prevalentemente private, che sono collocate in aree geografiche diverse da quelle meridionali e salernitane. Peseranno, certo, per le loro conseguenze, gli accordi internazionali, che sanciranno il tetto massimo di quote produttive e la loro distribuzione tra i singoli paesi produttori, i ritardi nella dotazione di infrastrutture nel territorio, che concorre, obiettivamente, all’incremento dei costi di commercializzazione e smercio delle produzioni delle imprese del mezzogiorno. Alquanto negativa finirà per risultare l’assenza di una vera imprenditoria locale d’avanguardia, in grado di proporsi e d’investire in proprio nel settore. L’insieme di questi limiti e condizionamenti convergenti ricadrà in negativo, pesantemente, su tutta la Valle dell’Irno e sulla stessa città di Salerno. Potenti fattori negativi che costituiranno le vere cause del lento e inesorabile declino di una grande esperienza economica e produttiva. Né i governi tenteranno d’individuare alcuna possi-

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bile diga oppositiva alle posizioni “naturali”, in apparenza definite dal mercato, in realtà imposte, in maniera determinata, dagli indirizzi e dalle scelte che si affermeranno nei piani delle più grandi concentrazioni d’impresa private, nazionali ed internazionali. Esse non a caso, a differenza di quanto succederà per le manifatture dell’Irno e della Provincia di Salerno, continueranno a produrre e ad operare ancora a lungo, acquisendo ulteriori e supplementari spazi di mercato fino a quel momento coperti dalle attività del sistema cotoniero salernitano locale. Eppure forse l’attività cotoniera avrebbe potuto continuare a vivere, seppure con minore occupazione, ove fossero stati a tempo messi in moto i necessari processi d’autotutela, di ristrutturazione e d’innovazione, gli atti di ricapitalizzazione che l’evolversi della situazione rendeva necessari. Il sistema, ben riorganizzato, sarebbe stato ancora in grado di reggere se si fosse investito su management idoneo, se il territorio avesse compreso, a tempo, la necessità di dotarsi di servizi qualificati ed innovativi di supporto all’impresa manifatturiera. Tutto ciò non si verificherà e così i processi produttivi, in assenza di tali indispensabili interventi di sostegno saranno oggetto, non a caso, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, di un’involuzione grave all’interno di dinamiche, già da tempo in precedenza definite, la cui regia è stata ad altri piani concordata. La crisi investirà poi, in maniera mortale, il complesso delle imprese pubbliche e private locali, di tutti i tradizionali comparti manifatturieri, e si concluderà con la brutale e pressoché totale soppressione di un grande ed importante apparato industriale, economico e produttivo. Storia relativamente recente questa, ma che ha le sue originarie ragioni nella peculiarità delle scelte di governo che si sono in quel tempo delineate e realizzate. In alternativa non si attiverà alcun intervento di creazione di distretti industriali, la mano pubblica espliciterà anzi in maniera ufficiale la non strategicità di tali produzioni, senza indicare e proporre alcuna valida idea che dia la percezione di voler sostituire, su altri segmenti, ciò che è ormai perduto. Nel territorio non saranno realizzati servizi e funzioni produttive nuove, innovative, d’avanguardia.

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Le attività industriali sostitutive promesse dal governo si dimostreranno, quasi sempre, una tragica farsa. Non si strutturerà alcuna nuova specializzazione d’eccellenza ed anzi finirà per disperdersi, in mille rivoli, il grande patrimonio di esperienza e di professionalità operaia che in questa area col tempo, con tante lotte e sacrifici è stato accumulato. Resterà soltanto un vuoto, gravido di conseguenze non soltanto sullo specifico terreno economico e produttivo ma anche su quello sociale, culturale e politico. La scelta che verrà operata sarà quella dell’assoluto disimpegno, dovuto alla semplice, burocratica registrazione dello squilibrio tra costi e ricavi. Sarà attuata l’opzione meno impegnativa e più penalizzante per la realtà locale. Si perseguirà la scelta d’ una ipotesi produttiva per le realtà del centro-nord, e di una contestuale politica di contenimento, assistenziale, per ampie aree del mezzogiorno d’Italia, per la Valle dell’Irno e per la stessa provincia di Salerno. Storia questa più recente, un film che purtroppo, nel procedere del tempo, sarà più volte nelle stesse forme replicato. Il prodromo finale d’una vicenda che oggi appare, da alcuni anni a questa parte, negativamente conclusa in via definitiva, confinata nell’alveo d’una sbiadita, vaga memoria e d’un ricordo, ormai per più versi sfumato, di consunta archeologia industriale.

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Il secondo dopoguerra, la stampa democratica a Salerno: «Libertà», «L’ora del popolo» La lettura parallela dei numeri del 1943 e del 1944 di “Libertà”, Organo del Comitato Provinciale di Salerno del Fronte Nazionale di Liberazione - già Comitato di concentrazione Antifascista - e de “L’Ora del Popolo”, organo ufficiale della Democrazia Cristiana, lascia trasparire, in maniera nitida ed evidente, le differenze di linea, d’ispirazione, di progetto e strategia tra le formazioni politiche, maggioritarie nello scenario istituzionale che si è andato a delineare, che si rifanno a queste testate. La stessa divaricazione, di analisi e distinzione di prospettiva, troveremo - come meglio si dettaglierà in prosieguo - tra le grandi organizzazioni sindacali di massa che si ispirano in prevalenza, rispettivamente, al filone d’ispirazione marxista ed a quello cattolico. In “Libertà”17 traspare nitidamente un’impostazione di natura repubblicana, di sinistra, proiettata in direzione della realizzazione dell’obiettivo primario di forme di democrazia nuova, sempre più avanzate, progressive, sostanziali e non solo formali. Nella nuova situazione data, gli antichi equilibri di potere tra le classi dovranno essere finalmente scomposti e messi radicalmente in discussione a vantaggio delle forze del lavoro dipendente che, autonomamente, stanno procedendo alla propria riorganizzazione. Forte, come sta avvenendo in pressoché tutti i paesi del vecchio continente, è il fascino e straordinaria la suggestione, intrisi di evidenti elementi simbolici, rappresentati dall’esperienza rivoluzionaria della Russia Sovietica18. 17

L’Organo del Fronte Nazionale di Liberazione ha la sua redazione a Salerno, in via Dogana Vecchia n.45. 18 Uno degli esempi più evidenti di ciò è la manifestazione di inaugurazione della Camera del Lavoro di Scafati la domenica del 5 Marzo 1944. Nell’occasione si rammenta come, a quella data, l’organizzazione sindacale ha già organizzato, in quel Comune, oltre 1.500 lavoratori. I relatori in questa occasione sono stati: Giovanni Autiero, organizzatore del Sindacato locale, Danilo Mannucci, Segretario Provinciale della CGIL, Enrico Russo della Confederazione Generale del Lavoro, Paolo Tedeschi del C.C. del Partito Comunista Italiano, l’avvocato Sicignano del Partito Comunista sezione di Scafati. Nella circostanza è approvato un ordine del giorno in cui “ I lavoratori di Sca-

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Stroncante appare, perciò, la critica al capitalismo degenerato, col fascismo, nel più odioso ed oppressivo “regime reazionario di massa”19, pregiudizialmente e violentemente ostile, mortalmente antagonista e nemico del movimento dei lavoratori e delle sue organizzazioni di classe. Ferma è l’idea di stabilire, sui posti di lavoro ed a tappe accelerate, le condizioni, tangibili, di un diretto contropotere dei produttori. Forte è ancora il richiamo alla necessità dello sviluppo e dell’intensificazione della lotta tra le classi contrapposte con la recisione, alla radice, delle cause, strutturali, che hanno concorso alla nascita, all’affermarsi ed all’attecchire del fascismo con la sua specifica configurazione e fisionomia statuale autoritaria. La principale responsabilità di quanto è accaduto e degli immani disastri causati dai gruppi economici più aggressivi e potenti che hanno fatto cinicamente ricorso all’uso spregiudicato della violenza squadrista per fermare le conquiste e l’avanzata del movimento operaio è netta ed evidente. Esplicita, conseguentemente, la richiesta di un profondo cambiamento istituzionale, con la secca opzione repubblicana ed antimonarchica. Sotto accusa, senza possibilità di giustificazione alcuna, la tragica responsabilità della corona, la sua ignavia, con la sua fuga e il venir meno ad ogni responsabilità, cause queste che hanno prodotto lo sfascio della nazione e il suo sfarinamento. Di converso, “L’Ora del Popolo”20 sembra volere piuttosto perseguire un’impostazione politica e strategica che, su questo piano, appare ben più morbida e sfumata. Il nucleo centrale delle posizioni della testata d’ispirazione cattolica assume infatti, nelle essenziali ispirazioni, l’idea della collaborazione tra le classi, fati la rossa, riuniti in assemblea alla Sala Venezia per l’inaugurazione della propria C. d. L. inviano un saluto fiero e commosso alle invitte armate della Russia che, sotto la guida del compagno Stalin, avanzano verso il centro dell’Europa per ridare al mondo la libertà e la pace”. Nella stessa occasione si invita “il re, primo fascista d’Italia a lasciare libero un trono che ormai vacilla” ed è formulata la richiesta “di dimissioni di un governo fantasma e la costituzione di un governo di sinistra che rappresenti la vera espressione della classe sana lavoratrice”, (“Libertà”, 6 marzo 1944). 19 L’espressione è usata da Palmiro Togliatti. 20 La redazione del foglio cattolico è in via Lungomare Trieste, n.164 e verrà poi trasferita in via Roma, n.52.

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in una visione d’orizzonte interclassista, in cui l’elemento della collaborazione tra capitale e lavoro, non più in frontale e mortale conflitto tra loro, è espressione di una posizione politica tutta interna al solco proprio dell’antica visione cristiana che trova la propria ispirazione e le sue ragioni, culturali ed ideali, nel riferimento all’insegnamento millenario di Cristo e della Chiesa. In conseguenza a ciò l’azione del Pontefice per la Pace21 e per il bene superiore dell’Uomo, assunto tale impianto, viene esaltata senza incertezza alcuna né viene risparmiata, seppure all’inizio in verità in maniera ancora soffice e sfumata, la polemica verso le altre e differenti impostazioni culturali, storiche e filosofiche, che al contrario sembrerebbero privilegiare, in modo unilaterale, l’aspetto - esclusivo - di una presunta ma del tutto illusoria ed errata “decisività del fattore economico” nel lungo e tortuoso percorso di avanzamento della storia umana. Il richiamo alla complessità ed alla umanità, a quella specifica dimensione, insopprimibile, insita nella spiritualità di ogni singolo uomo, è assunto di frequente quale elemento distintivo, ineludibile ed incomprimibile, rispetto ad altri movimenti politici e sociali di distinta origine ed ispirazione. E ciò si esplicita, in maniera anche più evidente, negli atti del Convegno dei rappresentanti dei Sindacati Cristiani dell’Italia Liberata, che si tiene a Salerno il 19 e 20 marzo 1944. Nell’appello ai lavoratori s’insiste infatti sulla 21

Grande rilievo morale aveva assunto la preghiera del Papa Pio XII nel giorno di domenica 12 marzo 1944 dalla loggia centrale della Basilica Vaticana perché la città di Roma fosse risparmiata dalle distruzioni e non divenisse sanguinoso campo di battaglia tra gli opposti eserciti. Nel discorso tenuto di fronte a centinaia di migliaia di fedeli e cittadini, trasmesso per radio, il Pontefice parlava ai belligeranti ed al Mondo intero perché “in quest’ora particolarmente grave per la tanto martoriata città di Roma, dilaniata nelle vive carni dei suoi abitanti orribilmente uccisi, mutilati e feriti, noi preghiamo di nuovo, supplichiamo, scongiuriamo quanti posseggono i mezzi per venire in aiuto, sia con forze materiali come anche con lavoro e con le prestazioni delle opere, di non negare il loro efficace contributo e concorso a così urgente ed impellente e caritatevole azione … .come potremmo credere che alcuno possa mai osare di tramutare Roma, questa calma città, che appartiene a tutti i tempi e a tutti i luoghi.. in un campo di battaglia, in un teatro di guerra, perpetrando un atto tanto militarmente inglorioso quanto abominevole agli occhi di Dio e di un’umanità cosciente”. Il discorso sarà integralmente pubblicato su “L’Ora del Popolo” del 13 marzo 1944.

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funzione, ineliminabile, del lavoro quale “strumento d’elevazione morale e materiale”. Si precisa inoltre che “per eliminare le ingiustizie sociali è necessario ripudiare le dottrine e i metodi materialistici su cui poggiano sia il capitalismo che i sistemi economici marxisti. Solo una legge di amore universale può abolire la condizione del proletariato, superando ogni artificiosa antitesi, col porre voi lavoratori in grado di acquistare la proprietà dei mezzi e dei frutti del lavoro nel più ampio rispetto della libertà e della personalità umana. Noi vi invitiamo ad aderire alle sole organizzazioni che tuteleranno i veri vostri interessi morali e materiali. La Confederazione Bianca col suo programma e i suoi metodi, da cui esulano l’odio e la violenza, vi chiama all’ombra delle sue bianche bandiere su cui brilla la Croce. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo”22. In realtà già nell’ultima fase della guerra si è iniziata a delineare una situazione nuova e dinamica anche per quanto concerne l’azione per la riorganizzazione delle forze del lavoro e del movimento sindacale. Riguardo all’Italia Meridionale peninsulare, con ordine n. 5 del capo regionale degli Affari Civili di Calabria, Lucania e della Provincia di Salerno, venivano aboliti, nella fase conclusiva del conflitto, i Consigli provinciali delle Corporazioni e tutti i Sindacati fascisti con le loro diramazioni relative. Essi erano ormai diventati degli inutili orpelli, elefantiaci e burocratici, con l’assoluta incapacità di agire, con efficacia, a tutela del lavoro dipendente. Essi sono sostituiti dagli Uffici del Lavoro, uno per Provincia. Ad essi organismi sovrintenderà un

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In “L’Ora del Popolo” 17 marzo 1944. Si precisa poi che l’azione del sindacato cattolico sarà rivolta a conciliare interessi apparentemente opposti quali quelli dei lavoratori e dei datori di lavoro e ciò sarà possibile, con piena e generale soddisfazione, tramite “l’illuminazione” fornita dalla Chiesa. I datori di lavoro ed i proprietari dovranno essere sicuri che “mai nessuno verrà a spogliarli, e tanto meno con la violenza, di quelli che sono i diritti di cui essi godono legittimamente per uso conforme alla legge morale”. Sarà perciò necessario che entrambe le forze diano la dimostrazione di massima ragionevolezza e buona volontà ricordando che ambedue esercitano un’indispensabile servizio d’interesse sociale.

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Ufficio Regionale con importanti funzioni di coordinamento e di direzione sui temi attinenti i problemi del Lavoro23. C’è ancora da rilevare che un identico processo, di sostituzione delle vecchie strutture cui aveva dato vita il fascismo, ha riguardato il campo opposto a quello delle Organizzazioni Sindacali, l’organizzazione degli Industriali. Nel Salone Centrale di Palazzo di Città si è infatti tenuta la riunione di tutti gli Industriali della Provincia di Salerno, alla presenza del Capo dell’Ufficio Economico del Governo Alleato, luogotenente Morrow, e si è provveduto alla sostituzione della disciolta Unione Industriale Fascista con l’Associazione Libera degli Industriali. Una seconda riunione organizzativa è preannunciata per il 25 gennaio 1944 nel Salone della Banca dei Commercianti24. Più articoli delle testate giornalistiche prima richiamate riportano, in modo sufficientemente esteso, le diverse esperienze di riorganizzazione che si stanno rapidamente realizzando intorno all’embrione dei rinati movimenti sindacali. La Confederazione Generale del Lavoro, dopo 20 anni di totale silenzio, ha ripreso la propria attività25. Alla Confederazione, di prevalente ispirazione socialista e comunista, era stato vietata qualsiasi iniziativa di propaganda, di organizzazione, di stampa, di proselitismo. Le sue sedi erano state chiuse, ed i suoi dirigenti di frequente perseguitati, arrestati, costretti all’assoluto silenzio ed all’inattività totale. Ogni forma di tutela legale dei lavoratori era stata impedita dalla dittatura, così che, in questo contesto, le condizioni generali del mondo del lavoro - decapitata qualsivoglia forma di organizza23

Art. non firmato “Lo scioglimento dei sindacati”, in “L’Ora del Popolo”, 22 novembre 1943. 24 In “Libertà”, 23 dicembre 1943. Le riunioni programmate degli Industriali si svolgono sotto la presidenza di Cesare Ricciardi e, dopo la riunione tenuta nel salone del Municipio, nella nuova assemblea prevista nel Salone annesso alla Banca dei commercianti, in via Botteghelle, si procederà alla elezione del Presidente e di due vice Presidenti dell’Associazione. 25 Rapida ed estesa la sua influenza tra i lavoratori di tutti i principali comuni della Provincia. Nell’Agro Nocerino, oltre a Scafati, di cui già si è detto, la Confederazione Generale del Lavoro ha costituito ad Angri una sottosezione della Camera del lavoro di Scafati che ha già raggruppato oltre 500 iscritti (in “Libertà”, 6 marzo 1944).

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zione e rappresentanza sindacale libera - erano di conseguenza peggiorate gravemente, sia dal versante salariale che normativo. Il Sindacato Confederale, che negli anni immediatamente antecedenti all’avvento della dittatura aveva avuto uno sviluppo capillare ed impetuoso, era stato costretto dal fascismo alla assoluta clandestinità. La Confederazione Generale del Lavoro sciolta, soppressa in ogni minima funzione ed i lavoratori erano stati organizzati, d’imperio, nei sindacati corporativi di regime. La Confederazione Generale del Lavoro, dopo un lungo periodo di silenzio e clandestinità, può ora finalmente perseguire di nuovo l’obiettivo della riorganizzazione di tutto il mondo del Lavoro all’interno di un’unica grande Confederazione che si strutturerà tramite un’interna articolazione a livello di categoria. Ogni singolo settore, pubblico e privato, del mondo del lavoro avrà la propria rappresentanza, eletta democraticamente dai lavoratori. Il Sindacato, d’ora in avanti, costituirà un punto di organizzazione e di partecipazione democratica permanente. Ed individuerà occasioni ed obiettivi specifici, di lotta e di mobilitazione, per avanzare rivendicazioni salariali e normative nell’interesse dei lavoratori dell’industria, della terra, degli impieghi pubblici, dei Ministeri, del Mondo della scuola, “di tutti i lavoratori del braccio e della mente”. Una grande attenzione dovrà poi essere rivolta alla massa dei lavoratori pensionati che la guerra e l’inflazione, galoppante e senza controllo alcuno, ha costretto in una condizione di vita sempre più precaria e incerta. L’azione della rinata Confederazione, che ha trovato la sua sede provinciale in via Duomo n. 34, sarà rivolta alla realizzazione della più potente ed estesa unità dell’insieme del mondo del lavoro. La riconquista dell’unità tra tutti i produttori è l’obiettivo, primario e decisivo, da perseguire, con ogni energia e determinazione. Essa è la condizione di partenza indispensabile per l’avanzata della democrazia e la realizzazione di una società più libera e più giusta26. E ciò dovrà avvenire nella piena ed integra26 L’appello sarà seguito, in larga misura, dai lavoratori di tutte le categorie agrarie, industriali, dai lavoratori edili, dagli impiegati e dai più disparati settori del lavoro pubblico, pur se, come vedremo, le adesioni saranno ben più consistenti e numerose nelle imprese di media e grande dimensione. Tra le eccezioni il comparto bancario ove, invece, prevarrà la tendenza non alla coe-

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le salvaguardia delle convinzioni politiche, culturali, religiose di ogni singolo lavoratore che deciderà di aderire alla Confederazione. Di converso, differente apparirà la posizione della Confederazione Cattolico-Cristiana che immediatamente assume, quale proprio riferimento politico, il partito della Democrazia Cristiana. La rinata organizzazione sindacale cattolica respingerà, nei fatti, l’idea di aderire al progetto di dare vita ad un unico grande Sindacato, facendo convergere, su tale posizione, il complesso delle forze che ad essa - in varia misura - si riferiscono27. Una linea motivata dall’assioma di ritenere non comprimibili né eliminabili le stridenti differenze di fondo, ideali, culturali, strategiche che dividono le forze del lavoro d’ispirazione cattolica da quelle d’orientamento politico e culturale socialista e comunista28. Essa, contraria all’idea dello sviluppo della lotta di classe, auspica piuttosto, in linea con gli orientamenti prevalenti all’interno della Democrazia Cristiana, la ricerca della pacifica composizione dei contrasti che periodicamente insorgono tra capitale e lavoro.

sione quanto piuttosto alla frammentazione corporativa. A tale proposito viene criticata, aspramente, “la mancanza di coesione” dei lavoratori bancari e la loro miope opposizione “all’adesione alla locale Confederazione del Lavoro”, che altro non potrà produrre se non la perversa tendenza a “scinderci e disunirci”, (in “Libertà”, 6 marzo 1944). 27 Nel mentre la Confederazione Generale del Lavoro estenderà, in maniera assai diffusa, la propria influenza tra gli operai dei vari settori industriali e tra i ferrovieri, la Confederazione d’ispirazione cattolica raccoglierà larghi consensi nel mondo contadino. Essa mostrerà, al riguardo, anche una grande attenzione al perseguimento dell’obiettivo di assicurare un’abitazione dignitosa ai lavoratori della terra, le cui case sono - soprattutto nel Mezzogiorno - in larga misura insane ed inabitabili, ancora non di rado simili a vere grotte (articolo Casa e Famiglia, in “L’Ora del Popolo”, 15 maggio 1944). 28 Il 15 maggio 1944 s’inaugura, a Salerno, l’Unione Cristiana del Lavoro della Provincia di Salerno, aderente alla Confederazione Italiana dei lavoratori, organo di coordinamento e direzione del Movimento Sindacale bianco che, nel manifesto del suo comitato direttivo, a firma di Domenico Marchesano, Andrea Misiano, Giuseppe Giannattasio, preannuncia che agirà “per le rivendicazioni economiche, per il rinnovamento della legislazione sociale, per la difesa del focolare domestico e del patrimonio religioso”, (in “L’Ora del popolo”, 15 maggio 1944).

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Differenze che, come vedremo, pur all’interno d’una dichiarata e reciproca volontà di procedere all’unisono sui più gravi e rilevanti problemi che si presentano in quella fase assai difficile e complessa, nel procedere del tempo si paleseranno in termini sempre più divaricanti, ed in sostanza inconciliabili29. In ogni caso, nel periodo immediatamente successivo allo sbarco alleato, dopo una fase di governo transitorio in cui tutte le principali funzioni organizzative ed amministrative sono state avocate a sé dalle Autorità Alleate, ha avuto avvio un processo nuovo, rivolto alla creazione di forme di governo locali ed unitarie, alla cui realizzazione ha concorso l’insieme delle forze di concentrazione antifascista. Il 4 maggio 1944, in una riunione del Comitato Provinciale del Fronte Nazionale di Liberazione, la Democrazia Cristiana comunica - con una nota - la sostituzione, nel Comitato Provinciale, di Matteo Natella con l’avvocato Carlo Petrone ed il contenuto dell’ordine del giorno votato il 25 aprile dal Comitato di Presidenza. Carlo Petrone sarà un personaggio destinato a svolgere, pur tra evidenti contraddizioni, per un periodo relativamente lungo, un ruolo di primo piano nella vita del Partito Democratico-Cristiano a Salerno. Nell’occasione è stato inoltre deciso che la presidenza, la vicepresidenza, la segreteria del Comitato saranno tenute a turno dai diversi partiti della concentrazione, con una rotazione a cadenza mensile. Il Comitato Provinciale si riunirà settimanalmente per l’esame aggiornato della situazione. E ciò si concilia con la necessità di perseguire il massimo compattamento di tutte le forze dell’antifascismo in quanto “… il bene della Patria .. nei momenti di pericolo è al di sopra d’ogni concezione di partito”. Ora va perseguita “ la liberazione totale d’Italia e possa così il popolo in piena libertà decidere sulle forme istituzionali”30. 29

Di tale segno, con forte ed eccessiva accentuazione polemica, è l’intervento di Stefano Riccio: “Il salario sociale”, in cui si contesta al comunismo la presunta posizione di chi “nega la famiglia e quindi non può concepire alcun salario familiare, disconosce il diritto dei genitori all’educazione dei figli, e quindi prescinde dalle esigenze sociali, che pur vanno valutate per la determinazione quantitativa del salario”, nel mentre “riducendo l’uomo a pura materia gli toglie quella aureola di vita etica e religiosa che pur non può essere trascurata”, in “L’Ora del Popolo”, aprile 1944.

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Uno specifico provvedimento del prefetto ha portato alla nomina della Giunta Comunale che coadiuverà nell’esercizio della sua funzione il Sindaco Avv. Silvio Baratta. Dell’organismo, di nuova istituzione, faranno parte, come Assessori effettivi, per la Democrazia Cristiana l’avv. Girolamo Bottiglieri e l’avv. Luigi Buonocore; il prof. Giovanni Maci per il Partito Comunista; il dottor Giovanni Galdi e l’avv. Francesco Cacciatore per il Partito Socialista; il dottor Armando Visciani per la Democrazia del Lavoro; l’avvocato Gaetano Nunziante e l’ing. Matteo D’Agostino per il Partito Liberale. Assessori supplenti vengono nominati il Dott. Gennaro Ferrara per la Democrazia Cristiana; il dott. Italo Chieffi per il Partito Comunista; l’avv. Michele Famele per la Democrazia del Lavoro ed il Signor Alberto Soriente per Partito D’Azione. Formazione politica questa che come è noto - vivrà una vita breve e che già nel 1947 concluderà la sua esperienza sciogliendosi, dopo che ad essa avevano aderito personalità eminenti, espressioni di primissimo piano dell’intellettualità nazionale, che avevano fornito un contributo di idee, ricco ed originale, al dibattito politico e culturale che si andava di nuovo intensamente dispiegando fin dall’indomani della caduta del regime. Gli Azionisti avevano correttamente individuato nodi e questioni cruciali su cui nell’Italia restituita alla libertà ed alla democrazia si era iniziato immediatamente e concretamente ad intervenire. Al proposito può risultare illuminante la assoluta comprensione dell’importanza, decisiva e strategica, del problema della scuola e della libertà della cultura e dell’insegnamento. Nell’articolo “La Scuola Italiana”31 veniva infatti tra l’altro opportunamente ricordato come durante il ventennio la scuola avesse subito trasformazioni di una tale profondità che ne avevano modificato alla radice ruolo, fisionomia, specificità e funzioni. Essa si era così mutata in uno strumento addomesticato, docile e passivo, di diffusione del consenso ed era in tal modo di30 In “Libertà”, 3 maggio 1944, Fronte di Liberazione, nota firmata da Vincenzo Avagliano ( Partito Socialista); Alberto Accarino (Partito D’Azione); Luigi Buonocore ( Democrazia Cristiana); Andrea Galdo ( Democrazia del Lavoro) Ernesto Nunziante ( Partito Liberale). 31 In “Libertà”, 6 maggio 1944 , articolo di Silvio Peluso del Partito D’Azione.

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ventata uno strumento assai efficace nelle mani del regime. Privata di ogni libertà ed autonomia, aveva finito per essere un mezzo, obbediente e subalterno, a totale servizio della cosiddetta “rivoluzione fascista”. I docenti avevano dovuto giurare la formula di fedeltà al regime e quasi tutti avevano finito per piegarsi, aderendo alla nuova situazione. Di conseguenza, la scuola - costretta nelle spire di un assoluto dispotismo - smarrita ogni anche limitata autonomia, aveva finito per essere corrosa e distrutta nella propria più intima natura. Completamente svilita ed umiliata la funzione dei docenti, ridotti a dover “infarcire la mente degli alunni di falsa dottrina e di nozioni rivolte ad esaltare ogni aspetto della vita del regime, sulla base di un’alterata realtà storica”. Le coscienze dei giovani, in tal modo, non erano state più “plasmate al lume della verità” ed anzi avevano finito per essere ottenebrate “dalle più basse menzogne”. Le nuove generazioni d’ora in poi dovranno finalmente “dischiudere adesso il loro animo alla luce dell’ideale di libertà e con lo studio delle opere dei nostri Grandi ritemprare lo spirito, epurandolo dalle scorie del nefando passato, proveranno una intima gioia, allorché i docenti mostreranno loro la verità, sorretti da un libero insegnamento, non più costretto dalle pastoie della schiavitù e conoscere finalmente la realtà della nostra storia, il valore sublime di tanti grandi italiani”. L’atto di costituzione di un primo nucleo di governo è stata sollecitata dalle Autorità Locali ed ha l’obiettivo di riportare la normalità in una situazione ancora assai magmatica ed incerta. Tra i primi passi quello di procedere nella direzione della preparazione di libere elezioni democratiche, da cui dovrà scaturire una rappresentanza politica ed istituzionale democraticamente eletta dal popolo. Il Prefetto, nell’individuazione dei nomi delle persone candidabili, dovrà muoversi con giudizioso equilibrio, tramite una distribuzione, sostanzialmente paritaria, delle cariche tra i 6 partiti legittimi rappresentanti la coalizione antifascista. Accade invece che al Partito della Democrazia Cristiana vengano assegnati tre posti ed al Partito D’Azione uno solo, neanche effettivo ma supplente. Questo provvedimento, obiettivamente forzato e squilibrato, per le palesi contraddizioni pre-

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senti al proprio interno, non sarebbe stato apprezzato dalla popolazione32.

Il risveglio sindacale I due fogli danno anche un forte risalto alle innumerevoli azioni ed iniziative messi immediatamente in atto - in più punti della Provincia - per la ripresa dell’organizzazione sindacale dei lavoratori. Inizia, sotto la direzione coordinata della Confederazione Generale del Lavoro, il paziente processo di avvio di una riorganizzazione, dal basso e capillare, in ogni Comune, in ogni categoria, in ogni articolazione e struttura produttiva del mondo del lavoro. Dopo gli iniziali entusiasmi, risulterà evidente come l’adesione all’organizzazione sindacale si registra, in maniera ampiamente più estesa e prevalente, in quella parte del mondo del lavoro concentrata nelle imprese più importanti ed a più alta quantità di manodopera. Lo sviluppo dell’organizzazione sindacale risulterà, di converso, più lento e magmatico nelle piccole e piccolissime imprese pur presenti in misura significativa nella realtà locale. Le realtà nelle quali il peso del condizionamento paternalistico ed il ricatto padronale risultano più forti e più condizionanti. E’ il periodo in cui, pur in presenza di una tensione - importante - rivolta alla ricostruzione ed alla rinascita, degrado sociale e disoccupazione presente sono assai ampi, diffusi e pronunciati. Una condizione di fatto che non risulterà ininfluente rispetto alla specificità dei comportamenti pratici ed alle scelte che, di volta in volta, i lavoratori opereranno. Ove più forte è la coesione e la solidarietà tra i lavoratori lo sviluppo dell’unità, del peso negoziale e della forza del movimento operaio risulterà ben più forte ed incidente. Quando invece tali condizioni non esistono, il processo di organizzazione procede in modo più debole, lento, laborioso. Era stata proprio la rubrica “Risveglio Sindacale” del 6 gennaio 1944 a dare la notizia della ricostituzione della Camera del Lavoro di Salerno. Il comunicato a firma della Segreteria Sindacale informava la popolazione 32

Tesi e rilievi sostenuti da Vincenzo Avagliano nell’articolo “La Giunta Municipale”, in “Libertà”, 5 giugno 1944.

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del fatto che: “Si è ricostituita in Salerno la locale Camera del Lavoro aderente alla Confederazione Generale che, in attesa della completa liberazione del suolo nazionale, risiede provvisoriamente in Napoli. Questa Camera del Lavoro rivede oggi la luce dopo 21 anni di forzata inerzia, e si propone di accogliere nel suo seno tutti quanti i lavoratori di Salerno e Provincia, senza distinzione alcuna di idealità politiche o religiose. Unico e solo scopo di questo organismo Sindacale è quello di tutelare energicamente gli interessi della classe lavoratrice, (nei contrasti che inevitabilmente sorgono tra capitale e lavoro), siano essi operai, contadini, impiegati, intellettuali ecc., cioè di tutti coloro che chiedono al lavoro i proventi indispensabili alla propria vita. Nella riunione di formazione tenutasi il 21 dicembre u.s. nella sede provvisoria33, hanno aderito i seguenti Sindacati di categoria nella persona dei propri rappresentanti: Sindacato Ferrovieri rappresentato da Rispoli Salvatore; Filotranvieri da Loffredo Vincenzo; Elettricisti da Lavallo Antonio; Pellettieri da Roscia Pasquale; Tipografi da Reggiani Gioacchino; Insegnanti Scuole Medie da Maci prof. Giovanni; Acquedotto da Vernieri Ugo; Impiegati Enti Locali da Lauria ingegner. Giuseppe; Postelegrafonici da Avagliano Vincenzo; Tessili da Molinari Vincenzo; Portuali da Ricciardi Vincenzo; Panificatori, Pasticcieri ed affini da Abate Luigi; lavoratori del commercio da Anastasio Angelo; portieri da Marchese Francesco; Maestri Elementari da Panfilo Longo; Pastai e Mugnai da Donato Antonio. Hanno inoltre aderito senza nominare il proprio rappresentante i Sindacati : Metallurgici, Edili, Laterizi e Cementisti”. Nell’occasione i rappresentanti dei sindacati convenuti nominavano un Consiglio Direttivo provvisorio composto dai seguenti aderenti: Rispoli Salvatore, Loffredo Vincenzo, Molinari Vincenzo, Abate Luigi, Maci prof. Giovanni, Avagliano Vincenzo e Anastasio Angelo. A Segretario della Camera del Lavoro veniva eletto Danilo Mannucci. Nella seduta del 29 dicembre, dopo ampia discussione in cui in particolare veniva presa in esame la situazione alimentare della città di Salerno ed i suoi prezzi esorbitanti in relazione al basso 33

In via Duomo n.34, presso il Fronte Nazionale di Liberazione.

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livello delle paghe operaie, si decideva di presentare al Prefetto di Salerno ed al governo Militare Alleato il seguente Ordine del Giorno: “I Rappresentanti dei Sindacati di categorie di Salerno (operai e impiegati) aderenti alla locale Camera di Lavoro, riuniti in Assemblea Generale il 29 dicembre u.s. constatato come il costo della vita attuale , dopo che i prezzi di vendita dei generi alimentari hanno subito aumenti vertiginosi (attraverso il mercato reso ormai libero) e che detti aumenti hanno raggiunto la scala di 1 a 7, come minimo, per arrivare a un massimo di 1 a 18, tenuto conto che la vita è assolutamente impossibile con le attuali paghe mantenute specie in certe categorie ad un livello completamente irrisorio, delibera di rivolgersi alle autorità militari alleate ed alle autorità civili della Provincia per reclamare, a titolo provvisorio ed in rapporto al momento attuale, un aumento generale per tutte le categorie di lavoratori di Salerno e Provincia, adottando la scala di 1 a 4. Spera e si augura che questa richiesta, così moderata in confronto al costo della vita, incontri il favore e la giusta comprensione sia delle autorità militari alleate che delle autorità civili. Per terminare invitiamo tutti quanti i lavoratori della città e della Provincia ad iscriversi ai propri Sindacati di Categoria e, ove questi non esistessero, a formarli immediatamente dando avviso alla locale Segreteria. L’organizzazione Sindacale è un dovere per ogni lavoratore cosciente. Sottrarsi a questo dovere significa tradire i propri interessi, venir meno a se stesso. La Segreteria Sindacale”34. Dopo queste iniziali premesse si registra un forte impulso nell’estensione dell’organizzazione. Si costituisce il Consiglio del Sindacato dei Postelegrafonici, che elegge suo segretario Vincenzo Avagliano. Nasce il Sindacato Provinciale dei dipendenti degli Enti Autarchici, che riunisce i lavoratori dei Comuni e della Provincia che elegge un suo Comitato direttivo formato dall’ingegnere Lauria, dal prof. Ugo Farina, dal ragioniere Calenda e dal ragioniere Bruno, dall’avvocato Leonardo Tafuri, da Gaeta, da Silvio Patella, dal ragioniere Napoli, da Bosco, Fuccella, Lamberti e Gaeta. Costi-

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In “Libertà”, Salerno 6 gennaio 1944.

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tuiscono il loro sindacato i dipendenti delle Esattorie Comunali di Salerno e Provincia. Il Consiglio è composto da Franco Umberto, Segretario e, quali componenti, Di Leva, Carbone, Greco, Ferraioli, Infante, Petrosino. Della commissione aziendale fanno parte Franco Umberto, Luigi Guardavoglia, Elvira Stanzione. Nasce il Sindacato dei Bancari e le varie commissioni interne delle Aziende di Credito. Il ragioniere Gastone Cheli è Presidente per la Banca d’Italia ed Alberto Marinaro è eletto Vice-Presidente, con Lucio D’Agostino Segretario assieme con Salvatore Autorino. Per il Banco di Napoli è eletto Presidente l’avvocato Luigi Buonocore con Paolo Molinari vicepresidente; per la Banca Nazionale del Lavoro, Presidente è Mario Marotta, Vice Presidente Domenico Mastronardi; per il Banco di Roma, Presidente è Francesco Maiorano35. L’Organizzazione sindacale, in un periodo di tempo relativamente breve, inizia ad organizzarsi in modo capillare in molti punti della Provincia, in realtà importanti di comuni medi e grandi come Cava Dei Tirreni36, Nocera, Angri, Scafati37, S. Marzano sul Sarno38, Sala Consilina39. In questa fase Danilo Mannucci, nella qualità di Segretario provinciale, profonde un impegno eccezionale nell’azione di direzione e di radicamento dell’organizzazione. Settimanalmente l’organo del Fronte Nazionale di Liberazione di 4 fogli - dà notizia circostanziata, in terza pagina, delle principali azioni e rivendicazioni - di natura sindacale - portate a35

Di tali informazioni si dà notizia su “Libertà”, 13 gennaio 1944. Cataldo di Cava dei Tirreni ed Autiero di Scafati, col sostegno di Danilo Mannucci, tra i principali promotori della nascita e dello sviluppo del sindacato nella cittadina metelliana. 37 A Scafati, nel processo di organizzazione, è particolarmente attivo Autiero, segretario della locale Camera del Lavoro. Particolare attenzione, in questa realtà, è rivolta ai lavoratori conservieri ed ai contadini. 38 Anche a S. Marzano particolare impegno è profuso da Autiero e da Danilo Mannucci. 39 A Sala Consilina agisce, quale organizzatore e dirigente della locale Camera del Lavoro, Ettore Bielli ed è in questa realtà che sarà tenuta una delle prime riunioni operaie e sindacali in ricordo di Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, combattenti e martiri antifascisti. 36

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vanti dalle singole categorie. L’organizzazione dei lavoratori rapidamente e di nuovo ridiventa un punto pulsante e decisivo nella ripresa dell’attività sociale, economica, civile della comunità salernitana, un sicuro riferimento, di stimolo costante e di sollecitazione la cui azione è rivolta alla difesa dei lavoratori, alla riparazione dei danni da essi subiti a causa di rappresaglia politica40, al conseguimento di migliori condizioni salariali e normative dei suoi aderenti, ma anche in grado di sviluppare un’efficace iniziativa, di natura più squisitamente politicosociale generale, attenta ad ogni segnale di evoluzione che si può determinare nella riorganizzazione delle principali funzione della vita sociale. E cercherà altresì d’influenzare la direzione che inizia ad assumere il processo di cambiamento ormai avviato41. Il progetto iniziale è quello di organizzare in un’unica e grande Confederazione del Lavoro tutti i lavoratori, di ogni settore. Vedremo che, in relazione all’evolversi della situazione nazionale e delle varie dinamiche e contrapposizioni che in essa emergeranno, questo programma non perverrà a buon fine e come, all’interno del movimento, finiranno per prevalere la divaricante distinzione con le altre componenti d’ ispirazione cattolica e cristiana. Il 25 marzo 1944 “Libertà” informa i suoi lettori dell’avvenuto Congresso dei Sindacati Cristiani dell’Italia Meridionale ed In40

E’ il caso, in particolare, di un gruppo di lavoratori ferrovieri, licenziati per rappresaglia durante il regime, dei quali si raccolgono le domande, presso la Camera del Lavoro, da trasmettere al Ministro competente, per ottenerne la riammissione in servizio. A sostegno di 400 ferrotranvieri viene sottoscritto un ordine del giorno, firmato dai rappresentanti di 21 categorie sindacali, inviato al Ministero dell’Industria ed al Ministero dell’Interno in cui si chiede di superare, immediatamente, gli intoppi burocratici che impediscono la corresponsione a quei lavoratori della Cassa Integrazione, provvedimento di legge cui essi hanno diritto per fronteggiare la situazione di emergenza in cui si sono venuti a trovare per la riduzione di attività della società da cui dipendono, (in “Libertà”, 26 marzo 1944). 41 Tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 , in via Roma n. 29, nei locali del Consiglio Provinciale dell’Economia, è istituito l’Ufficio Provinciale del Lavoro. Diretto da Raffaele Petti, dovrà fornire informazioni e statistiche del lavoro creando uffici specifici per domande ed offerte di lavoro e svolgere conciliazione ed arbitrato nelle controversie del lavoro.

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sulare relegando la nota a fondo pagina, senza dare ad essa alcun particolare rilievo42. Ci si limiterà a riferire che il Congresso ha eletto Presidente del Congresso l’avv. Carlo Petrone ed il foglio riporterà la mozione approvata senza enfasi apparente. “Sentita ed approvata la relazione Stefano Riccio sul tema “Libertà di Associazione ed unità Sindacale”, auspica l’istituzione di un organo di diritto pubblico per ciascuna categoria professionale, il quale ne abbia la rappresentanza, per trattare e risolvere le controversie del lavoro mediante l’arbitrato obbligatorio per stipulare e tutelare nella loro applicazione i contratti collettivi di lavoro e per provvedere al collocamento dei lavoratori; riafferma l’insopprimibile diritto di libertà di associazione per le diverse tendenze sindacali. In attesa poi dell’istituzione dell’organo di diritto pubblico; insiste sul principio del riconoscimento e della tutela della più ampia libertà di organizzazione sindacale, facendo voti che i concreti problemi del lavoro riguardanti ciascuna categoria siano studiati, trattati e definiti da Commissioni rappresentative delle organizzazioni sindacali a carattere nazionale, in modo che gli interessi di categoria siano unitamente difesi”43. Danilo Mannucci nell’articolo “Sindacalismo Bianco”44 si era già in realtà pronunciato denunciando, in maniera secca e polemica, come fosse improprio parlare di rottura tra Confederazione Generale del Lavoro e “l’altra ipotetica Confederazione, la bianca, che dovrebbe far capo al Partito della Democrazia Cri42 Le forze d’ispirazione cattolica, che si riferiscono alla Democrazia Cristiana, si muovono - come si è accennato - lungo un’ispirazione di fondo sostanzialmente interclassista. Importanti sono però le sollecitazioni provenienti da quella sponda in tema di attenzione ai diritti dei più emarginati. Notevole è l’azione in difesa di Istituzioni come l’Orfanotrofio Umberto I, che dal 1809 svolge funzione di ricovero e di educazione dei fanciulli orfani. Si chiede in proposito all’amministrazione pubblica uno sforzo finanziario adeguato per lavori urgenti di ristrutturazione della struttura necessari per i danni subiti dai bombardamenti e per le supplementari avarie dovute all’eruzione del Vesuvio. C’è la possibilità di locali per ospitare 250 ragazzi, ben oltre il numero attuale di 90. Il sollecito è posto ne “L’Ora del Popolo”, 26 aprile 1944, nell’articolo, non firmato, “Una benefica istituzione provinciale - L’Orfanotrofio Umberto I”. 43 “Libertà”, 25 marzo 1944. 44 “Libertà”, 20 marzo 1944.

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stiana”. Essa rottura non era mai avvenuta in quanto “questi signori non hanno risposto agli inviti che il nostro organismo sindacale ha loro rivolto per la formazione del Comitato Intersindacale e per la eventuale adesione e collaborazione alla nuova Confederazione Generale del Lavoro…. La nostra politica della mano tesa… fu categoricamente rifiutata e la rottura, se pur ci fu, non venne evidentemente provocata da noi”. I sindacati bianchi avranno per Danilo Mannucci “nella storia del domani tutti i compiti più disparati fuori che quello di difendere gli interessi della classe lavoratrice. Questi organismi antiproletari saranno … retti da uomini fino ad ieri compromessi col fascismo. Una forma di sindacalismo in contrasto con il “classismo” non può essere accettata dai lavoratori … se non si volesse di questo passato ricopiarne tutti quanti gli errori”. L’esplicita enucleazione della divaricazione progressiva delle posizioni tra le forze sindacali della Confederazione Generale del Lavoro e le forze che invece si collegano al mondo cattolico ed ai partiti politici di riferimento, in primo luogo la Democrazia Cristiana, date queste premesse, più che ridursi finirà accentuarsi pur non rinunciando mai nessuno, in via pregiudiziale, a ricercare possibili punti di convergenza e collaborazione45. Una traccia degli elementi programmatici di maggiore pregnanza dell’azione che intende intraprendere la Confederazione Generale del Lavoro a Salerno può ritrovarsi nella lettura dei principali atti documentari del Congresso del 18, 19 e 20 febbraio

45

In realtà “L’Ora del Popolo”, 1 marzo 1944 , nell’articolo “Posizione chiara” aveva già abbondantemente precisato come la Democrazia Cristiana non ritenesse possibile alcuna intesa organica coi partiti socialista, comunista e liberale “fin quando gli altri non rivedranno le proprie idee ed i propri programmi … senza pregiudizio dei principi cattolici, che essa professa apertamente e sui quali innesta tutta e sempre la sua attività”. Aveva poi sostenuto che “il suo movimento non vuole, né deve, né può essere areligioso o amorale, nel senso che prescinda dagli insegnamenti del Vangelo e dalle direttive della Chiesa Cattolica”. Perciò non ci poteva essere “combutta con questo o quel partito in antitesi con i principi cristiani…”. Questo il motivo per cui sarebbe stato mantenuta “la più ampia libertà e indipendenza d’associazione nel campo sindacale… nella rigorosa osservanza dei principi della religione cattolica sotto la guida delle Encicliche papali e degli insegnamenti a queste riferentesi degli Statisti cattolici”.

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1944, che è quello della presa d’atto della ancora non realizzata seppure fortemente auspicata unità proletaria. Non si è realizzato l’accordo con l’Unione Italiana dei Lavoratori, l’organizzazione influenzata e controllata dalla Democrazia Cristiana46, cosa questa destinata a pesare, e molto, negli anni futuri, sugli esiti delle lotte del mondo del lavoro salernitano. Ne risulterà di conseguenza indebolita, in maniera significativa, la lotta - più generale - in difesa dell’occupazione e per l’industrializzazione, che caratterizzerà l’ultima fase degli anni quaranta e tutti i primi anni cinquanta. Nella relazione introduttiva al congresso, tenuta da Russo, vengono sfiorati tutti i temi principali ed emergenti del momento. Nei tre giorni di lavori i vari interventi mettono in risalto i principali fattori di difficoltà delle classi lavoratrici locali e la loro grave condizione di miseria. Il resoconto di “Libertà” rivela, però, che niente di conciso è stato detto in relazione a quanto davvero interessa il popolo lavoratore, in specie in relazione al problema “di quello scarso pane cui hanno diritto i popoli vinti”47. Dobbiamo riconoscere, dirà l’articolista, “che gli Alleati, il cui nome è tante volte affiorato ed acclamato durante il Congresso, tengono fede ai loro impegni ed al momento da loro non si può pretendere di più”48. C’è sicuramente un’insoddisfazione nelle parole dell’articolista, il quale ritiene altresì che il dibattito è stato inadeguato rispetto alle gravi necessità dell’ora. Il fascismo ha governato ed agito per 22 anni, esso ha profondamente inciso nella vita e nello spirito più profondo della nazione. Ha inculcato nei giovani una ideologia militarista “ma ha tolto loro, eliminandoli dai programmi scolastici, tutti i libri eterodossi dai quali potevano ap46

Il Convegno Nazionale delle Unioni lavoratori, previsto per il 4 e 5 marzo 1944 e poi spostato al 19 e 20 marzo, festa di San Giuseppe, patrono dei lavoratori, prevede la relazione del segretario generale Colasanti e l’articolazione del dibattito su questi temi: 1) Contributo dei lavoratori italiani alla guerra (relazione Esposito); 2) Movimento cooperativo (Rel. De Luzemberger); 3) Previdenza e assistenza (Rel. De Ambrosi); 4) Libertà di associazione ed unità sindacale (Rel. Riccio Stefano) ; 5) Statuti delle Organizzazioni Sindacali; 8) Rel. Gava, (in “L’Ora del Popolo”, 1 marzo 1944). 47 “Libertà”, 28 febbraio 1944. 48 “Libertà”, art.cit.

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prendere che il mondo soffoca schiacciato brutalmente da ingiustizie sociali”. “Il Congresso (a proposito della mancata unificazione con le forze di ispirazione cattolica), uscendo fuori dalla nebulosa apoliticità, pur riaffermando il principio dell’unità sindacale quale unica salvezza per i lavoratori, avrebbe dovuto avere il coraggio di accettare questa od altre defezioni come la liberazione da una inutile camicia di Nesso e dichiarare che, da che mondo è mondo, è stato sempre difficile far camminare d’accordo il fuoco con l’acqua”. A proposito, poi, della libertà riconquistata, l’articolista osservava ancora come “la nostra libertà è oggi un dono degli Alleati, come la razione di pane bianco… noi avremo la libertà di fare quello che vorranno. Se questa è libertà essa ha, almeno attualmente, ben delimitati confini reticolati”49. Viene, infine, sviluppato un argomentare polemico in relazione alle posizioni espresse sul grande problema della ricostruzione industriale e criticate le posizioni “munite di paraocchi”, secondo cui “Noi daremo il nostro lavoro soltanto se il suo profitto non andrà a vantaggio della classe capitalistica … noi entreremo nelle officine quando esse saranno gestite dagli uomini che vi lavorano….”. “Posizioni di assoluto velleitarismo dottrinario” e completamente “fuori della realtà”. Ciò che attende le classi lavoratrici, invece, almeno per un altro ventennio, verrà deciso, in modo pressoché esclusivo, dai vincitori. Invece è necessario un forte realismo, osserva l’articolista, la determinata coscienza del grande sforzo che tutti i lavoratori dovranno necessariamente profondere per ricostruire le industrie ed il paese ed è, per prima cosa, indispensabile concentrarsi sull’obiettivo di contenere l’inflazione che ha falcidiato in maniera drammatica i salari, riducendone enormemente la capacità di acquisto. Alti salari con un’inflazione del tutto fuori controllo non servono a nulla. L’ultimo argomento trattato è quello dell’epurazione. Anche a questo proposito sono prevalsi nel dibattito “rancori e risentimenti degli oratori” dovuti al fatto di aver subito, in molti, confino di polizia o carcere. E si è demandata la questione ai provvedimenti previsti da Badoglio. 49

Ibidem.

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La vera questione è invece quella di eliminare per sempre dalla vita della Nazione le istituzioni statali fasciste con le loro articolazioni periferiche ed i capi corrotti e corruttori. Ci si deve assolutamente liberare di tutti gli arricchiti in maniera illecita e di tutti i profittatori. Ma non è giusto né utile mettere tutti nello stesso sacco. Molti hanno aderito in buona fede al regime e “Tra costoro, se non furono dei faziosi o degli zelatori, se risultano onesti e di limpida vita morale una discriminazione s’impone”. Più conforme agli ideali del Socialismo doveva essere il trovare, in questi casi, “la via della comprensione umana e della giustizia, se pure della più perfetta indulgenza”. Andava evitata“una nuova e spietata Santa Inquisizione Giacobina che lascerebbe strascichi di nuovi e torbidi rancori in quelli che, essendo immuni da errori o da colpe, si sentissero ingiustamente puniti”. Nell’immediato periodo succedente il Congresso su “Libertà” ritornavano due temi, uno rivolto alle Unioni Lavoratori, che avevano previsto il loro Convegno Nazionale per il 19 e 20 marzo 1944. La parola d’ordine dell’unità sindacale era ancora quella centrale nell’invito indirizzato all’organizzazione cattolica, il modo migliore per tutelare gli interessi degli operai: “ Il peggiore tradimento che possa oggi compiersi in danno della classe lavoratrice è quello di scinderla. Chi si accinge a tale opera è nemico e traditore degli operai”50. Frattanto continua l’opera di proselitismo capillare verso i lavoratori delle varie categorie professionali. Agli operai è rivolto un pubblico appello, in cui si insiste in modo esplicito sul fatto che dovere degli operai è quello “di accorrere in massa nelle risorte Organizzazioni Sindacali” se si vuole per davvero che “nella nuova Italia che risorge lo sfruttato di oggi e d’ieri non continui ad esserlo anche per domani … se la lotta per l’esistenza non si concretizzi solo nell’usuale tozzo di pane, ma nell’elevazione morale di tutta quanta la classe lavoratrice”. Gli operai salernitani hanno il dovere di iscriversi subito alla locale Camera del Lavoro, perché “Il fascismo non è ancora morto. 50

“Libertà”, art. Vincenzo Avagliano, 6 marzo 1944.

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Per combatterlo dovete aderire alla vostra organizzazione di categoria, ai vostri sindacati di mestiere. Il vostro assenteismo sarebbe una viltà”51. Il Convegno dei Sindacati Cristiani dell’Italia Meridionale ed insulare, di cui darà ampia informazione L’Ora del Popolo52, esplicita, tramite le parole del Presidente Carlo Petrone, gli essenziali elementi di distinzione dalla Confederazione Generale Nazionale del Lavoro, a partire dalla dichiarazione di disponibilità, piena, alla collaborazione con organizzazioni sindacali e politiche “di analoga ispirazione cristiana” che hanno improntato la loro azione ad un autentico spirito di “apoliticità, una sincera, effettiva apoliticità”53, nel mentre “vi potranno e dovranno essere intese con altre organizzazioni sindacali, per esempio di ispirazione marxistica, su problemi puramente tecnici e questioni contingenti”54. In ogni caso assoluto è il rifiuto di “considerare i sindacati come doppioni di un qualsiasi partito politico o la massa di manovra, o lo strumento per interventi in campi non di sua competenza, questo no, assolutamente no”. In tale impostazione il fulcro essenziale delle posizioni caratterizzanti la rinascita delle organizzazioni sindacali bianche. Sulla stessa falsariga si muove la relazione di Domenico Colasanto, Segretario Generale dei Sindacati cristiani dell’Italia liberata che auspica “un sindacalismo che ripudia la violenza ed i sistemi materialistici per ispirarsi al Vangelo”. Vanno espunti, in conclusione, dalla lotta sociale per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori metodi e forme di lotta “attingenti alle fonti avvelenate dell’odio e della violenza”55. Ogni idea d’azione deve essere di freno a chi incoraggia e spinge per l’ insediamento di qualsiasi forma di dittatura. In conclusione, contro l’idea antagonista e dissennata della lotta di clas-

51

“Appello agli Operai” , “Libertà”, 6 marzo 1944. “L’Ora del Popolo” 26 , marzo 1944. 53 Intervento di Carlo Petrone al Convegno dei Sindacati Cristiani dell’Italia Meridionale ed Insulare, in “L’Ora del Popolo”, 26 marzo 1944. 54 Carlo Petrone, ibidem. 55 Carlo Petrone, relazione introduttiva, già citata. 52

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se56 si auspica la collaborazione del capitale e del lavoro nel mentre si sostiene di volere agire per eliminare, con gradualità, le più accentuate forme di divisione e di ingiustizia tra i diversi strati della popolazione. L’iniziativa privata va senz’altro incoraggiata, ma va al contempo messo al bando chi specula sulle sventure della popolazione per ricavarne, cinicamente, i più lauti profitti. Il Sindacato cattolico auspica la piena “partecipazione dei lavoratori agli utili, alla gestione ed al capitale delle imprese”57. L’elemento di più marcata distinzione è nella contestazione delle conclusioni cui è pervenuto il Congresso tenuto a Bari dai comunisti e dai socialisti il 28 ed il 29 gennaio del 1944. a cui ha partecipato una stringata rappresentanza dello stesso sindacato cattolico, ma di cui si contesta, in uno specifico ordine del giorno, l’assenza di “diritto alla pariteticità”del sindacato cattolico rispetto all’altro d’ispirazione marxista. Cosa che induce ad avanzare la proposta dell’invio di una commissione al Governo in maniera che tale diritto sia integralmente ripristinato58. Il rilancio dell’ iniziativa operaia e popolare per il pieno ripristino della libertà di iniziativa sindacale nel territorio salernitano si esplicita, dopo 22 anni, nell’occasione dei festeggiamenti per il Primo Maggio, la Festa del Lavoro59. “Libertà” sostiene che le manifestazioni programmate si sono svolte, tutte, “con massima disciplina e grande entusiasmo in tutti i paesi della provincia” e che ovunque gli oratori designati dalla Confederazione Generale del Lavoro e dai partiti Sociali56

Di tale segno, d’ispirazione duramente e frontalmente anticapitalista, vedasi - tra gli altri - l’articolo di Panfilo Longo, “La nostra politica”, in “Libertà” 24 marzo 1944. 57 Relazione Domenico Colasanto, in “L’Ora del Popolo”, 26 marzo 1944. 58 Ordine del giorno Matrella, durante la seduta pomeridiana del 20 marzo 1944, in “L’ora del Popolo”, 26 marzo 1944. 59 Le manifestazioni del Primo Maggio 1944 si svolgono in tutti i più significativi comuni della provincia, con pubblici comizi. Oltre che a Salerno, le manifestazioni più importanti a Vietri Sul Mare, Cava dei Tirreni, Nocera Inferiore, Pagani, Angri, Scafati (dove parlano Luigi Cacciatore e Mario Sicignano), Sarno, Eboli, Campagna, Coperchia, Maiori, Minori, Buccino, San Gregorio Magno, S. Severino, Baronissi, Penta, Vallo della Lucania,S. Marzano, Castel S. Giorgio, Battipaglia.

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sta, Comunista e dal Partito d’Azione hanno dimostrato “la volontà di unione proletaria che anima le masse”60. Di particolare rilievo la commossa cerimonia, celebrata in forma intima nei locali della Camera del Lavoro, con la quale è stato ricordato il vecchio Segretario Nicola Fiore, fulgido esempio di combattente proletario antifascista e vittima di gravissime persecuzioni da parte del regime, che hanno concorso ad abbreviarne l’esistenza. Alla cerimonia hanno partecipato, oltre ai più stretti familiari, Vincenzo Avagliano del Partito Socialista, Danilo Mannucci, Segretario della Camera del Lavoro, l’avvocato Andrea Galdo della Democrazia del Lavoro61. A Nicola Fiore, in occasione delle manifestazioni indette per il Primo Maggio 1944, sarà dedicata Piazza Sedile di Portanova, con specifica delibera del Sindaco che, nell’occasione, ha accolto i voti del Consiglio delle Leghe della Camera del Lavoro, e dei Partiti Socialista, Comunista e d’Azione. Non mancheranno, invece, anche in occasione delle manifestazioni della Festa del Lavoro, espliciti richiami polemici del foglio cattolico “L’Ora del Popolo” circa presunte tendenze delle forze social-comuniste locali volte ad egemonizzare, in maniera esclusiva e con settario spirito di parte,il complesso del movimento. Nel difficile e complesso scenario fino ad ora tratteggiato rifulge, nell’arco temporale appena richiamato e ben oltre, l’opera e l’insegnamento, il ruolo di orientamento e di guida nel movimento operaio salernitano esercitato da Francesco Cacciatore62. 60

“Libertà”, 8 maggio 1944. “Libertà”, 8 maggio 1944. 62 Sul ruolo di straordinario rilievo esercitato invece da Luigi Cacciatore, su cui in altre circostanze si ritornerà in maniera più diffusa, sulla sua fortissima ispirazione e tensione unitaria per l’unità dell’insieme delle forze del mondo del lavoro, sull’azione per la realizzazione della prospettiva del partito unico della Sinistra e sulla difesa della peculiarità della funzione del movimento socialista nel Mezzogiorno, sul rapporto col gramscianesimo, sul concetto di sviluppo dell’industrializzazione del Sud e delle modalità di attuazione della riforma agraria col radicale rinnovamento dell’agricoltura meridionale, sull’idea di programmazione e di riforme di struttura, sulla visione della questione meridionale come grande questione nazionale, sul controllo dei finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno e sull’idea di “meridionalismo nuovo”, sull’interpretazione creativa del concetto di alleanza tra classe operaia e masse 61

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Egli dà al suo agire, immediatamente, un’impronta pedagogica ed unitaria fortissima, svolgendo una funzione educativa, di particolare ed indiscutibile pregnanza, già nella fase iniziale della ripresa dell’attività legale del movimento socialista e sindacale. E’ immediata la sensazione che si ricava di un uomo che sente e sollecita, in maniera profonda, la funzione - dirigente e generale - che deve essere esercitata dal movimento dei lavoratori nell’interesse di tutta la società. Un’azione che dovrà collegarsi, idealmente, a quanto prodotto, nei decenni passati, con inenarrabili sforzi e sacrifici, dagli operai e dai lavoratori, che, dandosi prime, autonome forme di organizzazione, hanno agito per sottrarsi alle condizioni di schiavitù cui erano stati costretti e per affermare l’idea della emancipazione e della liberazione del lavoro salariato da ogni forma di compressione e coercizione. Francesco Cacciatore parla a nome delle classi subalterne e del mondo del lavoro, con un fortissimo afflato unitario, ma si rivolge all’insieme della società locale, in particolare ai giovani che, fino a quel momento, non hanno potuto avere alcuna conoscenza e percezione del grande patrimonio rappresentato dalla storia antecedente del grande movimento delle forze del lavoro. Perciò ricostruisce sulla stampa, a grandi linee, le tappe fondamentali di questa storia gloriosa, spiega il senso della parola “sindacato”, che ha finito per sostituirsi col tempo alla parola “lega” e spiega come la Confederazione Generale del Lavoro altro non è se non il raggruppamento, unitario, di tutte le Leghe e dei Sindacati dello stesso Comune. Ritorna poi, nella ricostruzione a ritroso della storia del movimento sindacale, al momento in cui - nel lontano 1848 - è sorta a Torino la prima associazione operaia che, nel 1849, è riuscita a stipulare una prima tariffa salariale con i padroni. Infine ripercorre le diverse tappe della crescita dell’organizzazione, contadine, col superamento dei vecchi schemi massimalistici propri d’una parte del movimento socialista italiano, si veda il circostanziato intervento di Giuseppe Cacciatore (in “Rassegna Storica Salernitana”, Nuova Serie, VIII 2, n.16, dicembre 1991) e gli atti del recente Convegno, raccolti nel volume Luigi Cacciatore, la vita politica di un socialista a cento anni dalla nascita, Mercato San Severino e Salerno, 31 maggio e 1 giugno 2001, Plectica, Salerno.

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dall’anno di nascita della società degli operai filatori di seta di Oggigiorno nel 1868 alla società dei cappellai del 1875, alla creazione delle prime Camere del Lavoro a Torino, Milano, Piacenza nel 1881. E che nel 1906 è nata la Confederazione Generale del Lavoro, conclusiva sintesi dei tanti antecedenti movimenti e come le Associazioni Sindacali seguiranno, nel loro operare, le direttive indicate nel Congresso di Amiens. Nitidamente si precisa che riferimento essenziale dell’azione operaia è quello del riconoscimento della lotta di classe dei lavoratori “contro tutte le forme di sfruttamento e di oppressione, tanto materiali che morali sperimentati dalla classe capitalistica contro la classe operaia”. La funzione del sindacalismo è quella di conquistare l’accrescimento del benessere dei lavoratori, con miglioramenti immediati quali la riduzione delle ore di lavoro e l’aumento dei salari. Queste rivendicazioni non sono però esaustive, in quanto il sindacalismo dovrà prepararsi a sferrare, con l’arma dello sciopero generale, il colpo decisivo volto all’espropriazione dei capitalisti. Così dovrà essere “il gruppo di produzione e di ripartizione, base della riorganizzazione sociale”. Per tutti i lavoratori c’è l’obbligo di appartenere a quel raggruppamento, disciplinato ed organizzato, che è il Sindacato. L’operaio dovrà poter partecipare ad ogni forma di lotta rispondente alle sue idee politiche o filosofiche. Questi i principali punti definiti dal Congresso. Tali importanti approdi, di crescita di una più ampia e diffusa consapevolezza del movimento dei lavoratori, erano stati possibili anche per l’opera parallela instancabilmente profusa anche dal Partito Socialista, che aveva assunto già nel Congresso di Genova del 1892, a caposaldo del suo programma, l’obiettivo del miglioramento immediato delle condizioni di vita operaia, facendo proprie le stesse rivendicazioni del Sindacato in tema di orario, salario, regolarità del lavoro. Già dal 1893 ci si era posto il problema di tutelare il lavoro in tutte le sue manifestazioni, dalla definizione dei salari, degli orari e delle indennità di licenziamento. Rivendicazioni assunte in blocco nella legislazione grazie all’azione del Partito, vero artefice della legge sugli infortuni del 17 marzo 1898. Ulteriori ed importanti conquiste erano state, poi, nel 1898 l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, la legge del 13

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giugno 1900 sull’orario e sui turni di servizio degli operai, la legge sulla malaria, la legge del 22 giugno 1902 sulla distribuzione gratuita del chinino, la creazione, sempre nel 1902, degli Uffici del Lavoro, quella sull’obbligo del riposo settimanale nel 1907, l’ispettorato del lavoro del 1912, l’estensione agli stranieri per le leggi protettive del lavoro del 1912, la mutualità scolastica e l’assicurazione della maternità del 1910, l’assicurazione contro gli infortuni in agricoltura del 1917, l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia del 1919, l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria, il disegno di legge sul controllo delle imprese da parte dei dipendenti del 1921. Una lunga e ininterrotta avanzata. I deputati socialisti si erano battuti con energia per attuare e difendere queste conquiste in Parlamento. Il fascismo, preoccupato dei successi raggiunti dall’azione combinata del Sindacato e del Partito Socialista, era ricorso alla violenza squadrista distruggendo, sistematicamente, l’insieme delle conquiste realizzate. Aveva inventato l’economia corporativa, imponendo la volontà esclusiva dei capitalisti e dei loro interessi, vietato la libertà di associazione sindacale e degradato il lavoro al solo concetto di dovere. I capitalisti avevano avuto assoluta discrezionalità nei meccanismi di assunzione e di avvio al lavoro dei lavoratori. Il regime aveva discriminato e tolto il diritto di lavorare a chi non si piegava alla dittatura, rendendo instabile e ricattatoria la condizione di vita operaia, privata di ogni tutela e garanzia. L’indennità di licenziamento era stata ridotta ad una cifra ridicola, pura elemosina che non consentiva all’operaio “neanche le spese per il pagamento del proprio funerale”. Era stato imposto il versamento di tutte le indennità di anzianità già maturate all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni con l’obbligo di conversione di tali indennità in titoli del governo fascista. Operazione spregevole, un autentico furto. Il fascismo aveva, infine, imposto, con la forza, la dottrina della collaborazione tra le classi, che in realtà altro non era se non l’asservimento del Paese agli interessi esclusivi del capitalismo. Finalmente riconquistata la libertà dopo un ventennio di dittatura, oggi ritorna centrale il ruolo e la funzione dei lavoratori e la loro lotta. “Voi, lavoratori, dovete quindi tornare alle vostre

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vecchie organizzazioni, dovete essere uniti come non mai ed essere pronti per la lotta, per quella lotta che vi dovrà assicurare una buona volta il benessere, trasformandovi, da strumenti passivi della produzione e da spettatori ossequiosi dell’altrui banchetto, in partecipanti attivi e operosi, coscienti e decisi agli sforzi produttivi della società umana ed alla giusta, equa ripartizione dei benefici che da tali sforzi derivano… Formate nuovamente le vostre leghe; donate a voi stessi l’unità proletaria che dovrà essere la vostra forza. Voi ... iscritti al Partito Socialista che rappresentate la parte più intelligente e preparata della classe lavoratrice, spiegate ai vostri compagni che fra voi non vi devono essere scissioni, non più leghe bianche, gialle, verdi ... ma tutti uniti in una sola lega”63. Infine il messaggio pregnante, rivolto all’unità dell’insieme del mondo del lavoro: “L’unione e l’accordo tra tutti i lavoratori è la condizione essenziale perché si realizzi il programma dei lavoratori. E l’unità dovrà riguardare tutti i lavoratori, dei campi e delle fabbriche, del braccio e della mente. La distinzione dovrà valere solo tra “chi produce e langue e chi non produce e gode”64.

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Articolo di Francesco Cacciatore, “Sindacalismo e Socialismo”, in “Libertà”, 26 marzo 1944. 64 La prima parte dell’articolo di Francesco Cacciatore, ampiamente richiamato in questa trattazione, era apparso in “Libertà”, 20 marzo 1944.

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Salerno e il dopoguerra: l’inizio di una difficile ripresa, civile e culturale Un utile volume, pubblicato a Napoli nel 198665 e contenente saggi di svariati autori, Vera Lombardi, Guido D’Agostino, Paolo De Marco, Federico Frascani, Grazia Rattazzi Gambelli, Laura Albarella Rossomando, ricostruisce, con sufficiente precisione, il clima e la condizione sociale, morale e materiale della città di Napoli, e in parte della Regione Campania, nel periodo intercorso tra la caduta del fascismo e l’instaurazione del governo alleato nel Mezzogiorno e fin più avanti, tra i mesi conclusivi del 1943 ed il 1946. Lo scritto in sostanza s’incentra sulle drammatiche condizioni in cui si era trovata la città partenopea. La popolazione napoletana, come è noto, era stata ardente protagonista della rivolta antitedesca che aveva investito la città dal 27 al 30 settembre del 1943. Essa, iniziata nel quartiere del Vomero, si era poi espansa a macchia d’olio in più rioni e vicoli della città. La forte tensione già latente si era trasformata in reazione spontanea ed improvvisa all’indomani del bando con cui si preannunciava l’arruolamento obbligatorio dei civili tra le forze armate germaniche. Napoli sarà la prima città d’Europa a liberarsi dai nazisti il 1 ottobre 1943 già prima dell’arrivo degli alleati che ne avocheranno a se il governo. Gli anglo-americani erano stati accolti trionfalmente dalla popolazione civile, felice di essersi sottratta finalmente all’odioso giogo degli occupanti. E tuttavia, la situazione appariva di fatto sempre più grave ed ingestibile. Poco più di un mese prima, il 4 agosto del 1943, la città era stata sottoposta a bombardamenti pesantissimi, per oltre 43 ore continuate, da parte delle “ fortezze volanti” alleate. Il bilancio delle incursioni era stato drammatico : circa 20.000 le vittime civili, tante le strade, le chiese, gli ospedali, le abitazioni e le strade distrutte e rase al suolo o gravemente danneggiate. 65

AA. VV., Alle radici del nostro presente : Napoli e la Campania dal fascismo allarepubblica (1943-1946), Guida Editore, 1986

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La guerra, e le sconfitte militari che si erano rapidamente succedute, avevano causato una situazione disperata, al limite del collasso, e l’odio contro i nazifascisti, responsabili di ciò che succedeva, aumentava sempre più a dismisura. Dovunque, fortissimo, montava il desiderio della pace. Al momento dell’ingresso delle forze alleate in città, troppo stridente appariva il contrasto tra la condizione dei militari alleati, ottimamente armati, nutriti e ben vestiti, nel mentre- di converso- la popolazione civile appariva in uno stato per davvero miserabile. La povertà era estrema, ovunque disoccupazione, borsa nera, prostituzione66. Non molto dissimile, fatte le dovute proporzioni, la situazione della città di Salerno, anch’essa duramente colpita dai bombardamenti, e miserevoli le condizioni di vita nei suoi quartieri. Per tentare di sopravvivere ci si industriava in un qualsiasi modo. Agli inizi del 1944, a Salerno si potevano contare 24.500 disoccupati, nel mentre erano impiegati in varie attività con gli Alleati 7.000 civili. Più in generale, nell’intera Regione 3 ( la Campania) per gli Alleati lavoravano ben 161.180 civili67. Senza alcun dubbio la Salerno dei primi anni del secondo dopoguerra dava di sé un’immagine piuttosto grigia e desolata. Area di sbarco per le forze alleate dopo l’8 settembre 1943, pesantemente provata dai bombardamenti, sarebbe poi restata sotto la giurisdizione del governo alleato per due anni. La città era -come opportunamente osserverà Italo Gallo- realtà ben poco permeabile, in quel contesto, ad un qualsivoglia genere di sollecitazione di tipo culturale. Ovvio che, in considerazione della durezza della situazione data, il primo tra i problemi da affrontare era quello del cibo e della sopravvivenza, poi della ripresa di una condizione di elementare civiltà, di progressivo ripristino dei servizi pubblici primari e delle funzioni essenziali dello Stato.

66 Lo scrittore Curzio Malaparte, nome d’arte di Kurt Erich Suckert, pubblicherà- nel 1949- il suo romanzo La Pelle, rappresentazione cruda e di straordinario realismo rappresentativa della condizione di estremo degrado della città sotto l’occupazione alleata. 67 Massimo Mazzetti, Salerno capitale d’Italia, Salerno, 1975

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Lenta e faticosa sarebbe risultata la ripresa delle attività economiche, non semplice il riavvio di forme anche solo embrionali di democrazia partecipata. Premessa indispensabile, questa, per comprendere il punto di partenza. E di certo sul contesto pesava, e non poco, il retaggio d’una cultura separata, da tempo segmentatasi in maniera segnatamente elitaria, originata e plasmata dai tratti distintivi della società liberale antecedente. Il persistente, corporativo ed arroccato spirito di ceto impediva la definitiva messa in crisi della propria precedente identità e costituiva un obiettivo ostacolo all’apertura di una fase nuova. Bisognerà attendere ancora alcuni anni, una volta conclusa finalmente la guerra rovinosa e superata la fase più intensa e impegnativa volta a ripristinare la normalità nella vita cittadina, per iniziare a percepire che qualcosa finalmente sta mutando. All’indomani del referendum del Giugno 1946,68 con la vittoria della Repubblica e la fine della Monarchia, s’avvia il secco cambiamento dell’assetto istituzionale, per cui l’insieme delle forze antifasciste lavora in maniera unitaria alacremente. E tuttavia, già nel 1947 s’interrompeva la breve fase di collaborazione tra le diverse forze democratiche. Il risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, con la grande vittoria della Democrazia Cristiana e la secca sconfitta del Fronte Popolare, sanciva la definitiva conclusione e l’esaurimento di una fase 69. A Salerno, seppure- come avveniva ovunque nel paese- in un clima sempre più avvelenato, caratterizzato dalla frontale contrapposizione tra le distinte forze in campo, nel 1949 un gruppo di intellettuali democratici, di prevalente orientamento laico e di 68

Nel referendum a livello nazionale prevalse la Repubblica, e tuttavia in larga parte del Mezzogiorno fu la Monarchia ad ottenere più voti. In Campania la Monarchia stravinse, conseguendo oltre il 70% dei voti. Nella circoscrizione di Napoli essa ottenne 903.651 voti, nel mentre la Repubblica ne raccolse soltanto 241.973. Risultati pressoché identici per la provincia di Salerno, con la Monarchia che conquistò 414.521 elettori nel mentre la Repubblicasoltanto 153.978. 69 Nelle elezioni politiche del 18 Aprile 1948 di notevole rilievo il risultato della città di Napoli, dove si registrò il netto successo della Democrazia Cristiana, che triplicò i propri voti raggiungendo in percentuale il 48,4 % dei consensi. Il Fronte democratico popolare ebbe invece solo il 19% dei voti.

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sinistra ma non solo, tentava di dare vita ad un’esperienza inedita, creativa e originale, volta ad elevare il livello medio di cultura e la conoscenza della popolazione. Ci si poneva l’obiettivo di iniziare finalmente a fuoriuscire dalla cappa asfissiante, di concentrato e pervasivo provincialismo e localismo, di chiusura e arroccamento attecchiti ovunque in maniera capillare nel corso dei decenni precedenti. Alle minoranze più colte ed avvertite appariva urgente la necessità di operare una qualche incisiva forzatura, una svolta ed una secca inversione di tendenza, in grado di produrre, sulla situazione data, un benefico effetto propulsivo. E’ pertanto senz’altro utile il fare cenno a un’esperienza importante, profusa da un piccolo gruppo di intellettuali, che individuava nella diffusione della cultura l’elemento trainante, la leva decisiva per determinare, nel 1949, uno scatto in avanti nella coscienza civile della società salernitana. Il professor Luigi Rossi riassume efficacemente, tramite la visione e l’interpretazione delle carte e degli appunti di Pietro Laveglia, nei suoi passaggi essenziali, il percorso che con grande speranza ed entusiasmo muoverà allora i primi passi70. Tramite la lettura della documentazione, è ricostruito- a grandi linee- il percorso di un fecondo e fruttuoso sodalizio, purtroppo proceduto per troppo breve tempo, rivolto essenzialmente all’intento di rimuovere le tante incrostazioni della realtà locale e cittadina, a lungo relegata in una condizione sonnacchiosa, di sostanziale isolamento ed estraneità ai flussi più dinamici della cultura nazionale- e soprattutto europea- di quella fase. Il centro di coagulo e punto di promozione di questi tentativi divenne la Libreria Macchiaroli, in piazza Malta, individuata come sede per dibattiti periodici, di presentazione di libri, film, mostre di pittura e di numerosi avvenimenti di rilievo, e di apertura a scrittori, pittori, poeti, intellettuali d’avanguardia delle varie discipline provenienti dalle più diverse realtà del territorio nazionale71. 70

Luigi Rossi, Intellettuali organici negli anni’50. Una testimonianza dalle carte private di Pietro Laveglia; In : La politica come scelta di vita: Giuseppe Amarante e il PCI, a cura di Alfonso Conte, pp.15-39, Plectica, 2014 71 L. Giordano, La città rimossa, Laveglia Editore, 1982.

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Un’esperienza più tardi replicata con successo a Napoli, dove la libreria- per volontà dello stesso editore- aprirà in Via Carducci nel 195472. L’editore Pietro Laveglia ricorderà i diversi ostacoli insorti e dovuti all’immediato intensificarsi della campagna oppositiva, di autentico boicottaggio delle forze locali più retrive, perché il progetto immaginato non dovesse in alcun modo decollare. Si tentò in vari modi di evitare che i cittadini partecipassero agli incontri programmati, si cercò di boicottare la frequentazione della libreria. Si mise in moto un tentativo diffuso di autentico ostracismo perché non venissero acquistati i libri esposti in quella sede, con la motivazione che gli animatori di quel luogo erano comunisti. Certo lo erano Cassese, Laveglia, Macchiaroli, la stessa cosa però non la si poteva dire per Marcello Gigante, Giuseppe Martano, Eugenio Della Valle, Francesco Castaldi, personaggi tutti di grande levatura e di pregevole cultura che- in realtà- erano solo antifascisti e democratici sinceri. In quegli anni di certo il clima appariva particolarmente esacerbato, si era ormai immersi nel pieno della guerra fredda, e venivano disinvoltamente bollati come comunisti coloro che non accettavano supinamente le scelte e gli indirizzi del governo, la dura politica di Scelba e dei democristiani più oltranzisti. E tuttavia, osserverà Pietro Laveglia, nonostante le infamanti accuse e le più accese opposizioni, particolarmente secche quelle della gerarchia ecclesiastica locale, la libreria e l’azione culturale profusa, anche tramite il “Lettore”, i dibattiti settimanali, i contraddittori, la cerchia degli amici e dei democratici coinvolti si allargava in progressione sempre più. Ai vari incontri avevano iniziato a partecipare pure simpatizzanti ed aderenti alle altre formazioni politiche locali. Con Cassese, Laveglia, Macchiaroli anche Alfonso Gatto, Roberto Volpe, Remo Sessa. Il poeta Alfonso Gatto, che a quel tempo viveva in prevalenza a Milano, si fermava alla libreria ogni volta

72 L’editore Gaetano Macchiaroli, dopo anni di fervente attività, è scomparso nel 2005, tra il grande compianto degli amici e conoscenti, ed è seppellito a Teggiano, in provincia di Salerno.

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che scendeva a Salerno. Si discuteva, per ore e appassionatamente, dei temi più vari e coinvolgenti, attuali o meno attuali73. In ogni caso, un nuovo clima ed un vivace fermento culturale animò Salerno nell’immediato secondo dopoguerra e poi per larga parte degli anni cinquanta. Ancora non esiste una completa e dettagliata ricostruzione di quegli anni, cosa che obbliga di per sè a procedere per spunti solo abbozzati e successivi, e per parzialità, ed al richiamo di particolari, seppure significativi tentativi ed esperienze. Utile sfondo, da cui prendere le mosse, continua a risultare il volume di Luigi Giordano74, al cui interno si ritrovano alcune essenziali coordinate tra cui è possibile iniziare ad orientarsi. Di certo ci si trova, in quella fase, più che di fronte ad un progetto organico e compiuto in ogni suo dettaglio, a tentativi -di gruppi intellettuali d’avanguardia- abbozzati in maniera piuttosto frammentata, in parte disorganica, seppure sempre animati da tensione forte e appassionata. E comunque, il passaggio di fase che si era tumultuosamente messo in moto in quei frangenti, le forti e stridenti novità intervenute nei nuovi e dinamici processi politici e sociali, avevano iniziato, sebbene solo in parte, a mettere progressivamente in crisi vecchie staticità e antichi privilegi, di casta o di ceto, assieme alle varie, annose incrostazioni diffusamente percepite come non più credibili, quanto piuttosto bisognevoli di essere rapidamente superate. Le vecchie classi dirigenti avevano fallito, questa la sempre più diffusa convinzione, finendo per condurre il paese alla guerra, alla sconfitta, alla rovina. C’erano tante difficoltà ed ostacoli che si frapponevano alla necessità di un cambiamento, d’una azione, e d’un nuovo impegno collettivo, che consentisse al paese di riprendere il cammino

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La lucida testimonianza di Laveglia è ricordata nel saggio di Luigi Rossi, Intellettuali organici negli anni’50.Una testimonianza delle carte private di Pietro Laveglia, pubblicata nel volume La politica come scelta di vita. Giuseppe Amarante e il PCI, a cura di Alfonso Conte, Plectica, 2014. 74 L.Giordano, La città rimossa, Cronache di vita culturale salernitana tra il 1949 ed il 1963, Laveglia, Salerno, 1982.

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bruscamente interrotto, avviando finalmente l’indispensabile rinascita, economica, civile e culturale. Estrema l’urgenza di una nuova organizzazione sociale, d’altro segno, decisamente protesa all’edificazione di una democrazia, di tipo nuovo, rivolta alla creazione di una moderna ed avanzata società di massa, con ben più ampia e diffusa giustizia, eguaglianza e libertà. Di conseguenza, il grande fervore profuso nel tentativo di stabilire un vero confronto ed una feconda, reciproca contaminazione, nel rapporto tra politica e cultura, segnò in vari campi del pensiero l’agire e l’operare dei gruppi intellettuali d’avanguardia usciti dal lungo viaggio nella dittatura75.

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Ruggero Zangrandi ricostruisce il complesso passaggio della fase vissuta da numerosi intellettuali che col tempo si distaccheranno dal fascismo aderendo alla sinistra ed al movimento di riscatto democratico nel volume, divenuto un classico, Il lungo viaggio attraverso il fascismo; contributo alla storia di una generazione, Editore Einaudi, Torino 1947. Il libro è stato poi più volte ristampato, tra gli altri da Ugo Mursia Editore, nel 1998.

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«Cronache meridionali» “Cronache Meridionali” è una rivista che, nata a Napoli nel 1954, protrarrà la sua esistenza fino al 1964. D’ispirazione squisitamente meridionalista, annovera tra i suoi principali animatori, nella quasi totalità, militanti e dirigenti politici del PCI, e in parte minoritaria del PSI, a differenza di un’altra pubblicazione simile ed importante, “Società”, in circolo in Italia più o meno nello stesso periodo. Giorgio Amendola, Mario Alicata, Gerardo Chiaromonte, Francesco De Martino, Mariano D’Antonio, Abdon Alinovi, Ignazio Delogu, Pietro Grifone, Giorgio Napolitano, Pietro Valenza, Rosario Villari sono tra i maggiori protagonisti del tentativo di avviare un confronto, ad ampio raggio, per riporre al centro dell’attenzione e delle scelte del Governo Nazionale le grandi ed irrisolte questioni del Mezzogiorno d’Italia. Un filone di pensiero e di ricerca critica che s’innesta sul ceppo dell’elaborazione e dell’insegnamento di Guido Dorso, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci che intravede acutamente le maggiori distorsioni insistenti in quest’area e cerca d’indicare scelte e soluzioni percorribili per invertire lo stato della situazione, immettendo nel reale gli elementi decisivi in grado d’invertire le tendenze in atto, in tal modo costruendo diverse prospettive di sviluppo per l’insieme del Paese. La rivista si propone di tratteggiare, fin dall’esordio, le linee di impegno politico e culturale prevalenti e d’incentrare la propria azione intorno all’esigenza di un nuovo ed aggiornato meridionalismo. Il periodo più fecondo della sua storia (anche dal punto di vista della veste tipografica) sarà quello iniziale caratterizzato, in primo luogo, da una profonda unità politica e culturale fra i suoi diversi animatori. Il periodico vivrà varie fasi, assai diverse fra loro. Dopo un anno, De Martino abbandonerà la direzione, anche se ciò non avrebbe comportato, ancora per lunghi anni e fino all’ultimo numero della pubblicazione, alcuna decisione dei socialisti me-

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ridionali (e non solo meridionali) di non collaborare più a Cronache meridionali. L’impostazione iniziale è caratterizzata dalla ricerca di uno stretto rapporto con la contingenza della battaglia politica in quegli anni in corso. Nell’editoriale, non firmato, dal titolo “L’Umanità ad una svolta”76, si insiste innanzitutto e non a caso, con particolare efficacia, su una questione allora dirimente e di stringente attualità, ovvero sulla necessità della mobilitazione del popolo italiano contro il pericolo della sciagurata prospettiva di una terza guerra mondiale, un’eventualità nefanda che senza alcun dubbio avrebbe condotto alla definitiva distruzione di tutta l’umanità. E’ necessario agire, senza alcun indugio, per impedire in ogni modo l’esplosione di un conflitto di immani dimensioni bloccando, preventivamente, le forze che- in maniera irresponsabilemettono in pericolo la pace. In quel frangente, d’altronde, la rivista rileva come si siano succedute ripetute “ provocazioni” in Corea, a Berlino, in Indocina. Di converso, netto ed esplicito appare il sostegno alla coerente politica di distensione e di pace dell’Unione Sovietica, della Cina Popolare e di tutti gli Stati di “nuova democrazia”. Contro il rischio della rassegnazione impotente, che pur potrebbe attecchire tra la pubblica opinione, si sostiene- con determinazione- che niente è impossibile e che la prospettiva del disastro può essere fermata. La catastrofe nucleare può infatti essere evitata grazie al ricorso ad una grande mobilitazione di tutte le coscienze libere e democratiche che in Italia e nel Mondo vogliono la Pace. Perché ciò accada è necessario, come ha sostenuto Togliatti, l’impegno di ognuno per far crescere la fiducia del popolo nelle proprie forze. Si è già potuto d’altronde constatare come le grandi lotte, che negli ultimi anni si sono sviluppate nel Mezzogiorno d’Italia, dirette dal movimento dei Partigiani della Pace, abbiano consentito il raggiungimento di importanti risultati. Il popolo meridionale, in collegamento con altre decine di milioni di donne e di uomini in Europa e nel Mondo, si è reso pro76

“ Cronache meridionali”, n.5 del Primo Maggio 1954.

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tagonista dello sviluppo della grande azione unitaria per la salvezza del genere umano e di tutta la civiltà. Una mobilitazione, assai estesa e capillare, che ha dato forza ed incisività a movimenti che non intendono “rassegnarsi ad una prospettiva di distruzione e di regresso, ma credono nell’uomo, nel suo passato storico e nel suo avvenire”. Da ciò ne deriva la necessità di rinsaldare l’unità tra le diverse forze democratiche in vario modo attive nella realtà meridionale. Un’area che, insieme alle sue contraddizioni, appare segnata anche da profondi fermenti innovatori e ben rappresentati dalla mozione parlamentare, presentata dal deputato socialista Berlinguer, in cui si è auspicata e condivisa, in maniera diffusamente unitaria, la necessità dell’interdizione definitiva delle armi atomiche e termonucleari. Una presa di posizione sancita anche nel voto espresso dopo la discussione. Il testo ha anche al contempo esplicitamente precisato che va battuta la “ripugnante” campagna che continua ad inneggiare agli “ideali” colonialisti. Si tratta in sostanza di isolare e di sconfiggere le posizioni più oltranziste, che si manifestano a livello interno o internazionale, di “legittimismo colonialistico” così da riuscire finalmente a spegnere i vari focolai di guerra già innescati in Asia e proiettati a “riscaldare” la guerra fredda in Europa. La rivista auspica, inoltre, un’ampia intesa col mondo cattolico, che in Italia si presenta “in tutta la sua complessità e varietà”. Il problema della Guerra e della Pace assume in quella fase un rilievo del tutto diverso dal passato. Si insiste in tal senso sull’urgenza di organizzare un grande movimento popolare e politico, di estrema estensione e di forte consapevolezza, in grado di battersi- in via quotidiana con continuità e tenacia- e che risulti capace di mobilitare, al fianco dei Comitati dei “Partigiani della Pace”, i partiti popolari, i sindacati, le associazioni contadine, l’insieme di coloro che non credono né che “la civiltà sia quella dei colonialisti di BienDenPhu”, né che “la civiltà si possa in ogni caso difendere continuando ad avanzare sulla strada tracciata dagli imperialisti che vorrebbero affidarne le sorti ad un duello a base di bombe atomiche e termonucleari”.

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Interessante notare come alla rivista collaborino, periodicamente, come in premessa si è accennato, anche uomini di formazione socialista come Oreste Lizzadri, Rodolfo Morandi, Giacomo Mancini, oltre allo stesso Vittorio Foa. Il gruppo originario sembra volersi muovere all’unisono, pur partendo da diverse impostazioni di partenza che tuttavia tendono a convergere verso l’unico, ambizioso obiettivo di creare una nuova ed autorevole classe dirigente nel Mezzogiorno. La pressoché totale estraneità del Mezzogiorno al conflitto sanguinoso sviluppatosi nel corso della Guerra di Liberazione Nazionale, il consenso maggioritario attribuito- nel Referendum del 1946- alla Monarchia e non alla Repubblica, hanno evidenziato le persistenti difficoltà e le resistenze al radicamento della sinistra in quest’area del Paese. E tuttavia dal Mezzogiorno d’Italia per più ragioni non è possibile prescindere. Esso, il Sud, è anzi decisivo per l’attuazione di un progetto, democratico e progressivo di ben più ampio respiro, rivolto a realizzare una vera unificazione nazionale. In quest’area geografica, particolarmente complessa ed in più punti disgregata, densa di problemi e di contraddizioni acute ed irrisolte ormai da troppo tempo, riappaiono di frequente le suggestioni di frontale contrapposizione, e di separatismo, dal resto del paese. Il Mezzogiorno è rimasto sostanzialmente estraneo ad un altro passaggio storico, di grande rilievo nella storia nazionale, quello dell’avvio della fase dell’Assemblea Costituente. Come si può spiegare una tale distanza? Il metodo di lavoro scelto dagli animatori di “Cronache Meridionali” privilegia la scelta di un più accurato e metodico approfondimento della situazione attraverso l’indagine conoscitiva della composizione economico-sociale del Mezzogiorno, e delle tendenze di mutazione degli assetti economici, già in atto, più che indulgere- almeno nella fase iniziale della vita della rivista- nell’azione tesa a rinsaldare l’unità e la collaborazione tra le distinte forze politiche d’ispirazione popolare. Nel procedere del lavoro di elaborazione viene esplicitato l’obiettivo rivolto ad impedire il consolidarsi di un potente blocco politico e sociale, di ispirazione conservatrice e reazio-

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naria, che può fare regredire la situazione ulteriormente, sia per ciò che concerne la condizione economica e materiale delle masse povere, in specie bracciantili e contadine, che il loro peso generale nella realtà del Mezzogiorno e nel Paese77. Il successo incontrato dall’esperimento messo in atto fu notevole. Nel giro di poche settimane, dopo la pubblicazione del primo numero, vennero raccolti mille e più abbonamenti (una cifra considerevole, allora ma anche oggi, per una rivista meridionale). Cronache meridionali fu la prima ad uscire fra le i diversi fogli meridionalistici apparsi in quel periodo. L’eco nel movimento di sinistra, nel Mezzogiorno e fuori, fu assai largo, e in genere raccolse consensi molto favorevoli. Moltissimi furono i collaboratori che impararono a scrivere il primo articolo della loro vita per Cronache meridionali: segretari di federazioni comuniste e socialiste, segretari di camere del lavoro o di associazioni contadine, ecc. La rivista rappresentò, in quegli anni, un riferimento importante e un grande aiuto per la formazione politica e culturale del quadro democratico nel Mezzogiorno. Cronache meridionali dette anche, nei suoi primi anni di vita, un contributo notevole alla ripresa degli studi meridionalistici. La rubrica “Biblioteca meridionalistica” (curata da Rosario Villari) alimentò la ricerca e lo studio sullo svolgimento del pensiero meridionalistico e sui suoi legami con l’evoluzione storica e politica della società nazionale. Rosario Villari, negli anni successivi, pubblicò un’antologia, Il Sud nella storia d’Italia, Editore Laterza, che resta- ancora og-

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Gerardo Chiaromonte si esprimerà in tal modo :”Eravamo animati da una consapevolezza, certo un po' orgogliosa, di fare qualcosa di importante, e da una volontà di conquistare, anche attraverso la rivista, una parte cospicua dei quadri dirigenti del Pci e delle organizzazioni democratiche meridionali a quella che ci sembrava una giusta visione del posto della battaglia meridionalistica in una strategia nazionale di lotta per la democrazia e il socialismo, ma insieme al gusto e alla capacità di analisi concrete (secondo le migliori tradizioni della cultura meridionalistica liberale) della realtà economica, sociale, culturale e politica del Mezzogiorno”.

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gi- uno dei testi fondamentali per avvicinarsi alla storia e alla cultura del meridionalismo78. La pubblicazione inoltre fu presente in modo combattivo (soprattutto per merito di Mario Alicata) anche nelle grandi polemiche culturali dell’epoca: non soltanto con la rubrica “Miserie e nobiltà”, ma anche con più articoli e saggi che ebbero allora largo eco (come quello in polemica con Carlo Levi sulla “civiltà contadina”). “Cronache Meridionali” inoltre ricercò più forti intrecci e relazioni con le iniziative politiche e sociali già intraprese nell’azione d’opposizione contro la situazione di arretratezza e di degrado economico, culturale, sociale del Mezzogiorno79. La rivista tentò in tal senso di proporsi quale solido riferimento per le lotte operaie e popolari in difesa del salario, per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai, dei contadini e braccianti meridionali, per affermare il loro diritto alla tutela della salute, alla previdenza ed all’assistenza, per il riconoscimento del diritto al risarcimento per gli infortuni e le malattie professionali. A tale proposito, ad esempio, sollecitò l’Inail ad intraprendere un’azione più incisiva a tutela dei braccianti. Puntuale e costante anche l’azione di “Cronache Meridionali” in difesa del lavoro e contro i licenziamenti di migliaia di lavoratori determinati dallo smantellamento delle fabbriche. Dalla lettura della rivista emergono, in modo prevalente, i richiami alla realtà metropolitana di Napoli, e tuttavia l’orizzonte d’impegno politico e civile si estese per l’intero ambito delle diverse regioni e province meridionali. L’identità della testata non assunse mai una dimensione municipalistica, ma mantenne sempre nella propria impostazione un impianto ben più ampio e generale, riconfermando più volte la profonda convinzione che dal modo in cui sarebbe stato affron78

Istitutochiaromonte.it/script/meridione.rtf, Osservazioni di Gerardo Chiaromonte, 79 Un ruolo di grande rilievo, nella nascita e nello sviluppo della rivista, fu senza dubbio svolto dall’editore Gaetano Macchiaroli, che interpretò la propria funzione in maniera militante.

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tato l’intero problema del Mezzogiorno si sarebbe poi configurata, nel prossimo futuro, in negativo o in positivo, la più generale prospettiva di tutta la Nazione. Una particolare attenzione fu poi rivolta al modo di utilizzo delle ingenti risorse economiche e finanziarie destinate al Mezzogiorno. Si cercò di stabilire un nesso, ed un controllo politico costante sulla qualità e l’efficacia sociale delle risorse che allo scopo venivano impiegate. In tale contesto, frequente il richiamo all’urgenza di attivare tempestivi confronti, ed anche specifiche commissioni d’inchiesta parlamentare, in tutte le circostanze in cui risultasse palese il fatto che, lungi dal produrre un salto di civiltà nella qualità dei servizi sociali primari resi ai cittadini, la scuola, la sanità, i servizi comunali, l’assetto idrogeologico delle regioni meridionali più esposte ai rischi di frane ed alluvioni, questo fiume di danaro era servito in prevalenza per continuare ad avvantaggiare i ceti ed i gruppi politici locali più potenti, in larga parte legati alla Democrazia Cristiana. In realtà “Cronache Meridionali” riuscì di frequente a dimostrare come i gruppi che facevano riferimento a quel partito- con l’uso discrezionale del danaro pubblico- agissero di norma per fare prevalere l’interesse di parte su quello generale, sulle necessità primarie del popolo meridionale. Indicativa è, al proposito, l’interpellanza del deputato calabrese Francesco Spezzano, in cui veniva denunciato il fatto che i funzionari della Cassa di Risparmio erano stati mobilitati per la campagna elettorale dell’onorevole Antoniozzi, figlio del direttore della Cassa di Risparmio. Il ministro Gava, in risposta all’interpellanza, avrebbe dichiarato di non essere competente sull’argomento sollevato. Un particolare impegno si sviluppò anche tramite la richiesta di maggiori fondi governativi in difesa del suolo e contro le calamità naturali, per accrescere l’efficienza e la funzionalità delle strutture di prevenzione create per prevenire i periodici, devastanti disastri ambientali che puntualmente colpivano le aree meridionali, in specie calabresi.

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Il 15 Aprile 1954 si tenne a Napoli, presso i locali della Camera Confederale del Lavoro, l’assemblea del Comitato Nazionale per la Rinascita del Mezzogiorno80. Nella relazione introduttiva Giorgio Amendola tracciava i principali punti di programma. Ed insisteva innanzitutto sulla richiesta al governo di una politica di Pace, indipendenza, libertà, richiamando al pieno rispetto ed all’attuazione dei contenuti della Costituzione repubblicana. Il dirigente comunista inoltre richiedeva l’urgente attuazione di un’effettiva riforma fondiaria, con l’esproprio di tutte le proprietà superiori ai 100 ettari, la riforma dei contratti agrari, con la trasformazione di tutti i contratti esosi e precari in contratti ad equo canone. Si soffermava poi sull’urgenza di un’accelerazione dei processi d’industrializzazione del Mezzogiorno, con l’immediato pagamento dei danni di guerra, e sollecitava una nuova politica del credito, più favorevole che- pur promessa- non era stata fino ad allora mai applicata. Infine avanzava la proposta della nazionalizzazione immediata dell’IRI e della SME, la riforma del Banco di Napoli; Un’azione concentrata, in 5 anni, per trasformare l’ambiente meridionale, con l’esecuzione dei piani di bonifica e di trasformazione fondiaria, dei piani di sistemazione montana e di rimboschimento, dei progetti di estensione ed ammodernamento della rete ferroviaria e stradale; l’aumento di salari e stipendi; il rispetto dei contratti di lavoro e delle leggi previdenziali ed assistenziali; una politica di costruzioni edili capace di eliminare la vergogna dei tuguri, una legge organica per l’assistenza sanitaria gratuita per tutti i cittadini poveri; un grande piano di costruzione di scuole e la stabilizzazione lavorativa dei maestri per un’effettiva lotta all’analfabetismo. Pur rimarcando l’opposizione alla Cassa del Mezzogiorno, Amendola dichiarava la disponibilità di dare comunque un contributo al “nuovo corso”, guardando con particolare attenzione al tema decisivo dell’accelerazione dell’industrializzazione. A 80

Il numero 5 Anno 1, 1 Maggio del 1954, pubblicherà la relazione integrale di Giorgio Amendola, insieme agli interventi che si sono succeduti e la risoluzione finale dell’Assemblea del comitato Nazionale per la Rinascita del Mezzogiorno che verrà letta da Mario Alicata ed approvata all’unanimità.

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suo giudizio, però, c’era il rischio concreto di fare rinascere, sotto l’ombrello della Cassa, il fronte- appena incrinato dalle lotte popolari- dei ceti possidenti ed un’alleanza clerico-fascista, incline finanche all’uso della violenza contro i lavoratori e pronta, verso il Sud, ad una nuova politica di tipo coloniale. Perciò andava contrastata, in ogni modo, l’azione perniciosa di chi intendeva trasformare la Cassa del Mezzogiorno in un potente centro di affari e di corruzione sistematica. L’industria doveva però essere immaginata anche come funzionale e coordinata con la realizzazione di un piano preciso di lavori di pubblica utilità, a partire dalla diffusione d’acquedotti. Lungi dal ridursi, il divario del Sud dal Nord del Paese si era progressivamente accentuato e la lotta per il riscatto del Mezzogiorno aveva la necessità di concentrarsi sull’obiettivo di realizzare la Rinascita, raccogliendo allo scopo l’insieme delle forze disponibili disposte a battersi per il rinnovamento democratico, politico e sociale. Non si trattava di sviluppare, quindi, una lotta parcellizzata e neocorporativa, ma un’azione in cui netto ed esplicito apparisse l’orizzonte generale nazionale, di unificazione e di progresso, verso cui s’intendeva tendere. Una lotta, di civiltà e di libertà, che doveva passare- necessariamente- anche per l’aumento dei salari e degli stipendi dei lavoratori, ancora bassissimi, con contratti di lavoro e norme previdenziali sistematicamente violati, in spregio alla Costituzione. Un progresso possibile se si salvaguardava innanzitutto il bene primario della Pace. Il grande problema del soffocante potere del latifondo e della proprietà assenteista, il fenomeno mafioso, l’arretratezza culturale, l’enorme diffusione dell’analfabetismo, una concezione – non scardinata- della scuola, struttura decisiva e che si intendeva far restare non popolare ma di classe, il ruolo oscurantista delle forze ecclesiastiche, un’antica storia di ostilità antiunitaria e di ricorrenti cicliche esplosioni di fenomeni d’ispirazione sanfedista erano l’insieme di contraddizioni che si configuravano come una potenziale miscela di esplosività evidente che, combinata con il fattore della grande diffusione della disoccupazione di massa, avrebbe costituito, per il PCI, un terreno

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d’impegno particolarmente arduo e rischioso, e tuttavia assolutamente urgente e necessario. Era in ogni caso obbligatorio, per una vera forza di progresso, agire nel concreto, nella specificità della situazione data. I gruppi politici dirigenti meridionali della sinistra, tranne alcune autorevoli eccezioni, mostreranno però di eccedere nell’unilateralismo dell’analisi, non cogliendo a pieno, ed anzi sottovalutando, obiettivamente, il carattere tendenzialmente anche espansivo cui si preparava a dar vita il Capitalismo Nazionale con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Ed essi di frequente oscilleranno, pur suscitando innumerevoli e generose esperienze di lotte e resistenze sociali, in un insuperato limite di fondo, segnatamente ideologico, riproponendo di frequente interpretazioni, parziali ed incomplete, destinate a sfociare- non di rado- in atti di mera testimonianza ininfluente. Di ciò c’è traccia evidente nelle prese di posizione assunte in proposito da “Cronache Meridionali”. Il gruppo di “Cronache Meridionali”, tra le evidenti parzialità e contraddizioni, pur eccedendo a volte in eccessi polemici, ha visto comunque anticipatamente e con lucidità l’urgenza di porsi su un piano di azione teorica e politica coerente, ispirata da un autentico riformismo democratico, di cambiamento dei rapporti di produzione e di scambio, di avvio di un’azione istituzionale e sociale più incisiva, capace di aggredire i punti più squilibrati e negativi di uno sviluppo assai distorto. L’azione profusa per la formazione di una nuova coscienza democratica, e per la creazione di uno strato diffuso di quadri e militanti in grado di rappresentare, in embrione, la futura classe dirigente meridionale, la pratica dell’approfondimento delle specificità delle origini della storia e della cultura meridionale, l’attenzione costante rivolta alla salvaguardia dei legami unitaritra le forze democratiche- da rinsaldare anzitutto sul piano della comune azione sindacale, costituiscono indiscutibili titoli di merito di questo importante tentativo, senz’altro espressione di un intenso fervore etico, e di un grande lavorio, politico e teorico, di chiara ispirazione democratica. “Cronache” rifiuta i vari velleitarismi di chi immagina la possibilità di perseguire, nel Sud, dall’oggi al domani, repentini e

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radicali cambiamenti, gli è estranea ogni visione d’improbabile, improvvisa palingenesi, ed assume piuttosto l’ancoraggio a posizioni di stringente realismo. La rivista ritiene sia possibile e necessario procedere a piccoli passi, sicuri e progressivi, all’interno di un rigorosa visione di riformismo forte che, animata dalle forze comuniste e democratiche meridionali più coerenti, pervenga- di volta in volta- a conquiste più avanzate rispetto alle condizioni di partenza. E si concentra sulle priorità da perseguire per un migliore e più equilibrato sviluppo economico, civile e culturale di questa parte del paese. La rivista agisce per concorrere a costruire le condizioni di una estesa e potente alleanza di tutte le forze disponibili, correggendo le più evidenti distorsioni evidenziate nella qualità dello sviluppo. Esse sono state determinate dalla volontà e dall’intransigente resistenza dei più potenti gruppi capitalistici e monopolistici il cui potere- ancora non reciso alla radice- va decisamente combattuto con lo sviluppo di forti lotte sociali. Atti di mobilitazione e di lotta necessari che la rivista sosterrà con grande decisione. Nella visione delle forze regressive, il mantenimento dell’arretratezza del Mezzogiorno non è fatto casuale, quanto piuttosto fattore indispensabile per non scalfire l’antico dualismo tra Nord e Sud, così da far restare inalterata la netta differenza, quantitativa e qualitativa, che nel corso del tempo nei processi di sviluppo del paese si è determinata. E’respinta seccamente la critica più avanti proposta al PCI ed alle stesse “Cronache Meridionali” da “Nord e Sud”. Il confronto e lo scontro tra le due riviste, divenuto in certe fasi assai accentuato, s’inserisce nella lunga, difficile e travagliata discussione nazionale sui caratteri regressivi o progressivi dell’esperienza di Centro Sinistra. Sinteticamente esplicativo, su questo punto, è l’articolo di Gerardo Chiaromonte, “Meridionalismo ed astrattezza”81. Netta, nell’occasione, la presa di distanza dalle posizioni assunte da “Nord e Sud”. 81

L’articolo è apparso sul numero 1-2 del Gennaio-Febbraio 1957.

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Più nello specifico, Chiaromonte rileva come i nuovi 9000 lavoratori occupati in quel periodo nell’area napoletana non hanno fermato né compensato la secca perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, né hanno modificato il quadro di una struttura produttiva industriale “arretrata”ed in alcuni casi del tutto “primitiva”.Né si è interrotto un processo segnato da “ un marasma produttivo”, o superata “ la mancanza di prospettive” e “ la grave crisi di mercato per alcuni settori”. Sarebbe stata invece necessaria tutt’altra politica economica, di ben diversa impostazione generale, che avrebbe dovuto impegnare in maniera mirata significative risorse economiche e finanziarie nazionali per lo sviluppo di Napoli e del Mezzogiorno. Problema senza dubbio primario e persistente, da cui non era possibile prescindere se s’intendeva per davvero avviare a soluzione la questione dell’occupazione e dello sviluppo economico delle regioni meridionali. Le risorse disponibili erano state invece troppo di frequente distratte in altre direzioni, o regalate ai potenti gruppi industriali del Nord, ed altre- con leggi speciali- erano state invece assegnate a Lauro, per placare la sua demagogia. Di conseguenza, a Napoli, tutto era fermo. Migliaia di famiglie continuavano a vivere nelle baracche in condizioni di terribile degrado. “Nord e Sud” sostiene la tesi che la nostra impostazione programmatica sarebbe oggi in crisi, trattandosi, da parte dei comunisti, di un “meridionalismo di complemento”,” strumentale”, con un’estrema pochezza di soluzioni proposte. Invece gli scrittori di “Nord e Sud”, secondo Chiaromonte, non si sono accorti che a fallire è stata, invece, la politica della DC e del Governo, con le loro classi dirigenti. Ciò che capiscono i Lauro, coi suoi ricatti alla Dc, ed i monopolisti che si muovono verso il Sud “non solo alla ricerca di profitti ma anche con chiari obiettivi di natura politica”.” I fumosi scrittori di Nord e Sud, bravissimi nell’invenzione di astratte formule politiche e nei giuochi di parole, farebbero bene a guardare attentamente alla situazione politica napoletana che è, in certo senso, esemplare per comprendere gli sviluppi della politica meridionale. Essi sono però … del tutto estranei e tagliati fuori da quanto succede a Napoli: se così non fosse, non si attarderebbero nella denuncia

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sterile ed esclusivamente moralistica del “fenomeno Lauro” che non è un fatto folkloristico da disprezzare con alterigia impotente ma un fenomeno politico con cui, da parte di quanti amano la civiltà e il progresso democratico, bisogna pur fare i conti”. Gli articolisti di “Nord e Sud” erano fatti oggetto, da parte di Chiaromonte, di ulteriori critiche stringenti. A partire da quella di non avere seguito con la dovuta attenzione i dibattiti sull’industria, svoltisi nei consigli comunale e provinciale di Napoli. E di non avere considerato adeguatamente le proposte avanzate dalle forze di sinistra per una nuova industrializzazione, nè le richieste della CGIL. A giudizio di Chiaromonte : “Il sistema attuale è per sua natura incapace di produrre sviluppo economico. Vanno invece affrontati, con urgenza, i problemi strutturali; ed attuata una riforma agraria capace di favorire l’apertura di un mercato idoneo all’industrializzazione, perché siano posti con serietà i nodi del commercio e degli scambi coi paesi del bacino del Mediterraneo … La nostra politica non è rivendicazionista, strumentalistica, agitatoria e velleitaria, ma risponde a bisogni reali di Napoli e di tutto il Sud. In tutti i settori di attività, nell’ambito delle nostre forze, abbiamo sempre indicato, avanzando esigenze “reali e permanenti” le soluzioni concrete possibili, nell’ambito della Costituzione Repubblicana, con l’organizzazione e la lotta democratica e socialista di tutto il popolo. Collegando la battaglia meridionalistica alla battaglia generale per la pace, la libertà, il socialismo si esercitava, per Chiaromonte, una grande funzione nazionale. Non è “rilancio frontista” la realistica possibilità della messa in campo di un nuovo ed ampio schieramento meridionalistico” . Pur nell’evidente accentuazione polemica, rivolta alle forze di governo ed alla rivista “Nord e Sud”, che in sostanza appoggiava e sosteneva le azioni da parte dello Stato centrale messe in atto, non veniva preclusa per sempre la prospettiva di più ampie e diffuse alleanze e convergenze. “Possono mettersi insieme, per un nuovo sviluppo, con la reciproca autonomia salvaguardata, forze economiche e sociali diverse, battendosi con convinzione contro i monopoli e la politica che li sostiene. Si può

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lottare e vincere per una nuova politica di sviluppo economico e di rinascita, vedendo ed affrontando gli ostacoli strutturali ed economici che si frappongono. Ampio risalto avranno, sulle pagine di “Cronache”, le varie iniziative del Pci sul Mezzogiorno. E’ il caso, per limitarci a un solo esempio, alla scelta della pubblicazione integrale della relazione svolta da Giorgio Amendola l’11 maggio 1957, a Napoli, all’Assemblea Meridionale del PCI82. Il fascicolo di “Cronache Meridionali” riporta, contemporaneamente, la sintesi degli interventi, insieme alle risoluzioni finali approvate. Anche in questo caso sono confermate le linee essenziali delle opzioni per il Sud richiamate in precedenza. Tornando a Cronache meridionali, dopo i primi anni, le cose diverranno più difficili e complesse. All’allargamento del gruppo dirigente della rivista non corrisponderà un elevamento della sua incidenza politica e culturale. Ed in tal senso risulterà stupefacente il fatto che nei numeri di Novembre, Dicembre, Gennaio e febbraio 1956 e 1957 la rivista non faccia alcun cenno alla situazione drammatica determinatasi con l’invasione sovietica dell’Ungheria, né che vi si ritrovi alcuna traccia dei riflessi che tali accadimenti determineranno in Italia, con le loro conseguenze laceranti nelle forze di sinistra ed in specie del Pci. Un silenzio che risulta assolutamente incomprensibile. Più oltre nel tempo l’evolversi conclusivo dell’esperienza di “Cronache Meridionali” sarà riassunta da Gerardo Chiaromonte in maniera assai lucida ed efficace : “ Comunque, allora, non potevamo continuare, e non solo per il fatto che molti di noi lasciarono Napoli e il Mezzogiorno, chiamati ad altri lavori ed incarichi. Esisteva una certa contraddizione fra un’azione e un’iniziativa politica, tipicamente riformistiche, che tendevano a costruire, giorno per giorno, le condizioni per trasformare gradualmente la 82 Nel numero 5, Anno IV, Maggio 1957, vengono pubblicati, oltre che l’integrale relazione di Giorgio Amendola: “I Comunisti per la rinascita del Mezzogiorno”, anche i vari interventi che si sono succeduti. Sarà l’occasione per ribadire la centralità della lotta per la Pace e per fare un bilancio di 10 anni di battaglie meridionaliste.

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situazione, e un orientamento, diffuso e persistente, di attesa messianica di momenti decisivi (con un’azione che avrebbe dovuto trovare l’epicentro, comunque, fuori del Mezzogiorno) per rovesciare la situazione. Tale orientamento - che fu indicato come espressione di una “doppiezza” politica - era legato anche al modo come era nato e cresciuto il movimento comunista, nel Mezzogiorno, nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, quando ci fu una grande e ingenua ondata di speranza, che scosse la coscienza di una parte importante dei lavoratori e degli intellettuali meridionali. E questa posizione pesò anche nel periodo successivo quando, una volta esaurita la prima fase della lotta per la terra e per il superamento del latifondo assenteista, e nell’aggravarsi delle difficoltà economiche oggettive e di quelle politiche del movimento di sinistra nel Mezzogiorno che coincisero con l’inizio del “miracolo economico”, tanti combattenti degli anni precedenti abbandonarono i loro paesi alla ricerca sì di un lavoro qualsiasi ma anche sopraffatti dalla sfiducia chefosse ancora possibile fare qualcosa nel Mezzogiorno. Alla base della drammatica ripresa dell’esodo degli anni dal 1956 in poi (quell’esodo che fu chiamato, perfino da un uomo del livello di Manlio Rossi Doria, l’unica rivoluzione possibile: e io non mi pento della polemica vivacissima che allora conducemmo contro di lui) vi furono non soltanto fattori oggettivi (la miseria, la mancanza di lavoro) ma anche fatti soggettivi, di disorientamento e di sfiducia. I giovani meridionali che emigravano restavano dei combattenti per la democrazia e il socialismo: ….Ma in loro si era incrinata la speranza di poter risolvere, nel Mezzogiorno, i problemidella loro esistenza e quelli dell’avvenire della loro terra”83. In realtà, giunti ad un certo punto, era politicamente impossibile continuare. Ogni rivista, come ogni esperienza umana, ha un suo percorso, e una sua vita, oltre cui non è più utile procedere, pena il decadimento nella routine, e nella ripetitività burocrati-

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Gerardo Chiaromonte, in : Istitutochiaromonte.it/script7meridione.rtf

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ca. Parte del nucleo fondatore continuò il proprio impegno fino alla conclusione. Gerardo Chiaromonte preparò l’indice generale dei vari numeri che venne pubblicato in un libretto con una lunga prefazione del dirigente comunista, un bilancio conclusivo di undici anni di lavoro.Quell’esperienza, comunque di rilievo, negli anni a venire non verrà più ripresa, neppure con diverse impostazioni, e con contenuti ed obiettivi nuovi e più aggiornati. E tuttavia l’esigenza di uno strumento, di ricerca e di elaborazione critica, capace di guardare la realtà e di commentare puntualmente, dall’angolatura di un meridionalismo più aggiornato, i fatti politici che accadono, e le posizioni assunte non solo dai governi e dalle classi dirigenti ma anche dalle stesse opposizioni, dai vari movimenti, dai sindacati, dalle Istituzioni e dalle forze dell’imprenditoria agenti nella realtà meridionale può risultare utile. Nessuno può negare che ancora al giorno d’oggi di ciò ci potrebbe ancora essere bisogno.

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Secondo dopoguerra:

l’impetuosa ascesa degli Stati Uniti La guerra appena conclusa si era prevalentemente sviluppata sul continente europeo e, dopo la sua conclusione, pressoché tutte le principali nazioni, sia quelle sconfitte che quelle vittoriose, si accingevano a fare i conti con una situazione economica, sociale, morale particolarmente aspra. Molte attività correnti dell’economia e della stessa vita amministrativa apparivano bisognevoli d’una radicale riorganizzazione, il livello di vita delle popolazioni era assai basso, insufficienti gli approvvigionamenti alimentari, imperversava la borsa nera, molte strutture industriali distrutte o danneggiate, tanti gli edifici pubblici e privati rasi al suolo. In Europa si era inoltre verificata una forte contrazione della produzione industriale nel mentre, di contrasto, appariva all’orizzonte inarrestabile l’ascesa dell’economia americana che, nel mentre alla vigilia della guerra era inferiore di un quarto rispetto a quella europea ora, nel 1947, la superava di oltre la metà ed il volume delle esportazioni americane si era moltiplicato di oltre 5 volte rispetto al 1938. L’Europa, pur nelle interne differenziazioni, appariva ben più debole di prima nello scenario del mondo. E tale era la situazione delle stesse potenze coloniali quali l’Inghilterra che, pur vittoriose, apparivano duramente provate dall’eccezionale sforzo bellico sostenuto e dai bombardamenti che avevano danneggiato le grandi città. Si profilava poi l’avvio di un processo di decolonizzazione diffusa e l’inizio dell’impetuoso cammino verso l’indipendenza di tanti paesi, in specie africani ed asiatici, che concorrevano a ridefinire nuove gerarchie tra le principali potenze del globo. In questo quadro, gli Stati Uniti avevano imboccato una strada maestra che finirà per assegnargli un ruolo leader indiscusso, solo in parte equilibrato dalla grande potenza dell’Unione Sovietica che aveva a sua volta espanso la propria egemonia, militare ed economica, su tutta l’Europa dell’Est. In ogni caso, agli Usa erano costretti a ricorrere i paesi europei che si trovavano alle prese con i grandi problemi dell’avvio della ricostruzione.

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In questo quadro generale gli USA si mossero nella direzione dell’unificazione del mercato mondiale. Il dollaro in breve conquistò la supremazia su ogni altra moneta in circolazione. L’Europa, bisognosa d’ogni genere di aiuti, divenne in breve lo spazio continentale di mercato ove naturalmente poterono riversarsi le esportazioni americane. E ciò consentirà all’economia americana di riprendere quota con rapidità a fronte della relativa stagnazione del mercato interno, incrementando in maniera esponenziale le proprie esportazioni con beni d’investimento e di consumi. Tra il 1946 ed il 1948 le esportazioni di merci e servizi dagli USA all’Europa raggiunsero la cifra ragguardevole di 13.000 milioni di dollari84. Decisivo risulterà l’aiuto americano innanzitutto nell’impresa di riconvertire l’economia bellica europea, riducendo drasticamente il pericolo d’una gravissima recessione. Le politiche di ristrutturazione dell’economia di guerra, e la sua riconversione in diversi paesi, si fusero con la scelta d’individuare strade d’intervento dirette dello Stato nell’economia al fine di raggiungere gli obiettivi di una diffusa occupazione e d’incrementare contemporaneamente quantità e qualità dei servizi sociali da assicurare ai cittadini. In Inghilterra ci si mosse con immediatezza ed energia per perseguire questi indirizzi e ci si attivò per la creazione d’un insieme di misure atte a garantire ai cittadini un sistema di garanzie sociali primarie, la creazione d’un sistema sanitario pubblico, lì fu adottata una politica fiscale coerentemente progressiva e venne definito il passaggio allo Stato di servizi primari quali gas, trasporti, elettricità. E’ la fase dell’avvento del Welfare State, la definizione d’una robusta ed estesa area d’intervento pubblico nell’economia, dinamico modello che sarà seguito- con brillanti risultati- da una serie di altri paesi nordici come la Svezia, la Norvegia e la Danimarca. In generale, questa linea andrà a maturazione, pur se in

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Valerio Castronovo, L’Industria italiana dall’Ottocento a oggi, Oscar Saggi Mondadori, pag.264

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genere con minore estensione, anche in altri paesi come l’Austria o il Belgio. In Francia fu rimarcato di più l’aspetto dell’epurazione, ovvero furono espropriate società quali la Renault cui era attribuita la responsabilità di avere svolto opera di collaborazionismo coi tedeschi occupanti. In Italia la situazione sembrò evolvere in maniera diversa. Anzitutto ebbero a manifestarsi ben presto evidenti discrasie e contraddizioni tra le forze politiche antifasciste ed anzi si evidenziò rapidamente un forte dissidio tra un’impostazione di tipo liberale e quella della sinistra estrema. Quest’ultima ebbe a manifestare forti riserve sull’utilità d’ampliare l’intervento dello Stato nell’economia. S’insisteva nella lettura d’una continuità dei caratteri del capitalismo nazionale e nella critica liquidatoria e stroncante dell’antico patto scellerato tra latifondisti meridionali e “ baronie industriali parassitarie”. Questa “intesa sciagurata”, sviluppata in funzione violentemente antioperaia ed antipopolare, era stata l’origine e la causa vera del disastro in cui era precipitata la nazione e questo patto antico, prima ragione delle immani sciagure cui la nazione era stata condotta, doveva essere espunto alla radice. Un elemento di verità storica oggettiva, in tale accezione, era evidentemente fondato, e non attribuibile, schematicamente, all’esclusiva lettura tradizionale d’ispirazione internazionalista. C’è però da aggiungere che il soffermarsi in maniera quasi esclusiva su questo aspetto del problema, riduceva l’ambito d’indagine in altre direzioni e si finiva per uniformare- in una lettura omogenea ed uniforme- una realtà d’insieme ben più contraddittoria e complessa che iniziava a mettere in evidenza, invece e contemporaneamente, caratteri di dinamismo interni al rinascente sistema capitalista che, pur tra contraddizioni, evidenziava dinamiche pulsioni volte a perseguire e a realizzare meccanismi di crescita e di sviluppo, come poi in realtà avvenne. Il dibattito che si svilupperà tra le forze politiche antifasciste ruoterà attorno all’obbligo di individuare priorità di investimenti, e di obiettivi a lungo termine, capaci d’avviare la modifica della struttura economica e sociale del Paese, sui modi e le for-

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me per assicurare la rinascita del Mezzogiorno e l’industrializzazione delle aree più depresse. In Italia già al momento della nascita dell’IRI, nel 1933, esisteva una quantità di imprese pubbliche ben più ampia e consistente di ogni altro Paese dell’Europa85. Ricorda Valerio Castronovo che in genere i comunisti si concentrarono soprattutto sulle necessità della ricostruzione, nel mentre bisognerà attendere il 1949, dopo che i socialisti ed i comunisti sono stati già estromessi dal governo, perché venga alla luce la proposta del “Piano del Lavoro”, avanzato dalla CGIL e da Di Vittorio, per prendere atto d’una posizioned’ispirazione più autenticamente keynesiana- imperniata su un vasto progetto di opere pubbliche, sulla scelta del potenziamento della produzione energetica e sui modi d’intervento per l’allargamento del mercato interno al fine di ampliare stabilmente e in modo consistente la base dell’occupazione. La sinistra finirà per concentrarsi sugli obiettivi di rinnovamento democratico delle Istituzioni, la Repubblica, la Costituzione, il mantenimento dell’unità antifascista, sottovalutando le tendenze più dinamiche del capitalismo nazionale espresse da uomini come Valletta, Sinigaglia, Mattei. L’idea della necessità di una programmazione per il settore a partecipazione statale, dati i vizi d’origine di cui si è detto, indirizzata a promuovere anzitutto l’industrializzazione del Mezzogiorno e l’assorbimento della disoccupazione, finirà per risultare assai sbiadita e non si riuscirà a perseguire a pieno la svolta d’indirizzi e di realizzazioni pur tanto agognata. La scelta di sacrificare le richieste di incrementi salariali a fronte dell’ampliamento della base occupazionale reggerà fino alla fine del 1947, quando l’impennata dell’inflazione metterà in moto spinte rivendicative tese a salvaguardare il potere d’acquisto dei salari dei lavoratori occupati. Le imprese avranno a quel punto mano libera nella gestione della forza lavoro resa possibile a fronte dell’enorme numero di lavoratori alla ricerca di occupazione, del ritorno dei reduci e dei prigionieri di guerra che, immessi in numero massiccio sul 85

L’Istituto sarà poi definitivamente liquidato molti anni dopo, nel 1992.

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mercato, finirono per costituire un forte deterrente alle richieste di aumenti salariali. Nel Maggio 1947, l’estromissione dei partiti di sinistra dal governo accentua le funzioni direttive delle forze economiche liberiste. La stretta creditizia e la politica deflattiva di Einaudi riducono le spinte all’eccesso di circolazione monetaria ed all’inflazione, contraendo i prezzi all’ingrosso. L’Italia, con tali misure, migliora la propria bilancia dei pagamenti e riduce l’indebitamento, inserendosi più facilmente sul mercato internazionale grazie alla moneta frattanto resa più stabile. La stretta creditizia produce però una caduta globale della domanda, insieme alla riduzione della produzione industriale a causa dei minori investimenti. Il Paese iniziava ad essere meno esposto al pericolo del collasso economico e finanziario ma le misure adottate indebolivano i ceti sociali più deboli, il lavoro operaio dipendente, non si riduceva l’esercito dei senza lavoro e si mettevano in moto situazioni di acuti conflitti che segneranno marcatamente buona parte degli anni 50.

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1968-1969: dal biennio irripetibile ad un mondo nuovo in tumultuoso movimento Alla fine degli anni ‘60 si erano iniziate a realizzare alcune conquiste assai importanti, a partire dalla diffusione dell’accesso delle varie classi sociali all’istruzione ed alla scuola pubblica, che aveva cominciato a perdere la propria fisionomia elitaria. La scuola dell’obbligo inglobava ormai anche i figli delle classi contadine ed operaie, storicamente subalterne. Si moltiplicavano, oltre alla tradizionali scuole di formazione professionale, i Licei, ad orientamento classico e scientifico. E fu proprio nelle scuole che iniziò a sedimentare, dapprima timidamente, poi in maniera sempre più chiara, un elemento di critica radicale all’inizio confuso, ma destinato ben presto a chiarirsi e dilatarsi, che esaltava alcune evidenti discrasie della società italiana con la sua organizzazione rigidamente strutturata in definite gerarchie. Il 68 rappresenterà la conclusione di una fase e la contemporanea apertura di una situazione decisamente nuova, il momento della traumatica rottura degli equilibri antecedenti con lo svilupparsi di tensioni e radicalismi che incideranno in profondità nella struttura e nella mentalità delle società contemporanee. Fulcro essenziale di quella novità sarà rappresentato dall’idea di fondo di ampliare e sviluppare i concetti di democrazia e di libertà, individuali e collettivi. L’idea di libertà quale in precedenza era stata immaginata, l’affermazione del diritto e della legittimità della persona a decidere da sé i percorsi della propria vita individuale, sociale, sessuale. E l’idea dell’esigenza, insopprimibile, dell’avvento di una nuova società, più libera ed eguale, pur attraverso un sentiero accidentato e carico di errori ed esagerazioni, si sarebbe fatta strada con una rapidità in origine del tutto imprevedibile. Si era agli albori della “contestazione” e dell’impetuoso procedere di una furia iconoclasta, che prendeva di mira, senza risparmiare niente, l’insieme delle gerarchie e dei poteri dominanti che si erano strutturati nei campi più vari, dalla politica alle Istituzioni, ai monopoli della finanza e dell’economia. Un’opposizione che finì per riversarsi contro le

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più prestigiose ed eminenti espressioni della cultura nazionale di quel tempo86. Il clima d’insieme della società locale appariva ora in ogni caso intriso di suggestioni molteplici, d’una nuova e pervasiva carica antiautoritaria e di liberazione che traeva linfa ed alimento dal moltiplicarsi dei conflitti, aspri, che attraversavano la società nazionale e lo scenario d’insieme di quel mondo inquieto87. Fatto è che il movimento, con le molteplici tendenze in esso concentrate, si mosse in quella fase ricercando un collegamento, immediato e diretto, con la “classe”, intendendo contemporaneamente sottrarsi, già in origine, al rischio di un confronto ingessato, di una contaminazione e di una feconda relazione con le rappresentanze ufficiali dei partiti politici della sinistra storica. Più in generale, sembrò prevalere un approccio di natura cosmopolita piuttosto che un ancoraggio limitato alla parziale dimensione nazionale88. In Italia, in Europa, nel Mondo montava un movimento nuovo, che non avrebbe lasciato indenne alcuna articolazione dell’organizzazione della società, compresa la stessa Chiesa cattolica. Essa Istituzione non a caso finirà per essere a sua volta investita frontalmente dalla crisi, dal vento del rinnovamento ed impegnata in tante sue espressioni periferiche nel riaffermare la forza e la pregnanza dell’autenticità della 86

Non venne risparmiata un’icona della letteratura come Alberto Moravia, che, reduce da un viaggio in Cina, recatosi alla facoltà di Lettere per solidarizzare con gli studenti romani all’indomani dei gravi scontri avvenuti il 1 marzo 1968 a Valle Giulia, presso la facoltà di Architettura, era fatto oggetto di dure contestazioni e di sarcasmi per aver sostenuto la necessità di approfondire meglio le questioni, evitando di guardare in maniera dogmatica e ideologica ai processi inediti e originali che, con la rivoluzione culturale, erano stati messi in moto in oriente. 87 L’ondata di contestazione attraversò l’Italia in lungo e in largo, dal Nord al Sud del paese. Per un approfondimento di ciò che accadde in una città meridionale come Salerno è utile la lettura di: Il 1968 a Salerno, miti, utopie, speranze di una generazione. Il volume, curato da Piero Lucia e da Francesco Sofia, contenente vari scritti di protagonisti di quella stagione, è stato stampato nel novembre del 2008 per i tipi CECOM SNB, Bracigliano (SA). 88 Un modo nuovo d’interpretare la necessità di una diretta ed incisiva funzione nella storia favorito dalla diffusione di testi innovativi, come quello di Herbert Marcuse, L’uomo ad una dimensione o quello, ancora più stridente, d’ispirazione terzomondista, di FrantzFanon, I Dannati della terra.

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propria ispirazione originaria incentrata sull’urgenza di ridare ruolo, funzione, centralità, speranza al “popolo di Dio”. La Chiesa romana, superando pratiche consunte ed antiquate, dogmatiche e inalterabili certezze, avrebbe, a sua volta, dovuto rinnovarsi alla radice, mischiandosi con intensità alla vita pratica, favorendo, col proprio esempio positivo, la conquista di una nuova dignità col riconoscimento agli ultimi di diritti fino allora negati. E ciò darà luogo a tensioni, fermenti e contrapposizioni mai prima neppure immaginati. Una questione, questa, che meriterebbe di per sé un’accurata e approfondita indagine89. “Operai e studenti uniti nella lotta” il nuovo coinvolgente rito, la parola d’ordine gridata nelle strade e nei cortei delle città italiane, la lotta senza quartiere all’ideologia borghese, l’altro, essenziale cardine della ricerca di una strada nuova. La protesta prendeva di mira un’organizzazione scolastica anchilosata ed antiquata, avulsa dalle esigenze del mondo contemporaneo e dai gravi problemi che in esso si agitavano. Veniva contestato un impianto della scuola autoritario, “cattedratico”, inutilmente “nozionistico”, l’assenza di osmosi e di dialogo tra docenti e studenti. Nei collettivi venivano affrontati gli argomenti più vari inerenti le vicende nazionali ed internazionali del mondo contemporaneo90. Le lotte popolari, di braccianti, operai e contadini, erano riprese nelle fabbriche del Nord ed in alcune aree delle campagne meridionali e finivano di frequente per sfociare in aspri conflitti di piazza conclusi, non di rado, in maniera tragica e sanguinosa.

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La spinta ad un profondo e indifferibile rinnovamento della Chiesa favorì la nascita e l’ampia diffusione dei coordinamenti delle comunità di base, la crescita di peso, di prestigio e di incidenza delle Acli e di quelle componenti più avanzate e innovatrici del sindacalismo cattolico e della stessa CISL. 90 Nel corso dell’anno scolastico, in genere, non venivano affrontate le questioni inerenti la storia del Novecento e la contemporaneità. Iniziò un confronto fitto, intenso, appassionato per tentare di analizzare e di comprendere più a fondo alcuni temi di portata strategica e di più ampio rilievo, quali i problemi della guerra e della pace. Si cominciò ad indagare il ruolo delle due superpotenze, degli USA e dell’URSS; la funzione del colonialismo e dell’imperialismo. Crebbe la coscienza del pericolo mortale di un conflitto con il ricorso all’uso delle armi nucleari nell’epoca della “guerra fredda”.

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Braccianti morti ad Avola nel dicembre 196891, più avanti, nell’aprile del 1969, l’esplosione dei moti di Battipaglia, con morti e decine di feriti, apparvero l’espressione più tragica del profondo malessere che aveva iniziato a serpeggiare in ogni ganglio della società italiana. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia e l’ampia opposizione e resistenza sociale che lì si era palesata con clamore confermavano l’esistenza di un esteso bisogno di profonde riforme e di maggiore libertà. Un forte sentimento di liberazione aveva investito i vari continenti, il nord e il sud del Mondo. A Praga, in Piazza San Venceslao, per protesta contro l’occupazione militare sovietica, si diede fuoco un giovane studente, JanPalach. Il 25 gennaio 1969 a Praga si tennero i funerali a cui parteciparono oltre un milione di persone. Molteplici e contraddittori segnali di un conflitto che aveva iniziato a snodarsi ovunque con veemenza, dopo la relativa inerzia delle fasi precedenti, e che non appariva immediatamente componibile se non attraverso il perseguimento di un nuovo e più avanzato equilibrio di poteri tra le diverse classi allora contrapposte. Un elemento, questo, destinato a pesare, in maniera decisa, sul senso e l’indirizzo dei cambiamenti della politica e sulla formazione e la fisionomia della nuova classe dirigente nei decenni che seguirono. La più ampia circolazione di notizie e informazioni consentiva l’apertura di una finestra sul mondo, con una fuoriuscita dalle dimensioni, locali e circoscritte, in cui fino ad allora aveva con91

Ad Avola, in provincia di Siracusa, il 2 dicembre 1968, nel corso di una manifestazione bracciantile, la polizia intervenne indiscriminatamente, sparando centinaia di proiettili sui lavoratori. Rimasero uccisi sul selciato Angelo Sigona, 25 anni, di Cassibile, e Giuseppe Scibilia, 47 anni, di Avola. Molti i feriti, una decina gravi. Al comando delle forze dell’ordine era il vicequestore Camperisi. La vertenza, in atto da oltre tre settimane, mirava a superare la differenza di salario, “le gabbie”, tra le diverse aree regionali. Un bracciante che lavorava nella cosiddetta “area a” riceveva un salario giornaliero di 3.480 lire, chi, come in provincia di Siracusa, era invece collocato nell’“area b”, percepiva la retribuzione di 3.110 lire. I fatti di Avola produssero nel paese un’emozione enorme. L’accordo per il superamento delle differenze salariali tra distinte aree fu di lì a poco siglato dai sindacati confederali nazionali. Si era alla vigilia del varo del governo di centro-sinistra Rumor-Nenni.

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tinuato a scorrere il tempo di vita e di lavoro delle generazioni. L’accesso ad un grado d’istruzione più elevato e ad una più ampia conoscenza del mondo, permettevano di contestare l’idea di un percorso della propria vita individuale in larga misura prefissato. Una persona, priva della capacità di leggere criticamente la realtà, vedeva già in partenza ipotecato in negativo il suo futuro. La conoscenza e la cultura erano i fattori decisivi per sottrarsi ai condizionamenti potenti del potere. Sembrarono sul punto di crollare le antiche e indiscutibili certezze, i dogmi su un presunto inalterabile assetto dei poteri e delle gerarchie, proposti ai giovani, nella famiglia e nella società. La scuola, apparsa precedentemente elemento di conservazione ostativo ai cambiamenti, incapace di produrre innovazioni grazie a un più fecondo collegamento con le moderne esigenze della vita, corpo separato ed impermeabile a qualsivoglia attiva mutazione, apparve il nervo, più vulnerabile e scoperto, di un’organizzazione sociale bisognevole di urgenti, profonde e indifferibili riforme strutturali. La scuola, tranne sporadiche eccezioni, non colse ciò che stava maturando nella società, la prorompente carica d’un bisogno e di un desiderio nuovo, di libertà e giustizia, l’esigenza di una svolta profonda e radicale. La classe politica dirigente, diffusamente intesa, di contrasto, si ritrasse e sembrò piegarsi su se stessa. La tregua recentemente concordata, tra capitale e lavoro, non reggeva più. Nel maggio del 1968 in Europa fu la Francia l’epicentro della grande rivolta, operaia e studentesca92. Il rimbalzo delle vicende francesi si trasferì in altri grandi paesi come la Germania e l’Italia. In precedenza, in alcune delle principali università degli USA la contestazione era apparsa in maniera rumorosa. Inoltre si verificò l’estendersi delle lotte di liberazione nazionale contro le potenze coloniali, sfociate, di frequente, in lotta di popolo 92

La contestazione, partita da Nanterre e dalla Sorbona, aveva finito per incrociarsi con le lotte e le proteste esplose nei più grandi complessi industriali del Paese. Grandi manifestazioni di popolo, con centinaia di migliaia di manifestanti, sembravano sancire una nuova unità di classe tra studenti ed operai. Una protesta, particolarmente aspra ed estesa, sarà più avanti circoscritta e repressa dal ritorno sulla scena del generale Charles De Gaulle.

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armata contro le potenze imperialiste. La guerra del Vietnam finì per acquisire la dimensione più carica, fra tutte, di simbolica valenza, fattore ideale d’identità e straordinaria suggestione per la creazione di un nuovo orientamento politico tra le masse giovanili del vecchio e del nuovo continente93. Il Presidente Ho Chi Min sembrava fisicamente esprimere il simbolo di milioni di persone in marcia verso la libertà, l’effigie del Nuovo Mondo che andava costruito. Straordinario apparve il fatto che un piccolo paese, scarso di mezzi, ma armato di uno straordinario orgoglio nazionale, avesse deciso di combattere per la propria indipendenza prima contro il dominio francese e poi contro gli USA. L’effetto simbolico fu il più potente collante per le nuove generazioni. Ho Chi Min, Che Guevara, Mao TseTung e la rivoluzione culturale cinese, le guerre contro il dominio coloniale in Africa, nel Congo, in Guinea, in Angola, apparvero le scansioni convergenti di quel mondo in movimento. Nel mondo occidentale le università divennero il cuore pulsante della contestazione. Berkeley, Francoforte, Nanterre e la Sorbona videro l’impegno di un nucleo di intellettuali quali Foucault, Touraine, Morin. Iniziava una critica pungente ed affinata ai processi di burocratizzazione delle forme più brutali e ingiuste del potere, all’ovest come all’est. Herbert Marcuse, MaxHorkheimer, Theodor W. Adorno, Bertrand Russell, Jean Paul Sartre, giovani dirigenti del movimento studentesco quali Rudi Dutschke e Daniel CohnBendit, divennero leaders di masse giovanili alla ricerca di riferimenti, di diverse ed originali identità. I successi delle lotte di liberazione nazionale sembravano dimostrare la praticabilità di una strada, diversa ed alternativa, allo stanco, 93

Nel Vietnam, il 16 marzo 1968, durante la presidenza Johnson, a cui il 5 novembre 1968 succederà Richard Nixon, era stato compiuto l’orrendo massacro di My Lai, il caso più eclatante di genocidio di donne, vecchi e bambini nella penisola indocinese. Un’identica emozione suscitarono le foto pubblicate in America dalla rivista LIFE il 3 settembre 1969. Esse mostravano le crudeli atrocità commesse dai soldati americani nel villaggio vietnamita di Song My. Le immagini fecero rapidamente il giro dell’America e del mondo, procurando un orrore e un’emozione profondi per la carneficina praticata senza alcuna ragione, del tutto inutile da un punto di vista squisitamente militare. Crebbe a dismisura la solidarietà per i combattenti vietnamiti, mentre il governo americano vide accentuarsi il proprio isolamento.

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distante e inefficace parlamentarismo dei sistemi politici dominanti. Nacque un nuovo mito, in Italia. Quello della “Resistenza tradita”. La lotta di liberazione nazionale, che tanto sangue era costata, lungi dall’aver prodotto l’agognata giustizia e libertà, aveva piuttosto comportato il reiterarsi di disuguaglianze ed ingiustizie. I padri erano rei e responsabili di tale situazione. In Italia il Partito, la forza che aveva optato per l’avanzata parlamentare, democratica e pacifica al socialismo, e che aveva in tal senso compromesso l’idea, palingenetica, della rottura rivoluzionaria e della liberazione dell’uomo, divenne oggetto di critica frontale. Un’analisi asciutta, schematica e stroncante, che non concedeva appello alla principale forza politica organizzata del movimento operaio. Nel movimento, magmatico e complesso, si miscelavano molteplici elementi variegati, forti contraddizioni, un indistinto condensato di anarchismo ed anti-autoritarismo. Nel magma convivevano distinte posizioni, da quella anarchica a quella operaista fino all’altra che, richiamando la rigorosa, letterale e dogmatica lettura dei testi leninisti, sembrava porsi l’immediato obiettivo del passaggio dalla spontaneità all’organizzazione. In una tale visione fu posto all’ordine del giorno il problema di creare un nuovo e diverso partito della rivoluzione, rigidamente strutturato per interne gerarchie, duramente polemico verso le rappresentanze ufficiali delle forze politiche della sinistra storica. Si glissavano del tutto tematiche e problemi, come quello della centralità della persona o della difesa e della tutela dell’ambiente, che si sarebbero affrontate solo un decennio dopo.L’insieme delle forze politiche, incluse quelle di sinistra, apparve per più versi impreparato a fronteggiare l’inedita ed imprevista situazione. Comunque, in quella stagione aumentò a dismisura, come mai forse in passato, il desiderio di conoscenza e di una cultura non filtrata, la lettura di libri e di riviste. Numerosi fogli e varie riviste videro la luce, strumenti che sollecitavano l’esercizio di una nuova critica, aumentò la propensione e l’attenzione per ogni manifestazione di cultura d’avanguardia. I giovani rifiutavano idee e ispirazioni che avevano plasmato il comune sentire delle generazioni appena antecedenti. Il 68 in-

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trodusse una scomposizione, anzi una netta frattura, nel percorso di trasmissione della cultura tra le generazioni. L’immenso patrimonio costituito dalla grande cultura borghese, in larga parte sconosciuto, appariva come un concentrato di nozionismo inutile e dannoso, qualcosa di cui ci si dovesse sbrigativamente liberare. Veniva avvertita come distante e vacua, priva di senso e di valore, la ricerca, l’impostazione storiografica, proposta da tempo dalla sinistra storica, di ancoraggio all’idea di “nazione” ed ogni riferimento, giudicato retorico, nel solco delle tradizioni risorgimentali, veniva spesso, disinvoltamente o arbitrariamente, confuso con posizioni che apparivano d’ispirazione nazionalista e che, pertanto, andavano espulse. Si palesava una esplicita alterità ed un’assoluta distanza dall’idea di “Patria” e di “Stato Nazionale”. Un legame d’analisi teorica più intenso veniva ricercato nel riferimento al concetto di “Classe”, inteso in una dilatazione internazionale. In quel frangente, il Partito Comunista Italiano esplicitò al proprio interno due diverse e distinte posizioni. Intervenendo su “Rinascita”, la rivista teorica del Partito, Giorgio Amendola94 parlò del concreto rischio della riedizione di un “nuovo sovversivismo” e del pericolo di un “fascismo rosso”, mentre Longo apparve più problematicamente aperto alla discussione ed al confronto ed anzi sembrò sollecitarlo95. 94

Il 28 giugno 1968, su “Rinascita”, aveva sostenuto che “il modo di esprimere comprensione per il travaglio dei giovani non è quello delle facili civetterie. Occorre porsi, invece, sul piano della responsabilità. V’è un atteggiamento molto diffuso tra gli anziani, che vuole apparire di larga apertura: commettano pure i giovani i loro errori, lasciamoli fare, ci penserà l’esperienza a correggerli… il fautque la jeunesse s’amuse, poi metteranno la testa a posto, penseranno alla carriera…”. Per Amendola il problema studentesco era un problema nuovo, determinato dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Il sistema capitalista aveva bisogno, per la propria sopravvivenza, di un numero crescente di intellettuali che avrebbe tentato di legare sempre più a sé, assicurando loro condizioni particolarmente favorevoli di vita e di lavoro. Essi invece esprimevano un bisogno profondo di autonomia e libertà, che quel modello di produzione e di sviluppo non poteva garantire. In ciò la vera ragione dell’acuta contraddizione venuta in emersione. 95 In quegli anni, e per diverso tempo, la guida del Paese è nelle mani della DC che, forte di un consenso consistente, darà vita con Leone e Rumor, alternativamente, a governi di coalizione insieme con il PSI e il PRI o a governi

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La scelta di campo appariva in ogni caso definita. La nuova generazione non si sarebbe più confusa nel magma dei vecchi simulacri del retrogrado potere borghese occidentale. L’Oriente era il nuovo orizzonte alternativo da esplorare, da assumere a modello. La radicalità, l’assenza di zone “grigie” e problematicità, impedivano di dispiegare lo sguardo, con critica attenzione, verso l’altro gigante del mondo, il sistema socialista, che aveva nell’URSS il proprio principale referente. L’utopia dogmatica circa la realizzabilità di una società nuova, di uomini liberi ed eguali, finiva per mischiarsi con gravi errori, parzialità, ideologismi giustificanti orrori e aberrazioni. Oltre che Mao TseTung, finiva per esaltarsi addirittura Stalin e una sua presunta “funzione progressiva” esercitata nella storia, la palingenesi della dittatura proletaria quale antidoto, risolutivo e finale, ad ogni persistente prevaricazione ed ingiustizia che continuavano a sussistere nel mondo. Una visione delle cose, sostanzialmente manichea, che, di per sé, sembrava escludere la possibilità di eventuali intermedie sfumature. In tal modo, evidentemente, pur sollevando in superficie critiche ed obiezioni alla “politica imperiale” del grande colosso comunista, non potevano essere colti (ed anzi venivano negati) i segni premonitori di una crisi profonda che, poco più di due decenni dopo, avrebbe investito alla radice l’URSS e l’insieme dei paesi satelliti. Non esisteva neppure la vaga consapevolezza del lento avanzare e strutturarsi di una crisi politica, economica e sociale acutissima, che avrebbe prodotto la disgregazione e la fine dei regimi del “socialismo reale”. Uno sgretolamento di sistema che avrebbe dato avvio ad un massiccio processo migratorio, dall’Est ai maggiori paesi dell’Europa Occidentale, e che avrebbe investito in pieno l’Italia. Crebbe il protagonismo di massa nelle scuole e nelle fabbriche, fu messa in crisi la prassi, consueta, della delega ad altri sulla legittimità delle decisioni. Ciascuno si sentì, per una breve stagione, protagonista delle proprie scelte, del proprio destino personale ed insieme parte attiva della costruzione di un futuro

monocolore. Nel 1972 l’indirizzo del governo Andreotti- Malagodi sarà invece decisamente più orientato verso destra.

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collettivo. Il privato finì per confondersi col pubblico, fin quasi ad annullarsi. Contestazione e rifiuto radicale si considerarono unico antidoto alla passiva e subalterna integrazione. L’idea di una democrazia di massa, diretta e alternativa, sembrava l’unica modalità in grado di fare assumere orientamenti e decisioni condivise. Le sedi formali della democrazia rappresentativa vissute come luoghi sempre più asfittici e privi di autorevolezza, svuotati di effettivi poteri e di funzioni efficaci. Dal caos prodotto a piene mani sarebbe emersa la nuova società. La fase vede, altresì, la nascita e lo sviluppo dei gruppi extraparlamentari proliferati a sinistra del PCI, nati all’indomani delle lotte della fine degli anni ‘60 dal movimento studentesco, un periodo che volse in breve al termine, a causa dell’incapacità di far convergere quelle diverse formazioni verso un unificante progetto, politico ed organizzativo, che avrebbe potuto garantirne la tenuta. I tentativi, rari in verità, di ampliare radicamento e consenso ricorrendo alla partecipazione alle elezioni, naufragarono. La scelta di partecipazione alle elezioni di alcune di queste organizzazioni extraparlamentari si rivelò un fallimento. Iniziarono la crisi e l’interno sgretolamento dei gruppi, le cui componenti giovanili si orientarono, in prevalenza, verso gli approdi sicuri delle grandi formazioni della sinistra storica, i comunisti ed i socialisti. Soltanto sparute minoranze rigettarono la strada dell’“entrismo”, optando, in genere, per due distinti orientamenti: chi circoscrisse nel tempo quel tipo di esperienza militante, riprendendo la via della normalità, ritagliandosi nuovi spazi nello studio e nella ricerca di sbocchi professionali nei vari campi di attività. Un manipolo, ristretto, rifiutò, invece, una tale prospettiva e scomparve, finendo per eclissarsi nelle nebbie. Frange assai limitate e circoscritte, di scarsa consistenza, che avevano deciso di imbracciare nuove strade, rischiose, avventuriste, senza ritorno alcuno. Il passaggio alla clandestinità e l’approdo alla lotta armata con l’adesione al Partito Comunista Combattente. Troppo lunga e dolorosa è stata nel nostro paese la stagione sanguinosa del terrorismo e numerose le vittime che hanno costellato strade e piazze delle città italiane. Fatto è che il paese visse una stagione in cui ben altro che scontata fu la capacità di far fronte a questo gravissimo pericolo, i-

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nedito per la democrazia italiana, senza che fosse messa mortalmente a repentaglio la solidità dello Stato democratico. Solo la costruzione e la messa in campo di un esteso, determinato e compatto movimento di massa, di un fronte unitario, garantito dall’azione convergente delle forze politiche e sociali democratiche, consentirono l’isolamento e la messa in crisi di una tale “strategia”, il suo isolamento, la sua sconfitta. L’obiettivo strategico e simbolico che si intendeva perseguire, l’attacco mirato che puntava a scompaginare “il cuore dello Stato imperialista” per fortuna alla fine fu sventato. La violenza verbale, gli echi dell’Autunno caldo, le università e le scuole bloccate nelle loro funzioni educative e pedagogiche, lo scontro di frequente artificialmente esasperato, la comparsa dei primi episodi di terrorismo politico che prendeva di mira, in prevalenza, dirigenti industriali, magistrati e giornalisti, non risultarono indifferenti alla modificazione degli orientamenti dell’opinione pubblica in senso più marcatamente conservatore e moderato. Il clima di paura finisce per favorire sempre le forze più retrive e reazionarie, non certo le forze di progresso. E’ nel 1972 che, non a caso, dopo i successi elettorali della sinistra negli anni appena antecedenti, si verificò la svolta a destra del Paese. Il 1972 nacque il governo di centro-destra AndreottiMalagodi, prodromo ad un diverso orientamento. La “maggioranza silenziosa” divenne il convitato di pietra che operava per il ripristino delle condizioni di ordine antecedente alla stagione delle grandi lotte studentesche ed operaie della fine degli anni ‘60. Un vento di restaurazione attraversò allora in lungo e in largo la nazione.

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Eboli, maggio 1974, a proposito del libro di Alfonso Conte, La Rivolta popolare di Eboli (4-8 maggio 1974) Nel maggio 1974 l’improvvisa decisione del governo di spostare l’investimento auto di Fiat, inizialmente previsto ad Eboli, nella Piana del Sele, con una occupazione stimata in oltre 3000 persone, a Grottaminarda, in provincia di Avellino, diede luogo ad una spontanea e violenta protesta popolare che si materializzò, in 4 giorni di lotta ininterrotta, nell’occupazione delle strade interne di collegamento e della stessa autostrada Salerno - Reggio Calabria. Fu una rivolta che, riesumando le precedenti forme, già sperimentate, di lotte bracciantili, divise plasticamente in due il Paese.Una protesta, rabbiosa, esplosa in relazione ad un solenne impegno del Governo, poi venuto meno, vissuta, immediatamente, come oltraggio insopportabile da parte dei cittadini di quella comunità. L’ennesima occasione di impegni assunti a cuor leggero e poi venuti meno, in spregio alle attese ed alle speranze di un’area territoriale e di una comunità che già iniziava a percepire l’inizio dell’inversione di un ciclo economico positivo antecedente e che si era manifestato, con crescita consistente di salari e di consumi, durante il grande boom economico degli anni 60. Il contesto d’insieme in cui s’inquadra la vicenda è stato ricostruito, in maniera accurata nella sua pubblicazione da Alfonso Conte, a cui va riconosciuto il merito di aver sgombrato il velo di un lungo silenzio accumulato. Più aspetti e tesi presenti nel volume - in specie a proposito della descrizione dello scontro a quel tempo esploso tra i diversi potentati della DC campana, tesi ad intercettare risorse d’investimenti industriali consistenti per i loro rispettivi territori di riferimento, sono da condividere senz’altro. Oltre a quanto già scritto, a me pare che c’è da considerare ulteriormente il fatto che il contesto d’insieme era condizionato fortemente dai cambiamenti del quadro politico nazionale quali s’erano materializzati in precedenza, nel 1972.

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S’era determinata infatti allora una secca svolta a destra nella direzione politica del paese, con la formazione del Governo Andreotti-Malagodi, nel mentre s’era arrestata la fase di avanzata progressiva della sinistra, ed in specie del PCI, registrata nelle tornate elettorali precedenti. Al Governo Andreotti-Malagodi era poi succeduto il Governo di centro sinistra, guidato da Mariano Rumor, costituito da una coalizione DC, PSI, PSDI, e con l’appoggio esterno del PRI. Ulteriore elemento di rilievo, forse il principale, era quello verificatosi a livello internazionale, con l’esplodere della crisi petrolifera ed il vertiginoso aumento del prezzo del petrolio, che aveva inciso in maniera potente sulla tenuta e la capacità competitiva del sistema industriale dei paesi maggiormente sviluppati. L’inedito processo iniziava di converso ad introdurre- per la prima volta- interrogativi e quesiti sulla bontà e l’inalterabilità del modello di sviluppo adottato ormai da tempo nei paesi ad avanzato sviluppo industriale, ruotanti intorno all’insostituibile ruolo del petrolio. Era stata devastante la vicenda del 1973, con l’accentuarsi della crisi energetica susseguente al conflitto esploso tra arabi ed israeliani L’Italia era stata investita in pieno e frontalmente dall’esplodere di queste contraddizioni nuove. Per fronteggiare ed isterilire, al meglio, l’impatto della crisi, con il vertiginoso aumento del prezzo del petrolio che ne era derivato, vennero adottate scelte rivolte al deprezzamento ed alla svalutazione della lira, in modo da favorire le esportazioni delle aziende industriali nazionali, assieme a scelte contestuali di misure rivolte all’immediato risparmio energetico ( le domeniche a piedi).In genere comunque si ritenne che si trattasse di una delle cicliche fasi di crisi dell’economia, già più volte vissute nei decenni precedenti, e che l’andamento ascendente e virtuoso della produzione e dei consumi sarebbe ben presto ritornato nella norma. Non fu colto a pieno l’elemento di sostanza, il salto di qualità determinato, ovvero che iniziava a mostrare le sue profonde crepe e le sue gracilità un meccanismo di sviluppo da più parti

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considerato eterno e inalterabile, il migliore tra quelli che si potesse realizzare. Soltanto poche voci si staccarono dal coro, iniziando a valutare l’opportunità di perseguire strade altre, alternative e in buona parte inedite. Appariranno allora, per la prima volta, parole d’ordine nuove ed originali, oltre a quelle del ricorso obbligato al risparmio energetico, dell’ecologia e della maggiore tutela dell’ambiente, insieme alla ricerca di nuove e diverse fonti alternative. Espressioni che inizieranno a circolare sempre più di frequente nel linguaggio corrente e che, in più di una circostanza, daranno luogo all’emersione di nuovi conflitti e contraddizioni, tra rigida difesa del lavoro, per come esso era, anche quando produceva inquinamento, e difesa della salute e dell’ambiente. In realtà, comunque, politiche di risparmio energetico obbligate vennero varate da tutti i paesi maggiormente industrializzati e sviluppati del pianeta. Non è pertanto ininfluente l’insieme di queste novità nell’indurre la Fiat a ridimensionare i suoi antecedenti piani di sviluppo ed a puntare non più sull’auto nella stessa quantità di volumi produttivi, quanto piuttosto su linee di produzione e prodotti parzialmente alternativi, seppure sempre incentrate sul sistema nazionale del trasporto. In ogni caso è allora che il Governo Rumor inizia a valutare diversi percorsi di sviluppo produttivo, a cominciare dall’avvio di un piano nazionale di costruzione di centrali nucleari. Per tentare di completare il quadro fin’ora tratteggiato è il caso di aggiungere il persistere di una fortissima tensione nel paese, una condizione di trascinamento persistente della “strategia della tensione”, che si arricchiva di nuovi capitoli come quello del rapimento Sossi, episodio purtroppo non circoscritto ed isolato in quanto tale. Ed ancora e soprattutto c’è da considerare che poco più avanti rispetto ai fatti ricordati in questa circostanza, più o meno negli stessi frangenti temporali, verranno scritte ulteriori pagine amare e dolorose della nostra recente storia nazionale, dalla strage di Brescia all’attentato al treno Italicus a Bologna.

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Una scia dolorosa di sangue, di dolore e distruzione, i cui ispiratori resteranno in genere impuniti. I fatti di Eboli, senza dubbio gravi, pur tuttavia, di fronte alle periodiche esplosioni di rabbia incontrollata che hanno punteggiato ciclici passaggi della storia unitaria del Paese e in specie del nostro Mezzogiorno, costituiranno un’evidente anomalia. Non si verificheranno infatti allora, a differenza di ciò che in precedenza è già accaduto a Battipaglia, a l’Aquila ed a Reggio Calabria, città protagoniste di rivolte d’ispirazione campanilista ed eversiva, episodi di violenza inconsulti ed incontrollati contro le Istituzioni e l’insieme del sistema dei Partiti. Né saranno i Sindacati il bersaglio violento della rabbia popolare. Il piano, auspicato, ovvero lo sfarinamento della tenuta democratica, perseguito da gruppi reazionari ed eversivi, pur attivi nella fase iniziale dei moti ricordati, non si realizzerà. Si può anzi rilevare, col dovuto distacco oggi consentito dal tempo che è trascorso, che in quella circostanza i Sindacati e le stesse forze della sinistra storica manifesteranno grande responsabilità, maturità, serietà, autorevolezza, capacità di direzione. Interverranno direttamente nella contraddizione esplosa, riuscendo ad impedirne la deriva. E risulteranno decisive, mettendo in campo la forza organizzata del movimento sindacale campano, in specie tramite la FLM, da un lato nel sostenere e fare proprie le ragioni di una lotta i cui contenuti di sostanza sono giusti, e poi nel convogliare il movimento, esploso ed in procinto di poter degenerare diventando violento ed incontrollato, nell’alveo di una lotta civile e democratica. Un ancoraggio ed una continuità col carattere ed il senso di lotte popolari e democratiche, partecipate e consapevoli, che si collegavano idealmente a quelle già vissute in passato nei territori della Piana. Se c’è una distinzione da segnalare rispetto all’accurata e seria ricostruzione dei fatti proposta da Alfonso Conte, essa consiste proprio nel ruolo e nella funzione da assegnare, in quella particolare circostanza, al Sindacalismo Confederale ed alle stesse organizzazioni della sinistra storica salernitana e campana. Una ricostruzione più equilibrata e approfondita, su questo aspetto, eviterà il rischio dell’unilateralità e di una lettura dei fat-

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ti che potrebbe alla fine, in parte almeno, risultare piuttosto sbilanciata e ingenerosa. Non sempre, negli anni a venire, in verità, si sarà in grado di dimostrare la stessa capacità d’analisi delle tendenze in atto e di lucidità d’intervento nel modo di relazionarsi ai fatti che si svolgono nel mondo che c’è intorno, ai tanti e aggrovigliati problemi che in esso si muovono incessanti. Più avanti non di rado indubbiamente si smarrirà, almeno in parte, la capacità di tempestiva comprensione e di capacità d’azione preventiva e di contrasto alle diverse dinamiche che si metteranno in moto. Ci si vuol riferire in specie all’accelerazione dei processi di deindustrializzazione ed alle ulteriori lotte che si svilupperanno in difesa delle industrie e del lavoro. Episodi ulteriori che confermano il fatto che giusta e corretta fu l’azione delle forze sociali, potente collante dell’unità popolare e in specie del mondo del lavoro, decisiva garanzia della civile convivenza e della democrazia. I blocchi stradali andavano rimossi, assolutamente. A tale scelta non c’era alternativa. Protraendosi ancora quella situazione, sarebbe prevalsa senz’altro l’opzione del ricorso all’uso della forza da parte dello Stato, determinando- di conseguenza - un ulteriore frustrazione, ed un senso amaro di resa e d’impotenza, che si sarebbe sommato alle tante precedenti sconfitte e delusioni. La situazione odierna è certo oggi assai diversa. Per più versi essa è anzi addirittura ulteriormente peggiorata. Nel mentre, come è stato opportunamente ricordato nelle importanti relazioni stasera presentate e nei vari interventi che si sono succeduti, nel 1974, la disoccupazione media si aggirava intorno al 6,7%, essa è oggi globalmente quasi raddoppiata, sfiorando il tetto del 12%. Essa si configura, in specie nel mezzogiorno del Paese, in larga prevalenza, come disoccupazione giovanile e femminile, con una forza lavoro potenziale ben più qualificata di quella di quel tempo. Un mondo, per lo più sommerso e silenzioso, che appare privo di qualsiasi, incoraggiante prospettiva. Conclusa la stagione dell’intervento straordinario, e quella in larga parte andata in crisi dei “poli di sviluppo”, è acuta, urgen-

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te e indifferibile la necessità d’imboccare una strada diversa e innovativa. Il Sud, pressoché scomparso dalle cronache della stampa e dal dibattito politico e culturale nazionale, deve dotarsi con urgenza di un nuovo progetto di sviluppo produttivo, individuando una diversa via per tentare finalmente di arginare e battere un declino già scritto e che oggi per più versi continua ad apparire inesorabile. Non è questa evidentemente l’occasione per avviare una discussione approfondita in tale direzione. Si può forse soltanto anticipare, come puro richiamo ad un possibile capitolo, tutto da scrivere e da riempire nell’articolazione dei suoi interni contenuti, che bisogna agire con urgenza, ed in maniera per così dire preventiva, facendo in modo che, nel prossimo futuro, non abbiano più da registrarsi, nuove esplosioni di rabbia e di sdegno improvvise, disperate e incontrollate. In tal senso una rinascita ed un nuovo sviluppo non può prescindere dal rilancio del tema della cultura e della sua valorizzazione, diffusa e capillare, nelle sue distinte forme ed espressioni, dal tema della difesa dell’ambiente e della sua tutela e promozione, dalla massiccia promozione del grande patrimonio archeologico, ancora troppo poco valorizzato, promosso, conosciuto. Un nuovo capitolo d’elaborazione e d’azione, che per più ragioni a me pare di stringente valore e attualità, su cui obbligatoriamente ritornare, in ben altro modo e meglio, in altra, futura circostanza.

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La chiusura della Marzotto Sud, novembre 1983 Dopo una lunga e sotterranea incubazione, i cui antefatti s’erano già manifestati, in maniera aspra e significativa nel 1978, nell’Ottobre 1983 esplode la vicenda Marzotto. Lo stabilimento di Salerno, diretta diramazione dell’antico gruppo Veneto fondato a Valdagno nel vicentino nel 1836, al tempo degli Asburgo, con un atto assolutamente repentino ed inedito rispetto alla prassi, ormai consolidata, del ricorso al confronto ed alla contrattazione negoziata tra le parti, all’improvviso viene posto in liquidazione. I circa 1200 lavoratori sono tutti licenziati senza preavviso. La crisi industriale, che già dalla fine degli anni 70 e nel corso dei primi anni 80 aveva iniziato ad investire in maniera sempre più incalzante la Provincia di Salerno, la Regione Campania, il Mezzogiorno, diviene una voragine. Lo spettro della disoccupazione si manifesta, improvviso, in tutta la sua drammatica crudezza. Un colpo di maglio improvviso che si abbatte su tutta la realtà economica, produttiva, commerciale della comunità locale. Lo stabilimento di Salerno era nato nel 1958 assurgendo in breve tempo a simbolo di quella politica dei poli di sviluppo e dell’industrializzazione meridionale che avrebbe dovuto concorrere alla certa e progressiva riduzione del deficit di modernizzazione e di sviluppo accumulato- dall’unità d’Italia in avanti- dal Sud del Paese, con la sua diffusa e persistente arretratezza, rispetto alle aree ben più progredite del Centro e del Nord . Ampie e consistenti erano state le agevolazioni e molteplici i benefici statali assicurati agli imprenditori che negli anni 60, proprio in conseguenza della politica dei “poli di sviluppo”, avevano deciso di insediare nuove aziende o segmenti di attività decentrate nel Mezzogiorno d’Italia. Grandi agevolazioni sull’acquisto e sull’uso dei suoli, aiuto diretto alle imprese, leggi specifiche e di vantaggio per la grande industria privata promulgate in maniera mirata, questo il contorno d’insieme all’interno del quale l’imprenditoria settentrionale più affermata aveva finito per valutare -con favore- l’utilità

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di movimentare propri investimenti per la realizzazione di nuovi insediamenti. Diffusa tra le grandi famiglie del capitalismo nazionale era la convinzione dell’esistenza di condizioni di partenza particolarmente vantaggiose per la crescita di utili e di profitti. D’altra parte la decisione di trasferire parte delle attività industriali dei grandi gruppi dal Nord al Sud, realizzata grazie alla decisiva mobilitazione nazionale delle forze operaie e sindacali, per la dimensione delle operazioni in tal senso effettuate, aveva concorso - in maniera significativa seppur non sufficiente - a dare una risposta importante alla domanda di lavoro sempre particolarmente elevata nella realtà territoriale salernitana. Una situazione nella quale del tutto limitate, ed in ogni caso minoritarie, erano storicamente apparse le attività industriali rispetto agli altri comparti e tipologie di attività agraria, commerciale, artigiana fino ad allora in larga misura prevalenti. La composizione della forza lavoro nei nuovi insediamenti, questa l’altra specificità, era in larga maggioranza femminile. Nella fase di nascita della grande azienda di abbigliamento salernitana si procederà alle assunzioni con metodi spesso segnati da forti elementi di discrezionalità e di clientelismo. L’intervento della proprietà dell’azienda veneta si caratterizzerà, già dal primo impatto, per una sua filosofia particolare proiettata ad inglobare, in maniera sostanzialmente subalterna alla logica d’impresa, le forze del lavoro con le loro organizzazioni. La famiglia Marzotto aveva già da tempo creato un autentico impero industriale nel settore tessile e dell’abbigliamento. Il cuore e la testa dirigente del gruppo erano saldamente collocatati nell’area veneta di Valdagno, nel vicentino. La qualità delle relazioni industriali sviluppata da parte di questo gruppo industriale nei confronti dei lavoratori di quella realtà era stato caratterizzato, fin dalle origini, da una impostazione peculiare nella quale evidente appariva una mistura, ben miscelata, di paternalismo e di autoritarismo. Il gruppo Marzotto, ben combinando i due fattori, aveva espresso una particolare cultura, esercitando un’evidente e penetrante egemonia su larga parte delle proprie maestranze portate, in

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maniera ben più profonda di quanto era accaduto altrove, ad identificare -integralmente- il proprio destino con quello dell’impresa. In tal modo rinunciando - di frequente all’esercizio di una distinta ed autonoma funzione sindacale verso la proprietà. Un progetto che era stato in sostanza realizzato. Bassa era in tal modo sempre risultata la conflittualità operaia ed i lavoratori avevano finito per assumere, assai spesso, atteggiamenti di mero se non passivo collateralismo al ruolo ed alle decisioni dell’ impresa. Di essa si accettava, in maniera sostanzialmente integrale, ed anzi si subiva, la funzione direttiva ed all’azienda, con l’articolazione dei propri bracci dirigenti operativi, ci si affidava con una delega in bianco quasi assoluta. Sostanzialmente ininfluente era perciò risultato il ruolo operaio sui temi, in quegli anni decisivi, dell’organizzazione del lavoro, sul controllo e la contrattazione dei ritmi di lavoro e, più in generale, del tutto marginale era apparsa l’azione di confronto e di contrattazione esercitata sul fronte della preventiva conoscenza di strategie e scelte operative di medio e di lungo periodo dell’impresa. Il gruppo tessile veneto aveva infatti sempre ritenuto non pertinente l’esercizio di alcuna funzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali sulla qualità degli indirizzi delle proprie opzioni industriali. Secondo l’azienda i lavoratori si sarebbero dovuti limitare a concentrare, in maniera pressoché esclusiva, la loro attenzione sui temi del salario e dell’incremento della produttività, sull’orario, sugli straordinari eseguendo con la massima perizia e precisione le mansioni loro affidate. Altri e più ampi livelli d’intervento dovevano essere per loro, di conseguenza, assolutamente preclusi. Una situazione che era andata avanti a lungo, senza nessuna significativa scossa o correzione, almeno fino al 1968, quando l’iniziativa del movimento sindacale per la realizzazione di migliori condizioni di vita e di lavoro, di salario e di tutela delle condizioni normative, di rottura degli equilibri antecedenti, aveva travalicato, nella stagione dell’autunno caldo, gli stessi cancelli della grande azienda di Valdagno. Si era però trattato

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solo di una breve e circoscritta parentesi, rapidamente rientrata nell’alveo della normalità. La funzione egemonica dell’impresa ed il consenso raccolto tra gli stessi lavoratori era stato sempre, in sostanza, recuperato ed anzi rinforzato. D’altra parte in quello che in origine era sembrato un processo, accelerato e progressivo, di crescita e di sviluppo pressoché inarrestabile era apparsa, in più circostanze, del tutto evidente la capacità del gruppo di operare, in maniera efficace e vincente, consolidando un ruolo ed una funzione di assoluto rilievo nella gerarchia industriale nazionale ed internazionale del settore. Il gruppo aveva infatti mantenuto - a lungo- la propria solidità, progredendo e rafforzandosi ulteriormente grazie ad una considerevole capacità di aggiornamento, qualificazione, competenza della propria struttura dirigenziale ed operativa. Una naturale ed elevata abilità nello svolgere funzioni d’impresa che, tramite un’insieme d’incisive coordinate, aveva fino a quel momento garantito - contestualmente - la tenuta delle aziende del gruppo ed i livelli complessivi dell’occupazione. Il “ patto ” oggettivamente contratto tra capitale e lavoro era a lungo proceduto attraverso lo “scambio”, consensuale, tra bassi salari alle maestranze e limitata produttività del lavoro. La parabola ascendente aveva poi iniziato a declinare, mostrando prime crepe, solo alla fine degli anni 70. La contestuale difficoltà rappresentata dall’emersione di una concorrenza più agguerrita in alcuni particolari segmenti produttivi e le prime avvisaglie di una preoccupante crisi di mercato, riversatasi sia a livello mondiale che sui mercati nazionali, aveva determinato la contrazione dei volumi delle vendite dei prodotti in serie. La crisi aveva dato luogo a prime considerazioni, da parte della proprietà, secondo cui non sarebbe stato più possibile mantenere, nella quantità garantita fino a quel momento, l’insieme dell’occupazione. Approfondimenti di merito, sviluppati dal management aziendale, avevano poi evidenziato l’esistenza di una produttività globale degli stabilimenti del gruppo del tutto inadeguata. Particolarmente critica era apparsa, in questo contesto, la situazione di Salerno, aggravata da un tasso medio di assenteismo

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“strutturale”, in ogni caso troppo elevato e dannoso se paragonato a quello presente nelle aziende della concorrenza più qualificata. I tempi di lavoro “morto” tra un’operazione e l’altra della catena produttiva assai estesi, frequenti le interruzioni e le strozzature interne al ciclo produttivo. In sintesi una situazione d’insieme non più compatibile con i tassi teorici aziendali di produttività ritenuti indispensabili per continuare a reggere, in maniera positiva e vincente, sui mercati. Gli azionisti, che nella prima fase di vita dell’impresa avevano accumulato utili elevati, si trovavano ora di fronte ad una situazione produttiva che aveva iniziato ad invertire in negativo la tendenza alla crescita. L’azienda “Issimo” di Salerno infatti ormai da qualche anno produceva perdite sempre più sensibili. Rilievi oggettivamente fondati ed obiettive strozzature del circuito produttivo sui quali però non si era voluto o riusciti ad intervenire con l’efficacia, la determinazione, la tempestività che erano invece necessari. Alla fine degli anni 70 si era così configurata l’obbligata indifferibilità di una ristrutturazione che avrebbe dovuto consentire l’assestamento della forza lavoro su un numero di occupati ridimensionato di qualche centinaio di unità. E’ il caso di ricordare che questa prima crisi dell’azienda è pressoché contemporanea ad un periodo torbido e drammatico per la democrazia italiana. La fase del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse che, al punto più estremo dell’attacco scagliato contro lo Stato italiano, daranno un’efficace e spietata dimostrazione della propria “geometrica potenza”. A Salerno tra il 24 ed il 25 Marzo del 1978, proprio pochi giorni prima del rapimento di Aldo Moro, era stato eletto Sindaco di Salerno il dottor Bruno Ravera. Un’elezione sollecitata e voluta, tra gli altri, dallo stesso Moro di un affermato e valente professionista che , pur riconoscendo in Nicola Lettieri il proprio riferimento politico , non era organica espressione di alcuna specifica corrente interna della DC. Ravera eserciterà una funzione di rilievo in questa fase della vertenza Marzotto riuscendo, col concorso e la collaborazione

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attiva ed efficace dei Sindacati confederali, a contenere - nella sostanza - l’entità del problema ed i rischi di caduta dell’occupazione paventati. Lo stabilimento dava a quel tempo lavoro a circa 1.400 dipendenti. E’ quella la fase in cui, per la prima volta dalla nascita dello stabilimento di Salerno, iniziano ad infittirsi gli incontri tra i sindacati e la proprietà non di rado alla presenza dello stesso conte Pietro Marzotto L’azienda denuncia l’esistenza di un tasso altissimo di assenteismo in larga parte dovuto al fatto che molto lavoro viene commissionato all’esterno ed in molti casi è eseguito dagli stessi operai “assenteisti ”. Marzotto, sostenendo di non riuscire più a fronteggiare la situazione, propone tagli occupazionali pesantissimi. La vertenza, trasferita al Ministero del Lavoro, si snoderà attraverso numerosi incontri con i rappresentanti del Governo, dal sottosegretario Giglio allo stesso Giulio Andreotti. Le rappresentanze sociali ed istituzionali cittadine sosterranno con energia e consensualmente il fatto che la città e la Provincia di Salerno, già da tempo segnate da una grave crisi occupazionale, non sono in condizione di sopportare un colpo di tali dimensioni. Le trattative procederanno nel mentre in parallelo, a Salerno, s’intensificheranno lotte e manifestazioni, che di frequente sfociate in blocchi stradali e ferroviari che incideranno sui servizi e sull’attività economica di tutta la collettività. L’esasperazione che si manifesta è accentuata dalla realistica consapevolezza dello scarsa incidenza dei danni limitati che, con gli scioperi tradizionali, possono essere inflitti al Gruppo Marzotto in una fase di stagnazione dell’economia. La vertenza troverà una parziale e temporanea composizione solo a fronte dell’impegno del Governo e della proprietà di recedere dal proprio progetto originario. Nel mentre infatti le parti finiranno per riconoscere l’esistenza di una situazione critica, di contrazione delle vendite per il settore abbigliamento, per l’impresa salernitana sarà per la prima volta sancita - in sede territoriale- un’intesa in cui veniva concordato che l’azienda veneta avrebbe creato nel territorio, in

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tempi stretti, alcune piccole imprese che avrebbero assorbito i lavoratori risultati eccedenti dalla ristrutturazione. Il primo accordo di mobilità, da posto di lavoro a posto di lavoro. Una mediazione - tampone resa ancora possibile dall’assoluta e generale indisponibilità di tutte le forze istituzionali e sociali salernitane ad accettare drastiche riduzioni di occupazione. A conclusione del 1978 si pattuiva in sintesi che gli “esuberi” avrebbero trovato collocazione in attività sostitutive del settore alla cui individuazione e realizzazione la proprietà avrebbe direttamente concorso, prefigurando un proprio diverso assestamento organizzativo ed operativo. Una risposta per un arco temporale ancora efficace e di contrasto alla linea auspicata dalla frangia più estrema del gruppo sostenitrice della drastica ed immediata liquidazione dei “rami secchi”. L’operazione immaginata si sarebbe realizzata senza traumi, in maniera consensualmente governata dalla proprietà e dai sindacati. Il saldo finale, a ristrutturazione conclusa, non avrebbe dovuto comportare alcun riflesso negativo sui livelli occupazionali globali antecedenti che, a finale consuntivo, sarebbero stati integralmente garantiti. Questi indirizzi saranno assunti e realizzati di comune accordo, dal Governo, poi rappresentato dal Ministro Enzo Scotti, dal padronato, dalle OOSS, seppure con l’esplicita manifestazione di prime, non ingiustificate riserve e preoccupazioni . Gli interventi programmati non risulteranno infatti sufficienti ad innestare, da quel momento in avanti, il circolo virtuoso auspicato atto a consentire la ripresa, la crescita e lo sviluppo produttivo dello stabilimento, garantendo continuità e consolidamento dell’attività produttiva. Nell’interregno, nel periodo intercorso tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 80, la crisi strutturale - a lungo contenuta - esploderà in tutta la sua devastante portata96. 96

Il dottor Bruno Ravera, nel periodo in cui ricoprirà la carica di Sindaco, si troverà a fronteggiare altre due delicate crisi aziendali, quella della Vernante Pennitalia e quella della D’Agostino, anch’esse espressione dei limiti d’origine e della estrema gracilità del processo di più recente industrializzazione dell’area salernitana. Nel territorio era assente una vera cultura industriale autoctona. Quasi nessun imprenditore era disponibile ad investire ri-

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Al quadro appena sfocatamene tratteggiato va aggiunto un elemento di considerazione supplementare, ovvero quello dell’atipicità dei lavoratori della Marzotto di Salerno e le notevoli resistenze che si manifesteranno nella creazione di un ampio fronte di solidarietà dell’insieme del mondo del lavoro operaio attorno a questa fabbrica. Alla fine degli anni 60 le imprese salernitane erano state protagoniste, come era del resto accaduto in tutto il Paese, di un grande sussulto mirante a disegnare nuovi rapporti di forza e di potere tra padronato e lavoratori. La battaglia per l’adeguamento dei salari, l’azione profusa per la rottura delle gabbie salariali, le mobilitazioni di massa per le riforme sociali avevano visto protagonisti i lavoratori delle aziende sindacalizzate dei vari settori manifatturieri, dai chimici, ai meccanici, agli edili, a larga parte degli stessi lavoratori tessili. S’era creata, sull’onda di questi movimenti, un’obiettiva mutazione dei posizionamenti precedenti delle classi medie, della piccola ed in parte della media borghesia che, mettendo in discussione antiche identità, aveva prodotto l’inizio della ricerca e della sperimentazione di nuovi ed inediti rapporti, di confronto, alleanza e di collaborazione, tra operai e studenti. Una strada nuova da percorrere per rinsaldare e rendere più forte e robusto il fronte della democrazia a Salerno, riducendo il potere delle varie consorterie politiche ed economiche che, dal secondo dopoguerra e fino a quel momento, avevano conquistato e detenuto nelle proprie mani le funzioni essenziali di direzione, condizionamento e di dominio sulla realtà locale. Un sussulto, forte e generoso, seppure denso di contenuti spesso magmatici, generici e confusi, che aveva aperto la strada a forti speranze di cambiamento. Gli operai della Marzotto erano apparsi invece sostanzialmente impermeabili, se non del tutto indifferenti, a queste sollecitazioni, un’anomalia nella geografia del movimento operaio e popolare locale.

schiando danaro proprio. Le multinazionali ed i grandi gruppi venuti a Salerno pur avendo ottenuto forti contributi ed agevolazioni statali, molto danaro e suoli gratuiti, liquidando promesse fatte ed impegni assunti, alle prime difficoltà opteranno per la linea dell’abbandono.

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Evidente era apparso il loro distacco dalle lotte e delle manifestazioni del resto della classe operaia salernitana che aveva iniziato a battersi per la realizzazione di un progetto di cambiamento e di riforme, per una società nuova, con minori discriminazioni e maggiore giustizia. Un vizio ed una responsabilità d’origine destinata a pesare non poco nelle fasi in cui la vertenza acquisirà l’asprezza e la drammaticità di cui si occuperà, diffusamente, la stampa nazionale, regionale e locale e che finirà per obbligare le organizzazioni sindacali e le forze politiche nazionali a ripetuti interventi e forti pressioni sul Governo centrale per ricercare una soluzione atta a scongiurare un dramma sociale devastante per le prospettive future della realtà locale. C’è da aggiungere ancora che in quegli anni l’Italia, pur avendo iniziato una fase declinante, non era ancora in una situazione di piena recessione. La “Issimo”era stata, per un certo periodo, dall’atto della sua nascita e fino a quel momento, un ottimo investimento e la proprietà aveva senza dubbio pienamente ammortizzato il capitale investito. La crisi, in una prima fase, troverà una sua composizione grazie al fatto che il Governo, prima con Andreotti, poi con Scotti e Giglio, forniranno una sponda esercitando una funzione di mediazione positiva. Senza un minimo di raccordo a quel livello già allora, nel 1978, la situazione sarebbe precipitata e non si sarebbe conseguito nessun risultato. Nel 1979 verrà varato un piano di riorganizzazione la cui realizzazione sarà affidata ad un nuovo capo del personale. Ad ogni modo le avvisaglie, da tempo abbozzate, e non prese a tempo nella giusta considerazione dalle stesse organizzazioni sindacali, si concretizzeranno alla fine dell’Ottobre 1983. E’ allora che, come è stato in premessa ricordato, la direzione affigge, senza aver dato alcuna preventiva informazione ai Sindacati ed ai lavoratori, in assenza di qualsiasi trattativa, un avviso ai cancelli della fabbrica in cui si comunica che l’azienda salernitana, con immediata decorrenza, è messa in liquidazione. Sono aperte, di conseguenza, le procedure di licenziamento per tutti i dipendenti.

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L’attività dello stabilimento è completamente soppressa ed il taglio della riorganizzazione produttiva procederà concentrando, d’ora in avanti, nella sola area di Valdagno, l’ attività produttiva svolta, fino a quel momento, nello stabilimento di Salerno. L’annuncio, per la sua durezza senza possibilità di replica, e per le sue inedite modalità, si abbatte sui lavoratori e sui sindacati come una deflagrazione. Si apre un durissimo conflitto che si snoderà per mesi, col ricorso ad azioni aspre e durissime, in un crescendo di manifestazioni innumerevoli, a Salerno, Napoli, Roma, Valdagno. Il susseguirsi di queste mobilitazioni s’articolerà con un piano di permanente coinvolgimento dei Comuni e delle Assemblee elettive, delle Istituzioni, delle delegazioni parlamentari. Pur con gli elementi di iniziale contraddittorietà di cui si è detto la vertenza Marzotto diviene, più di come è accaduto per tutte le fabbriche attraversate fino a quel momento dai venti della crisi, la vertenza di tutta la città ed assume immediatamente un’amplificazione, di rilievo nazionale, per l’entità della posta in gioco e per gli evidenti riflessi generali sul giudizio che se ne può derivare in relazione alla qualità della politica del Governo verso il Mezzogiorno. Si tratta di un messaggio, di scontro frontale, che può contagiare anche gli altri imprenditori. Ogni famiglia ha un familiare, un parente, un amico nella Issimo ed una eventuale sconfitta del movimento sindacale, con la perdita di tanti posti di lavoro, non può non avere gravissime conseguenze sul tessuto economico territoriale, già da qualche tempo stagnante. C’è tra i lavoratori un duplice sentimento, di rabbia e di sorpresa, per ciò che incredibilmente sta accadendo. La prima fase della vertenza, che immediatamente s’inasprisce con l’occupazione ed il presidio della fabbrica, portato avanti di giorno e di notte, con turni di pattugliamento dei lavoratori, si configura per i suoi interni connotati, come assolutamente drammatica. Si evidenzia da subito l’estrema difficoltà nel riuscire a riportare la proprietà sui propri passi in quanto essa, ferma nella propria intransigenza, rifiuta a lungo il confronto, il negoziato e qualsiasi trattativa con i rappresentanti dei lavoratori sottraendosi, sistematicamente, ad ogni discussione in sede

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istituzionale. Per l’azienda ed i suoi rappresentanti a Salerno, assunta l’ “irrevocabile decisione”, ogni ulteriore compito è concluso una volta affidato il proprio vincolante mandato ad un rappresentante liquidatore. L’azienda non ammette repliche nell’esplicitare, senza dubbi o incertezze, la propria decisione del totale disimpegno a Salerno e si rifiuta di prendere in considerazione una qualsiasi ipotesi, comunque difficilmente gestibile, d’ogni seppur parziale ripresa dell’attività produttiva dello stabilimento. Il conflitto che da quel momento, partendo dalla fabbrica, si riversa sulla città mette in evidenza l’esistenza di un altro livello parallelo, di un altro piano, per così dire collaterale, a quanto si sviluppa sul terreno specifico dell’iniziativa in fabbrica. Si esercita uno scontro, ideale e culturale, che s’incentra sul giudizio che si è consolidato in larga parte del comune sentire della città sulla storia di quei lavoratori e di quella impresa. Nel mentre in altre occasioni, come è sempre accaduto in tutti i passaggi decisivi della lunga vicenda delle Manifatture Cotoniere Meridionali e di tante altre aziende della città e della provincia di Salerno, la solidarietà popolare ed istituzionale era stata immediata e naturale, in questa circostanza fiorisce un pullulare di valutazioni critiche, di contraddittorietà innumerevoli, il molteplice proliferare di illazioni sulla storia e l’identità negativa di questa fabbrica. Larghe fasce di ceti professionali e di semplici cittadini sembrano orientarsi, senza remore, ad assumere, facendoli propri, i punti di vista schematicamente e brutalmente evidenziati dal gruppo Marzotto. I lavoratori della Issimo sono dipinti così, indistintamente, come improduttivi, profittatori, assenteisti, persone che non hanno alcuna volontà di lavorare e spesso, addirittura, abituate a sottrarre, all’uscita dalla fabbrica, le stoffe ed i capi di abbigliamento prodotti. Diffuso è il sentimento che attribuisce soltanto ai lavoratori ed alla loro presunta irresponsabilità la colpa della chiusura dell’azienda. Fioriscono, in questo clima, i luoghi comuni, spesso ad arte messi in circolo, sull’assoluta inaffidabilità dei lavoratori meridionali cui sarebbe estranea ogni etica del lavoro e qualsiasi responsabilità verso l’impresa, l’espressione perver-

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sa di una consolidata “cultura ed ideologia assistenziale” della realtà. Una campagna che, sparando alla cieca nel mucchio, si configura quale oggettivamente collaterale e di fatto sintonica e convergente a quella della proprietà. Essa deve in sostanza consentire, insieme, il conseguimento del duplice obiettivo dell’isolamento dei lavoratori e dei sindacati insieme alla chiusura, più rapida possibile, di tutto il contenzioso. D’altro canto appare chiaro come, di fronte alla pressoché totale ininfluenza di colpi che possono essere inferti a Marzotto sul piano specifico dei danni all’attività produttiva nel gruppo dei suoi stabilimenti, l’unico terreno su cui è possibile creare, da parte dei lavoratori di Salerno, una qualche forma di contraddizione e difficoltà resti esclusivamente il danno che può essere recato all’immagine di un imprenditore capace e di successo. L’unico terreno su cui appare possibile, in una qualche misura, incrinare un’identità vincente. E finirà non a caso per essere questa l’impostazione che assumerà, in maniera sempre più distinta, la difficilissima vertenza. La dimensione e la vastità del problema che si è aperto ha ovviamente imposto -ripetutamente- ai lavoratori ed ai sindacati l’obbligo della ricerca di un costante raccordo con la restante parte del gruppo. Ha obbligato alla programmazione, paziente e costante, delle più incisive azioni di lotta unitaria tra i sindacati confederali, ai vari livelli, locale, regionale, nazionale. Appassionata è perciò la discussione sui modi e sulle forme più utili per rafforzare la solidarietà tra i lavoratori salernitani ed il resto del gruppo, in particolare con i lavoratori veneti e le loro rappresentanze sindacali. Si moltiplicheranno, da quel momento in avanti, le occasioni di prese di posizione pubbliche convergenti verso l’obiettivo d’impedire la fine di una grande impresa e la definitiva condanna alla disoccupazione per oltre 1.000 lavoratori. Lentamente, ma in maniera sempre più forte ed estesa, si costruirà un ampissimo schieramento politico e sociale del mondo del lavoro e di tutte le forze politiche locali convergenti verso il comune obiettivo. Al riguardo va ancora considerato un ulteriore elemento su cui in genere negli anni a venire si caratterizzerà la lotta operaia contro la deindustrializzazione nel Mezzogiorno ed a Salerno.

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A differenza di quanto accade nel Centro Nord del Paese a Salerno, in Campania e nel Mezzogiorno i ripetuti supplementi di asprezza cui di frequente si ricorrerà trovano una plausibile spiegazione se solo si considera, con una qualche attenzione, il contesto socio - economico circostante. Un operaio espulso da un’impresa non trova più un’altra collocazione produttiva alternativa. Non è praticabile alcun processo di mobilità governata, da posto di lavoro a posto di lavoro. Chi esce dalla fabbrica ha davanti a sé due possibilità: la disoccupazione ed il lavoro nero o, nella migliore delle ipotesi, il ricorso alle provvidenze della cassa integrazione per un periodo di tempo più o meno lungo. Ciò spiega il carattere di scontro acuto che subito assumeranno le lotte contro la ristrutturazione industriale, con non rari episodi di ribellismo e di esasperazione sempre in sostanza controllati, seppur con qualche difficoltà e fatica, dalle Organizzazioni Sindacali. In realtà la comprensione della profondità delle ragioni del conflitto che si sta consumando pervade, in un arco temporale relativamente breve, l’insieme della società ed il complesso delle forze politiche, sociali, istituzionali, della cultura. Una netta presa di posizione a favore dei lavoratori della Marzotto sarà assunta dalla stessa Chiesa97 e dall’insieme delle au97

La prima presa di posizione ufficiale delle autorità ecclesiastiche si registra alla vigilia dello sciopero regionale dei tessili della Campania e del settore industriale del comprensorio promosso alla fine del 1983. L’arcivescovo Gaetano Pollio e l’Arcivescovo coadiutore Guerino Grimaldi, sosterranno che “Considerate le conseguenze che la decisione unilaterale di chiusura della fabbrica certamente avrà sulla situazione economica della città e delle famiglie dei lavoratori e sullo stesso ordine pubblico, riteniamo che tale decisione sia antisociale. L’interesse privato non può mai prevalere sul bene comune. Il licenziamento di oltre mille dipendenti sarà certamente motivo di ulteriori disordini e di più gravi prevaricazioni che turberanno la convivenza sociale”. “Giudichiamo che sia doveroso da parte delle autorità statali, delle forze politiche e sindacali e della stessa proprietà dell’azienda ricercare tutte le soluzioni possibili, anche alternative, per salvaguardare la produttività della fabbrica e il livello occupazionale , tenendo presente che l’uomo e il lavoro vengono prima del guadagno … Il signore illumini le menti di quanti hanno la responsabilità della vita sociale nel trovare soluzioni giuste ed efficaci per evitare a tante persone che hanno solo nel lavoro la fonte della loro vita e del loro avvenire, nuovi dolorosi bisogni e incertezze. Esortiamo vivamente i sacerdoti e

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torità ecclesiastiche locali. Passo dopo passo si rimodulerà un diverso e più favorevole atteggiamento dei mezzi d’informazione, anch’esso decisivo per la creazione, dopo le iniziali difficoltà, di un ampio, esteso e solido fronte di solidarietà. Si espliciterà uno scenario nuovo e ben più favorevole per i lavoratori che con la loro lunga lotta riusciranno ad ottenere prima la sospensione dei licenziamenti e poi l’apertura di un tavolo negoziale presso il Ministero del Lavoro che risulterà determinante nella finale decisione dell’intervento di salvataggio della finanziaria Gepi. L’accordo conclusivo risente, e molto, dell’influenza, pervasiva, di tutte le ragioni sociali messe in campo. La società salernitana, d’altronde, non è più in grado di reggere uno scontro frontale che si riversa, ormai quotidianamente, sul complesso delle attività economiche e commerciali cittadine. La soluzione a cui si perverrà finirà per garantire un reddito ai lavoratori, e per molti anni a venire. La fabbrica però non riaprirà mai più. Sarà ancora una volta perseguita una soluzione tampone, assistenziale e non produttiva, simbolico e replicato esempio del modo in cui i governi che di volta in volta si succedono intendono muoversi per la realizzazione dell’ ipotizzata linea dell’industrializzazione e del rilancio produttivo del Mezzogiorno d’Italia98. Il mercato del lavoro, con l’obiettiva crescita del lavoro nero, sarà reso ancora più asfittico ed instabile. Gli spazi di lavoro per i giovani, già a quel tempo assai contratti, si restringeranno ancora oltre nel mentre la società locale emarginerà, sempre di più, dal proprio seno, con la scomparsa della “Issimo”, una presenza produttiva ed operaia significativa ed importante. i fedeli, durante la celebrazione festiva dell’Eucarestia, a pregare per i lavoratori senza lavoro”, Il Mattino, 27 Ottobre 1983. Il quotidiano locale interverrà in maniera quasi quotidiana, informando dell’evolversi della situazione soprattutto con acuti e dettagliati pezzi del compianto Onorato Volzone, di recente scomparso. 98 La Filtea CGIL di Salerno riterrà ancora a lungo praticabile la realizzazione di una prospettiva di ripresa industriale, pur dimensionata, realizzabile, a fronte di precise decisioni politiche, con scelte di investimenti e di innovazioni adeguate. Ipotesi che non saranno però mai prese in seria considerazione né dall’azienda né dal governo.

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A differenza di quanto pur si sarebbe potuto immaginare il gruppo Marzotto, riuscito nell’intento di scaricare sulla collettività i costi sociali dell’operazione di chiusura della fabbrica di Salerno, acquisirà un nuovo slancio nella scalata ai vertici del settore tessile nazionale. Può perciò risultare di un qualche interesse la ricostruzione, seppure a larghi schemi, dell’evolversi della situazione e delle principali novità realizzate da quel momento in avanti nelle strategie del gruppo. Una volta conclusa la vertenza a Salerno Pietro Marzotto attuerà, per incorporazione, l’operazione di fusione della Bassetti ed il gruppo veneto accentuerà i propri caratteri di leaderschip nel settore dando vita ad un colosso industriale, di statura europea, in grado di fatturare - nell’agosto 1985 - oltre 800 miliardi di vecchie lire. Nel gruppo in quello stesso anno faranno il loro ingresso nuovi soci di minoranza che apporteranno oltre 50 miliardi di lire di danaro fresco. Nomi tutti di rilievo dell’imprenditoria e della finanza nazionale tra i quali spiccano la famiglia Ferragamo, particolarmente affermata nel campo della moda, la Bi-Invest, il già richiamato Gruppo Bassetti, la Banca Commerciale Italiana, Pirelli, l’Istituto San Paolo di Torino, la Banca Popolare di Milano. L’assemblea della Marzotto aumenterà inoltre il proprio capitale sociale da 40,8 a 47,6 miliardi. La famiglia Marzotto manterrà però ancora saldamente nelle proprie mani il controllo della società detenendo un pacchetto azionario superiore al 60%. Ferruccio Ferragamo e Piero Bassetti entreranno nel Consiglio di Amministrazione nel mentre la famiglia Bassetti, coi suoi vecchi e storici imprenditori lombardi, scomparirà dalla scena fagocitata dal gruppo Marzotto che già qualche tempo prima aveva eletto ai vertici della società Bassetti, Pietro Marzotto, insieme a Gianni Mion e Costantino Passerino, due funzionari dell’azienda di Valdagno. Marzotto si farà garante della Bassetti col sistema bancario, ne consoliderà i debiti e metterà in moto tutte le operazioni di rilancio produttivo ed industriale ritenute più opportune. Gli impianti Bassetti dovranno riprendere a produrre, a pieno regime, in un processo di integrazione produttiva e commerciale tra tutte le imprese del gruppo Marzotto -Bassetti. Nel campo del lino

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si stabilirà la collaborazione tra il Linificio Bassetti e la Zignago Santa Margherita (Marzotto) ed esse insieme riusciranno a coprire fino al 30% del mercato del lino dell’area dell’Ocse. Bassetti ha tradizionalmente lavorato il cotone, vende prodotti per la casa, Marzotto punterà invece sulla lana e sui capi di abbigliamento. E’ noto come il gruppo Marzotto ha forti interessi economici anche in altri svariati campi di attività, diversi dal tessile, dal vetro, col gruppo Zignago, fino alla catena alberghiera dell’Italjolly. Il giro di affari calcolato per il 1985 delle imprese che, a vario titolo, fanno parte del gruppo di Valdagno ammonta a 1.250 miliardi di lire valore 198599. La struttura del Gruppo nel suo complesso, nel 2002-2003, occupa attorno agli 11. 000 dipendenti ed il suo fatturato, sempre nel 2003, è stato di 1,74 miliardi di cui solo il 19% in Italia. Nel 2003 Marzotto ha chiuso l’esercizio con 19 milioni di Euro di utili. L’ascesa del Gruppo Marzotto, che in passato si era sempre caratterizzato per la grande coesione ed univocità d’intenti tra tutti i membri della famiglia, nel 2.002 inizierà a manifestare al suo interno prime forti e stridenti discrasie. Pietro Marzotto, leader indiscusso della famiglia, dopo aver guidato l’impresa per circa 25 anni, deciderà di vendere la propria quota di proprietà del 99

Il Sole 24 Ore,Articolo di Giorgio Lonardi del 3 Agosto 1985. Di tenore sostanzialmente identico gli articoli sull’accordo in cui si stabilisce il passaggio della Bassetti a Marzotto su “L’Unità” del 9 e 10 Luglio 1985. In essi sono indicate nel dettaglio le modalità con cui marchio e simbolo Bassetti saranno salvati dall’intervento Marzotto. La Finbassetti ( finanziaria che controlla tutto il gruppo) verrà ceduta, gratuitamente, alla Marzotto. L’attività continuerà e sarà gestita dal più solido gruppo tessile vicentino. Esso darà corso a drastiche operazioni di ristrutturazione e di ridimensionamento della vecchia impresa Bassetti. Marzotto dichiarerà che, con emissioni di nuove azioni e prestito obbligazionario, intende rastrellare 50 miliardi che, serviranno “da un lato alla ristrutturazione finanziaria del debito Bassetti e dall’altro all’ammodernamento degli impianti acquisiti”. “Positiva la continuità produttiva dell’azienda Bassetti, pesanti i prezzi che saranno pagati sul terreno dell’occupazione e dei diritti acquisiti”. Questa sarà la valutazione, comune e condivisa, della direzione sindacale unitaria. “Il Mattino” del 14 Luglio 1985 aveva già dato una scarna anticipazione della notizia di acquisizione della Bassetti da parte del Gruppo Marzotto.

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17,42% agli altri componenti del gruppo industriale e finanziario. Il conte Pietro evidenziava in tal modo, in maniera netta e polemica, la propria indisponibilità ad aderire alla nuova strategia verso cui aveva iniziato ad orientarsi il consistente nucleo di imprenditori della nuova generazione Marzotto. Una dozzina di esponenti proprietari del 27,08% del capitale. La quota ceduta da Pietro sarà acquistata per 105 milioni di Euro. I titoli saranno rilevati da Finanziaria Canova, una società di consulenza nata nel 2001 con la partecipazione del management di De Agostani e Industrie Zignago. Al nuovo patto ha aderito anche la famiglia di Paolo Marzotto insieme all’amministratore delegato Marzotto, Antonio Favrin che rileverà, entro un anno, 1,8 milioni di azioni da FinCanova, elevando la propria partecipazione dallo 0,9% al 3,6%. La famiglia Paolo Marzotto acquisterà da Fincanova la nuda proprietà di 6,1 miliardi di azioni (9,2%) e le azioni Marzotto nell’ultimo anno si apprezzeranno dell’80%. Favrin è figura manageriale di fiducia nell’articolato albero della dinastia Marzotto ed ha guidato per 30 anni le Industrie Zignago, società di cui sono azionisti gli imprenditori di Valdagno. Paolo Marzotto si scontrerà con Pietro proprio a proposito della offerta avanzata da Paolo agli azionisti Zignago. Già nel 1998 Pietro aveva dato il proprio parere contrario alle ipotesi della famiglia di defilarsi parzialmente, evitando comunque di continuare ad agire in prima esposizione, dalla gestione dell’impresa detenendo per sé solo quote di azioni. Altri avrebbero da quel punto in avanti dovuto esercitare le funzione di direzione manageriale, ipotesi questa cui Pietro aveva manifestato pubblicamente la propria opposizione non condividendo in alcun modo tali netti cambiamenti d’indirizzi e strategia. Aveva perciò votato contro la fusione tra Marzotto e Zignago ma le sue posizioni non erano state accolte e pertanto già da allora, a fronte del prevalere delle tesi sostenute dai più giovani discendenti della famiglia, aveva rinunciato ad ogni carica operativa. Tra i 6 rappresentanti della famiglia Marzotto c’era ormai difficoltà a guidare l’azienda con univocità di intenti. Le

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funzioni direttive dell’impresa verranno perciò affidate ad un manager esterno, Silvano Storer. La nascita di un “patto di sindacato” tra i più giovani è stato il segno della rottura che si è poi definitivamente consumata con l’uscita di Pietro dalla scena. L’opposizione ha così progressivamente conquistato la maggioranza nel gruppo ed a Pietro altra scelta non è rimasta se non quella del proprio disimpegno, con cessione delle azioni e della propria quota di proprietà. Dopo la fine del “Regno illuminato” di Pietro le redini della Marzotto sono passate nelle mani di un parlamentino familiare di 22 nipoti e 55 procugini100. Il gruppo Marzotto, dalla chiusura della propria azienda di Salerno avvenuta nel 1983, concentrando in maniera pressoché assoluta la produzione e gli investimenti economici e finanziari solo nel Nord del paese, non ha mai più prospettato né realizzato alcuna ipotesi di nuovo insediamento industriale o forme diverse di un proprio, diretto impegno nel Mezzogiorno.

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Il dettaglio del nuovo assetto dell’antica dinastia veneta è stato rappresentato da Paolo Possamai ed Ettore Livini, su LaRepubblica, Marzo 2003.

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Ex-Jugoslavia, 20 anni dopo

Dal 1991, in un progressivo e tragico crescendo, nei Balcani, al centro dell’Europa, si dovette assistere alla deflagrazione di un ferocissimo conflitto politico, militare, etnico, economico, religioso di estrema, inaudita ferocia e spietatezza. La caduta del Muro di Berlino del 1989 e la fine dell’equilibrio del terrore, tra Est ed Ovest, costruito sul deterrente della guerra nucleare, contro tutte le acritiche, ottimistiche previsioni, non significò l’automatico avvio della conclusione delle crisi e dei conflitti regionali, delle contraddizioni tra Stati Nazionali ed all’interno dei singoli paesi di un mondo che -da più parti- si riteneva, magicamente, quasi del tutto già pacificato. Il terremoto balcanico, iniziato nel 1991 con la secessione di Slovenia e Croazia, si rivelò anzi particolarmente aspro e sanguinoso ed ebbe un’ulteriore, brusca accelerata con l’estensione della guerra prima in Bosnia – Erzegovina e poi in Croazia, fino alla vicenda devastante del Kossovo e Metohija101 che oppose Serbi ed Albanesi in una lunga e logorante reciproca guerra di sterminio. In quella occasione, come è noto, per la prima volta dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, in Europa, sotto la direzione militare della Nato, si mise in moto un’azione militare mondiale, su larga scala, che - nel suo culmine- si concretizzò nei bombardamenti sulle città serbe, e in specie sulla capitale, Belgrado. Le profonde ferite aperte da quella drammatica vi101

All’epoca dell’impero romano d’oriente e dell’impero medioevale serbo, in Kosovo e Metohija vi erano più chiese e monasteri che in ogni altra parte d’Europa. Il simbolo culturale, giuridico, spirituale solenne di Bisanzio. Lì, nella Gerusalemme cristiana di quell’epoca, nella “terra dei monasteri e degli uccelli neri”, nel 1389 i Turchi sconfissero i Serbi, scardinando il muro di difesa cristiano fino ad allora interposto alle loro scorribande per l’Europa. Da allora in avanti la storia, la cultura, lo spirito del popolo serbo porteranno i segni dolorosi della sconfitta in Kosovo. Una situazione che si protrarrà a lungo, fino al 1912, anno d’inizio della caduta dell’impero ottomano, determinata anche dalla trionfale vittoria serba contro i Turchi avvenuta in Kosovo. Una rivincita storica di valore immenso. Un autentico simbolo dell’orgoglio serbo.

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cenda ancora oggi, dopo venti anni, non si sono definitivamente ricomposte. Un conflitto lacerante, che da tempo covava in gestazione e frantumava, come neve al sole, la dogmatica certezza che, dopo gli orrori e le stragi disumane dei conflitti mondiali del XX secolo, nessun angolo del vecchio continente sarebbe stato più teatro di guerre, eccidi e scontri devastanti. La realtà fece giustizia di tali, troppo ingenue ed ottimiste convinzioni. Riemerse dalle ceneri il fuoco di antiche contrapposizioni mai sopite in via definitiva, si riproposero i vecchi localismi, ricomparvero i vessilli di letali nazionalismi contrapposti. La Serbia, il centro della Federazione Jugoslava, optò per il tentativo, rivelatosi col tempo rovinoso, del ripristino delle antiche “ragioni” di grandezza, il conflitto con gli altri popoli ed etnie si riattizzò. Non più il vecchio Stato Federale ma una nazione nuova, la Grande Serbia, che intendeva riaffermare una netta ed indiscussa egemonia, da garantire con ogni mezzo e a tutti i costi, contro le plurime spinte all’autonomia ed alla separazione. Tensioni scioviniste, nazionalismi esasperati, esplosioni irrazionali di volontà egemoniche, fondate sul dominio su altre, distinte identità, al contempo acute volontà di secessione ed il mosaico faticosamente costruito e cementato finiva per esplodere, sgretolando antecedenti forme di coesione ed unità. Dal vaso di Pandora scoperchiato emergevano odi e rancori antichi, un coagulo impazzito di profonde lacerazioni insaturabili. Ricordando ossessivamente una sconfitta, la battaglia della Piana dei Merli del 1389, Slobodan Milosevic rappresentò, con grande abilità e demagogia, coi suoi atti e con il richiamo esasperato al nazionalismo serbo, la tenace ed estrema volontà del pieno ripristino di un dominio e di un’egemonia che, da più parti, al contrario, si tendeva, per svariate ragioni, a diluire ed attenuare. Un dominio, ed un’egemonia, da realizzare ad ogni costo e gravidi di conseguenze distruttive rovinose! La premessa per la disgregazione conclusiva! Obiettivo primario, violentemente ostentato dal leader nazionalista, il corollario della conquista del Kosovo e la persecuzione della popolazione albanese.

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La guerra del Kossovo, per la diretta contiguità dell’Italia con l’area del conflitto, e per il rilievo delle decisioni assunte allora dal Governo italiano, finì per coinvolgerci, come Stato, molto più intensamente di quanto fino ad allora era accaduto, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, ponendoci di fronte a drammatiche scelte di campo, impegnative e dolorose. La legittimità “dell’ intervento umanitario”, l’impossibilità di prescindere dalla comune azione d’intervento militare nella crisi. L’atto di guerra fu deciso dal contesto di alleanze in cui, come paese, eravamo collocati e si esplicitò fino alle più estreme conseguenze dei bombardamenti sulla Serbia e su Belgrado effettuati con l’ausilio delle nostre basi militari. La crisi, esplosa nel cuore dei Balcani, ci indusse a porci nuovi ed inediti problemi. La solenne dichiarazione, presente nella nostra Costituzione, secondo cui la nostra è una repubblica democratica che bandisce la guerra come metodo per risolvere le contraddizioni che insorgono tra i diversi Stati e al loro interno, veniva in sostanza stravolta apparendo in stridente contrasto con le dichiarazioni generali e di principio. Dopo un lungo tergiversare ora si trattava di decidere di intervenire, militarmente, da parte della Nato, senza ulteriori indugi, per impedire la realizzazione di una strage etnica di massa contro la comunità albanese, largamente maggioritaria nell’enclave. L’Europa, in verità, a fronte dell’inasprirsi del conflitto che montava, aveva dato a lungo prova, in precedenza, di grave sottovalutazione e d’incapacità di alcuna azione coordinata e coesa dal punto di vista politico e militare. Si era dimostrata assolutamente imbelle! Il vecchio continente era stato del tutto incapace di praticare una politica comune preventiva, di contrasto e dissuasione, rispetto a ciò che accadeva e che in realtà era in gestazione già da tempo. Stragi si succedettero così a stragi ed uccisioni, a stupri di massa ed alla “pulizia etnica”. Un intero popolo fuggiva dalla propria terra, lasciando le proprie case e tutto ciò che aveva. La guerra divampava, né si perveniva ad alcuna soluzione ragionevole. Ogni compromesso tra le opposte forze in campo si rivelava impraticabile . Una fila di profughi infinita, di centinaia di migliaia di persone, in cerca di un’improbabile salvezza.

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L’Europa, nel suo complesso, si era colpevolmente illusa che la controversia si sarebbe risolta in maniera naturale, per inerzia, ed aveva così evitato di svolgere, in maniera attiva e coordinata, qualsivoglia eventuale azione dissuasiva. Ci si era voluti tenere, fino a quel momento, il più possibile lontani dal pantano dei Balcani, dal cuore della crisi che montava. Nel centro della vecchia Europa divampò di nuovo una guerra sanguinosa, di natura etnico, politica, religiosa che frantumava il mosaico unitario che, fino ad allora, aveva visto convivere, in maniera pacifica, grazie all’autorità di Tito, una pluralità di etnie e di popoli diversi, in una stessa area territoriale, in una nuova nazione solo da pochi decenni unificata. Il conflitto esploso contrapponeva Serbi, Croati, Sloveni, Albanesi del Kossovo, Macedoni, Montenegrini, Bosniaci, cattolici, ortodossi, musulmani. La Jugoslavia era uno Stato giovane, sorto all’indomani del secondo conflitto mondiale dalla disgregazione del vecchio Impero Austro-Ungarico ed aveva vissuto un periodo di ripresa garantito dalla funzione carismatica di Tito che sembrava avere iniziato a realizzare un processo di autentico rinnovamento e di sviluppo della travagliata storia nazionale. Una situazione che inizierà a mutare rapidamente proprio all’indomani della sua morte, nel 1981. Né sarà sufficiente la decisione di dare la presidenza dello Stato, a turno, alle rappresentanze delle diverse etnie di quel complesso mosaico di storie e cultura che, fino ad allora, aveva convissuto in un clima di sostanziale concordia ed unità.102 La spinta all’autonomia ed alla separazione, sollecitate sotto traccia anche da alcuni dei principali Stati occidentali, di certo 102 Dino Frescobaldi, Jugoslavia - Il suicidio di uno Stato, Ponte alle Grazie Editore, Firenze, 1991, indaga le principali differenze storiche, politiche, religiose presenti all’interno del complesso puzzle dell’ex Jugoslavia. Di particolare interesse la descrizione delle influenze delle diverse potenze straniere sulle singole regioni jugoslave. L’analisi tenta di dare una risposta al quesito del perché uno Stato che per un certo tempo, nell’area balcanica e non solo, aveva costituito un punto di riferimento per la sua politica estera indipendente e l’originalità di alcune sue riforme istituzionali ed economiche, finisca ad un certo punto per spezzarsi e frantumarsi regredendo in un medioevo di lotte e faide mortali tra le sue diverse componenti.

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trovava la sua origine anche nelle diverse condizioni di sviluppo economico e di qualità di vita delle diverse regioni interne alla nazione jugoslava. Una realtà che, indubbiamente, presentava differenze accentuate al proprio interno, le più marcate tra serbi, croati e kossovari, una contraddizione, acuta, che non si era ancora riusciti a superare. Gli abitanti del Kosovo, tra le varie etnie, erano quelli che vivevano nelle peggiori condizioni! Il loro reddito medio equivaleva a meno di un terzo di quello dei serbi e dei croati. Eppure, nella fase antecedente, il “modello jugoslavo” era sembrato più dinamico ed avanzato rispetto alle situazioni degli altri Stati e regimi socialisti d’Europa sottoposti al rigido controllo sovietico. Il modello dell’autogestione presentava specificità assai distinte rispetto a quello, autoritario e verticistico, proprio dei regimi di socialismo di Stato. E la Jugoslavia, sotto la guida di Tito, era riuscita, vincendo resistenze anche assai marcate, a garantire, al suo sviluppo, un carattere di autonomia e di specificità che la distingueva dai paesi del Patto di Varsavia. Tito era diventato, con Nehru e con Nasser, uno dei principali leader del “movimento dei paesi non allineati”, volendo a un certo punto rimarcare una propria, decisa autonomia rispetto alle grandi potenze mondiali del tempo. Un’autonomia, e un’identità nazionale peculiare, ricercata e difesa con tenacia, che era stata anche il detonatore dello scontro con Stalin ed il Cremlino. Ora questo processo originale subiva una violenta battuta d’arresto repentina e regrediva. Popoli ed etnie diverse, vissuti per decenni in un clima di reciproco rispetto e tolleranza, adesso si scontravano in una maniera aspra e sanguinosa, con una ferocia tale che finiva per vedere riesumate le fasi più atroci e sanguinose in cui, nel corso del secondo conflitto mondiale, si era consumato, su fronti contrapposti, il conflitto spietato tra gli Ustascia di Ante Pavelic, i Cetnici, i partigiani titoisti. Stragi etniche, stupri di massa, fosse comuni ed uccisioni indiscriminate di civili, luoghi e città divenuti nella percezione collettiva simboli del male sulla terra. La guerra divampata nell’ex Jugoslavia evidenziava, con estrema crudezza, quanto di più

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impensabile l’uomo è capace di fare se si abbandona senza freni ai suoi istinti peggiori. Vukovar, con l’assedio e la mattanza subita dai croati ad opera dei serbi, Mostar, con i massacri di innocenti senza nome, Srebrenica, con gli oltre 8.000 morti voluti dal generale serbo Mladic,103 Sarajevo, la città abitata in prevalenza da popolazione musulmana, posta sotto assedio dalle alture per 4 anni dall’artiglieria pesante dell’armata federale jugoslava, la repubblica della Krajina, sottratta ai croati e poi, alla fine del conflitto, riconquistata con feroci massacri compiuti contro la minoranza serba, così come avverrà a Banja Luka, il Kosovo, Dubrovnik, a lungo bombardata e ridotta in più parti a una rovina, alcuni dei nomi-simbolo di regioni, luoghi e di città violate ed offese nella loro secolare storia e civiltà. Una riedizione, moderna, di un inferno, autentico spirito del male che agisce senza freni ed indiscriminatamente contro l’uomo104. In Bosnia il conflitto aveva avuto una sua provvisoria conclusione con la pace di Dayton, siglata alla fine del 1995, che sanciva la creazione al suo interno di due entità, la Federazione croato-musulmana ( cui verrà assegnato il controllo del 51% del territorio e la Repubblica Serba ( 49% del territorio). Entrambi avranno la possibilità di formare un proprio esercito. 103

La caduta di Srebrenica, avvenuta l’11 luglio del 1995, da il via al massacro di 8.372 uomini e ragazzi musulmani bosniaci compiuto dalle milizie serbo-bosniache del generale RatcoMladic. Si tratta del più grande crimine di guerra compiuto in Europa dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. La città, situata nella parte orientale della Bosnia Erzegovina, all’epoca era posta sotto la tutela delle Nazioni Unite, ma le compagnie dei caschi blu olandesi presenti non svolsero alcuna funzione di dissuasione e di contrasto per impedire la strage. La Corte internazionale di giustizia de l’Aia ha condannato per questo spietato genocidio Radovan Karadzic, il leader serbo dell’epoca, ed il suo braccio operativo militare, il generale Mladic. Un esempio agghiacciante di “pulizia etnica”, venuto alla luce con il ritrovamento di 93 fosse comuni scoperte nel territorio di Srebrenica. Per l’immane crimine perpetrato contro la popolazione civile ed i prigionieri musulmani è ancora atteso il verdetto finale della corte. 104 Per una ricostruzione del conflitto e delle ragioni da cui è stato originato, oltre che per le reciproche, sanguinarie ritorsioni perpetrate tra le diverse forze contrapposte nelle diverse fasi, si può consultare il volume La guerra dei dieci anni- Jugoslavia 1991-2001: i fatti, i personaggi, le ragioni dei conflitti, a cura di Alessandro Marzo Magno, “Il Saggiatore”, giugno 2001

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E’ quello il segnale dell’avvio del naufragio del sogno serbo di espansione e di conquista. Un accordo siglato dal Presidente serbo Slobodan Milosevic, dal croato Tudjman, da Alija Izetbegovic, in rappresentanza della componente bosniacomusulmana e garantito dal Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. La tregua stipulata non coinciderà, purtroppo, con la definitiva conclusione della guerra. Si verificheranno ancora devastazioni, incendi e distruzioni in Croazia, in Kossovo, perfino nella stessa Macedonia. L’aspro conflitto vivrà la propria conclusione solo verso la metà del 2001, coincidendo in sostanza con l’arresto di Milosevic e l’inizio della sua detenzione, in attesa del processo, nel carcere di Belgrado105. In verità è stato di sicuro “Slobo” il principale protagonista della guerra e delle ragioni del suo indiscriminato estendersi e protrarsi. Sua la grave responsabilità di avere a lungo rifiutato ogni ragionevole soluzione diplomatica. La pace è avvenuta in coincidenza dell’intervento Nato e del cambiamento di scenario sul terreno, nella fase in cui non si registrava più l’egemonia militare serba ed anzi si sviluppava la controffensiva croata e la reazione albanese e dei combattenti dell’UCK.106 Eserciti entrambi potentemente finanziati e riarmati dalle potenze occidentali. Veniva in conclusione sconfitto il progetto della creazione di una “ Grande Serbia”, ed anzi si avviava il ritorno in Kosovo, garantito dalle forze Nato, della popolazione di origine albanese. Ne derivava un processo d’altro segno, opposto a quello precedente. Il Kosovo, a quel punto, veniva abbandonato dalla minoranza della popolazione serba che- in larga parte- si rifugiava 105

La rivista di geopolitica Limes tornerà ad occuparsi della guerra nella ex Jugoslavia nel n.5, anno 2000, “I Balcani senza Milosevic”, analizzando, nei dettagli, le principali mutazioni geopolitiche nell’area determinate dalla caduta del leader serbo scomparso, per arresto cardiaco, nel 2006. 106 Sulla guerra in Kossovo e le ragioni dell’intervento armato antiserbo assai utile la lettura del quaderno speciale di Limes, supplemento al n.1 del 1999 “Kosovo, l’Italia in guerra”

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nell’area di Metochia per paura di subire, a propria volta, le rappresaglie da parte dei combattenti albanesi dell’UCK. Una pulizia etnica, all’incontrario, che in sostanza poi si è realizzata. Conclusa la fase più acuta e sanguinosa, oggi, col relativo distacco consentito, tracciando un bilancio ed una riflessione provvisoria, è il caso di rilevare come vada evitato, ad ogni costo, il rischio di un aggiornato oblio della memoria. Bisognerà stroncare sul nascere, ovunque si manifesti, di comune intesa e con un ben diverso ruolo dissuasivo dell’Europa, ogni recrudescenza esasperata di odi etnici, politici, razziali, religiosi. Ed operare, come Europa democratica nel suo complesso, meglio e più incisivamente di come è successo allora, per prevenire deflagrazioni e conflitti di massa distruttivi. E’ letale rinchiudersi nei recinti limitati dei propri angusti e ciechi localismi! In conclusione imparare dalla storia, per quanto ciò è possibile, ad evitare la replica degli errori già compiuti, intervenendo non dopo ma prima che i conflitti esplodano producendo irreparabili lutti rovinosi. Quanto è accaduto venti anni or sono nei territori dell’ex Jugoslavia , pur nella sua tragicità, è solo un esempio, esemplificativo e parziale, di ciò che ancora può succedere, in più parti del mondo, anche in maniera, se possibile, più aspra e sanguinosa. Una compiuta ricostruzione di quella vicenda, della sua genesi, delle sue vere cause, delle sue ragioni, seppure in maniera necessariamente parziale ed incompleta, è perciò utile ed attuale. Il pensiero corre al groviglio di tensioni, ancora largamente irrisolte, presenti nel grande impero ex sovietico, un territorio sterminato, in più luoghi puntellato da basi nucleari, alla riedizione di nuove contraddizioni tra il Sud ed il Nord del mondo, ai conflitti ed alle carestie che scuotono il grande continente nero, al grande e confuso sommovimento che, in tempi recenti, ha investito immense masse umane dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, al protrarsi di crisi regionali, come in Irak ed in Afghanistan, ancora ben lontane dall’essere risolte107. 107 Sul grande sommovimento in atto in Africa del Nord e nel Medio Oriente si consiglia la lettura del numero monografico della rivista Limes, gennaio 2011, “Il grande Tsunami”.

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Spinte che sembrano richiedere risposte fondate su una consapevolezza nuova, su una diversa dimensione della qualità di una politica globale da ancorare agli irrinunciabili principi di maggiore giustizia e libertà, che devono essere aiutati a realizzarsi nel concreto. Aree, di criticità diffusa, ma che impongono l’obbligatorietà di vivere il tempo presente con l’affermarsi di un nuovo governo mondiale delle contraddizioni, su un piano interconnesso tra livello locale, internazionale, globale, su una pluralità di diversi terreni, politici, economici, istituzionali, religiosi, culturali. Complesso e difficile è oggi il processo di integrazione di popoli e culture diverse nella nuova Europa che, questo è l’auspicio, d’ora in avanti, dovrà fare ogni sforzo possibile in modo da procedere in concordia e sintonia bandendo via da sé ogni violenza, conflitto, prevaricazione, intolleranza. Urge la riscrittura di una carta comune dei principi della nuova Europa! Da questo punto di vista, e non solo da quello, di certo decisivo, della coesione economica e finanziaria, la creazione dello Stato europeo, della realizzazione di una sua più solida unità politica appare una scelta di assoluta priorità, da perseguire con tenacia, una necessità urgente, non oltre rinviabile. Ancora più attuale a fronte dell’evidente rischio di declino del vecchio continente nel nuovo scenario mondiale, di crisi dell’unilateralismo, e sempre più segnato dall’avanzare tumultuoso di nuovi popoli e nazioni, a partire dall’India e dalla Cina, che ridisegnano nella contemporaneità inedite, nuove gerarchie, mai in precedenza conosciute. Una prova ed una scommessa, complessa e impegnativa, densa di pericoli ed incognite, come sempre avviene quando il mondo si muove per ridefinire un suo nuovo, inedito equilibrio, un banco di prova di cogente attualità, questione vitale e decisiva per il destino futuro dell’umanità.

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La CGIL, brevi cenni di storia CGIL e Funzione pubblica,9 luglio 2015 Il Congresso Nazionale di Milano, iniziato il 29 settembre e concluso il 1 ottobre 1906, dava il via alla creazione della Confederazione Generale del Lavoro – CGdL -, la prima organizzazione sindacale che raggruppava, a livello nazionale, i lavoratori dei principali settori produttivi, agrari e industriali. Nella Confederazione confluivano le Camere del lavoro, le Leghe, le Federazioni di settore, insediatesi in prevalenza nel Nord del paese ma non solo. In occasione del Congresso si riunirono circa 700 delegati, provenienti dalle diverse realtà locali, in rappresentanza di 250.000 iscritti. A conclusione dei lavori, il primo Segretario Generale della Confederazione risulterà Rinaldo Rigola. Da allora in avanti, col trascorrere del tempo, la storia dell’organizzazione si è inscindibilmente intrecciata e confusa con le principali vicende dello Stato Nazionale, mischiandosi con le sue varie traversie riuscendo ad incidere, spesso in maniera rilevante, in tutti gli snodi decisivi dell’azione per la libertà e la democrazia del nostro Paese ed il Sindacato è diventato un cardine decisivo delle Istituzioni Repubblicane. Il sindacalismo confederale ha attraversato, dal momento del suo insediamento nella realtà italiana, da protagonista attivo, le principali vicende del “secolo breve”, dal periodo- sanguinoso e drammatico- delle due guerre mondiali, all’avvento del fascismo, del totalitarismo e delle dittature, nel nostro paese e nell’Europa. Nell’intermezzo, lo scontro mortale che ha frontalmente contrapposto, in Spagna, dal 1936 al 1939, le forze del fascismo e dell’antifascismo. Una storia, dell’Europa e del Mondo, intrisa di sangue, di lutti e di passioni, di grandi sventure e di immani distruzioni, ma anche un percorso, intenso e appassionato che, con immensi sacrifici, superando barriere all’apparenza invalicabili, ha concorso a realizzare- nel concreto- un grande avanzamento nelle condizioni di vita del mondo del lavoro, ne ha progressivamente accresciuto forza e prestigio, ampliandone i confini, in tema di libertà, diritti e dignità.

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Un soggetto politico- sociale nel tempo divenuto imprescindibile nell’aggiornata riscrittura della storia dell’Italia. Una storia non raccontata più a senso unico, celebrativa ed oleografica, espressione parziale ed unilaterale, se non esclusiva, dei ceti dirigenti e dominanti, che- ben più riequilibrata- ha riassunto in sé, nella formulazione della Costituzione Repubblicana, il tema decisivo della funzione delle masse popolari nell’avanzamento del complesso della società italiana e della trasformazione dello Stato. Una sintesi, più vera e più feconda, esempio di un cammino accidentato, e tuttavia di segno progressivo, che dava finalmente voce alle molteplici pulsioni ed esperienze di lotte precedenti, riassumendone in sé eredità e funzione. Il pensiero corre ai primordi, alle tracce primitive di organizzazione, alle prime “ Società di Mutuo Soccorso”, sorte sul modello delle vecchie corporazioni di mestiere, primo aggregato organizzato rivolto a praticare, nel concreto, i grandi principi della solidarietà di classe e del reciproco aiuto tra i lavoratori. Strumenti di organizzazione, indubbiamente ancora artigianale e primitiva, che iniziava a forgiarsi nella seconda metà del XIX secolo nell’aspro scontro che opponeva i lavoratori al pugno autoritario e a volte sanguinoso dello Stato, spesso schierato- a quel tempo ed anche più oltre non di rado- in difesa dei più retrivi ed odiosi, ancestrali privilegi, dei latifondisti agrari e degli industriali. E’ della fine di quel secolo, il XIX, uno degli episodi tra tutti più grave e sanguinoso, quello che, nel 1898, vedrà- proprio a Milano - il generale Bava Beccaris stroncare brutalmente nel sangue la protesta operaia e popolare, contro l’aumento del prezzo del pane e il carovita, col dissennato ricorso all’uso dei cannoni sulla folla. Atto gravissimo, ed ingiustificato, che produrrà decine di vittime incolpevoli, di morti e di feriti. Primo tra gli episodi- non l’unico purtroppo - nel tempo a più riprese replicato, di cruda recrudescenza della violenza cieca e repressiva dello Stato che, lungi dall’esercizio di una funzione mediatrice nello scontro in atto tra forze antagoniste contrapposte, finiva per essere schierato da una sola parte, quella dei pro-

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prietari agrari e industriali, con i suoi corpi armati, in difesa delle costituite gerarchie di potere e contro i lavoratori e le classi subalterne. L’Italia, della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, è ancora un paese fin troppo povero ed arretrato, in larga prevalenza agrario e contadino, con un altissimo tasso di analfabetismo e un bassissimo tasso medio di istruzione108. Le condizioni di lavoro nelle aziende industriali, che nell’arco temporale richiamato hanno iniziato a diffondersi in specie nelle aree del futuro “ triangolo industriale”, di Milano, Genova e Torino, sono particolarmente dure e proibitive. L’industria meccanica ha iniziato a concentrarsi soprattutto nel Piemonte, e in specie nella Fiat con la capillare diffusione del suo potente indotto. In Liguria c’è il grosso, quasi la metà, della siderurgia. E’ al Nord che si insediano anche gli organismi dirigenti industriali. Nel 1910 sorgerà la CIDI ( Confederazione italiana dell’industria) espressione diretta degli interessi degli imprenditori del triangolo industriale ( Milano, Torino, Genova) nel mentre non si ha notizia di alcuna riunione tenuta da codesto organismo in alcuna città meridionale. In generale, i salari operai sono bassissimi e in grado di garantire a stento la mera sopravvivenza. Gli orari di lavoro interminabili. Ancora più pesanti le condizioni di lavoro di donne e giovanissimi, di frequente impiegati indiscriminatamente anche durante gli orari notturni del ciclo produttivo. Identica condizione odiosa di lavoro negli insediamenti collocati in alcune aree meridionali del Paese.109

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Nel 1900 ad ogni modo l’agricoltura costituiva ancora il 51,2% del prodotto interno lordo, nel mentre l’industria ne costituiva il 20,2%. Già nel 1913, però, l’agricoltura scendeva al 45,3% e l’industria, di converso, saliva al 24,7%. Assai elevato, altresì, l’analfabetismo totale della popolazione in media attestato sul 48%, con una punta minima del 18% in Piemonte ed una massima del 79% in Calabria. In Francia nello stesso periodo era analfabeta solo il 4,3% della popolazione. L’istruzione elementare solo in Spagna ed in Russia era meno diffusa che in Italia. 109 Le Manifatture Cotoniere Meridionali

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Non è diversa la situazione del Mezzogiorno d’Italia, della Campania, della Provincia di Salerno. Al proposito è il caso di ricordare che nucleo iniziale, seppure non unico, dell’organizzazione furono gli opifici delle prime grandi imprese manifatturiere cotoniere sorte, ai primordi dell’Ottocento, per iniziativa di imprenditori stranieri, svizzeri e tedeschi. Il più importante complesso cotoniero del Mezzogiorno da cui nasceranno, all’indomani della grande guerra, le Manifatture Cotoniere Meridionali. Le industrie, nel corso dell’Ottocento, vengono insediate in questo caso, in prevalenza, oltre che nel capoluogo, nella Valle dell’Irno e nell’Agro- Nocerino-Sarnese. Da lì si strutturerà poi, lentamente, una embrionale e primitiva forma di autoorganizzazione delle forze del lavoro, anche in questo caso erede delle prime Società di Mutuo Soccorso apparse intorno alla seconda metà del XIX secolo. Le idee forza, essenziali e trainanti, intorno a cui il Sindacato inizia a strutturarsi e si modella, sono l’unità e la solidarietà. Le grandi lotte, che dalla fine del secolo si svilupperanno in un incalzante crescendo progressivo per tutto il Novecento, seppure inframmezzate da gravi interruzioni, s’incentreranno sulla difesa dei diritti essenziali dei lavoratori, per fuoriuscire da condizioni di vita odiose e disumane cui si è fatto cenno. Il tessuto economico-sociale della società salernitana, con l’immissione delle macchine meccaniche nel processo produttivo, avviava in quel tempo la propria, profonda e progressiva mutazione. Da società a larga prevalenza agrario- contadina iniziava una nuova fase di sviluppo in cui l’industria avrebbe svolto funzioni innovative. Un percorso non lineare, ma contraddittorio ed accidentato. I turni di lavoro sono anche di 14 ore al giorno. E’ assente qualsiasi elementare forma di tutela, salariale e normativa. I salari sono differenziati, anche a fronte dello stesso lavoro. Non c’è alcun riconoscimento di malattia ed infortunio professionale. I lavoratori anziani o espulsi dalle aziende non hanno diritto ad alcuna forma, anche minima e parziale, di reddito e di sussistenza. Negato il diritto alla maternità, alla scuola, all’istruzione.

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Donne e fanciulli, anche piccolissimi, sottoposti a ritmi di lavoro spaventosi e proibitivi, spesso costretti ad un onere supplementare di tre- quattro ore di viaggio a piedi per raggiungere la fabbrica dalle campagne circostanti. Innumerevoli i soprusi e le prevaricazioni, con le discrezionalità più estreme ed impensabili dei datori di lavoro. Insindacabile la libertà di licenziare! I regolamenti sul lavoro in fabbrica assolutamente odiosi. Migliori condizioni, di salario e di orario, saranno le prime rivendicazioni che culmineranno, ai primi del Novecento, nel raggiungimento dell’obiettivo storico delle 8 ore e nell’obbligo del riposo settimanale. La regolamentazione contrattuale, per sancire l’equilibrio di poteri tra datori di lavoro ed operai, sarà così l’obiettivo, qualificante e generale, tenacemente perseguito dal movimento con aspre lotte e con costanza estrema che, con alterne fortune, in un alternarsi di sconfitte e vittorie, nello scorrere degli anni si susseguiranno. Una strada, come si è ricordato, irta di ostacoli e di difficoltà. Estrema, e non di rado feroce, la resistenza delle forze più retrive del padronato industriale e agrario volta ad impedire qualsiasi “interferenza” dei lavoratori sui temi dell’organizzazione del lavoro e del controllo della produzione, questioni a lungo ritenute di esclusiva prerogativa dell’impresa. Più in generale, dalla metà dell’800 e fino alla fine del secolo, a macchia di leopardo, si svilupperanno- a ondate successive- nelle diverse regioni del paese, molteplici tensioni e grandi lotte, atte a realizzare migliori condizioni, di vita, di orario e di salario. Iniziano a formarsi le diverse associazioni di mestiere, in un rapido crescendo progressivo destinato più oltre a confluire nella nascita del Sindacato generale. E’del 1893 il Primo Congresso nazionale delle Camere del Lavoro, celebrato a Parma, con la partecipazione di dodici Camere del lavoro. Nel 1894 le Camere del Lavoro costituite sono già 16 : Milano, Torino, Piacenza, Venezia, Brescia, Bologna, Parma, Padova, Pavia, Bergamo, Cremona, Monza, Verona, Firenze, Roma e Napoli.

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Le categorie che per prime fanno ricorso a proprie, autonome forme di organizzazione sindacale sono quelle dei tipografi, degli edili, dei ferrovieri, nel mentre la Federazione dei lavoratori agricoli e poi della Fiom ( Federazione italiana lavoratori metallurgici) verranno costituite più avanti, nel 1901. Con lo scorrere del tempo il Sindacato diviene sempre più un punto di coagulo potente e di organizzazione, ma anche un centro pulsante, di educazione e di emancipazione permanente del mondo del lavoro110. Nelle sue sedi si prendono in carica i lavoratori, che non hanno potuto frequentare la scuola ed accedere ad alcuna forma di istruzione, li si abitua a leggere ed a scrivere, si iniziano ad organizzare le Biblioteche popolari. Ai principi del secolo nascono le prime Commissioni Interne, le forme primordiali di rappresentanza sui luoghi di lavoro. S’amplia il consenso, e cresce l’organizzazione, il ruolo dei lavoratori inizia a condizionare e ad incidere più in profondità sulle scelte e gli orientamenti assunti dall’azione dei governi. Seppure ancora solo in parte, inizia finalmente a mutarne almeno in parte segni ed indirizzi. Il Governo Giolitti adotta per primo nella storia d’Italia le leggi di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli. Si definisce la struttura di base dei primi contratti di lavoro, atti a regolamentare i rapporti e l’equilibrio tra reciproci doveri e diritti dei lavoratori e dei datori di lavoro. E’ del 1908 il Primo Contratto Nazionale di Lavoro, siglato dalla Federazione Vetrai. E inizia a percepirsi un progressivo, positivo mutamento del clima generale del paese rispetto ai decenni appena antecedenti. E tuttavia il percorso intrapreso, ad un certo punto, poco più in

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Sintomo assai evidente della condizione di marcata arretratezza della società italiana è anche il fatto che soltanto nel 1890 si perverrà in Italia all’abolizione della pena di morte e verrà sancito il diritto di sciopero pacifico per i lavoratori. E’ anche il caso di ricordare che il diritto di voto è rimasto a lungo una prerogativa di una parte assai minoritaria della popolazione. Prima dell’unità, nel 1848, esso poteva essere esercitato solo dall’1,9% del complesso della popolazione attiva. Al momento dell’unità soltanto 400.000 persone avevano diritto al voto, condizionando da sole composizione e qualità del Parlamento Nazionale.

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avanti s’interrompe con l’emergere di una situazione involutiva, destinata a divenire devastante. L’Europa e il mondo, agli inizi del XX secolo, precipitano nell’abisso della guerra mondiale che opporrà gli Imperi Centrali di Austria e Germania alla Francia e all’Inghilterra alla Russia e poi agli Stati Uniti, con gli sconvolgimenti immani e le violente deflagrazioni che ne deriveranno. Il 16 Maggio del 1915, in una riunione dei dirigenti della confederazione generale del Lavoro, del PSI e del gruppo parlamentare socialista, tenutasi a Bologna, è approvato un ordine del giorno, presentato da Costantino Lazzari, in cui viene riassunta la posizione sulla guerra, maggioritaria del mondo del lavoro, nella nota formula del “Né aderire né sabotare”. La conclusione del primo conflitto mondiale propone un po’ dovunque, con maggiori o minori accentuazioni, tra paesi vinti o vittoriosi, una situazione di tragica incertezza. Il mondo del lavoro, al cui interno s’erano evidenziate posizioni difformi e non univoche rispetto alla scelta dei governi nazionali sul tema della guerra, ovvero sull’opportunità di opporsi con fermezza o di aderire, dagli anni ’20 e poi nei vent’anni successivi, vivrà in una condizione in progressione sempre più spaventosa. C’è da rilevare in proposito il fatto che, nel corso del momento più aspro e drammatico del conflitto in corso tra gli Stati, prima dell’avvento delle dittature in Italia nel 1922 e più avanti nella Germania del 1933, è accaduto qualcosa di una straordinaria forza suggestiva. Nel 1917 in Russia è crollato lo zarismo ed il potere è stato assunto dai Soviet degli operai, dei contadini e dei soldati, diretti dal Partito comunista bolscevico. L’esercito zarista, opposto agli eserciti degli Imperi Centrali sui fronti dell’Europa Orientale, ha subito sconfitte assai pesanti. E’ la guerra disastrosa che sul fronte orientale si sta consumando con tali negativi risultati a fare da detonatore principale alla repentina messa in crisi del regime. I Bolscevichi, col loro leader Lenin, assumono il potere. Trattano la pace separata coi tedeschi, seppure a dure condizioni.

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E’ il principio di una nuova storia. I lavoratori di quel paese immenso, col suo territorio sterminato che si distende tra l’Europa e l’Asia, per la prima volta nella storia del mondo, cominciano ad agire per costruire una nuova società, inedita nelle sue forme e mai conosciuta in precedenza, radicalmente diversa dal passato. Il nuovo Stato socialista è diretta espressione del mondo del lavoro, degli operai, dei contadini, dei soldati. Un capovolgimento, apparso per secoli e secoli impossibile, iniziava impetuosamente e nel concreto a realizzarsi. Un esperimento cui si guarderà, con immensa speranza e con ammirazione, da parte dei lavoratori di ogni più lontano angolo del globo. Ciò che si è riuscito a fare in Russia, liquidando secolari ed ancestrali retaggi medioevali, va ora espanso e realizzato ovunque, estendendo in ogni singola situazione nazionale l’embrione di quel nuovo modello, di Stato e di governo popolare. La parola d’ordine che inizia a circolare tra i lavoratori diviene ben presto quella di “fare come in Russia”. In Italia, in specie a Torino e nelle zone industriali del Nord, nel periodo 1919-1920 s’inasprisce lo scontro tra operai e datori di lavoro. E’ la fase del “ biennio rosso”, il cui apice si raggiungerà proprio a Torino. Per impulso dell’ “Ordine nuovo”, il giornale fondato da Antonio Gramsci e da Palmiro Togliatti, i consigli di fabbrica, organismi sorti sui posti di lavoro sul modello dei soviet sovietici, dopo che la Fiom nel 1920 ha presentato alla Fiat un memoriale con precise ed avanzate rivendicazioni normative e salariali, con lo “sciopero delle lancette”, lo scontro s’inasprisce ulteriormente fino alla decisione dell’occupazione delle fabbriche. Un grande movimento, cui aderiranno circa 400.000 operai e che tuttavia non si estenderà in modo capillare ed uniforme al resto del paese. Uno sciopero rivendicativo certamente, ma anche un movimento al cui interno s’intravedono idee e posizioni ben più nette, ostinate e radicali di quelle della Confederazione Generale del lavoro e della direzione nazionale del PSI.

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A Torino l’azione in corso appare di segno ben più nitidamente rivoluzionario.111 Una fase di scontro e contrapposizione intensissima, che si concluderà però con la dura sconfitta delle forze operaie e con l’inizio di una feroce reazione padronale. Da quella parte non ci sarà infatti alcuna remora nel ricorso alla manovalanza armata fascista per piegare, con la forza e la violenza più spietata, la lotta operaia e popolare. Nel 1920, la CGdL ha raggiunto livelli di adesione davvero ragguardevoli. L’organizzazione, diretta dal riformista Ludovico D’Aragona, è infatti passata, durante il “ Biennio Rosso” dai 250.000 iscritti della fine della guerra ad oltre 1 milione nel 1919 fino, addirittura, a 2 milioni e duecentomila nel 1920. Nel febbraio del 1919 la Fiom, il sindacato metalmeccanico diretto da Bruno Buozzi, ha conquistato lo storico obiettivo della giornata lavorativa di 8 ore. L’ultimo importante risultato del mondo del lavoro prima che in Italia si affermi con la violenza selvaggia la reazione nera. Il periodo del “biennio rosso” contiene al proprio interno il prodromo della crisi che in breve condurrà all’avvento del fascismo, di Mussolini e della dittatura, arrestando l’avanzata del mondo del lavoro e confiscando in Italia per un intero ventennio qualsiasi forma di antecedenti libertà già conquistate. A Salerno un esempio luminoso di strenua resistenza all’avanzata trionfante del fascismo sarà Nicola Fiore. Non è evidentemente questa l’occasione per ripercorrere l’insieme di ragioni che hanno indotto, in quei frangenti, al tragico epilogo conclusivo di quella storia ed alla sconfitta epocale del mondo del lavoro. La biografia in proposito è ormai e non a caso sterminata. Si può soltanto, con una qualche postuma ragione, constatare che le forti divisioni, interne alle diverse formazioni d’ispirazione progressista e popolare, a quel tempo operanti nel paese, in specie nel Partito Socialista ma non solo, tra forze cattoliche e mo111

L’Ordine Nuovo, il giornale dei Consigli di fabbrica, nasce a Torino il 1 maggio 1919. Il foglio, che- prima di essere soppresso- uscirà a periodicità variabile, viene fondato da Antonio Gramsci e si avvale della collaborazione di un gruppo di intellettuali socialisti torinesi tra cui Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini.

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vimento socialista, ed in questo ambito tra massimalisti e riformisti, non saranno ininfluenti ed anzi fungeranno da apripista alla reazione, al vittorioso e rovinoso avvento del fascismo. Fatto è che un percorso virtuoso d’avanzata progressiva bruscamente s’interrompe. S’apre una lunga pagina buia di storia del paese. La legalità violata, le sedi delle Camere del Lavoro sistematicamente distrutte e saccheggiate, incendiate le sedi delle cooperative e quelle dei partiti di sinistra, con quelle dei comuni amministrati dalle forze socialiste. Omicidi e ferimenti degli oppositori all’involuzione fascista e alla reazione si susseguono. Ogni e qualsiasi forma di legalità scompare! E tutto ciò avviene, di frequente, grazie all’omertà o addirittura alla complice ed esplicita copertura delle forze dell’ordine. Progressivamente il movimento fascista, fin dal suo sorgere non ostacolato ed anzi favorito dalla Monarchia, dopo il delitto Matteotti del 1924 ed il varo delle “ leggi eccezionali”, s’avvia a realizzare in maniera capillare, in ogni segmento dell’organizzazione statuale liberale, una trasformazione radicale e antropologica, in senso dittatoriale, rispetto al precedente, gracile Stato liberale. Ormai non si esplicita più alcuna resistenza, è ridotta al silenzio ogni voce anche soltanto parzialmente dissonante. Eliminata la libertà di stampa e di riunione, nel 1926, col Patto di Palazzo Vidoni il regime fascista, d’intesa con Confindustria, stabilirà che il Sindacato corporativo fascista è il solo giuridicamente riconosciuto e ammesso. E dovrà in sostanza garantire, nell’ambito della trasformazione corporativa dello Stato, vietato ogni conflitto, la stabile collaborazione tra il capitale ed il lavoro. Uno snaturamento radicale, ed anzi un sostanziale annullamento di ogni distinzione e autonomia, di ciò che fino a quel momento è stato il Sindacato. Ed il fascismo al contempo raggiunge, con la guerra di Etiopia del 1935 e la promessa della prossima conquista dell’Impero, il culmine del consenso all’interno del paese. Un successo più avanti, dopo l’entrata in guerra e le successive sconfitte sui vari fronti conseguiti, destinato con grande rapidità a liquefarsi.

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Dopo un lungo ventennio, che tanti lutti causerà alla Nazione, finalmente si conclude l’aberrante periodo della dittatura, la cui definitiva sconfitta è dovuta all’azione congiunta dell’opposizione armata e della resistenza ed, in parallelo, all’incalzante protesta popolare. Nel marzo 1943 si svolgono, nei posti di lavoro, i grandi scioperi degli operai di Torino e delle fabbriche del Nord, con la protesta contro la guerra e il carovita. Lo sciopero operaio era iniziato il 5 marzo 1943 negli stabilimenti della Fiat Mirafiori di Torino e da lì si era espanso a tutta la città e poi, nei giorni successivi, al Piemonte ed alla Lombardia, finendo per coinvolgere in modo attivo oltre 210.000 operai. Le richieste avanzate dagli scioperanti riguardavano un miglioramento delle condizioni di vita e di esistenza, maggiore disponibilità di cibo e di beni di prima necessità, ma lo sciopero assumeva indubbiamente un marcato significato politico, di segno antifascista, e apriva la strada ad un rafforzamento della presenza clandestina dei comunisti e degli attivisti sindacali nelle fabbriche del Nord. Per tale ragione costituì la prima ed incisiva spallata al regime, pur non dando ancora repentinamente avvio alla sua crisi definitiva. Lo sciopero preoccupò la dirigenza del regime, ma il capo del fascismo ritenne che la protesta si sarebbe ben presto ricomposta. Né ne restò colpito, in maniera decisiva, il Re nelle cui mani in quel momento era l’unica possibilità di soluzione della crisi. Una valutazione in verità piuttosto errata, in quanto in tutta evidenza era iniziato il movimento di riscossa, che avrebbe generato un’accelerazione repentina della lotta armata che si sarebbe risolta con la progressiva liberazione del paese diviso ancora verticalmente in due. Dopo gli sbarchi degli eserciti alleati, nell’Italia del Sud, in Sicilia, nel golfo di Salerno, infine ad Anzio in un’avanzata ben presto apparsa inarrestabile e che culminerà più avanti nel grande Sbarco in Normandia, i nazisti iniziano la loro ritirata112. 112

Lo sbarco in Sicilia, noto come operazione Husky, la prima grande operazione alleata sul fronte italiano, si realizza tra il 9 luglio ed il 17 agosto 1943, nel mentre è del 9 settembre 1943 lo sbarco di Salerno, “l’Operazione Avalanche”, con la messa in campo di uno spiegamento di forze anglo- americane

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La RSI, sull’onda della lotta partigiana, comincia a liquefarsi. La lotta armata e popolare, sviluppata in larga prevalenza nel centro nord del paese, ridà alla Nazione la dignità perduta. In verità non mancano neppure nel Mezzogiorno d’Italia più esempi ed episodi, di lotta e resistenza popolari. Uno per tutti la vittoriosa rivolta popolare di Napoli, la prima grande città in Europa ad insorgere con successo contro l’occupante nazista113. Lo scontro, tra reazione sanguinaria e forze progressive, sarà spietato e sanguinoso prima di pervenire al ripristino della tanto agognata libertà. Il paese pagherà un grande tributo, di sangue e di dolore, prima che si riaffermino la libertà e la democrazia violata. E ciò avverrà con inauditi sforzi e sacrifici estremi. Il bene non verrà ripristinato nelle maniere, nei modi e nelle forme “naturali”, per così dire del tutto ineluttabili, che Benedetto Croce aveva teorizzato come superiore necessità che, a un certo punto, dopo una parentesi provvisoria e negativa della storia umana, avrebbe ripreso inarrestabilmente il proprio corso. La strada superiore e inarrestabile della Libertà. In fondo anche le tragedie più tremende, aveva già osservato a proposito dell’esito funesto della Rivoluzione Napoletana del 1979, conclusasi con la feroce vittoria della reazione sanfedista contro i patrioti repubblicani e liberali, altro non avevano rappresentato “ se non una momentanea interruzione di un processo storico (di progresso umano) inarrestabile. Lo stesso sarebbe accaduto col fascismo. Tesi consolatoria, quella della parentesi oscura nel lungo progredire della storia umana, e tuttavia accettata in maniera assai davvero ragguardevole, che interesserà tutta la costa, da Maiori a Castellabbate. Dal 22 gennaio al 31 gennaio 1944 il VI corpo d’armata alleato inizia e porta a compimento l’invasione dell’area di Anzio e di Nettuno, prima dell’ultima spallata decisiva, il 6 giugno 1944, lo sbarco in Normandia, nel Nord della Francia, noto come l’Operazione Overlord, il D-Day. L’azione messa in atto dagli Alleati che ancora oggi resta la più grande operazione aeronavale della Storia. 113 La rivolta di popolo, che coinvolse i maggiori quartieri partenopei, si protrasse a Napoli dal 27 al 30 settembre del 1943. I tedeschi, sorpresi dall’impetuoso sviluppo degli avvenimenti, furono costretti ad abbandonare la città occupata.

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diffusa, non solo in materia di giudizio storico, ma anche foriera di comportamenti politici del tutto conseguenti, di attesa in sostanza assai passiva e inerme114. Liberato finalmente dai tedeschi il suolo della Patria, sconfitto il fascismo in via definitiva, ha inizio la sfida, particolarmente aspra e impegnativa, della ricostruzione materiale e morale del paese. Vanno ricostruiti con urgenza strade, scuole, ospedali, ferrovie, le case totalmente o parzialmente distrutte e danneggiate. Lo Stato, garante del ripristino del vivere civile, va integralmente e con urgenza di nuovo insediato nelle sue funzioni. La Cgil ( Confederazione generale italiana del lavoro), il nuovo sindacato unitario, riprendeva a pieno vita e funzioni dopo la lunga notte della dittatura e rinasceva a Roma nel giugno del 1944. Alla ricostituzione dell’organizzazione contribuivano le forze sindacali, di ogni tendenza e orientamento, riuscendo a conseguire primi importanti avanzamenti civili e materiali: la parità salariale per le donne e la scala mobile che avrebbe dovuto, in una certa misura, proteggere i salari dall’inflazione. La Cgil aveva però accettato, di converso, lo scioglimento dei “consigli di gestione” che, nei mesi precedenti, erano stati considerati da una parte della sinistra, in modo piuttosto velleitario, quasi una sorta di “ soviet” operai, un primo passo nella direzione della conquista del potere nelle fabbriche. Ad ogni buon conto, Giuseppe Di Vittorio ( Pci), Emilio Canevari ( Psi) ed Achille Grandi ( Dc) siglano il Patto per l’unità sindacale ed avviano la ricostituzione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro ( CGIL), che eserciterà una funzione importante e di rilievo anche nel referendum del giugno 1946 che si concluderà con la vittoria della Repubblica contro la Monarchia, tema provvisoriamente congelato nel corso della guerra e rinviato, per la sua sistemazione finale, all’indomani della fine del conflitto115. 114

Benedetto Croce, La Religione Della Libertà, Antologia degli scritti politici, a cura di Girolamo Cotroneo, SugarcoEdizioni, Aprile 1986 115 Nel referendum del 2 e del 3 Giugno 1946 la repubblica otterrà 12.717.923 voti ( il 54,3% ), la monarchia 10.719.284 ( il 45, 7%).

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L’unità dell’insieme delle forze del lavoro nella Cgil purtroppo durerà per una breve stagione, prima di entrare in una crisi comatosa e d’interrompersi a causa dei conflitti e delle forti divisioni rapidamente esplose tra le principali forze politiche di riferimento, le sinistre e la Dc. Una frattura grave, non contingente, ed anzi destinata a pesare e non poco- nei futuri decenni che verranno, a sua volta dovuta al condizionamento di fattori esterni allo scenario specificamente nazionale, ovvero all’evolversi della situazione cheall’indomani della fine della guerra- ha portato, con l’incontro di Yaltatra i grandi del mondo vincitori della guerra, ad una nuova divisione del globo tra USA ed URSS in distinte aree di influenza. La rottura, consumata a livello internazionale, si rifletterà ben presto sul piano locale quasi in maniera automatica, concorrendo, dopo la fine dell’unità nazionale e l’estromissione di socialisti e comunisti dal Governo del maggio 1947, alla secca divisione anche a livello sindacale. Il 14 luglio 1948, nel clima di esasperata contrapposizione che taglia verticalmente in due il Paese, un attentato nei pressi del Parlamento, causa il ferimento del capo del PCI, Palmiro Togliatti, mettendone in pericolo la vita. Lo sdegno esplode immediato ed in modo incontrollato in più punti del paese, si dispiega la spontanea ed accorata protesta dei lavoratori, la Cgil indice la Sciopero Generale, il pretesto assunto dalla corrente democristiana per fuoriuscire dall’organizzazione. Verrà formato un nuovo sindacato, denominato inizialmente “ Libera Cgil” e poi, più avanti, nel 1950, Cisl. Nello stesso anno, fuoriusciranno dalla Cgil anche i centristi laici ed i socialdemocratici, dando vita alla Uil. Tutti gli anni 50 sono caratterizzati dallo scontro, prolungato e durissimo, che opporrà nelle piazze lavoratori e forze dell’ordine in rappresentanza dello Stato. Innumerevoli gli interventi della polizia nel corso delle manifestazioni di piazza, in genere promosse in difesa del diritto al pane ed al lavoro. Nel paese si accentuerà il clima di violento anticomunismo esasperato, già in atto fin dalle elezioni del 18 Aprile 1948 conclu-

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se con la grande vittoria della DC e la sconfitta della coalizione socialista e comunista riunita nel Fronte Popolare. Si attua in quegli anni una dura repressione delle lotte operaie. Licenziamenti e discriminazioni odiose, schedature, processi con condanne si susseguono. Una lunga scia di sangue, da quella mafiosa di Portella della Ginestra in Sicilia del 1 maggio del 1947 all’uccisione, da parte della polizia, di 6 operai ed al ferimento di 50 loro compagni a Modena, dopo un corteo di protesta contro la serrata delle Fonderie Riunite. E non si tratterà purtroppo di singoli episodi, circoscritti ed isolati. La fase di violento scontro frontale e la controffensiva contro la Cgil raggiungerà un nuovo picco in occasione delle elezioni per il rinnovo della Commissione Interna alla Fiat del marzo 1955. Un passaggio che si concluderà con la dura sconfitta della Cgil, crollata al 36% dei voti ( prima aveva sempre conseguito la maggioranza assoluta giungendo fino al 65%), nel mentre primo sindacato diviene la Fim Cisl con il 41% dei consensi, e d’altro canto la Uil raccoglierà il 23% dei voti ed il Sindacato aziendale della Sida conseguirà un’affermazione non proprio irrilevante. Una grande sconfitta, che peserà in futuro per molto tempo ancora. Una grave battuta d’arresto, dovuta indubbiamente al pesante clima repressivo instaurato dall’azienda, ma derivato probabilmente anche dalla stanchezza degli operai mobilitati più volte nei frequenti scioperi politici che si erano nei frangenti di tempo precedenti succeduti. Tesi, in verità, non condivisa, ed anzi contestata da Di Vittorio. “ Non è vero, sostenne, che abbiamo logorato le nostre forze in inutili battaglie … Abbiamo … peccato di genericità e schematismo, abbiamo applicato formule e linee inadeguate, e abbiamo insistito anche quando la realtà particolare della fabbrica ha assunto forme nuove, e nuovi sono diventati i metodi e le armi, che il nemico ha ricominciato a adoperare contro di noi”.116 116 In Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 al crollo del comunismo, Roma - Bari, Laterza, 1998. La riflessione autocritica di Giuseppe Di Vittorio più in dettaglio alle pp.211-212

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In precedenza, nel 1950, la Cgil di Di Vittorio aveva lanciato il “Piano del Lavoro”. L’idea forza, essenziale del Piano, consisteva nell’obiettivo di muovere risorse pubbliche in maniera mirata, per ricostruire la Nazione, combattendo la disoccupazione dilagante iniziando in tal modo a dare una risposta all’immane bisogno di lavoro. Un atto impegnativo, di giustizia e civiltà, che sottolineava la priorità dell’interesse generale e che esplicitava la disponibilità a rinunciare, nell’interesse collettivo, alla richiesta sindacale, pur legittima, di consistenti aumenti salariali capaci di fronteggiare l’inflazione. La sconfitta alla Fiat indurrà all’avvio di una severa riflessione sugli errori compiuti, ma la Cgil dovrà ben presto fronteggiare ulteriori passaggi dolorosi. I fatti d’Ungheria del 1956, con la rivolta che ne conseguirà e l’intervento repressivo dei carri armati sovietici che schiacceranno nel sangue la rivolta. Altre ed ulteriori prove, durissime, attendono la Cgil, che il padronato e le forze di governo intendono isolare e definitivamente liquidare, rendendone ininfluente la funzione. In quei frangenti l’organizzazione, sottoposta ad attacchi concentrici, registrerà importanti cali di iscritti e di consensi, pur avendo Di Vittorio, il suo Segretario Generale, esplicitamente preso le distanze, ed anzi contestato apertamente, l’opportunità del ricorso all’intervento armato sovietico nell’esplosione della crisi d’Ungheria. Una presa di posizione, in contro tendenza rispetto al suo Partito che, isolando Di Vittorio, lo costringerà alla pubblica autocritica ed ad una ritrattazione personale in verità umiliante. In quel tempo è ancora assai condizionante, per il sindacato, il ruolo dei partiti di riferimento, un legame da “cinghia di trasmissione” che obiettivamente si frappone ed ostacola la realizzazione di un Sindacato pluralista, unitario e autonomo, dal padronato, dai governi, dai partiti. Un soggetto che, ove si fosse in tempo e in quelle forme realizzato, avrebbe di certo garantito ben altra forza, tenuta e capacità espansiva all’insieme del mondo del lavoro.

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Gli anni 50, quelli della grande migrazione dal Sud al Nord di circa 1.800.000 lavoratori, si concludono nel mentre si dischiude una nuova, inedita stagione. Gli anni ’60, quelli del “ boom economico”, vedranno una straordinaria ripresa dell’economia, che consentirà il raggiungimento di importanti successi, nelle fabbriche e nei distinti settori industriali, sul piano di consistenti aumenti salariali e di rilevanti riduzioni di orario di lavoro. E’ riconosciuto in quegli anni il diritto, assieme ai contratti nazionali, alla contrattazione articolata. Vengono siglati migliaia e migliaia di accordi nelle diverse aziende. Le piattaforme prevedono aumenti salariali eguali per tutti, l’orario settimanale di 40 ore, il diritto all’assemblea retribuita in fabbrica, il controllo operaio sull’organizzazione del lavoro, la parità normativa tra operai ed impiegati, le 150 ore ed il diritto all’istruzione. Il clima unitario tra le diverse componenti sindacali, dopo la forte divisione delle stagioni precedenti, inizia a rinsaldarsi prima di sfociare, nel 1970, nel varo della legge 300, con il Ministro Brodolini tra i principali ispiratori. Nasce lo “Statuto dei Lavoratori”. In quei frangenti si otterranno anche ulteriori, importanti risultati quali la riforma sanitaria e la riforma scolastica, la legge 898 sul divorzio e la legge 903 del 1976 in tema di parità tra uomo e donna in materia di lavoro. Più conquiste ed avanzate, nella fabbrica e nella società, sul piano della realizzazione di un Welfare State più moderno ed avanzato. Si registra allora uno straordinario protagonismo dei lavoratori e dei consigli di fabbrica, purtroppo più avanti nel tempo in quell’ampiezza e in quella intensità mai più allo stesso modo replicato. S’amplia il fronte sociale unitario, con la scesa in campo, al fianco degli operai, di milioni di studenti in lotta per il radicale cambiamento della scuola. L’importante avanzata delle forze organizzate del lavoro è dovuta indubbiamente all’andamento positivo dell’economia ed anche ad un vantaggioso cambiamento dei rapporti di forza nel-

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le aziende e, più in generale, nel complesso della società italiana che ha iniziato ad essere investita da forti ed impetuose mutazioni, nell’assetto economico e produttivo e nel campo dell’orientamento culturale e dei costumi. La dislocazione diversa, a fianco del mondo del lavoro, di importanti e consistenti fasce del pensiero più avanzato, ha finito per svolgere in tal senso una funzione importante di collante e per più aspetti decisiva. Il tema degli intellettuali, a cui in questa circostanza per ovvia evidenza si rinvia, è risultato sempre essenziale nella storia dell’Italia e dell’Europa. Andrebbe in tal senso immaginata un’aggiornata analisi, ed una specifica riflessione su questo punto, anche in relazione agli eventi ed alla funzione da essi esercitata, nel radicale cambiamento sociale che si è verificato, negli ultimi decenni. Un punto che deve chiamare in causa, in maniera esplicita, il ruolo progressivo o regressivo da esso ceto esercitato nello sviluppo, ovvero di contrasto, nell’involuzione delle società umane che si sono ricostituite o strutturate in modo inedito, in ben diverse forme e identità. Per ora è solo il caso di limitarsi alla riflessione, d’origine gramsciana, secondo cui la funzione dei lavoratori della mente, in specie in Occidente, dove la società, rispetto al modello realizzato nell’Oriente è meno semplice e ben più gelatinosa e più complessa, comportando un ben più intenso ed incessante lavorio per la conquista di più “fortezze e casematte” è questione dirimente e decisiva. Ebbene, non si può in ogni caso sottacere il fatto che un ruolo per davvero positivo è stato effettivamente esercitato dagli intellettuali in una ben definita fase della storia nazionale, in specie all’indomani dell’immediato, secondo dopoguerra. Una funzione, effettivamente di rilievo, seppur condizionata dalla specificità della formazione originaria di quel ceto sociale, obiettivamente troppo sbilanciata in senso umanistico- retorico e poco formato ed aggiornato sul campo più specificamente dirimente della scienza e del grande avanzamento tecnologico che proprio in quegli anni muoveva con decisione i propri passi. Un limite, ed un retaggio negativo, che negli anni a venire peserà e non poco per i destini generali del paese. Comunque, già

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dalla fine degli anni ’60 si innestano nuove, grandissime tensioni. Il 12 dicembre 1969 la strage di Piazza Fontana a Milano inaugura la “strategia della tensione”, preannunciando gli anni drammatici e sanguinosi del terrorismo. Una vicenda dolorosa, puntellata da ciclici, drammatici passaggi. La rivolta eversiva di Reggio Calabria del 1972, la strage di Brescia, in Piazza della Loggia, del 28 maggio 1974, la bomba fascista sul treno Italicus, a Bologna, di pochi mesi dopo. Il 16 marzo 1978 avviene il sequestro ed il conseguente omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, atto che in sostanza interromperà bruscamente la ricerca di un nuovo rapporto, di maggiore intesa e convergenza sulle principali emergenze del Paese, tra le grandi formazioni storiche e popolari nazionali. E ancora il 2 agosto 1980 la bomba che esplode nella stazione di Bologna e che causa 85 morti e 200 feriti. Una lunga, ininterrotta scia, di distruzioni, di sangue e di dolore, che mette a dura prova la capacità di resistenza e di tenuta della democrazia italiana. Pulsioni devastanti, che si susseguono incessanti, nel mentre sullo sfondo, nell’economia, si avvia una profonda e diffusa ristrutturazione delle imprese industriali che costringerà il sindacato sulla difensiva. La lotta alla Fiat e lo scontro durissimo che ne deriverà, dopo che l’azienda ha preannunciato, nel settembre 1980, il licenziamento di 14.000 operai e la messa unilaterale in cassa integrazione di 23.000 operai, si concluderà per il Sindacato in maniera seccamente negativa. La “marcia dei 40.000” è l’atto conclusivo e l’immagine simbolica di una bruciante sconfitta i cui effetti peseranno a lungo nei tempi che verranno. Un passaggio, simbolico e importante, che sancisce uno snodo nella storia del sindacalismo confederale italiano e che interromperà, per un lungo periodo, la lunga fase di avanzata del sindacalismo confederale iniziata negli anni ‘60. Si incrinerà di nuovo il rapporto tra le Confederazioni che registrerà un’ulteriore, drammatica frattura in occasione del “ Decreto di San Valentino” del 14 febbraio 1984, proposto ed attuato dal Governo Craxi. Il decreto che porterà al taglio di 4 punti di scala mobile. Le contrapposizioni condurranno alla definitiva

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rottura della Federazione Unitaria. Una frattura che, in sostanza, da quel momento in poi, non risulterà più organicamente ricomposta. In quei lunghi anni alla guida della Cgil si sono succeduti grandi leader sindacali. Luciano Lama innanzi tutto, che vivrà in pieno la stagione del terrorismo e delle stragi, poi Bruno Trentin e Antonio Pizzinato. In generale, si può a ragione sostenere che le battaglie sostenute dalle forze del lavoro conducono ad un avanzamento di sostanza nel processo di costruzione e di consolidamento del sistema di Welfare State, ampliando in maniera rilevante i confini dei diritti di cittadinanza collettiva per come fino ad allora li si era conosciuti. Le grandi lotte operaie e popolari, con le riforme che da esse ne sono derivate, della scuola, della sanità, della casa, della previdenza, della costituzione delle Regioni e del decentramento dello Stato, da un lato concorrono a dilatare il peso e la funzione del mondo del lavoro nell’insieme della società, dall’altro incidono in maniera profonda sul nuovo carattere assunto dalla democrazia italiana, di cui si estendono e dilatano i confini precedenti. E non sono indifferenti, ed anzi condizionano, fisionomia, identità, caratteri assunti dallo stesso Sindacato Confederale. Il sistema dei servizi primari collettivi e la loro diffusa, pubblica funzione universale indurrà ad un riequilibrio, ed anzi ad un importante spostamento di attenzione nell’elaborazione e nelle nuove forme di organizzazione assunte dall’azione sindacale e dalla stessa Cgil. E’ il tema che non a caso si discute oggi, a trentacinque anni dalla costituzione della Funzione Pubblica e che in maniera più specifica e appropriata, per il ruolo ricoperto, toccherà Alfredo Garzi. Un momento, di approfondimento e riflessione necessari, per ritrovare le origini ed i percorsi peculiari di una storia, importante e originale, che va di pari passo con l’evoluzione e lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’insieme della società italiana e con lo sforzo tutto attuale di cercare, nelle nuova situazione data, di aderire al meglio alle sue pieghe.

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E si registra, non a caso, una profonda mutazione nella composizione stessa della sua ossatura. Si è passati, in progressione, da un’organizzazione originariamente in prevalenza agraria per pervenire poi ad una struttura in larga prevalenza industriale prima che assumesse un ruolo primario e per più aspetti decisivo il lavoro pubblico e quello dei servizi, con l’insieme delle funzioni articolate ed al suo interno incorporate. In questa direzione il sindacalismo confederale ha recuperato in progressione, in fatto di prestigio e di consenso, rispetto all’estrema e capillare diffusione delle tante forme ed espressioni del sindacalismo d’ispirazione neo corporativa. E tuttavia, a differenza di ciò che accadde nei settori agrari e industriali ove il sindacalismo confederale e la Cgil in specie riuscirono a penetrare e ad insediarsi in maniera stabile, diffusa e capillare, ancora oggi, pur a fronte degli indiscutibili successi realizzati, troppo ampia è la fascia di lavoratori attivi che non si incontrano, ed anzi sono ostili o rifiutano il Sindacato Confederale, con l’esercizio della sua specifica funzione negoziale. La storia nazionale ha prodotto, in tempi più vicini, ulteriori e repentine accelerazioni e smottamenti nel suo corso. E’ storia relativamente recente che in Italia, nel 1992, è iniziata la definitiva crisi dei Partiti della prima Repubblica, della DC e del PSI innanzi tutto. Più in generale, il crollo del Muro di Berlino ha messo fine all’esperimento del “ socialismo reale”, esperienza risultata miseramente travolta dalla storia. Sono cambiate nel profondo le dinamiche del mondo precedente, scomposte e strutturate in nuovo modo le antecedenti gerarchie, storiche forze politiche sono scomparse o si sono radicalmente trasformate. Sulla scena del mondo sono apparsi soggetti nuovi, dinamici ed aggressivi, grandi paesi che, fuoriuscendo dal loro secolare ed almeno relativo isolamento, hanno iniziato a svolgere nel mondo una funzione assolutamente imprescindibile e centrale. E tuttavia, con le sue alterne fortune, ancora oggi, il Sindacato Confederale della Cgil continua ad essere una forza importante ed essenziale per i futuri destini del paese, un soggetto che, riuscendo ad organizzare ancora milioni di lavoratori, pretende a

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buon diritto di esercitare un proprio ruolo, una forza che certo deve profondamente ed incessantemente rinnovarsi, attrezzandosi in maniera più moderna ed aggiornata per le inedite prove e per le necessità nuove imposte dall’accelerazione repentina delle grandi rivoluzioni in atto e susseguenti al nuovo scenario della globalizzazione e dell’accelerazione estrema e dilatata del ruolo della finanza nell’economia. Un quadro per più aspetti nuovo e inedito, che obbliga alla ricerca di diverse sintonie e all’istruzione urgente di stringenti politiche unitarie e di più forte coesione concordate, in ambito europeo, tra i diversi soggetti sindacali nazionali. La forza ed il prestigio del Sindacato Italiano sono stati determinati dalla sua capacità di esercitare, sempre, una funzione non corporativa ma ispirata da una visione d’insieme più ampia e generale. Costante la ricerca di un raccordo, e di un collegamento, tra rivendicazioni particolari e progetto, più generale, di crescita democratica e di sviluppo, economico e civile, dell’insieme della società. La lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro in fabbrica e sul posto di lavoro mai scissa dall’azione per le riforme, per il diritto all’istruzione per tutti i cittadini, per il diritto alla salute, per più vasti processi d’inclusione, per l’attuazione, integrale, della Costituzione repubblicana frutto della guerra di liberazione, per l’estensione della giustizia e della democrazia. L’idea della democratizzazione dello Stato è il filo rosso di questa narrazione scritta dall’impegno di milioni di lavoratori italiani. Il tratto distintivo di una identità feconda che ha consentito l’originale anomalia e la crescita di prestigio del Sindacalismo italiano e della CGIL. Un’esperienza da custodire, ancora e di più, nella contemporaneità dell’oggi, in una fase difficile ed impegnativa in cui riemergono molteplici tendenze alla frammentazione ed alla contrapposizione, a nuove pulsioni neo- corporative disgregatrici della società italiana e dello stesso mondo del lavoro. E a nuove situazioni d’incertezze, di rischi e d’ipoteche sul prossimo futuro dell’Europa Unita come, in specie nelle ultime

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settimane, sta dimostrando il drammatico evolversi della crisi greca dagli sbocchi futuri tutt’altro che scontata. L’azione di contrasto contro la diffusione-estremadell’incertezza e della precarietà per le nuove generazioni, per donne e giovani diplomati e laureati meridionali senza lavoro o impiegati in miriadi di attività precarie, troppe volte umiliati nelle loro speranze e aspirazioni, è la rinnovata sfida che deve assumere su di sé il Sindacalismo Confederale, nel mezzogiorno, in Italia ed in Europa. Ciò comporta il rilancio di una forte lotta, ideale e culturale, per non smarrire i tratti essenziali di una peculiarità che rifiuta e combatte con fermezza ogni genetica mutazione del carattere distintivo del Sindacalismo Confederale. L’opposizione, netta ed intransigente, ai tentativi, da più parte profusi, per mutare fisionomia, identità, autonomia dell’organizzazione che la relegherebbe ad inerte e subalterno ruolo di supplenza istituzionale. La forza e la capacità di incidenza del Sindacato sono sempre state condizionate dall’andamento espansivo o recessivo dell’economia. Nei periodi di crescita esso ha esercitato più potere di condizionamento sulle scelte del padronato e del governo. Nelle fasi regressive il suo potere invece si è contratto e si sono rafforzate le tensioni all’arroccamento ed alla chiusura. Essenziale è perciò, ancora oggi, il rilancio di una iniziativa di lotta, generale, per la crescita e lo sviluppo che riparta anzitutto dalla centralità del Mezzogiorno. In tale contesto, l’investimento sulla decisività del fattore umano, la scelta di puntare sulla più ampia diffusione, tra i lavoratori e nella società, delle conoscenze e dei saperi quale scelta permanente e consapevole. Una necessità, spesso trascurata, che non è estranea all’odierna marginalizzazione e decadenza di un Paese ancora incapace di esercitare, in troppi campi dell’agire umano, un ruolo di rilievo nei processi, sempre più accelerati e vorticosi, di mondializzazione dell’economia. Una deriva, pericolosa e grave, che il Sindacato, rinnovando fedelmente ancora oggi l’ancoraggio ai valori che l’hanno originato, insieme a tutte le forze progressive del Paese, può concorrere ad arrestare!

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Anche per il Sindacato vale l’imperativo di rinnovarsi, per rispondere in maniera più adeguata alle sfide, inedite, del tempo presente e della modernità. Maggiore tasso di coesione, più intelligenza collettiva che si rimette in moto, più forte sintonia e collaborazione nello scenario continentale ed europeo, una urgenza ed una necessità indifferibile da cui è miope e perdente tentare di prescindere.

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DEMOCRAZIA E DIRITTO Numero Monografico sul Sindacato, Aprile 2014 In questa occasione in cui, anche a Salerno, abbiamo scelto di presentare il numero monografico di “ Democrazia e Diritto” dello scorso aprile 2014117, intendo subito precisare che la mia più che un’introduzione tradizionale e canonica sarà la proposizione problematica di più spunti e riflessioni, per tentare di favorire una riflessione collettiva diffusa e ad ampio spettro. E’ il caso in premessa di accennare che la nostra discussione si snoda e si sviluppa a fronte del fatto che veniamo da decenni di selvaggio liberismo, di messa in crisi di idee forza discriminanti ed essenziali, come quella della solidarietà, dell’eguaglianza e di più diffusa giustizia sociale. Idee che, ad un certo punto, sono apparse quasi del tutto soppiantate dal prevalere dell’esclusiva legge del mercato, presuntiva idea risolutiva delle contraddizioni accumulate e che tuttavia non si è alla fine rivelata la panacea che da più parti si auspicava. Nell’introduzione del volume, insieme a molteplici spunti interessanti, nel suo intervento Riccardo Terzi ci richiama ad un concetto semplice ed essenziale. Ovvero quello per cui “non è sufficiente voler cambiare il mondo” , ma per realizzare l’intenzione, “il mondo lo si deve innanzi tutto conoscere nella sua dinamica interna di sviluppo, padroneggiandone le tecniche da cui è regolato”. Metodo questo, in verità, nella prassi corrente col trascorrere del tempo piuttosto abbandonato. L’incontro odierno nasce dalla comune consapevolezza della grande difficoltà della fase che viviamo, delle pesanti ipoteche che ne regolano il cammino, dalle persistenti incertezze che incombono sul prossimo futuro. 117

Il volume, curato dalla Franco Angeli Editore, contiene una serie di saggi, seri e impegnativi, sul Sindacato, sulla sua funzione e su più aspetti delle difficoltà e della crisi che lo ha investito, in specie dagli anni ’70 in poi. Esso può costituire, nell’immediato e nel prossimo futuro, un utile strumento per istruire un’aggiornata e proficua riflessione.

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E non risulteranno neutrali o indifferenti le scelte che si compiranno oggi nel segnare gli sbocchi e gli indirizzi futuri che verranno. Difficoltà e problemi, di tale ampiezza, da non poter essere affrontati seriamente con risposte improvvisate, tradizionali e contingenti., e che anzi esigono, di necessità, uno straordinario impegno, diffuso e collettivo, di lunga lena , del mondo del pensiero e della parte più avvertita, e non corporativa, del mondo del lavoro. Serve un nuovo protagonismo, dovunque si agisca e ci si trovi, che parta da un’affinata e rigorosa lettura del reale. Mai come ora nessuno, da solo, può affrontare né tampoco risolvere alcunché. Partirei dalla constatazione che, in specie in questi ultimi anni, si è diffusa e radicata, nel “ senso comune” un’opinione piuttosto negativa sul sindacato confederale, e in specie sul ruolo e la funzione da esso esercitata nella società italiana. Il Sindacato ha catalizzato su di sé molteplici spinte ed interessi, domande e tante attese, a cui non sempre è riuscito a dare risposte convincenti e persuasive. E tuttavia il giudizio appena riferito appare in verità piuttosto schematico e parziale, ed anche per più aspetti almeno in parte unilaterale e ingeneroso. All’ordine del giorno è un nodo aperto ed un ineliminabile quesito : Il Sindacato è oggi una forza storicamente datata e che ha perso la sua funzione propulsiva, destinata ad un declino inesorabile o è ancora in grado di svolgere un ruolo importante e di rilievo nell’evoluzione della società italiana? E per far ciò in cosa è necessario che esso cambi e che si innovi? Tornerò in maniera più puntuale su questo punto aperto ed obiettivamente problematico. Per ora mi limito ad osservare che chi nel sindacato confederale milita da tempo, da vari decenni e più, di questa storia importante ha vissuto più fasi, esperienze, traversie. Periodi d’avanzate importanti, poi di dure sconfitte e ritirate, con lunghe fasi di stasi e resistenza difensiva. Nei periodi di crescita civile ed economica ascendente, si è indiscutibilmente inciso sulla sostanza della vita del Paese e si è concorso a pla-

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smare i caratteri specifici della sua democrazia, con importanti conquiste sul terreno dei diritti, non per una sola parte ma per il complesso della società italiana. Diritto alla salute e all’istruzione, all’assistenza ed alla previdenza, ampliamento delle occasioni di lavoro, attiva immissione di masse popolari sempre più estese alla partecipazione pubblica ed al destino dello Stato. Il Sindacato, in specie dopo la fine del secondo conflitto mondiale ed a fronte della riconquista della libertà per un lungo ventennio confiscata, è stato uno dei soggetti centrali che, nel paese, ha concorso in positivo al cambiamento di prassi consuete e consolidate, nel modo di pensare, nelle abitudini, nell’economia, nella cultura corrente e nei costumi. Periodi in genere coincisi con una fase ascendente del ciclo economico, di una sua fase di crescita e di sviluppo accelerata, che concorreva all’interna, profonda mutazione di una società che aveva intrapreso un cammino di grande cambiamento della propria fisionomia e identità.. Una realtà che in precedenza era stata a lungo a larga prevalenza agraria e poi, a tappe rapide e forzate, aveva risolutamente iniziato ad acquisire l’identità di un moderno paese industriale. E’ questo il periodo in cui si registrano le conquiste più importanti, dallo “ Statuto dei Lavoratori” alla “ Riforma sanitaria” e si sviluppano lotte sociali e popolari diffuse e coinvolgenti, come la lotta per la casa. E’ inoltre il tempo in cui il Sindacato si erge come invalicabile baluardo contro la mortale minaccia del terrorismo che, nel paese, in più occasioni, cosparge le strade del sangue di vittime innocenti. Gli anni 70 in specie sono quelli dello scontro mortale tra il terrorismo e la democrazia e nello sbocco che si definirà in quei problematici frangenti un indiscutibile ruolo e decisivo, nella difesa della democrazia e della libertà dei cittadini, lo svolgerà senz’altro il sindacalismo confederale italiano. Nei successivi periodi della storia, del profilarsi della crisi energetica mondiale, e dell’avvio dei progressivi processi d’interruzione e d’isterilimento della crescita economica, di profonda ristrutturazione dell’assetto industriale del paese, nelle

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fasi in sostanza di crisi e di chiusura invece, insieme al complesso della società italiana, regredirà lo stesso sindacato. E’ allora che iniziano ad accentuarsi i processi di profonda e progressiva deriva corporativa della nostra società e che si accentua il potere deviante e stritolante delle lobby che accentuano la propria perversa morsa sulla realtà, ostacolandone il libero fluire. Un’involuzione progressiva, in forme diverse ciclicamente riproposta, che incide tutt’ora sulla vita del paese e che non è fattore estraneo all’accentuarsi dei fattori strutturali ancora in corso della crisi. Al centro del nostro ragionare, perciò, non a caso, è proprio e inevitabilmente il tema della crisi, del suo carattere non congiunturale, di fase e contingente, quanto piuttosto strutturale e di sistema. Una crisi mondiale, non circoscrivibile al perimetro dei singoli paesi e che procede ormai ininterrotta dal 2007 ad oggi. Essa, negli USA ed in Europa, ha polverizzato, progressivamente, milioni di posti di lavoro, nel comparto manifatturiero, nei servizi, nel commercio, nell’artigianato. Nè se ne è colta a tempo portata, ampiezza e dimensione. Anzi ad essa si è reagito in ritardo, male e di rimessa, a lungo asserragliati sulla difensiva. Se dovessimo indicare alcuni dei principali elementi del sommovimento intervenuto nella vita del Mondo negli ultimi decenni, potremmo indicarne almeno tre, centrali e decisivi: La straordinaria e rapidissima rivoluzione tecnologica che, in tutte le attività, ha scomposto e trasformato alla radice il modo di lavorare e di produrre; i grandi processi di globalizzazione, che hanno reso il mondo più piccolo e vicino tra le diverse sponde, accorciando ovunque le distanze tra Stati e tra persone; L’accelerazione impetuosa dei processi d’incidenza della finanza nell’economia, che ha spostato progressivamente, in maniera assai massiccia e continuata, gli investimenti dai settori produttivi e dal lavoro alla finanza, con la selvaggia speculazione che ne è derivata. Problemi tutti inediti ed enormi, mai conosciuti in tale forma nei secoli passati.

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Questioni queste da non potere essere compresi né affrontati da un’angolatura angustamente ed esclusivamente locale o nazionale. La crisi ha mescolato, a livello mondiale, le antecedenti secolari gerarchie tra Stati. La Cina è diventata leader dell’impresa manifatturiera, ed oggi in più settori, anche quelli più sofisticati e innovativi, incalza da vicino gli USA118. Nell’Europa le diverse economie nazionali sono entrate in una fase inedita, di accentuata sofferenza e stagnazione, e tiene a fatica soltanto la Germania. Di contro l’Italia fatica a mantenere una propria distinta e peculiare funzione industriale, in grado di competere vincendo in un mercato globale sempre più ampio, competitivo ed aggressivo. Perde ancora terreno ed evidenzia un preoccupante gap, in negativo, in tema di innovazione e di qualità rispetto alla concorrenza più avvertita. Dal 2007 ad oggi il tasso di disoccupazione del paese è più che raddoppiato e la nostra produzione annuale di beni e servizi si è ridotta di oltre nove punti. La disoccupazione interessa ormai il 13% della forza lavoro. I disoccupati hanno raggiunto la cifra di 3,5 milioni, con un incremento di 2 milioni di unità dal 2007 ad oggi. La disoccupazione giovanile e femminile è più che raddoppiata ed in percentuale è di 40 giovani su 100. Al Sud il dato appare ancora più ampio e devastante. E il Mezzogiorno è sempre più l’epicentro della crisi. La Banca d’Italia, in relazione all’andamento delle diverse economie regionali, a proposito della Regione Campania, rileva come- nel primo semestre del 2014- la situazione economica continui a registrare 118 Su questo importante ed inedito capitolo della recente storia del mondo è particolarmente utile la lettura del volume di Federico Rampini Il Secolo cinese, storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo, La Biblioteca di Repubblica, Gruppo Editoriale l’Espresso S.P.A. Milano, 2009. Dello stesso autore, con uno sguardo rivolto in questo caso anche ad un altro grande paese come l’India, L’Impero di Cindia- Cina, india e dintorni, la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, La Biblioteca di RepubblicaL’Espresso, Gruppo Editoriale L’Espresso S.P.A., Milano 2009.

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una condizione di asfissia e di sofferenza119. Gli occupati diminuiscono nell’industria e nelle diverse attività commerciali, il tasso di disoccupazione, già assai elevato, persiste inalterato. Aumentano le persone in cerca d’impiego che appaiono definitivamente rassegnate e che un posto di lavoro non lo cercano più. Solo in questa regione i non occupati superano ampiamente la cifra di 1 milione e la disoccupazione stabile è al 22%. La forza lavoro potenziale è di 637.000 unità. La Cig autorizzata è diminuita nel 2014 del 9,6% rispetto al 2013. Il numero percentuale delle famiglie in sofferenza è cresciuto del 3,8%. Il 35% delle imprese locali riduce il fatturato. Ridotta altresì la dimensione del risparmio finanziario medio delle famiglie, si rallentano i depositi. C’è grande difficoltà nell’accesso al credito per le imprese e le famiglie. Il 30% delle imprese campane fa investimenti inferiori a quelli in precedenza programmati all’inizio dell’anno ed è diminuita seccamente l’attività di esportazione delle produzioni verso l’estero, in specie verso la Francia e la Germania. Settori di traino, come l’alimentare, riducono le esportazioni di circa il 5,8%. Continua la secca flessione nel settore delle costruzioni ed una timida ripresa si registra solo per un gruppo di imprese manifatturiere di oltre 50 addetti. Al contempo ristagna il settore dei servizi, ed anche in questo ambito cala la percentuale degli investimenti previsti in precedenza. Unica eccezione la crescita del traffico passeggeri e del turismo breve nello scalo aereo-portuale di Napoli ( incremento 9,2%) ed il traffico commerciale nel Porto di Salerno. Diminuiscono al contempo le vendite al dettaglio del 5,5% ed è negativo il saldo tra iscrizioni e cessazioni di imprese ( - 841 unità). Uno scenario simile a ciò che sta avvenendo, con maggiori o minori differenze e accentuazioni, in tutto il Mezzogiorno. La perdita di posti di lavoro, nella manifattura e nei servizi, non è stata d’altronde compensata in proporzione, neppure parzialmente, con altra occupazione alternativa. 119

Banca d’Italia, L’economia delle Regioni, La Campania, notizie relative all’andamento della congiuntura economica nel primo semestre del 2014.

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Nella Pubblica Amministrazione e nei servizi, poi, è in atto da tempo un possente processo di ristrutturazione e di riordino, che spesso ne riduce l’efficienza e le funzioni. Il Pubblico impiego soffre dell’annoso blocco del turnover; da anni non sono rinnovati i contratti nazionali. La contrattazione decentrata sui posti di lavoro è da tempo drasticamente ridotta ed in più realtà appare inesistente. Sempre più ampio ed esteso il processo di esternalizzazioni di funzioni a lungo in passato garantite dalla mano pubblica, con una secca crescita della precarietà. Un tema questo affrontato nel numero di “ Democrazia e Diritto” nel saggio di Francesco Pirone e di Enrico Rebeggiani.120 Nei prossimi giorni il Pubblico Impiego sarà nel suo complesso interessato dal rinnovo delle RSU nei singoli posti di lavoro. Un passaggio importante, di partecipazione e di impegno democratico, che ci auguriamo risulterà vissuto dai lavoratori in maniera assai protagonista e attiva. E inoltre, in una maniera cieca e dissennata, non si è investito nei settori per il futuro decisivi, della ricerca e dell’innovazione. I migliori cervelli continuano ad emigrare, non riscontrando nel paese una condizione di lavoro e di studio incentivante. L’investimento in questi settori nevralgici continua ad essere di gran lunga inferiore a quello dei paesi d’Europa e del Mondo più avanzati. La crisi, si accennava in premessa, è stata aggravata e accelerata dalla selvaggia invasione della finanza nell’economia ed in sostanza, più che ridurre, ha accentuato le differenze sociali e le ingiustizie. C’è stato chi è diventato assai più ricco e chi è scivolato a pieno dentro la soglia della povertà. Lavoratori dipendenti, pensionati, disoccupati, ampie fasce di ceto medio, nell’incertezza guardano al futuro con raccapriccio e con preoccupazione. Oltre alla consistente crescita della disoccupazione, si è moltiplicata la precarizzazione ed allo stato dei fatti l’esclusione di 120

Francesco Pirone, Enrico Rebeggiani, “La crisi delle funzioni di rappresentanza del sindacato: il caso dei precari nelle attività in outsourcing per gli enti locali”

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milioni di giovani dal mercato del lavoro, in specie in Italia e nell’Europa, appare sempre più strutturale e permanente. Un tema che, nelle sue dinamiche e nelle sue evoluzioni, è ben affrontato nel saggio di Salvo Leonardi121. Tale situazione si configura come particolarmente aspra e dolorosa nel Mezzogiorno del paese, ove lo scenario appare ancora più drammatico ed inquietante. Una forte e prolungata stagnazione. Fatte tali premesse, è evidente come il confronto che si dovrà necessariamente sviluppare ad ampio spettro non potrà risultare semplice e lineare e dovrà procedere, di necessità, mettendo in relazione i diversi punti di vista e le differenti proposte e terapie possibili. Punti di vista, anche diversi e opposti, che non dovranno smarrire mai un solido ancoraggio nel vissuto. L’avvio di un percorso impegnativo su cui, di necessità, tornare nell’immediato, prossimo futuro. Il centro della nostra riflessione, è il caso di ripeterlo, è di necessità la crisi, nei suoi multiformi aspetti, di crisi economica e sociale, di grado di tenuta dei diversi soggetti in essa a vario titolo coinvolti. Una crisi che è al contempo, oltre che strutturale anche spirituale e culturale, e che in prospettiva, persistendo, costituisce un serio rischio per il destino della democrazia, per la sua solida tenuta in una serie di importanti paesi dell’Occidente più avanzato e dell’Italia in primis. Nel processo assai sommariamente tratteggiato, ha finito per ridursi, e spesso per svuotarsi, lo stesso valore del lavoro, il tratto distintivo su cui si è costruito, nei trascorsi decenni, l’architrave portante dello Stato repubblicano. La crisi ha scomposto antiche certezze e convinzioni, e tuttavia c’è stato chi a lungo la ha negata. Oggi, in relazione alla forza delle cose ed all’indiscussa crudezza del reale, la consapevolezza delle difficoltà sembra che stia crescendo in maniera più ampia e più diffusa, anche se ancora non persuadono le terapie messe di recente in movimento e tese ad arginarla. 121 Salvo Leonardi, “ Rappresentanza, organizzazione e democrazia. Modelli e politiche sindacali a confronto” il titolo del saggio ospitato nel numero monografico di “Democrazia e Diritto” oggetto della presente riflessione.

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Nonostante l’inflazionata discussione, consumata sul tema del “declino”, ancora non si avverte l’esistenza di una forte e persuasiva strategia. Il dramma principale tra tutti da affrontare, e che persiste, è quello del sacrificio di più generazioni di giovani che sembrano inesorabilmente condannati a non incontrarsi mai, nel prossimo futuro, con il mercato del lavoro, con le sue trasformazioni peculiari. Una disoccupazione, di giovani acculturati e già formati, su cui la società e le famiglie hanno investito tanto, e quasi rassegnati in una condizione di sostanziale inedia, a cui viene negato un dignitoso ed accettabile futuro. Continuando a procedere in tal senso, senza alcuna subitanea svolta percettibile, la società è destinata a isterilirsi, impoverita e deprivata ulteriormente del concorso di questa grande e straordinaria “intelligenza collettiva” potenzialmente disponibile. L’estromissione di questa energia straordinaria renderà di per sé più fragile e insicura la nostra società. Si sta colpevolmente consumando un autentico, inaccettabile delitto ! Il drammatico quesito, tuttora aperto e senza soluzioni, è se esistono le condizioni per iniziare finalmente ad invertire la tendenza, e quali siano le scelte da effettuare, in quale direzione bisogna incominciare a muoversi. Da dove in sostanza si deve cominciare, trasformando una lunga fase di difesa in un periodo nuovo, di attacco e di proposta, in cui s’inizi finalmente a imporre un differente piano di confronto.Esistono segmenti, esplorati soltanto in superficie, di nuova crescita e di sviluppo più ordinati? Persiste certamente, per limitarci all’esame della realtà italiana, l’ostacolo possente costituito dal livello assai elevato raggiunto dal debito pubblico, nel tempo accumulato, e dall’imprescindibile necessità di farvi fronte, senza dilazioni né rinvii, riducendolo in maniera strutturale, come da tempo deciso d’intesa con l’Europa. E tuttavia le azioni, di drastico rigore finanziario, in questi anni recenti messe in campo, non sembrano allo stato dei fatti avere conseguito positivi risultati. Di conseguenza crescono, un poco

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ovunque, scetticismo, chiusure, ostilità verso l’Europa, s’accentua la diffusione di pulsioni ostili, di segno nazionalista ed aggressivo. Privi di un chiaro ed ambizioso progetto strategico, credibile ed espansivo, rivolto al futuro e soprattutto concretamente percorribile, si ha la percezione che, con l’inesorabile trascorrere del tempo, si vanno progressivamente a insterilire una serie di importanti conquiste conseguite nei decenni precedenti. Il riferimento è al tema dello sviluppo e dell’ampliamento dell’occupazione, ma anche a quello dello Stato Sociale, del suo mantenimento e della sua riforma, realizzato in tanti suoi segmenti, dall’istruzione alla sanità, all’assistenza ed alla previdenza. Si va configurando, in nuove forme ed espressioni, un regressivo modello sociale diseguale, che per più aspetti richiama lo scenario, negli anni ‘70 tracciato da Asor Rosa, incardinato sull’avvento delle “due società”. L’estrema e repentina accelerazione dei processi di condizionamento dell’economia da parte della finanza, con ciò che ne è derivato, la possibilità d’immediato spostamento di consistenti investimenti e capitali, da una parte all’altra del globo, senza controllo o condizionamento alcuno, mettono in evidenza il velleitarismo e l’impraticabilità dell’idea d’immaginare di potere fronteggiare ciò che accade trincerati su anguste frontiere esclusivamente locali o nazionali. S’impongono invece azioni politiche e scelte di ben altro segno122. Politiche a ben più ampio spettro, travalicanti i confini nazionali, e azioni sindacali ben più coordinate ed espansive, più forti ed incisive, da sviluppare in modo coordinato, almeno a livello continentale ed europeo. Ed è anche il caso d’iniziare a ripensare antichi modelli negoziali, in parte almeno ormai consunti, per aggiornarne forza ed efficacia. Ecco, si tratta di mettere a confronto le diverse esperienze già vissute nei diversi paesi, in Usa, in Germania, nei paesi Nordici,

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Illuminante su questo problema è il recente libro di Marco Panara, La malattia dell’Occidente, Editori Laterza, 2010

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in Francia, Inghilterra e nella stessa Italia, facendo proprie ed assumendo gli esperimenti negoziali e contrattuali più efficaci. Da qualche settimana s’inizia finalmente a parlare dell’avvio, nel mondo, di un’inversione di tendenza e di una fuoriuscita, seppure ancora timida, dal lungo e prolungato inverno della crisi. In verità c’è una differenza, e non di poco conto, tra le terapie frattanto messe in campo negli USA ed in Europa. Nel vecchio Continente, con la parziale eccezione della Germania e di paesi come la Polonia, persiste ancora una grave stagnazione, acuita dalle politiche di secca austerità. In USA invece, da ciò che si percepisce da lontano, è finalmente iniziata la ripresa, sollecitata e stimolata dall’intervento diretto e massiccio dello Stato. Esso, più nello specifico, ha agito in modo che si potesse realizzare 1- Il risanamento delle Banche, che si sono liberate dai titoli tossici in loro possesso; 2- L’accesso al credito è diventato di nuovo più fluido e sicuro per le imprese e per le famiglie; 3- L’occupazione, di conseguenza, ha ripreso a crescere nell’ordine di 200.000 unità al mese123. In Italia invece, di converso, persiste ancora la lunga stagnazione, e vanno sottoposti ad un vaglio più accurato, e a pratiche verifiche, le dichiarazioni ottimistiche del governo in carica in relazione ai provvedimenti recenti, in specie il Job Act, appena messi in atto. Per ora si può solo rilevare l’esistenza di un’apertura di credito all’impresa in verità forse eccessivamente sbilanciata, un’impresa d’altronde cospicuamente foraggiata coi nuovi provvedimenti previsti nel contratto ai nuovi assunti cosiddetto “ a tutele crescenti”. Sarebbe al proposito d’indubbia utilità l’istruzione di una riflessione aggiornata e approfondita sul capitalismo e l’imprenditoria italiana, in grado di evidenziarne, in modo più sicuro ed oggettivo, luci ed ombre, limiti e capacità già dimo123

Federico Rampini, La trappola dell’Austerity- Perché l’ideologia del rigore blocca la ripresa, Editori Laterza, La Repubblica, prima edizione febbraio 2014.

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strate. Il tema, in questa occasione non può evidentemente che essere accennato. Certo una tale, impegnativa riflessione è forse da troppo tempo colpevolmente assente nello scenario del dibattito politico nazionale ed europeo. Si è prima fatto cenno al tema del Welfare State e delle ipoteche che nella fase attuale lo circondano. Nel nostro paese, su questo argomento pesa e non poco il dato oggettivo del progressivo invecchiamento medio della popolazione che, insieme alla stagnazione economica, da troppo tempo in atto, riduce il bacino da cui attingere risorse. L’intervento draconiano sulla previdenza, messo in essere con la “Riforma” Fornero della fine del 2011, comunque da correggere, e da rendere più accettabile e flessibile, incide sull’assenza di ricambio della forza lavoro mettendo in crisi una serie di servizi, come la sanità, in una condizione di sempre più acuto affanno e sofferenza. Nei decenni appena trascorsi di certo è il ruolo e la funzione del lavoro che hanno perduto progressivamente peso, forza, centralità. Sostituito da una nuova ideologia, quella del consumo, spesso dissennato e voluttuario, di beni non sempre primari e indispensabili. Scivolati sul crinale del declino, l’avvio di misure di contenimento della spesa storica corrente sono apparse in tal modo inevitabili, per tentare di contenere i costi dello Stato. E tuttavia l’esperienza ci ha insegnato che coi tagli lineari non si va da nessuna parte! Bisogna piuttosto operare scelte diverse e selettive, d’altro segno. Avere chiare opzioni, idee precise di dove operare tagli e invece, di contrasto, si tratta d’individuare nuove direzioni in cui bisogna finalmente iniziare ad investire. In sostanza a me pare che di fronte a noi si dischiudano due strade : o continuare a gestire piuttosto stancamente ciò che esiste o invece individuare nuove opportunità, con diverse priorità da perseguire. E’ la seconda opzione che va privilegiata. Si tratta di concentrarsi su poche ed essenziali, sicure priorità. E lavorare per un nuovo progetto di sviluppo sostenibile, su un investimento di

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lungo respiro, di ampia durata, non contingente e, per i suoi contenuti e i suoi possibili effetti sul futuro, diffusamente condiviso dal Paese. E piegare in tal senso la persistente opportunità costituita dall’utilizzo virtuoso dei fondi comunitari disponibili. A tal proposito è forse utile l’indicazione di due strade: 1- Investimento sul capitale umano, da confermare ed aggiornare ulteriormente, riprendendo con la massima attenzione il tema della qualificazione della scuola , della ricerca, dell’università.. 2- Realizzare una precisa opzione, specie nel mezzogiorno, rivolta alla tutela ed alla massima difesa dell’ambiente con la contestuale valorizzazione del nostro territorio. In tal senso è urgente l’avvio di un piano straordinario di valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale ed archeologico che ci è stato tramandato, ancora troppo spesso trascurato e non considerato a pieno nella sua enorme potenzialità espansiva. Un intervento mirato, in grado di impiegare, da subito, 100.000 giovani meridionali, con ambiziosi progetti mirati di valorizzazione, da realizzare anche tramite l’impiego di tutte le tecnologie più moderne ed aggiornate disponibili. Un’azione che andrebbe garantita per mezzo dell’intervento attivo e diretto dello Stato, di concerto con gli imprenditori più avvertiti e disponibili a cimentarsi nel merito sul terreno di una sfida assai ambiziosa. Un’azione, insieme, economica ed al contempo di forte valenza ideale e culturale, e tesa a rimarcare la peculiare identità dell’Italia in Europa in questo specifico segmento. L’azione messa in moto andrebbe garantita per mezzo di un prelievo forzato dello Stato verso i cittadini in relazione all’entità del reddito individuale e familiare disponibile. Un’idea forza, d’impatto generale, da sostenere con una massiccia mobilitazione sindacale e popolare!!! Le altre azioni, di riorganizzazione del sistema produttivo e dei servizi territoriali necessari, finalizzate al perseguimento di questo specifico obiettivo.

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In tal modo s’inseguirebbe un risultato di notevole valenza generale: la realizzazione di contesti territoriali più attrattivi per gli investimenti e per la capacità di “fare sistema”. Infine, ancora il Sindacato, specie nel Mezzogiorno, ha una responsabilità supplementare. Quella di agire, almeno parzialmente, di supplenza, al vuoto determinato dall’obiettiva crisi dei Partiti, la cui vita appare purtroppo in troppe circostanze piuttosto evanescente e asfittica, almeno rispetto alla loro funzione peculiare istitutiva, di concorso permanente e continuato alla crescita di coscienza ed alla formazione politica, culturale e civile dei cittadini, questione questa di sempre cogente urgenza e attualità. Cgil Salerno, 24 febbraio 2015

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Discutendo con Giustina Laurenzi D: L’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi e la feroce strage che ne è derivata sono l’ultimo atto di una spirale di violenza che appare inarrestabile. Come spiegare tutto ciò? R: La caduta del Muro di Berlino del 1989 e la fine dell’equilibrio del terrore tra Est ed Ovest, costruito sulla paura della guerra nucleare, aveva illuso sull’inizio di una pacificazione progressiva tra Stati Nazionali ed all’interno dei singoli paesi. Invece, dopo la fine del mondo bipolare, i conflitti, lungi dal contrarsi, si sono moltiplicati a dismisura. Il salto di qualità dell’integralismo islamico, il proliferare di crisi regionali, le diseguaglianze persistenti, sono sintomi crudi ed irrisolti di un globo scomposto nelle sue antecedenti gerarchie, con inediti ruoli di rilievo assunti da grandi paesi come Cina, India, Brasile. D: Il tutto è reso ancora più grave dalla crisi mondiale che persiste ? R: Dal 2008 in poi la crisi economica ha polverizzato risorse produttive e cancellato milioni di posti di lavoro. Essa, più che congiunturale, appare di struttura e di sistema e dagli sbocchi ancora imprevedibili. E’ingenuo ed illusorio immaginare di fuoriuscirne ripristinando logori, già sperimentati modelli di sviluppo. D: Oltre che europea c’è da sottolineare una specificità italiana? R: In tale scenario, nel mentre il processo di unità europea è lento e accidentato, l’Italia si propone come realtà d’instabile incertezza, in grave ritardo con le necessità dell’ora. Un paese gracile ed in costante stagnazione, di scarso dinamismo, ancora incapace di avviare una radicale inversione di tendenza. Ha perso terreno nei tradizionali comparti manifatturieri ed è sempre più marginale nei settori strategici della ricerca e dell’innovazione. D. E’ possibile invertire questa situazione? Quali le priorità? R: Lo squilibrio finanziario nei conti dello Stato, con il livello insostenibile raggiunto dal debito pubblico, ostacola qualsivoglia ipotesi di ripresa dell’economia, minando alla radice la coe-

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sione ed il rilancio della società italiana. Decisiva è l’aggressione strutturale alla spesa improduttiva, ai molteplici e persistenti fenomeni di corruzione e malaffare, parassitismi e sprechi che stringono in una morsa asfissiante la società italiana. Inoltre, il non aver ridotto nei decenni passati, a differenza di ciò che è accaduto nella Germania unificata dal 1989 ad oggi, il grave divario tra il Nord ed il Sud del Paese, che anzi di recente si è accentuato, è il sintomo più evidente dei limiti e dei fallimenti delle classi dirigenti che si sono nel tempo succedute. D: Il Mezzogiorno continua ad apparire questione grave ed irrisolta. Quale la prima emergenza da aggredire? R:Da decenni il Sud non si configura più come problema agrario e contadino. Il nodo più intricato e doloroso è quello della gran massa di giovani disoccupati, di elevato livello medio d’istruzione, privi di qualsivoglia prospettiva, d’identità, di vita e di lavoro. Figli di emigrati prima, poi della fitta, stratificata piccola borghesia impiegatizia e delle professioni, più acculturati delle generazioni che le hanno precedute. Il Sud è ancora una straordinaria risorsa potenziale, e non un freno ed un ostacolo alla crescita dell’insieme del Paese. Ai giovani del Sud è stato più volte ribadito il concetto secondo cui studiare con profitto era l’unica possibilità per conquistare un futuro di vita e di lavoro decorosi. Una generazione che invece è rimasta dolorosamente in mezzo al guado. D: Da dove sarebbe utile iniziare? R: Anzitutto dalla tutela, promozione e valorizzazione dell’enorme patrimonio storico e culturale, artistico, architettonico, archeologico e ambientale senza eguali nel mondo. L’Italia dispone di oltre 2.500 musei e di circa 12.500 chiese e monasteri. Un giacimento sterminato, tramandato dalle generazioni che si sono succedute e diffuso su un territorio che trasuda di storia e di cultura millenarie, di tracce indelebili dell’ingegno umano. L’Italia è lo scrigno dell’arte e della memoria di tutto l’Occidente. E’ questa la carta peculiare del Mezzogiorno e dell’Italia nell’Europa e nel mondo. In tale direzione innanzitut-

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to dovrebbe essere avviato un Piano Straordinario per l’occupazione giovanile. D: Quali gli ostacoli da superare per realizzare in tal senso risultati positivi? R:La società, anche nelle componenti più evolute, più che aprirsi, ha accentuato chiusure e derive neo corporative ed è ancora inquinata dal peso stritolante di lobby e corporazioni economiche e finanziarie assai potenti. Non premia l’impegno, il merito, le capacità. E la svolta è impedita da più fattori, dall’evanescenza del ruolo dei Partiti, spesso ridotti a meri comitati elettorali, all’indebolimento delle organizzazioni sindacali, da tempo costrette sulla difensiva, all’assenza di un’imprenditoria moderna, incapace di svolgere una funzione competitiva e vincente a livello globale sul libero mercato. D: Il mondo del lavoro organizzato continua a rimanere in sofferenza? R: In particolare, il mondo del lavoro esplicita al suo interno grandi frammentazioni e differenze, con forme di tutela diseguali. La sua forza è più incisiva nelle fasi di crescita dell’economia, nel mentre perde d’efficacia quando la crisi dell’economia s’accentua in modo più grave e prolungato. Più fattori, che hanno concorso al decadimento dello spirito pubblico, sacrificando all’interesse di parte quello generale e collettivo. D: In conclusione più pessimisti o ottimisti sul futuro del Mezzogiorno e della società italiana? R: Più di 70 anni or sono, in una fase drammatica in cui il paese era coperto di rovine, le avanguardie del mondo del pensiero, in sintonia col mondo del lavoro, davano vita ad uno straordinario scatto d’impegno collettivo che consentiva alla Nazione la Rinascita. Oggi, di nuovo, le forze migliori del paese, d’intesa tra di loro, mossi dalla fiducia nel futuro, devono assumere su di sé la responsabilità e l’impegno di questa nuova sfida. Ritessere una trama lacerata, avviare la svolta, è una stringente urgenza ed una necessità. La Città, 11 gennaio 2015

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27 gennaio 2015- GIORNATA DELLA MEMORIA Scuola Media «PICENZIA» Pontecagnano (Salerno) Un pubblico di giovani studenti, della scuola media Picenzia di Pontecagnano, in provincia di Salerno, manifestando grande attenzione e notevole curiosità emotiva, ha partecipato lo scorso 27 gennaio 2015 ad una Conferenza pubblica in occasione della “Giornata della Memoria”. Un’occasione importante per rinsaldare uno stretto legame tra le generazioni e teso a garantire che, con il trascorrere inesorabile del tempo, la storia umana del tempo già passato non venga definitivamente consunta e lacerata nell’oblio. La cruda ricostruzione storica dei fatti e le motivazioni che li hanno generati, più di 70 anni or sono, ha consentito di toccare quell’orrore con le mani ed è al contempo valsa a ribadire il comune impegno all’azione cosciente contro qualsivoglia pulsione alla discriminazione, al razzismo, alla prevaricazione. Ciò al fine di rafforzare la coscienza della necessità di agire attivamente, nella contemporaneità, perché nel prossimo futuro non abbia mai più a riprodursi sulla terra la replica folle di quel terrore immane. In Europa, dal 1938 al 1945, sono stati sterminati più di 6 milioni di ebrei, il 67% della popolazione ebraica totale prima della seconda guerra mondiale. Un numero agghiacciante, di dimensioni particolarmente pesanti nell’ Europa orientale, ma che non lasciò indenne neppure il resto dell’Europa occidentale124. 124

I vari studiosi che, nei decenni successivi, si sono cimentati tentando di individuare stime approssimate, e tuttavia sempre più vicine alla realtà, riassumono l’entità della tragedia in questo modo: Polonia: stima degli ebrei uccisi: 3.000.000 (90% della popolazione ebraica in Polonia prima della Seconda Guerra Mondiale); Ucraina: 900.000 (60%), Ungheria: 450.000 (70%), Romania: 300.000 (50%), Bielorussia: 245.000 ( 65%), Paesi Baltici: 228.000 (90%), Germania e Austria : 210.000 (90%), Russia: 107.000 (11%), Olanda:105.000 (75%), Francia: 90.000 ( 26%), Boemia-Moravia: 80.000 (89%), Slovacchia: 78.000 (83%), Grecia: 54.000 (77%), Belgio: 40.000 (60%), Jugoslavia: 26.000 (60%), Bulgaria:14.000 (22%), Italia: 8.000 (20%), Lussemburgo: 1.000 (20%), Norvegia: 890 (41%), Danimarca: 52 (1%). E poi il lugubre elenco, seppure presuntivo, per difetto, di morti di stenti, di sevizie e di torture nei diversi campi di sterminio: Auschwitz (Polonia): 1.000.000, Tre-

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Al momento della liberazione dei campi sterminio, i russi o gli alleati si trovano di fronte ad autentici spettri, senza più alcunché di umano, uomini e donne di 28/30 Kg, scheletri vaganti e non persone, in fatale attesa della fine In una condizione di limitazione della propria libertà, di prigionia, di segregazione e schiavitù, un uomo non può dispiegare la sua creatività, i suoi talenti, la sua pulsione al fare e a realizzare le proprie aspirazioni. Di conseguenza, se e quando viene distesa una fitta coltre di limitazione brutale sulla vita umana, la società s’immiserisce e si ritrae, diviene meno ricca ed anzi assai più grigia, arida e sfuocata. Oggi possiamo per fortuna riunirci in assoluta libertà, possiamo confrontarci, riuniti in assemblea, mettendo in relazione tra di loro anche distinte tesi e posizioni, senza soluzioni del confronto già precostituite come dogma, senza limitazione alcuna imposta dall’esterno. E tutto al di là delle varie differenze e distinzioni, oltre il recinto delle nostre convinzioni, politiche, religiose, ideologiche, culturali o filosofiche. Un fatto d’importanza straordinaria che, sbagliando, potremmo ritenere naturale, qualcosa che è dovuto di per sé. E che in futuro non potrà più venire messo in discussione. Possiamo evidenziare gli argomenti più diversi, i più vari e distinti tra di loro, anche quelli più ostici e scabrosi, indagando in modo libero ogni segmento delle distinte discipline del sapere umano accumulato nel corso delle ere. Nella sostanza, ripercorriamo le accidentate tracce della storia umana, gli avanzamenti straordinari compiuti dalla scienza e dalla tecnica, ed individuiamo con certezza i tortuosi e lacerati blinka (Polonia): 870.000, Belzec (Polonia): 600.000, Majdanec (Polonia): 360.000, Chelmno (Polonia): 320.000, Sobibor (Polonia): 250.000, Jasenovac (Croazia): 58-97.000, il campo di sterminio in cui furono particolarmente attivi gli Ustascia di Ante Pavelic, che si macchiarono di delitti assai efferati contro i Serbi, Maly Trostinets (Bielorussia): 65.000, il luogo ove vennero sterminati i russi fatti prigionieri dopo la prima fase di avanzata nazista ad Est che sembrava inarrestabile.

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percorsi della storia, coi suoi straordinari picchi di avanzate, e con le numerose regressioni che hanno segnato le diverse fasi dell’avventura umana sulla terra. Oltre che i segni della memoria orale tramandata, ci vengono in aiuto le tracce affidate alle parole conservate negli archivi della memoria collettiva, i libri e i documenti accumulati negli scaffali dei monasteri antichi, dentro gli archivi e nelle biblioteche, i suoni e le immagini raccolte e conservate da chi ci ha preceduto.Un patrimonio sterminato, da trasferire nelle ere future che verranno, l’insieme dei fatti e delle vicende precedenti. Pieno trasferimento di quanto è già accaduto, nessuna cesura consumata tra le generazioni Le parole fuggono col vento, nel tempo che trascorre e si consuma, le tracce segnate sui papiri rimangono per sempre, pronte a riproporre di continuo uno squarcio di nuova luce sul presente e che può consentirci di far tesoro dei terribili errori commessi nel passato, da non replicare mai nel prossimo futuro. Nella contemporaneità del tempo che viviamo abbiamo libertà di associazione, di stampa e di riunione. Di certo nel mondo occidentale, nell’area delle democrazie più avanzate, da tempo la libertà è intesa come valore generale e inalienabile. E’ il segno più sicuro di un grande e indiscutibile progresso nell’avanzamento della condizione umana, individuale e collettiva che, pur in presenza di gravissimi, inediti pericoli di nuove involuzioni regressive, segnano nel profondo il tempo attuale che viviamo. Tutto ciò a cui ci siamo appena riferiti è stato garantito dal fatto che il nostro Continente, dopo due guerre devastanti che hanno segnato il Novecento, dopo tragedie immani che hanno causato decine di milioni di vittime innocenti, da una fase relativamente lunga vive una generale condizione di pace e sicurezza, ed anche di progresso nelle condizioni di vita materiale, tranne in circoscritte e definite situazioni ed in alcuni limitati periodi temporali in cui è riapparso il demone maligno delle stragi. Fa evidentemente testo, in proposito, in specie ma non solo, l’evolversi della crisi dei Balcani esplosa alla fine degli anni ‘80 ed all’inizio degli anni ‘90, più o meno in coincidenza con la fine dell’equilibrio bipolare instaurato alla fine del secondo conflitto

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mondiale e con il disfacimento dell’Urss e dei regimi di socialismo reale dell’Est Europa. In ogni caso nulla è da ritenere di per sé eterno e inalterabile. La grande conquista del bene supremo della libertà, individuale e collettiva, indispensabile premessa per la realizzazione di ulteriori avanzate della storia umana, è valore assoluto da difendere sempre e ovunque, sotto qualsiasi latitudine. La premessa per ulteriori e più ampi processi di progresso, di crescita e generale civiltà. E c’è, comunque, il rischio di un’interpretazione fuorviante. Non sempre questa posizione è stata ritenuta nel passato ovvia e naturale, inevitabile e frutto di ragione superiore, nelle stesse società evolute delle vecchio Continente. Noi siamo figli della storia del passato, di una vicenda umana che non è mai proceduta in maniera rettilinea, per avanzate più sicure e progressive, ed anzi di frequente si è snodata, nel suo procedere in avanti, in dimensioni ed in modalità dense di grandi contraddizioni e di conflitti, anche particolarmente aspri e dolorosi. Quanto è avvenuto e si è poi consolidato, per fortuna, in Italia, in Europa, in tutto il Mondo intero, non era l’esclusivo epilogo possibile. E ciò che alla fine è stato realizzato è il frutto d’immensi sacrifici, di fiumi di sangue che sono stati versati. Di fronte alla catastrofe si è erta a un certo punto un’eccezionale opposizione, di milioni e di milioni di persone, che hanno contrapposto alla barbarie un’imbattibile forza, una straordinaria capacità di resistenza collettiva. La fine delle dittature ed il ripristino di una più piena libertà non si sarebbero di certo realizzate se fossero prevalse l’indifferenza e la passività con l’abulia e la rassegnazione. Da ciò l’imperativo: non è lecito vivere aderendo in via semplificata e subalterna solo alla passiva percezione del presente. Non possiamo ibernare mai pensiero e conoscenza, piuttosto ripensare i fatti, trarre un costante insegnamento da quanto è già accaduto, in modo tale che la memoria accumulata, con la criticità dovuta, ci serva quale guida. Dobbiamo avere l’attenzione e l’umiltà di essere disponibili ad imparare sempre!

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Vivere come monadi separate, le une dalle altre, passivi e indifferenti rispetto a tutto ciò che accade è un lusso che non ci si può proprio consentire! Antonio Gramsci, grande teorico politico italiano e grande combattente per la libertà, aveva, non a caso, lanciato i propri strali contro l’indifferenza e l’odio. Dante, il maggiore poeta italiano, a propria volta aveva inesorabilmente condannato gli ignavi e chi si rifiuta di prendere di volta in volta posizione. Opporsi a tempo ad ogni forma di deriva, di cieca violenza, intolleranza, prevaricazione, razzismo, questo l’insegnamento imperituro se si vuole continuare a conservare il bene supremo della libertà.. Battersi e opporsi, con tempestività, appena si manifesta una pulsione all’odio, quando il razzismo si ripropone in nuce, magari in nuove forme e fa la sua comparsa sulla scena la spinta alla violenza cieca ed alla discriminazione! E’ sintomo di alta moralità l’opporsi all’uso terroristico dello Stato, agire da contrasto contro chi diffonde a piene mani la paura, costruendo steccati divisori tra le diverse etnie, tra le distinte culture e religioni, prendendo magari a pretesto finanche il diverso colore della pelle! La libertà che gli antenati ci hanno consegnato in un prezioso scrigno può diventare fragile e insicura, se si rinuncia ad impegnarsi direttamente e di persona, evitando deleghe in bianco o indifferenza. Nei primi anni ‘30 del Novecento, in maniera veloce e per vari aspetti sorprendente, nel cuore della civile e antica Europa, finì per affermarsi un regime autoritario, di massa e terroristico, che pianificò e stabilizzò con la violenza la condizione dello Stato. In Germania, dopo l’esperienza del regime dittatoriale instaurato in Italia nel 1922, dal 1933 in poi venne impiantato un modo di governo fondato sulla violenza e sul sistematico terrore. E si tese poi ad esportare, con la guerra, quel modello di Stato e di governo dentro l’Europa intera, puntando a realizzare un po’ dovunque un regime che limitasse e liquidasse per sempre una qualsiasi forma delle antecedenti, seppure parziali e limitate libertà. L’obiettivo, esplicitamente dichiarato, era quello di estendere e uniformare, al resto dell’Europa innanzi tutto, quanto

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era già stato realizzato nella Germania hitleriana già nazificata. Si doveva trattare di un primo, seppure decisivo, passaggio, rivolto a definire nuove forme di Stato autoritario e gerarchie da realizzare in tutto il Mondo intero. L’origine di tale spietata involuzione partiva da un paese, nel cuore più pulsante della vecchia Europa, più volte in passato esempio assai avanzato in varie discipline e in vari campi, dall’arte alla letteratura, alla scienza ed alla filosofia. Un grande paese, esempio frequente di grande e luminosa civiltà. Il mostro veniva generato e poi si alimentava di continuo proprio al centro e nel cuore del vecchio Continente, in un’area di antica e assai avanzata civiltà. Veniva progressivamente soppressa e cancellata qualsiasi dialettica, ed ogni articolazione e distinzione. Gli anni tra il 1933 ed il 1945 saranno ricordati per quelli della pratica del sistematico terrore, profuso a piene mani e in ogni direzione. Il cuore di quella nefasta ideologia s’incentrava sul concetto aberrante di supremazia, di presuntiva superiorità di una razza sola (quella ariana). Il nazismo, per realizzare il suo progetto, scatenava una diffusa guerra di aggressione e di sterminio, conquistando progressivamente più paesi, e poi praticando lo sterminio, nell’Est dell’Europa innanzi tutto, ma non solo, disseminando dovunque il continente di morte e distruzione. L’Europa intera fu sul punto di diventare un’immensa prigione, popolata da schiavi senza voce, privati del più piccolo potere. Vennero disseminati ovunque i Campi di sterminio, luoghi di tortura e di morte per milioni e milioni di persone senza colpa. Lo Stato tedesco s’impegnò direttamente nella costruzione di innumerevoli campi di sterminio. A Dachau, Mauthausen, Birkenau, Auschwitz, ed in tanti altri punti disseminati dell’Europa, vennero reclusi ebrei, oppositori politici, slavi e cittadini delle diverse nazionalità d’Europa, malati di mente e portatori di handicap, zingari, rom, omosessuali, che, dopo inenarrabili maltrattamenti e torture, ridotti in schiavitù, sempre più simili a spettri che a persone, in numero inaudito conclusero tragicamente il corso della propria vita.

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Ciò che è accaduto supera la più fervida immaginazione e può paragonarsi all’instaurarsi dell’inferno sulla terra nelle forme più orride che si possa immaginare. Ciò che avvenne allora successe, tuttavia, anche per il fatto che, da più parti, mentre l’orrendo mostro iniziava ad operare, troppi volsero lo sguardo colpevolmente da tutt’altra parte. Ignavi, passivi, indifferenti rispetto alla tragedia immane che montava ed alla fine complici di ciò che sarebbe poi accaduto. A partire dalle grandi Nazioni, come la Francia e l’Inghilterra, liberali e democratiche, che non misero in campo e a tempo alcuna azione davvero dissuasiva. Né preventiva e di contrasto, idonea a bloccare a tempo l’orrore che iniziava a diffondersi nelle più varie direzioni. A fronte della grave involuzione della situazione dell’Europa, anche nei punti del pensiero più affinato, ci fu chi tentò di rassicurare sul fatto che si trattava di crisi contingente, “un accidente provvisorio della Storia” destinata più avanti a ritrovare il suo naturale corso virtuoso nell’alveo naturale del sentiero obbligato della libertà(Benedetto Croce, La Religione della Libertà). Non ci si avvide a tempo dell’estrema gravità e della profondità della gravissima crisi che montava, della sua eccezionalità, originata dall’esplosiva mistura di crollo economico e di disoccupazione, d’inflazione, senza alcun limite e controllo, che riduceva in condizione di tragedia e di immane povertà milioni e milioni di persone. Hitler aveva predisposto e prefigurato il piano della strage sistematica sintetizzando il suo pensiero nel MeinKampf. In Germania, per l’acquisto di un boccale di birra erano necessari 1 miliardo di marchi, per l’acquisto di un pacchetto di sigarette servivano 2 miliardi di marchi, per tappezzare le pareti di un appartamento era meno costoso e assai più conveniente l’uso del danaro che della carta! In Germania, il rancore accumulato a seguito della pace di Versailles e la volontà di rivincita, dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, insieme con una condizione montante di disperazione diffusa, costituirono il detonatore della crisi violenta che poi sarebbe esplosa, travolgendo ogni margine e qualsiasi possibilità di resistenza. Una disperazione abilmente e demago-

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gicamente sfruttata da Hitler e dal movimento nazista che montava. Liquidate con la violenza più spietata qualsiasi opposizione e resistenza, bruciate assieme ai libri qualsiasi traccia di un pensiero differente, s’instaurò lo Stato del Terrore! Ed Hitler cavalcò, con grande abilità, il grande desiderio di rivincita che montava come lava nel cuore del popolo tedesco. Da ciò un altro insegnamento della Storia. Va messo nel conto il fatto che chi è stato momentaneamente battuto tenterà di praticare la vendetta contro il vincitore in tutti i modi che gli saranno consentiti dalle circostanze. Perciò il vincitore non deve mai puntare all’umiliazione esagerata di chi è vinto. In verità, quello che si realizzò in Europa non era l’unico sbocco e la sola evoluzione possibile della crisi montante. Negli USA, a fronte di una devastazione economica e sociale acutissima, causata dal crollo di Wall Street del 1929, simile a quella che poi si generò in Europa, dopo la prima fase, essa verrà attivamente fronteggiata con l’impegno diretto dello Stato ad attivare politiche pubbliche contro la disoccupazione. In USA prese avvio un grande piano di opere pubbliche, il New Deal, in specie in edilizia e nelle infrastrutture, rivolte all’impiego dei disoccupati. I capisaldi della dottrina economica di Keynes, che consentirono uno sbocco diverso della crisi, di tipo democratico. La crisi quale Giano bifronte, un terribile e distruttivo pericolo ovvero un’opportunità, di crescita e rilancio dell’economia. Rispetto alle due opzioni l’Europa assistette al prevalere della violenza di Stato cieca e reazionaria, esportata con la forza e l’uso delle armi in ogni direzione. E l’Europa tutta intera fu ad un passo dall’essere ridotta in assoluta, totale schiavitù. Soltanto l’eroica resistenza della città di Stalingrado, da cui sarebbe poi partita la controffensiva vittoriosa dell’Armata Rossa, che si concluderà con l’occupazione di Berlino, salvò dalla definitiva catastrofe il vecchio Continente e consentì di schiacciare, in via definitiva, la testa velenosa del mostro sanguinario. Senza quella grande resistenza vittoriosa, e senza i contemporanei successi delle controffensive alleate sugli altri fronti d’Africa e d’Europa, senza le insurrezioni nazionali e popolari nei paesi occupati, di cui saranno protagoniste le arma-

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te partigiane, saremmo ancora oggi costretti nel silenzio e sotto il tallone del tragico terrore. In Italia dall’azione congiunta del movimento partigiano e dalla controffensiva alleata nascerà la nuova repubblica Italiana fondata sulla costituzione democratica. Naturalmente la mente umana è sempre proiettata di per sé a rimuovere i tragici ricordi negativi. Ed è vera, in generale, la constatazione secondo cui tale rimozione è fattore essenziale nel riuscire a guardare il futuro con rinnovato ottimismo e con positività. Una condizione, questa, imprescindibile per continuare a vivere e per ricostruire, rimovendo dal campo le immani macerie che si sono accumulate. C’è indubbiamente in ciò un elemento di verità indiscutibile. E tuttavia non ci è consentito di procedere oltre per salti, negazioni od omissioni repentine. In tal senso, per riferirci solo ad un aspetto della realtà italiana, in specie in relazione a ciò che accadde a Roma nella fase conclusiva del conflitto, risulta di grande utilità la lettura delle pagine del libro di Aldo Pavia e di Antonella Tiburzi125. Un lavoro impegnativo ed accurato, che apporta un ulteriore tassello nella ricostruzione della storia della deportazione e dello sterminio di cittadini italiani ebrei, catturati e condotti nei campi di sterminio dove in tanti trovarono la morte. Il racconto, incentrato su quanto accadde a Roma, si snoda dall’8/9 settembre 1943 in avanti. Ricostruisce i primi episodi, anche disperati, di resistenza armata in città, in specie in alcuni quartieri popolari, mette in evidenza il sostanziale fallimento dell’operazione, tentata dai fascisti, del reclutamento “volontario” alla RSI e poi l’inizio dei rastrellamenti, con l’invio in Germania dei lavoratori e di civili catturati. I treni stracolmi di persone smunte e denutrite, uomini, donne, vecchi, bambini ridotti a cose in carri bestiame, esposti al freddo ed al gelo e destinati a Mauthausen, a Dachau, ad Auschwitz o a Birkenau. Ridotti a numeri, ormai senza più nulla di persone, impiegati in lavori forzati a 30 gradi ed oltre sotto zero. E poi trasformati in cenere, nelle camere a 125

Pavia Aldo, Tiburzi Antonella, I giorni del sole nero, ANED, Roma, 2010

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gas. Privi di acqua e di cibo sufficiente, ammucchiati in squallide baracche, simili ad animali, l’uno sopra l’altro, in attesa dell’inesorabile momento della fine. Lo stile stringato ed essenziale, senza alcuna concessione alla retorica, crudo e durissimo, consegna un impianto di realtà, con storie e testimonianze raccolte dalla diretta voce dei protagonisti scampati per miracolo ad un’orrenda fine. Il valore del testo consiste anche nella ricostruzione dell’elenco di nomi e cognomi di chi è per sempre scomparso nelle nebbie, vittime innocenti, di cui non si sarebbe mai saputo nulla, essendo stata ogni cosa cancellata, persino il loro nome. Atti feroci e disumani, perpetrati dai tedeschi, con la complicità odiosa e attiva di repubblichini, spie e delatori, spregevoli figure di cui è purtroppo sempre disseminata, in ogni topico passaggio, la storia dell’umanità. Innumerevoli esempi di vigliacco accanimento sui più deboli e sugli indifesi, venduti e consegnati in cambio di danaro (c’erano specifiche tariffe per uomini, bambini, per sani e meno sani). Per lungo tempo i sopravvissuti si sono chiusi in un lungo e impenetrabile silenzio, evitando ogni occasione di trasferire ad altri il grumo di propri ricordi sanguinanti, hanno taciuto, evitando di parlare, nel timore di non essere creduti. Poi, col tempo e dopo tantissima fatica poco per volta hanno iniziato ad apparire storie, accadimenti, fatti rimasti troppo a lungo nell’oblio. E’ costata tanto la riemersione di quanto si è vissuto! Sempre più spesso, è emersa con forza la necessità di consegnare la propria esperienza di vissuto in altre mani, perché tutto quanto è accaduto non debba nel futuro più accadere. Ad Aldo Pavia, autore del volume e dirigente nazionale dell’Aned, ci lega da tempo una profonda amicizia ed una condivisione di comuni valori e idealità. La sua vita è stata segnata, fin dalla più tenera età, in modo assai profondo , dalla tragedia di cui stiamo discutendo. Parte della sua famiglia è stata deportata nei campi di sterminio e lì è sparita. Di loro non si è più saputo nulla! Aldo ha scelto la strada dell’impegno civile e appassionato, intenso e permanente, di dare nuova voce, in ogni dire-

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zione, a fatti e accadimenti del nostro passato relativamente più recente. Ritiene questo un suo dovere, etico e morale, atto dovuto e omaggio alle innumerevoli vittime innocenti cui senza colpa è stata strappata la libertà e la vita. In nessun modo è lecito tacere.! Le tante vittime morirebbero, per responsabilità dei vivi, un’altra volta ancora!

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Divagazioni: Bruno Ravasio, Una vita nel pallone126 Una bella storia, quella raccontata da Bruno Ravasio, fluida e scorrevole che, fin dalle prime pagine, per l’efficacia e l’essenzialità, riesce a captare l’attenzione del lettore. E che forse coinvolge maggiormente in quanto non si snoda nè si consuma dentro il recinto parziale della sua narrazione. Non è solo la vicenda, storicamente datata, sportiva ed umana, di molti decenni fa, di Virginio Ubiali, “Gepì”, rievocata da un lembo di terra bergamasca, spicchio di un’Italia semplice, in bianco e nero, che faticosamente inizia a riprendere un cammino e ormai prossima ad epocali cambiamenti. E’ uno sguardo, quello dell’autore, che spazia con agilità- contemporaneamente e in parallelo- su altre dimensioni, su più diversi fronti. Tra fatti e vicende, politiche e sociali di quel tempo, mischiate nella trama con equilibrio e con misura. Una miscela, ben riuscita, che si collega a quanto già vissuto, negli anni appena antecedenti, in una realtà del nostro bel paese sfregiata- come tante- nell’anima e nelle carni, dal trauma lacerante della guerra. Una ferita profonda, ancora aperta e non cicatrizzata, che è necessario ad ogni costo saturare. Impresa ardua, che avrà bisogno del massimo e appassionato impegno collettivo. Dopo l’agghiacciante fragore delle bombe, s’inizia a respirare finalmente un’aria nuova, di gaia spensieratezza, e come di vivida sorpresa, per la riconquistata libertà. Un clima nuovo, denso di un’energia vitale dirompente, che in varie direzioni si rimette finalmente in moto. Rinascono inedite forme di partecipazione collettiva, e di socialità, iniziano a dileguarsi le angosce e le paure disseminate ovunque nel lungo tempo della dittatura e poi acuite dall’esplosione feroce e rovinosa della guerra, che col suo enorme carico di morte, di lutti e di rovine, ha sfigurato in lungo e in largo il Bel Paese. C’è una nuova, prorompente gioia di vivere e di agire che, convulsamente, riesplode tra chi è soprav126

Bruno Ravasio, Una vita nel pallone, Lubrina Editore, 2014

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vissuto a quella dura prova! Rimuovere le macerie, materiali e morali. E’ questo l’imperativo! E’ come una frenesia, volta a rimpadronirsi di getto del pezzo di esistenza che si è perso. Il calcio, in quello specifico contesto, sviluppa una funzione di attrazione e di collante, un ruolo diffusamente coinvolgente capace di realizzare, dentro l’immaginario collettivo, un’originale forma di coesione. E’ uno degli strumenti, più semplici e immediati, per rimettere insieme una socialità scomposta, per ricomporre identità smarrite, uscendo dalla solitudine e dalla disgregazione, in modo da ridare una nuova vitalità alla Nazione. Un modo, rapido e sicuro, per far riemergere un grumo di speranze da troppo tempo sullo sfondo compresse e tristemente relegate. E’questa una possibile visione in filigrana, per percorrere la trama e la vicenda umana del protagonista della storia, il suo integrale confondersi col gioco del pallone, il suo mischiarsi agli amici sui campi di gioco di provincia impolverati. Ritornano a pulsare i sogni, le passioni, le speranze e le utopie inconfessate, a lungo riposte e preservate in un angolo discreto di sé stessi, nel prezioso e inaccessibile scrigno della mente. Emozioni, spezzate e poi finalmente di nuovo ricomposte in un’organica e coerente narrazione. Passioni e desideri, dopo il letargo incolpevole e tenue dell’adolescenza, oltre la prima gioventù, riemersi in superficie a nuova luce, forti della loro contagiosa nitidezza. E che emigrano, nell’essenza intatti, dall’anima sulla pietra bianca levigata, ancora non scalfiti né distorti da una modernità, trasfigurata da fievoli e ingannevoli valori, che in un solo istante ed indistintamente ogni cosa vissuta fagocita e consuma. Siamo in sostanza di fronte ad un volume inusuale, composto con l’abile maestria propria di un artigiano, in un equilibrio di rara ed inconsueta qualità. Per più aspetti piacevole sorpresa, esempio concentrato di un’esperienza che trasuda d’ intensa umanità, e nel suo svolgimento si proietta in nuove prospettive di confine. Pagine lievi, eppure attraversate da forti e ossificate convinzioni.

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Il sogno dell’autore, vissuto con gli occhi stupefatti di bambino è reso di nuovo attuale, e s’identifica con l’antico gioco del pallone e in specie col suo eroe. Un bambino che è diventato rapidamente uomo senza dimenticare ciò che è stato. Il sogno, che rivive e che si fonde con lo straordinario protagonista della storia, l’inimitabile funambolo virtuoso, esclusivo nella sua unicità, plastica sintesi simbolica di aspettative e di speranze collettive, di voglia di riscatto di una comunità operosa che in larga parte si riflette in lui. Una comunità, di gente semplice, ai margini del clamore delle cronache, e tuttavia pregnante di appassionata umanità, per questa ragione superiore immersa a pieno titolo nell’infinito fluire della Storia.Un filo antico, lacerato, che viene ricomposto in una compatta, progressiva, feconda unicità. Il sogno inconfessato, misto di fantasia e di nostalgia, che poi contagerà- con forza dirompente- milioni di ragazzi della sua stessa età. Storia particolare, certo, e tuttavia simile a milioni e milioni di altre storie. Nel nuovo, inedito scenario che si schiude, in ogni contrada di quel tempo, ciascuno sceglierà il proprio mito, magari per casualità. Una figura cara, destinata a rimanere infissa, nel cuore e nella mente, per tutta l’esistenza. Memoria di una storia, destinata per mezzo della parola scritta a rimanere intatta. Io stesso ho vissuto una condizione di sostanziale identità con quanto raccontato nelle pagine del libro. Alla fine degli anni ’50, e per tutto il decennio degli anni ’60, venne a Firenze uno svedese, gracile e minuto. Scendeva in Italia da un angolo fatato dell’estremo Nord, un posto lontano che immaginavo ancora popolato dagli Elfi e dalle fate delle fiabe. Fu scelto da chi scrive per sempre come suo inarrivabile campione. In una maglia di colore viola, col giglio disegnato sopra il petto, in una delle squadre più grandi di quei tempi, emblema della città culla d’origine della lingua nazionale. Grandi gli squadroni di quell’era, la Juve, il Milan, l’Inter, gremite a loro volta di grandissimi campioni. Scelta minoritaria, rispetto alla vulgata prevalente, e tuttavia difesa nel tempo con tenacia, mai destinata a sfumare o a diluirsi. Il tempo, che inesorabile trascorre e si consuma, più che allentare, accentua l’invisibile legame che ti unisce a personaggi-

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simbolo di un altro mondo antico, ricoprendo il ricordo di un indissolubile alone di emozione e di dolcezza. La forza del racconto di Ravasio è anche nel suo essere una storia per così dire “dilatata”, non comprimibile nell’esclusiva e parziale dimensione territoriale di un piccolo e marginale borgo di provincia. Tra i vari temi, che insieme si sfiorano e convivono, a volte quasi sovrapponendosi tra loro, centrale appare quello del lavoro, strumento decisivo di riscatto per superare antiche ingiustizie e incrostazioni di un mondo e di una realtà territoriale al proprio interno ancora troppo diseguale. Sullo sfondo il contesto ambientale, le case popolari, i quartieri operai, le grandi fabbriche, il Cotonificio Legler, in cui col sudore della fronte di migliaia di uomini ci si impegna a costruire un futuro, migliore, diverso e più avanzato, per una comunità che si è rimessa in moto! Il segno peculiare della ricerca di un possibile riscatto, umano e materiale. In filigrana, oltre allo sviluppo della singola storia rievocata nel progredire delle sue distinte fasi, è questo a me pare l’ambito dei confini in cui rintracciare il filo conduttore di una narrazione. Il racconto, insieme individuale e collettivo, semplice ed essenziale, privo di retorica, senza alcun superfluo abuso di parole, storia di mondi concentrati, in cui nel tempo, come è per sempre nella storia umana, vittorie e sconfitte insieme si sommano tra loro. Un contesto, non scisso da un tempo storicamente dato, segno di una complessa transizione di una società particolare, con i suoi usi, le tradizioni ed i comportamenti antichi, la sua specifica cultura. Tracce che s’identificano e s’integrano a pieno con l’uomo che gioca col pallone, a cui si affidano speranze inconfessate, aspirazioni di vita ed ansie di riscatto. Nella comunità di Ponte San Pietro non c’è ragazzo che non vorrebbe anche solo in parte identificarsi in lui! In una dimensione, più appagante, in cui infine si riflette un tratto ingenuo di autentica poesia. Finanche l’uomo più umile del mondo, per una volta almeno, è portatore sano di un diritto naturale, quello di sognare, alzando il proprio sguardo al cielo,

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diventando leggero come piuma, immerso nel bianco chiarore luminoso delle stelle. Il testo di Ravasio è in tal senso- e non a caso- denso di molteplici, successive suggestioni. Un campo di calcio di provincia, uno dei tanti, sterrati e polverosi di un angolo d’Italia degli anni ’50, su cui per ore ciurme di ragazzini scalzi e impolverati rincorrono un pallone. Ponte San Pietro, nella lontana provincia bergamasca, un campo minore della Serie D, nella stessa zona della maggiore squadra locale, l’Atalanta, con le orgogliose casacche nerazzurre. La squadra di Ponte San Pietro non può certo essere eguale alla squadra maggiore di Bergamo e tuttavia nelle sue fila annovera Virginio Ubiali, il “Gepì”, autentico, inarrivabile funambolo. E’ un numero 10 naturale, capace delle più impensate acrobazie, che intercetta la sfera col sinistro fatato di una calamita, e che disegna parabole di una bellezza rara. Nelle giornate di particolare ispirazione finanche irride senza ritegno l’avversario. Un giocoliere, che si esibisce con l’abilità degna di un virtuoso acrobata di circo. In miniatura simile ad uno dei più grandi giocatori di calcio di quei tempi, un altro 10, vestito di casacca bianconera, un argentino che con Maschio e Angelillo comporrà l’ineguagliabile trio degli “Angeli dalla faccia sporca”. L’estroso gioiello di Ponte San Pietro era assurto agli onori della cronaca locale piuttosto tardi nel tempo, a 30 anni di età. Proveniva da una famiglia povera e modesta e per vivere era stato costretto a fare l’operaio, proprio nella Legler. La sua vera, inesauribile passione era però quella di tirare calci ad un pallone, nei modi più imprevedibili e impensati, mirando da ogni direzione verso la porta con precisione estrema. Ponte San Pietro, ed il legame fortissimo col luogo in cui era nato e dove era cresciuto, un rapporto profondo e indissolubile, col tempo rafforzato e mai venuto meno. Aveva bighellonato, da calciatore con scritto nel destino di diventare un gran campione, tra i più diversi luoghi, Novara, Biella, Crema, Lecco. E tuttavia ogni esperienza vissuta da professionista, pur ripagandolo dal punto di vista materiale, finiva per riportarlo al punto di partenza, nel luogo da cui aveva mosso i primi passi.

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Una calamità, e forse un’autentica condanna, da cui misteriosamente non riuscirà mai a sottrarsi in alcun modo. Un punto dello spazio, che occupa in ogni poro la tua anima, da cui più ti allontani più ti richiama a sé. Fuori dal suo contesto “Gepì” finiva puntualmente preda della tristezza e della malinconia! Per questo, alla fine, ritornava sempre al suo paese! In conclusione, una storia semplice, una storia vera. Ed un insegnamento. La felicità non ha prezzo e non la si può acquistare solo col danaro! E’ più importante l’armonia col proprio io, attraversare il tempo che ci è dato con gli amici cari della gioventù, coi quali continuare a condividere, con naturalezza, le esperienze e le scelte di vita più importanti. E non ha prezzo il vivere in un ambiente sano, dentro le strade ed i quartieri della tuo piccolo borgo cittadino, dove conosci tutti, in quella dimensione di cui respiri a pieno l’aria ed il valore col vero significato di ogni cosa. In quell’ambiente che è sempre pronto a raccoglierti di nuovo, tendendoti le braccia con amore. E’ questo ciò che vale, e che ti consente di sentirti ancora vivo e vero! Altro è superfluo, se ne può fare a meno. E questa la dimensione che mai nessuno ti potrà sottrarre! Il lieve sogno, che dentro di te continua ininterrotto a vivere e a pulsare, neanche il più grande mare burrascoso lo può portare via …

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PERSONAGGI

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Nicola Fiore: un raro esempio di resistenza intransigente al fascismo Nicola Fiore è senza dubbio una delle poche figure della storia salernitana di sicuro non incasellabili all’interno del fenomeno, consueto e ricorrente, del trasformismo ed alla prassi, allora come adesso assai diffusa, dell’adesione di comodo ai cambiamenti, politici e di potere, che si susseguono nella vicenda storico-sociale nazionale e locale. E’ anzi un personaggio per tanti versi scomodo, che, per limpidezza ed intransigenza assoluta sui princìpi, si distingue all’interno del movimento operaio, sindacale e democratico meridionale: un protagonista, un capo ed un dirigente sindacale per più ragioni di primissimo piano come risulta ripercorrendo, seppure a grandi linee, i principali passaggi della sua biografia politica ed umana. Solo di recente, dopo un lungo ed ingiustificato torpore, è ripresa una ricerca storiografica che, seppure ancora parziale ed incompleta, inizia a consentire una più compiuta ricostruzione del suo pensiero e della sua personalità, con una più attendibile messa a fuoco dei tratti essenziali del suo impegno sociale e della sua opera.. Nato a Marigliano nel 1883, morirà, malato e perseguitato, a Salerno nel 1934. Illuminante è il profilo tracciatone nei dispacci della Prefettura di Napoli, opportunamente riportati da Margherita Autori127. In essi il Fiore è rappresentato quale elemento “fin dall’adolescenza fanatico e nevrastenico”, che ha scelto, giovanissimo, la milizia nel partito socialista “prendendo parte attiva alle sue manifestazioni e mostrandosi elemento di azione e turbolenze”. Si sostiene inoltre che “tende ad acquistare un posto importante nel partito, ma non ne ha le attitudini per cui cerca di affermarsi ed acquistare nome trasmodando nelle sue manife127 Nicola Fiore: un sindacalista rivoluzionario?, Pietro Laveglia editore, pubblicazione nella cui parte finale è proposta una circostanziata biografia dei più importanti episodi della vita e della milizia sindacale del Fiore.

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stazioni ed intavolando polemiche anche con correligionari”. I suoi amici di partito, perciò, lo ritengono “un giovane leggero e fanatico e poco utile ai fini del partito stesso”. Ed ancora “nel partito non ha alcuna influenza e solo tra i giovani componenti la suddetta sezione esercita una certa ascendenza”. Collabora a fogli quali “L’Emancipazione” ed è redattore del giornale “L’energia”, ben presto inizia a scrivere sul giornale “La Propaganda”, organo del Partito Socialista locale. “Non tralascia occasione per prendere parte a manifestazioni sovversive in cui si mostra sempre elemento attivo e turbolento”128. Il suo primo fermo è del 29 dicembre 1900 a Napoli, in occasione di una manifestazione organizzata in coincidenza con l’arrivo dell’onorevole Ferri. Un altro arresto lo subisce il 4 agosto 1903, per essersi mostrato “ uno degli elementi più turbolenti in una dimostrazione ostile al Papa, improvvisata in occasione dell’assunzione del pontificato di Pio X”. Nei dispacci della Prefettura segue l’elenco di varie altre azioni di “lotta sobillatrice” in pubbliche manifestazioni. Per i custodi dell’ordine si è di fronte ad un giovane sovversivo, ad “un fervente socialista attivo propagandista ed elemento che merita di essere attivamente sorvegliato”. E’ attraverso le colonne de “L’Energia” che Nicola Fiore conduce una forte campagna antimilitarista e “disfattista” ed a causa della distribuzione del foglio tra gli operai è denunziato all’autorità giudiziaria nell’ottobre del 1909, ma già dal 1910 lo si ritrova a svolgere un’importante opera di organizzazione del movimento socialista e sindacale in varie province del Mezzogiorno.Nicola Fiore129 è un militante marxista che ha iniziato, fin da giovanissimo, la sua attività politica nella Federazione Socialista napoletana, assieme ad Amadeo Bordiga, Oreste Lizzadri, Ruggero Grieco, esponenti di primo piano della sinistra marxista napoletana. Alla prima esperienza politica nelle file della Federazione Giovanile coniuga una passione autentica per la pubblicistica, diventando ben presto corrispondente anche di 128

Op.cit., pag. 64. Per una ancora più compiuta lettura della figura e del ruolo di Nicola Fiore, vedasi F. Andreucci – T. Detti, Il Movimento operaio italiano, Dizionario Biografico, Roma 1976. 129

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fogli socialisti in circolazione in altre parti del Paese, come “L’Internazionale” di Parma, in cui pubblica durissimi articoli contro le disfunzioni e le ingiustizie del potere borghese, non risparmiando le istituzioni liberali, da lui accusate di ignavia. Per conto della Federazione Meridionale delle Organizzazioni Proletarie, nel cui Comitato Esecutivo è stato nominato il 12 dicembre del 1910, si muove da una provincia all’altra del Mezzogiorno, partecipando a riunioni, assemblee, comizi, manifestazioni pubbliche per ampliare e consolidare, sempre più, le strutture, ancora esili, del movimento operaio. Dovunque si fa conoscere ed apprezzare per la combattività, il rigore, la straordinaria capacità oratoria di tribuno. Bari, Brindisi, Potenza, Melfi, Corato in provincia di Foggia, ma anche Imola, Marsala, Lecce, oltre che, naturalmente, pressoché tutti i principali centri della Campania, le tappe del suo instancabile girovagare. Nel 1911 contesta apertamente le posizioni moderate della Federazione Socialista Napoletana ed inizia una polemica, asperrima, che si trascinerà negli anni a venire, contro le linee accentuatamente moderate a quel tempo in essa prevalenti: un contrasto, esplicito e senza mezze misure, che gli procurerà forti amarezze e che sarà causa di divisioni e lacerazioni, anche sul piano personale, che non saranno mai più ricomposte. Nel 1914 è nominato Segretario della Camera del Lavoro di Salerno, l’esperienza più luminosa d’impegno sindacale e politico, in cui espliciterà una straordinaria capacità di sollecitazione della partecipazione protagonista dei lavoratori alla vita politica e civile della società locale. Almeno per una fase sembrerà che con l’organizzazione e l’azione sindacale si possa ancora supplire alla inesistenza o alla gracilità delle organizzazioni politiche, cui, idealmente, s’ispira il movimento. Fiore, nell’esercizio della funzione di direzione sindacale, si dimostra instancabile: interviene direttamente in ogni vertenza che contrappone operai e datori di lavoro, affida le sue posizioni al foglio “Il lavoratore”, stampato a Napoli, ma diffuso a Salerno, concentrando il massimo di attenzione sugli operai delle Manifatture Cotoniere Meridionali di Fratte, di cui, in brevissimo tempo, diventerà organizzatore e leader indiscusso. Oratore straordinario, grande tribuno popolare, dotato d’un

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innato e contagioso carisma, raccoglie un grande seguito anche tra i lavoratori pastai, mugnai, tra i ferrovieri e gli edili130. Nella sua formazione ha copiosamente attinto dagli elementi classici del sindacalismo meridionale e, in particolare, dalla lotta intransigente contro il conservatorismo e l’opportunismo di stampo “riformistico”. Più volte Fiore ribadisce quale sia l’elemento discriminante che deve caratterizzare l’azione di lotta delle masse nello scontro frontale contro la borghesia: la classe operaia e le sue organizzazioni devono battersi, con ogni energia, contro i trust capitalisti ed industriali, in specie cotonieri, spezzando un infido esercizio del potere fondato sull’abile mistura di paternalismo e repressione. Alla vigilia della prima guerra mondiale assume posizioni interventiste, e ciò gli attira le critiche di quanti gli rimproverano di non aver inteso come la guerra altro non è che un sostegno, obiettivo, agli interessi degli imprenditori siderurgici e tessili, fortemente favorevoli all’entrata del paese nel conflitto al solo scopo di trarre, da tale situazione, il massimo profitto per sé e per le proprie imprese. In verità, Fiore, in quel periodo, è davvero all’opposizione della direzione della Federazione Socialista napoletana attestata sulla linea nazionale del “non aderire né sabotare”. Nella visione del giovane Fiore sembra piuttosto prevalere una concezione ancora parziale ed ingenua del carattere che sta assumendo il tumultuoso processo della storia italiana, europea, mondiale. Una posizione, intrisa di elementi ideologici e dottrinari, segnata dall’idea del “crollo”, dalla prefigurazione del tragico ed inevitabile precipitare degli eventi, a livello internazionale ed interno, che finirà per determinare, d’incanto, l’accelerazione della presa di coscienza rivoluzionaria delle masse lavoratrici. La guerra, con i suoi orrori, sarà anche l’occasione dell’insurrezione proletaria e della rivoluzione sociale vittoriosa che consentirà di fare giustizia delle più odiose prevaricazioni a lungo esercitate dai gruppi capitalistici reazionari contro la classe proletaria mondiale: la guerra, insomma, finirà per acuire la crisi, aprendo la strada all’insurrezione ed alla presa del potere. 130

Laveglia, Fascismo, cit., p. 35.

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Un determinismo meccanico, quindi, non del tutto estraneo a posizioni di minoranza presenti nel movimento operaio da cui Nicola però presto si distaccherà. Franco Barbagallo131 ha efficacemente ricostruito l’interna geografia delle diverse linee esistenti nel movimento socialista napoletano ai principi del secolo e le sue cicliche oscillazioni: un contesto complesso in cui è però possibile delineare l’evolversi delle posizioni e del pensiero del Fiore che, in qualche maniera, sembrano snodarsi in parallela sintonia coi principali avvenimenti e con le lotte del movimento operaio, dalla parentesi interventista alla “settimana rossa” fino alla fase di più matura direzione della Camera del Lavoro ed al ruolo, straordinario, ricoperto nella direzione delle lotte degli operai tessili, per concludersi con la confluenza e l’adesione alla frazione comunista. Il primo obiettivo di Fiore è fornire solide basi ad un’organizzazione operaia che agisce in una realtà, come quella salernitana, di grande arretratezza economica. Quando il nostro avrà consumato la parentesi del sindacalismo rivoluzionario e tornerà nei ranghi, sarà accolto con qualche perplessità nella componente massimalista. C’è di fatto una dissintonia tra le posizioni della Camera del Lavoro salernitana e quelle della Direzione Nazionale del Partito, al punto da far ritenere che la struttura salernitana non è ancora “regolarmente aderente alla Confederazione”. Allo stesso modo, appaiono tesi i rapporti col gruppo bordighiano attestato sulla mera attesa del “crollo” della società capitalista: il tempo, per Bordiga, lavora per le forze rivoluzionarie. E’ inutile battersi ora. Il punto essenziale è la capacità di conservare, intatta, la purezza rivoluzionaria per porsi, per quel momento, quale alternativa radicale di sistema. Per un dirigente di massa quale Nicola Fiore è invece sempre più evidente come si tratti di agire nel concreto, momento per momento, per elevare la coscienza delle masse proletarie e la consapevolezza dei loro diritti, dando risposta ai loro bisogni: ogni giorno va utilizzato per far crescere il mare in piena delle 131

F. Barbagallo, Stato, parlamento e lotte politico sociali nel Mezzogiorno, Ed. Guida, Napoli 1980.

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forze operaie d’opposizione, fulcro di tutto il movimento generale di emancipazione. Fiore, dopo la breve parentesi interventista, aderirà infatti alle posizioni della Terza Internazionale, assumendo a riferimento strategico di fondo l’esperienza della rivoluzione russa. Ed infatti è esplicita ed immediata la sintonia del Fiore con la suggestione e la grande speranza generata tra i lavoratori dalla Rivoluzione d’Ottobre. Egli intende a quel punto collocarsi, con i lavoratori e gli operai salernitani, pienamente all’interno di quel filone politico, storico, ideale, di enorme valenza simbolica, rappresentato dalla grande e vera Rivoluzione del XX secolo, che, per la prima volta nella storia, ha permesso al proletariato d’un immenso paese, grande come un continente, di impadronirsi del potere statuale. La forza proletaria ha concretamente dimostrato, con un atto di rottura rivoluzionario vittorioso, di potere esercitare, con pieno diritto, la propria dittatura contro l’arbitrio, l’arroganza, la violenza in passato sistematicamente praticata dalle vecchie classi dirigenti contro i lavoratori nell’esercizio di ogni funzione politica, economica, statuale. Pieno ed incondizionato è dunque il suo sostegno ed assoluto il riconoscimento della funzione guida assunta dal movimento rivoluzionario sovietico, una posizione più avanti confermata senza remore anche nell’esercizio della sua funzione di direzione sindacale. L’esperienza della direzione sindacale ha prodotto in lui un’evidente evoluzione ed un più forte e concreto ancoraggio alla realtà. In ogni caso non ci può essere collaborazione o collaborazionismo subalterno ai poteri dell’impresa ed alle posizioni in essa più oltranziste. Un’altra distinzione, netta ed esplicita, rispetto alle linee prevalenti nella direzione socialista. Nel 1919 la divaricazione tra Fiore e la Direzione del Partito diviene antagonista. Il Fiore decide di presentare alle elezioni dello stesso anno una propria lista indipendente, che riporta la quasi totalità dei suffragi dei lavoratori della Valle dell’Irno, superando i consensi dei socialisti ufficiali e dei liberal-democratici. E viene premiato, in quanto ha agito, come Segretario della Camera del Lavoro, in maniera coerente ed appassionata in di-

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fesa degli operai, per migliori salari, per ridurre l’orario di lavoro, per combattere il carovita e l’inflazione. Gli anni 1919-1920 sono segnati, anche a Salerno, da importanti agitazioni popolari. Come è d’altronde avvenuto in tutta Italia, i reduci dalle trincee, di estrazione soprattutto bracciantile e contadina, s’imbattono nel tradimento delle promesse e delle proprie aspettative. Montano l’esasperazione e la rabbia. La situazione economica è assai critica, diffusissima la disoccupazione, la domanda di terra dei contadini è del tutto vanificata: la crisi morde l’industria e chiudono aziende, come il “Lanificio Siniscalchi” di Pellezzano, il calzaturificio “La Vittoria” ed altre che dimostrano maggiore gracilità. Solo una grande struttura produttiva come le Manifatture Cotoniere Meridionali dimostra di essere in grado di reggere e di superare le difficoltà. Nel febbraio del 1919 nel comparto tessile si registra una grande ondata di scioperi, susseguente alla minaccia padronale di chiusura dello stabilimento “Irno”. Il padronato non intende cedere alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro ed anzi vuole protrarre sine die l’orario di 11 ore lavorative al giorno, dando ancora salari da fame132. Gli operai si oppongono a tale atteggiamento e chiedono al governo la requisizione della fabbrica ed il suo affidamento alla Federazione Operai Tessili133. Fiore, segretario della Camera del Lavoro, riunisce gli operai tessili di Fratte e invia un ultimatum al governo nel quale chiede la definitiva soluzione della controversia entro e non oltre il 25 dello stesso mese ed ammonisce che gli operai sono pronti a tutto. La direzione aziendale risponde con la chiusura della fabbrica e le maestranze sono trasferite a Napoli, a Nocera Inferiore, a Scafati. Ne deriva, come risposta, lo sciopero generale che coinvolge tutti gli stabilimenti di settore, ma anche i metallurgici di Fratte, il cantiere navale Vigliar, i mulini, i pastifici, i panettieri, le concerie, il cementificio, i vetrai di Vietri, i lavoratori del porto. Il successo dello sciopero è impressionante: ad esso partecipano attivamente circa 15.000 lavoratori e la paralisi delle attività 132

In “Il Piccolo Corriere”, 20-12-1919. “Il Lavoratore”, 29 marzo 1919, : “Operai tessili forzatamente disoccupati invitano Governo a requisire stabilimento Irno affidandone gestione Federazione Operai tessili”. 133

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produttive e commerciali è pressoché totale. Lo sciopero ha visto in Nicola Fiore il suo animatore instancabile. Numerosi gli attestati di solidarietà, come si evidenzia nella grande assemblea della Camera del Lavoro, che approva questo o. d.g.: “I lavoratori tutti di Salerno, in sciopero di solidarietà con i tessili, invitano il governo a smettere la politica di classe e provvedere alla socializzazione delle industrie, unico rimedio contro la disoccupazione e le ingorde speculazioni dei nuovi arricchiti”134. La mobilitazione continua anche il giorno seguente: un grande comizio è tenuto dalla Camera del Lavoro nella piazza di Fratte, oratori Faletto della CGIL di Napoli e Nicola Fiore, poi il grande corteo per le vie di Salerno ed un nuovo comizio alla Camera del Lavoro, dove, insieme con Fiore, parlerà lo studente De Caro della sezione socialista di Napoli. E’ a questo punto che si scatena la reazione dei pubblici poteri: le manifestazioni vengono vietate dalla questura. Intanto lo sciopero si estende sempre più, pur mantenendosi nei limiti della disciplina e della compattezza estrema. Tutta la città è con gli scioperanti. Il terzo giorno, dichiarata la fine dello sciopero generale, continua solo quello dei tessili “fino alla risoluzione della vertenza”. L’agitazione durerà fino al 12 aprile e terminerà soltanto quando sarà annunciata dagli industriali la riapertura di tutti gli stabilimenti. E’un’importante vittoria, la prima, spera Fiore, di una lunga serie: “le sosterremo con la nostra fede, con la forza e la coscienza delle masse lavoratrici, incuranti del vocio incomposto degli scherani della polizia e lor signori”135. E’ stato decisivo l’impegno profuso dal Fiore al fianco dei tessili, che si sono dimostrati sul campo autentica avanguardia della classe operaia. Nel gennaio del 1920, però, Fiore è tratto in arresto, senza alcun regolare mandato di cattura, in seguito ad uno sciopero dei postelegrafonici: un atto arbitrario del governo Nitti. E’ tuttavia del tutto evidente l’impatto simbolico dell’operazione di polizia: arrestare Fiore tende all’obiettivo di scompaginare ogni forma di organizzazione del movimento sindacale ed operaio met134 135

“Il Lavoratore”, 16 aprile 1919. “Il Piccolo Corriere”, 29 gennaio 1920.

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tendo a tacere una voce indomita ed indipendente “che non dava tregua ai malversatori, ai prepotenti, alle camarille”136. “Non si è mai osato arrestare Nicola Fiore nei comizi ove vibrava la sua anima ardente, temendo l’indignazione popolare. Lo si è sorpreso di notte nel suo letto”137. Soprattutto gli industriali cotonieri segnano un punto importante a loro vantaggio. In difesa del Fiore, e contro il sopruso da lui subito, viene proclamato lo sciopero generale, che non riesce a far recedere, però, dalla decisione assunta dalle forze di polizia. A causa dei prevedibili pericoli per l’ordine pubblico, il processo è trasferito a Napoli. Il Fiore ottiene di parlare a sua discolpa138, ma è condannato a sei mesi di carcere per istigazione a delinquere. Fiore ha già scontato la pena, essendo stato arrestato 8 mesi prima, ma pende a suo carico ancora un altro procedimento, che impedisce la scarcerazione. A S. Efremo, Fiore inizia lo sciopero della fame e chiede di essere giudicato dal Tribunale di Salerno. Il Fiore non è piegato, anzi, sembra piuttosto che le ingiustizie ed i soprusi subiti accentuino la sua forza d’animo ed il suo spirito polemico. Egli sa di essere perseguitato per le proprie idee e per l’impegno, disinteressato, profuso nell’interesse dei lavoratori: è un perseguitato politico, non un malfattore! “Il Lavoratore” del 15 febbraio 1920 ha dato notizia dell’astensione dal lavoro effettuata per chiedere la sua scarcerazione. Le proteste, che non s’esauriscono, persuadono le autorità ad autorizzare il trasferimento del detenuto nella propria abitazione. A dicembre dello stesso anno ha luogo il secondo processo a suo carico presso la Corte d’Assise di Napoli, che, rapido e sbrigativo, si conclude con la condanna a 16 mesi e 5 giorni di detenzione. A causa della malferma salute, è concesso il domicilio coatto nella sua casa di via Tasso, n. 59. Gli arresti domiciliari verranno revocati dopo un anno per un nuovo trasferimento in carcere. 136

“Il Lavoratore”, 15 febbraio 1920. “Il Lavoratore”, cit. 138 Dell’episodio daranno notizia vari quotidiani: “Il Giornale di Salerno“, “La Provincia”, “Il Mattino”, “Il Roma”, “L’Avanti” del 14 agosto 1920 ed “Il Giorno” del 16 agosto 1920. 137

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Fiore riprende lo sciopero della fame. Nel periodo della sua detenzione, il movimento è privo di una guida decisa e coraggiosa: iniziano a svolgere funzioni di direzione figuri che nulla hanno a che vedere con la storia e la cristallina limpidezza del Fiore e che anzi, come commenterà il Prefetto Barbieri139, iniziano a prendere le distanze da lui, arrivando a diffamarne l’immagine, rappresentandolo come “pazzo ed esaltato”140. In realtà, durante la sua assenza, si è registrato un cambiamento profondo nella fisionomia dell’organizzazione sindacale, che è passata dall’indirizzo “rivoluzionario” del Fiore a quello “riformistico”. Fiore si sente tradito ed abbandonato, preoccupato non tanto per la sua sorte personale quanto per il fatto che gli sembra si stia estinguendo tutto ciò per cui si è fino a quel momento battuto. Egli ritiene, ormai, che il movimento sia guidato da una “compagnia di ventura massonico - poliziesca, … che … hanno addomesticato il movimento proletario alla polizia … sfruttando insidiosamente l’appoggio del partito socialista”141: è in atto l’esaurirsi della spinta rivoluzionaria. Gli appelli rivoluzionari del Fiore ai lavoratori non sortiscono, infatti, alcun effetto. Ed anzi ci si avvia verso il reflusso del movimento che prepara un’amara fase di sconfitte. L’agosto del 1920 può essere indicato quale data emblematica nella quale si consuma la sconfitta del movimento operaio tessile. Fiore scrive un appello “Ai Rivoluzionari d’Italia”, nel quale mette in guardia i lavoratori dai figuri e dai traditori che si sono impadroniti della direzione della Camera del lavoro. Di particolare asprezza i rilievi che rivolge “a quel tale Ronca Filippo, ex procuratore del Re, intrufolatosi poco dopo il mio arresto nel movimento proletario mascherato di rosso”. Nella lettera dell’8 dicembre del 1920, egli così si esprime: “Ex procuratore del Re, la vostra spudoratezza oltrepassa ogni limite. Dopo il vostro fallimento giudiziario, non avete più ombra di pudore. Fate la politica alla pari di un truffatore e d’un saltimbanco. Avete insozzato “Il Lavoratore” da me fondato e, non 139

ACS, CPC, cit. Il Piccolo Corriere, 10-02-1921. 141 ACS, CPC, cit. 140

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soddisfatto delle vostre porcherie e dei bassi servizi di polizia, seguitate a far dello spirito da letamaio sul mio “Lavoratore”, che avete profanato con le vostre mani criminali adusate a firmare cambiali con gli avvocati. Procuratore del Re, trescavate con gli avvocati: caduto io sotto i ferri, agite a gloria ed ad onore dei pescecani e del ministero degli interni. La vostra azione è più lurida della più infame perfidia dei più celebri agenti provocatori. Anzi, non c’è precedente nella storia. Voi seguitate ad abusare del mio stato di detenzione per ingannare i lavoratori, truffare la loro buona fede e servire la polizia. Perciò potete pure seguitare il vostro nobile mestiere, verrà il tempo che vi farò ingoiare le menzogne… Nicola Fiore”. Dello stesso taglio è la nuova lettera, inviata questa volta il 1 gennaio 1921 dal carcere di Salerno, nella quale si insiste sulla funzione, ignobile, di chi ora dirige il sindacato: “Qui è la biografia dell’ex procuratore del re convertito al socialismo dopo ch’io fui incarcerato. Questo il capo della terna massonica che, come corvi, s’è appollaiata nella Camera del Lavoro di Salerno all’indomani che la polizia mi consegnò ai carcerieri. Così, mentre la borghesia faceva incarcerare il segretario della Camera del Lavoro, affidava il proletariato agli emissari della massoneria: Ronca, Leopardo, D’Epifanio. Il primo, un anno fa regio accusatore, il secondo, ex gallonato, il terzo, banchiere della massoneria ebraica, finanziata dalla coorte Materazzo-SorgentiGrimaldi, quest’ultimo deputato del fascismo e del famigerato italo-americano Materazzo…! E sono costoro che, abusando della mia detenzione, corrompendo ed ingannando i lavoratori, hanno addomesticato il movimento proletario alla polizia e ai pescecani … si sono truccati delle tinte più scarlatte sfruttando insidiosamente l’appoggio del partito socialista, truffato abilmente per aggredire l’organizzatore del proletariato salernitano, stretto sotto i ferri. Rivoluzionari d’Italia, io scrivo senza l’ombra del risentimento personale, malgrado tutto il male fattomi da quelli che si dicono socialisti per i loro bassi fini borghesi polizieschi, mi rivolgo a voi al solo scopo di richiamare la vostra attenzione sul grottesco caso di Salerno perché vi poniate fine, non permettendo che il proletariato sia più oltre ingannato e tradito. NICOLA FIORE”.

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Fiore, nel frattempo, ancora incarcerato, fiaccato dalla dura detenzione, dopo il Congresso di Livorno del 1921 ha aderito al Partito Comunista, nato dall’ala rivoluzionaria del PSI. Il 7 luglio ha riacquistato la sua libertà ed è reintegrato il 10 Luglio 1921 nella carica di Segretario della Camera del Lavoro, in un Comitato Direttivo formato pariteticamente da socialisti e comunisti. La sua direzione impone un cambio di fisionomia all’organizzazione. Riprende la direzione de “Il Lavoratore” che, dopo la scissione, è diventato ”Il Lavoratore Comunista”. Il fascismo, agli inizi degli anni ‘20, all’indomani delle drammatiche sconfitte delle lotte operaie, dopo il “biennio rosso”, si è ormai impadronito con la violenza del potere, conquistando lo Stato e schiacciando ogni forma di opposizione democratica nel Paese. I gruppi capitalisti ed agrari più agguerriti foraggeranno, come è noto, l’avventura fascista, intendendo trasformare quel movimento nel proprio braccio armato da scagliare contro le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori. La marcia su Roma, non ostacolata dalle ormai decrepite istituzioni statuali del vecchio stato liberale, è stata la tragica conclusione di un periodo caratterizzato dall’esplosione della violenza squadrista contro le sedi ed i dirigenti delle organizzazioni operaie.Il fascismo vittorioso, una volta conquistato il potere modificherà, alla radice, la struttura e le funzioni dello Stato, cambiandone fin nel profondo la natura: lo Stato, identificabile ormai col partito e col regime reazionario, si è trasformato in una macchina autoritaria e repressiva che deve eliminare ogni idea di distinzione e libertà. Ed a quel punto il fascismo scatenerà il proprio rancore vendicativo contro i più irriducibili oppositori ed avversari politici, ricorrendo alla sistematica persecuzione per impedire che possa essere ancora ascoltata la voce, tuttavia sempre più flebile, di chi non si è piegato alla violenza, all’arbitrio ed all’arroganza dei vincitori e di chi ha rifiutato le melliflue offerte alla collaborazione. Nicola Fiore ha acquisito una concezione quasi “religiosa” della propria missione di dirigente sindacale al servizio delle masse lavoratrici ed è per questo che esplicita, senza incertezze,

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l’assoluta ed intransigente indisponibilità all’adesione ad ogni compromesso col regime fascista ed i suoi rappresentanti. E’ francamente impressionante, seguendo, anno per anno, la ricostruzione della sua biografia, delineata nelle sue linee generali dalla professoressa Giovanna Scarsi e poi ricostruita da Margherita Autuori nei suoi passaggi essenziali, l’emergere del profilo di una figura di estrema coerenza e straordinaria forza d’animo che si batterà, fino allo stremo, in difesa degli ideali socialisti e dei lavoratori che lo hanno scelto quale loro rappresentante. La vita, breve ma intensissima, di Nicola Fiore sarà vissuta nel pieno di una tumultuosa fase della storia del nostro Paese, in cui si sono alternati tempi di straordinario fervore e passione civile, di grandi speranze di cambiamento con quelli del declino e della dolorosa e tragica sconfitta del movimento operaio. In tale contesto Nicola Fiore è stato un capo molto amato dagli operai salernitani e campani ed un dirigente profondamente radicato tra i lavoratori delle imprese tessili, in specie di Salerno e della Valle dell’Irno. Il suo ascendente tra i tessili delle Manifatture Cotoniere Meridionali di Fratte ed i metallurgici della fonderia “Pisani” era stato sempre fortissimo. Il “Soviet”142 aveva sostenuto che a Salerno era nato un nuovo ed inedito mito, “il Fiorismo”. La figura del Fiore, superando i confini limitati del suo tempo, nella sua coerenza e nella sua stessa tragica solitudine, appare d’un enorme fascino e di una carica umana ed ideale straordinaria, limpida e coerente, sul piano morale di estremo rigore. Per la sua fedeltà ai principi, agli ideali, alle convinzioni, arriva a sacrificare la propria stessa esistenza. Il 1922 è l’anno nel quale eserciterà ancora un ruolo attivo e di primissimo piano nelle lotte dei lavoratori tessili, all’interno d’un disperato tentativo, come ricorderà lo stesso Gramsci su “L’Ordine Nuovo”, di contrastare il processo dilagante della reazione ormai in marcia. E tenterà, purtroppo invano, di battere e stroncare l’alleanza che si è andata stabilendo tra fascismo ed industriali. 142

Nel numero del 21-06-1921.

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E’ quella la fase, torbida e drammatica, nella quale, nell’alveo del movimento socialista salernitano, si confrontano e si scontrano varie anime e diverse posizioni ed in cui saliranno alla ribalta, occupando una qualche funzione di rilievo uomini come Luigi Cacciatore, Giuseppe Vicidomini, Raffaele Petti, tutti provenienti dallo stesso ceppo socialista. Una circostanziata ricostruzione storiografica delle distinte posizioni nel movimento operaio appare obiettivamente difficile. Eppure in principio le interne distinzioni sembrano appannarsi e quasi scolorire del tutto: non risaltano radicali differenze tra riformisti e massimalisti di fronte alla necessità di scontrarsi con durezza contro il fascismo trionfante. Fiore, nei primi anni di vita del regime, sembra impegnato non tanto ad evidenziare le distinzioni teoriche ed ideologiche, quanto piuttosto a realizzare il più ampio livello di unità e di autonomia del movimento operaio, condizione decisiva ed essenziale per la creazione di un blocco sociale, potente ed esteso, d’opposizione alla borghesia e al capitalismo. Una preoccupazione drammaticamente non colta a pieno da tutte le forze che si riferiscono al movimento operaio e democratico. Non ci si avvede della marea che lentamente sta montando e che, anche per l’accentuarsi della divisione interna al movimento operaio, finirà per consegnare il paese nelle mani della reazione. Ci si avvia al crollo definitivo del vecchio stato liberale e le speranze di riscatto messe in moto dal movimento dell’occupazione delle fabbriche, in specie a Torino, finiranno per essere completamente deluse. S’avvia la fase che porterà alla vittoria della controrivoluzione capitalista e borghese. Alla vigilia della presa del potere del movimento fascista Fiore si batte ancora in prima fila. Nel 1922, “traendo profitto dalle agitazioni dei tessili di Fratte, promuoveva larga manifestazione proletaria, con corteo e comizio in Salerno, sollecitando intervento On. Bombacci, la cui presenza in città originava disordini. Persisteva campagna comunista anche in discussioni economiche, dando alimenti ad inasprimenti di lotte” Ed ancora, “sebbene dimessosi da segretario della locale Camera del Lavoro, per divergenze politiche,

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persiste a frequentare ambienti proletari, tentando rinsaldare idee sovversive, pur essendo di molto scemato il suo ascendente sulle masse”. L’indirizzo dato alla Camera del Lavoro è giudicato dalle autorità come “sovversivo”. Intanto, all’interno del sindacato, s’accentua la frattura tra socialisti e comunisti. Fiore insiste nell’accusare i dirigenti socialisti di cedimento verso il padronato: diviene a quel punto impossibile la tenuta unitaria dell’organizzazione. Fiore, attaccato da più parti, si dimette dall’incarico, ed il suo abbandonare la direzione dell’organizzazione sindacale ne determina il sostanziale sfaldamento. Il fascismo non può avere regalo più gradito e, privo di argini oppositori, diviene più arrogante, aggressivo, prevaricatore ed inizia la sistematica soppressione d’ogni forma di aggregazione, di associazionismo, di libertà. Fiore, come comunista, inizia un nuovo ed ancora più duro calvario. Contro di lui ancora minacce, aggressioni, violenze, perquisizioni. Egli è indicato dalle forze di polizia quale il sovversivo più pericoloso ed irriducibile ed è sottoposto ad una sequenza impressionante di arresti. Non gli è risparmiata la discriminazione, per lui la più odiosa, dei suoi stessi compagni che, per boicottarne l’impostazione di lavoro particolarmente radicale, mirano a ridimensionarne ruolo e funzione e, anzi, ad emarginarlo. Più avanti, nel 1924, nel 1925, nel 1926 e per tutti gli anni seguenti, gli stessi dispacci di prefettura confermano che Fiore non attenua, in alcun modo, l’opposizione irriducibile al regime : ormai in una condizione in cui anche la minima possibilità di azione e di movimento gli è preclusa, controllato di continuo in ogni passo, non si piega e “professa sempre idee comuniste”143. E tale osservazione è ribadita ancora in altri dispacci: “avvicina altri sovversivi”144; si segnala ancora che “conserva tuttora le idee comuniste, però non esplica alcuna attività politica né da luogo a sospetti. E’ oggetto di rigorosa e attenta vigilanza145.

143

Napoli, 28-09-1928. Id, 5-08-1929. 145 Id, 14-07-1930. 144

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Nell’aprile del 1924 è candidato alle politiche nella lista di Unità Proletaria. Il 1 maggio 1925 è tratto di nuovo in arresto con atto preventivo per impedire eventuali sue azioni sovversive. E’ recluso con Luigi e Cecchino Cacciatore, Panfilo Longo, Vincenzo Perrone, Gennaro De Bartolomei, Matteo Napoli ed altri antifascisti. E’ percosso in cella, come si ricava dalla querela al proposito presentata da Luigi Cacciatore146. E’ arrestato ancora nel 1927, in quanto in sospetto di far parte dell’organizzazione comunista clandestina ed assegnato al confino per 5 anni nell’isola di Lipari. La carcerazione verrà, poi, ridotta ad 1 anno. Non è, però, libero neanche dopo aver scontato questa nuova condanna, sempre sottoposto a controlli snervanti che rendono la sua vita un inferno. Eppure non si piega e, anzi, coglie ogni occasione per riprendere la sua attività di organizzazione e di propaganda tra gli operai e per far nuovi proseliti antifascisti. Le autorità di polizia reagiscono comminandogli un nuovo provvedimento di confino. Ritornerà dal confino il 27 novembre 1927. Fiore invia al Ministro degli Interni ed allo stesso Mussolini esposti e telegrammi di protesta contro le persecuzioni subite e la sistematica violazione anche del più elementare dei diritti. Denuncia la situazione delle carceri, i maltrattamenti cui i detenuti sono sottoposti: “ Io domandavo il rispetto del diritto, si risponde con altre violenze … Qui si maltrattano i detenuti: Il caso Papileo e le tracce che ne porta pel corpo ne sono l’esempio147”. Il Fiore accumulerà, nel corso del suo apostolato, un numero inimmaginabile di fermi, di arresti, di persecuzioni, di aggressioni fisiche e morali. L’azione contro il Fiore è, nella sua feroce spietatezza, un insegnamento lugubre ed una simbolica vendetta: così si spiegano, oltre agli arresti, oltre ai pestaggi, oltre al confino cui verrà condannato, anche il controllo ed i pedinamenti quotidiani e le perquisizioni che, senza ragione o mandato, si susseguono nelle abitazioni dove ha preso dimora. Ed anche così si spiega il perché sia puntigliosamente segnalato dalle autorità ogni contatto 146 147

Il Mondo, 9-05-1925. Salerno, 16-02-1920.

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ed ogni scritto di Nicola: gli si deve impedire, con ogni mezzo, di far sentire ancora la sua voce. Deve essergli vietata anche la circolazione di semplici fogli ciclostilati, volantini, articoli di stampa, gli si deve rendere impossibile la vita !!! Eppure, mentre in altri il livore feroce e sistematico della repressione ha già prodotto silenzio e isolamento, ed anche abiura e pubblica sconfessione delle proprie convinzioni, nel caso di Nicola Fiore non si verifica niente di tutto ciò, anzi, la sua reazione è del tutto opposta! Nel 1929, il questore di Salerno ne tratteggia in tal modo la figura: “Fiore Nicola, … comunista, già socialista rivoluzionario, anarchico sovversivo, da vigilare, impedire espatrio e fermare. Connotati: statura bassa, capelli ed occhi castani, zoppo gamba sinistra”148. Costretto a vivere in una condizione sempre più difficile e precaria, la sua salute ha già iniziato ad essere cagionevole. Per tale ragione il 17 agosto del 1931 è stato costretto a chiedere l’autorizzazione per recarsi a Roma per essere visitato dal prof. Bastianelli. Nel 1932 la sua malattia si è aggravata. Si tratta di gravi disturbi polmonari, da cui non si riprenderà più e che lo condurranno alla morte a Salerno il 15 maggio 1934. Nicola Fiore non farà mai abiura delle proprie convinzioni, non manifesterà mai cedimento alcuno sui principi, continuerà ad essere, fino alla fine, un fiero ed irriducibile oppositore del regime. Netta, secca, senza remore sarà, altresì, la sua critica a posizioni, ammantate di realismo e ragionevolezza, che, a vario titolo ed in più occasioni, iniziano a manifestarsi all’interno di ciò che è rimasto del movimento sociale di cui è stato capo indiscusso: rendere sempre più flebili ed indistinte le differenze dal regime, da tutto ciò che esso rappresenta, dalle forme prevaricatrici ed autoritarie in cui quel potere si esprime, altro non vuol dire che snaturare i tratti dell’opposizione di classe facendo naufragare, nei fatti, il movimento verso la deriva della collaborazione o del fiancheggiamento dei nemici di classe.

148

Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, Fondo Ministero dell’Interno, busta n.2076.

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Le forze sindacali e di sinistra avrebbero, invece, dovuto, a suo avviso, combattere con ogni energia residua e con ogni mezzo disponibile per la riconquista della libertà e della democrazia. Tuttavia, il movimento, ormai sconfitto, non è più in grado di attrezzare, non solo, una qualsivoglia forma di resistenza, valida e di lunga durata, ma anzi appare disarmato avendo del tutto rinunciato alla sua specifica funzione ed al proprio ruolo. La polemica di Fiore contro la nuova leva di dirigenti politici e sindacali, responsabile dello sgretolamento organizzativo e, al contempo, della caduta ideale fino alla compromissione è, perciò, aspra, dura ed insieme tragicamente amara. Nicola Fiore tenta invano l’utilizzo degli assai esili spazi che gli sono formalmente consentiti. Scrive lettere e fa partire reclami. Ricostruisce la storia del ritiro, senza motivo, del suo abbonamento ferroviario e denuncia come non sia stata mai fornita alcuna risposta ai reclami presentati nell’apposito registro delle Ferrovie. In tal modo gli si è impedito di svolgere il suo lavoro “di rappresentante di commercio, regolarmente iscritto alla C.C.I. di Salerno, mentre posso provare di avere rappresentanze ed impegni per questa” ed ancora “mi si è sequestrato il passaporto in una delle tante perquisizioni - per impedirmi di andare a lavorare altrove. Sono certo che V. E. esaminerà il caso e farà ristabilire il mio diritto alla vita leso”. E, infine, denuncia l’ennesima perquisizione subita e che, senza alcuna ragione, nel mentre gli era stato restituito l’abbonamento ferroviario, ora invece “per impedirmi di lavorare si sequestra la mia persona. Il 26 … alle sei del mattino degli agenti hanno perquisito il mio domicilio con esito negativo traducendomi in questura e da lì in carcere … V. E. sa ch’io sono comunista, ma non credo che questa sia la ragione d’essere trattato come si trattano ammoniti e sorvegliati”149. Ecco, infine, il testo della lettera del Prefetto di Salerno al Ministero dell’Interno, Divisione Affari generali e riservati, Confino politico150, in cui, tra le altre cose, si insiste nel rappresentare il 149 150

Lettera, 30 -10 – 1926. Salerno, 26 -11 – 1928.

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Fiore quale “pericoloso comunista schedato, continua a professare idee estremiste, contrarie all’attuale regime, delle quali fa cauta propaganda … Egli è individuo molto scaltro ed intelligente, aduso, da anni, alla propaganda sovversiva ed ai metodi di vigilanza della P. S. … viaggia di frequente per pretese ragioni di commercio … che mascherano la sua attività politica … Per quanto sopra, si ritiene necessario impedire al soprascritto qualsiasi attività contraria alle istituzioni, proponendolo per il confino, stimando insufficiente l’eventuale provvedimento dell’ammonizione … Ritiensi che tale provvedimento [del confino di polizia]sia sufficiente per poterlo attentamente vigilare ed impedirgli ogni attività sovversiva, tanto più che al Fiore fu anche ritirato il libretto di abbonamento ferroviario per l’intera rete del regno, cosa che servirà a rendere più difficile ogni eventuale di lui spostamento … ”151. Fiore resta sempre sotto stretta sorveglianza. Egli è ormai affetto da tubercolosi articolare, anchilosi dell’articolazione dell’anca sinistra, da catarro bronchiale cronico ed arteriosclerosi152. Le cure non sortiscono alcun serio effetto: costretto a letto, isolato, senza alcun rapporto coi suoi compagni ed amici di partito, muore a Salerno, all’età di 51 anni, in casa del cognato Giacomo Scarsi, in via Tasso n. 59. Il suo funerale, ricorderà in una toccante testimonianza di vita familiare la professoressa Giovanna Scarsi, fu seguito solo da pochissimi stretti familiari, mentre agli operai che aveva diretto in tante battaglie fu negato di seguirne il feretro verso il viaggio estremo153. Sono gli uomini come Fiore che, col proprio sacrificio personale, hanno consentito al Paese di riscattarsi dalla vergogna della dittatura del regime fascista, proprio perché ad essa non si sono mai piegati e, anzi, fino alla fine l’hanno combattuta con ogni possibile energia. Gaetano Di Marino, ricordando l’opera di Nicola Fiore, ha usato questa espressione: “è tempo di rendere piena giustizia alla 151

La lettera, per conto del Ministro, è firmata da Ramaccini. In ACS, CPC, cit. 153 “Nicola Fiore: Un sindacalista rivoluzionario?” Ed. Laveglia, p. 49. 152

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sua memoria e di consegnare, nella sua interezza, la figura e l’opera al patrimonio del PCI salernitano del quale negli anni della dittatura fu il più lucido, il più coerente ed il più amato esponente”154.

154

In G. Cacciatore, “Per una rivalutazione storica di Nicola Fiore”, Pietro Laveglia editore.

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Luigi Cacciatore: la vita politica di un socialista a 100 anni dalla nascita (Mercato San Severino, 26 luglio 1900 - Roma,17 agosto 1951)

Il volume155 raccoglie importanti testimonianze ed accurate riflessioni di studiosi e di protagonisti della vita politica e sindacale degli anni in cui è vissuto Luigi Cacciatore, e concentra l’attenzione - in prevalenza - sull’ultima fase dell’esistenza del leader socialista. Nel testo è delineato, con sufficiente cura, il contesto d’insieme, politico e culturale, del tempo a lui contemporaneo. Un filo logico lega i vari interventi tra di loro, e la vicenda personale ben si inquadra all’interno delle più generali dinamiche socio-politiche meridionali e nazionali. S’indaga nella storia della sua famiglia, originaria di Mercato San Severino, e sul suo radicamento progressivo nella realtà locale. Ci si sofferma, inoltre, sulle caratteristiche essenziali delle formazioni politiche del tempo, segnate in larga prevalenza da tinte fortemente personali e sull’azione intrapresa per una feconda e radicale trasformazione della forma partito, col passaggio da aggregati, per lo più coacervo d’interessi personali, propri del “partito dei galantuomini” alla dimensione nuova e inedita del partito di massa, capace d’interpretare e di dirigere le varie istanze ed aspirazioni del popolo156. L’impegno politico e sindacale di Luigi Cacciatore si svilupperà tra il 1919, data di adesione al PSI, e il 1951, anno della sua morte improvvisa. Un peso notevole nell’evoluzione del suo pensiero e nelle scelte di campo conseguenti avranno senza dubbio le drammatiche vicende della prima guerra mondiale. Nato nel 1900 a Mercato San Severino, nella frazione di Curteri, vi vivrà fino all’età di 19 anni, Il trasferimento a Salerno e 155

Luigi Cacciatore, La vita di un socialista a cento anni dalla nascita, a cura di L.Rossi, Plectica. Il volume, costruito con il contributo di diversi autori, è stato presentato in un pubblico convegno, a Mercato S. Severino ed a Salerno, il 31 maggio e il 1 Giugno 2001. 156 Luigi Rossi, op.cit., pp.16-17.

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l’iscrizione al Partito Socialista è del 1919, durante il corso del “Biennio Rosso”, un anno gravido di fortissime tensioni sociali e di lotte operaie, vicende profondamente influenzate anche in Italia da ciò che è accaduto in Russia con la rivoluzione del 1917. In quel paese immenso, metà asiatico e metà europeo, l’insurrezione popolare degli operai, dei contadini e dei soldati ha portato alla subitanea e rovinosa caduta dello zarismo, uno dei regimi più spietati, assolutisti e sanguinosi che la storia contemporanea ricordi, ed all’instaurazione del potere dei Soviet, egemonizzati dai bolscevichi. Cacciatore studia a Napoli, dove si laurea in ingegneria. Giovanissimo, nel 1922 diventa Segretario della Camera del Lavoro di Salerno, in un momento particolarmente aspro e difficile per le organizzazioni politiche e sociali del movimento operaio ed in quello stesso anno si iscrive al Partito Socialista Unitario, collaborando, da Salerno, al periodico socialista “La Giustizia”. In quel periodo è già da tempo sottoposto a sorveglianza ed individuato come uno dei maggiori oppositori del regime. Nella nota n. 29923 del Ministero degli Interni, in un’informativa del 23-12-1923, si sostiene che nell’area di Salerno ancora non c’è l’organizzazione del PSU, il partito di Turati e Matteotti, ma presumibilmente si è assunto tale incarico Luigi Cacciatore. Ed in effetti ha aderito al PSU, riconoscendosi nella proposta unitaria di un’azione di ricompattamento delle forze democratiche e socialiste: perché “non è permesso tenere divisa la classe lavoratrice italiana e toglierle tutto quel lievito di speranze, di ardimenti, di consensi che soli possono permettere un’azione efficace, entusiastica e concorde nel momento attuale…”157. Il 30 gennaio 1924, nel rapporto dei carabinieri al questore di Salerno è rappresentato come “un giovane intelligente, studioso e che è molto apprezzato per tali sue qualità anche da cittadini dell’ordine. E’ affabile nei modi, di facile parola, è capace propagandista e come organizzatore e sui sovversivi locali ha grande ascendenza”. E’ utile ricordare che qualche anno prima, alle elezioni del novembre 1919, il PSI aveva conquistato il 32% dei voti e triplica157

G.Vignola, op.cit., p.44.

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to il numero dei seggi, da 50 a 156, divenendo il primo partito a livello nazionale. E tuttavia nel Congresso di Livorno il 21-1-1921, vari gruppi di sinistra, vista la sostanziale reticenza e la passività del partito nel fronteggiare l’avanzata della reazione, avevano deciso di fuoriuscire dal PSI, dando vita al Partito Comunista d’Italia, diretto prima da Bordiga e più avanti - dal 1926 e fino al suo arresto - da Gramsci. Una fase convulsa, attraversata da profonde e continue fratture e contrapposizioni.158 Sempre nel 1921, in 200 giorni, circa 1.500 italiani erano stati uccisi in seguito ad aggressioni fasciste, 40.000 liberi cittadini feriti, 20.000 esiliati, 300 amministrazioni comunali costrette a dimettersi. Una ventina di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari distrutti; centinaia e centinaia di Camere del Lavoro, di Case del Popolo, di cooperative saccheggiate ed incendiate159. Tragica ed ingenua la fragile illusione di fermare il processo rovinoso ormai possentemente in atto col “Patto di Pacificazione” tra socialisti e forze di regime, prima violato, poi subito annullato, dai fascisti, a Roma il 7-9 novembre 1921. Nella visione di Cacciatore l’ipotesi di ricorso ad un accordo provvisorio, ad una temporanea tregua tra le diverse forze contrapposte, trovava la sua ragione d’essere nella volontà di strappare il movimento operaio alla cieca violenza reazionaria. Nell’ottobre 1922, centristi e riformisti, tra i quali Cacciatore, erano fuoriusciti dal PSI e - come si è accennato - avevano costituito il PSU. Sempre nel 1922, nei mesi precedenti, i socialisti riformisti erano stati espulsi dal partito rimasto nelle mani dei massimalisti del Psi, che erano arrivati addirittura a sostenere che i riformisti, e tra loro lo stesso Matteotti, stavano trattando sottobanco con Mussolini. 158

“Il partito socialista si è dissolto in gruppi rissosi, il partito comunista in buona parte ha fatto il possibile per cancellare il suo passato in una sorta di eutanasia del gigante cattivo, ha subito una scissione ed è sostanzialmente diviso non su scelte contingenti, ma sulla sua propria identità…”. F. De Martino, op.cit.; p.26. 159 Dati riassunti su “L’Ordine Nuovo” del 23/7/1921, riportati nell’intervento di G. Amarante, op.cit ., p.145.

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Cacciatore si era ben presto persuaso del carattere profondamente distruttivo dei conflitti e delle lacerazioni interni alla sinistra, e aveva proposto a tutte le forze d’ispirazione democratica un’azione unitaria per una strategia programmatica comune per fronteggiare la gravissima involuzione in atto. Alla critica ed all’opposizione radicale avrebbe dovuto essere coniugata la proposta; il primo banco di prova delle forze di progresso sarebbe dovuto essere innanzitutto la questione meridionale ed i modi più concreti per avviarne la positiva soluzione. E’ questo un punto che risulterà col tempo sempre più centrale e di rilievo nella sua visione teorica e politica e di sicura utilità per ulteriori ricerche successive. La scissione del 1921, di questo è assai convinto, è stata un atto doloroso e negativo, e d’ora in poi - memori di ciò che è accaduto - tra le fila operaie non dovrà più prevalere il seme della discordia e delle divisioni. Prima di ogni altra cosa c’è il socialismo e ci sono i socialisti. Il PSU sarà poi sciolto dal governo, il 6 novembre 1925, dopo che uno dei suoi esponenti, Tito Zaniboni, aveva partecipato al fallito attentato a Mussolini. Si procederà poi alla sistematica cancellazione di tutti gli altri partiti. Il primo ed essenziale elemento, il tema più volte ricorrente nell’esame del ruolo e della funzione esercitata da Luigi Cacciatore nella realtà salernitana, campana e meridionale, in tutto l’arco della sua esistenza è quello della ricerca strenua dell’unità della classe operaia e dell’unità della sinistra italiana. Sempre tenace in lui l’assillo rivolto al conseguimento di questo grande obiettivo, primario e imprescindibile, senza la cui realizzazione il Paese è di continuo esposto al grave rischio di regressione autoritaria, ed all’interruzione brusca del complesso processo di democratizzazione della società italiana. Si tratta di una assai seria riflessione critica sul socialismo italiano, sulla sua genesi, il suo sviluppo complesso e tormentato, più volte attraversato da profonde, nefaste divisioni al proprio interno. Alla definizione di una linea teorica ed ad una posizione politica coerente si affianca la consapevolezza della necessità dell’azione pratica immediata e conseguente, di netta opposizione al tenta-

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tivo in atto di disgregazione e annullamento della gracile democrazia italiana. Nel 1923 diviene Segretario regionale della FIOT, Federazione italiana operai tessili, ed in tale qualità dirigerà nel 1924 - dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti - l’ultimo grande sciopero dei lavoratori tessili del Mezzogiorno160. Il leader sindacale socialista si era fatto interprete dell’accorato atto di accusa di Giacomo Matteotti che aveva denunciato, nel suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924, come le elezioni politiche si fossero svolte in un clima di generale e diffusa illegalità, a causa della violenza squadrista, sostanzialmente tollerata e coperta dagli apparati pubblici dello Stato. Già nel gennaio del 1923 le sedi della Camera del Lavoro di Via Mercanti e della Casa del Popolo di Fratte, a Salerno, erano state occupate da fascisti armati. Gli operai erano stati iscritti d’imperio alle Corporazioni Sindacali fasciste. Nel luglio del 1924, nonostante il clima di pesanti e diffuse intimidazioni, si era riusciti tuttavia a ricostituire la Lega Tessile. In agosto, gli operai di Fratte, in assemblea, davanti ai padroni ed alle autorità fasciste, avevano preteso - con fermezza - la restituzione della Casa del Popolo. E contestualmente dichiarato il proprio distacco dalle Corporazioni fasciste. Inoltre avevano avanzato la richiesta di riconoscimento della Fiot (Federazione italiana operai tessili) nelle trattative nazionali in corso per la definizione del contratto di lavoro. Le MCM, a parole, avevano accettato queste richieste, poi il 17 dicembre invece - con un improvviso voltafaccia - rompevano le trattative, siglando contemporaneamente, il 18, l’accordo contrattuale col Sindacato fascista. L’atto prevaricatore provocò la protesta degli operai di Napoli contro l’accordo raggiunto, nel mentre a Salerno gli operai tessili ricorsero allo sciopero, abbandonando - per alcuni giorni di 160

Luigi Cacciatore diviene segretario regionale della FIOT, Federazione Italiana operai tessili, nel 1923. Lo sciopero del 1924 è effettuato dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, consumato il 10 giugno dello stesso anno. Luigi Cacciatore sarà anche segretario provinciale della Federazione Socialista Unitaria fino allo scioglimento del Partito. Prima era stato esponente del Comitato delle Opposizioni in Provincia di Salerno.

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fila - il lavoro un’ora prima; le operaie diedero vita a manifestazioni in piazza. Di contrasto, le MCM, per ritorsione, attuarono la serrata, con il licenziamento di molti scioperanti. In questo ultimo sciopero finirono esplicitamente per mischiarsi ragioni strettamente economiche con motivazioni di profilo più specificamente politico. Il punto fondamentale del contendere, altro punto centrale e di rilievo, fu il tentativo di ridare un ruolo ed una funzione, autonoma, ai lavoratori ed alle loro libere organizzazioni. E, tuttavia, in una situazione in cui, a livello nazionale, il fascismo aveva ormai occupato in modo capillare ogni articolato ganglio dello Stato e della società italiana, e mentre la voce delle opposizioni diventava inevitabilmente sempre più flebile e indistinta, su questa rivendicazione operaia non poteva esistere alcuna possibilità di successo. Le tensioni, gli scioperi, le manifestazioni del 1924 saranno l’ultima dimostrazione di lotta di rilievo degli operai cotonieri salernitani, prima del lungo periodo di oblio e di assoluto silenzio imposto dalla dittatura. Assieme a Luigi Cacciatore, principali animatori ed organizzatori delle proteste erano stati Nicola Fiore e l’anarchico Vincenzo Perrone161. Dopo gli ultimi sussulti del 1924, la situazione - per un ventennio e fino alla caduta del fascismo - risultò normalizzata, con l’irreggimentazione autoritaria delle masse operaie nel sindacato di regime e la loro sostanziale passivizzazione. E’ il caso di ricordare ancora come, già nel dicembre del 1923, erano state sospese le pubblicazioni di vari giornali operai, da “Il Sindacato rosso” a “L’Avanguardia”, da “Pagine Rosse” a “ Scintilla”. La stessa cosa avverrà, in modo sistematico, nelle varie città e province italiane, oltre che per le testate nazionali, anche con le pubblicazioni di carattere locale. Sempre nel dicembre del 1923, a Palazzo Chigi, la Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni Fasciste avevano siglato un patto nel quale i contraenti dichiaravano di “armonizzare la propria azio161

Sullo sciopero dei tessili, sul ruolo e la funzione di Luigi Cacciatore, cfr. l’art. di G. Amarante, Luigi Cacciatore: i lavoratori, il sindacato, in Luigi Cacciatore, la vita politica di un socialista a cento anni dalla nascita”, Plectica, pp.139-176.

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ne con le direttive del Governo nazionale” ed affermato il principio secondo cui, da quel momento in avanti, l’organizzazione sindacale si sarebbe ispirata “alle necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro, i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali”: una linea di reciproca collaborazione con la Confindustria, che riconobbe la Confederazione delle Corporazioni come controparte privilegiata ed unica! Nel sindacato il grande merito di Luigi sarà l’azione prodotta per tentare di rompere la sudditanza dell’organizzazione salernitana e meridionale dalla confederazione nazionale ed il rapporto di subalternità della FIOT alle MCM. Il patto, poi, verrà più avanti confermato, nell’ottobre del 1925, a Palazzo Vidoni. Da quel momento in poi furono abolite le Commissioni Interne di fabbrica; il monopolio della rappresentanza passò interamente alle Corporazioni. In tal modo venne formalmente sancita la vittoria dell’organizzazione capillare del sistema corporativo. Il riconoscimento giuridico del Sindacato unico avverrà ufficialmente nel febbraio del 1927. Da tutta quella fase in poi, di drastica e progressiva sospensione e soppressione della democrazia, egli porterà avanti, con energia e con coerenza estrema, le proprie convinzioni, pagando un prezzo altissimo, in termini di arresti ripetuti, di odiose persecuzioni subite e di sostanziale emarginazione dalla vita pubblica. La sua vita procederà, negli anni del fascismo, dovendo fronteggiare, insieme con le persecuzioni, anche durissime difficoltà economiche per la propria sopravvivenza materiale. Luigi Cacciatore ricoprirà l’incarico di segretario provinciale della Federazione Socialista Unitaria fino allo scioglimento del partito, dopo essere stato membro - per la provincia di Salerno del comitato delle Opposizioni. In tale veste aveva partecipato, in rappresentanza del PSU, all’Assemblea delle Opposizioni del 7 agosto 1924 nell’Aula Magna del Liceo “Tasso”. Per un ventennio intero subirà una durissima persecuzione dal fascismo, che subito s’impegna allo spasimo per impedirne l’azione e per togliergli ogni voce. Il regime dittatoriale sa che l’uomo non scende a patti coi rappresentanti della dittatura e per questa ragione lo annovera tra gli avversari irriducibili. La per-

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secuzione si accanirà contro la sua famiglia, il padre perderà il posto di lavoro ed i Cacciatore riusciranno a tirare avanti a lungo, tra gli stenti, solo grazie all’aiuto di pochi e fedeli amici. Luigi è arrestato una prima volta a Salerno, nel gennaio del 1925, mentre è sorpreso a distribuire volantini contro il fascismo. Un secondo arresto, con bastonature e gravi ferite, si registra nel maggio dello stesso anno. Dopo la scarcerazione si recherà a Napoli, dove soggiornerà fino al 1932, ancora perseguitato in maniera sistematica e costretto a vivere nell’emarginazione più assoluta, in quella condizione in cui cadeva – inesorabilmente - chi si opponeva in modo esplicito al regime. Tenuto sotto costante osservazione, veniva periodicamente arrestato, spesso in maniera preventiva, e trattenuto a lungo in carcere senza alcuna oggettiva e valida ragione. Le persecuzioni del regime, tuttavia, non riusciranno mai a piegarlo, né a modificarne o a scalfirne i convincimenti più profondi. Resisterà, con un coraggio estremo, pur in quel quadro di difficoltà durissime, all’apparenza insormontabili, nel quale tanti altri hanno ceduto, e continuerà nella sua missione di fare sempre più proseliti all’idea del socialismo. Durante gli anni 20 del Novecento, ed a seguito della scissione di Livorno, il giovane Cacciatore fa una scelta politica importante e impegnativa. Si schiera in modo netto con il Partito Socialista Unitario. Il partito di Turati e Matteotti. E’ una scelta precisa, di segno autonomista, e socialista, che poi riemergerà - nel corso del secondo dopoguerra - in modo originale, in maniera difforme rispetto alla maggioranza dei socialisti di quel tempo. Ricco e multiforme appare il suo pensiero, in controtendenza agli orientamenti prevalenti nel movimento della sinistra storica del tempo e degli stessi decenni successivi, in una fase convulsa e in verità assai condizionata dal movimento della Terza Internazionale, che eccedeva spesso in anatemi ed in scomuniche verso posizioni differenti dalla linea ufficiale prevalente. In effetti all’interno del movimento socialista nazionale ed europeo antico è il contrasto ed anzi la contrapposizione tra chi privilegiava l’azione continua, fatta di piccoli ma costanti avanzamenti, e chi invece sembra essere solo proiettato verso il raggiungimento e la realizzazione

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dell’obiettivo finale, della definitiva, improvvisa e risolutiva palingenesi. Un’ispirazione ideologica, di tipo radicale, che auspicava la trasformazione rivoluzionaria della società, annullando e cancellando, fin nel profondo, ogni traccia del mondo antico antecedente. La divisione tra comunisti e socialisti era diventata netta e radicale soprattutto in seguito alla Rivoluzione sovietica. Un trauma forte, e destinato ad espandersi crescendo ulteriormente. Luigi Cacciatore, in questo contesto sommariamente tratteggiato, si collega al filone del socialismo storico italiano e sottolinea la necessità di non disperdere mai, in via definitiva, la tensione unitaria cui fin dalle origini ha teso il suo operare. L’esperienza di Segretario della Camera del Lavoro, di segretario regionale della FIOT, l’aver promosso l’ultimo grande sciopero di categoria nel Sud prima del dominio definitivo ed assoluto del fascismo si muove a pieno in questo preciso solco di pensiero. Un elemento importante di formazione, che lo lega in modo inscindibile agli operai e ai lavoratori, di cui comprende l’importanza estrema di salvaguardare l’unità. In ciò i caratteri essenziali del suo socialismo. In quegli anni però tutto tende a lacerare il rapporto tra socialisti e comunisti. Incide anche la decisione del 1929 del Pci all’estero di rientrare in Italia con la costituzione di un centro interno clandestino, scelta dolorosa per come è polemicamente ed aspramente motivata (verso i socialisti individuati dall’Internazionale comunista quali traditori, soggetti subalterni alla borghesia e perciò nemici infidi da combattere senza dar loro tregua alcuna, anzitutto tra le file operaie), ma al contempo vitale negli sviluppi successivi della lotta, che fa pagare ai comunisti un prezzo durissimo per quantità di arresti ed anni di carcere accumulati nei processi. Un orientamento, rigido e dogmatico, che alla prova dei fatti si dimostrerà sbagliato e che sarà corretto assai più tardi, con la politica dei fronti popolari, che avrà inizio nel 1935. Scelte che troveranno la propria applicazione, più avanti, nel fuoco dello scontro che opporrà fascisti ed antifascisti nella guerra di Spagna del 19361939. Cacciatore comunque in quella fase vive un senso di accentuato, doloroso isolamento. E’ costretto a trasferirsi a Napoli, è sempre perseguitato e controllato. E’ visto come “un compagno tan-

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to ricco di umanità, tanto equilibrato nei giudizi e, unitamente, tanto fermo e appassionato nella sua militanza antifascista e socialista”162. Si tratta di un sintetico ed autorevole giudizio, in verità ampiamente condiviso. La realtà salernitana, fatta eccezione per i sussulti legati agli ultimi scioperi del 1924, aderisce in pieno alla qualità delle profonde trasformazioni nazionalmente intervenute. Nel novembre 1928, la Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti, per decisione del Governo, viene divisa in 6 Confederazioni nazionali, in cui vengono distinti i sindacati dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti terrestri e della navigazione interna, dei bancari, della gente di mare e dell’aria, in piena sintonia con le organizzazioni datoriali, strutturate allo stesso modo. Questa situazione ingesserà di fatto a lungo ogni funzione autonoma del Sindacalismo Confederale e di classe, prima di essere messa in crisi dalle sconfitte sui campi di battaglia e dagli scioperi operai che, nel 1943, nel 1944, nel 1945, in piena guerra, investiranno, ad ondate successive, le grandi città italiane. E tuttavia lo stato della democrazia e della sinistra, un grande movimento purtroppo - come si è visto - troppo di frequente attraversato dal seme della discordia e della divisione, risultano questioni sempre strettamente intrecciate tra di loro ed inscindibili. Il Partito Socialista, dopo pochi decenni dalla nascita, ha finito per disgregarsi, e quasi per dissolversi, consumato in una continua rissa distruttiva tra gruppi antagonisti contrapposti. Il Partito comunista, appena nato, sarà a sua volta attraversato da forti tensioni e da profonde divisioni al proprio interno, non su scelte contingenti, ma sulla definizione della propria identità. Insieme con il fratello Cecchino si dedicherà comunque, da quella fase in poi, ad un’assidua azione clandestina per la ricostituzione del PSI. Dopo la liberazione di Salerno, conseguente allo sbarco, e 20 anni di assoluto silenzio delle opposizioni, tiene la sua prima pubblica assemblea alla Casa del Popolo di Fratte.Nel 1945 all’ordine del giorno dei partiti socialista e comunista c’è la fusione. Luigi Cacciatore si pronuncia con deci162

P. Amendola, op. cit., p.29

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sione per la creazione del partito unico dei lavoratori, la cui funzione dovrà essere quella di sanare finalmente la ferita dovuta alla scissione del 1921. E’ una linea che non si realizzerà, sottoposta come è a varie e convergenti opposizioni, in quella circostanza e anche più avanti, in ogni occasione in cui l’ipotesi verrà in qualche modo riproposta. E tuttavia per lui rimane sempre sacra l’unità di tutti i lavoratori, che può realizzarsi solo partendo dalla massima unità tra socialisti e comunisti. Senza tentennamenti, per conseguire un tale risultato, collaborerà prima con Basso, poi con Nenni e con Morandi, da convinto assertore dell’unità a sinistra, interprete ed ispiratore delle azioni in tal senso profuse dalle masse popolari ed in specie dai lavoratori meridionali163. L’azione, costante e laboriosa, per la realizzazione della massima unità dei lavoratori, a prescindere dalle convinzioni politiche, culturali, religiose, eticamente e politicamente perseguita, è il suo costante assillo, l’obiettivo superiore alla base delle intuizioni e dell’originalità del pensiero e dell’opera di Luigi Cacciatore. Concetti, come si vede, destinati a resistere nel tempo e a diventare di sempre più pregnante attualità, nucleo essenziale attorno a cui dispiegare a pieno il massimo impegno di tutte le forze coerentemente progressive protese all’attuazione di processi politico e sociali di riforme profonde nella società italiana. E capaci, al contempo, di assicurare in tal modo un salto di qualità ed un reale avanzamento a tutta la nazione. In ciò è il nucleo essenziale di un pensiero vivo di uno dei grandi capi del socialismo italiano. Certo le formazioni politiche di allora, a differenza di ciò che troppo spesso purtroppo accade oggi, non erano ascensori sociali, ma luoghi di responsabilità, dove si rischiava fino alla vita, si moriva, senza ricevere alcun premio in cambio. E comunque sarà soprattutto l’esperienza sindacale a spingerlo in maniera naturale al riformismo. Il riformismo meridionale, per l’arretratezza delle situazioni in cui si svolgeva allora la lotta politica, è di frequente costretto a praticare un radicalismo ai limiti dello scontro, seppure sempre praticato con l’obiettivo di realizzare una presenza propria nelle istituzioni, un’azione di 163

F. De Martino, op. cit., p.26

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salvaguardia e di assistenza in rappresentanza ed a tutela delle classi povere e subalterne. In questa visione il Comune è destinato a diventare il centro pulsante dell’organizzazione della democrazia, il posto da occupare e presidiare per indebolire progressivamente, spostando l’equilibrio di potere a vantaggio delle classi più povere, il potere dei ceti economici prevalenti. Il massimalismo meridionale, a sua volta, si è più volte mostrato nel ciclico ricorso ad azioni aspre e ribellistiche, fino all’assalto ai municipi, e tuttavia si distingue da quello settentrionale in quanto appare a sua volta impregnato e influenzato da un’ispirazione di tipo riformista. Anche più avanti nel tempo, ormai ben oltre la caduta del fascismo, il PSI apparirà diviso. Subirà la scissione socialdemocratica di Saragat. Eppure anche allora, in controtendenza alla linea prevalente, Luigi Cacciatore continuerà a lavorare tenacemente nell’opera di ricompattamento delle forze derivate dalla storia del movimento operaio e dal comune ceppo socialista. Negli atti del convegno, costruito su solide basi, storiche e scientifiche, si ritrovano i principali protagonisti di un’avventura, grande e travagliata. Libertà, solidarietà, giustizia sociale, i grandi ideali da rendere realtà, gli obiettivi che Cacciatore tenterà di perseguire, gli elementi distintivi che troveranno, passata la bufera fascista, un’importante e più appropriata sistemazione nella carta costituzionale. La visione dell’umanesimo socialista di Luigi Cacciatore si esplicita e si precisa anche nel richiamo all’obbligo di uno stile di vita e di lavoro fondato, anzitutto, sulla responsabilità individuale e sulla permanente capacità di anteporre lo spirito pubblico a qualsivoglia ostativo, angusto e dannoso particolarismo. Una psicologia, una sensibilità culturale, una visione etico-politica del mondo confermate da testimonianze convergenti ed autorevoli, oltre quella di De Martino, anche di Vignola, di Di Marino. Luigi Cacciatore divenne, per questo insieme di ragioni, un’importante autorità, politica e morale, rispettata anche dai suoi più tenaci ed aggressivi avversari politici quali Carmine De Martino, un personaggio di primo piano nella vicenda locale salernitana. Il De Martino, animatore delle liste dell’Unione Democratica Nazionale, formazione espressione delle aggregazioni

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dei vari notabilati attivi nel periodo prefascista, fu eletto trionfalmente alla Camera nelle liste democristiane nelle elezioni del 18 aprile 1948. E’ la data della grande sconfitta del Fronte Popolare e della schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana, l’atto di più rilevante pregnanza politica da cui avrà inizio il suo lungo dominio quindicennale sulla Democrazia Cristiana. La vicenda De Martino si configura quale esempio esplicativo della diffusa consuetudine alla pratica disinvolta del trasformismo, assai comune in tutto il Mezzogiorno, e che costituirà- per la realtà salernitana- il tipico esempio di maggior rilievo. Nelle elezioni di quell’anno la Dc passa dal 29,83% dei voti al 53,5%, mentre l’Unione Democratica Nazionale subisce un autentico tracollo, dal 23,34% al 6,3%, un travaso di voti pressoché perfetto. La vicenda personale va naturalmente inquadrata nel contesto più ampio e generale. L’esemplificazione dei modi in cui si pratica l’azione trasformistica, di disinvolta e differente collocazione di personalità singole, e di gruppi sociali ad esse collegate, prima del tutto organiche al regime, e ora protese alla mutazione della loro fisionomia e collocazione politica che s’intreccia con la nuova strutturazione dei poteri istituzionali e politici, è sintomatica di un modo di agire agli esatti antipodi con la visione etica e politica di Luigi Cacciatore, per cui devono invece valere i principi della coerenza, della fedeltà alle proprie scelte di campo. All’indomani della guerra e della definitiva caduta del fascismo, diverrà uno dei primi animatori del Psiup, partito socialista italiano di unità proletaria. Nel Consiglio nazionale del Partito del 20 dicembre 1943 era stato nominato membro della Direzione Nazionale. E sempre nel 1943, proprio nell’anno della “Svolta”, era ritornato a Salerno. C’era una situazione difficilissima, con i bombardamenti alleati sulle città italiane, l’avvio della ripresa dell’opposizione operaia nei grandi centri del Nord e l’inizio dell’insurrezione nazionale contro i tedeschi ed i fascisti della Repubblica Sociale. In Italia iniziava a nascere e a radicarsi il contropotere dei CNL, con molte zone libere e l’avvio della definitiva sconfitta della belva ferita che, comunque, prima di morire, porterà con sé una terribile scia di morte e distruzione, in larga prevalenza nel centro e

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soprattutto nel Nord d’Italia. Il Sud vive lo scontro solo marginalmente, ma la popolazione è fortemente provata. Cacciatore si attiva per riorganizzare, nella nuova situazione, le fila del Partito Socialista e Salerno si prepara ad accogliere i rappresentanti del nuovo Governo antifascista. Nell’ottobre 1944 Luigi Cacciatore vede riconosciuto e premiato il proprio impegno con la nomina a vicesegretario del Partito, incarico poi riconfermatogli nel Luglio 1945, a liberazione avvenuta. Da quel momento diventerà, col fratello Francesco, un riferimento costante ed un leader prezioso ed autorevole nelle lotte degli anni 50 che vedranno in campo, in più occasioni, nella provincia di Salerno, le masse contadine ed operaie. E’ instancabile nella sua azione educativa e pedagogica di promozione della rinascita e della democrazia, in specie in direzione della gioventù. Ecco in proposito il ricordo del senatore Gaetano Di Marino: “A fine settembre del 1944 un gruppo di giovani universitari salernitani iniziarono a riunirsi per porre le basi di un’attività politica e culturale e tra le iniziative programmate vi fu quella di invitare gli esponenti dei partiti del CLN di Salerno a tenerci una conferenza sulla ideologia e il programma politico dei rispettivi partiti. La conferenza di presentazione del PSI fu svolta da Luigi Cacciatore, capo riconosciuto del socialismo salernitano ed uno dei maggiori esponenti nazionali del PSI. La grande maggioranza dei giovani (dopo la caduta del fascismo…) era alla ricerca di un orientamento politico e culturale capace di dar loro le risposte alle molteplici, straordinarie, complesse domande che la situazione politica e ancor più storica poneva. Per la prima volta ascoltai e conobbi Luigi Cacciatore … Mi colpì innanzitutto la sua figura fisica: non era quella marziale e autoritaria che esibivano gli esponenti del passato regime, ma semplice, modesta, affabile. Il suo volto…era illuminato da uno sguardo aperto alla conoscenza ed all’incontro, animato da una grande simpatia umana e da una inesauribile volontà di sapere… si esprimeva iniziando con toni quasi sommessi un ragionamento e lo sviluppava con argomentazioni concatenate… e dal primo ragionamento deduceva una serie di problemi e questioni, collegati ad un’analisi della realtà politica

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e sociale in atto ed alle radici più profonde dei medesimi, …ricordo la precisione delle analisi della situazione economico sociale, la maturazione di problemi e rivendicazioni nuove, il ruolo decisivo che la liberazione dell’Italia avrebbe avuto per la costruzione di una democrazia avanzata in cui il movimento operaio, socialista e comunista, d’accordo con le masse cattoliche e le forze democratiche laiche, operassero in una grande concordia nazionale per la Ricostruzione e la Rinascita”164. Il 1 Maggio 1945 a Salerno per la celebrazione della festa del lavoro, è alla testa degli operai dell’industria cotoniera delle MCM, e degli operai di Fratte, in quella occasione particolarmente numerosi. Luigi Cacciatore è deputato dell’Assemblea Costituente, sottosegretario per l’assistenza postbellica e Ministro per le Poste e Telecomunicazioni durante il Governo De Gasperi ( 1946- 1947). Pur dovendo fronteggiare in maniera assai gravosa la responsabilità di parlamentare a Roma, continuava nel costante impegno per la sua provincia. La sua azione di sottosegretario fu instancabile ed in quella veste aiutò, e molto, le popolazioni salernitane. Nel Congresso di Firenze del 1949 è eletto nuovamente nella Direzione Nazionale del Partito, cosa riconfermata anche nel Congresso di Bologna del gennaio 1951. Luigi Cacciatore era un profondo conoscitore degli essenziali problemi dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Aveva una capacità oratoria raffinata, semplice, immediata e persuasiva nel suo argomentare. Lottò e molto per l’emancipazione e la libertà delle classi più deboli e povere, senza risparmio alcuno ed è senz’altro dovuta anche alla mole enorme di fatica e sacrifici sostenuti la ragione della sua fine prematura. La sua opera è stata continuata dal fratello Francesco, noto come Cecchino, scomparso agli inizi degli anni 80. Luigi Cacciatore è stato anche il primo ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni nel terzo Governo De Gasperi. Il primo ministro della Radio. Un amico del popolo, una persona a cui si voleva naturalmente ed immediatamente bene, per la grande schiettezza e umanità. Il 164

G. Di Marino, op.cit., p.32

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più grande risultato, col tempo raggiunto dal movimento d’ispirazione socialista e democratico, sarà quello di riuscire ad inserire, nella vita dello Stato Nazionale, in modo attivo e consapevole, sempre più ampie masse di uomini e di donne. L’autonomismo è interpretato, questa l’originalità, non nel senso di un’accentuazione delle divisioni, quale in sostanza divenne nella versione ufficiale della scissione socialdemocratica, quanto piuttosto nel senso di una paziente e strenua sollecitazione all’unità d’azione permanente dell’insieme delle forze di sinistra che può essere favorita proprio grazie al mantenimento delle distinte identità. L’obiettivo di fondo dell’autonomia della classe operaia può affermarsi, secondo Cacciatore, attraverso la pratica costante dell’unità d’azione, sui contenuti sociali di comune interesse, delle forze socialiste e comuniste. E’ questa la via giusta per fondare una nuova società, ben più partecipata, incentrata sui CLN locali, che dovrà riuscire a realizzare una democrazia diversa da quanto s’era conosciuto in precedenza, una innovativa forma di governo radicata nelle più articolate pieghe del Paese ed ora incentrata sul fecondo e costante rapporto con le grandi masse popolari. Egli resta nel Partito socialista, nell’alveo della sua originaria tradizione, ed anche nel Psiup riconfermerà la propria visione dell’autonomismo, fermo nella convinzione di dovere ricercare sempre, coi comunisti, utili e positive convergenze. Una posizione autorevole, per vari aspetti in controtendenza eppure originale, che non si ritrova di frequente tra la grande maggioranza degli uomini politici del suo stesso orientamento. Ed una linea politica piuttosto difficile da sostenere, in una fase in cui il paese è attraversato da un aspro scontro, su posizioni opposte e antagoniste, e sensibile più alle divaricazioni ed all’accentuazione delle differenze che alla paziente e laboriosa ricerca dell’unità e delle convergenze. E’ ancora il caso di ritornare, a questo punto, sul fatto che Cacciatore - oltre che un politico - è un sindacalista. E, dopo il 1947, diventerà Segretario Generale Aggiunto della CGIL, l’organizzazione sociale al cui interno convivono comunisti e socialisti. Tale collocazione gli consente di riprendere ed affinare, in maniera più persuasiva e naturale, il discorso già intrapreso dal

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1919 e che poi riproporrà, nella sostanza, nel 1943-1944 e poi più avanti ancora. Le linee indicate da Togliatti all’indomani del suo ritorno in Italia concorrono di molto ad attenuare il carattere scissionista assunto dal movimento comunista con la scissione di Livorno. In quel contesto assai mosso, diviso, frastagliato, la cosa più importante da osservare è che Luigi Cacciatore continua le sue battaglie per l’unificazione del mondo del lavoro e delle forze di sinistra nel Sindacato. Lì la sua azione è più agevole in quanto nella vita politica le cose si sono complicate e si è creata una situazione, di muro contro muro, che ha accentuato le fratture nel seno delle forze politiche di sinistra, divisioni che non sembrano più rimarginabili. L’autonomia della classe operaia, l’unità d’azione coi comunisti per la fondazione di una democrazia nuova deve passare attraverso l’assunzione del metodo della battaglia parlamentare, e del riconoscimento esplicito della sua validità. L’idea della democrazia e dell’accettazione del pluralismo, della libera competizione tra forze diverse è un concetto non sempre di per sé accettato, in modo pacifico, nel Partito Comunista al cui interno convivono difformi posizioni, il retaggio dei vizi d’origine e delle aspre contrapposizioni che avevano portato alla scissione di Livorno. Probabilmente la lettura delle carte personali consentirà un giorno d’interpretare meglio questi aspetti, ed il quadro di resistenze nel quale si trovò ad agire Cacciatore, e le varie ragioni che le sottintendevano. Per Luigi il socialismo era innanzitutto liberazione dell’umanità oppressa e misera, tenuta in soggezione materiale e morale dalle classi dominanti165. Una linea, quella di Cacciatore, praticata nello specifico della realtà locale ed in larga misura originale nel contesto d’insieme della dialettica nazionalmente a quel tempo sviluppata. Un’impostazione, la sua, che non ha avuto la possibilità di dispiegarsi pienamente e con successo soprattutto per il fatto che con le elezioni dell’aprile del 1948 - le cose sono andate nel senso opposto rispetto a ciò che si auspicava. L’unità d’azione tra le sinistre in sostanza si scioglie nel 1950-1951 e da allora Pietro Nenni dà inizio al processo di riavvicinamento ai social165

A. Alinovi, op.cit., p. 37.

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democratici per la riunificazione. L’unità d’azione non ha dato gli sbocchi che i socialisti si attendevano, né apprezzabili risultati. Si è persa sia la battaglia elettorale che quella politica. Cacciatore si muoverà in ogni caso all’interno di queste coordinate, anche tracciate e suggerite in precedenza da un grande dirigente liberale come Giovanni Amendola. Posizioni di vasto respiro, già elaborate nel cuore di una durissima lotta che porterà alla perdita, per mano del fascismo, di uomini di grande valore ed insigne insegnamento etico politico quali Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci. Cacciatore, dopo la grande battaglia antifascista, costituirà un solido punto di coagulo delle forze socialiste e riformiste. Ed ampie aree dello stesso movimento politico comunista, rappresentate da dirigenti come Giorgio Amendola, Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte più avanti, nell’immediato secondo dopoguerra e poi negli anni ’50, si muoveranno in sintonia con questa traccia, segnati da un’ispirazione riformista, tesa all’unità. Cacciatore è antesignano della linea della ricerca dell’intesa e della collaborazione tra le diverse forze d’ispirazione riformista. Longo elaborerà un progetto di superamento della posizione socialista e comunista, puntando ancora alla creazione di un partito unico del lavoro. Posizione battuta nel 1965. La divisione del mondo in blocchi contrapposti, più che riunire, separerà le forze, non solo socialiste, ma socialiste e comuniste. Nel concreto, il riformismo avrebbe dovuto tra l’altro realizzarsi prevedendo l’abbattimento del latifondo introducendo solidi vincoli alla proprietà assenteista, mirando all’attuazione dell’articolo 44 della Costituzione, che punta ad accrescere la presenza di braccianti e contadini nella proprietà della terra e dell’articolo 46, che indica il diritto dei lavoratori a partecipare al governo delle imprese. L’idea dell’impresa plurale, che non appartiene più solo ai proprietari, ma anche ai lavoratori dipendenti. Tutti punti qualificanti il riformismo di Luigi Cacciatore, il suo confondersi fecondo con la storia, la tradizione, la lotta del più autentico e positivo riformismo italiano.

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Nella visione del leader socialista il terreno della battaglia democratica è quello più vantaggioso, utile e imprescindibile per lo sviluppo della lotta dei lavoratori e per il conseguimento di risultati sempre più avanzati. Cacciatore rimane un punto di unità nella tormenta. Nella sua visione troviamo anticipazioni sul tema della decisività della lotta per la realizzazione di profonde riforme di struttura della società italiana. Non una posizione di testimonianza ininfluente e separata o, peggio, rancorosa, ma una posizione politica concreta che confluirà nella svolta di Salerno. Nel 1943 aveva partecipato a Napoli al Primo Congresso del Psiup e poi a Bari, nel gennaio 1944, rappresenterà i socialisti salernitani al congresso dei comitati di liberazione. Guarda con favore alla “Svolta di Salerno” proposta da Togliatti nell’aprile 1944 e già a quel tempo prefigura la prospettiva della creazione del partito unico della classe operaia. Ne auspica per ora non tanto la fusione quanto piuttosto un solido patto di unità d’azione da costruire e sperimentare nell’azione politica concreta. Avvierà in tal senso la linea politica della sinistra socialista, che prevarrà per qualche tempo prima di arenarsi all’indomani della sconfitta elettorale del 18 aprile 1948. Battaglia per la Costituente, per la riforma agraria, e per la centralità della questione meridionale: i punti essenziali e dirimenti della sua azione politica. C’è infine da osservare il carattere non rigidamente classista del suo progetto politico. Non c’è alcun dubbio che per lui la classe operaia costituisca il soggetto portante della trasformazione sociale, ma non nel senso di una prospettiva seccamente operaista. Insiste, in tal senso, non a caso sull’idea che la classe operaia è chiamata non a difendere interessi corporativi, ma a rappresentare gli interessi generali del paese. La classe operaia “ha cessato di interpretare esclusivi e particolari interessi di classe ed esprime oggi un’esigenza fondamentale dell’umanità, che dalle rovine della guerra deve trarre le premesse e le condizioni per riprendere il cammino sulle vie della civiltà e del progresso. Si profila l’idea di un grande Partito del socialismo, della libertà, della democrazia. Un partito che sappia proporre un progetto organico di riforme su cui conquistare la maggioranza del consenso dei cittadini .… riforma agraria, riforma industriale, riforma bancaria,

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riforma scolastica, autonomie locali … Il partito socialista è fermamente deciso a raccogliere intorno alla classe operaia… tutte le forze del lavoro produttivo, compresi i ceti non proletari ma proletarizzati, compresi i ceti non ancora proletarizzati ma non capitalistici. Per facilitare la coalizione di tutte le categorie dei lavoratori, occorrerà formulare un programma di trasformazione strutturale della nostra economia che non contenga alcuna minaccia contro gli interessi dei ceti medi”. Oltre all’unità della classe operaia, Cacciatore teneva molto allo sviluppo nazionale ed alla crescita del Mezzogiorno e perciò voleva costruire un movimento popolare della sinistra che andasse al di là delle rigide identità politiche di partito. “Il Fronte è un’alleanza che vuole diventare sempre più grande…”166. L’azione sul terreno sociale è considerata come primaria e imprescindibile ed è sempre decisiva la cosciente mobilitazione dei lavoratori, l’ancoraggio ai problemi ed ai bisogni reali del paese, l’azione per superare, progressivamente, le più acute ed odiose forme di emarginazione e di ingiustizia sociale. E’ questo il modo più efficace per avvicinare le masse alla vita dello Stato e per segnarne vita, scelte, indirizzi. E’ l’idea di una democrazia che avanza, procede e si sviluppa per successive progressioni e che si irrobustisce proprio in quanto la sua costruzione s’innerva nelle radici del mondo del lavoro. Un processo da fare confluire nelle leggi e nel dettato costituzionale. Dopo la conquista della Costituzione diviene decisivo realizzare un progressivo cambiamento dei rapporti di forza proprio sul terreno sociale, per mezzo della lotta di massa, della rivendicazione e dell’azione sindacale. Le riforme di struttura vanno attuate nella convinzione della possibilità di avviare un processo di progresso inarrestabile nella misura in cui si determineranno diversi rapporti di forza e di potere tra classi contrapposte. E che dovrà sfociare in una nuova ed aggiornata scrittura di un nuovo Stato Sociale capace di garantire, come suggerisce la Carta Costituzionale, ad ogni cittadino il beneficio dei diritti primari, dal diritto all’istruzione al di là del censo, alla salute, alla previdenza, fino a quello - decisivo per un paese civile - di un lavoro digni166

Intervento di G. Cantillo, op.cit., pag.48

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toso. L’importanza di pervenire, su questa linea, a risultati di volta in volta più avanzati e vantaggiosi per i contadini ed i braccianti nelle campagne, riducendo l’odioso e secolare potere della proprietà latifondista ed assenteista e per gli operai nelle fabbriche, dando ruolo, peso e funzione incisiva alle loro rappresentanze sindacali. Su questo insieme di obiettivi, di riscatto sociale e di civiltà, doveva per Luigi Cacciatore incentrarsi l’azione della sinistra italiana. Linea “fusionista”, interpretata come paziente ricerca di attivazione di un processo unitario in grado di fare confluire, in un unico filone convergente, le posizioni dei due principali partiti della sinistra italiana. L’esperienza pregressa aveva, d’altronde, evidenziato, senza tema di smentite, come le divisioni nel movimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze politiche e sindacali, finissero per portare vantaggio ai comuni nemici della democrazia, aprendo la strada a soluzioni odiose, fino alla tirannide ed alla soppressione d’ogni libertà. Un movimento, plurale ed unitario, quindi, in grado di scavare nelle pieghe più profonde della società italiana senza limitarsi ad operazioni artificiose e ad accordi meramente verticistici. Andava evitata, in ogni modo, una qualsivoglia riedizione di pagine di storia precedenti dolorosamente subite e conosciute. Il fascismo non era, come aveva immaginato il Croce, accidente occasionale della Storia umana, processo necessariamente temporaneo e transitorio. E l’impianto d’elaborazione e di riflessione sull’esperienza già vissuta, e d’analisi politica ed ideale conseguente, doveva essere strenuamente mantenuto, ed anzi rafforzato. La vera ragione di fondo delle sconfitte subìte andava rintracciata essenzialmente nell’incapacità di tenere compatte ed unite le forze dell’opposizione politica e sociale democratica. Infine, ancora un rapido richiamo al tema del meridionalismo, nel tempo diventato un elemento peculiare del comunismo italiano, in specie in relazione agli spunti proposti dalle riflessioni di Gramsci circa l’obbligo della ricerca dell’unità tra operai e contadini nel suo saggio sulla Questione Meridionale167. Essa 167 Il saggio di A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, incentrato sulla necessità dell’unità tra operai e contadini, era stato pubblicato a Parigi, sulla rivista “Lo Stato Operaio” nel gennaio 1930.

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costituiva uno dei banchi di prova decisivi sulla bontà dell’azione delle forze riformiste nazionali. A tal proposito, è utile in conclusione ricordare che Luigi Cacciatore fu tra gli estensori sia del Manifesto, sia del programma elettorale del Fronte Popolare e poi del Fronte Democratico del Mezzogiorno, contrario alla scissione social-democratica. Nel congresso nazionale di Genova del 4-9 ottobre 1949 era stato eletto, con Di Vittorio Segretario Nazionale, insieme con Fernando Santi, Agostino Novella e Renato Bitossi, componente della Segreteria Nazionale della Cgil. E’ ancora una volta un periodo assai duro, denso di aggressioni della polizia contro i lavoratori, di morti e di feriti. In quella fase darà un grande impulso alla lotta sindacale nella Cgil e, al fianco di Di Vittorio, Foa, Lama, sosterrà con fermezza la linea e la proposta del “Piano del Lavoro”. S’avvia una riflessione sulla storia sindacale precedente, sui limiti di corporativismo originario e del passaggio poi alla maturità, ci si concentra sulla capacità di muoversi e di agire nel modo più opportuno ricercando sempre, nell’azione pratica, ampie alleanze e convergenze, nel mondo del lavoro ed oltre, per raggiungere obiettivi nuovi e sempre più avanzati. In tale contesto, la lotta per la rinascita del Mezzogiorno non è soltanto la lotta della classe operaia ma è la lotta di tutto il popolo italiano. La vicenda del lancio del Piano del Lavoro sarà anche per lui un’esperienza straordinaria, di grande rilievo per la sinistra e per il sindacato italiano, probabilmente il punto più alto ed avanzato d’elaborazione comune delle forze di progresso e democratiche italiane. Una grande proposta politica del movimento operaio che, con quella idea, si colloca e si propone come classe generale, non chiusa agli interessi di gruppo o di ceto, ma in grado di rivolgersi all’insieme della società italiana, che agisce e si batte quale autentica forza di governo. Che punta a modificare i patti agrari, a migliorare la condizione operaia in fabbrica. Il Piano, fatti salvi l’impostazione e l’impianto generale, propone un’interna articolazione regione per regione. La politica, anche nella quotidiana azione sindacale, doveva ancorarsi sempre più alla realtà ed alle esigenze del vivere concreto, allo stretto contatto con la società ed sua alla complessa e faticosa

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evoluzione. E perdere ogni suggestione, aristocratica ed elitaria, e costituire, invece, un’efficace guida per l’azione, dimostrando di potere fronteggiare e governare - al meglio e nel concreto - le più acute tensioni sociali che emergevano, ben comprendendone origini e natura. In particolare, il Mezzogiorno appariva bisognoso di profondi e radicali cambiamenti, in specie e innanzitutto nelle sue strutture produttive ed economiche: la rapida trasformazione delle condizioni meridionali nel contesto dell’Italia repubblicana con l’attuazione di un vero e proprio sistema industriale nel sud, che facesse perno sulla modernizzazione delle sue strutture produttive, ma che pure tenesse viva l’aspettativa di risolvere l’annoso problema contadino attraverso un’autentica riforma agraria, come per esempio avrebbero auspicato gli studi di Manlio Rossi Doria”168. Sempre in tal senso era diretta la sua richiesta di un processo di socializzazione e di controllo democratico della grande industria e della finanza, della grande proprietà, e, soprattutto, di alcuni servizi e delle infrastrutture fondamentali in settori di grande interesse per lo sviluppo: dai trasporti al commercio con l’estero all’agricoltura e l’attenzione rivolta al decentramento amministrativo, allo sviluppo delle autonomie locali, attenzione che conferma il legame con la migliore tradizione delle origini del socialismo italiano (da Costa a Turati)169. In conclusione, è da condividere la sintetica e conclusiva riflessione secondo cui “Luigi Cacciatore è espressione di un’idea “alta” della politica che guarda innanzitutto ai problemi della collettività e che, nel difendere la causa della propria parte, perché ritenuta bisognosa di giustizia, bisognosa di salvezza dallo sfruttamento e dall’emarginazione, bisognosa di riscatto umano, sa però rispettare le posizioni dell’avversario, quando coerentemente ed onestamente sostenute, anche nel duro scontro degli opposti interessi e delle opposte visioni del mondo”170. In tale componente “etica”, in questa missione per così dire quasi “religiosa” va individuato il carattere cristallino, sociale e 168

M. Trotta, op.cit., p.137. Osservazioni presenti nell’intervento di F. De Martino, op.cit., pag.26. 170 G. Cantillo, op.cit., p.46. 169

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peculiare dell’essere socialista e di sinistra nella visione storicopolitica di Luigi Cacciatore. Una posizione che sarebbe potuta risultare senz’altro vincente in prospettiva e che, dopo i sacri furori dell’ideologismo e la rovinosa caduta d’ogni muro, si può oggi tentare, con una rinnovata speranza, di riprendere a guardare. Luigi Cacciatore morì d’infarto il 17 agosto 1951 a Roma. Pertini lo commemorò a Salerno, ricordandone con parole assai commosse l’onestà e la lealtà. Alla sua morte solenni discorsi di commiato vennero pronunciati, a Roma e poi a Salerno, da Pietro Nenni171, Rodolfo Morandi, Sandro Pertini, Giuseppe Di Vittorio, Fernando Santi, Oreste Lizzadri.

171

Il discorso di Pietro Nenni alla manifestazione decisa dal C.C. del PSI a Salerno si terrà al teatro Verdi il 21-10-1951. L’intervento integrale del segretario socialista in P. Nenni, In memoria di Luigi Cacciatore, Roma 1952.

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Benedetto Croce Nell’opera La Storia come pensiero e come azione172 Croce, tra l’altro, sostiene: “come alle grandi età del pensiero tien dietro il rilassamento e succedono ripetitori, compilatori o addirittura generazioni dimentiche e inintelligenti, e nondimeno l’ideale resta sempre il pensiero, creatore della verità, e non diventa già il non-pensiero […] così le età di libertà sono momenti di fulgore morale che dan luogo a tempi di minore splendore e forza, di luce incerta o addirittura di abbaiamento e di tenebra […] E non di meno, quando i tempi della barbarie e della violenza si approssimano, non perciò l’ideale diventa […] la illibertà ed il servaggio, ma rimane quello che solo può dirsi umano, l’unico perpetuamente operoso; e alla libertà sempre si tende, per essa si lavora anche quando pare che si lavori ad altro, essa si attua in ogni pensiero ed in ogni azione che abbia carattere di verità, di poesia e di bontà ”, e poi: “supposto anche che la società umana entri per uno o due secoli, o magari per un millennio, in una condizione di servitù, cioè di libertà estenuata e ridotta al minimo, di minima creatività, assai prossima alla condizione animale, questo incidente […] non la tocca, non interferisce col suo compito, non vale a cangiare questo compito, che è sempre di accendere la libertà con la libertà, e di scegliere a tal fine i mezzi e le materie adatte”173. A proposito, poi, della tesi che la libertà avrebbe avuto inizio nel secolo decimo nono: “La libertà non è un fatto contingente ma un’idea, e, scrutandola veramente a fondo, non è altro che la stessa coscienza morale, la quale, al pari di essa, non in altro consiste che nel pungolo ad accrescere di continuo la vita, e perciò nel riconoscere in sé e negli altri l’uomo, la forza umana da rispettare e da promuovere nella sua varia capacità creatrice. Creare un cominciamento assoluto alla libertà tanto, dunque, varrebbe quanto cercare un simile cominciamento alla moralità, cioè cascare nell’errore fenomenistico o empiristico di storiciz172

Benedetto Croce, La Storia come pensiero e come azione, Giuseppe Laterza e figli, Bari, 1954. 173 Op. cit, pp. 237-238.

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zare le categorie (il bene e il bello o il logo e le altre tutte o i loro sinonimi), che non sono fatti storici, perché sono le perpetue creatrici dei fatti della storia”174. In verità, chi si mette a perseguire il “cominciamento” di un tale percorso, è ricondotto sempre indietro nella serie infinita, trovando via via un nuovo punto d’inizio ai fatti che chiama di libertà: “li trova non solo nei secoli immediatamente anteriori al decimo nono, ma nel medioevo e nell’antichità, e ne troverebbe le tracce perfino nell’età primitiva e preistorica, presso i neolitici e, se così piace, presso i paleolitici”, “la libertà è una categoria, e perciò inesauribile, e quell’idea pura e perfetta è, invece, il fantasma proiettato nella nostra immaginazione dal nostro desiderio infinito, dal nostro ardore morale, dalla nostra ansia di purezza e perfezione, e non si può incontrare nel mondo dei fatti. In questo, che è il mondo della storia, la libertà non è mai astrattamente perfetta, ma di volta in volta quale concretamente è, e bisogna riconoscerla ed accettarla nelle condizioni date”175. Altro punto senz’altro di rilievo nel pensiero di Croce è poi costituito dalla presunta sottovalutazione, o addirittura dall’indifferenza e dall’avversione, che si nota nell’umanismo riguardo alle scienze naturali, fisiche e matematiche, e quella sorta di guerra che di volta in volta si riaccende tra umanisti e scientismi, e in genere tra cultori delle scienze della mente e cultori delle scienze della natura. A tal proposito, l’autore sostiene decisamente che: “La realtà è storia e solo storicamente la si conosce e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono, né loro ufficio è di conoscerla nell’intrinseco. L’orgoglio degli “studia humaniora” verso i “realia” non vuol dire altro che questo; e non meno, ma non più di questo, lo storicismo, da sua parte, conferma”176. Ho fatto un ricorso diffuso alle citazioni delle fonti di una delle principali opere di Benedetto Croce per consentire, almeno a grandi linee e in parte, la comprensione di alcuni dei motivi che, a lungo, determineranno la sua straordinaria capacità di attra174

Op. cit., pag. 254. Op. cit., pag. 255. 176 Op. cit., pp. 328 e 329. 175

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zione sui giovani e su uno strato diffuso d’intellettuali attivi ed operanti nella società italiana del suo tempo. I giovani scrittori ed intellettuali, formatisi nella prima metà del Novecento, avevano avuto a lungo, nell’opera e nel pensiero di Benedetto Croce, un imprescindibile punto di riferimento. Pertanto, pur attraverso ripetuti e ciclici tentativi di una suo ridimensionamento, dal fascino esercitato dal suo pensiero non si può prescindere. E non è ancora oggi possibile riscrivere la storia della cultura italiana ed europea del Novecento recidendo – in modo netto ed arbitrario – l’incidenza del suo insegnamento. Da più parti, probabilmente accentuandone la funzione, soprattutto alla luce delle pagine dei Quaderni dal Carcere di Gramsci, si è indugiato ad evidenziarne una vera ed esplicita funzione di “dittatura” sulla cultura, che era riuscita, in un’operazione d’inglobamento subalterno degli intellettuali ai poteri costituiti, a ridimensionare e soffocare altre voci diverse. E’ stata tentata l’operazione di un’assoluta rimozione, soprattutto nell’immediato dopoguerra, tentativo in realtà almeno in parte destinato al fallimento, in quanto ciò che entra in circolo in qualche modo in genere continua ad operare nello scorrere del tempo, se non nel discorso direttamente filosofico almeno in quello storico e letterario. Il fatto stesso che, da più parti ed a lungo, si sia sentito il dovere di polemizzare con lui, o con alcune delle sue principali posizioni, ha indotto i vari polemisti e oppositori a calarsi in quel pensiero. E’, per altri versi, la stessa sorte toccata ad un altro pensatore come Giovanni Gentile, che – in genere – sembrò dimostrare una maggiore capacità di lettura critica del Marxismo, di cui intuì l’importanza per un possibile recupero della filosofia hegeliana.Il rapporto verso il Marxismo, cui era stato stimolato dalla frequentazione di Labriola, si trasforma, dopo l’iniziale intensa ammirazione per il Marx – come è noto – in uno dei prevalenti elementi d’opposizione e contrasto. Del Marxismo Croce tenta di contestare e liquidare una visione, ed una concezione della vita, da lui ritenuta “limitativa”, che in genere a suo avviso finiva per esaurirsi nella mera, esclusiva e parziale dimensione economico-pratica. Il Marxismo sottovaluta ed elimina altre, di-

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verse e prevalenti dimensioni della vita dell’uomo, in specie quella spirituale, producendo così appiattimenti, parzialità e negative riduzioni. E’ questa posizione la causa di una delle principali ragioni del vigore della polemica – da parte marxista – per più versi unilaterale e piuttosto ingenerosa nei suoi confronti. Sinteticamente illuminante ed esemplificativo è, al proposito, l’articolo: “Marxismo, cultura, poesia” di Natalino Sapegno177, dai toni particolarmente aspri e polemici verso Benedetto Croce. Il grande filosofo è descritto come “impigliato in una rete di annosi pregiudizi e di informazioni non aggiornate”, portato a discorrere “in quell’atmosfera di rispettosa solitudine che la storia è venuta a poco a poco a creargli intorno”. Duramente contestata è la posizione del Croce secondo cui le riviste marxiste dovrebbero evitare di occuparsi di poesia, filosofia e storia, essendo questi campi da affidare all’esclusivo diritto dei periodici animati da “spirito liberale”. Le riviste marxiste invece farebbero meglio a limitarsi solo alla trattazione di problemi politici di contingente attualità, nel mentre quelle questioni appartengono ad un piano “contemplativo e teorico e di scientifica critica, sollevandosi al “sereno cielo” del bello e del vero. Sapegno, procedendo nel suo ragionamento, sostiene che “ogni giudizio è sempre il giudizio di un uomo, che vive in una certa società ed in un certo tempo, con le sue passioni e i suoi interessi concreti, con le sue tendenze individuali e di gruppo”. Inaccettabile è perciò la distinzione, proposta dal Croce, tra un presunto piano pratico ed un altro contemplativo e l’ulteriore differenziazione tra filosofie ed ideologie “tendenziose”, legate a una ragione pratica e “i sereni concetti” che si librano in un’atmosfera pura separata dalle passioni. In ciò appare consistere il vero motivo del contendere, ovvero nell’avere proposto una scissione, nel complesso dei fatti storici, tra aspetti economici, politici e morali, e “insomma pratici, e quelli filosofici e artistici, o contemplativi”. Il Marxismo, storicismo integrale, postula invece un nesso organico dei fatti “un’interferenza circolare dei molteplici aspetti in cui la realtà si manifesta, e per questo esso non conosce idee che non 177

Su “Rinascita”, 1945.

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nascano dai fatti e facciano tutt’uno con essi”. Per il marxista la realtà è un tutt’uno. L’idealista propone invece un’indebita “distinzione di materia e spirito, di realtà contingente temporale e realtà assoluta ed extratemporale”. L’errore fondamentale che Sapegno attribuisce a Croce è che, nella “Estetica” egli tratterebbe le opere dei poeti “prescindendo in misura più o meno grande, e talora totale, dalle condizioni storiche, e descrivendole in figura di un rapporto tra un complesso di stati d’animo universali ed eterni (fuori dello spazio e del tempo, che è quanto dire fuori della realtà umana e storica) e una forma non diversamente assoluta e astorica, una concezione veramente storicistica, come è quella marxista, vedrà (invece) quelle stesse opere radicate nella vita della società in una certa epoca, circoscritta da determinate condizioni fisiche, economiche, tecniche, politiche, da cui quegli stati d’animo e insieme ad essi la lingua, gli strumenti espressivi prendono colore e consistenza”. La critica del Croce tende così, per Natalino Sapegno, a restare “astratta”. La critica del marxista tende invece a risolversi sempre più in storia, ovvero in descrizione di un determinato fatto visto nella serie degli altri fatti che lo circoscrivono e aiutano pertanto a definirlo”. E inoltre: “la critica di Croce ha il suo fondamento in un’estetica assoluta, e cioè astratta, in un criterio metastorico, ovverosia trascendente, di giudizio; il marxista non conosce estetiche assolute, bensì soltanto poetiche circoscritte nel tempo e inerenti di volta in volta al fatto artistico nella sua concreta condizione storica”. Il linguaggio usato dall’artista non può che essere quello che aderisce alla struttura sociale della sua epoca, l’unico possibile di una determinata società. L’arte, di conseguenza, non può che essere espressione della società, come ha sostenuto il De Sanctis, una posizione che Croce avrebbe invece stravolto alla luce del suo concetto “trascendente e teologico della poesia”. Un fenomeno va invece sempre inquadrato e collocato al suo giusto posto nel ritmo dialettico della Storia. “Il legame necessario tra una determinata cultura (con le poetiche e quindi la poesia e l’arte che in quell’humus attingono la loro sostanza e le loro forme storicamente distinte) e una determinata struttura sociale, è un concetto che non solo non riesce strano, anzi del tutto evidente ed incontroverso al buon senso prima che

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ancora alla ragione riflettente”. Il criterio di valutazione di un fatto artistico andrà pertanto relazionato alla “ sincerità d’artista, che è adesione alla verità essenziale del proprio tempo, al momento attivo e propulsore della dialettica storica, al ritmo progressivo della civiltà in una certa epoca”. Croce si colloca invece su un piano – assolutamente arbitrario per Sapegno – di superiorità contemplativa, ed è questo ciò che gli impedisce di cogliere l’essenza storica, con l’ovvia conseguenza di errori di valutazione e d’interpretazione. La polemica, diffusa a piene mani, ha teso inoltre ad attribuire a Croce due livelli di responsabilità negative, quello direttamente culturale, d’inglobamento subalterno degli intellettuali, come strato sociale diffuso, nel processo di mantenimento degli assetti di potere contrari ed opposti alla materiale costruzione di un diverso e progressivo blocco storico antagonista (Gramsci che sente la necessità, perciò di scrivere L’anticroce) ed una diretta, personale responsabilità di connivenza coll’avanzata, il sorgere ed il radicarsi del Fascismo. In realtà, già rispetto alla Prima Guerra Mondiale Croce, a differenza di Gentile, non ha assunto posizioni interventiste e – rispetto al Fascismo trionfante – ha strenuamente rimarcato una secca presa di distanza caratterizzata dalla propria intransigente “opposizione morale”. Operando sul piano pressoché esclusivo dell’impegno negli studi, ha assunto un atteggiamento di estraneazione nei riguardi del regime, mai in ogni caso apologetico. Una personale responsabilità “oggettiva” sembra esserci effettivamente stata se, con ciò, ci si vuol riferire alla sua scelta d’orgoglioso ritrarsi – nel periodo della dittatura – dagli avvenimenti contingenti concentrandosi sull’esclusiva dimensione dell’impegno su un piano teorico. In ogni caso, i giovani e gli intellettuali che si avviano, in quel periodo, a maturare una netta e definitiva rottura col passato ed una diversa scelta di campo, non possono prescindere dal rapporto con una figura gigantesca come quella di Benedetto Croce. In un articolo di Mario Alicata178 si riassume la ragione della forte capacità di attrazione di Croce verso i giovani del tempo 178

In “L’Unità”, “Sul filo della logica”, 13 Giugno 1944.

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ed è spiegato l’indubbio fascino della sistematicità del suo pensiero, “la brillante tecnica filosofica e il suo apparente calore morale, l’afflato europeo”. C’era poi l’aspetto dello stimolo costante rappresentato da una particolare metodologia interpretativa che metteva sempre in evidenza la relazione di un problema particolare con un problema, più generale, di tipo filosofico cui esso indubbiamente era collegato. La logica concatenazione del sistema evidenziava sempre forti legami e relazioni della parte col tutto, così che gli scritti d’estetica rinviavano alla logica e poi all’etica, alla storiografia, alla storia. Togliatti nutrirà un atteggiamento ambivalente verso Benedetto Croce, alternando esplicite manifestazioni di rispetto ed apprezzamento ad attacchi durissimi, in genere sviluppati a fronte dell’azione crociana tesa a dimostrare il velleitarismo e l’arretratezza del Marxismo, più volte ritenuto prassi filosofica parziale, negativa e dannosa in particolare – per Croce – per quella esplicita dichiarazione di voler privilegiare, come si è già accennato, l’elemento pressoché esclusivo, e fuorviante, della dimensione economico-pratica rispetto all’interezza ed alla complessità della persona umana. Eppure Togliatti, che pure di frequente farà ricorso al sarcasmo, spesso con l’aria di un’apparente sufficienza, avrà – in genere – l’accortezza di non spingere mai la polemica verso punti di definitivo non ritorno. Un esempio d’indubbio acume intellettuale che – evidentemente – è tutto politico, nel senso che Togliatti è dirigente fin troppo fine per prescindere dall’accorta considerazione dell’Humus d’insieme della situazione in cui si è venuto a trovare una volta giunto in Italia dopo il lungo periodo trascorso in Unione Sovietica. L’operazione – lungimirante ed antidogmatica – che il capo comunista intende realizzare, sia nella fase appena antecedente al crollo del fascismo, che negli anni immediatamente successivi, della ricostruzione e dell’unità nazionale, e poi soprattutto in quelli seguenti, di rottura e crisi dell’unità delle forze antifasciste, è destinata a sicuro fallimento se non sostenuta con convinzione anzitutto dai dirigenti e dagli intellettuali che in tempi recenti hanno aderito al Partito Comunista, il cui progressivo di-

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stacco dall’insegnamento crociano va pazientemente atteso e favorito. Ambivalenza, quindi, polemica personale anche feroce e al vetriolo, quando – ad esempio – Togliatti rivendicherà con orgoglio l’impossibilità dell’equiparazione tra il tipo di opposizione “morale” esercitata dal Croce e l’altra, di ben diversa intensità, gravida di forti rischi anche personali, a lungo praticata in situazioni proibitive da comunisti e socialisti italiani: “Benedetto Croce ha avuto, come campione della lotta contro il Marxismo, una curiosa situazione di privilegio, nel corso degli ultimi anni. Egli ha tenuto cattedra di questa materia, istituendosi così tra lui e il fascismo un’aperta collaborazione, prezzo della facoltà che gli fu concessa di arrischiare ogni tanto una timida frecciolina contro il regime. L’aver accettato questa funzione, mentre noi eravamo forzatamente assenti e muti o perché al bando del paese o perché perseguitati fino alla morte dei nostri migliori, è una macchia di ordine morale che non gli possiamo perdonare”. La frontale invettiva si conclude con la secca affermazione: “Il fascismo è crollato, e noi siamo qui, comunisti e socialisti, vivi e vitali. Non lasceremo più andare in giro merci avariate, senza fare il necessario per mettere a nudo l’inganno”179. Come è noto, quest’articolo provocherà la reazione stizzita ed offesa di Croce, che farà in proposito un polemico riferimento al saccheggio della sua abitazione da parte dei fascisti proprio per la sua personale indisponibilità a piegarsi, oltre che all’instancabile azione – da lui tenacemente profusa – contro la diffusa sfiducia e rassegnazione imperanti, nella lucida consapevolezza dell’indistruttibile tensione verso la libertà insita nello sviluppo della storia del genere umano180.

179

In “La Rinascita”, a. I, n. 1, giugno 1944, p. 30. Girolamo Cotroneo ha curato il volume: Benedetto Croce, La Religione della Libertà. Antologia degli scritti politici, SugarCo Edizioni, 1986. Il testo è un agile strumento che consente di individuare e di comprendere i punti principali del pensiero politico di Croce. Esso si concentra innanzitutto sulla concezione del filosofo circa il tema della libertà, poi anche sulla politica ed il liberalismo, sul ruolo e la funzione delle Istituzioni. Il taglio scelto dal curatore comunque privilegia la messa a fuoco di alcuni aspetti essenziali d’elaborazione filosofica rispetto a quelli d’impatto politico più immediato. 180

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Togliatti, nei fatti, più avanti attutirà – di molto – il proprio furore iconoclasta riconoscendo, pubblicamente, l’importanza del magistero di Croce. D’altronde, gli elementi d’irrazionalismo, di mistura populista e demagogica del nazionalismo e del fascismo, con le intrinseche pericolosità per il mantenimento di un simulacro di democrazia, seppur parziale e limitata, erano evidenti fin dai primordi. Croce riteneva che la storia umana è sempre storia della libertà ed il Fascismo, o altri ostacoli frapposti, altro non costituiscono se non parziali e provvisori incidenti di percorso, accidentali “parentesi”, da cui l’umanità sarebbe sempre riuscita a fuoriuscire con nuove e positive prospettive d’ulteriore avanzamento. In cosa consiste allora la ragione della potente influenza del pensiero del Croce su strati diffusi d’intellettualità che pure, nel secondo dopoguerra, avevano aderito alla sinistra ed al PCI in Italia? L’idea dell’assoluta autonomia dell’arte, intesa come pura intuizione, scevra da qualsivoglia contaminazione con la vita pratica appariva affascinante e consentiva la non definitiva messa in crisi, ed anzi una prosecuzione, dell’esercizio di una funzione di rilievo degli intellettuali anche nella nuova situazione data che si era andata a definire. Altra ricorrente accusa rivolta a Benedetto Croce, in specie dagli ambienti intellettuali di sinistra durante il secondo dopoguerra, è quella di un suo presunto provincialismo. La pubblicazione del carteggio tra Croce ed il suo editore Giovanni Laterza, stimata in oltre 4.000 lettere, ha contribuito a mettere in risalto l’inconsistenza storica di tali rilievi. Tra i suoi contemporanei probabilmente solo Ernst Cassirer mostra un’apertura d’orizzonti simili alla sua. Lo stesso Gramsci nei Quaderni riconosce a Croce un ruolo di profilo europeo, ed anzi mondiale, quando, pur attribuendogli l’esercizio di una funzione sostanzialmente consolatoria, esercitata su piani regressivi, riconosceva comunque che, pur staccando gli intellettuali italiani dalle proprie originarie radici popolari, era riuscito ad inserirli nel più ampio circuito, di relazioni e conoscenze transnazionali. Si può piuttosto rilevare che la cultura di Croce, e la filosofia a lui contemporanea, in genere resta dominata da-

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gli eredi del vecchio positivismo, dalle scuole hegeliane ortodosse e dai cattolici. Gruppi questi sui quali si concentrò la polemica di Croce sulla sua “Critica sociale”. Il pensiero di Croce si snoda e si sviluppa attraverso più piani progressivi, tra loro conseguentemente incatenati. Nel suo “sistema” l’estetica, intesa come “filosofia dell’espressione” è la principale via d’accesso alla Filosofia dello spirito. Indubbia la ricerca di confronto e di stretta relazione col pensiero della grande filosofia tedesca di Hegel e, prima ancora, come rileverà Stefano Poggi181, di Kant e della sua dizione di “bello naturale”. Croce fa osservare che “il bello fisico (naturale)” altro non è che “un semplice aiuto per la riproduzione delle espressioni”; eppure “la meditazione e la concentrazione interna” sono il nucleo propulsivo di ogni operare artistico. Non c’è separazione assoluta e distacco, come pure da più parti si è più volte sostenuto, con la praticità. Piuttosto la “rappresentazione individuale, uscendo dalla particolarità e acquistando valore di totalità, diventa concretamente individuale”. Il divenire “concretamente individuale” della rappresentazione artistica le è assicurato dal principio della “pura intuizione” che impedisce, di per sé, che venga a rompersi, frantumandosi, “l’incanto dell’arte”. E’ perciò che “nella dottrina della pura intuizione la rappresentazione artistica, come presuppone il sentimento cosmico, così offre un’universalità affatto intuitiva, formalmente diversa dall’universalità in qualsiasi modo pensata e adoperata come categoria di giudizio”182. E’ proprio la concretezza dell’atto intuitivo- espressivo a consentire il rapporto tra individuale ed universale. L’arte è così, per Croce, la “forma aurorale del conoscere”. Solo essa può, ben diversamente ed oltre la scienza, assicurare l’avvio della conoscenza della verità183. I danni del pensiero, per Croce, sono stati causati dall’errata concezione della funzione dell’estetica e dell’arte ed essi si sono così, poi, immediatamente riversati sul181 Croce e Gentile fra tradizione nazionale e Filosofia Europea, ed. Riuniti, pp. 40 e seguenti. 182 B. Croce; Breviario di Estetica, Adelphi, (prima edizione 1949), pp. 140141. 183 B. Croce, Breviario di estetica, op. cit. p. 59.

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la logica, ovvero la conoscenza intellettiva. “Un’estetica inesatta doveva di necessità tirarsi dietro una logica inesatta”, la cui riforma non può che riferirsi, come base di partenza, alla scienza dell’estetica. Si propone un processo in grado di fare intendere come si sviluppino le varie necessarie progressioni nel percorso teso a pervenire alla verità o, per meglio dire, alla conoscenza. Non c’è scissione alcuna tra il conoscere ed il pensare. Elemento essenziale è – in ogni caso – in Croce il rapporto intuizione-concetto e la concezione che nell’arte (intuizioneespressione) si può cogliere la realtà in modo pieno ed immediato. In ogni caso, Croce non travalica mai sul piano esclusivamente metafisico, essendo sempre attento al confronto con la soggettività ed ai modi di formazione dell’autocoscienza. In sintesi, il suo obiettivo è quello di pervenire ad una presa diretta sulla realtà e perciò lavora per individuare i modi capaci di determinare il raggiungimento di una conoscenza piena. La sua tesi è avversa ai tentativi di raggiungimento progressivo, propri dello scientismo, alla verità “discorsiva” ed anzi ritiene che la verità può rivelarsi solo per un istante, nei termini di estaticità. E’ sempre richiamata in gioco la soggettività, l’interiorità consapevole delle proprie potenzialità. Ed e’ sempre il soggetto individuale autocosciente il centro di ogni processo e progressione, senza dovere far ricorso a dimensioni universali, globali, totalizzanti e consolatrici. Il procedere del pensiero crociano si dipana così espandendosi su più piani, intervenendo e sistematizzandosi attraverso gli ulteriori punti della Logica, dell’Etica, della storiografia, della Filosofia. Eugenio Garin, uno dei suoi più attenti studiosi, è intervenuto sulla questione in uno specifico saggio, edito da Laterza nel 1955, e le sue considerazioni in proposito sono riassunte in “Cronache di Filosofia Italiana 1900-1960”184, opera pubblicata contemporaneamente a Politica e Cultura di Norberto Bobbio.

184

L’opera è stata ristampata, in edizione economica, dalla casa editrice Laterza nel 1997.

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“Le Cronache” non sono una cronaca. Piuttosto un excursus ampio e documentato della filosofia italiana del secolo, una narrazione fitta di dati e di commenti, da cui è possibile attingere più idee. Croce giganteggia, con Gentile, in questa ricostruzione. Le “Cronache” rivisitano il tipo di impegno etico- politico di Croce durante il fascismo, i modi ritenuti peculiari e rilevanti da una generazione che, per più ragioni, si è sentita intensamente crociana. E’ il Croce che “nel fuoco della lotta ritrova sé stesso” e “restituito ai temi a lui congeniali, la poesia e la storia, ritrova tutta la sua forza”. Croce, durante il Fascismo, maturerà un grande avanzamento di pensiero. A lui appartiene anche un modo peculiare d’intendere il rapporto tra storia delle idee e storia dei fatti, il rapporto tra impegno intellettuale ed impegno pratico. Ed è sua la lezione, di reciproca indipendenza ma non di reciproca indifferenza, il punto di collocazione intermedia, difficile da esercitare in ogni occasione – e spesso invisa e mal compresa – tra il non volerne sapere e l’esserci dentro fino al collo, tra l’indifferente distacco e la subalternità. Garin rileva giustamente l’impossibilità della netta “separazione” tra politica e cultura. L’uomo di cultura costruisce la sua visione mondana della storia, ed il radicato laicismo lo inducono a interpretarne la funzione come educatrice e liberatrice degli uomini in questo mondo e non in un sopramondo di cui, sommessamente, Croce diceva di non ritenersi conoscitore esperto, né, tampoco, abile guida. Norberto Bobbio in Croce distingue tre fasi, pur caratterizzate dalla stessa idea generale del rapporto di unità-distinzione tra teoria e pratica, distinzione che si ripercuote nella differenza di piano tra filosofo e politico. Nel brano di Contributo alla critica di me stesso185, egli spiega di essersi formato, lavorando alla “Critica”, “la tranquilla coscienza” di trovarsi al suo posto e di compiere opera politica, se pure in senso lato, un’opera appunto come quella di Settembrini e di De Sanctis, “di studioso e di cittadino insieme, sì da non dovere arrossire del tutto innanzi ad 185

Il testo è originariamente stampato come manoscritto in 100 copie numerate. Il testo verrà pubblicato dalla Piccola Biblioteca Adelphi e l’edizione del 1989 sarà curata da Giuseppe Galasso.

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uomini politici e cittadini socialmente operosi”. In lui appare sempre chiaro il concetto secondo cui la storia delle idee e la storia dei fatti non procedono di pari passo, anche se sempre nitida deve risultare come la forza delle idee è decisiva nel determinare i fatti.Garin sostiene che, dal tumulto di quegli anni, Croce trae una concezione di operare del filosofo di “aspro rigore”, pur non venendo mai meno ad una “visione realistica e disincantata della storia”, in una sorta di “tensione drammatica”, che finirà per impregnare la sua opera di un mordente eccezionale. E veniamo, in maniera più ravvicinata, al tema del ruolo dell’intellettuale, “il problema della missione del dotto, ossia del compito degli intellettuali si fa drammatico al punto di rottura, dove sembra scoppiare il conflitto tra realismo e utopia. Tra l’affermazione dell’attività politica come attività economica, autonoma nella sua cerchia rispetto alla morale, avente le sue leggi che il politico deve rispettare, e l’esaltazione della forza morale che sola, in ultima istanza, muove la storia, e con la quale di conseguenza ogni buona politica deve fare i conti, che è un’antinomia insolubile, o solubile solo a parole”. Lo stesso Croce accentuò, a seconda dei tempi, or l’uno or l’altro aspetto, tanto da essere considerato o il fautore dello Stato-Potenza durante la Prima Guerra Mondiale o il predicatore dell’ideale di libertà durante il Fascismo. E’ bene per Croce tenere sempre presenti, nella valutazione dei vari momenti della sua attività, gli obiettivi polemici di volta in volta presi di mira. Pur nella diversità delle situazioni, è giusto non dimenticare “la fortissima opera polemica di tutta la sua opera di storico” con cui praticamente mostrò che la Storia è sempre Storia contemporanea. Eugenio Garin è per sottolineare come Croce fu sempre “politicus”, nei momenti in cui animò della propria passione politica la sua opera di studioso ed alimentò di raffinata cultura forme e modalità di partecipazione alla vita nazionale. Croce ebbe un altissimo concetto della funzione degli intellettuali nella società, tanto da esaltare, alla fine della Storia del

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Regno di Napoli186 gli uomini di dottrina e di pensiero che avevano compiuto quanto di bene si era fatto in quel paese, “quanto gli conferì decoro e nobiltà”, e da chiamarli a raccolta nel famoso manifesto scritto per difendere, contro Gentile, la libertà minacciata, identificando nel liberalismo inteso come dottrina etico -politica, al di sopra degli opposti schieramenti di partito” il partito della cultura e da difenderlo contro interpretazioni restrittive, come quello che lo risolveva e confondeva con il liberalismo economico187. Croce puntò fermamente sulla forza della Cultura, facendo poche concessioni alla politica dei politici. Quando, per contingenze eccezionali, assunse rilevanti incarichi pubblici, quale Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Giolitti, ministro senza portafogli nel Governo Bonomi nel 1944, lo fece suo malgrado, pronto – alla prima occasione – a tornare ai propri studi. Ed errando tentò di elevare a partito della cultura uno dei partiti emersi dopo la caduta del Fascismo e, contribuendo allora a confondere quanto aveva sempre distinto, la politica degli intellettuali dalla politica dei politici, tentò di far coabitare, forzatamente, i “portatori della forza morale” con quelli della “forza vitale”. In sostanza, si scontrò con la difficoltà di far avanzare, in modo parallelo, teoria e pratica. Croce è stato indubbiamente, oltre che un grande storico, letterato e filosofo, anche un grande riferimento morale. Non tanto come dettatore di massime morali, di chi crede per convinzione 186 L’opera è del 1925. In tempi più recenti il volume, curato da Giuseppe Galasso, è stato ristampato nel 1992 dalla casa editrice Adelphi. 187 Benedetto Croce è l’estensore, il 1 maggio 1925, de “La protesta contro il “Manifesto degli Intellettuali fascisti”, redatto da Giovanni Gentile il 21 aprile 1925 ed ispirato dalla volontà di difendere e promuovere ad ampio raggio la politica del Fascismo. Croce contestava seccamente il fatto di “avere varcato i limiti dell’ufficio loro assegnato”, sostenendo che era un grave errore “contaminare politica e letteratura, politica e scienza”. Si contestava altresì duramente “la doverosa sottomissione degli individui al Tutto”, auspicata dagli intellettuali fascisti e si manifestava comunque la certezza della fuoriuscita da quel periodo buio della storia nazionale che aveva confiscato le libertà. La presa di posizione di Croce venne sottoscritta da centinaia di intellettuali ed uomini di cultura.

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che, in ultima istanza, siano le forze morali a guidare la storia e da ciò trae la conseguenza che sia dovere di ogni uomo, non importa se dotto oppure non, fare la propria opera per far prevalere queste ragioni. Le “Forze morali” sono per lui quelle che, in diversi modi e circostanze, anche con mezzi diversi a seconda delle occasioni, promuovono la libertà. E ciascuno, nei più diversi modi, sarebbe stato in grado di dare un contributo a restaurare e a rinsaldare l’amore per la libertà, una forza che “rigermina” sempre nuova nel petto dell’uomo, e con cui si dovranno in ogni caso fare i conti. Concetti e parole forse più dettate da passione che da ragionamento freddo, che in qualche modo possono anche sembrare retoriche e che tuttavia esercitavano una forte suggestione. Infatti, a chi aveva assistito al crollo dei regimi fascisti, per chi non aveva dubitato – anche nei momenti più oscuri – della vittoria finale della libertà, esse apparivano straordinariamente efficaci e profetiche, certo consolatorie e tuttavia del tutto veritiere, dettate da una visione della storia non idealizzante, e di uno straordinario realismo che poi sarebbe stato confermato dai fatti. Croce diceva, a chi sosteneva, negli anni delle feroci oppressioni, che la libertà aveva ormai per sempre disertato il mondo, che essi non sapevano quello che dicevano. Considerare morta la libertà infatti coincideva col sentire come morta la vita. Sembrava il filosofo “cieco e sordo” rispetto alla durezza cruda del reale, eppure si ostinava a sostenere che la storia è storia di libertà. Non certo un idillio, ma neppure solo tragedia e orrori. E’ continuo dinamismo, l’alternarsi di fasi positive e negative. Ed è proprio giusto che sia così, altrimenti sarebbe solo insopportabile noia simile, questa sì, alla peggiore morte. Fino alla fine, nel suo pensiero prevarrà un’impostazione razionalistica e storicistica, con l’affermazione di una costante versatilità e dialetticità del pensiero, che trae la sua linfa dall’inarrestabile corso della vita. “Bisogna sgomberare la pretesa”, scrive nel 1945, “o l’illusione che l’opera o il “sistema “di un filosofo sia lo svelamento una volta per sempre del cosiddetto “mistero della realtà”, l’enunciazione della verità totale e definitiva, la conseguita messa a riposo del pensiero coi suoi

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dubbi, e con ciò dell’uomo stesso che non si vede cosa farebbe se col pensiero non si travagliasse per vivere vita umana”188. E’ un richiamo teorico essenziale, teso a dimostrare che il negativo non sta di fronte al positivo ma dentro di esso, il male non di fronte al bene, ma dentro il bene, il nulla non di fronte ma dentro l’essere, sicché il vero essere è il divenire. La fortissima rivendicazione di una filosofia storicistica comunque, con una visione della dialettica mai separabile dal mondo umano e dalla sua realtà storica, la visione delle “categorie” come “potenze del fare spirituale” che esplicita la costante sussistenza dei concetti di vita e vitalità. E’ la vitalità ad essere essenziale per la vita dello spirito, costituendone l’elemento integratore delle varie forme, la molla continua che produce irrequietezze e problemi sempre nuovi. Essa, in sintesi, diviene l’involucro originario dello stesso spirito. La dialettica di Hegel spiega l’esistenza del male individuandolo come indispensabile elemento vitale. La dialettica è così identificata nella stessa movenza della vita poiché la vita “è sempre e non conosce riposo”189. Il male e l’irrazionale non vanno considerati in uno statico, separato contrasto col bene ed il razionale. L’ininterrotto procedere della vita crea sempre e di continuo nuovi atti e pensieri, perciò è illusorio pensare di disciplinare “l’aspetto tragico del mondo”. Pur se la vita così si configura, come lotta incessante, da essa non va mai espunta in via definitiva la speranza. Non si può promettere il paradiso in terra, ma solo situazioni in cui si alternano momenti infernali e paradisiaci, essendo i primi indispensabili condizioni dei secondi. In conclusione, è impossibile esorcizzare il male e conquistare, per sempre e definitivamente, il bene. E la vita va comunque vissuta, in ogni caso, per come si propone, anche nei momenti peggiori e più nefasti. E’ allora che il senso della coscienza morale giunge all’uomo come presidio e aiuto. Il rifiuto del pessimismo è saldo punto di riferimento 188

Intorno al mio lavoro filosofico, in Filosofia e Storiografia, Laterza, Bari, 1949, pp. 53-54. 189 B. Croce, La vita, la morte e il dovere, in “Quaderni della Critica”, n.19-20 (1951) p. 50. e in Indagini su Hegel, Laterza, 1952.

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soprattutto quando, in un particolare tempo storico, tutto pare sfaldarsi. Superare il pessimismo, quindi, non con l’ascesi, ma con la piena coscienza della vita nel suo tragico contesto e significato. Primato del fare, utile e morale, quindi, che si estende in tutte le svariate forme espressive, nella direzione del perseguimento della conoscenza, dal conoscere che è della poesia, a quello della filosofia e della storia. Ed in ogni caso è illusoria ogni astratta pretesa di ascesa finalistica verso la forma perfetta e conclusiva. Così si finirebbe per spezzare la dialettica dello spirito, mettendo fine alla vita stessa, sancendo il suo dissolvimento. La filosofia dello spirito implica, perciò, una sua propria circolarità dialettica. Il suo moto è niente altro che storia, una storia senza inizio né fine. La storia come vita e la vita come incessante storia quindi, che si muove, opera ed agisce di continuo. Il nuovo ed il meglio sono sempre alla portata dell’uomo, quanto lunghe vogliano essere le oscure parentesi di “caduta e decadenza”. Nella vita c’è la gioia ed il dolore: “c’è l’idillio come c’è l’epopea e la tragedia, c’è la pace come c’è la guerra; e lo storicismo, che fuga l’inconoscibile, fuga insieme l’ottimismo e il pessimismo, dando verità al conoscere, e convalidando nell’uomo la duplice ma unica forza che sempre gli bisogna, la rassegnazione e il coraggio”190. Ogni antistoricismo, e negazione della storia, di conseguenza coincide con la negazione della vita morale. La negatività è essenziale per la preparazione del nuovo e del positivo. C’è di certo grande sgomento rispetto alle tragedie della guerra distruttiva ed alle disposizioni alla violenza, al decadimento del sentimento liberale che ha dato luogo all’affermarsi di regimi dittatoriali. Eppure “chi apre il suo cuore al sentimento storico non è più solo, ma unito alla vita dell’universo”191. Il senso della storia ed il valore della storicità si configurano così come l’ultimo incrollabile baluardo rispetto all’apparente incontrastato dominio del-

190 In Lo storicismo e l’inconoscibile, “Quaderni della Critica”, vol. 2, n.5 (1946) p. 138, (1947). 191 In Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, 1945, p. 258.

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le tendenze più demoniache della vita, come “l’ultima religione”192. E’ impossibile sottrarsi al dolore della vita, ma la risposta a ciò consiste nel coraggio, nella pazienza, nella gioia del fare, “nel tornare a partecipare alla storia, dalla quale per qualche istante avevamo vagheggiato di staccarci”. Tra storicismo e moralità c’è – in conclusione – un legame inscindibile. C’è sempre un’unitaria realtà dello spirito che si dispiega verso la positività e la libertà. Per tale ragione “almanaccare che l’elemento morale in noi operi da solo è pensiero sciocco, perché, se così fosse, non avrebbe niente da operare, rinunziare alle leggi della vita per non passare attraverso i colpi e i rovesci che ci infliggono i bisogni e le necessità delle cose che si dicono naturali e di quelli che si dicono attinenti al corpo, sarebbe pensiero vile se non fosse assurdo, perché la vita organica non aspetta il nostro permesso per affermarsi e farsi valere”193. Le conquiste della civiltà non sono mai definitive, lo spettro della crisi non è mai esorcizzabile una volta per sempre e la Fortuna può, in ogni momento, intervenire a lacerare le tele “tessute dalla virtù” […] Le età della decadenza e della crisi sono quelle nelle quali prevale l’Anticristo, anche se non tutto può essere distrutto, anzitutto il sentimento di libertà, il senso degli ideali nei quali risiede la vita morale; L’Anticristo rivela il suo volto più osceno e raccapricciante, oltre che terrificante, nell’esaltazione dello Stato, del Partito unico, della tirannia, giacché si scaglia contro la libertà “contro l’individualizzamento che è la concretezza storica degli ideali” e “pone sé stesso come un universale senza individualizzamento, universale astratto”194. La libertà è dovunque, necessariamente, essendo continua conquista che opera ora tra minori ora tra maggiori difficoltà. All’altare della violenza va sostituito quello della ragione, che 192

Giuseppe Cacciatore, p. 160 di Croce e Gentileetc., op. cit., ed Riuniti. In La fine della civiltà, in “Quaderni della Critica”, vol.2, n. 6(1946), p. 307. 194 L’anticristo che è in noi (1946) p. 313, op, cit.; “Quaderni della Critica”, vol.3; n. 8 ( 1947). 193

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ha in sé pensiero e poesia, passione e forza, storia e coscienza morale. L’esistenza del male non è quindi qualcosa di “trascendibile” al mondo ed all’uomo, alla vita stessa. Se accettassimo ciò, saremmo obbligati ad un sempre più accentuato pessimismo misto ad impotenza. Bisogna invece “tornare al proprio centro”, all’operosità della coscienza morale che agisce in questa storia e non in quella che vorremmo che fosse, che non è eterodiretta da forze e potenze estranee allo spirito. In tal senso “non ci sono specifici che tengano il luogo della coscienza intellettiva e morale, o la soccorrono se non si sa soccorrere da sé”195. E’ questo concetto di libertà che impregna tutta la ricerca della filosofia moderna. La vita è nel contrasto perpetuo delle forze che contrapponendosi si scontrano tra loro. Ciascuno è responsabile dello sbocco cui tale conflitto perverrà. Croce sostiene con profonda convinzione che – nel corso della Storia – è il senso della razionalità che alla fine ha prevalso sempre contro tutte le tendenze irrazionalistiche e negative. Si è in tal modo affermato il primato dell’uomo, della verità, della libertà. In tal senso, non potrà che procedere in questa direzione l’ulteriore fase futura della storia del Mondo. Il filosofo della scienza Paolo Rossi è più volte ritornato sul problema cruciale se sia stato vero oppure no che l’idealismo crociano (e per altri aspetti Gentile, col suo attualismo) abbia soffocato le possibilità di sviluppo di una moderna cultura scientifica in Italia: “E’ vero, ma la responsabilità di questo non va scaricata solo su Croce e Gentile. Egemonia, in questo senso, c’è stata, ma non bisogna dimenticare che è stata conquistata, e non con la forza. Il che significa che non c’era, in Italia, abbastanza spessore teoretico per contrastarla. E la mancata risposta all’impostazione indubbiamente rozza del problema della scienza in Croce e Gentile dimostra che l’approccio dominante della filosofia italiana di questo secolo è stato di tipo teorico- letterario”196.

195

Pessimismo storico, in Etica e politica, p. 297; anche in ed. Adelphi, a cura di G. Galasso, 1994. 196 “Il Mattino”, 9 novembre 1991.

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Nel convegno di Orvieto197 non c’è alcuna relazione impegnata ad indagare il rapporto tra Croce e l’idealismo italiano coi problemi della Scienza. Una circostanza in ogni caso di grande utilità in cui si è riusciti a eliminare una serie di luoghi comuni tradizionali, diffusi a piene mani, condizionati di frequente da un approccio ideologico e di parte. Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca hanno, nell’occasione, insistito sulla volontà di dare luogo ad un “salto di qualità”, ad una riflessione “post-crociana e post-gentiliana”, mirando a collocare adeguatamente l’azione dei due filosofi all’interno di una funzione di “classici” della filosofia del secolo. Rispetto alla lettura di Marx, è evidente il riconoscimento – almeno originario – nel Croce del debito verso di lui a proposito del versante economico del suo pensiero quale ineliminabile aspetto teorico e storico per l’indagine della società moderna, e in Gentile per il ruolo nella direzione del recupero della filosofia di Hegel. Croce, non a caso, in una lettera al suo traduttore inglese durante la prima guerra mondiale, riconosce di essere stato “per qualche tempo socialista marxistico”, di aver subito il fascino “di quel fantasma di sogno e di poesia” che gli aveva dato l’impressione di aver messo il piede sopra una via che era la “via regia dell’umanità”. Cesare Luporini, a chi sostiene che il neoidealismo italiano sia stato una dittatura culturale che soffocò tutte le altre voci ed appiattì il dibattito su un terreno provinciale, replica che “la rinascita dell’idealismo”, propugnata dal Croce era sì l’affermazione politica di un liberalismo di destra, ma conteneva anche gli elementi di una reazione, certo italiana ma specifica, ad un fenomeno europeo come il positivismo. Giuseppe Cacciatore, nell’affrontare l’excursus del concetto di vita e vitalità in Croce, quale tratto distintivo della costante tensione del suo pensiero, reputa di rintracciare nell’opera di Croce un costante filo rosso che diviene più evidente nella maturità. La “vitalità” vi appare come la radice comune del diritto, dell’economia, della politica, come “l’integrazione necessaria 197

Il Convegno “Croce e Gentile fra tradizione nazionale e Filosofia Europea” si è tenuto ad Orvieto il 7/8/9 novembre 1991.

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delle varie forme dello spirito” decisiva come può esserlo “la molla che produce irrequietezza, movimento”198. In conclusione, è utile anche sinteticamente ricordare il rapporto continuo e privilegiato che nel tempo si stabilì tra il Croce e la casa editrice Laterza. Oltre che a pubblicarvi le sue opere, attraverso di essa Croce indicò agli italiani quali classici leggere, ed in specie indicò quali filosofi, quali storici, quali critici, fossero meritevoli di particolare attenzione. Anche in tal senso riuscì ad esercitare una grande funzione intellettuale e formativa, di collante, che incise sulla qualità delle nuove classi dirigenti destinate a svolgere nel tempo un ruolo di rilievo nella società italiana. Fu suo il primo tentativo di dare una cultura nazionale all’Italia appena unificata. Eppure non gli è risparmiato il rilievo, a lui ed allo stesso Laterza, di “provincialismo”, ovvero che avesse concorso a mantenere l’Italia fuori dalle grandi correnti di pensiero (Nietzsche, Weber, Sorel, Freud etc. ) che stavano agendo sul profondo dei substrati della cultura europea, modificandone identità e prospettive. In realtà è accaduto proprio il contrario, nel senso che Croce, nel suo fare enciclopedico, ha sviluppato un’attenzione costante e minuziosa a tutto ciò che di nuovo proveniva d’oltre confine in Italia. E sarà aperto al confronto ed alla reciproca contaminazione, proponendo, nel suo rigoroso sistema, sintetici punti d’approdo, comunque d’alto profilo, propri di una concezione della cultura mai rassegnata, recintata o contratta in alcun confine limitato. Esempi e posizioni esplicative d’inusuale acutezza e rigore di pensiero.

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Assai utile, in proposito, la lettura del volume Filosofia pratica e Filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, a cura di Giuseppe Cacciatore, presentazione di Fulvio Tessitore, Rubbettino, 2005.

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Giuseppe Di Vittorio e movimento sindacale nel secondo dopoguerra Nel novembre 1957 si spegneva a Lecco Giuseppe Di Vittorio, il dirigente più popolare ed amato nella storia del movimento sindacale italiano. Evitando luoghi comuni e semplificazioni fuorvianti, è possibile a ragione sostenere che il bracciante autodidatta ha mirabilmente rappresentato, col personale esempio di coerenza profuso senza risparmio nel corso di tutta la sua vita, l’impetuoso impulso all’emancipazione degli operai del Nord e del proletariato contadino e bracciantile meridionale. Ben presto, ancora giovanissimo, aveva scelto d’intervenire, direttamente, nella lotta antifascista combattendo nella guerra civile, coi volontari giunti in Spagna da ogni parte d’Europa e del Mondo, in difesa del legittimo potere della Repubblica mortalmente minacciata dalla sollevazione militare del generale Franco. Avendo poi aderito al Partito Comunista Italiano ne era rapidamente diventato, insieme a Togliatti, Amendola, Longo e Terracini, uno dei capi più prestigiosi ed autorevoli. L’esistenza di Giuseppe Di Vittorio è passata attraverso aspri scontri sociali e traversie innumerevoli, disastri ed illusioni, finendo per intrecciarsi, pienamente, con la vicenda storica, politica e culturale più complessiva del suo Paese e del suo popolo. Di Vittorio ha sempre inteso perseguire, nella sua lunga azione di dirigente del movimento sindacale italiano, un filo conduttore essenziale ricercando, con estrema tenacia, il costante intreccio tra strenua difesa degli interessi di parte e più generali interessi della Nazione, non facendo mai prevalere l’unilateralità dei primi sui secondi. Migliorare le insostenibili condizioni materiali nelle quali si era venuta a trovare, subito dopo la tragica guerra perduta con l’immane scia di morte e distruzione da essa comportata, una larga parte della società nazionale e, in specie, il Mezzogiorno d’Italia ed ampliare la conoscenza e la cultura delle grandi masse lavoratrici analfabete o semianalfabete della società nazionale di quel tempo i suoi principali e prioritari obiettivi.

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L’estensione capillare della conoscenza e del sapere, fin nelle pieghe più profonde delle masse operaie, bracciantili, contadine, era per lui fattore primario e decisivo per rafforzare le basi di massa della Democrazia Italiana. Il nuovo Stato, infatti, sarebbe stato saldo ed indistruttibile nella misura in cui fosse stato costantemente innervato dalla cosciente e consapevole partecipazione, attiva e consapevole, della grande maggioranza dei suoi cittadini. Fino a quel momento esso era apparso invece altro da sé alle classi lavoratrici ed anzi, non di rado, ad esse decisamente nemico ed ostile. Ora era invece finalmente possibile avviarne la trasformazione, condizionarne la direzione della riorganizzazione nel senso di un progressivo ampliamento delle sue basi di massa. Potevano essere incentivate, in maniera nuova ed inedita rispetto alla sua storia antecedente, le molteplici pluralità di forme di diretto controllo e partecipazione dal basso. Azioni volte tutte alla difesa ed all’ampliamento dei diritti primari di cittadinanza per tutti gli italiani, al di là del censo. Nella Costituzione Repubblicana dovevano essere riscritti i caratteri distintivi di un nuovo sistema politico-istituzionale basato sul più ampio e consapevole consenso popolare. Una tale democrazia, “di tipo nuovo”, avrebbe potuto respingere da sé ogni tentazione e suggestione involutiva, di segno conservatore o reazionario. Col trascorrere del tempo alcuni illuminanti ed anticipatori aspetti del pensiero e dell’opera di Giuseppe Di Vittorio, esplicitamente riassuntivi della sua grandezza d’uomo e di dirigente sindacale, avrebbero trovato forza e consenso sempre più ampi, convinti ed estesi. Il Sindacato doveva svolgere un insostituibile ruolo d’educatore permanente alla democrazia ed alla libertà. Esso doveva insegnare a praticare la tolleranza ed il rispetto verso gli altri, sollecitando e non eludendo il confronto tra le diverse idee e posizioni in campo, e doveva rivolgere il massimo della propria attenzione ai semplici, da considerare, finalmente ed a tutti gli effetti, cittadini dello Stato, portatori di legittimi diritti e bisogni da soddisfare e mai più entità passive e subalterne.

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D’altra parte tutto ciò appariva del tutto ovvio e naturale a Di Vittorio. La sua umile origine e la sua straordinaria sensibilità umana, affinata grazie alla lettura de “La Città del Sole” di Campanella e dei “Promessi sposi” del Manzoni lo confortavano della giustezza delle sue ragioni e ne rafforzavano le convinzioni progressivamente nel tempo maturate. Il disastro della Prima Guerra Mondiale, la cruda e diretta conoscenza della violenza della dittatura fascista e della lotta mortale scatenata dal padronato agrario contro i braccianti, la grande prova della militanza antifascista nello scontro feroce e senza quartiere tra dittatura e libertà, avevano concorso a temprare il carattere e le convinzioni dell’uomo. Nella più che decennale lotta per la sconfitta del nazismo e del fascismo italiano Giuseppe Di Vittorio tenderà perciò a riunire pensiero ed azione coniugando, progressivamente, la razionale ed ottimistica speranza di un futuro migliore per il suo popolo con la paziente e tenace ricerca di un nuovo e più ampio collegamento, solidale, con tutti i lavoratori d’Europa e del Mondo. Di Vittorio fu uno dei primi dirigenti della sinistra italiana a comprendere in pieno l’importanza, profonda e decisiva, dell’unità come valore in sé e criticò -più volte- gli elementi, degenerativi, che iniziavano ad apparire evidenti nella concreta esperienza pratica del socialismo reale. Non deve perciò sorprendere il constatare che nella sua visione dei modi e delle forme di sviluppo originale della democrazia italiana e nell’impegno profuso senza tregua per la realizzazione del socialismo erano da coniugare, in maniera inscindibile, i valori della democrazia e le garanzie di libertà, per tutti , al di là ed oltre le convinzioni politiche, culturali, religiose. Di Vittorio respinse l’idea di un sindacato di regime, obbligatorio, ed anzi puntò alla messa in crisi del “modello” di sindacato inteso quale mero esecutore delle direttive del Partito politico, subalterna cinghia di trasmissione del potere o dei poteri economici o politici. Era, infatti, nettamente contrario ad una visione corporativa del Sindacato, relegata alla dimensione, esclusiva, della rappresentanza dei soli interessi economico-pratici dei lavoratori iscritti ed associati.

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Il grande fronte del lavoro dipendente e dei disoccupati meridionali doveva invece costantemente armonizzarsi con gli interessi generali della Nazione cui, se necessario, andava anzi sacrificato ogni eccesso di rivendicazionismo di parte, di gruppo, di ceto. Troveremo frequentemente, assieme a semplificazioni, incomprensioni, limiti e parzialità del suo pensiero nella comprensione del tipo di sviluppo che iniziava ad interessare l’Italia, il richiamo, intransigente, al bisogno di unità tra tutti i lavoratori. L’unità era, nella sua visione, lo strumento migliore e più efficace per combattere ogni spinta settaria, lo spontaneismo irrazionale, gli angusti localismi, le posizioni corporative che – già a quel tempo- allignavano nel Sindacato. Ed era la diga insormontabile per bloccare e sconfiggere, fin dal loro sorgere, qualsiasi possibile tendenza al riemergere, nella società italiana, di processi regressivi, autoritari e reazionari. Le Camere del Lavoro dovevano operare per esprimere, in maniera tangibile, la solidarietà tra i lavoratori decidendo, a livello confederale, le strategie generali a cui le singole categorie, nel loro pratico agire quotidiano, avrebbero dovuto disciplinatamente attenersi. Bisognava dirigere, in coerenza dell’insegnamento di Gramsci, partendo da quell’impianto generale e da quei discriminanti contenuti di fondo, il processo di progressivo consolidamento dell’alleanza tra popolazione rurale del Sud e proletariato industriale del Nord. Nel 1949, nel “Piano del Lavoro” ritroveremo esplicitati e riassunti, chiaramente e sinteticamente, tutti gli elementi essenziali delle sue convinzioni. Il nemico fondamentale da battere era la disoccupazione e l’arretratezza del Sud costituiva il banco di prova principale e decisivo per le forze di progresso. Affrontare e portare a soluzione l’annosa questione meridionale, avviare a progressivo superamento le contraddizioni e le diversità nella crescita che nel tempo s’erano venute ad accumulare nella modernizzazione e nello sviluppo di quella parte del paese, questo il punto -decisivo e imprescindibile- per realizzare un più generale ed armonico sviluppo da cui avrebbe tratto vantaggio l’insieme del Paese.

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Il movimento dei lavoratori, ponendo la questione della Rinascita del Mezzogiorno al centro della propria ricerca teorica, dell’azione e dell’organizzazione della mobilitazione democratica, avrebbe dimostrato di sapere esercitare, pienamente e con coerenza, una funzione dirigente autenticamente nazionale. Di Vittorio si mostrò pienamente disponibile ad un’impostazione dell’azione sindacale che rinunciava coerentemente alla richiesta di forti aumenti salariali per gli occupati, possibile veicolo d’incremento d’inflazione, a condizione che, in cambio, iniziasse ad essere aggredita e sconfitta la dolorosa piaga della disoccupazione. Bisognava superare ogni visione protestatoria, ogni primitivismo di natura anarchica per sostituire alla funzione, non nazionale, delle classi dirigenti e dominanti che- dall’Unità in avantitanto danno e rovina avevano arrecato al Paese un’alternativa di vera solidarietà. Andava prodotta una rottura radicale con una gestione miope che, dal suo sorgere e fino a quel momento, aveva sempre spregiudicatamente e violentemente piegato lo Stato agli interessi di classi, ceti e gruppi potenti che ne avevano prepotentemente occupato i gangli vitali. L’Italia dell’immediato secondo dopoguerra, distrutta e disperata, ridotta ad un cumulo di macerie materiali e morali, doveva rinascere, risollevandosi come Nazione. Nessuno all’infuori della classe lavoratrice poteva esercitare questa funzione con eguale prestigio ed autorevolezza. Essa sola, infatti, nel corso della deflagrazione bellica aveva difeso dal saccheggio e dalla distruzione risorse e patrimonio economico, materiale, produttivo del Paese svolgendo, a fronte dell’assoluto vuoto di potere che si era determinato con la fuga della Monarchia, un’insostituibile funzione di supplenza e direzione, politica e morale. Serviva perciò una ritrovata fiducia ed una nuova dignità per riscattare il Paese dall’umiliazione dell’avventura fascista e per respingere tutte le suggestioni ed i tentativi di riaffermazione di un nuovo e dogmatico integralismo clericale. Il grande “Piano del Lavoro” fu, per questo insieme di ragioni, un’operazione di enorme rilevanza etica, politica, morale.

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Un tentativo, purtroppo non adeguatamente compreso e sostenuto, che puntava, nelle intenzioni di Di Vittorio, a suscitare nelle classi lavoratrici e nel popolo, nei disoccupati e tra i ceti produttivi, nel mondo della cultura e tra gli intellettuali, le condizioni per uno scatto d’orgoglio operoso e creativo per risorgere attingendo alle risorse ed ai valori dell’impegno, dell’ottimismo, della solidarietà. I critici di Di Vittorio trovarono il modo di irridere a questa impostazione banalizzandone, con sufficienza e saccenteria, l’essenzialità, la semplicità e la forza dei contenuti, ma ancora una volta altro non dimostrarono se non la propria persistente miopia, l’assenza assoluta di visione nazionale. Di Vittorio rimase sempre persona semplice cui erano del tutto estranee arroganze ed arroccamenti nell’esercizio della funzione, pur rilevante, di direzione che era stato chiamato a ricoprire. Era tenacemente proteso a sollecitare la discussione ed il confronto più ampi e costruttivi possibili, consapevole del fatto che la realizzazione dell’unità è percorso sempre assai complesso, tortuoso e faticoso. Era interessato al raggiungimento di un’unità reale e di sostanza, sui problemi e sulle cose, sulle scelte da compiere e sulle priorità da sostenere. In tal senso non era affatto interessato al raggiungimento di alcuna forma di unità burocratica e formale, perciò fittizia. La cruda consapevolezza dei danni prodotti dalle insormontabili divisioni che si erano consumate nei precedenti decenni tra le diverse articolazioni culturali, politiche e religiose del complesso mondo del lavoro, i drammi e le tragedie che da tutto ciò ne erano derivati, a partire dall’avvento della dittatura fascista, lo inducevano a sottolineare, di continuo, il valore immenso ed insostituibile dell’unità. In conseguenza di ciò egli ricercava, con pazienza e determinazione estrema, tutti i modi possibili per prevenire lacerazioni, che avrebbero potuto finire per risultare insanabili per le prospettive del mondo del lavoro. Assoluta era in lui la consapevolezza del fatto che - rispetto all’intransigente difesa dell’unità ciascuno doveva rinunciare, in qualche modo, ad una quota delle proprie convinzioni e, se necessario, alla strenua difesa delle proprie orgogliose peculiarità.

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Ciò non poteva però significare eludere o sbiadire i caratteri ed i valori originari, distintivi e peculiari del movimento dei lavoratori né poteva essere accettabile snaturare la sua storia. Primario ed insostituibile valore doveva restare quello dell’autonomia del Sindacato dal sistema istituzionale, dai governi, dal padronato, da tutti i partiti, compreso il suo, cui aveva aderito negli anni “di ferro e di fuoco”, nel pieno di una delle fasi più feroci della guerra di classe. In un Paese, ormai diviso in blocchi contrapposti, non era questa di sicuro un’operazione facile, semplice ed indolore. Costante era infatti il ricorso all’emarginazione ed all’isolamento del dissenso e le scomuniche non erano materia di esclusiva pertinenza delle autorità ecclesiali. La tendenza alla messa al bando degli eretici esercitava anzi una notevole suggestione nelle stesse fila del movimento operaio democratico e di sinistra. Eppure Giuseppe Di Vittorio fu coerente, difese con tenacia i propri valori e le proprie convinzioni anche quando ciò risultò per lui assai rischioso dal punto di vista personale e politico. Clamoroso risultò il suo pubblico distinguo, contro la posizione ufficiale di Togliatti e della Direzione del Partito, il 30 Ottobre 1956, all’indomani dei tragici fatti di Polonia e d’Ungheria. In quella occasione manifestò, in maniera assolutamente chiara ed esplicita, il suo profondo dissenso dalla linea assunta, a larga maggioranza, dalla Direzione del Partito. E venne così isolato dalla quasi totalità del gruppo dirigente. Posizioni solo più tardi corrette, almeno in parte, in occasione dell’VIII Congresso del PCI. Nella visione di Giuseppe Di Vittorio uno Stato che reprime, col ricorso alla violenza armata, le richieste degli operai e dei lavoratori di migliori salari e di maggiore libertà non è uno Stato né democratico né socialista. In Italia, come in Polonia ed Ungheria, per tali ragioni si schiererà nettamente, nel conflitto esploso tra Partito e Stato da una parte e movimento operaio dall’altra, al fianco dei lavoratori, difendendone l’insostituibile funzione storica progressiva. Anticiperà di molto le posizioni che, più avanti, rispetto alla nuova tragedia della Primavera di Praga e della sua dura repressione

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da parte dei sovietici nel 1968, tante altre forze democratiche e socialiste dell’Occidente a loro volta assumeranno. Giuseppe Di Vittorio si è battuto in tutta la sua esistenza per la realizzazione degli obiettivi di progresso e di libertà, per l’emancipazione dei lavoratori, per tutto il popolo, per l’insieme della Nazione. Merita perciò di essere ricordato, oltre l’inesorabile ed impietoso scorrere del tempo, ancora nell’attualità dell’oggi, per quello che è stato, un grande dirigente sindacale, un uomo semplice del popolo, un grande italiano. L’Unità, 21 Novembre 2004

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Leopoldo Cassese Leopoldo Cassese, personaggio poliedrico ed intellettuale di finissima cultura, dirige l’Archivio di Stato di Salerno dal 1934 al 1960, data della sua scomparsa prematura. Fin dall’inizio caratterizzerà il proprio impegno in maniera innovativa rispetto alle concezioni ereditate, proiettando la sua azione ben oltre il chiuso recinto in cui di norma era contratta e relegata la vita di un archivio provinciale. E’ utile innanzitutto ricordare che Cassese era laureato in lettere con un’esperienza, seppure breve, di docenza nella scuola. E, in verità, ciò non risulterà indifferente all’impronta immediatamente assunta nel suo impianto progettuale circa il perseguimento di un più stretto rapporto tra archivio e ricerca storica. L’affermarsi dell’indirizzo idealistico, da tempo in voga, aveva accentuato la tendenza a prendere le distanze dalla paziente ricerca e dallo studio rigoroso delle fonti, introducendo obiettivamente - con l’utilizzo di una tale metodologia - unilateralismi squilibrati e parzialità. Invece, il giudizio storico, secondo Cassese, per essere sempre più scientifico e fondato, avrebbe dovuto essere ancorato alle fonti ed alla certezza della loro autenticità, da lì ripartendo per ulteriori e progressivi avanzamenti. A Salerno, secondo Cassese, “mancava una vera tradizione di studi scientifici” e soprattutto c’era l’assenza di “un vero ambiente culturale”. Ciò era dovuto, come osserverà Italo Gallo, soprattutto all’accentramento ed alla centralizzazione quasi totale delle varie iniziative culturali nella città di Napoli, che in tale campo anche per la sua storia secolare - svolgeva una funzione monopolizzatrice, ed all’assenza di un’Università locale. Limite grave, che in parte verrà colmato solo più avanti nel tempo, con la nascita dell’Istituto Superiore di Magistero. A giudizio di Cassese, tra archivista e storico, tra chi sistemava ed interpretava fondi archivistici stabilendone genesi e provenienza, riconoscendoli ed inquadrandoli correttamente nel loro ambiente storico, rintracciandone i nessi giuridici con altri archivi, e lo storico, che invece doveva lavorare per interpretare con correttezza i contenuti dei documenti in relazione a valori

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non astratti ma concreti, inerenti l’affidabilità della ricostruzione critica storica, andava stabilito un filo di stretto dialogo e di collaborazione permanente.Come opportunamente sostiene Giuseppe Palmisano, nella visione di Cassese l’Archivio - ordinato o riordinato con metodo storico - è sempre una forza attiva, che suscita il fruire continuo di giudizi storici. L’archivistica in tal senso si caratterizza come disciplina autonoma, distinta ma non separata dalla storia. Insieme con quest’ultima, ed unitamente alle altre discipline affini, essa compone un sistema culturale unitario. L’Archivio è un fatto sociale tipico e complesso: tipico in quanto si riferisce ad una particolare attività, complesso in quanto rispecchia rapporti molteplici: Lavoro di équipe, reversibilità tra storia e documento. Documento e storiografia vanno considerati pertanto e necessariamente come “un sistema culturale unitario”. E tuttavia, quella laboriosa attività nel suo costante divenire non avrebbe dovuto procedere in maniera seccamente distante e separata rispetto alla realtà circostante ed alla sua evoluzione. Tenace il contrasto - a tal proposito - rispetto ad ogni concezione, di netta distinzione e di separatezza, e forti ed immediati l’impulso e la proiezione del lavoro di ricerca ben al di là del chiuso recinto in cui di norma si restringeva la vita di un archivio provinciale.Fatto storico e documento non sono “forze contraddittorie e discordi. Spirito da una parte e materia sorda dall’altra che, mediante lo svolgimento dialettico degli opposti vengono ridotti all’unità - ma (…) elementi reversibili, i quali formano insieme un omogeneo durante il quale il documento assolve ora il compito di stimolo risuscitatore di situazioni storiche e ora di prova o conferma di individuali acquisizioni”199. In gioventù Leopoldo Cassese aveva iniziato a frequentare Carlo Muscetta e Guido Dorso, ai quali per tutta la vita lo legherà una profonda amicizia. E’ pertanto del tutto possibile che tali intense e culturalmente fruttuose frequentazioni personali abbiano concorso a far maturare ed ad accrescere in lui sempre di più la convinzione della bontà e dell’efficacia di una tale impostazione. Per Cassese, il lavoro d’archivio e di catalogazione 199

L. Cassese, Del Metodo storico in archivistica, in “Società”, XI, 1955, 5.

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non poteva essere visto in maniera seccamente distante e separato dalla contemporaneità e dai problemi che in essa tumultuosi si agitavano. Il lavoro paziente e sistematico intrapreso doveva concorrere ad aprire nuovi squarci di luce e di pensiero sul presente, così che in esso si potesse agire ed operare al meglio per l’attuazione delle trasformazioni strutturali necessarie. E l’archivistica andava considerata quale scienza ausiliaria della storia, ed esaltata nella sua autonomia, mai interpretata però quale separatezza. Individuare, tra i fatti e gli avvenimenti del passato, ciò che continuava a vivere ed ad agire nel pieno fluire del presente era un imperativo ed una necessità per orientarsi al meglio nel reale e per operare in esso nella maniera più opportuna, come nel caso del rapporto tra questione contadina e Risorgimento. Anche in tal senso sostenne con convinzione latesi dell’opportunità del passaggio dell’Archivio dal Ministero degli Interni a quello dell’Istruzione. All’inizio dimostrerà un interesse prevalente per questioni di storia non contemporanea (da frequentatori di archivi), prima che più avanti la sua attenzione si concentri, in maniera sempre più forte e prevalente, sulle questioni economico-sociali temporalmente più vicine, ed in specie sulle concrete condizioni delle classi subalterne, quali apparivano nel corso degli anni appena antecedenti all’unità d’Italia ed al Risorgimento: “La storia delle classi subalterne è l’oggetto privilegiato della sua attenzione”. Da ciò lo sguardo rivolto allo studio delle condizioni economiche delle masse popolari, per la questione operaia, tema, questo, centrale e decisivo, e tuttavia studiato e approfondito soltanto parzialmente. Evidenti a quel punto una visione ed una concezione della storia, antagonista a quella - d’ispirazione crociana - intesa come “sviluppo di idee ed espressione di forze etico - politiche”. E’ la comparsa illuminante del modello e del metodo d’indagine d’ispirazione gramsciana, non la “screditata storiografia agiografica e apologetica, che si esauriva nell’illustrazione, o peggio, nell’esaltazione di questa o quella notabilità locale o di un solo gruppo di persone, preso come attore storico unico e insostituibile”. Si trattava invece di produrre un intenso e rigoroso lavorìo, organizzato e praticato in maniera collettiva tra studio-

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si, per la ricostruzione di una “storia integrale”, in quanto - come aveva sostenuto Gramsci - la storia dei gruppi sociali subalterni è ancora in larga parte “disgregata ed episodica”. La questione sociale diventerà sempre più il problema tra tutti il più importante. Di conseguenza la sua attenzione si concentrerà, e molto, sul Risorgimento, sulla sua genesi ed il suo sviluppo, sulle sue caratteristiche peculiari ed - in specie - approfondirà il problema contadino, nell’origine e nella specificità storicamente assunta. E, come acutamente sosterrà Pasquale Villani, Cassese potrà a ragione considerarsi “storico dei contadini del Mezzogiorno”. In tale contesto, più volte ritornerà la questione del conflitto - durante e dopo il Risorgimento - insorto per l’egemonia tra moderati e democratici e la responsabilità della sconfitta di questi ultimi in sostanza dovuta all’incapacità di affrontare - in maniera efficace ed esaustivo - il problema agrario e contadino200. Cassese, in sostanza, si relaziona in sintonia con l’opera di revisione della storiografia liberale avviata su queste tematiche dagli studiosi cattolici e marxisti a partire dal secondo dopoguerra. Anche nell’Introduzione al Catalogo Cassese insisterà su un nuovo modo d’impostare una mostra dell’età risorgimentale, non per evidenziare solo martiri ed eroi ma anche “le correnti d’idee, i problemi economico-sociali, lo sforzo collettivo per il miglioramento delle condizioni di vita nelle sue lontane radici, le aspirazioni verso le libertà politiche”201. Ancora una volta è Gramsci che ritorna, con le sue tesi sul Risorgimento, sulla questione meridionale, sulla questione agraria e contadina, sulle sue origini e le sue specificità.

200

Esempio dell’approfondimento, storico e filologico, profuso dal Cassese in tale direzione, è senza dubbio il suo lavoro su Contadini e operai del salernitano nei moti del’48, in “Rassegna Storica Salernitana”, IX (1948), 1-4. Per una comprensione ancora più approfondita è utile altresì la lettura parallela di La borghesia salernitana nei moti del’48, in “ Archivio Storico Napoletano”, nuova serie -vol. XXXI (1947-1949). Si può in tal modo meglio comprendere il ruolo delle diverse classi sociali nel Risorgimento. 201 In Archivio di Stato di Salerno, La provincia di Salerno nell’età del Risorgimento, Mostra documentaria, Catalogo, Salerno, Arti Grafiche Orfanotrofio Umberto I, 1957, p.5.

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Come ha opportunamente osservato Eugenia Granito, Cassese è un archivista profondo conoscitore ed interprete del Risorgimento. A suo giudizio gli archivi devono essere “promotori di nuovi indirizzi nel campo della conoscenza del passato”. E’ la passione degli storici a guidare il lavoro dell’archivista. L’archivista ha il dovere di “non perdere mai il contatto con le correnti vive del pensiero”202. Avanza così un’interpretazione, marxista, d’altro segno, ancorata alla rigorosa analisi economico-sociale, della Storia del Risorgimento nel Sud. Oltre che a Gramsci ed alle sue tesi, rivolgerà grande attenzione anche al pensiero di Piero Gobetti e dei gruppi democratici della sinistra risorgimentale. Punto di partenza è sempre l’analisi economico-sociale. Il sottosviluppo del Sud non era il suo ineluttabile destino, piuttosto la conseguenza ovvia di ritardi, limiti ed errori accumulati dalle diverse componenti democratiche che nel corso del tempo avevano operato. Cassese favorisce l’acquisizione di un’ampia mole di materiali documentari ed allarga lo sguardo a documenti non statali (catasti antichi ed atti demaniali)203. Volendo salvaguardare e conservare la memoria del passato, aveva l’intenzione di intraprendere l’immane lavoro di raccolta e di sistemazione del notevolissimo patrimonio archivistico dei diversi comuni della provincia204. 202

La citazione di Eugenia Granito è riportata da Cassese, gli Archivi e la storia dell’economia degli Stati italiani prima dell’unità, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, a. XVIII (1958), 2, pp. 202-212. 203 Il Cassese era intenzionato a raccogliere e sistemare il patrimonio archivistico dei diversi comuni della Provincia. Atto necessario ed indispensabile per l’individuazione dell’origine di frequente spuria ed impropria nei rapporti di proprietà. Questa la ragione del ricorso a numerosi furti e distruzioni documentarie per evitare che nel merito della questione, che avrebbe potuto causare dei conflitti, si potesse produrre piena luce ripristinando il legittimo stato di diritto. 204 Felicita De Negri, Leopoldo Cassese, archivista ed organizzatore di cultura, Seminari di Studio in occasione del 50° anniversario della scomparsa, L’Aquila 18 giugno 2010, Salerno 29 ottobre 2010, Atripalda (AV) 29 ottobre 2010. Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione Generale per gli Archivi, 2011. Il volume, curato da Felicita De Negri, Giuseppe Pennella, Luigi Rossi, è stato stampato a cura delle Edizioni Cantagalli s.r.l., Siena, no-

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Un intendimento che - per varie difficoltà - non porterà a buon fine e tuttavia va a lui l’enorme merito di avere evitato, durante il periodo degli intensi bombardamenti che si abbatteranno su Salerno tra il giugno 1943 ed il gennaio 1944, la distruzione della documentazione più importante in dotazione all’Archivio di Stato. Egli si attiverà con ogni mezzo per trasferire i documenti ad Atripalda (al Monastero S. Maria della Purità); In quel periodo - difficile e convulso - verranno salvati gli archivi con la documentazione del periodo fascista, seppure poi risulterà che gli atti della Federazione Provinciale sono stati in larga parte distrutti. Molta documentazione compromettente di quel tipo sarà passata al Comando di polizia segreta inglese, che, su proposta di Cassese, sarà invitata dalla Prefettura a consegnare documentazione (così da poter dare seguito all’epurazione). Le carte saranno poi trasferite non all’archivio ma alla questura. Non si trattava solo, evidentemente, di raccogliere, assemblare, sistemare la grande mole di documenti disponibili. Il punto decisivo era quello di favorirne l’interpretazione storicamente più attendibile e corretta. In tal senso sarebbe stato fuorviante evitare un tale nodo. Va perciò senza dubbio ancora a suo merito la pubblicazione di una guida storica all’Archivio di Stato di Salerno realizzata con un commento dei vari atti in dotazione, che sarà pubblicata dalla Società salernitana di Storia Patria e data in dono ai partecipanti al Convegno sulla Storia del Risorgimento205. Ulteriore e specifico terreno del suo impegno militante l’attivo e rilevante contributo fornito alla nascita ed allo sviluppo della Libreria Macchiaroli, nel centro della città di Salerno, in Piazza Malta, nel 1949. Tanti i frequentatori della libreria, che raccoglierà il meglio dell’intellettualità locale ed ospiterà nelle sue diverse iniziative intellettuali di primo piano di livello nazionavembre 2011. La lettura del volume consente una ricostruzione dei vari e principali aspetti dell’azione profusa da Leopoldo Cassese sia in tema d’innovazione nel campo della catalogazione e dell’interpretazione della documentazione archivistica che sotto l’aspetto di intellettuale militante, organizzatore e promotore di cultura. 205 Il XXXVI Congresso di Storia del Risorgimento si terrà a Salerno, presso la sede dell’Archivio di Stato di Salerno, operante dal 1939, in Piazza Abate Conforti, nell’autunno del 1957.

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le, da Elsa Morante ad Italo Calvino, da Sibilla Aleramo a Tommaso Fiore, Francesco Iovine, Michele Prisco, Renato Caccioppoli. Tra i frequentatori abituali: Francesco Quagliariello e Giuseppe Leone, Aurelio Petrone, Luigi Bruno, Mario Pini (crociani); tra i marxisti, oltre a Cassese e a Macchiaroli, anche Pietro Laveglia, Roberto Volpe, Pasquale Villani, Italo Gallo, Manlio Viola, Filiberto Menna, Roberto Visconti, Antonio Castaldi. Tanti dibattiti ed occasioni di pubblico confronto. Tra le più pregevoli le Mostre ed i cataloghi, su cui in particolare si era specializzato il Macchiaroli206. Un’esperienza che si dispiegherà tra il 1949 ed il 1953, e che lo vedrà tra i più attivi animatori. In quella sede avrebbero dovuto entrare in relazione, in un rapporto di contaminazione reciproca e feconda, innanzitutto le varie espressioni dei principali filoni di cultura a quel tempo prevalenti, da quello d’ispirazione liberale a quello crociano e marxista. E tuttavia non ci si sarebbe dovuto limitare a ciò. Lo sguardo si sarebbe dovuto rivolgere anche ai molteplici e difformi esperimenti e flussi di più recenti tendenze e sperimentazioni di cultura che, dopo la rigida chiusura del periodo fascista, dovevano favorire il pieno dispiegarsi e l’attecchire di un’azione sistematica ed incisiva per la sprovincializzazione del sapere e della cultura nazionale. Il modo più efficace, questo, per aprire una nuova finestra sul mondo, da cui introiettare l’aria nuova di una letteratura e una cultura rinnovate, ulteriori snodi e basi di partenza indispensabili per il radicamento di una diffusa crescita civile, su un terreno nuovo, insieme d’avanguardia e popolare. Una stagione appassionante, carica di grandi speranze e di un fervore straordinario, assai di rado nel futuro replicata nella 206

Tra le varie in quegli anni la Mostra su Leonardo. E’ anche il caso di ricordare il grande successo conseguito in occasione della proiezione del film di Alessandro Blasetti: “1860”, con la partecipazione del regista ed il dibattito che ne seguì. Macchiaroli continuerà, negli anni a venire, con i cataloghi e con le mostre. Tra le più importanti quelle su Leopardi (1987), su Benedetto Croce e la cultura a Napoli (1983), su Goethe (1983) e sul brigantaggio (1984). Come editore darà vita ad importanti riviste come “Acropoli”, “Cronache Meridionali”, “La Città Nuova”.

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stessa intensità, che tuttavia in breve e come per inerzia finì per esaurirsi, bruscamente interrotta nelle sue straordinarie potenzialità espansive. E’ utile ricordare che Salerno, di lì a poco, nel dicembre 1949, ospiterà l’Assise per la Rinascita del Mezzogiorno, la grande assemblea meridionale, passaggio assai importante per il rilancio e l’intensificazione della battaglia meridionalistica, introdotta da una relazione di Giorgio Amendola. Insieme con Cassese, Marcello Gigante, Pietro Laveglia, Gaetano Macchiaroli, Eugenio Della Valle, Giuseppe Martano, Armando Marone, alcuni dei principali animatori di questo ambizioso e generoso tentativo. Un gruppo che, pur proveniente da tradizioni, riferimenti e radici culturali diverse, appariva intenzionato a ricercare, più che i motivi di distinguo e di contrapposizione al proprio interno, le comuni ragioni di convergenza, di aggregazione e di coesione col comune obiettivo di concorrere al riscatto delle comunità locali e meridionali. Le differenze, date tali premesse, potevano costituire, più che difficoltà e ostacoli, o cause di separazione, straordinari fattori di ricchezza, individuali e collettivi. Ci si sarebbe dovuti confrontare, in via sperimentale, su ogni aspetto ed espressione delle diverse forme assunte dalla nuova cultura militante, nelle sue diverse discipline, dal cinema, alla politica, al teatro, alla letteratura. Tentativo ancora più ambizioso, e per più aspetti di rottura, in quanto esso intendeva dispiegarsi in una realtà d’orientamento conservatore ossificato, non certo progressista. Italo Gallo sembra condividere questa interpretazione ed esplicita pertanto un giudizio del tutto positivo della sperimentazione tentata con la nascita della Libreria Macchiaroli, promotrice tra l’altro de “Il Giovedì del lettore”. Nell’occasione, in maniera inedita e inconsueta, l’autore era impegnato nella lettura di un suo scritto, che poi veniva pubblicamente commentato. Esperienza originale, quella della “Macchiaroli” in Piazza Malta, e della ricerca di una reciproca contaminazione, che purtroppo si protrarrà solo per pochi anni, e che tuttavia rappresentò un segno importante e significativo del tentativo di una ripresa del-

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la cultura laica e democratica locale207. Ciò che avrebbe potuto essere e che invece purtroppo non avvenne, ed anzi s’interruppe in corso d’opera, anche per incomprensioni e dissapori insorti all’interno della parte più attiva del gruppo originario. Oltre agli intellettuali già citati, al progetto diedero il proprio attivo ed efficace contributo anche Aldo Falivena, con Roberto Volpe e Tullio Lenza, uno dei maggiori specialisti della letteratura moderna di quegli anni. Nel 1950 farà la sua comparsa anche un’altra rivista, d’ispirazione di sinistra, “Maestrale”, che durerà un solo anno, con la pubblicazione limitata a quattro numeri. Tra essi è il caso di ricordare quello di Roberto Volpe sul filosofo americano John Dewey. Un’altra rivista d’orientamento di sinistra, “Salerno Quadrante”, uscirà a metà degli anni ’50, ed avrà vita ancora più grama, limitandosi a due soli numeri. E’, ad ogni modo, in conclusione da considerare che nella realtà locale e provinciale non si era sedimentata una borghesia ed un’imprenditoria dinamica ed attiva, in grado di generare le strutturali trasformazioni economico, sociali e produttive invece indispensabili. Nel 1949 a Salerno troppo pochi erano i benestanti e gli operatori industriali (Florio, Tortorella; Crudele, Baratta, Ferro, Pezzullo, Amato, D’Agostino, D’Amico, Scaramella). La borghesia locale era in larga parte di estrazione terriera e portatrice in prevalenza di una mentalità conservatrice e retrograda e ciò peserà, e non poco, sullo sviluppo futuro degli avvenimenti. In ogni caso, le azioni profuse dal Cassese non erano passate del tutto inosservate. Ed anzi, il grande lavoro svolto gli era valso il plauso dell’Ufficio Centrale degli Archivi di Stato che, contattato ben più avanti nel tempo dallo stesso Cassese, nell’ottobre 1958 esprimerà il proprio “vivo compiacimento” ed il pieno sostegno all’idea di creare, presso l’Archivio di Salerno, uno specifico Centro Culturale. Dal 1954 al 1963 la nascita e lo sviluppo del “Circolo Democratico”, il primo dell’intero Mezzogiorno. Due i punti programmatici essenziali: stringere un forte e proficuo rapporto coi do207

Italo Gallo, La cultura a Salerno nel secolo XX, in “Rassegna Storica salernitana”, n.40, Laveglia Editore, pp131 e segg.

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centi e massima apertura ai giovani, grande sollecitazione al confronto tra le diverse scuole di pensiero, la crociana, la marxista, la liberale innanzitutto. Il Centro Culturale dell’Archivio di Stato sarà invece inaugurato il 4 maggio 1958. L’idea-forza essenziale che avrebbe dovuto caratterizzare l’attività del Centro Culturale ruotava, nella visione di Cassese, attorno all’individuazione d’un forte ancoraggio alle radici storiche d’una peculiare realtà e tradizione, fino alla valorizzazione d’ogni forma delle antiche memorie ricomposte, dando in tal modo nuova linfa e vitalità alla sollecitazione di rinnovati interessi di cultura. Per Cassese il Centro Culturale si sarebbe dovuto trasformare in uno strumento di elevazione permanente della coscienza civica della Provincia di Salerno e dell’intero Mezzogiorno, un riferimento importante e imprescindibile per gli uomini di cultura e per tutti i cittadini. L’idea di fondo era quella di evitare la disgregazione dell’azione dei ceti intellettuali progressivi e favorirne l’azione di collaborazione, di confronto e di coesione che avrebbe dovuto innanzitutto incentrarsi, essenzialmente, nell’affermazione di un nuovo, moderno ed avanzato meridionalismo. Un luogo libero, di libera ricerca, di studio e di confronto, capace di riscoprire, tramite un intenso e sistematico lavoro collettivo, scientificamente organizzato e perseguito con rigore, le tracce ed i filoni originari d’una antica cultura e tradizione. Le linee di un raccordo ed un’aggiornata relazione tra ciò che era antecedente e quanto era attuale. Un sussulto democratico, originale ed inedito, mosso dall’intenzione di smuovere la coscienza della realtà locale ormai da troppo tempo piuttosto intorpidita. L’azione intrapresa procedeva in parallelo con quanto s’era tentato di mettere in movimento sul tema del rilancio d’attenzione per la produzione e la ricerca storica. Era infatti ripresa, dopo l’interruzione causata dalla guerra, nel 1944, la pubblicazione di “Rassegna storica salernitana”, diretta prima da Emilio Guariglia, poi da Venturino Panebianco e dallo stesso Leopoldo Cassese, che ne era diventato responsabile nel giugno del 1945.

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Alla scuola di Cassese si sarebbero formati storici importanti come Pasquale Villani ed Antonio Cestaro. Ad essi si sarebbero in seguito aggregate altre personalità: Luigi De Rosa, Ernesto Pontieri, Raffaello Morghen, Domenico De Marco, Giuseppe Ricciotti, il medioevalista Nicola Acocella ed il rettore dell’Archivio Diocesano mons. Antonio Balducci. Nel Centro Culturale, sotto l’autorevole direzione di Cassese, vennero programmati piani di Conferenze annuali, che ripercorrevano la storia del territorio, dalle vicende più antiche e più lontane a quelle più moderne e di stringente attualità. In genere, esse venivano seguite con grande partecipazione ed attenzione, da cittadini e studenti. Tanti gli storici coinvolti, da Rosario Romeo a Franco Della Peruta, Rosario Villari, Armando Sapori, Fausto Fonzi. Solo per citare alcune tra le tante iniziative e relazioni previste per il 1959, anno di particolare fervore culturale, grande interesse suscitò quella con Fiorentino Sullo, a quel tempo sottosegretario al ministero delle Partecipazioni Statali sul tema:“Storia ed economia del Mezzogiorno tra le due guerre mondiali”, nel mese di gennaio, e di Rosario Villari “Gaetano Salvemini meridionalista” e ancora - a febbraio - la conferenza di Franco Della Peruta: “Mazzini e la Democrazia meridionale: 1831-1847” e di Romualdo Trifone, “Aspetti della questione demaniale nel Mezzogiorno”; di Fausto Fonzi, dell’Università di Roma: “Le correnti cattoliche nel Mezzogiorno dopo il 1860”(marzo). Rosario Romeo tenne, in quell’anno, una relazione sulla storia dei comuni meridionali in rapporto agli avvenimenti nazionali. Pasquale Villani presentò a sua volta una dotta relazione su “Eboli, vicende della proprietà fondiaria in un comune del Mezzogiorno nel secolo XVIII”. L’Archivio, con queste e tante altre iniziative e convegni di valore, si era indubbiamente aperto alla città e, fatto di grandissimo rilievo, gli studenti iscritti al corso di Storia, sempre più numerosi, ne avevano iniziato la frequentazione stabilmente. Cassese era fiero dei risultati conseguiti: “Il nostro centro … obbedisce ad uno scopo preciso, che è quello di prospettare i problemi essenziali della vita del Mezzogiorno nel loro processo di formazione, per meglio poter valutare i motivi profondi che li rendono ancora oggi in vario modo operanti. È chiaro che

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noi riteniamo che lo studio dei modi e delle forme del vario confluire del passato nel presente abbia un rilevante interesse per chi voglia acquistare chiara coscienza dei molteplici aspetti della vita attuale nell’incessante travaglio che mette capo alla vita futura. Quindi la nostra non è dilettantistica e rapsodica erudizione attinta a carte polverose, ma vuole essere opera di cultura, attiva, operante, impegnata, sanamente polemica, che valga a richiamare al dovere di un continuo, attento esame dei problemi, basato su testimonianze criticamente vagliate e su una moderna e spregiudicata concezione della storia. Richiamo alle fonti, dunque, che è richiamo anche agli archivi, non come meta fine a sé stessa, ma come una salutare vigilia che rende più urgente l’amore alla vita attuale e più vivo il desiderio di conquistarne i segreti. Contemporaneità perenne della storia e disciplina scientifica sono perciò i criteri direttivi della organizzazione nel corso di quest’anno”208. Comparivano più autori, verso cui mai prima di allora si era rivolto lo sguardo e l’attenzione dal Max Weber de Il metodo delle scienze storico-sociali al Dewey di Logica, teoria dell’indagine e il loro pensiero veniva indagato in maniera aperta e antidogmatica,. Ed essi avevano un posto d’eguale rilievo rispetto a grandi pensatori come Hegel, Labriola, Gramsci, Croce. Il Circolo Democratico, quasi gemmazione diretta del “Lettore”, durerà quasi dieci anni, dal 1954 al 1963, e promuoverà importanti dibattiti e confronti con personaggi di rilievo della letteratura e della cultura nazionale, da Pier Paolo Pasolini ad Alfonso Gatto, Domenico Rea, Michele Prisco, Carlo Salinari. Più avanti, negli anni ‘60, sarà pubblicata una rivista di giovani cattolici di sinistra, “Il Genovesi”, messa però ben presto all’indice dall’arcivescovo di Salerno Demetrio Moscato e poi rapidamente liquidata. Date queste premesse, il Centro, sotto la sua direzione, divenne per qualche tempo uno dei punti di promozione culturale di maggiore rilievo della città, della Provincia, dell’intero Mezzogiorno. Il Cassese stabilì rapporti d’intensa collaborazione con

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Presentazione di Leopoldo Cassese al corso di lezioni del 1959.

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la Provincia, con la Curia Arcivescovile (mons. Antonio Balducci) e con vari docenti di rilievo nazionale. L’ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, rispondendo positivamente all’invito di Cassese, tenne il 4 maggio 1958, nella Sala “Bilotti” dell’Archivio una lezione sul tema “Ricordi di uno studioso negli Archivi”. Intenso, illuminante, appassionato il saluto rivoltogli nell’occasione da Cassese: “il Mezzogiorno, come in altri settori della vita civile, anche in quello umbratile degli archivi é animato da una profonda volontà di rinascita, la quale, come sempre avviene nelle grandi svolte della vita delle nazioni, ricorre alla storia per attingervi consapevolezza, esperienza e quindi forza morale nella lotta per il conseguimento di più alte forme di vivere civile”209. Nell’impostazione di programmazione, veniva privilegiata, in conclusione, l’analisi d’insieme della concreta situazione del Mezzogiorno nei suoi distinti aspetti, dell’origine e delle ragioni di fondo dei vari problemi irrisolti che in esso si agitavano. Da tale impianto si partiva per proiettarsi poi nei dettagli più reconditi della storia locale, della sua genesi, delle molteplici ragioni alla base dei vari conflitti periodicamente insorti, delle loro particolari e distintive caratterizzazioni e peculiarità. Grande il rilievo assunto, come in precedenza si è accennato, allo studio dei problemi sociali ed economici e un’accentuata attenzione veniva rivolta anche alle scienze sociali, oltre che all’idealismo ed al marxismo. E tuttavia iniziative, anche lodevoli e di qualità, come quelle che sono state appena ricordate, capaci a primo acchito di aggregare forze qualitativamente significative e pure di una qualche quantitativa consistenza, dopo una fase in genere relativamente breve, lungi dal radicarsi stabilmente, finiranno per regredire ed alla fine spegnersi. Più avanti, infatti, anche personalità eminenti, salernitane di nascita, destinate a rivestire un ruolo di primo piano a livello nazionale, nella cultura, nella poesia, nella letteratura, saranno in genere costrette - di frequente - ad agire in altre realtà e città italiane più recettive e in grado di riconoscerne il talento. 209

Discorso introduttivo di Cassese, 4 maggio 1958.

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Il meglio dell’intellettualità locale, come opportunamente rileverà Giuseppe Foscari210, opterà per la scelta di escludere un proprio diretto cimento nell’agone politico, “dove la “ purezza” dell’uomo colto è notoriamente destinata ad entrare in conflitto con gli “accomodamenti” di crociana memoria imposti dalla gestione amministrativa e politica di una città e dalla fisiologica esigenza di trovare formule di mediazione politica e di compromesso moralmente accettabili” 211. Allo stesso modo per ciò che concerne le rigorose leggi della fisica, risulta evidente come un qualsiasi vuoto finisca per essere colmato, quasi istantaneamente, da forze d’altro segno. Non è pertanto casuale il fatto che, in assenza d’una iniziativa e d’un proprio proporsi in via diretta nella gestione della cosa pubblica, altri soggetti, non di rado di ben più mediocre caratura, negli anni a venire rispetto a quelli ricordati, finiranno per svolgere un ruolo importante di supplenza, centrale e di rilievo, seppure non di rado pernicioso per il destino delle comunità locali. Ne deriverà un obiettivo impoverimento, che non di rado condurrà - in certe fasi - ad uno snaturamento e ad processo di autentico, inevitabile degrado della vita pubblica. Si avranno casi assai emblematici, da quelli del poeta Alfonso Gatto e del filosofo Nicola Abbagnano, a quelli di docenti assai apprezzati, Sanguineti, Gabriele De Rosa, Valentino Gerratana, Biagio De Giovanni, solo per citarne alcuni che, pur insegnando nell’Università locale, in conclusione non riusciranno ad integrarsi organicamente, pienamente e con continuità nel tessuto locale e nella specificità dei processi di mutazione in atto. E ciò costituirà un limite evidente nel perseguire il salto di valore indispensabile rivolto ad inserire la realtà culturale e le istituzioni formative locali nell’alveo del circuito d’eccellenza, della cultura nazionale ed europea. Né sarà superata, nel corpo dei docenti intermedi, pur non di rado d’alte capacità scientifiche, l’annosa tendenza, propria della tradizionale storia dell’intellettualità italiana, e in specie meridionale, a rinchiudersi in ristrette conventicole, per lo più sepa210 G. Foscari, Un cenacolo di viva cultura a Salerno, “Rassegna Storica Salernitana”, 1997, n29, pp.197 e seg. 211 Giuseppe Foscari, cit, p.197.

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rate, quasi fisicamente, dal contesto sociale ed economico d’insieme della realtà locale. Un vizio, se coniugato ad un’evidente difficoltà o non disponibilità ad esercitare pienamente, costantemente ed efficacemente la funzione di sollecitazione critica sulla politica e sulle istituzioni, che ha segnato, in maniera dirimente, la peculiare storia della realtà locale, regredita in tal modo di frequente verso chiusure municipalistiche e neocorporative. Per questa ragione, l’assenza di simbiosi e integrazione tra ceti intellettuali e società, non si è inciso a sufficienza né è stato favorito il ricambio, fisiologicamente necessario e indispensabile, del personale politico, economico, amministrativo più volte non selezionato in relazione ai requisiti di comprovata competenza e professionalità. E tanti problemi persistono irrisolti. Discorso questo, di necessità, appena fugacemente tratteggiato, che obbligherebbe a ben altri approfondimenti, che evidentemente non è il caso di sviluppare in questa circostanza, e che tuttavia - essendo ancora oggi questione dirimente - continua puntualmente a riproporsi, con una sua frequente e ciclica scadenza ed una sua stringente attualità. In conclusione, non è azzardato sostenere che, a un certo punto, si è determinata una cesura ed una brusca interruzione di un percorso attivamente promosso ed animato da un uomo di cultura e da un intellettuale come Cassese di altissimo profilo. Un uomo, ed un intellettuale persuaso della necessità dell’autonomia della ricerca e del suo rigore, di una visione della storia, e della cultura, da non strumentalizzare per gretto spirito di parte e da non piegare mai alle esigenze di lotta politica o propaganda contingente. In ciò l’insegnamento tra tutti più valido ed attuale. Esperienze, di grandissimo valore, mai prima istruite né sperimentate in sede locale, purtroppo si concluderanno in larga parte in concomitanza con la prematura morte di Cassese, avvenuta a Roma il 18 aprile 1960. Ancora non aveva compiuto i 60 anni, lasciava un grande vuoto.

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Carlo Levi212 (Torino 1902- Roma 1975) Autore letterario e pittore di poliedrica cultura, dalla sensibilità affinata e fuori dal comune, in grado di mischiare, in maniera mirabile, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, una scrittura limpida e graffiante, in grado di approdare a stadi assai elevati di autentica poesia, ed ancorata sempre ad una denuncia sociale- circostanziata e acuta- che s’innesta sulla raffigurazione di un antico e non rimosso dolore secolare. E’ la forma, peculiare e per più versi innovativa, in cui Carlo Levi propone la sua opera alla pubblica attenzione, in Italia, in Europa e poi nel mondo intero, quale intellettuale militante, integralmente immerso nel reale, critica coscienza non astratta o separata dal rapporto con le diverse contraddizioni della vita, nel suo diseguale e convulso scorrimento, ed anzi calato a pieno dentro la cruda realtà di ampie aree di un mezzogiorno interno segnato da tempo immemorabile da immobile, inalterata fissità. Un osservatore, acuto e appassionato, di ogni frammento della realtà che lo circonda, un’anima inquieta intenta ad esplorare, fin dentro le pieghe ed i segmenti più profondi, la società agraria e contadina, nell’ancestrale, secolare fissità, per sempre inalterata ed eguale nei suoi riti e nelle ossificate consuetudini ossessivamente replicate. Il racconto di Levi scava, fin dalle prime pagine, dentro le pieghe più profonde degli usi e dei costumi di un’umanità umiliata, silente e inalterata nella sua struttura, ferita a dismisura dall’arrogante boria dei poteri che violano- senza ritegno alcuno- ogni e qualsivoglia aspirazione, di dignità e rispetto, degli “ umiliati e offesi”213.

212 Questo breve saggio è stato presentato e discusso a Caserta, presso la Libreria Feltrinelli, il 12 Novembre 2015, nell’ambito delle conferenze annuali promosse per il 2015 da “Le Piazze del Sapere”, in collaborazione con la rivista Aislo. 213 Il Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino, 1945, avrà, più avanti nel tempo, una diffusione ancora più ampia e capillare grazie all’omonimo film diretto, nel 1979, da Francesco Rosi. Nell’opera la parte di Carlo Levi è interpretata da Gian Maria Volontè.

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Levi cresce nella Torino colta ed impegnata dei primi decenni del ventesimo secolo, ed è testimone autentico della cultura del Novecento con le sue evoluzioni. Figlio di un’agiata famiglia ebraica, assai giovane consegue la laurea in medicina, professione che eserciterà per 4 anni, prima di dedicarsi intensamente alla pittura. Dal 1922, nella fase convulsa dell’avvento del fascismo in Italia, collabora a “La Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti e poi più avanti, negli anni trenta, è attivo nell’azione antifascista ed è tra gli estensori del programma del movimento “Giustizia e Libertà”. Ferma e intransigente l’opposizione al regime, un atteggiamento che, nell’agosto del 1935, a Torino, ne causerà l’arresto. Dal capoluogo piemontese verrà inviato al confino di Grassano, in provincia di Matera, dove resterà per 9 mesi. Poi, dall’8 settembre del 1935 al 26 maggio 1936, verrà trasferito ad Aliano, ( la Gagliano del “Cristo”) un paesino del materano ancora più isolato e inospitale di quello precedente. E sarà questo lo scenario, e il desolato sfondo, da cui avrà origine la raffigurazione di quel mondo remoto, stregonesco ed umanissimo raccontato nel “ Cristo si è fermato a Eboli”. Il libro verrà scritto durante la lotta partigiana, nella fase di interregno, tra il 1943 ed il 1945, con l’utilizzo di numerose note, appunti, disegni e quadri realizzati durante i mesi di confino. L’opera di Levi darà poi luogo ad un intenso e appassionato dibattito in cui, insieme ai giudizi prevalenti ed ampiamente positivi, si troveranno anche valutazioni critiche e polemiche, tendenzialmente negative. Tali, ad esempio, la tesi espressa da Mario Alicata che lo accuserà di “avere trasportato su piani metafisici e misticheggianti la questione contadina nel dopoguerra, uno degli argomenti di fondo della lotta politica meridionale”214. Ed ancora il dirigente comunista e critico letterario, pur riconoscendo la forza e l’efficacia della denuncia sociale di un’opera “ senza dubbio artisticamente molto originale”, tuttavia non gli risparmierà il rilievo secondo cui : “ dall’altra parte c’è l’enunciazione di tesi senza consistenza teorica, nelle quali 214

M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, In Scritti letterari, Il Saggiatore, Milano1968, pp.309-330.

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si rileva chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale, e le vie per le quali ciò potrà avvenire”215. Critiche allo stesso modo sferzanti e ingenerose quelle di Luigi Russo, secondo cui l’opera di Levi “era pervasa da una “estraneità” nei confronti delle condizioni di vita dei contadini lucani”216. Di ben diverso segno invece l’opinione, d’apprezzamento esplicito, di Italo Calvino e di Jean Paul Sartre217. In realtà lo scrittore che per la prima volta ha preso contatto con una realtà nuova, per più versi sconosciuta, con un iniziale stupore e stordimento, ben presto percepisce come- dentro la sua coscienza- inizi a subentrare un nuovo, vitale dinamismo, una subitanea conquista di senso e consapevolezza. Una più piena comprensione del reale, simile ad un’illuminazione folgorante, che lo indurrà ben presto a ritenere che non si può restare estranei, indifferenti e inerti se un tuo fratello, un altro essere di un mondo separato, fino a quel momento per larghi tratti ignoto, è stato condannato ingiustamente dall’arbitrio di poteri secolari ad un presente e ad un futuro gramo, di miseria, d’estrema sofferenza, fisica e morale, di una profonda, assoluta povertà che non ha eguali. 215

Mario Alicata, Il Meridionalismo non si può fermare a Eboli, in “Cronache Meridionali” n.5, 1954, poi in Scritti Letterari, Il Saggiatore, 1968. 216 L. Russo, Il pittore nella valletta amena 81961, Belfagor, a. LI, 1996, pp.55-58. 217 Italo Calvino, nel suo Saggio introduttivo al Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, p.IX-X invece sosterrà :” C’è nel libro un alto livello intellettuale, vi si respira la cultura europea in cui Carlo Levi ha affondato le sue radici, diciamo la cultura europea fino a quell’epoca, fino alla seconda guerra mondiale; c’è la passione di sistemarne tutti i dati di un discorso coerente, e non ancora il timore di spezzare l’armonia di una sistemazione con nuove acquisizioni, con nuove messe in questione … la peculiarità di Carlo Levi sta in questo. Che egli è testimone di un altro tempo all’interno del nostro tempo”. Jean Paul Sartre, a sua volta, a pag.XV del suo Saggio introduttivo su Cristo si è fermato a Eboli, osserverà che :” Egli sa farci vivere, nei suoi scritti come nella sua conversazione, al di là dei significati, il senso ambiguo della nostra epoca … In Levi tutto si accorda, tutto si tiene… per una sola ragione, l’immenso rispetto della vita”

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E’l’antica ingiustizia, e l’autentico oltraggio all’umana dignità, da riportare in superficie, e da mostrare agli occhi increduli del mondo, da annullare e rimuovere del tutto con un comune, appassionato impegno collettivo. Il prodromo di un approccio militante, che ora si cala pienamente nel reale. Rappresentazione di certo assai efficace ed impietosa, che poi sarebbe dovuta risultare immediatamente utile all’azione. E non a caso, nel “ Cristo si è fermato a Eboli” venivano usati lucidi, crudi e sintetici concetti esplicativi : “ Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”218. Sua intenzione, quindi, come ancora osserverà Italo Calvino, è quella di squarciare un velo di omertà e di rappresentare una realtà rimossa, silente, sommersa e ignota a larga parte del paese. Levi intende in tal senso essere un testimone attivo “della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo219”. L’opera letteraria di Levi, che si dipana contemporaneamente e in parallelo nei segni simbolici e graffianti della sua pittura, è un grido di accusa - acuto e sibilante - e di realismo, che squarcia la coltre, spessa e inestricabile, d’indifferenza diffusa e negazione, riuscendo a consuntivo nell’impresa di causare un repentino salto di consapevolezza collettiva. Opposizione stridente, ed un contrasto netto, alla retorica vacua e inerte, di testimonianza flebile, di raffigurazioni astratte, che nel corso del tempo si sono in vario modo e sempre inefficacemente succedute. Un intellettuale che, costretto al confino dal fascismo in una condizione di assoluto isolamento, politico e civile, col suo doloroso affresco di realtà, concorre a proporre con durezza e senza edulcorarlo il nodo del problema, vitale per un paese unificato di recente soltanto sulla carta. Le note di Levi rendono evidente come, in netto contrasto coi trionfalismi di regime, persi218

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Edizione 2005, pag. 3 Prefazione di Italo Calvino, in C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, op. cit., pp. X-XII.

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stano stridenti diseguaglianze, antiche ed acutissime, innumerevoli ingiustizie che da tempo immemorabile si trascinano irrisolte e mai sanate. Un paese in cui, in un’area territoriale estesa, da secoli si continua a morire- inesorabilmente- per infezioni e malattie, come la malaria, altrove da tempo efficacemente e completamente debellate. Di contro, “La magia popolare cura un po’ tutte le malattie; e, quasi sempre, per la sola virtù di formule ed incantesimi”220. Nella realtà accuratamente descritta da Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”, così come nei suoi quadri e nei disegni, si esplicita un potente atto di accusa contro una classe dirigente colpevole, miope ed inetta, che per incuria e indifferenza- e per egoistico spirito di parte- ha relegato, nella segregazione estrema e più assoluta, propri fratelli e figli, mai nella realtà divenuti tali. Lo scrittore fotografa, su carta e sulla tela, l’estremo degrado e lo squallore di ampie aree del mezzogiorno in cui nei periodi invernali “ non arrivavano i giornali né la posta, per la neve che chiude le strade : l’isola tra i burroni aveva perso ogni contatto con la terra. Il mutarsi dei giorni era un semplice variare di nuvole e di sole : il nuovo anno giaceva immobile, come un tronco addormentato 221”. Il paese rappresentato da Levi diviene così la realtà sospesa, immobile, fissa e senza tempo che lacera la pelle e la consuma, la cruda, pietrificata dimensione da cui non si può più in alcun modo fuoriuscire. E che penetra, ben oltre la superficie, nei nervi, nel cuore, nella carne e nell’anima del mondo. Intorno tutto è fermo, ed ogni azione o movimento umano appaiono segnati- di per sè- da un torbido e inalterabile destino, già in precedenza scritto da una mano ignota e inesorabile, completamente ostile. Una realtà che è stata progettata da una divinità potente, priva di comprensione e di pietà, in cui è la norma vivere in condizioni di estrema povertà, in squallidi tuguri o grotte insieme agli animali, privati del diritto di essere curati di epatite o di malaria, 220 Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1990, op. cit, p.209 221 Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1990, p.184

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un regno recluso e segregato dove la miseria si miscela con l’analfabetismo, unici tratti peculiari e distintivi. Straordinaria l’efficacia delle immagini, la conseguente presa sul lettore, l’emozione che trasuda da ogni pagina, l’esplicita percezione dell’intensità del richiamo ai concetti, antichi e sempre attuali, di libertà e di giustizia, violati impunemente con l’arbitrio e tuttavia per la civiltà dell’uomo sacri diritti inalienabili : “ Gli dei dello Stato e della città non possono aver culto tra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee …222”. E’ il personale approccio, linguisticamente raffinato, pieno di apprensione e di rispetto per un mondo diverso e per più versi oscuro, separato, non immediatamente penetrabile, pulsante di molteplici forme di culture pagane antiche e millenarie, di riti e consuetudini sedimentate quale supplenza alle delittuose, continuate assenze dei pubblici poteri. Difesa ed argine, parziale e insufficiente, frapposto all’imperante nulla. Passività, presenza dominante di un fato inesorabile che permea di sé lo scorrere del tempo, antica divinità ostile, nefasta, inalterabile, almeno all’apparenza unico, inevitabile, destino. Lo scritto di Levi è come una frustata, che incide nelle carni, che fa giustizia di ogni conformismo, d’ogni luogo comune. Poesia e pittura gli avevano fornito i mezzi per comunicare immediatamente sensazioni, idee, sentimenti e ne era scaturita una trasfigurazione espressionistica del paesaggio lucano e dei suoi misteriosi e magici volti. L’arte che poi si sarebbe dovuta trasformare in uno strumento potente di coscienza e di mobilitazione consapevole. La narrazione, nell’intero sviluppo della trama, non si esaurisce tuttavia nella cruda rappresentazione scarna del reale, ed anzi esalta, riscoprendoli, insieme alla miseria, i segni di una straordinaria e antica civiltà, eguale e circolare nei suoi riti, nell’aggiornata riemersione di trascorse, originali identità. La 222

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, nota introduttiva, Einaudi, Torino 1990, op.cit., pag. 68

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rappresentazione, di un tempo circolare e di un’idea, inesauribilmente e quasi ossessivamente replicata, che non smarrisce né disperde mai le specificità e la forza d’una sua storia originale, che si tramanda e si mantiene intatta tra le generazioni. Il concetto di tempo, e di circolarità che, in differenti forme, seppure similari, per vari aspetti ritornerà nell’opera di uno straordinario scrittore sud americano, Gabriel Garcia Marquez. La prosa di Levi procede sicura e rettilinea nel suo corso, con nitidezza estrema e senza smagliature. All’inizio in apparenza lenta e cadenzata, quasi dosata con cautela, in equilibrio coi ritmi ed i tempi dell’ambiente, poi sempre più sicura e coinvolgente, e poi alla fine quasi si confonde e s’integra in un corpo solo coi tratti distintivi di lirica poesia. E che- nel suo percorsonon smarrisce mai il solido ancoraggio alla rappresentazione della terra nera, all’umanità dannata che la popola in quelle contrade sperdute e desolate, di un meridione aspro e separato dall’infinito, ininterrotto fluire della storia che nel suo incessante procedere si compie. Il tema è proprio quello di consentire ai contadini, che popolano quelle terre da tempi immemorabili, di rientrare- a pieno titolo e da protagonisti- nel turbinoso corso della Storia. In tal senso, questo il contrasto netto, nelle pagine di Levi non c’è rassegnazione o resa che prevale, quanto piuttosto un’ansia ed un potente desiderio di riscatto, antico sentimento mai placato, di una nuova, percettibile giustizia che è il tempo d’affermare nel reale. Un grande artista, ed un intellettuale, certo, ma anche e soprattutto un moderno, tenace combattente che a un certo punto sceglie con decisione, calandosi a pieno nel mondo contadino, da quale parte stare. I contadini di quelle terre arse dal sole, ed al contempo brulicanti di ogni possibile e magica bellezza superiore, invadono ed occupano con forza di nuovo il centro della scena. Monti, burroni, boschi favolosi, casolari in rovina, anfratti irraggiungibili, luoghi della memoria dell’unica guerra ( quella del brigantaggio) che in passato, con grande passione e con coraggio estremo, anche affermando in certe circostanze il proprio dominio

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violento con la jacquerie, avevano combattuto le classi subalterne. Ora non è più solo la denuncia, né il lamento sterile, o la selvaggia ribellione che con una improvvisa fiammata ritiene, vanamente, di potere in qualche modo risarcire, in un istante solo, quelle figure nere, arse dalla calura, coperti di calce e di polvere di zolfo, di secoli e secoli continuati di soprusi. Un moderno combattente del pensiero che, con gli scarni e limitati strumenti a sua disposizione, con l’uso della parola scritta e della voce, coi suoi disegni ed i suoi schizzi, lavora alacremente per iniziare a ritessere una trama d’una rinnovata umanità in cerca del riscatto da troppo tempo vanamente atteso 223. In questo intenso, convulso percorso di coscienza, grande è l’affetto e la profonda sintonia spirituale con chi si ritrova sulla stessa onda, con chi ha iniziato a sua volta a cimentarsi ed ad agire nel concreto, altrove, in modo similare. 223

Carlo Levi, oltre alle opere già citate nel presente testo, è autore di ulteriori ed importanti scritti tra i quali è il caso di ricordare almeno : Paura della libertà, Einaudi, Torino, 1946, un’opera scritta a Parigi subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Essa contiene un’efficace analisi teorica sull’aspetto idolatrico delle istituzioni moderne, pronte a recuperare la primitiva bestialità, che genera mostri e sangue dopo aver prodotto uomini indistinti. Concetti in parte ribaditi ne L’Orologio, Einaudi, Torino,1950. Il libro, del 1948, è un testo sinteticamente riassuntivo della nuova situazione venutasi a creare all’indomani del crollo del regime con l’avvento dell’annoso potere democristiano che segnerà nei decenni a venire la storia del paese. Il testo si concentra sul periodo intercorso dalla fine del Governo Parri alla nascita dei governi De Gasperi ed è tra le maggiori testimonianze storiche di tutto l’Italia del dopoguerra. Del 1956 è Il futuro ha un cuore antico, Einaudi, Torino, 1956, un resoconto- con taglio giornalistico- di un viaggio in Russia, nel paese del “ socialismo reale”. Nel 1993, a Roma è stata allestita una delle sue numerose mostra pittoriche con lo stesso titolo del libro. Una serie di suoi scritti, composti tra il 1945 ed i primi anni ’60, sono stati più avanti raccolti nel volume Le mille patrie- Uomini, fatti, paesi d’Italia, Donzelli Editore, Prefazione di Guido Crainz, Roma 2015. Attualmente, presso il Palazzo Lanfranchi di Matera, a cura del Polo Museale della Basilicata, è possibile ammirare la bellissima mostra: “I Sassi di Matera - Viaggio in Lucania con Carlo Levi”, anche con una serie di fotografie di Mario Carbone. Un dovuto atto di omaggio alla memoria, a 40 anni dalla sua scomparsa.

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Per concorrere a definire un tratteggio ancora più compiuto di una personalità ricca come la sua è il caso in conclusione di osservare come l’opera di Levi appaia costantemente impregnata da una straordinaria ed assai intensa umanità. Ne sono un esempio, che è giusto anche solo per rapidi accenni a questo punto ricordare, le frequenti attestazioni di affetto, la stima, l’amicizia, la sintonia e la solidarietà, portate ai propri amici, a quanti condividono il senso più profondo dell’azione e della battaglia che conduce. Assai forte in particolare appare il sentimento che lo lega al giovane poeta lucano Rocco Scotellaro224, autore di “ Contadini del Sud”, considerato il primo saggio sociologico sui contadini meridionali e de “ L’Uva puttanella”, nella cui prefazione Levi ne rappresenterà la fisionomia in questo modo :” Mi venne incontro un giovane piccolo, biondo, dal viso lentigginoso che sembrava un bambino”. Rocco considerò sempre Levi come un fratello maggiore, fu suo prezioso compagno di viaggio per le contrade e le montagne calabresi, ne condivise- nel corso della sua breve vita- l’intensa passione politica e civile. Allo stesso modo esplicative le espressioni, di grande ammirazione, verso Danilo Dolci, esempio d’impegno militante senza eguali, più volte indicato quale limpido riferimento positivo e da emulare. E’ un rinnovato senso, condiviso, di socialità, e di patria, che ai particolarismi e agli egoismi gretti antepone la superiorità dell’interesse generale. C’è la netta volontà di rientrare in piena sintonia con una nazione che finalmente, dopo le immani sciagure accumulate, ha finalmente ripreso il suo cammino ed è di nuovo in grado di scrivere una diversa pagina di storia, nel solco di una nuova idea di libertà. In “Cronache Meridionali” è esplicito il richiamo ad uomini tanto meritevoli, semplici, altruisti, generosi, a Danilo Dolci ed al suo sguardo, particolarmente ardente e appassionato.

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Giovanni Russo, Lettera a Carlo Levi, Editori Riuniti, Roma, febbraio 2001, rappresenta in questo modo Rocco Scotellaro : “ Era rosso di capelli, il viso coperto di efelidi e quando incontrava qualcuno coi capelli come i suoi lo abbracciava perché pensava che tutti quelli che avevano capelli rossi erano suoi fratelli. Il suo volto era sempre illuminato da un grande sorriso”

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Il tema dell’Assise di Palermo, del Novembre 1957, è in tal senso, di particolare significato e pregnanza in quanto è il diritto al lavoro ed alla piena occupazione al centro della discussione. Nell’occasione si esplicita la tesi dell’urgenza d’una incisiva azione combinata, dall’alto- tramite l’azione di un governo ispirato da una visione progressiva, e dal basso, per mezzo di un’iniziativa diffusa e capillare, da predisporre e sviluppare comune per comune, con il concorso di ogni possibile energia. L’impegno collettivo dovrà portare all’individuazione di concrete possibilità rivolte a realizzare, ovunque, considerando le specificità dei differenti punti di partenza, l’obiettivo della piena occupazione225. Al lavoro va ridato il valore e la centralità che per davvero ha, quello dell’affermazione della piena dignità della persona. E che si realizza solo se si dispone di quello specifico strumento inteso come affermazione di diritto universale, e da ottenere senza elargizioni da parte di clientele detentrici del potere. Il lavoro è la leva decisiva per trasformare nel profondo la realtà, mettendo finalmente fine a secoli di abusi, violenze, prevaricazioni. Tra tutte le parole usate quelle più dure ed incisive coincidono con l’atto di accusa rivolto ai ceti primi responsabili, ed unici, di ogni somma di oltraggio e di dolore conosciuto. I feudatari, figure senza tempo, rimaste eguali a quelle di mille anni prima, ispiratori cinici e mandanti di stragi ed uccisioni di gente inerme, altruista, generosa. Le frasi della madre di Salvatore Carnevale equivalgono ad implacabili sferzate, eterno atto d’accusa incancellabile. La donna, ricoperta da uno scialle e da un vestito nero, nel suo infinito, indescrivibile dolore, che richiede a gran voce la dovuta, postuma giustizia, riporta alla mente le solenni, immortali figure della tragedia greca. Il segno e l’immagine più chiara e indiscutibile che è ormai arrivato il tempo di ridare il giusto valore ai fatti, alle cose, alle parole. Il suo grido è altissimo, limpido, assoluto, e pretende l’applicazione, seppur tardiva, di quanto le è dovuto. 225

L’intervento di Carlo Levi, tenuto al Teatro Politeama di Palermo durante l’Assise dell’1-2-e 3 Novembre 1957, sarà pubblicato integralmente nel numero 12, Anno IV, della rivista mensile Cronache Meridionali, Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore, stampata nel dicembre 1957.

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Una madre in nero, che parla del figlio morto con grande dolcezza ed in maniera cruda, dura e spietata nella potente accusa, inarrestabile come un fiume in piena. E che più avanti apparirà, allo stesso modo, al braccio di Pertini, futuro Presidente “un uomo giusto”, che ha accettato di rappresentarla nel processo e che a suo nome chiederà di risarcire, con atto di giustizia, quel dolore immane. Plastico e potente esempio, anche nella simbologia, di quel sentimento, antico e sempre attuale, ancora assai lontano dall’essere esaudito, di una più grande e più diffusa giustizia e libertà, la riconquista di senso di quella parola che non a caso è detta “umanità”. Le parole sono pietre sono un resoconto di tre viaggi in Sicilia tra il 1951 ed il 1955; Nessun titolo avrebbe potuto risultare più efficace, pregnante ed esaustivo. E tali senza dubbio appaiono le frasi utilizzate dalla donna in nero, Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, ucciso da mano mafiosa in un agguato. “… Francesca Serio, ferita nelle viscere sue antiche di madre mediterranea, invece di ripiegarsi su sé stessa nella tragica disperazione che l’annienta, trasferisce la sua furia nella ragione : l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole- quelle parole che diventano pietre- in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo, e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un “ linguaggio eroico”226. La madre, salutando Levi, ha chiesto allo scrittore di scrivere la storia di suo figlio, “il romanzo” della morte del suo unico figlio: “ Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, eguale, nera”227. Altro, ulteriore esempio della possibilità concreta di realizzare finalmente il riscatto delle classi più emarginate e subalterne l’emblematico episodio di Lercara, un comune in provincia di Palermo. Nel paese siciliano, nella miniera di proprietà di Ferrara, detto Nerone 228, gli zolfatari indicono uno sciopero che si protrarrà 226

Prefazione di Vincenzo Consolo a: Carlo Levi, Le parole sono pietre, Giulio Einaudi Editore, 1955, 1975, Prima Edizione “Saggi”, pag.XII. 227 Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, op. cit.; pag.156. 228 Carlo Levi, Le parole sono pietre, op. cit., pag. 51

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per oltre un mese. Il loro primo sciopero, occasione di uno straordinario scatto di coscienza collettiva, l’esperienza che consentirà loro di entrare “ nel mobile fiume della storia”. La causa scatenante della protesta è da individuare nel sacrificio sul lavoro di un giovane di 17 anni, Michele Felice, morto schiacciato da un sasso dentro la miniera: “ Alla busta paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata … e ai cinquecento minatori venne tolta un’ora di paga, quella in cui avevano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce …. Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò”229. Durò venti giorni, prima di riprendere. Ad esso si rispose coi licenziamenti di rappresaglia. Poi “furono presentate precise richieste in termini di salari, assicurazioni, sicurezza, libertà di organizzazione; e continuava ancora, né si poteva prevedere come sarebbe finito”. I lavoratori erano fieri e fiduciosi, “ e sicuri di vincere, e felici di essersi scoperti come esseri umani e liberi, felici di una felicità nuova, commossa e commovente su tutti i visi. Erano facce nuove, facce di oggi … fino a ieri nascoste, che vedevano sé stessi”. Frasi secche e penetranti, piene di sdegno e assai efficaci, quelle di Levi. Lo sciopero continuò, terminando col pieno successo dei minatori ed il padrone fu costretto a venire a patti cogli zolfatari. Non era mai successo prima! Da quel momento iniziò la sua decadenza irreversibile. Fu celebrato un processo contro 4 dei suoi aguzzini controllori, responsabili di gravi maltrattamenti verso i lavoratori, ed essi vennero riconosciuti colpevoli e condannati. La figura di Carlo Levi si muove all’interno di un filone letterario e di pensiero che sembra avere la sua originaria ispirazione nel verismo di Giovanni Verga e che procede, in progressione, collegandosi idealmente al De Sanctis del viaggio-inchiesta elettorale lungo i sentieri dei paesi dell’avellinese, fino alle di229

Carlo Levi, Le parole sono pietre, Prefazione di Vincenzo Consolo, p.X., Einaudi, Torino, 2014

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ramazioni lucane del poeta Rocco Scotellaro e siciliane del sociologo trentino Danilo Dolci che, nel suo mirabile libroinchiesta “Banditi a Partinico”, propone un affresco di assoluto realismo e di grande intensità che fotografa il persistere di una condizione disumana da combattere, l’autentico, irrisolto degrado morale, economico, culturale della società meridionale230. Nel libro- inchiesta, ritagliato su un segmento della realtà siciliana, quella del triangolo collocato tra Partinico, Trappeto e Montelepre, è rappresentata, con estrema efficacia, la realtà ridotta al limite, anche in questo caso con persone costrette a vivere in abitazioni fatiscenti, più simili a tuguri, insieme agli animali, con più membri della stessa famiglia in una sola stanza, priva di servizi igienici e di una qualsivoglia forma, seppure elementare, di assistenza medica e sociale. Privati dei diritti più minuti, in stragrande maggioranza analfabeti, con rapporti di lavoro occasionali e inesorabilmente segnati da forme di spietato sfruttamento. Senza alcuna prospettiva di futuro, completamente abbandonati da uno Stato estraneo e imbelle che ne ha confiscato le speranze e che anzi di continuo si propone nell’esclusiva forma della violenta, selvaggia repressione. Lo Stato che è impegnato a fronteggiare e schiacciare il banditismo, fenomeno che, nella costernazione priva di sbocchi e di bagliori, finisce per apparire ai più come l’unica, esclusiva, disperata prospettiva ”231. 230

Danilo Dolci, Banditi a Partinico, prefazione di Norberto Bobbio, Sellerio editore, Palermo, 2009. Il libro appare per la prima volta nel 1955. 231 Un tema che in parte almeno ritorna anche in : Tutto il miele è finito, Prefazione Giulio Ferroni, Editore Ilisso, Collana Biblioteca Sarda, 2003. Un ritratto scarno ed efficace della Sardegna, isola di particolare fascino e bellezza, seppure profondamente segnata, come la Lucania, da una condizione sociale di estrema povertà. L’autore vi aveva fatto un viaggio nel maggio del 1952, per poi ritornarci dieci anni dopo, nel 1962. Il libro è un resoconto ed una raccolta d’impressioni personali. Vi si rappresentano, insieme, arcaicità e modernità, la pastorizia e l’industrializzazione, i diversi linguaggi del banditismo e degli operai che si confrontano in un impasto equilibrato di analisi sociale e di osservazioni letterarie. Anche in questo caso è il paesaggio a conquistare con vigore il centro della scena. Il mare, i luoghi incantati di querce secolari, le immense strade aride e deserte, la solitudine pastorale, le antiche e splendide chiese. Ed al contempo un diffuso contesto di illegalità, coperto e tollerato dai pubblici poteri.

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Esplicativo, in tema di illegalità imperante, il ripetuto accenno, nel fitto susseguirsi della narrazione, alle pratiche di pesca fuorilegge che, coi pescherecci impegnati a eliminare “la neonata”, con l’uso indiscriminato dello strascico, condanna i pescatori con le famiglie alla fame, alla miseria nera, alla disperazione permanente. E’ sintomatico il richiamo all’azione militante e pacifista di Danilo Dolci in quanto non ci si trova, anche in questo caso, di fronte all’inefficace e sterile denuncia, quanto piuttosto ad una dimostrazione, incisiva, del ruolo che può esercitare, nella concretezza cruda del reale, un intellettuale- depositario di un pensiero vivo- che indica strade concrete e percorribili per fuoriuscire da una condizione di emarginazione devastante. Particolarmente vivo, intenso, emozionante il sintetico racconto dell’incontro tra Levi e Dolci : “Entrammo nella casa di Danilo che ci accolse amichevole e aperto: alto, robusto, con una grossa nordica testa complessa, gli occhi vivaci dietro gli occhiali, allegro di una interna energia, sempre presente, sempre rivolto, anche nei minimi gesti, all’azione … Cominciò subito a parlarci dei lavori che gli stavano a cuore, del progetto per l’irrigazione per tutta la zona, che permetterà di cambiare profondamente la situazione e di combattere la miseria. Ci spiegò tutte le sue altre iniziative, l’asilo, la scuola, l’assistenza, la lotta contro la pesca abusiva, e le inchieste, e gli studi, le conferenze, i concerti, insomma, quella attività che conoscevamo dai suoi scritti, ma che qui prendeva ai nostri occhi la giusta dimensione …. Il tono … di un uomo che ha fiducia, che ha fiducia negli altri ( una fiducia generale nell’uomo), e fa sorgere la fiducia intorno a sé …”232. E’ la dimostrazione della forza di un progetto e di un’azione ispirata all’ estrema concretezza e volta a realizzare, con la costruzione di una diga, la possibilità d’irrigare le campagne. Uno degli strumenti vitali e decisivi, insieme al ripristino delle condizioni di legalità nel settore della pesca, in grado di iniziare a portare a compimento, in un quadro d’insieme di disoccupazio232

Carlo Levi, Le parole sono pietre, prefazione di Vincenzo Consolo, Einaudi, 1955, 1975, 2010, pag.121.

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ne elevatissima, l’obiettivo della piena occupazione. E infine il ruolo, centrale e strategicamente decisivo, da assegnare all’istruzione ed alla conoscenza. L’azione per consentire ai minori l’opportunità d’imparare a leggere ed a scrivere, la possibilità di costruire gli asili e- per i cittadini d’età più avanzata- di frequentare Case del popolo ed Università popolari. Uno esempio straordinario, di messa in campo di una solidarietà concreta ed operosa, agente nel reale e nell’attualità dei tempi, non certo declamazione astratta, distante, velleitaria. La prova dell’uomo che- con l’azione tenace- insieme agli altri costruisce la sua storia e il suo destino. Un riferimento, per più versi avanzato ed inconsueto, ed un modo d’interpretare e intendere una propria funzione civile, senza l’attesa d’improbabili soluzioni miracolistiche dall’alto. Percorsi di un’azione intensa e disinteressata, più volte combattuta con forza e ostacolata, per lasciare per sempre immutate e stagnanti le situazioni antiche, così da non scalfire mai, in alcun modo, il grumo potente d’interessi accumulati. Esempi precursori, di lotte e di azioni successive che si susseguiranno, ininterrottamente, con alterne vicende di vittorie e sconfitte, nella grande stagione dell’impegno meridionalistico, in specie in conseguenza della riforma agraria e della sua contraddittoria e complessa applicazione. Un approccio diverso, ed anzi diametralmente opposto, a quello soltanto violentemente e frontalmente repressivo, con cui si caratterizza, ormai da troppo tempo, l‘azione repressiva dello Stato.Danilo Dolci- per il suo impegno civile- verrà addirittura processato e incarcerato, ma l’atto di repressione subito, lungi dal ridimensionarne o annullarne la capacità d’azione e d’incidenza, finirà per farne risaltare ancora oltre il ruolo e la funzione. Anche nelle situazioni all’apparenza più difficili e complesse, se è l’interesse generale ad ispirare la tua azione, è possibile affermare una diversa, più giusta ed efficace prospettiva.

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Levi da luogo, con la sua produzione letteraria e artistica, ad una sintesi -piuttosto singolare- tra impianto neo realistico e tipo di scrittura con tratti neo barocchi233. Carlo Levi, ormai assai malato e quasi cieco, si spegnerà a Roma il 4 gennaio 1975 e riposerà per sempre ad Aliano, la sua reinventata Gagliano, sepolto insieme ai suoi miti arcaici, alle sue poetiche utopie, all’impegno civile profuso fino alla fine in maniera instancabile, in quell’angolo di terra di Lucania che, affinandone a dismisura la sensibilità umana, gli aveva consentito di crescere come artista e soprattutto come uomo, in quell’angolo di mondo, collocato nel meridione d’Italia, che gli era entrato indissolubilmente dentro e che ormai “…. è in ciascuno di noi … forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni in lotta con le istituzioni paterne e padrone, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte”234.

233 Carlo Levi, Quaderno a cancelli, Einaudi, 1979, la raccolta di scritti, frammenti, versi, ricordi dell’infanzia piemontese, composta tra il 1973 e gli inizi del 1975, verrà pubblicato dopo la sua morte. 234 Carlo Levi, L’autore all’editore, in Cristo si è fermato a Eboli, op. cit., pp.XVIII-XIX

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Note sulla lezione di Togliatti Ardua l’operazione di tentare un tratteggio, seppure assai parziale, di una personalità poliedrica e complessa come quella di Palmiro Togliatti. Troppe le vicende, del movimento operaio italiano ed internazionale, che lo hanno visto protagonista di rilievo in snodi decisivi della storia del secolo passato. La figura dell’uomo, in più occasioni, anche drammatiche, s’interseca e si confonde con la storia più generale dell’Italia e con la battaglia per la democrazia. Scelta obbligata, quindi, quella di concentrarsi su poche, limitate questioni dirimenti. Togliatti ha vissuto la fase convulsa dei primi anni ’20, dell’occupazione delle fabbriche a Torino, dell’ “Ordine Nuovo” e dei Consigli, poi quella della crisi dello Stato liberale e dell’avvento in Italia del fascismo. E con la reazione si scontrerà anche più avanti, nella guerra civile spagnola del 1936-1939, che vedrà opposte in Europa, per la prima volta, le forze internazionali della controrivoluzione e dell’antifascismo. E’ comunque nella vicenda specifica italiana che sono rintracciabili le scelte strategiche essenziali, frutto di analisi feconde, segno di intuito finissimo, d’innovazione politica e di genialità, protese a realizzare sbocchi originali per il successivo sviluppo della storia nazionale. Durante una pagina assai buia della nostra ancora giovane nazione, verso la conclusione del secondo conflitto mondiale, opta per la necessità di produrre un’accelerazione repentina della lotta unitaria antifascista, contro la crudele occupazione militare nazista del Paese. La vera priorità da perseguire, la piena riconquista della libertà e della democrazia, può realizzarsi con successo solo con l’impegno coeso e la chiamata alla lotta ed al combattimento contro i nazifascisti di tutte le forze antifasciste

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e democratiche presenti nel paese. Nessun interesse di parte può prevalere a fronte dell’interesse nazionale235. Rispetto a questo obiettivo superiore, andavano accantonati differenziazioni e contrasti, interni al grande fronte unitario e antifascista, che andava consolidato e messo in campo, senza ulteriori dilazioni. Preliminare ed obbligata condizione, questa, per perseguire con successo l’obiettivo. L’ampia alleanza avrebbe dovuto dispiegarsi in un fronte unico e compatto, dai monarchici ai liberali, ai repubblicani ed al Partito D’Azione, fino ai cattolici, ai socialisti, ai comunisti. Una linea che verrà perseguita, con lungimiranza e con determinazione estrema, vincendo in varie circostanze forti riserve e opposizioni, del Partito D’Azione edi frange socialiste estremizzanti, piuttosto riluttanti all’idea di allargamento dell’intesa a formazioni d’ispirazione non repubblicana. Il congresso dei Comitati di liberazione nazionale, tenutosi a Bari, al Teatro Piccinni il 28 ed il 29 gennaio 1944, nella fase intercorsa tra la caduta di Mussolini e la nascita del governo Badoglio, riuniva i rappresentanti delle diverse forze antifasciste e tra i suoi partecipanti annoverava- tra gli altri- Carlo Sforza e Benedetto Croce, che presentò all’Assise il discorso introduttivo. In quella sede s’individuava la necessità di dare vita ad un Governo con pieni poteri con la partecipazione di tutti i partiti presenti nel Congresso ( Partito Liberale, Democrazia Cristiana, Partito d’Azione, Partito Socialista Italiano, Partito comunista Italiano). Nell’occasione fu avanzata la richiesta dell’affermazione della pregiudiziale repubblicana e dell’immediata abdicazione del re Vittorio Emanuele III. Un’accelerazione repentina, non condivisa ed anzi rapidamente corretta da Togliatti, secondo cui, come si vedrà, l’introduzione in quel momento di una tale posizione di principio, avrebbe 235

La nuova politica, di radicale svolta, che ad ogni altra questione antepone l’urgenza e l’assoluta priorità, con l’impegno congiunto di tutte le forze disponibili, di liberare la penisola dall’occupazione straniera del suolo della Patria, è esposta mirabilmente da Togliatti nel “Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana” dell’11 Aprile 1944, la prima riunione pubblica del leader comunista dopo 18 anni di esilio all’estero. I’intervento integrale :“ La politica di unità nazionale dei comunisti”, in Togliatti, Opere Scelte, pp.292-327.

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causato- più che un’accelerazione- rallentamenti e negativi immobilismi nell’azione da intraprendere, con rapidità estrema, con l’insurrezione armata popolare contro l’invasore. La lotta politica esplicita, che si manifestò in quello snodo, vide alla fine prevalere l’impostazione di Togliatti, protesa a delegare, per il momento almeno, sullo sfondo, le nette diversità pur esistenti ed interne al grande fronte antifascista che si era messo in moto. Ora sarebbe stato finalmente possibile produrre con successo l’accelerazione necessaria, con il passaggio, dopo l’ondata degli scioperi nelle industrie del Nord, all’insurrezione ed alla lotta armata popolare contro l’occupante. Una volta liberato dalla belva nazista sanguinaria il suolo della Patria, ci si sarebbe potuti concentrare sull’assetto istituzionale futuro del Paese236. E’ “La Svolta”, la fase in cui individuare le prime radici di una trama, che poi proseguirà e si preciserà- per ulteriori approfondimenti successivi- fino a confluire in un unico, organico programma compatto e razionale. Restituita la libertà alla Nazione, portata alla rovina dalla dittatura e dalla guerra, potrà ritenersi finalmente compiuto “ il secondo Risorgimento nazionale”. Una libera consultazione, sancita da un referendum popolare, avrebbe consentito agli italiani di scegliere l’opzione tra la Repubblica e la Monarchia237. 236

Nel già richiamato Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana dell’11 Aprile 1944 Togliatti, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma, Luglio 1974, p.312, tra l’altro sosterrà: “… la stessa risoluzione del congresso di Bari ( del Movimento dei Comitati di Liberazione) ha riconosciuto che il problema istituzionale deve essere rinviato al giorno di una consultazione nazionale … .ignoriamo, oggi, questo problema, e passiamo a risolvere il compito vero della situazione presente, la creazione di un governo il quale faccia convergere tutta la sua opera nel porre termine al più presto alla invasione straniera e nel liquidare tutti i residui del regime fascista”. 237 “ In secondo luogo noi desideriamo che al popolo italiano venga garantito nel modo più solenne che, liberato il paese, una Assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale, libero, diretto e segreto da tutti i cittadini, deciderà delle sorti del paese e della forma delle sue istituzioni. Questa posizione …. non fa violenza a nessuno e non esclude dalla vita nazionale nessuno, all’infuori dei traditori fascisti. Ai monarchici sinceri ed onesti dovrà essere data la possibilità di presentarsi al popolo, di difendere le loro posizioni e di

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In quel passaggio, nodale e decisivo, Togliatti diede prova, insieme, di forte duttilità, lungimiranza e determinazione estrema. Liquidati, in via definitiva, ideologismi e rigidità di segno opposto, infisse e radicate nella storia del primo Novecento, comunque destinate a riprodurre, persistendo, colpevoli, dannosi e laceranti immobilismi. Un pensiero politico, dinamico ed incisivo, s’affermava. La prima priorità da perseguire era di ridare libertà alla Nazione, quindi, iniziando a realizzare una democrazia di nuovo corso, da lungo confiscata, che andava innervata ulteriormente, riempita d’innovativi e più aggiornati contenuti. E, nella situazione data, venivano lucidamente e puntigliosamente indicate precise priorità : 1- la ricostruzione di un forte esercito, in grado di opporsi efficacemente, sul piano militare, alle forze nazifasciste ormai sui vari campi in ritirata ed ancora comunque occupanti larga parte del territorio nazionale. Per questa necessità sarebbe stato indispensabile avvalersi della collaborazione di tutti gli elementi dell’esercito, con competenza tecnica e con la volontà di combattere contro i tedeschi ed i traditori fascisti ; 2il ripristino di una vita economica il più possibile normale e la possibilità concreta di assicurare l’approvvigionamento della popolazione, attivando immediatamente una lotta spietata contro la speculazione. Sarebbe servita allo scopo un’organizzazione efficiente in grado, senza ledere i diritti dei contadini, di assicurare che il raccolto giungesse- con rapidità e con continuità- nella misura necessaria, dalle campagne alle città; 3- la riorganizzazione, con l’aiuto degli Alleati, dei servizi pubblici essenziali, innanzitutto dei trasporti 4- la rimessa in funzione, almeno di una parte, dell’apparato industriale distrutto o danneggiato. Obiettivi chiari, essenziali e indispensabili- questi- che si sarebbero dovuti attuare affermando un’azione di governo capace di presentarsi all’Assemblea costituente nella misura del seguito che essi avranno. La garanzia data loro di questo diritto, ci permette di chiedere loro di partecipare alla guerra di liberazione ponendo al servizio della patria le loro forze e le loro competenze, rinunciando a ogni tentativo di fare ostacolo al trionfo della volontà popolare”,. In Togliatti, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, luglio 1974, p.313.

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combattere la corruzione con ogni possibile energia238. Azioni primarie e decisive, quelle richiamate, da cui si potesse chiaramente percepire la nascita e l’avvento di uno Stato nuovo, che agiva ed operava con estrema correttezza e disciplina. Il segno percettibile e concreto che s’iniziava finalmente a costruire, con il concorde impegno collettivo delle forze migliori del paese, una storia nuova. Lo Stato futuro non sarebbe in alcun modo risultato, date queste premesse, la replica pallida ed incolore della trascorsa e fallimentare esperienza liberale. Uno Stato che si era rapidamente sfarinato e liquefatto, inerte di fronte all’avanzata del Fascismo. La Costituzione avrebbe riassunto, nell’essenza, i capisaldi, di linee e di programmi, di una società rinnovata e democratica risorta e contrassegnata dall’avvento protagonista e attivo delle masse nel fiume della Storia. Sarebbe stata in tal modo, e su nuove fondamenta, riedificata passo per passo la Nazione. E tutto ciò sarebbe stato attuato evitando di aizzare nuove e frontali contrapposizioni nel paese, tra le masse di diverse ispirazioni e orientamenti, culturali e religiosi, innanzitutto laiche e cattoliche che, nel ridare vita alla Nazione, avrebbero dovuto procedere ricercando tutte le occasioni di coesione e convergenza così da realizzare i grandi obiettivi generali d’interesse comune. Una linea di attenzione permanente, in specie in direzione delle masse cattoliche, che verrà perseguita con costanza e con tenacia e che- in sostanza- in seguito non verrà mai abbandonata anche nelle circostanze, in verità frequenti, in cui- dopo la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione dei comunisti dal governo- durissimo e frontale apparirà il contrasto con la Democrazia Cristiana ed il suo indiscusso leader, Alcide De Gasperi. In tal senso, un passo politico particolarmente pregnante sarà costituito dalla presa di posizione sull’articolo 7 della Costituzione, con la regolazione in termini concordatari dei rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica239. 238

Palmiro Togliatti, Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana, 11 Aprile 1944, cit. pp.318-319. 239 Più avanti, nel discorso all’Assemblea Costituente del 25 Marzo 1947 Togliatti in sostanza difende il Concordato tra Stato e Chiesa del 1929 ed esplici-

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L’Italia avrebbe evitato, per interesse comune superiore, di precipitare nel rischio mortale di riedizioni di frontali contrapposizioni e di mortali conflitti di tipo religioso. Libertà di praticare i propri culti e le proprie convinzioni in campo religioso, insieme alla libertà di stampa ed alla possibilità di costruzione e di sviluppo di distinte formazioni politiche e sociali, questi i tratti distintivi delle linee teoriche e politiche da attuare240. Veniva tracciato, in sostanza, il nuovo sentiero da seguire, su cui incardinare l’idea, profondamente innovativa, della “democrazia italiana progressiva”241. Un percorso che prevedeva l’attiva ed insostituibile funzione delle grandi masse popolari, di differenti ispirazioni, ideali e culturali, rimaste troppo spesso, fino ad allora, ai margini della ta le ragioni dell’assenso del PCI all’approvazione dell’art.7 della nuova Costituzione. La preoccupazione prevalente nelle argomentazioni del capo comunista appare quella di evitare ad ogni costo qualsiasi riedizione di possibili scontri nel paese dovuti a motivi religiosi. Nella sua visione il nuovo Stato che si va a costruire prevederà la più ampia libertà di coscienza, fede, culto, propaganda ed organizzazione religiosa. La Nazione che va a riformarsi ha bisogno, per procedere nel suo corso di avanzata, dell’unità, non della divisione dell’insieme delle forze del lavoro, di diversa ispirazione, comunista, laica e cattolica. D’altra parte assai numerosi sono i credenti iscritti e militanti dello stesso PCI. 240 Ed anche nel rapporto presentato da Togliatti al Comitato Centrale del 12 Aprile 1954, Per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana, pubblicato nel vol. V delle Opere, Editori Riuniti, Roma 1984, pp.832-846 si ribadisce il concetto dell’imprescindibilità della ricerca delle più ampie convergenze coi cattolici su tematiche generali d’interesse comune. Una costante- questa- dell’azione politica di Palmiro Togliatti. In questa occasione vivido è il richiamo al rischio, nel pieno della fase della “guerra fredda”, della deflagrazione nucleare, da evitare ad ogni costo, per non causare la definitiva scomparsa dell’umanità. 241 In questo contesto e nella specifica fase temporale in cui il paese era ancora spaccato in due, particolare rilievo era contemporaneamente dato al tema delle amministrazioni locali ed alla costituzione degli organismi democratici di autogoverno. Togliatti al proposito sosterrà:” Sia fatto largo alle forze popolari nei comuni e nelle province. Si permetta loro di fare pulizia della corruzione fascista, di riprendere le nostre grandi tradizioni di autogoverno locale …. Data la concordia che esiste tra i partiti del movimento dei Comitati di liberazione, è oggi possibile e consigliabile pensare alla elezione dei consigli comunali per via democratica, se non in tutte le regioni libere ad un tempo, almeno in alcune di esse”. Togliatti, Rapporto ai quadri; Opere scelte, cit., pag.320

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vita dello Stato, in una funzione passiva e subalterna242. Per prima cosa, con lo sforzo comune, andava ricostruita la Nazione, uscita dalla guerra- per responsabilità esclusiva del fascismo- sommersa di rovine243. L’avvento sulla scena di un “Partito nuovo”, di massa e nazionale, profondamente innervato in tutte le pieghe della società italiana, che non doveva più limitarsi alla mera propaganda, ma di volta in volta indicare precise e concrete soluzioni realizzabili, avrebbe con la propria azione contagiato anche le altre formazioni, aprendo la società e la politica italiana allo sviluppo della partecipazione popolare, cosciente e organizzata, alla vita pubblica. Doveva instaurarsi una democrazia di tipo nuovo, pulsante e progressiva, ben più solida e robusta del passato che, agendo senza più steccati e pregiudizi, consentisse un fecondo confronto tra forze politiche ed ideali di diversa ispirazione. Multipartitismo, centralità del Parlamento, tolleranza religiosa, certezza dello Stato di diritto e sua laicità. Un insieme di opzioni in grado in tal modo di evitare, preventivamente, il riprodursi di nuove ed aggiornate involuzioni autoritarie, fasciste e reazio-

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Il tema ritornerà ancora in occasione del discorso fatto a Bergamo, nella città di Papa Giovanni XXIII, nel 1963 “ Il destino dell’uomo” , non molto tempo prima della sua scomparsa avvenuta un anno dopo, in cui al proposito userà quanto mai esplicite espressioni : “ Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha di fronte a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto … Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova”. Il destino dell’uomo doveva quindi consistere nella vita, non nella conclusione violenta e subitanea della storia umana. 243 “ Tutta la politica imperialista del fascismo è stata antinazionale: essa non poteva portarci ad altro che a una catastrofe; essa doveva culminare, come ha culminato, nel tradimento più vergognoso, nel provocare l’invasione e l’occupazione della nostra patria da parte delle orde hitleriane, la perdita della nostra unità e della nostra indipendenza … Il movimento che ingannò l’Italia e il mondo con la sua demagogia pseudo patriottica è sprofondato nella fogna del tradimento nazionale”. In :” Togliatti, Opere scelte, La politica di unità nazionale dei comunisti”, cit. p.300.

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narie. Il popolo sarebbe diventato il vero, invincibile presidio della democrazia. Andava altresì contestualmente e seccamente limitato l’annoso potere del grande capitale industriale e agrario, in larga misura responsabile della rovina in tempi recenti vissuta dal Paese. Una democrazia che sarebbe poi avanzata e progredita, per balzi successivi, ampliando ulteriormente gli ambiti di libertà goduta. Veniva in emersione l’eco dei grandi valori di libertà, eguaglianza e di fraternità originati dalla rivoluzione francese, già assunti e fatti propri dalle nazioni più avanzate ed evolute dell’Europa. Percorsi non rettilinei, e non facili da potersi immediatamente realizzare, la cui attuazione sarebbe stata più volte ostacolata dall’emersione di forti opposizioni e resistenze. E tuttavia, nel mondo bipolare che nasceva, nell’immediato, secondo dopoguerra, a tale opzione non c’era senza dubbio alternativa. Fortissimo emergeva, infatti, il condizionamento stritolante di un mondo già diviso verticalmente in due potenti e contrapposti blocchi antagonisti ed in Italia la breve stagione della collaborazione tra forze distinte ben presto si concluse. Il percorso politico tracciato da Togliatti doveva inoltre dispiegarsi collegandosi nell’alveo della storia nazionale, delle sue specificità originali. Il concetto di “democrazia, nuova e progressiva” doveva snodarsi ulteriormente nell’azione di lunga lena, quotidiana e sistematica, per la diffusa crescita del grado di cultura nazionale, in specie delle classi subalterne. Un obiettivo, questo, di rilievo assolutamente decisivo. Togliatti individuava, con lucida nettezza, l’obbligo di agire ricercando tutte le condizioni di un’alleanza innovativa tra il mondo del lavoro con le sue avanguardie e gli intellettuali più avanzati, su questo specifico terreno più sensibili. Risulterà così sempre assai forte ed efficace l’attenzione rivolta al ceto diffuso degli intellettuali italiani fuoriusciti dalla lunga notte della dittatura. Lucida l’acuta comprensione della decisività del terreno, specificamente culturale ed ideale, su cui innestare, senza dilazioni, un confronto ed una lotta politica feconda. Il suo richiamo agli intellettuali, al loro irrinunciabile obbligo di

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non restare indifferenti rispetto ai destini della Patria, ed al loro dovere di mischiarsi concretamente con la vita pratica, rinunciando a posizioni astratte, di mera, ininfluente contemplazione del reale, rievocano una lezione precedente e assai importante. Era stato Antonio Gramsci ad analizzare, con estrema accuratezza, questo tema sia ne “Gli Intellettuali e l’Organizzazione della Cultura”244 che nello scritto su “La Questione Meridionale”245, opere d’importanza decisiva che inizieranno a circolare, in modo più diffuso, solo nell’immediato, secondo dopoguerra. Il grande teorico e dirigente sardo aveva ricostruito, in maniera puntigliosa, fin dall’origine, la genesi e la storia, insieme alla funzione, dei ceti intellettuali nazionali, col ruolo troppo spesso regressivo da essi esercitato. Un lascito, teorico e politico, di estremo rilievo, su cui Togliatti innesterà scelte politiche, d’azione ed organizzazione conseguenti. Nessuna delle formazioni politiche del tempo mostrerà identica attenzione, la stessa capacità di egemonia e di presa rispetto alla formazione politica diretta da Togliatti. E d’altronde parliamo, oltre che di uno straordinario dirigente politico, anche di un intellettuale finissimo. Il percorso intrapreso si rivelerà, fin da subito, in più occasioni, piuttosto accidentato, affatto lineare e sgombro di problemi. Assai noti, per doverci ritornare, i termini dello scontro che opporrà Togliatti ( e Mario Alicata) ad Elio Vittorini e al “Politecnico”, accusati dal “ Migliore” di eccesso di astrattezza e di forzata propensione, “ … al diverso, al nuovo, al sorprendente …”, insieme alla replica stizzita di Elio Vittorini circa l’indisponibilità a esercitare una funzione dell’intellettuale subalterna, protesa a risolvere il suo ruolo nel “suonare il piffero per la rivoluzione”.

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A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, pubblicato postumo nei “Quaderni dal carcere” 1948-1951, Einaudi, Torino, 1949 245 Lo scritto di Antonio Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, è del 1926. Il testo fu rinvenuto nel 1929 e pubblicato, per la prima volta, nel 1930 su “Lo Stato Operaio”, n.1, A. IV. Stampato a Parigi e diffuso clandestinamente apparve poi sulla rivista di politica e cultura “Rinascita”, A.2, n.2, febbraio 1945, diretta da Palmiro Togliatti

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Un contrasto, che poi proseguirà- a ondate successive- in specie ma non solo, in occasione dei tragici fatti d’Ungheria della fine del 1956. Sul tema specifico, ad ogni modo particolarmente feconda e lungimirante risulterà la scelta di dotarsi di una serie di strumenti teorici in grado di promuovere un intenso confronto ed un dialogo, costante e sistematico, tra le diverse posizioni in campo. Il Partito, su impulso di Togliatti, non a caso sceglierà di avvalersi di più strumenti e mezzi, dalla rivista teorica “Rinascita”, a “ Società” a “ Il Contemporaneo”, fino a riviste specialistiche, quali “ Critica Marxista”, “ Studi Storici”, “Politica ed Economia”, per citarne solo alcune. Ed estrema attenzione verrà rivolta alle Case Editrici, da Einaudi e Laterza innanzi tutto, fino alla decisione della creazione di una Casa Editrice in prevalenza di Partito, gli “Editori Riuniti”. Identica cura sarà riservata agli insegnanti della scuola ed ai professori dell’Università, un insieme di forze destinate, nella visione del “Migliore”, a risultare decisive nel percorso di rinnovamento della cultura nazionale. La società italiana iniziava finalmente ad affrancarsi dall’involucro roboante, retorico ed asfissiante diffuso per venti anni a piene mani dal fascismo. E, passo per passo, cominciava a definirsi, in maniera sempre più lineare e più precisa, il ruolo e la funzione di un Partito, nazionale e popolare, agente in stringente sintonia con la società italiana. Prendeva forma e consistenza quel Partito “intellettuale collettivo”, d’ispirazione gramsciana, che aveva il compito essenziale di operare per trasformare nel profondo la realtà. Un Partito che, aprendo le sue porte, aveva tra i suoi obblighi primari quello di svolgere, con assiduità, una costante funzione pedagogica, educando alla democrazia innanzi tutto i suoi aderenti. Con la direzione di Togliatti, il PCI svilupperà la propria rete organizzata in ogni Comune della Repubblica italiana, battendosi con tenacia per il lavoro, l’occupazione, lo sviluppo del Mezzogiorno e dell’Italia intera, al fianco dei popoli in lotta nei più diversi punti del globo contro il colonialismo, per l’indipendenza nazionale, in difesa del valore supremo della Pace. Particolarmente appassionata l’azione, come s’accennava,

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contro il rischio di un nuovo scontro combattuto con le armi nucleari, prodromo della scomparsa dell’umanità. Una forza disciplinata e coesa, con una propria organizzazione radicata nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, nei posti di lavoro, nei punti di produzione diretta del sapere. Una formazione, di lotta e di combattimento, tesa ad affermare un concetto dilatato dei diritti, da quello essenziale del lavoro, a quello dello studio e dell’accesso alla cultura per tutti i cittadini. E’ il segno di una sfida inedita, straordinariamente affascinante e appassionata. Il grosso dell’intellettualità italiana, tranne rarissime eccezioni, era passata nel tunnel del “Lungo Viaggio attraverso il fascismo”, come aveva efficacemente ricordato Ruggero Zangrandi nel titolo di un libro illuminante, e si era reso responsabile di “Nicodemismo”, ovvero di subalternità colpevole al potere costituito, e fortissima appariva l’esigenza, individuale e collettiva, di praticare un profondo lavacro purificatore. Troppo spesso gli intellettuali nel recente passato erano caduti nella rete della propaganda, tessuta con maestria, da capi eminenti del fascismo, quali Bottai che- con la sua rivista “ Primato”- era a lungo riuscito a spuntare le funzioni della critica, svolgendo verso i ceti intellettuali un ruolo di attrazione e di collante. Troppe le arrendevolezze, gli opportunismi, i contorsionismi praticati, la passività e le colpevoli acquiescenze. E, in specie, ma non solo nel Mezzogiorno del Paese, si trattava finalmente di affrancarsi, dalla pesante e pervasiva eredità di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato, iniziando a fuoriuscire dall’involucro, seppure prestigioso, che pur tuttavia ormai li contraeva. Gli intellettuali, da quel momento in poi, sarebbero transitati in massa, e in larga prevalenza, nell’attiva milizia e nelle fila di quel Partito Nuovo, di massa e popolare, estremo e di rottura, tra tutte le formazioni il più coerente nella feroce lotta mortale contro il nazifascismo. Ed altresì importante il concorso all’azione intrapresa, da parte di Togliatti e del suo Partito, volta a “sprovincializzare” la cultura nazionale. Sono anni di esperienze di autentica avanguardia, dal cinema italiano neorealista innanzi tutto, a svariate esperienze di produzione più squisitamente letterarie e artistiche, di rilievo europeo e mondiale.

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S’iniziava a dare vita ad una rete palpitante, di democrazia partecipata, che avrebbe dovuto radicarsi, in maniera capillare, in ogni comune, di piccole e di grandi dimensioni, coprendo il territorio dell’Italia intera. Il Partito che nasceva vedeva costituita la sua forza nell’unità degli operai, dei contadini, del mondo del ceto medio e delle professioni, negli intellettuali d’avanguardia dei più disparati segmenti del sapere. Una formazione di cui non c’era mai stata in precedenza traccia. Disciplina, rigore, serietà, pretesi da ogni singolo aderente del Partito, ad ogni livello dell’organizzazione. L’orgoglio di essere, su questo piano, qualcosa di ben distinto e di diverso, dai tanti fattori devianti manifestati altrove. Un segno antesignano, allora come oggi, della centralità della questione morale, fattore distintivo, e di discrimine essenziale, da mostrare con orgoglio nella quotidiana, corrente attività, nella politica, in ogni distinta espressione del lavoro umano e della vita. Per competere, con successo, con l’organizzazione pervasivadel partito cattolico e della stessa Chiesa- bisognava, a giudizio del leader comunista, costruire “una sezione per ogni campanile”. Espressione, questa, particolarmente felice ed efficace e sinteticamente riassuntiva di una stringente volontà volta a ricondurre ad unità teoria e pratica, il pensiero e l’azione. L’attenzione allora fu rivolta, in misura obiettivamente sbilanciata, in modo largamente prevalente, all’intellettualità di estrazione umanistica e retorica, nel mentre risultò piuttosto residuale il rilievo riservato alle forze di formazione tecnica e scientifica. Una scelta destinata a pesare non poco, negli anni che verranno, ed in maniera piuttosto negativa. Alcuni importanti limiti e ritardi, e sottovalutazioni, nella tempestiva comprensione degli indirizzi assunti dalle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche che si realizzeranno, decisive nel definire nuove gerarchie tra le Nazioni, possono essere individuate nelle scelte a quel tempo effettuate e poi di frequente nell’immediato futuro replicate. I nuovi livelli, vertiginosi, assunti dalla globalizzazione, avrebbero causato poi trasformazioni sconvolgenti. Togliatti è stato lucido e freddo capo del movimento comunista mondiale, custode di segreti, anche tragici ed agghiaccianti, del-

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la stagione cupa dello Stalinismo. Al contempo, finissimo e lungimirante dirigente politico che ben comprese come non potesse essere esportato, in maniera dogmatica e meccanica, in altre distinte situazioni, segnate da uno sviluppo della Storia differente, un unico modello, rigido ed esclusivo. E’ nel testamento di Yalta che verrà inequivocabilmente esplicitata l’idea della pluralità delle strade percorribili atte a realizzare il Socialismo, della sua inscindibilità, nella realtà italiana, dalla Democrazia. Esempio illuminante di un’interpretazione, creativa e originale, dei testi del marxismo. Un processo da realizzare a tappe successive, per mezzo di progressivi avanzamenti.A Palmiro Togliatti va infine riconosciuto un grande merito, probabilmente tra tutti il più importante. Anche nei momenti più aspri e difficili del confronto e della lotta politica in Italia, si pensi solo alle giornate immediatamente susseguenti l’attentato di cui fu vittima nel Luglio del 1948, nel suo pensiero non finirà mai per prevalere l’opzione per facili e assai rischiose scorciatoie, dello scontro armato tra forze contrapposte, ed anzi verrà sempre perseguita, con grande disciplina, la prassi del serrato confronto e della lotta democratica, da sviluppare, insieme nel Parlamento e nel paese. L’unica strada per davvero feconda e percorribile. In Italia non si assisterà alla replica dell’epilogo della tragica vicenda greca. Più avanti nel tempo, nei decenni seguenti, una crisi progressiva, acuta e devastante, investirà il sistema edificato dal “Socialismo Reale”. I processi di grave burocratizzazione e di rigidità, le limitazioni gravi della libertà dei cittadini saranno alla base dell’implosione del 1989. All’improvviso, e repentinamente, in quell’anno di svolta della storia del Mondo scompariva, per interna, fatale consunzione, il tentativo di affermare, col dogma conficcato nel reale, un grande ideale generoso. Troppe e gravi le deviazioni, e i drammi consumati dentro quel recinto, in specie ma non solo dell’Europa. E tuttavia l’idea di libertà, di maggiore equità, di più ampia giustizia sociale, le sue dilatazioni, in ogni contrada degli angoli del mondo, ancora al giorno d’oggi sussistono vitali, come inalienabili valori da difendere. Potentissime lobby finanziarie nei tempi che viviamo in larga parte detengono il potere nelle proprie mani, condizionando fortemente

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i complessivi destini del Pianeta. Quante le differenze, tra diverse Nazioni e nei singoli paesi, che piuttosto che ridursi, si sono progressivamente accentuate! Oggettivamente perciò i grandi principi originari continuano a risultare di grande attualità. L’azione di Togliatti in difesa della pace, nel paese, in Europa e nel mondo, la lotta per una più ampia giustizia e libertà, è il segno peculiare di una storia, individuale e collettiva, che persiste. Un tratto distintivo della democrazia repubblicana, con tanti sacrifici edificata. Un edificio robusto che Palmiro Togliatti ha concorso in maniera decisiva a costruire, il tratto distintivo di un impegno, intelligente, appassionato, generoso, per tante ragioni da mantenere vivo e attuale nel cuore pulsante e più profondo del Paese.

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Politici italiani del Novecento: Ugo La Malfa La particolare peculiarità italiana, almeno una delle principali, nell’immediato secondo dopoguerra e nei decenni che seguirono, fu senza dubbio a lungo costituita dalla originale funzione svolta dal Partito Comunista Italiano, una sostanziale e marcata anomalia rispetto ad altre formazioni politiche similari che, in Europa e nel mondo, si richiamavano in varie forme al comunismo. Per cui non a caso, dopo la rottura dell’unità delle forze antifasciste del 1947, si parlò del partito che impersonava la dura opposizione montante nel paese come presenza alternativa di “uno Stato nello Stato”. Quella stessa formazione politica, forgiata nel corso della dura clandestinità e durante la guerra di resistenza e di liberazione nazionale contro il nazifascismo, si era trasformata, per volere di Togliatti, da partito di quadri in partito popolare di massa, aveva i suoi ministri e le sue articolate e capillari organizzazioni interne distribuite in modo capillare in tutto il territorio nazionale e regolate da un forte impianto gerarchico e da una dura disciplina. I copiosi studi politico-storiografici che si sono succeduti all’indomani del conflitto e che ancora oggi si susseguono, sebbene con un minore vigore, indulgono nel rappresentare la contrapposta dicotomia italiana in maniera incompleta e parziale, come caratterizzata, esclusivamente, dal duro confronto e scontro tra la Democrazia Cristiana ed appunto il Partito Comunista Italiano. Un semplificato schematismo più che la reale rappresentazione del composito arcipelago, seppure quantitativamente minore, dell’insieme delle forze in campo impegnate nella lotta per la conquista del governo e del potere. Poco ci si sofferma, in effetti, sul restante quadro rappresentato dall’insieme delle forze laiche minori, d’ispirazione laica, liberale e socialista, che pure in quegli anni difficili svolsero una funzione di elaborazione e di azione importante per non dire decisiva. E’ pertanto utile allargare lo sguardo, in questa circostanza, oltre lo scontro principale che senza dubbio oppose democristiani

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e comunisti italiani, ed esplorare anche in altre direzioni ricordando, in premessa, che la storiografia , di per sé, non può essere sempre e necessariamente unilaterale, asettica e neutrale. Un approccio ed un giudizio sulla biografia del nostro ieri è d’altra parte per più versi ancora attuale e necessario se si pensa che, in più aspetti della vita politica e sociale di oggi, molte delle questioni poste allora, pur nell’evidente e profonda mutazione sopraggiunta, possono essere criticamente rilette e riproposte in filigrana. Può risultare perciò utile in tal senso soffermarsi, brevemente, anche sulle così dette formazioni intermedie, da quelle socialiste e social democratiche a quelle repubblicane, d’ispirazione democratico- liberale e sulla funzione comunque di rilievo, spesso a torto sottovalutata o sottaciuta, dei loro capi e dei loro dirigenti. In questa occasione si tenterà un’analisi, seppure necessariamente parziale e provvisoria, proprio di una di queste organizzazioni cosiddette minori, il Partito Repubblicano, formazione che, pur raccogliendo sempre limitati consensi elettorali, tuttavia risultò più volte decisiva, negli anni dell’immediato secondo dopoguerra e nei decenni che seguirono, per la definizione degli equilibri politici, della stabilità e del governo del Paese. In particolare poi sarà utile soffermarsi sulla funzione di guida intelligente del suo leader indiscusso con cui a lungo il partito si identificò. Ugo La Malfa è stato senz’altro una espressione peculiare ed importante della storia meridionale ed italiana. Era nato da una famiglia di piccola borghesia (il padre lavorava nelle forze dell’ordine) della periferia palermitana. Molti uomini politici del tempo in effetti provenivano proprio dalla piccola borghesia. E l’uomo politico siciliano si trovò a rappresentare ed incarnò, ad uno dei livelli più alti e significativi, l’aspirazione, la tensione, la politica e la stessa cultura d’ispirazione laica e democratica fin dai tempi della crisi più acuta della democrazia italiana, quella verificatasi alla vigilia dell’avvento del fascismo. Se non si parte da ciò non si comprende, in maniera compiuta, l’effettiva collocazione storica del pensiero di La Malfa e le ragioni di fondo che la ispirarono. E neppure la logica alla base

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della sua riflessione teorica e della sua concreta azione politica. Che non fu, come invece genericamente si ritiene, azione e funzione di un politico isolato. Bisogna cercare allora di rendere più esplicito e chiaro ciò che può essere ancora sotterraneo ed implicito. Era stato senza dubbio Giovanni Amendola uno dei principali protagonisti della storia politica prefascista, l’uomo da cui La Malfa aveva ricavato importanti sollecitazioni e insegnamenti. In cosa si sostanziava la riflessione di Giovanni Amendola sulla nuova democrazia degli anni 20, dei primi due decenni del XX secolo? In un pensiero originato da considerazioni del tutto liberali, liberistiche anzi e pure vagamente conservatrici, nel mezzo della definizione di un’area di confine, assai labile, tra cultura liberale e cultura conservatrice. All’indomani della prima guerra mondiale Giovanni Amendola si era già proposto come uno dei principali leader della lotta antifascista ma anche come autore del primo tentativo di una più accurata riflessione sul tipo di democrazia da proporre al nostro paese. L’Italia del secondo decennio del XX secolo si trovava alla vigilia dell’avvento del fascismo, il grande squarcio, la vera e tragica frattura, rileverà più volte nei suoi scritti Benedetto Croce, nella storia della giovane nazione da poco giunta all’unità. Bisognava ergere una diga potente di fronte a ciò che stava avvenendo, una invalicabile barriera di ordine morale. Il problema della necessità della modernizzazione istituzionale della nazione in verità inizia a porsi già alla fine dell’ottocento, nella fase di avvio dell’ industrializzazione del paese e agli inizi del Novecento, nell’apogeo dell’esperienza giolittiana. Giolitti era stato uno dei primi ed autorevoli interpreti di questa esigenza seppur proposta in maniera parziale e insufficiente. La direzione politica di Giolitti durò per molti anni, pur tra palesi contrasti e opposizioni. Il suo tentativo, di costante ricerca della mediazione tra le diverse e contrapposte forze in campo, in specie tra industriali e classe operaia del Nord, aveva retto perché aveva fornito delle risposte per quei tempi sufficientemente convincenti ed in grado, per una fase almeno, di evitare che de-

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flagrassero, in maniera violenta e irreversibile, gli acuti conflitti di classe già da tempo germinanti nel paese. Gli scritti poco letti di Giovanni Amendola sono a questo proposito illuminanti. E’da Amendola e dal suo insegnamento che ha inizio la carriera politica di La Malfa. Giovanni Amendola, sentendo parlare il giovane siciliano, ebbe la netta ed immediata sensazione che ci si trovava di fronte ad un autentico “cavallo di razza” della politica italiana. Il dirigente liberale lo aveva ascoltato con viva soddisfazione e grande commozione246. Negli stessi anni dell’azione di Giovanni Amendola c’era un giovane torinese che tentava di conciliare ciò che conciliabile non era. Ovvero fare del liberalismo una rivoluzione, e che immaginava essere il comunismo, almeno nella sua versione italiana e nazionale, del tutto simile ad un movimento di autentica ispirazione liberale. Un giovane che, data l’età, ( morirà ucciso dai fascisti a soli 26 anni) ovviamente non poteva ancora possedere il requisito delle grandi costruzioni teoriche. Eppure, riesaminando ancora oggi ciò che c’è di vivo ed attuale in quel pensiero, si intuisce come Gobetti247 avvertisse chiaramente come i tentativi giolittiani e lo stesso richiamo politicomorale di Amendola non potessero risolvere, in maniera soddisfacente, il punto essenziale e dirimente del rapporto tra lo Stato Italiano e le masse e l’urgente necessità di accrescerne le basi del consenso. Una questione centrale e decisiva contrapponeva lo Stato di allora e le masse di allora sulla concezione dei modi di governare e dirigere i necessari ed indifferibili processi di modernizzazione e di democratizzazione di cui c’era bisogno. Troppo ampia la distanza e la frattura tra governo e paese e ancora assai scarsa e limitata la partecipazione popolare alle vicende della vita pubblica. Lo Stato era vissuto nella coscienza delle grandi masse come entità nemica, opposta, ostile, in maniera assai diversa da quanto si riteneva da parte dei capi politici dell’Italia libera246

La Malfa era intervenuto durante il Convegno dell’Unione Democratica Nazionale tenutosi a Roma dal 14 al 16 Giugno 1925. 247 Piero Gobetti, La rivoluzione Liberale, Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, Torino 1925, prima ristampa Casa Editrice Einaudi, Torino 1948

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le. Era difficile la conciliazione tra due modi distinti ed anzi opposti tra di loro. Questa spinta, insita nel pensiero di Gobetti, la si trovava anche in Rosselli, nella formula sintetica della giustizia accoppiata alla libertà. Agli occhi di Benedetto Croce248 questa formula era sintomo di una confusione enorme, un ircocervo, un animale allo stesso tempo caprone e cervo, e ciò in quanto a quel tempo quella era una questione che andava affrontata in relazione alla realtà vera e non immaginata, non riducibile ad una questione astratta di filosofia teoretica. La prima formazione politica cui aderì La Malfa fu quella del Partito D’Azione249 che aveva il suo motto appunto nella parola d’ordine “giustizia e libertà”, un richiamo, come si vede, profondamente mazziniano. E nel simbolo del Partito D’Azione non a caso veniva rappresentata la spada risorgimentale. Un altro dei suoi riferimenti teorici e politici privilegiati era costituito da Gaetano Salvemini, figura singolare nella storia politica e culturale dell’Italia nella prima metà del Novecento e fino alla sua morte. Salvemini era stato il primo ad avere auspicato l’alleanza tra i contadini del Sud e gli operai del Nord, il precursore della specifica formula poi usata da Gramsci nel noto saggio “La questione Meridionale”250. Pur non trattandosi di posizioni del tutto identiche e coincidenti, tuttavia vi erano tra i due evidenti sintonie in quanto entrambi consideravano, con realismo, la struttura essenziale del paese, nelle sue grandi conformazioni sociali e per le profonde interne differenze, come la questione decisiva, da troppo tempo evasa ed irrisolta, da affrontare e superare con urgenza. Salvemini raccolse molti consensi ed anche forti opposizioni ed insuccessi nella sua vita politica. 248

Croce Benedetto, L’idea liberale, contro le confusioni e gl’ibridismi, Scritti Vari, Laterza, Bari 1944. 249 Ugo La Malfa, Che cos’è il Partito d’Azione, a cura di G. Tartaglia, Acropoli, Roma, 1993. 250 Antonio Gramsci, La Questione Meridionale, Editori Riuniti, Roma 1966; II Edizione a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato, Editori Riuniti, Roma giugno 1969.

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La qualità morale dell’uomo è rappresentata, essenzialmente, dalla sua intransigente opposizione al fascismo e nell’idea di non mollare, nell’esilio a cui si sottopose andando a trovare un’altra patria e costruendo una diversa possibilità di vita in un paese lontano, gli Stati Uniti d’America, in una realtà del tutto nuova e sconosciuta di cui non conosceva neppure la lingua. Salvemini restò per sempre assolutamente fedele ai suoi originari ideali politici. Mazzini, Rosselli, Giovanni Amendola, quindi, i suoi essenziali punti di riferimento storici, politici, teorici. Salvemini, in qualità di storico dell’età contemporanea, intervenne sul primo decennio della politica estera del fascismo attingendo soltanto alle scarne notizie di cui disponeva e che poteva ricavare dai giornali ufficiali. Si tratta ancora oggi di una delle migliori testimonianze che ci sia stata fornita sull’argomento251.Tornando dall’America in Italia, Salvemini tentò di impegnarsi nella politica e partecipò attivamente al dibattito pubblico. Ferocemente contrario al Partito Liberale ed alla sua concreta tradizione, per la sua tendenza alla vacua declamazione di principi astratti non in grado di incidere in alcun modo sul reale e portatore di un’aspra polemica anti giolittiana. Salvemini, a proposito di Giolitti, sosterrà che l’uomo era stato un “pessimo sarto”. E’ rilevante la prefazione di La Malfa agli scritti di Salvemini sulla questione meridionale pubblicata da Einaudi nel 1956 a cura di Gaetano Arfè252. Se c’era un vero problema nell’Italia del dopoguerra esso consisteva nel fatto che la parte peggiore della politica nazionale si concentrava all’interno del Governo, la parte più avanzata e progressiva nelle forze di opposizione. Perciò il massimo dirigente repubblicano sognava il giorno in cui i giovani comunisti di allora avrebbero messo al servizio dello sviluppo del paese l’energia e l’entusiasmo, lo slancio di vita etico- politica e di pulizia, non le false ed illusorie idee di comunismo ma appunto della libertà e 251 Nicola Tranfaglia, Gaetano Salvemini storico del fascismo, in “Studi Storici”, anno 29, n.4, ottobre-dicembre 1988. 252 Si veda in proposito anche Gaetano Salvemini, Dai ricordi di un fuoriuscito, 1922-1933, Bollati Boringhieri editore, a cura di M. Franzinelli e l’edizione curata di Gaetano Arfè, Feltrinelli, Milano 1960.

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della democrazia. E’ opportuno ricordare tutto ciò perché La Malfa fu un originale interprete dell’Italia dei suoi tempi e per più aspetti ne comprese in anticipo, a fondo e bene, la natura. Di particolare rilievo per la sua formazione era stata in precedenza l’esperienza iniziata nel 1936 alla Banca Commerciale, che gli aveva consentito di entrare in contatto, tra gli altri, con Guido Carli, Enrico Cuccia, Cesare Merzagora. Esemplificative e illuminanti al proposito le sue parole: “Cominciai a conoscere Keynes, quindi il pensiero economico americano e il New Deal, il laburismo, il Fabianesimo… cominciai a valutare criticamente i problemi dell’economia italiana. Là, alla Banca, c’era la possibilità di conoscere quello che maturava nel mondo anglosassone”. Non ebbe un grandissimo successo ma riuscì a trasformare il Partito Repubblicano, ridotto a ben poca cosa dopo le elezioni del 1948, con una discesa rovinosa da 25 a 9 deputati e nelle successive elezioni del 1957 addirittura a 5 deputati. Ne impedì in sostanza lo sfarinamento e la scomparsa ed anzi riuscì ad ampliarne la capacità di egemonia ed influenza sul complesso della politica italiana. Il suo vero e più importante risultato fu quello di trasformare un piccolissimo partito in una forza politica particolare che nel paese contò ben oltre i suffragi striminziti che riusciva ad ottenere. Una grande parte del mondo politico, di destra e di sinistra, era particolarmente ostile a La Malfa e non si spiegava come mai con una piccolissima formazione politica si riuscisse a condizionare, spesso in maniera decisiva, le scelte generali del Governo e del Paese. Se però si guarda ai contenuti delle posizioni sostenute, in tema di politica economica, di riforme sollecitate ed in parte realizzate, se si indulge ad inquadrare la sua visione di collocazione dell’Italia nello schema di alleanze di un mondo bipolare allora senza dubbio impianto analitico e ruolo del leader repubblicano risultano essere state ben più ampie ed incisive. Il suo ragionamento teorico- politico si sostanziava infatti di robusti contenuti. E dibatteva alla pari con uomini come Moro e Fanfani ricercando, come si vedrà, convergenze con la stessa opposizione comunista. Uno dei suoi insuccessi più grandi fu la scarsa considerazione che conseguì a livello internazionale. Le sue idee ebbero scarsa

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presa in Inghilterra, di più in Francia ed in America. La sua posizione in tema di collocazione internazionale dell’Italia fu sempre intransigente. E in maniera radicale. Con lui si poteva dialogare e confrontarsi su tutto tranne che mettere in discussione la naturale collocazione dell’Italia nel contesto occidentale e dell’Alleanza Atlantica. E poi c’era larga parte dell’emigrazione italiana d’oltreoceano che a La Malfa prestava un’attenzione particolare. Eppure a livello internazionale non divenne una figura di particolare prestigio, in ogni caso mai paragonabile a De Gasperi o Andreotti. Ancora oggi l’Italia in realtà non riesce a far capire bene i suoi problemi. E comunque a quel tempo era difficile far comprendere agli intellettuali italiani, in larga prevalenza orientati a sinistra, cosa significasse l’aggettivo “laico”. O l’idea dell’esistenza del “paese duale”, concetto che, fuori dai confini strettamente nazionali, era inteso come se l’Italia fosse costituita da due paesi in uno. Ancora più complesso fare accettare le terapie adatte a superare questa contraddizione strutturale. Certo non venivano comprese facilmente le posizioni che La Malfa esprimeva sul Mezzogiorno, per lo più incentrate non tanto sulla sottolineatura delle marcate differenze tra le distinte aree geografiche quanto piuttosto sulla profonda necessità e originalità, per l’Italia intera, dell’accelerazione del processo di creazione dell’Europa unita. “Mezzogiorno nell’Occidente” è in proposito l’illuminante articolo di La Malfa apparso sulla rivista “Nord e Sud”253.La Malfa di quella esperienza fu il nume tutelare. Lo scarso rilievo che si darà internazionalmente all’uomo è sintomatico della particolarità dell’Italia di quel tempo nel contesto europeo. Quando si 253 Ugo La Malfa, Mezzogiorno nell’Occidente, in Nord e Sud, Dicembre 1954. Nord e Sud, rivista d’ispirazione liberale e democratica, nasce a Napoli ed avrà tra i suoi principali animatori, oltre ad Ugo La Malfa, Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Giuseppe Galasso. In polemica con Cronache Meridionali, di prevalente ispirazione socialista e comunista, che aveva visto tra i suoi principali esponenti Giorgio Amendola, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napoletano, Francesco De Martino, guarderà con favore ed attenzione all’apertura di una nuova fase politica, quella del centro sinistra, ed alle speranze di riforma economiche e politiche allora propugnate dalle forze di governo d’ispirazione riformista.

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parla di La Malfa e si pensa al ruolo da lui esercitato nella storia nazionale si comincia, in genere, dal 1951, e invece si deve iniziare, come prima si è cercato brevemente di spiegare, da parecchio tempo prima. Prima del Partito Repubblicano, dal Partito D’Azione, dall’importanza strategica di scindersi dal Partito D’Azione. Più forze erano in origine confluite in questa formazione: il movimento “Giustizia e Libertà”, una corrente repubblicana, i liberali crociani-amendoliani, i sardisti, i liberalsocialisti. Un raggruppamento, eterogeneo e composito, che farà fatica a mantenere al suo interno l’unità e la coesione finendo ben presto per dividersi disperdendosi in più rivoli. La vera scissione italiana è stata in realtà proprio quella realizzatasi all’interno del Partito D’Azione. In quel partito, d’ispirazione risorgimentale, c’erano componenti che, ad un certo punto, reputando velleitario e destinato al fallimento il precedente tentativo sintetizzabile nell’obiettivo di dare vita ad una terza forza, spingevano per la confluenza nel Partito Socialista, altre nel Partito Comunista, sbocco l’ultimo ritenuto da più parti assolutamente inaccettabile.L’idea di fondo su cui era imperniato il suo ragionamento era quella secondo cui fosse realisticamente possibile costruire, nel panorama politico italiano, una forza politica intermedia, da far sorgere su un impianto effettivamente e conseguentemente riformista, capace di sfuggire alla frontale contrapposizione tra partito cattolico e forze social comuniste, coi loro reciproci, paralizzanti sistemi ideologici sul cui impianto si stava sempre più caratterizzando lo scontro politico in Italia, nell’Europa e nel mondo. Una “terza forza”, laica e progressista, un partito di stampo europeo capace di mediare e di far accordare tra di loro i due grandi blocchi di massa, i democristiani di De Gasperi ed i social-comunisti di Togliatti e di Nenni. Forze di notevole spessore culturale, d’ispirazione azionista, che espressero compiutamente una tale posizione sul piano culturale sui fogli della rivista “ Il Mondo”, diretta da Mario Pannunzio. L’idea originata dall’esperienza del Partito d’Azione era durata troppo poco, per chiudersi ben presto, poco dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. Ne derivò la diaspora che disperse gli azionisti in diverse e separate formazioni politiche, più compatte e

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più coese. La Malfa, preso atto della situazione che si era venuta a determinare dopo il fallimento di quel generoso ma anche ingenuo tentativo, ebbe il merito di non chiudersi ma di aprirsi alle novità, dimostrando forte duttilità e capacità di confronto con gli altri. La Malfa fu inoltre tra i dirigenti politici più prodighi nella ricerca del dialogo col Partito Comunista, in una fase in cui questa era una tra le cose di sicuro meno facili. Fu il primo ad apprezzare lo strappo del legame del PCI da Mosca, pur ritenendo che esso non sarebbe risultato sufficiente fin quando non si fosse tradotto in atti di conseguente responsabilità politica, nell’inequivocabile accettazione dei principi liberali e universali di libertà, pluralismo politico e di democrazia. Un altro esponente della borghesia meridionale, di una piccola città, Avellino, era Guido Dorso che pensava che il modello- politico e civile da realizzare in Italia fosse quello dell’Occidente. Egli aveva capito a tempo che l’indirizzo del mondo contemporaneo avrebbe visto di sicuro prevalere quel modello istituzionale, politico e sociale. A questo ideale di civiltà politica egli rimase fermamente fedele. Con contraddizioni anche acute. L’elemento in assoluto prevalente è la chiarezza della direzione di marcia verso cui si mosse e la giustezza di alcune essenziali sue intuizioni almeno in parte confermate dallo sviluppo concreto degli eventi. In buona sostanza il nocciolo essenziale del pensiero del dirigente politico siciliano può essere sintetizzato in questi punti prioritari: l’intransigente proposizione della costruzione, in Italia, di un sistema democratico e repubblicano che ponesse definitivamente fine all’esperienza monarchica; l’individuazione di alcuni interventi statali decisivi atti a ridurre in maniera significativa il potere eccessivo e senza controllo dei grandi monopoli che si materializzeranno con l’avvio della nazionalizzazione di alcuni complessi monopolistici e di grande interesse collettivo come quello elettrico; la messa in moto di una profonda riforma agraria che concorresse alla progressiva riduzione del divario di sviluppo tra le diverse aree del paese ed iniziasse ad attuare, per mezzo della programmazione economica, un percorso coerentemente ed incisivamente riformista; la grande attenzione al

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mantenimento dell’equilibrio dei conti pubblici e la capacità di tenere sotto controllo l’inflazione; il coinvolgimento pieno e responsabile dei Sindacati nella partecipazione al processo economico; la creazione di un paese in cui venisse garantito, ad ogni cittadino, la piena libertà di credenze e di culto in una visione laica di netta separazione e distinzione del potere civile da quello religioso; la messa in moto di un processo politico nazionale e sovranazionale che si sostanziasse nella creazione di una Federazione europea di liberi paesi democratici nel più ampio quadro di una più vasta collaborazione mondiale incentrata sull’alleanza atlantica. E’ certo questo ultimo aspetto quello che probabilmente favorisce la comprensione dell’originalità del pensiero di La Malfa e la qualità oggettivamente anticipatoria delle sue intuizioni. Un’elaborazione politica e teorica in anticipo sui tempi, un robusto impianto di pensiero che guardava al futuro dell’Italia non in relazione ad angusti approcci e chiusure provinciali quanto piuttosto all’interno di una visione ben più ampia e aperta, necessariamente incentrata su una visione sovranazionale, continentale ed europea, l’unica prospettiva percorribile per attuare i necessari processi di modernizzazione ed integrazione dell’intero paese. Per ciò che concerne infine la sua visione di sviluppo dell’economia mi sembra si possa sostenere che egli fu naturalmente ostile all’idea di un’economia a sistema chiuso e recintato, senza concorrenza ed allo stesso modo critico verso una visione salvifica, di esaltazione di un liberalismo selvaggio e senza regole. Egli accettò il concetto di economia di mercato e di concorrenza, che tuttavia non doveva escludere l’idea di un parziale e mirato intervento dello Stato che ne regolamentasse le dinamiche interne saldando in un processo progressivo, di unità economica e produttiva, una nazione fin dalle origini acutamente duale. Così può interpretarsi il favore con cui guardò all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno ed alle precise funzioni ad essa originariamente assegnate254. Fu inoltre sempre

254

A proposito di una ricostruzione ragionata della storia della Cassa del Mezzogiorno è utile consultare il libro di S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel mezzogiorno ( 1950-1993), Lacaita, Manduria, 2000, ed il

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duramente contrario ad ogni scelta di tipo assistenziale tesa a disperdere in mille rivoli risorse pubbliche da impiegare invece in maniera mirata, più utile e virtuosa255. Anche in economia, comunque, una visione minoritaria, e piuttosto inconsueta, di terza forza e di terza posizione. Il centro-sinistra che inizierà a materializzarsi nel 1962 col Governo Fanfani, varato con l’appoggio esterno del PSI, vedrà proprio La Malfa ministro del Bilancio256. In verità l’Italia, dopo il fervore dell’immediato secondo dopoguerra e la straordinaria tensione unitaria che era stata diffusamente messa in moto per garantire la ricostruzione e la rinascita, iniziava proprio allora ad essere potentemente condizionata dalla nascita e dal consolidamento di robuste corporazioni deviate che ne avrebbero indirizzato, in negativo, sviluppo e identità. Una serie disseminata di piccoli poteri ma coriacei, tra loro separati e non comunicanti, che avrebbero ostacolato ed impedito la messa in essere di un processo in cui risultasse prevalente l’attenzione agli interessi generali. Compartimenti stagni all’interno dei quali non poteva penetrare una visione fondata sulla priorità dell’interesse generale rispetto ai vari ed ostativi particolarismi. Un lascito negativo che la storia nazionale purtroppo in vari aspetti ancora oggi si trascina. Perciò, come si accennava, l’insistenza sulla necessità di tenere sotto controllo il debito pubblico e l’inflazione e la chiamata dei sindacati alla corresponsabilità con la richiesta della moderazione nelle richieste salariali, perciò l’incoraggiamento ad azioni che si muovessero sul terreno concreto della programmazione e della realizzazione di alcune riforme strutturali di rilievo, sulle nazionalizzazioni, sulle riforme dell’università, della sanità, dei trasporvolume di Piero Lucia, Salerno, Firenze, frammenti sparsi di storia e di cultura democratica, Arti grafiche Boccia editore, Salerno 2004. 255 Lo ricorda Giuseppe Galasso, nella recensione di commento al libro di Paolo Soddu, Ugo La Malfa, il riformista moderno, Carocci 2008, apparsa l’8 luglio 2008 sul “Corriere della Sera”. 256 La rivista “Il Mulino”, nel convegno organizzato a Bologna nell’aprile del 1961 sul tema “La politica estera degli Stati Uniti e la responsabilità dell’Europa” aveva anticipato lo sviluppo degli eventi e nell’occasione uno degli interventi più qualificati era stato proprio quello di Ugo La Malfa.

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ti, della casa. Obiettivi tenacemente perseguiti ma solo parzialmente raggiunti. Un lascito che permane tuttora, con danni e conseguenze negative enormi. Questo fu il vero cruccio di La Malfa e della parte migliore degli uomini politici d’Italia, questa la ragione di convergenze, periodiche e non effimere, con autentici uomini di Stato come Giorgio Amendola. Il confronto, in specie con Giorgio Amendola, pur sempre all’interno di una visione che in via prioritaria privilegiava la stretta intesa tra laici e cattolici, fu fitto, serrato e costruttivo e frequenti le sintonie con una visione realista e riformista di quella parte del partito comunista spesso osteggiata e criticata dal resto dei militanti e dalla stessa direzione. Negli anni successivi, alla metà degli anni 70, dopo il giugno 1976, La Malfa sarà il primo dei vecchi leader storici di formazione laica ed anticomunista a guardare con favore ad un ulteriore sviluppo in avanti della situazione politica italiana ed all’ipotesi della realizzazione del “compromesso storico”, giudicato ormai come una ineluttabile necessità. Nel 1974 aveva dichiarato “ Un governo riformatore potrebbe servirsi dell’opera del Pci se il Pci avesse il coraggio di accettare il disegno di fondo di una società giusta e libera in tutte le sue conseguenze. Maneppure col Pci si può arrivare a niente se viene a mancare l’energia morale. Incidentalmente dirò che durante l’antifascismo e la resistenza di tale energia ne ebbero in forte misura gli azionisti e i comunisti”. E a quella energia ed a quella volontà bisognava a suo avviso di nuovo e potentemente far ricorso. Colpisce nell’uomo il senso del dovere e dello Stato, la concezione alta e disinteressata della politica, lo sguardo della ragione rivolto sempre al futuro, un altro esempio di un pensiero vivo, creativo, concreto e appassionato e di una prassi in netto contrasto con l’aridità grigia dei tempi presenti in cui viviamo.

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A cento anni dalla nascita di Giorgio Amendola Dal maggio al luglio 1977 sui principali organi d’informazione italiani si sviluppò una fitta polemica sul “coraggio” e la “viltà” degli intellettuali. Essa aveva preso origine dalle posizioni assunte da uno dei maggiori poeti italiani,Eugenio Montale,e da Leonardo Sciascia che, con varie argomentazioni, avevano dichiarato di comprendere e condividere la scelta di diserzione compiuta dalla gran parte dei giudici popolari al processo intentato a Torino contro le Brigate Rosse. Una diserzione motivata non da problemi di principio quanto piuttosto dalla paura fisica di subire rappresaglie. Era stato Giulio Nascimbeni a pubblicare sul “Corriere della Sera”257 un’intervista a Montale in cui alla domanda “Se fosse stato estratto il suo nome avrebbe accettato di fare il giudice popolare?” Montale aveva risposto “Credo di no . Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose,ma non metafisica né esistenziale”. Un giudice popolare, per Montale, non aveva infatti alcuna garanzia e pertanto “davanti ad episodi come quello di Torino dico che non si può chiedere a nessuno di essere un eroe”. E ciò a fronte del fatto che “La sconfitta dello Stato è vecchia e viene da lontano è la conseguenza,estrema, di un deterioramento che appare inaccettabile”. A tale posizione avevano replicato Galante Garrone e,soprattutto,Italo Calvino che nell’articolo“Al di là della paura”, pubblicato sempre sul “Corriere della sera”258, aveva sostenuto, con estrema nettezza, di avvertire come un pericolo grave il fatto che “il nostro massimo poeta ci esorti a fare nostra la morale di Don Abbondio”. Il giorno seguente, il 12 Maggio 1977, Leonardo Sciascia rincarò la dose e nel pezzo “Non voglio aiutarli in alcun modo”sostenne, senza alcuna remora, che non avrebbe mai accettato di far parte di una giuria per “..non fare da cariatide a questo 257 258

Su “Il Corriere della sera”, 3 maggio 1977. “ Il Corriere della sera”, 11 maggio 1977.

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crollo o disfacimento (dello Stato) di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile. C’è una classe di potere che non muta e non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito e contribuire a riconfortarla”. A queste tesi,avvertite come preoccupante spinta alla disgregazione della Nazione, si oppose con durezza Giorgio Amendola che, in un’intervista a Gianni Corbi pubblicata su“L’Espresso”259, contestò una concezione“aristocratica”della lotta politica di cui aveva trovato eco in un intervento di Norberto Bobbio apparso su “La Stampa”260. Per Amendola il pessimismo estremo sui destini dello Stato democratico equivaleva a “disfattismo”. D’altra parte troppe volte in passato gli intellettuali italiani avevano dato prova di assenza di coraggio civico. “Il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana”.Gli intellettuali italiani infatti, già durante il fascismo, avevano dato prova di “Nicodemismo che consisteva nel rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare -cioè al regime- riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà”. Alle posizioni di Amendola seguirono reazioni indignate come quella,stupefacente,di Franco Fortini, cui seguì una secca replica della redazione de “L’Unità”261 che accusò il dirigente comunista di avere assunto,in quella occasione, l’identico atteggiamento di Scelba contro“il culturame”. Leonardo Sciascia fu poi aspramente redarguito da Edoardo Sanguineti su “L’Unità”262per essere diventato quasi“una sentinella che diserta”. La polemica si trascinò per qualche tempo divenendo sempre più incandescente. Essa aveva evidenziato una divaricata ed opposta concezione dello Stato. Da un lato chi si spingeva fino al punto estremo,di netta equidistanza, arrivando a coniare la parola d’ordine “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Assioma in apparenza legittimo in quanto le istituzioni italiane,da molto tempo e per troppi aspetti, apparivano irrimediabilmente 259

“ L’Espresso”, 5 Giugno 1977. “ La Stampa”, 15 Maggio 1977. 261 “ L’Unità”, 3 Giugno 1977. 262 “ L’Unità”, 26 giugno 1977. 260

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degradate, un ostacolo alla compiuta realizzazione degli inalienabili diritti di libertà e di giustizia dei cittadini. Del tutto opposta la linea di chi orgogliosamente difendeva il carattere, democratico e progressivo, dello Stato democratico, gli elementi di continuità del complesso, seppure incompiuto processo,della sua distintiva formazione, figlia della tragica ed esaltante esperienza della guerra di liberazione. In una tale visione la carta costituzionale rappresentava la concorde ed avanzata sintesi del patto fondante della Repubblica conquistata grazie al sangue versato per la patria dai combattenti antifascisti. Lo Stato democratico andava perciò salvaguardato e difeso,in maniera intransigente,da ogni forma di violenza eversiva e le sue radici andavano ulteriormente irrobustite con lo sviluppo e l’estensione della lotta democratica di massa per la realizzazione di più ampi e percettibili elementi di giustizia e libertà. Il pluralismo, una visione dell’agire politico volta al confronto, alla convergenza ed alla collaborazione con altre formazioni e personalità della politica e della cultura,l’attenzione ad ogni nuovo fermento culturale che emergeva nella società italiana, in Europa e nel mondo, la tendenza alla feconda provocazione della discussione, l’assenza di opportunismo, conformismo, la passione, spesso scevra di diplomazia nella battaglia politica, l’intransigenza sui principi, la limpida tensione morale ed una straordinaria capacità di lettura anticipatoria delle tendenze storiche, politiche ed economiche del capitalismo italiano, questi alcuni tratti, cristallini, della biografia politica ed umana di Amendola. La sua formazione politica e culturale e l’approdo al Partito Comunista si erano realizzati attraverso lo strappo, netto e polemico,col suo mondo d’origine eppure la sua scelta di essere un “rivoluzionario di professione” non sarà mai ideologica e fideistica. Assoluta e intransigente, sempre, l’opposizione al fascismo. In gioventù si era trovato immerso nel pieno della crisi dello Stato liberale e nel torbido clima della guerra civile. Per Giorgio il fascismo non era stato “una parentesi buia della storia d’Italia” quanto piuttosto la tragica espressione, venuta in emersione, di un substrato, torbido e reazionario, generato da un molteplice crogiuolo di fattori di grave arretratezza economica,

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culturale, civile le cui cause andavano comprese ed indagate a fondo per isolare le forze più retrive ed inquinanti dal corpo della Nazione così da impedire che la Storia potesse un giorno riprodurre i propri mostri. Amendola attraverserà la fase della clandestinità, il carcere, il confino, l’esperienza di esule in Francia ed in Africa. Sceglierà di tornare in Italia quando si creeranno le condizioni, minime, per lo sviluppo dell’opposizione armata al fascismo ed al nazismo. Sarà a capo della resistenza romana e, nella direzione del CLN, si assumerà la responsabilità dell’azione armata in Via Rasella contro una pattuglia tedesca,l’operazione militare cui seguirà la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Tutta l’Italia, al Sud come al Nord, doveva insorgere per la libertà e l’indipendenza della Patria contro l’occupante le cui retrovie non dovevano risultare più sicure. Passato al Nord sarà tra coloro che, insieme a Longo ed a Sereni, decideranno la condanna a morte di Mussolini. Eppure, l’avere vissuto da protagonista tutti gli snodi essenziali della storia del Novecento, dalla crisi dello Stato Liberale al fascismo ed alla democrazia repubblicana, non lo farà mai indulgere in schematismi esemplificativi, in facili scorciatoie nella dura lotta per la costruzione della democrazia e del socialismo in Italia. Profonda era infatti in lui la consapevolezza degli imprescindibili condizionamenti costituiti, all’indomani del secondo conflitto mondiale,dallo scenario di un mondo ormai diviso in due distinte sfere d’influenza che sconsigliavano forzature avventuriste, di tipo greco. Netta la sua scelta di campo e la sua fedeltà all’Unione Sovietica ed al blocco socialista. Forte e cosciente, al contempo, la convinzione della sussistenza, in Italia, della forza e del robusto potere dei grandi gruppi economici e finanziari potenzialmente pronti all’avventura. Prescindere da una realistica analisi dei rapporti di forza avrebbe prodotto un’involuzione rovinosa,il blocco del percorso di avanzata democratica del movimento dei lavoratori, una nuova, probabile, tragica sconfitta. A Giorgio Amendola infatti era del tutto chiaro come l’unità della Nazione fosse stata raggiunta, essenzialmente, grazie all’azione, tenace e risoluta, di esigue minoranze, compreso un ristretto manipolo di uomini di tendenze sinceramente democratiche nel mentre invece la stragrande

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maggioranza delle masse popolari, in specie contadine, aveva accolto i cambiamenti con sostanziale passività. Una massa, in sostanza, ancora troppo “mobile e incerta”. L’unità del Paese, relativamente recente, ne aveva evidenziato l’adolescente spirito di nazione. Non gli sfuggiva come l’Italia non avesse mai vissuto, nella sua lunga storia, alcuna grande riforma religiosa né come l’ assetto politico e statuale raggiunto non fosse stato conseguente ad una vera e propria rivoluzione a sfondo sociale. Ciò poteva spiegare perché il popolo italiano troppe volte aveva manifestato una scarsa sensibilità pubblica ed un’educazione politica troppo monca e limitata. Convinzioni ulteriormente rafforzate dallo stridente dualismo ancora esistente tra il Nord ed il Sud del Paese. Nell’Italia Meridionale dell’immediato secondo dopoguerra ancora gracilissimo appariva infatti il tessuto connettivo democratico, estremamente fragile l’ossatura organizzativa dei partiti antifascisti, scarsa e quasi del tutto ininfluente la partecipazione delle masse alla vita pubblica. Soltanto la rottura rappresentata dalla guerra di liberazione nazionale aveva posto le inedite premesse per la costituzione di un nuovo Stato, mai in precedenza conosciuto, che avrebbe finalmente potuto garantire l’avvenire al popolo italiano, colmando la distanza fino ad allora avvertita tra masse popolari e Stato, tra governanti e governati. Compito del Partito doveva essere quello di modificare, con progressività, la situazione, ampliando le basi democratiche dello Stato mediante l’organizzazione e la direzione della lotta di popolo, per l’attuazione della riforma agraria e per l’industrializzazione, nelle campagne e nelle città. Dall’osservatorio privilegiato del Mezzogiorno drammatica era apparsa ad Amendola l’assenza di una classe dirigente autenticamente democratica e riformatrice. I vecchi ceti dell’Italia liberale, e poi fascista, avevano evidenziato l’assoluta incapacità di svolgere una funzione conseguentemente nazionale. Il problema era di lavorare alacremente per creare, innanzitutto nel Mezzogiorno, una nuova ed avanzata classe dirigente, collegata col proletariato industriale del Nord,capace di sviluppare la lotta di massa democratica per migliorare, decisamente, le gravi condizioni economiche, civili, materiali della società meridionale,

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fino ad allora in larga parte agraria, portando finalmente a compimento l’incompiuto processo risorgimentale. Un impegno cui egli si dedicherà con straordinario entusiasmo ed energia, con l’elaborazione e l’analisi teorica e nella concreta organizzazione e direzione della lotta di massa. Illuminante al proposito l’esperienza di “Cronache Meridionali”, la rivista che dirigerà insieme a Francesco De Martino ed a Mario Alicata ed a cui collaboreranno, tra gli altri, Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano. Quella di Amendola è una visione originale e dinamica, un’interpretazione, creativa, del nucleo del concetto di Togliatti sulla democrazia progressiva, di tipo nuovo. Le possibilità di sviluppo democratico della società italiana apparivano realizzabili solo in presenza dell’accordo, su base programmatica, delle forze democratiche, anzitutto tra quelle derivanti dall’originario comune ceppo socialista e dalla loro piena e comune assunzione di responsabilità nelle funzioni di direzione dello Stato. E ciò sarebbe stato possibile superando incrostazioni,riserve,contrapposizioni ideologiche e di parte. Concrete convergenze dovevano inoltre realizzarsi con le forze cattoliche progressive,con le personalità di formazione laica e liberale per dare vita ad un grande, esteso, potente fronte popolare di progresso anzitutto nel Mezzogiorno d’Italia. Tale il senso del paziente lavoro di Amendola nel ritessere una trama di rapporti,politici e personali, con personalità eminenti quali Manlio Rossi Doria, Guido Dorso,con lo stesso Benedetto Croce verso cui pure più volte in passato era stato duramente polemico. Una tale impostazione, con la proposizione di una linea politica incisiva e conseguente, era originata in Amendola dall’approfondito studio della specificità della storia nazionale, dal tortuoso, complesso e tormentato percorso attraverso cui era stata raggiunta l’unità della Nazione, dalla convinzione, piena,della parzialità, in specie sul piano delle riforme istituzionali e sociali, con cui era stato portato a compimento il processo risorgimentale. E la lotta vittoriosa, contro il fascismo ed il nazismo, non poteva indurre a ritenere che fossero state estinte e prosciugate, per sempre, le radici conservatrici e reazionarie presenti nel substrato più profondo dello Stato Nazione. Pericolosa e fallace, di conseguenza, l’illusione che il Paese fosse ormai indenne,per sem-

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pre,dal pericolo di rigurgiti involutivi, reazionari, autoritari. A fronte di una tale cosciente consapevolezza era perciò indispensabile sollecitare in ogni modo la partecipazione e la responsabilità,civile e politica, dei cittadini e delle loro espressioni organizzate, i Partiti ed i Sindacati innanzi tutto. In un tale processo esiziale appariva qualsivoglia suggestione di arrogante autosufficienza di parte. Ed il destino e le fortune del Partito non dovevano mai essere disgiunte dal destino e dalle fortune della nazione e dall’assoluto imperativo di rafforzarne l’unità. Per Amendola non vi era alcuna possibilità di avanzata del movimento dei lavoratori se veniva indebolito e sfilacciato il tessuto economico e connettivo del Paese, se non si teneva sotto controllo l’inflazione che falcidiava i redditi fissi, i salari e le pensioni, se non si incrementava la produttività del lavoro, prendendo le distanze dal “facile” rivendicazionismo egualitario, se non si elevava la cultura generale della società, incrementandone il livello tecnologico e scientifico, fattori essenziali per la capacità di competizione, generale, del sistema. La lotta all’inflazione e il suo controllo era l’obiettivo primario da conseguire per la difesa della capacità di acquisto del lavoro dipendente. Una priorità su cui incentrare l’azione unitaria delle forze sindacali e del lavoro. Queste alcune delle ragioni di fondo da cui Amendola ricavava una forte fiducia nelle possibilità delle funzioni progressive dello Stato nazionale. Esso rappresentava l’unica creazione davvero rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano. Certo bisognava ancora lavorare, aggiornare, innovare sintonizzando la legislazione ai tempi nuovi. Di certo però nulla di positivo si poteva costruire se si era disposti ad assistere, inermi, ad azioni miranti a mutare, strutturalmente e definitivamente, le basi stesse dello Stato dopo averlo prima mortalmente indebolito. Era del tutto errato, perciò, combattere lo Stato in quanto tale, considerarlo di per sè come nemico e non lottare per trasformarlo ancora più profondamente in meglio, quale struttura indispensabile anzitutto alla difesa delle fasce sociali più deboli e marginali. Nessuna concessione alla demagogia, quindi, e nessuna semplificazione dottrinaria. Il punto era perciò continuare a battersi

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per una democrazie, nuova e più avanzata, che non dovesse mai prescindere dalla difesa di tutte le libertà, pubbliche e private, incrinando ed eliminando, sempre più in profondità, ogni esagerato privilegio. Se era stata avviata, come si è detto, con la resistenza, la costruzione di uno Stato nuovo il cui essenziale fondamento era rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nessuno poteva mai essere autorizzato ad oltrepassare, per interesse di gruppo, ceto o casta, i limiti consentiti dallo spirito delle leggi comunemente concordate. Un impianto concettuale in cui, in tutta evidenza, si rifletteva la lezione del padre, di Giovanni Amendola, il cui nucleo essenziale di pensiero veniva però ulteriormente espanso e sviluppato in una visione della storia dinamica e moderna, nella profonda osmosi e sintonia con le sollecitazioni al cambiamento ed al progresso provenienti dalle classi popolari, dal “ventre” della nazione con cui ci si doveva di continuo rapportare. Posizioni, complesse e spesso impopolari, soprattutto se proposte in una fase storica ancora assai impregnata di acuti elementi di autentica ubriacatura ideologica. Amendola fu propositore anche di idee, anticipatorie ed illuminanti, quale quella del Partito unico della sinistra, spesso osteggiate e combattute all’interno di entrambi i Partiti della sinistra, comunista e socialista. Anomalo fu ancora il modo in cui in lui pubblico e privato continuamente s’intrecciavano, quasi fondendosi. Frequenti in Un’isola, ed in Una scelta di Vita i richiami al padre, alla madre, alla sua devastante malattia263. Tracce di un’autobiografia intensissima,la cui trama è stata di recente efficacemente ricostruita da Gianni Cerchia. Amendola osteggerà sempre l’idea di un Partito pietrificato nel dogma e perciò inerme nella altera ed orgogliosa rivendicazione della sua “diversità”. Si batterà piuttosto per dar vita ad una forza politica profondamente innervata nella storia della Nazione ed in grado perciò di esercitare un incidente azione atta a modificare, a vantaggio dei lavoratori, i rapporti di forza esistenti tra i distinti ceti sociali del Paese ed eliminando progressivamente i contrasti più stridenti e gli odiosi, persistenti privilegi delle forze più 263

Giorgio Amendola, Una scelta di vita- Un’isola, Editore Mondadori, Novembre 1980.

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retrive del grande padronato industriale, dei monopoli, degli agrari, del capitale finanziario nazionale. Analisi, impianto teorico, proposta politica che anche a Salerno aveva registrato una larga incidenza in fasce importanti del partito, a partire dalle rappresentanze parlamentari, dagli uomini di punta della Federazione comunista di quel tempo, gli onorevoli Gaetano di Marino,Tommaso Biamonte, Giuseppe Amarante e più avanti Roberto Visconti, cresciuti alla sua scuola e che riconoscevano in lui, senza incertezza, il proprio riferimento più autorevole. Infine il rapporto coi giovani,la tensione al dialogo, fitto ed intenso, polemico e fecondo, proiettato in un orizzonte travalicante il tempo presente e l’immediata contingenza storica, la fiducia nel destino della Patria e della Democrazia, l’attenzione ad educare,con l’ossessivo e rigoroso richiamo alla necessità dello studio e dell’approfondimento critico,i nuclei d’avanguardia di quella che avrebbe dovuto diventare la futura classe dirigente del Paese. Nel 1974 a Salerno, nel Cinema Augusteo, si tenne una grande manifestazione organizzata dalla Federazione Comunista salernitana. Amendola, che la presiedeva, scelse di non fare il classico comizio. Preferì, per nulla incline come era a considerare il confronto ed all’occorrenza la lotta politica quale mera tattica, magari costellata anche di trappole ed agguati, un confronto pubblico, esplicito, aperto e senza reti, coi giovani. Mi capitò, dopo la breve introduzione del Segretario della Federazione salernitana, di fare un intervento. In esso, ancora impregnato e sotto la suggestione della recente lettura di “Proletari senza Rivoluzione264” di Renzo Del Carria, chiesi polemicamente ad Amendola se non considerasse un tragico errore il fatto che il Partito Comunista non avesse spinto, all’indomani dell’attentato a Togliatti, in direzione della soluzione estrema, insurrezionale, della presa del potere in tal modo vanificando un’irripetibile occasione. Amendola replicò, con pacata concretezza, all’allora ancora “giovane compagno”che era errato immaginare che il processo di trasformazione democratica della società potesse realizzarsi, ovunque ed allo stesso 264

Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Edizioni Oriente, Milano, 1970.

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modo,nelle identiche forme in precedenza assunte in Urss con la Rivoluzione di Ottobre o nella Cina Popolare, magari con l’illusione della spallata repentina, prescindendo del tutto dalle radici e dalle specificità economiche, storiche, culturali, religiose delle distinte nazioni. Concluse il suo intervento sostenendo che certo c’era ancora molto da fare in un paese in cui tanti erano i medici e gli architetti e così pochi gli scienziati,gli ingegneri, gli operai specializzati. Il consumo di carne di una famiglia contadina nella Piana del Sele, ed in tanta parte dell’Italia meridionale, che per decenni e decenni era stato bassissimo ora però, in pochi anni, si era più che quintuplicato e c’erano più scuole, strade ed ospedali. Tantissimi giovani,prima discriminati per ragioni di ceto,avevano finalmente libero accesso alla cultura ed al sapere. Sintomi, importanti e di rilievo, della crescita del tenore e della qualità di vita della popolazione, anche meridionale. Conquiste che non si sarebbero potute realizzare se in Italia i comunisti avessero optato per una diversa, avventurosa, rovinosa strategia. L’Unità, 12 giugno 2005

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Omaggio a Giorgio Amendola di Ludovico Carrino Ludovico Carrino, artista salernitano di particolare sensibilità e competenza, annovera, tra gli ultimi lavori, un gruppo di disegni prodotti in occasione del centenario della nascita di Giorgio Amendola. Opere importanti, frutto di un impegno creativo appassionato, di grande freschezza ed efficacia, un atto di omaggio reso ad una figura di particolare rilievo nella storia nazionale ed europea del Novecento. L’insegnamento e l’opera, di grande rigore politico e morale, di Giorgio Amendola conservano -ancora oggi e per più aspettiun carattere di stringente attualità. E l’intenzione di Carrino è quella di fissare, in maniera palpitante e viva, mediante l’uso virtuoso di più immagini assemblate- tra loro collegate in un’unica scansione- il segno di una presenza che resta infissa nella storia nazionale. Il segno persistente di questo grande italiano, un comunista nazionale originale e atipico. Una figura che, per rigore d’elaborazione teorica, ed incisività di azione politica, conferma- di continuo- il valido persistere dei motivi di fondo di un’incessante impegno civile, profuso senza risparmio alcuno, di una “ scelta di vita” rivolta a sollecitare un nuovo protagonismo popolare. Una visione superiore di un’etica, pubblica e privata, rivolta a realizzare, anche con enormi sacrifici personali, un’esigenza di maggiore libertà, contro qualsiasi forma di prevaricazione ed al contempo esempio di lotta contro ogni inaccettabile atteggiamento di abulia e disimpegno. Nel fine assemblaggio delle immagini di Giorgio, nel denso e ben dosato gioco di colori, nella ricerca complessa di messaggi simbolici efficaci, sintomo del filo di una memoria ricomposta, è ricostruita, nei diversi passaggi e per nuclei essenziali, la trama della recente storia nazionale ed europea del Novecento. In rapida ed immediata successione, le immagini si muovono dentro l’evolversi delle diverse vicende temporali, per ricomporsi poi - riunificate- in un’organica e originale rappresentazione. L’assemblaggio virtuoso, combinato con maestria inu-

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suale, di volti mostrati in primo piano di personaggi, figure simboliche e colori, consentono l’immersione piena di chi osserva nelle vicende travagliate del vecchio e tormentato Novecento. Un secolo, attraversato da avanzamenti, ma anche e forse soprattutto da immani sciagure e da drammi spaventosi, in cui ha rischiato il naufragio ogni generoso afflato volto alla creazione di un Mondo nuovo, segnato nel profondo dai grandi ideali di giustizia e libertà, per secoli negati. Sullo sfondo, la grande rivoluzione russa vittoriosa, l’avvenimento epocale che, mai prima realizzato in quelle forme proiettava, in modo inusuale sulla scena, masse di contadini ed operai sfruttate e subalterne, rimaste troppo a lungo nella storia del mondo umiliate e offese. Era apparso possibile- in un momento dato- che l’utopia cedesse finalmente il posto alla realtà. Il gigantesco processo di liberazione umana tuttavia non si sarebbe realizzato per incanto, ed anzi di frequente quella speranza si sarebbe trasformata in una tragedia assurda. L’ascesa verso il bene non era percorribile, per rettilinea e naturale evoluzione. Giorgio Amendola, pur restando per sempre incrollabilmente fedele al grande insegnamento della rivoluzione russa e all’Urss, vedrà ben presto i limiti, i difetti, le tragiche distorsioni di quell’esperimento. E la democrazia di tipo nuovo che, dopo la guerra antifascista vittoriosa, nascerà in Italia si realizzerà anche grazie al contributo dell’elaborazione di Giorgio, con l’introduzione di profonde innovazioni teoriche e politiche, in forme diverse e originali, edificata su diversi contenuti, senza meccanicismi ed esportazioni piatte di “modelli” fissi ed immutabili sperimentati altrove. Giorgio ha trascorso la sua vita in un Mondo grande e terribile, negli anni di “ferro e di fuoco”, sul filo di un equilibrio instabile, a lungo sull’orlo dell’abisso, col rischio della fine dell’esperienza umana. Le immagini, i volti che s’incrociano e messi a dialogare fittamente tra di loro in una casualità solo apparente, con l’utilizzo di tecniche visive innovative, appaiono inediti strumenti di ricerca originali. Modalità espressive peculiari, in cui s’intreccia la strenua indagine di un solido legame che si riannoda al filo rosso dello scor-

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rere del tempo nelle diverse fasi. In tale contesto, le nuove relazioni, tra il vecchio e il nuovo, l’antico ed il moderno, il passato che vive ancora e che anzi- senza sparire- si trasferisce e si dilata nel presente. L’oggi, diretta e vivida derivazione dal passato, di esso erede più consapevole e maturo. L’attenzione di chi osserva il raffinato assemblaggio di collage, tra loro collegati in virtuosi contesti di forme, immagini e colori, finisce per concentrarsi sull’energia vitale che promana, suscitando intense sensazioni. La storia individuale dell’uomo che procede, saldata nell’intreccio con la peculiare storia della Nazione. Le immagini di Giorgio Amendola, nel loro progressivo scorrimento, riacquistano una linfa nuova, di vitalità stringente, ridando risalto e attualità ad un tenace impegno politico e civile profuso strenuamente in tutto il corso di una vita intera. Di getto, nuovi orizzonti inesplorati si dischiudono. Avanzano inedite domande e nuovi quesiti che sono ben lontani dall’essere risolti per sempre in via definitiva. Una tensione creativa che insegue, nella plasticità della creazione, la messa al bando d’ogni passività e pigrizia. Difficile decifrare la radice della complessità irrisolta del mondo in cui viviamo. Giorgio Amendola indaga il ruolo e la funzione delle forze opposte che in esso si combattono, le varie articolazioni presenti al loro interno, le prospettive opposte che s’incrociano. Ed evidenzia, con lucidità e rigore, come nella concretezza del reale finiscano sempre e di continuo per mischiarsi fattori contrastanti, insieme di arretramento e di progresso. Da ciò il dovere di scegliere scientemente le forze e la parte con cui stare. Va espunto il rischio del pericolo mortale della caduta della criticità sociale, ed affermato il secco rifiuto di ogni incapacità d’ascolto, prendendo le distanze dall’intolleranza che induce a omologazioni subalterne, con prospettive tra loro completamente ambivalenti, con la pericolosa perdita di senso e di ragione, che non amplia ed anzi comprime, e poi vanifica, la spinta vitale verso il bisogno di nuova e più ricca libertà.

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Lo studio, strenuo e rigoroso, delle diverse discipline, l’instancabile impegno, l’unità tra la teoria e la pratica, l’abolizione di ogni opportunismo, l’estremo coraggio nel battersi per difendere le proprie convinzioni, l’indisponibilità nel ridurre il tutto ad un “unico pensiero”, l’ostilità rivolta a qualsivoglia morto conformismo, questi i tratti essenziali e le ragioni di fondo dell’attualità di una lezione. L’esercizio della criticità, intesa di per sé come valore, lo sforzo profuso nella comprensione delle ragioni dell’indirizzo ondulatorio assunto dallo sviluppo della Storia umana, la ricognizione - puntigliosa- dei difficili percorsi che hanno consentito al nostro paese di realizzare una democrazia matura. Una conquista, mai messa al sicuro per sempre in una sola volta, e che anzi va difesa e sviluppata sempre, e con estrema tenacia ad ogni passo, oltre i confini e i punti di approdo provvisori a cui di volta in volta l’impegno collettivo riesce a pervenire. Riappaiono così, nei disegni di Carrino, riproposti in maniera apparentemente causale, i protagonisti, i martiri e gli eroi, figure di altri tempi della Storia umana in una nuova luce che squarcia, nella nitidezza dei colori, la coltre offuscata da un’appagata indifferenza. E’ ora superato il rischio del definitivo oblio senza speranza. Un gioco virtuoso, e ben dosato, di immagini e colori, proposti in naturale successione. Figure diverse, di un’unica ed esclusiva narrazione, tracce perenni dì una storia, insieme individuale e collettiva, del mondo “ grande e terribile” in cui per caso ci troviamo immersi. L’elemento del colore, con le sue varietà, è sempre combinato con equilibrio accorto. La luce, il rosso e il giallo d’oro nelle diverse gradazioni, l’azzurro denso e scuro, il verde, i tenui grigi, che mettono in risalto e in primo piano il volto di Giorgio, con l’intensità delle diverse sue espressioni, uno sguardo che scruta- oltre il contingente- lontano nel futuro, riconsegnato con forza dall’artista al centro della scena. Il segno di una storia, riemerso quale improvviso bagliore nella nebbia! Immagini di nuovo all’improvviso rianimate, e riproposte in un’attualità che impedisce la loro definitiva consunzione.

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Dalle nebbie del tempo riappaiono, con quello di Giorgio, i volti di Croce, di Lenin e di Gramsci, i grandi maestri del pensiero da cui ha tratto ispirazione nel suo agire, potenti riferimenti che hanno rimesso in moto, insieme alla coscienza, la strenua volontà di liberazione di masse sterminate del Pianeta. Molteplici fili di una storia riannodata, simbolicamente comune a quella di altri milioni di persone. Giorgio è attivo protagonista e testimone del suo tempo, della convulsa spirale del percorso accidentato e doloroso della Storia, ovunque sempre in perenne equilibrio ed in conflitto, spesso mortale, tra civiltà e progresso, democrazia e arbitrio, voglia di libertà e dittatura, riscatto e rischio permanente di catastrofe finale. La ricerca critica dell’artista che ora s’incrocia con la tensione vitale protesa a nuove, più intense e sintoniche armonie. E le diverse immagini sembrano fluttuare in equilibrio calmo sulle onde, quasi come sospese, rincorrendo più certe e sicure proiezioni. L’artista ha provato e riprovato di continuo, prima di pervenire alla definitiva “fissione”. C’è finalmente un “nuovo senso”, l’attualità di un grande insegnamento che persiste, e che ci spinge oltre, a guardare ancora al futuro con speranza, facendo tesoro di ciò che ci è venuto dalle innumerevoli esperienze del passato, oltre la contingenza, ben oltre l’utopia, aprendo nuovi squarci nel futuro. La creazione esprime stille di un pensiero in costante movimento. Nessuna recisione o indifferenza, ed anzi la più stretta relazione ai mille e mille fili che ci legano al grande mistero della storia , ed in specie a figure come Giorgio, cariche d’ una vitalità e di una suggestione attuale e sorprendente, che vive ancora adesso- col suo carisma- nella mente e nel cuore di chi si è contaminato a quella ricca fonte, così tanto feconda d’esempio, d’azione e di pensiero.

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In memoria di Giancarlo Mazzacurati

Nell’estate del 1995 si è spento un maestro della Letteratura Italiana, è prematuramente venuto a mancare un grande studioso della Letteratura Italiana, maestro ineguagliato di generazioni di studenti : il professore Giancarlo Mazzacurati, finissimo critico della Letteratura Italiana ed intellettuale militante. La sua esistenza è trascorsa- in larga prevalenza- nelle aule delle università italiane ed è stata rivolta ad educare generazioni di giovani all’amore per il sapere e per la libertà. Uomo colto, sensibile, appassionato e attento alle evoluzioni, anche quelle più impercettibili e minute, dei comportamenti sociali, ha rappresentato per più versi una graffiante anomalia nel panorama ufficiale della cultura e della letteratura italiana. Erano gli anni tra la fine della contestazione giovanile, col crollo delle palingenetiche illusioni sul prossimo ineluttabile cambiamento del Mondo e l’affermarsi, anche dal punto di vista specificamente culturale, di una piatta subalternità di molti intellettuali ai poteri forti costituiti. Il professore Mazzacurati di certo non può essere invece annoverato tra coloro che scelsero queste strade di deprimente subalternità. Provava, invece, un senso di ripulsa acuta, e di distanza fortissima, per il processo degenerativo, di diversi intellettuali, della spasmodica ricerca del raggiungimento dei punti “forti” del potere accademico. Essi avevano accettato, per meschini interessi solo individuali, di aderire al modello politico dominante che, a partire dall’inizio degli anni ’80, appariva sostanzialmente intangibile. Ai suoi amici più stretti esplicitò chiaramente i profondi motivi della sua amarezza nel constatare a quale grado di rinuncia della propria funzione educativa era ormai ridotta l’Università degli studi di Napoli, un tempo autentico esempio di avanguardia della Cultura di tutta l’Italia Meridionale. Il suo sconforto non poteva essere completamente appagato dalla sua tranquilla ed acutissima ironia. Avvertiva, ormai, con disincantata consapevolezza, quali profonde e durature degenera-

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zioni si fossero consolidate nel mondo nel quale aveva speso, con assoluta passione, larga parte della sua esistenza. Fu tale l’analisi realistica, fatta con lucidità impietosa, che lo indusse alla dolorosa decisione di lasciare l’Università di Napoli per trasferirsi altrove. Il professore è stato sempre un critico militante che ha vissuto in maniera non scissa e separata dal tumultuoso sviluppo degli eventi e dal fluttuare delle vicende quotidiane. Egli continuò in tal modo, pur tra notevoli difficoltà, ad essere incrollabilmente fedele alla sua concezione di studioso schivo, riservato, costantemente portato alla sollecitazione della discussione, al confronto tra distinte posizioni, attento all’ascolto dell’altro, per nulla incline al puro e evanescente, inutile rapporto soltanto nozionistico, ma al contempo fedele, in maniera intransigente, al concetto della libertà della ricerca e dello studio. Il valore del critico e dello studioso, la pregnanza delle sue interpretazioni critiche, il valore della visione della produzione letteraria e dell’interna indagine di ogni sfumatura, filologica e linguistica, dell’opera dei vari scrittori di cui di volta in volta si occupava sotto l’aspetto storiografico, secondo cui nessun autore della letteratura può essere compreso adeguatamente fuori da una corretta e rigorosa ricostruzione del contesto d’insieme storico, sociale, culturale nel quale è maturata la sua opera, è elemento essenziale per intenderne la problematicità, mai per sempre conclusivamente appagata nei diversi punti di approdo di volta in volta definiti. Il suo lavoro critico si è continuamente posto il problema di indagare a fondo in maniera non “tecnicamente” esterna, ma intensamente coinvolgente il carattere dell’esistenza degli autori oggetto dell’indagine. Assieme a ciò, la continua ricerca delle correlazioni, delle convergenze o delle difformità con le condizioni “esterne” al loro operare, la partecipazione o la distanza rispetto ai progetti ed alle aspirazioni collettive prevalenti nel tempo storicamente dato. La vera critica, nella sua visione, era perciò quella che chiarisce al lettore, per mezzo del suo stile, lo sfondo storico più vasto dell’opera, la sua interna, eventuale contraddittorietà, l’inscindibile nesso tra ironia e passione, la capacità di avvertire

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la distanza del tempo e dello spazio ma, insieme a ciò, dialogo costante escambio, consapevolezza piena della parzialità e, di conseguenza, la necessità degli esseri umani di collaborare tra loro, per tentare di mutare in meglio, con il comune impegno, il peso che il caso ha individualmente assegnato a ciascuno. Il valore perciò, e la necessità, della letteratura, la constatazione- ragionata e consapevole- della individuale fragilità, il rifiuto di ogni rassicurante e definitiva certezza illusoriamente appagante, trancia decisamente l’orizzonte democratico del lavoro critico dello studioso. Egli è stato un intellettuale che ha saputo stabilire una feconda relazione tra la lezione imperitura del marxismo critico e del gramscianesimo, riuscendo a coniugarle con continue innervazioni e arricchimenti, con quella della critica stilistica dei “suoi” autori, da quelli prediletti del ‘500 fino ai più moderni, a Svevo, a Pirandello, a Vittorini, fino a Cassola, Pavese, Pasolini. E’ sempre stata una figura di intellettuale “minoritario” e “scomodo”, che ha mantenuto una grande passione per la politica, partecipando anche direttamente, mischiandosi alle concrete vicende della vita pratica, alle tante battaglie civili per il rinnovamento della scuola e della cultura nazionale. Ed allo stesso tempo non ha mai taciuto la sua profonda contrarietà ad un impegno nella politica intesa come “mestiere”, sottolineando senza riserve la propria diversità e distanza da quegli intellettuali che avevano voluto fare a tutti i costi i “politici”. In più di un’occasione, infatti, non avrebbe risparmiato loro il rilievo incontestabile secondo cui ciò li aveva indotti ad atteggiamenti di frequente pressappochisti e schematici, non coerenti con il dovuto esercizio di una funzione critica. Gli anni che seguirono, nei decenni ’80 e ’90, gli parvero sempre di più come una tragica e rovinosa parodia, dai devastanti effetti, nell’immediato e poi nel prossimo futuro, soprattutto a causa delle enormi responsabilità che venivano ad assumersi tanti moderni corifei di trasferire alle giovani generazioni modelli e comportamenti culturali ingannevoli, vacui e fallaci, disvalori autentici, più che idealità sane e positive. Egli invece restò sempre fedele ed ancorato alle proprie ragioni e convinzioni “civili”, ad un certo modo dello stare al mondo, e mantenne intatto il gusto

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dell’impegno ed il fuoco della passione per lo studio, inteso come irrinunciabile forza vitale di trasformazione intellettuale e collettiva di cui- in tempi differiti- si sarebbe giovata l’intera società. Perciò aveva assunto su di sé il compito di insegnare ai giovani coi quali entrava in relazione il pregio della tolleranza verso le altrui idee, insieme al coraggio di difendere le proprie convinzione con tenacia ma al contempo senza dogmatismi. Ed era, per questo suo modo di essere e di agire, per questa sua dolce e squisita umanità, un docente molto amato, le cui lezioni erano tra le più seguite, con le aule gremite, sempre, anche quando la prorompente tendenza alla semplicistica messa in discussione ed alla liquidazione del rapporto del “nuovo” con la “ vecchia cultura” spingeva piuttosto ad erigere barriere invalicabili. Aveva una naturale ritrosia ed anzi un vero disprezzo per le tronfie ed assolute certezze degli intellettuali, per quelle sicurezze all’apparenza inossidabili. Di contro lui avvertiva il senso più profondo della responsabilità dell’intellettuale, ed il suo obbligo d’intervenire sui fatti e sulle cose, e di ciò ha dato- fino alla fine- innumerevoli conferme. I suoi amici che, pur nel dovuto riserbo, hanno fornito toccanti testimonianze dei suoi ultimi giorni, ce lo ripropongono come un uomo che ha continuato, fino alla fine, ad essere curioso ed attento del mondo che lo circondava, che ha continuato a discutere con grande passione e competenza di libri e di scrittori, acutamente attento alle ragioni altrui, dei suoi colleghi e dei suoi amici, coi quali manteneva le più forti sintonie, dei suoi studenti, dei quali era tra i pochi docenti a leggere e valutare con attenzione gli scritti ed ad essere continuamente prodigo di suggerimenti e di consigli, al di là di qualsiasi appartenenza o convinzione ideologica, politica o religiosa. Appare oggi crudamente attuale, e per più versi anticipatorio di un suo particolare modo d’essere, quanto ebbe a scrivere nella seconda edizione della sua “La critica della letteratura italiana”, a proposito di Carlo Salinari, figura alla quale era rimasto intensamente legato, nell’attività professionale e nella vita, e di cui voleva salvaguardare e trasferire ai giovani il meglio dell’insegnamento e della lezione morale. L’impegno prevalente (di Salinari) era stato quello di avere voluto imprimere

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“un’interpretazione non neutrale della storiografia del Novecento, testimoniando non solo la compattezza dei risultati ma le fasi di confronto, di incertezza, di conflittualità interpretativa e momenti di laboratorio critico, capaci di fornire, agli occhi di giovani intelligenze in formazione, la complessità dei percorsi attraverso cui si perviene all’interpretazione critica”. Egli (Salinari) aveva avvertito la necessità morale di “fornire utili terapie ai rischi di appiattimento su formule e slogan semplificanti, nonché utili varchi, o ponti di passaggio, tra lo stadio del panorama chiuso e confezionato allo stadio della ricerca aperta”. E prima aveva rilevato che, ripercorrendo lo storico excursus della storia della letteratura, ripensava alla sua richiesta di incontro col passato, con le sue grandi voci, da De Sanctis a Croce, a Gramsci, la cui lezione era per così dire “rintracciabile in modo segmentato, sottinteso, stratificato, quasi incorporato negli strumenti della critica contemporanea”. La rilettura della storia letteraria nazionale doveva perciò necessariamente dotarsi di strumenti nuovi e di moderni sistemi d’indagine, di una critica non affidata a pochi specialisti ma alla ricca e diffusa, “popolare” intelligenza sociale. Ci teneva molto però a precisare come alle antiche semplificazioni si fossero poi sostituite nuove complessità, al punto da potere sostenere che “alla generazione di Salinari molte cose apparivano più nette ed essenziali di quanto non appaia alla mia, a cominciare dall’immagine stessa della storia e della funzione, in essa, di alcune grandi idee-guida, per finire con la letteratura, i suoi compiti e confini. Seguire il sentiero che ha tracciato con tanta competenza e con passione su questa strada è oggi il modo migliore di onorarne la memoria. Perciò più tagliavo il passato, più il nostro relativo presente si moltiplicava, si complicava ….” Parole d’intatta validità, anche se riferite nel presente a Giancarlo Mazzacurati, un intellettuale acuto, raffinato, libero. Informando, Mensile indipendente di informazione e cultura, febbraio 1996

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Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtù265 Il libro-biografia del partigiano Rosario Bentivegna, scritto con la collaborazione di Michela Ponzani, pubblicato dalla casa editrice Einaudi e presentato di recente al “Punto Einaudi” di Salerno, costituisce un ulteriore ed importante contributo alla ricostruzione di alcuni dei passaggi decisivi della nostra storia nazionale più recente. La pubblica iniziativa, organizzata con l’attiva collaborazione delle Associazioni “Memorie” e “Koinè”, nell’ambito della Rassegna “Primavera Einaudi”, nel centenario dell’anniversario della nascita di Giulio Einaudi, fondatore della casa editrice torinese, ha messo lucidamente in rilievo l’interpretazione- corretta e veritiera - di ciò che effettivamente accadde nel corso dell’aspro e sanguinoso scontro antagonista che attraversò l’Italia nelle fasi conclusive del secondo conflitto mondiale. Il nostro territorio fu investito allora dalla frontale contrapposizione tra fascismo e antifascismo, tra occupanti nazisti e fascisti repubblichini da un lato e partigiani antifascisti, appartenenti a formazioni di diversa ispirazione e provenienza, dall’altro. Un passaggio ed una riflessione necessari ed obbligati in quanto è evidente la necessità di ristabilire una corretta relazione tra l’attualità del mondo in cui viviamo oggi con l’antefatto e le autentiche radici da cui deriva la peculiarità della nostra storia nazionale. E’ evidente, infatti, come non ci possa essere un futuro migliore per una comunità che perde o rinuncia all’interpretazione ed alla corretta comprensione della sua propria storia. Rosario Bentivegna è stato, come amava definirsi, un partigiano “comunista e libertario”, che si è battuto su più fronti, per una vita intera, per dare forma concreta all’ambiziosa idea di realizzare una società più giusta, più libera ed eguale. L’indirizzo della sua scelta di vita risulta ben chiaro fin dalle primissime pagine del libro, quelle in cui richiama la specificità delle sue origi265

Il volume è stato pubblicato dalla Casa Editrice Einaudi nel settembre 2011.

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ni, il ruolo attivo esercitato dai suoi antenati nel corso del Risorgimento, la prima grande lotta per la libertà ed il riscatto del paese combattuta dai migliori figli d’Italia contro lo straniero occupante ed oppressore, per ridare alla nazione l’indipendenza con la libertà. La biografia di Bentivegna è soprattutto un ulteriore, importante tassello teso a far giustizia del revisionismo, facile, disinvolto ed insidioso, che negli ultimi decenni, in maniera capziosa e interessata, è stato da più parti copiosamente alimentato. Un revisionismo che punta a riscrivere, arbitrariamente, la storia passata della nostra giovane nazione come una notte eguale, in cui tutte le vacche sono indistintamente nere. In cui, in sostanza, violenza ed assassinio finiscono per essere equiparati e poi coincidere con chi si è opposto ad essi, finanche con le armi. La vicenda della ricostruzione dell’attacco armato dei GAP romani ad una colonna delle SS in Via Rasella, rivendicato come atto legittimo di guerra da un comunicato del CNL, con la rappresaglia vigliacca che ne derivò contro 335 inermi cittadini, è senza dubbio il filo rosso di collegamento che lega sempre, a volte addirittura in maniera quasi ossessiva, le diverse, distinte parti di una storia intensa e avventurosa, il punto di snodo costante e decisivo che ritorna. La storia del personaggio è anche per più versi tragica nel senso che egli assumerà sempre e integralmente su di sé, per tutta l’esistenza, l’intera responsabilità di quella scelta. Il giovane Bentivegna vive pienamente il clima di violenza e di orrore che l’occupazione nazista ha scatenato sulla capitale. Coprifuoco, rastrellamenti, indiscriminati arresti di oppositori o di normali cittadini che a Roma, in larga parte, rifiutano l’adesione alla Repubblica Sociale sfuggendo al reclutamento al servizio delle truppe occupanti. E il suo racconto fa puntigliosamente giustizia della vulgata, volgare e interessata, secondo cui, prima della strage alle Ardeatine, consumata solo 24 ore dopo l’attacco partigiano a Via Rasella, vi era stato l’ultimatum tedesco con la richiesta della consegna dei responsabili dell’attacco militare. Un atto che, se compiuto, avrebbe evitato di per sé- la rappresaglia e l’uccisione di tanti cittadini inermi ed innocenti. Un falso storico assolutamente clamoroso! Da par-

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te nazista non fu mai emesso infatti alcun comunicato né diramato pubblico ultimatum in questo senso. Questa l’oggettiva verità! Rosario Bentivegna ricostruisce, puntigliosamente e con efficacia estrema, le ragioni che a quel tempo indussero tanti giovani alla scelta di opporsi al nazifascismo e ad imbracciare le armi contro l’occupante invasore, portando alla resistenza armata, nelle città italiane e poi nelle montagne, il desiderio di giustizia e libertà sorto nel cuore e nelle menti dei patrioti che decisero di battersi per restituire orgoglio e dignità alla Nazione umiliata, ferita, coperta di vergogna dall’ignominia del regime fascista e dalla fuga di un re imbelle e traditore. E per riscattare il paese che una spietata, ventennale dittatura aveva a un certo punto condotto, irresponsabilmente, in una guerra devastante e rovinosa causa di tanti lutti alla nazione. La dittatura fascista, fin dal suo sorgere, nel 1922, aveva causato all’Italia danni incalcolabili, eliminando - con la pratica di una violenza cieca, brutale, sistematica qualsiasi opposizione, ricorrendo di frequente finanche all’assassinio di tante straordinarie intelligenze, da Giovanni Amendola a Piero Gobetti, a Matteotti, Antonio Gramsci, Aldo e Nello Rosselli, di semplici operai, contadini ed intellettuali, causando in tal modo al paese e al suo futuro un danno immane. Un regime che, già in passato, nelle guerre d’aggressione scatenate su più fronti, in Africa, in Jugoslavia ed Albania, in Grecia e nei Balcani, in Spagna, si era macchiato di crimini orrendi, per nulla inferiori a quelli dei nazisti. Da ciò derivò, spiega Bentivegna, la ferma convinzione che non si potesse più continuare nell’attesa, nella passività e nell’indifferenza. E la decisione della frontale opposizione, finanche armata, per mettere fine finalmente alla violenza. Una nuova consapevolezza, maturata poco per volta nei posti di lavoro e nelle Università, destinate col tempo a divenire le retroguardie sicure di una lotta armata che, in specie nel Nord e nel centro del paese, finì per diventare lotta di massa e popolare. La resistenza ritesseva un filo di collegamento ideale con le pagine più limpide e gloriose della storia nazionale, con la stagione del Risorgimento e

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con la lotta intrapresa per l’indipendenza e per la libertà, un limpido lascito di cui sentirsi eredi. I giovani di venti anni o poco più furono i principali attori di quella stagione di riscatto. La guerra di Spagna, combattuta tra il 1936 ed il 1939, era stata l’antefatto di più acuto rilievo nel grande scontro mondiale che avrebbe a lungo opposto fascismo e antifascismo. Un nodo ed un passaggio per tanti aspetti cruciale e decisivo. Il libro biografia è un viaggio nell’esperienza di un partigiano e militante comunista, combattente delle Brigate Garibaldi, in Italia e poi su altre aree dello scacchiere dell’Europa e poi ancora più avanti attivamente impegnato nello scontro politico-sociale che si sarebbe scatenato in Italia tra nuovi fronti interni contrapposti all’indomani della conclusione del tragico conflitto. Bentivegna combatterà il nemico coi partigiani dei GAP nella città di Roma, poi sulle montagne laziali, nel suo paese e quindi in Jugoslavia, al fianco delle forze partigiane titoiste, in un conflitto particolarmente sanguinoso, contro i nazisti e i fascisti italiani, ma anche contro gli Ustascia di Ante Pavelic e i cetnici monarchici. E’ il caso di segnalare la specificità del caso jugoslavo, non fosse altro per il fatto che quella sarà l’unica, tra le varie nazioni dell’Europa, a liberarsi dal mostro nazifascista con le sue esclusive forze. E mi pare possa ancora essere il caso di tornare all’esame della concezione di “comunista libertario” propria di Bentivegna. Per ora si può solo anticipare l’opposizione ed il contrasto netto dell’autore con la concezione staliniana in quegli anni prevalente, con la degenerazione che, col suo “Bonapartismo” avrebbe colpevolmente finito per cristallizzare in un dogma un ideale. Ed è ancora a questo punto utile chiarire, come sostiene Michela Ponzani, tra l’altro richiamando la lucida testimonianza di Celeste Negarville, che Bentivegna non indulge mai in alcun compiacimento rispetto al concetto di ricorso alla violenza, neppure a quella giusta. Sempre netta, invece, la sottolineatura che si trattò di una scelta difficile e per più aspetti lacerante e dolorosa, una scelta di necessità, un atto obbligato dalle circostanze in cui l’Italia e l’Europa occupata vennero a trovarsi, per porre fine all’occupazione nazista con la sua orrenda scia di

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stragi, torture, distruzioni. L’uomo, non certo l’eroe, emerge dallo scritto, insieme alla tragedia ed al contempo in tutta la sua grande umanità. Coi dubbi e le incertezze, ad un certo punto superate solo in virtù di un richiamo a un’etica e ad un valore superiore. Davanti agli occhi i compagni imprigionati, Carlo Salinari, insigne docente di letteratura italiana, catturato dai nazisti e barbaramente torturato. E tutti coloro che, per quella scelta, in ogni istante hanno rischiato e rischiano la vita. Un testo per più ragioni intenso, ed allo stesso tempo delicato, anche dal punto di vista squisitamente letterario e intriso, ripeto, di profonda umanità. Bentivegna difenderà sempre, in ogni circostanza, la limpidezza e la legittimità dell’atto di guerra contro un nemico spietato a Via Rasella e si batterà contro le molteplici mistificazione interessate dei tanti volgari corifei che, negli anni seguenti, s’impegneranno a riproporre un racconto ed una ricostruzione falsa e capziosa di quei fatti. Frutto dell’adesione subalterna al clima di restaurazione che si è affermato nel paese, in specie e soprattutto all’indomani della sconfitta del “Fronte popolare” del 18 aprile 1948. Un clima, conservatore e reazionario, potentemente alimentato a piene mani anche dalla stessa Chiesa nelle sue più alte gerarchie. Per riaffermare la verità, Bentivegna sosterrà la prova di molteplici processi, fino alle sentenze che, in via definitiva, finiranno per dilatare dubbi ed incertezze, facendo infine chiarezza e giustizia, pienamente. E’il caso ancora, in conclusione, di ricordare l’impegno, mai venuto meno, dagli anni immediatamente seguenti al secondo dopoguerra, in difesa e per il miglioramento delle condizioni del mondo del lavoro. L’azione come medico del lavoro nell’Inca Cgil a salvaguardia della salute dei lavoratori, la continuità dell’azione profusa sul terreno dell’antifascismo militante, l’aiuto fornito nel 1968 ai comunisti ed agli antifascisti vittime del colpo di Stato e della dittatura del regime dei colonnelli greci. Un modo di agire e d’interpretare i nuovi fatti della storia conseguente alle battaglie condotte per una vita intera, il secco rifiuto di ogni passività e indifferenza verso il mondo, gravido di

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ingiustizie e vessazioni, l’obbligo di continuare a combattere per spezzare e cancellare quella diffusa trama di prepotenze, violenze ed ingiustizie. Alcune sue valutazioni e scelte, più squisitamente politiche, forse non sono tuttavia condivisibili del tutto. Mi limito a segnalarne due. La prima è legata al giudizio, probabilmente eccessivamente liquidatorio e sferzante contro i comunisti jugoslavi. Certo il rapporto tra jugoslavi e combattenti antifascisti italiani non fu dei più semplici e lineari. A me sembra tuttavia in qualche maniera discutibile e schematica la sostanziale equiparazione tra comunisti jugoslavi e stalinismo sovietico, ed il compiacimento che sembra trasparire a fronte della scelta di scomunica del Cominform verso il tentativo di Tito di affermare, in quella drammatica situazione contingente, una linea più accentuatamente autonomista. Un eccesso polemico che, forse, prescinde dalla compiuta considerazione delle radici dell’acuta diffidenza degli jugoslavi verso gli italiani in quanto tali. Gli italiani, nel Montenegro e non solo, come specifiche ricerche storiografiche hanno chiarito in tempi più recenti, si erano macchiati di crimini orrendi contro le popolazioni civili. Incendi, uccisioni, stupri, violenze di massa indiscriminate, questa la storia dell’occupazione, un vivido ricordo da cui era obiettivamente difficile staccarsi. Serviva tempo ai partigiani jugoslavi per affermare a pieno l’esistenza di nette e radicali differenze tra fascisti italiani e partigiani italiani antifascisti. Una solidarietà tra combattenti antifascisti che si poteva cementare solo col tempo nella comune lotta. L’altro punto discutibile è la sua scelta, maturata nel 1985, di abbandonare il Partito Comunista introducendo una cesura nella linearità della sua esperienza militante. Certo già a quel tempo iniziava, nel partito, una qualche incisiva mutazione, una profonda trasformazione involutiva. Probabilmente anche un suo snaturamento progressivo, in concomitanza con l’avvicinarsi dei comunisti italiani all’area di governo. L’avvio di un’omologazione, una caduta dell’autonomia, dell’esercizio della criticità, una perdita delle proprie radici più feconde e di una distintiva, peculiare identità. Rilievi, si badi, tutt’altro che infondati, una deriva che continua a riguardare ancora oggi

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l’insieme dei partiti ridotti, sempre più spesso a puri comitati elettorali, strutture che troppo spesso sembrano rinunciare a svolgere una funzione quotidiana e permanente di educazione civile e democratica. Un’involuzione cui, però, non si può dare la risposta - in qualche modo aristocratica- dell’appartarsi, della testimonianza sterile di una propria estraneità, con la denuncia etico morale, spesso nella sostanza ininfluente. La politica si muove secondo le rigorose leggi della fisica. Ogni spazio lasciato vuoto è coperto da altri ed immediatamente. Se ci si allontana e ci si estranea dal contesto che è storicamente dato, la riforma della politica, necessaria ed anzi indifferibile, diventa più difficile ed incerta. Non c’è ancora un luogo che può sostituire integralmente ed efficacemente l’azione, il ruolo e la funzione essenziale dei partiti. Strumenti - ancora oggi- decisivi per lo sviluppo della democrazia, in grado di costituire un argine alla disgregazione ed impedire la deriva. Bisogna cercare di resistere, insieme agli altri, nei punti e nelle situazioni in cui è ancora possibile incidere davvero. Bentivegna è stato più cose insieme, un combattente antifascista, un vero democratico, schierato sempre, con assoluta dedizione, lungo la linea della democrazia, di una democrazia nuova e progressiva, nel solco dell’insegnamento del Partito Nuovo di Togliatti, del pluralismo e della tolleranza, dell’esercizio di una dialettica, libera e feconda, per l’ampliamento della libertà, contro le ingiustizie del mondo e mai incline, tuttavia, all’accettazione di una gratuita violenza. Nettissima, sempre, la condanna del ricorso al terrorismo quale atto legittimo di lotta politica normale. Mai ha condiviso un concetto di violenza valido per sé. E stato invece un sollecitatore appassionato della lotta di massa e della partecipazione - piena, costante, consapevole - dei cittadini alle vicende della vita pubblica, fattore decisivo e indispensabile per costruire un futuro migliore alla nazione. A volte appare del tutto naturale, di per se dovuto, il contesto dei diritti e delle libertà di cui godiamo nel mondo attuale in cui viviamo. E forse ci sfugge il fatto che la libertà di oggi è il frutto di immensi sforzi e sacrifici, anche dolorosi, delle generazioni e degli uomini migliori che ci hanno preceduti. E che si tratta

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di un qualcosa che, giorno per giorno, va difeso ed ampliato sempre. Il valore di un libro consiste soprattutto nel durare ben oltre il limitato tempo terreno che ci è dato. E’quello di continuare a dare un senso, come in questo caso, alle ragioni ed ai valori per cui si è spesa l’esistenza e si è vissuto. Nel salvaguardare la giustezza imperitura di certi insegnamenti. In ciò il valore di una storia, di una testimonianza che, per quanto ricordato, possiamo percepire tuttora integralmente attuali e vivi.

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Ricordo del senatore Gaetano Di Marino E’ già trascorso un anno dalla scomparsa di Ninì Di Marino ma non si colma il vuoto che ha lasciato nella memoria di chi lo ha conosciuto. Ci manca il suo rigore, la passione civile, l’intransigente ancoraggio ai valori in cui credeva. Un’esistenza, la sua, immersa pienamente nelle vicende del “secolo breve”, con gli aspri scontri, le traversie e le tragedie che lo hanno attraversato. Eppure Di Marino è rimasto per più versi giovane e moderno, aperto con la mente al nuovo e pieno di fiducia nel futuro. Attento a ciò che maturava sotto la crosta della società, lo sguardo ed il pensiero in costante movimento rivolto, con fiducia, innanzitutto ai giovani a cui andava consegnata la lezione di una storia di dure lotte, di grandi sacrifici e di conquiste, di un progresso di cui sentirsi fieri, da difendere ed espandere ogni giorno di più con tenacia e forte determinazione. Ruvido all’apparenza, nell’esercizio di ruoli e funzioni direttive di rilievo che gli erano assegnate dal Partito, esercitati con rara competenza, era tuttavia capace di improvvisi scatti sorprendenti, di grande umanità e dolcezza. Una figura per davvero per più versi singolare, per la sua particolare qualità di tenere sempre intrecciati insieme, con grande naturalezza, politica e cultura, merce piuttosto rara tra i dirigenti d’oggi dei Partiti. Un intellettuale fine, aduso alle letture più svariate delle diverse discipline ed agli approfondimenti, oratore brillante capace di declamare, senza il minimo errore, interi brani omerici o lunghi canti danteschi e di discutere, con rara competenza, dei più diversi autori, italiani e stranieri, da Shakespeare a Tolstoi, a Dostojevski, a Joyce, Sartre ed a Camus, fino a Calvino, Vittorini, Gadda, Elsa Morante, Levi, Moravia, Pasolini, Eco. Grandi scrittori contemporanei, italiani e stranieri, che lo spingevano a guardare, negli anni antecedenti alla fine del fascismo, con occhi nuovi e un gusto più affinato al mondo che lo circondava, ai germi della crisi che iniziava a sgretolare dall’interno un regime

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autoritario che per un ventennio era apparso pressoché infrangibile. Il fascino suscitato in lui dalla scoperta e dall’approfondimento delle tematiche della letteratura italiana del ‘900 che nei licei in quegli anni di vuota retorica finiva per risultare ignorata quasi completamente266. Di Marino è stato un dirigente politico di finissima cultura, e tuttavia al contempo non portato ad un qualsivoglia eccesso di astrazione, ed anzi sempre fortemente concentrato sull’immediatezza del reale, su lotte e conflitti presenti nella società italiana, nelle campagne e nelle aree urbane, attento ascoltatore delle opinioni altrui, scevro da quella supponenza che di frequente induce nell’arbitrio di ritenersi gli esclusivi detentori di una presuntiva verità. Attento al Mezzogiorno ed ai suoi problemi ed ai destini della sua città che così tanto amava, della grande provincia densa di problemi e di contraddizioni acute ancora oggi tutt’altro che risolte. Allievo di Palmiro Togliatti e poi di Giorgio Amendola, tenace fautore dell’unità della sinistra, era naturalmente portato, nella direzione politica e nel lavoro dentro le istituzioni, a interloquire e a confrontarsi con gli esponenti di altre formazioni, con laici e cattolici, per realizzare convergenze su questioni d’interesse

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Poco tempo prima della sua scomparsa il Senatore Gaetano Di Marino ha donato al Comune di Salerno la propria biblioteca personale di circa 7.000 volumi, assieme ad appunti e scritti vari riassuntivi della sua esperienza di dirigente politico della sinistra italiana. Nella lettera di accompagnamento è sinteticamente tratteggiata l’evoluzione della sua formazione, politica e culturale poliedrica, dalla gioventù, in pieno regime fascista, alla liberazione e alla Repubblica, e poi il richiamo all’impegno profuso nelle lotte contadine ed operaie, dal secondo dopoguerra in avanti, per lo sviluppo della democrazia. Inoltre l’importanza, nell’evoluzione della propria formazione critica, durante la prima gioventù, prima di Bottai e della rivista “Primato”, poi di Croce e della sua rivista “La Critica”, infine lo squarcio e l’ apertura di nuovi orizzonti al suo pensiero dovuta alla conoscenza di tanti, nuovi autori, italiani e stranieri del ‘900. Grande il suo interesse sui temi del paesaggio agrario e dell’agricoltura che gli erano derivati dalla conoscenza approfondita delle opere di Emilio Sereni e, in tema di economia agraria, dagli scritti di Manlio Rossi Doria, Serpieri, Medici.

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comune, senza pregiudizi o spirito di parte.267 Gli stessi avversari, pur nella durezza del confronto, provavano per lui una grande stima e ne riconoscevano le grandi qualità: disinteresse personale, rigore nell’analisi, competenza. La politica vissuta come una religione ed occasione di crescita civile e di riscatto. Ripudio del distacco e dell’indifferenza dai fatti del mondo e dalle cose. L’impegno avvertito come una missione, guidato da una visione etica profonda ed oggi in verità piuttosto rara. Perciò maestro e amico caro, oltre che di chi scrive, di più generazioni che- dal suo esempio- hanno tratto un grande ed importante insegnamento. All’indomani della morte di Ninì Di Marino, nel suo telegramma di cordoglio alla famiglia, Giorgio Napolitano ne ricordò, con grande commozione, l’intelligente impegno politico, la coerenza delle posizioni, l’assoluta integrità morale. Ragioni forti, e più che sufficienti, a spiegare il forte legame di stima personale e di amicizia che in lunghi decenni di lotte e di comune impegno non si è mai incrinato. Concetti di grande attualità, il modo migliore per onorare la memoria di Ninì nella sua città, dentro il suo Paese e per sentire la sua lezione politica e morale tuttora viva ed attuale. In Aislo (Associazione Italiana Incontri e studi sullo Sviluppo Locale), 11 marzo 2012

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Nella stessa nota di accompagnamento, si legge come, assieme alle tematiche del marxismo ed alla storia del movimento operaio italiano ed europeo, con l’approfondimento dei testi relativi, “nuovi orizzonti nella conoscenza della storia moderna e contemporanea mi vennero dalle opere di Candeloro, Bobbio, Villari, Ragionieri, Dorso, Pasquale Villani, Cafagna, Dahrendorf, Furet, Hobswam. Sul piano filosofico sollecitarono la mia attenzione le teorie dell’esistenzialismo di Sartre e altri e dello strutturalismo e la semiologia e dei suoi massimi esponenti, come Umberto Eco. Un rilievo particolare ha avuto, negli ultimi anni del ‘900, l’ermeneutica sulla interpretazione del rapporto tra diverse esperienze”. Infine “Negli ultimi anni mi hanno interessato gli studi sulle teorie dell’universo e le grandi leggi della fisica e le ipotesi sul futuro del mondo. Un altro filone delle mie letture è stato lo studio delle religioni e in particolare del Cristianesimo e del pensiero laico sui grandi temi metafisici, in un periodo che mi consente di affrontare problemi finora trascurati”.

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Ludovico Carrino Nel corso dello scorrere del tempo era venuto in contatto con un mondo popolato di varia umanità. Era un signore, dall’aria discreta ed elegante, mite e silenziosa, che trascorreva una buona parte del suo tempo curvato sulla propria tavolozza, dando contorni e forme sempre nuove a ciò che gli ispirava l’immaginazione. Il piccolo studio, il suo consueto rifugio più sicuro, punto di ritrovo di artisti, amici e conoscenti coi quali scambiava fuggevoli impressioni. Il tono della voce, pacato e basso, e la propensione ad osservare con attenzione il fluire cangiante della vita, di cui catturava i vari particolari, semplici frammenti riposti e accumulati con grande delicatezza e particolare cura sopra i suoi fogli bianchi. Il silenzio sovrano nel suo angolo di mondo separato, in cui si adoperava a scomporre e ricomporre figure nuove a cui di continuo dava anima, forma, movimento. Era un lettore attento, di manoscritti antichi o più recenti, e aveva una capacità del tutto inusuale: riusciva ad intuire, con rara capacità, se dietro uno scritto si celava il segno del talento. Era sereno nei suoi modi e persuasivo nel gioco parco di parole. Aveva la dote naturale di una dolcezza inusuale, con modi di fare sempre affabilmente delicati. Nel corso della gioventù aveva girato molto, seguendo il proprio desiderio di avventure. E si era mosso in lungo e in largo nei punti più diversi dell’antica Europa, per poi fermarsi nell’ameno quartiere parigino dei pittori. Lì aveva vissuto con grande intensità le grandi passioni civili di quei tempi e i propri amori. Di sé non faceva alcuna ostentazione e, senza fatica alcuna, sarebbe stato capace di adattarsi a vivere in ogni più sperduta parte della terra. Creare di continuo nuove immagini e figure, dare forma e colore sulla carta alle emozioni, questa la sua missione. Lo studio, appartato dal mondo e silenzioso, come sospeso nel tempo e nello spazio, era un sicuro punto di approdo in cui potersi riparare dall’indistinto, confuso ed assordante crogiuolo dei rumori. Completamente concentrato sulla tela, solo, alla vista di un altro sospendeva qualsiasi, contingente attività. Pur ri-

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servato, entrava in un istante in relazione, mettendo in evidenza senza sforzo, insieme alla sua anima, la propria naturale, raffinata umanità. Aveva sempre, in ogni circostanza, un nuovo disegno da mostrare, oppure un vecchio libro polveroso recuperato per caso chissà dove su una bancarella di una qualsiasi vecchia capitale dell’Europa. Grande l’ammirazione per gli scrittori russi e francesi, in specie dell’Ottocento, sfogliando le cui pagine in tante notti si era addormentato. Segni parziali dei secolari archivi del sapere che, con le biblioteche, erano nati per consentire a ognuno di sfuggire, sebbene per un arco di tempo limitato, all’inevitabile segno della fine. Vari e tra loro diversi materiali, raccolti con pazienza certosina, e solo per la ragione che del proprio passaggio sulla terra bisognava pur lasciare qualche traccia. Fuori dal clamore scomposto delle voci, che ogni cosa nel suo confuso magma sommergeva, cercava con tenacia di tenere aperta la strada alla creatività, a quel segmento d’oro, di fuoco di scintilla, di un’umanità ancora non estinta. Nel silenzio d’ovatta, con estrema pazienza raccoglieva i volti e le parole da cui sarebbe scaturito il nuovo che non c’era ancora. Sull’ampio banco di legno, decine di riviste riposte alla rinfusa, articoli, saggi e libri dalla provenienza più diversa e disparata. Poi, nell’angolo, in terra, disposti in bella fila ed ordinati, la colla e le vernici dei più vari colori. Nel mentre intorno ogni altro interesse od emozione sembrava scomparire, come assorbiti dal magma indistinto di una notte nera senza stelle, lui silenzioso si piegava ad osservare le stille d’esistenza concentrata, l’umanità provata dal rischio di un’inesorabile fine d’agonia. Ascoltava con attenzione intensa, e poi parlava piano, e quasi sussurrava scandendo le parole, netta contraddizione con l’agitarsi anonimo, ed il vocio scomposto, di figure grigie che in quel convulso contesto d’insieme si aggirava. Ormai era sicuro del fatto che si potesse vivere quasi isolati del tutto, e tuttavia completamente appagati con sé stessi, in un qualsiasi angolo di mondo, ed allo stesso tempo girare senza soluzione il globo intero senza che si movesse un solo passo.

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Artista acuto, silenzioso, dai modi raffinati, e sempre concentrato sulle tele, con l’elegante sensibilità non ostentata, sperimentava di continuo originali e innovative forme d’espressione, aperto all’inventiva continua e al paradosso. La complessa, incessante ricerca si muoveva, nel mezzo di simbolici assemblaggi, dentro l’involucro di una visione nuova. E poi sicura procedeva oltre, come sospesa in spazi lontani di confine, rivolta a ricercare con tenacia nuove, progressive, più certe identità. Con la sua arte voleva dare vita a nuove forme, d’autentica armonia, critico frutto di conoscenza e consapevolezza più a fondo riflettute. E nel girovagare tra i mille particolari si orientava come guidato da un senso superiore d’ironia. Le immagini, i volti più diversi e disparati, incrociati di continuo tra di loro, in fitto dialogare in una casualità solo apparente. Una disposizione ragionata, che tuttavia faceva chiaramente trasparire il lavorio complesso e inappagato del suo sperimentare, con la ricerca strenua d’inesplorate, innovative, inedite modalità espressive. Dimensioni composite, simboli graffianti, figure che s’incrociano, di cose, di persone, di paesaggi di epoche diverse, d’antico e nuovo miscelati insieme. Un assemblaggio, composito e virtuoso di circolarità, vividi segni venuti in emersione dagli più oscuri e misteriosi anfratti della vita. In quella ininterrotta riscoperta, antico e nuovo- nell’incessante, perenne divenirefinivano per ritrovare l’unità. Una filosofia di fondo, che attraversava in ogni particolare espressione la sua arte. La storia degli uomini è eguale, nel tempo e nelle ere, nell’incessante moto proteso alla definitiva- almeno apparente- consunzione, che altro invece non è se non l’inizio di un nuovo e diverso, più esteso dinamismo. Cercare di continuo, per fissare l’origine prima di ogni cosa, portare in emersione le antecedenti creazioni dell’ingegno e poi riprendere la strada di quel sentiero apparso definitivamente perso. Costruiva collage, ed assemblava con grande maestria innumerevoli immagini diverse, di giornali, riviste, rotocalchi ritagliati. Ogni volta alla fine si stupiva nel constatare la netta metamorfosi, i nuovi approdi a imprevedibili contesti, quella composita

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miscela bizzarra di figure. Nuove proiezioni, diverse identità, composte e ricomposte, limpide, palpitanti, inedite creazioni. L’inventiva, all’apparenza casuale, nuovo segnale di vitalità incessante, che generava aggiornate e imprevedibili emozioni, linfa vitale rimessa in movimento. Inediti orizzonti inesplorati, provocazioni e quesiti mai conclusi, di critica tranciante ai vuoti e devastanti disvalori, alla piatta, subalterna, nuova idolatria del vacuo consumismo dilagante che procedeva annullando il senso ed il valore più profondo di ogni cosa. Il magma di un nuovo e devastante conformismo. Il rischio concreto della finale consunzione d’ogni criticità, la Storia umana che in un solo istante rischiava di venire cancellata nell’infernale spirale, autentica condanna all’estinzione della creatività dell’uomo con l’immaginazione. La regressione verso la perdita di senso e l’abulia. I veri e principali nemici da sconfiggere. L’uomo con la sua anima reso prigioniero, e deprivato dell’infinito, perenne gioco della fantasia senza confini, linfa essenziale per ogni avanzamento umano, in grado di rivolgere lo sguardo pieno di meraviglia al cielo. Così, come per un geniale gioco di magia, le immagini scomposte, poi assemblate e riproposte in maniera casuale solo all’ apparenza, facevano defluire sulla tela nuova luce, stracciando la coltre d’ogni appagata, piatta indifferenza. L’antefatto al definitivo oblio, in cui ogni speranza rischiava di annegare. Privata di scissione e di lacerazione non c’è arte, né si può fornire alcuna voce all’affermarsi del diritto alla gioia e all’armonia che troppe volte si ricerca invano. Il nuovo, prospettico orizzonte, riemerso a nuova luce, proiettava a quel punto con maestria nuove dimensioni, diversi orizzonti inesplorati, grondanti di nuova vitalità e calore. Intensa l’emozione che lo prendeva nel preciso istante in cui iniziava a dare concreta forma a un’intuizione che da tempo gli si aggirava nella mente, per tutta la sua anima. La coscienza, dopo la metamorfosi, ripreso il suo virtuoso movimento, rientrava in circolo nella sua varietà, con il suo ampio ed esteso gioco di colori, intenso ancoraggio, d’amore e di rispetto estremo, per ciò che s’era creato grazie allo strenuo ed

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incessante lavorio ed all’impegno profuso senza posa dagli uomini nel corso delle ere. L’elemento del colore, dosato con particolare garbo e miscelato con equilibrio accorto. La luce, il rosso col viola, l’azzurro scuro, il verde nelle sue infinite gradazioni, i tenui grigi con i gialli sembravano sfiorarsi impercettibilmente, fornendo vivida attualità ai volti consegnati al centro della scena. Nuove relazioni, accostamenti, simbolismi intrecciati, nel loro svolgimento, col filo ininterrotto e palpitante della Storia. I volti, ripresi dalla memoria, tenuti a lungo celati nelle nebbie, per troppo tempo riposti nell’oblio ed ora riannodati in una sola, compatta, rinnovata attualità che impediva ogni definitiva consunzione. Dalle nebbie le effigi riemerse degli antenati antichi, poi l’espressione, seria, dei grandi della storia. Mandela, Papa Giovanni, Kennedy, Gorbacev, Mahatma Gandhi, e insieme Moravia e Pasolini, con l’indissolubilità perenne delle loro ragioni. I colori morbidi del mare, con le diverse, infinite sfumature di colore verde, in esso armonicamente combinate, ed Hiroshima con la bomba atomica, richiamo estremo all’eterna responsabilità dell’Uomo, sempre più in bilico, tra il bene e il male, sospeso tra progresso e rischio perenne di tragica, finale distruzione. Molteplici fili, di nuovo saldamente riannodati tra di loro. Nitide tracce di un percorso simbolico, accidentato, insieme dolce e doloroso della storia umana, che ora s’incrociava, dietro i rapidi e veloci schizzi di disegni, con la ricerca critica, inappagata, dell’artista, rivolta a perseguire più intense e sintetiche armonie, di forme e di colori. Frammenti diversi, di fatti, di cose, di persone, di nuovo virtuosamente assemblate tra di loro. Le immagini danzavano, sull’orlo degli abissi, sospese tra le stelle,tese all’equilibrio in più sicure e reali proiezioni. Ed a quel punto la prospettiva finiva per cambiare. Lo sguardo adesso diventava più acuto e più sicuro, scrutava nei meandri inconfessati della psiche, riuscendo ad orientarsi, tra il serio ed il faceto, nell’apparente gioco dell’assurdo. S’attuava in tal modo il processo di creazione, e di fissione, di nuove, prima impercettibili, stille di umanità e di vita, in una

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miscela di nuove relazioni, in un diverso equilibrio piÚ maturo. Mille e mille fili del passato, invisibilmente intrecciati tra di loro, in una solida trama, potente e inestricabile. L’eterna ricerca di una proiezione in una dimensione di felicità , intensa, inappagata, per ognuno eguale. Il pugno di terra che adesso ti ricopre ti sia lieve, caro amico, la calda luce dell’Universo in ogni passo e con dolcezza nel cielo tra le infinite stelle ti accompagni.

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QUESTIONI D’IMMEDIATA ATTUALITA’

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Campania, Mezzogiorno Il divario di sviluppo del Mezzogiorno nel suo complesso, ed in particolare della Campania dal resto dell’Italia, negli ultimi tempi si è accentuato ulteriormente. Si è ripresentato il fenomeno di una nuova emigrazione, dal Sud al Nord e negli ultimi dieci anni si sono spostate in cerca di occupazione e di lavoro, dal Sud al Centro-Nord del Paese, circa 200.000 persone, in larghissima parte giovani. Si tratta per lo più di soggetti in possesso di un buon livello medio di istruzione, cosa che evidentemente impoverisce di per se le potenzialità del già gracile tessuto produttivo e rappresenta, per il prossimo futuro, una pesante ipoteca negativa circa la possibilità d’invertire la tendenza all’ulteriore marginalità di questa area da sempre decisiva per i destini e le fortune del complesso della Nazione. Nel Sud, nel mentre in genere persiste una situazione di preoccupante stagnazione economica, e di evidente crisi sociale ed istituzionale, esplodono nuove, gravi ed inedite emergenze, dalla gestione della drammatica questione dei rifiuti in Campania, a quella dell’ordine pubblico, della sicurezza e della legalità. Il tasso minimo di legalità e sicurezza non è adeguatamente garantito in vaste aree geografiche del Mezzogiorno, in specie nelle grandi aree metropolitane dove negli ultimi anni è cresciuta, in maniera esponenziale, la percentuale di delitti, furti, rapine. La diffusa percezione di una condizione di scarsa garanzia delle elementari condizioni di ordine pubblico e di legalità concorre all’incremento di una situazione di malessere diffuso che accentua un sentimento di precarietà, incertezza e sfiducia. Sussiste e si trascina, infine, per più aspetti, una pericolosa crisi delle Istituzioni e si sfilaccia, sempre di più, il rapporto tra esse e i cittadini. Risalta in maniera fin troppo palese un grave limite d’analisi nella corretta lettura delle mutazioni intervenute nel reale, delle tendenze in atto nell’economia e, di conseguenza, si stenta nel dar vita ad un nuovo progetto di sviluppo, realistico per obiettivi e per nulla velleitario, incentrato su poche ma sicure priorità.

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La qualità dell’agire del Governo e delle Istituzioni, nel Mezzogiorno ed in Campania, troppo spesso da la percezione che si continui colpevolmente ad indulgere più sul terreno della gestione corrente che della programmazione e del progetto. Il dibattito ed il confronto tra le diverse forze politiche si avvita infatti di frequente su sé stesso, su vuote formule e su un eccesso di contrapposizioni personalistiche. L’attenzione si concentra, in via largamente prevalente, sull’attribuzione e la distribuzione di posti e di funzioni tutte all’interno del composito sistema di governo e delle strutture collaterali ad esso collegate. L’azione amministrativa, di conseguenza, appare ben altra cosa rispetto alle principali necessità, preoccupazioni, bisogni dei cittadini che non vedono né affrontate né risolte le tante emergenze che da anni si susseguono. Il tempo, assieme alla precisione ed al rigore delle priorità da perseguire, è fattore decisivo. Di fronte a noi non c’è più un unico ed arretrato Mezzogiorno, quanto piuttosto tanti e diversi Sud. Rispetto alla situazione di pochi anni fa alcune Regioni meridionali, come la Basilicata e l’Abruzzo, hanno dato esempi di ottima gestione realizzando importanti e significativi avanzamenti. Altre situazioni - come la Campania -, pur tra elementi, seppure circoscritti, d’interessante dinamismo - hanno evidenziato, in prevalenza, condizioni di preoccupante stagnazione economica ed occupazionale. Il tasso di crescita appare più lento, ed in ogni caso difforme da quanto accade in altre realtà regionali pure meridionali. Le Regioni Basilicata ed Abruzzo hanno potuto avvalersi del lavoro di ottimi funzionari pubblici ed hanno avviato, portandoli a buon fine, corsi formativi di elevata qualità anzitutto per dirigenti e funzionari pubblici riuscendo ad utilizzare massicciamente, almeno fino a pochissimi anni fa, per la bontà e l’efficacia dei progetti predisposti e realizzati, le notevoli possibilità fornite dai Fondi Comunitari. La Campania, di converso, pur tra intuizioni positive, si è caratterizzata, nell’azione di governo, per lungaggini ed arretratezze marcando – come si accennava- fattori di sostanziale stagnazione. Per circoscrivere il ragionamento è il caso di segnalare che,

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all’interno della Regione, si è determinato, nell’ultimo quinquennio, un andamento duale. In termini di crescita globale, infatti, si può rilevare come siano in parte migliorate le condizioni dell’area salernitana, avellinese e beneventana, nel mentre hanno manifestato evidenti fattori di staticità nella crescita le province di Napoli e di Caserta268. Lo strato dirigenziale burocratico pubblico meridionale e campano ha rappresentato e rappresenta troppo spesso un vero ostacolo allo sviluppo. Esso mantiene - in genere - quello che Gramsci definiva ne “Gli Intellettuali e l’Organizzazione della Cultura” “uno spirito di corpo”, che andrebbe “assimilato”, ovvero neutralizzato positivamente e ne andrebbe “elaborato” e “selezionato” uno nuovo (strato). Va inoltre considerato il fatto che l’ampliamento della Comunità Economica Europea ai Paesi dell’Est, con la decisione già assunta della creazione dell’Europa a 27, ridurrà sempre di più, nel prossimo futuro, il carattere di “area Protetta” del Mezzogiorno d’Italia e buona parte di esso è destinato ad uscire dai progetti dell’obiettivo 1. L’occasione di Agenda 2007 - 2013 è perciò di straordinario rilievo e fattore decisivo, in economia come in politica, forse l’ultima occasione per l’attuazione di una svolta da troppo tempo vanamente attesa. A tal proposito non pare inutile osservare che il fattore “tempo” avrà senz’altro una funzione decisiva. Oggi l’Est ha un reddito medio quantizzabile in un terzo del Sud Italia. Diverrà la metà, il 60%, ma resterà - a lungo - ancora assai più basso. E’ facile prevedere, quindi, che nel prossimo futuro in quella direzione sarà dirottato il grosso degli investimenti disponibili nel mentre il Sud d’Italia ne intercetterà, in media, assai meno del passato. Solo dieci anni fa un gruppo di Paesi Europei manifestava elementi di accentuata arretratezza. Irlanda, Portogallo, diverse regioni Spagnole e, nell’Italia Meridionale, la Puglia, l’Abruzzo e la Basilicata. Questo complesso di aree territoriali ha fatto - in un arco di tempo relativamente limitato - grandi passi in avanti!!! Oggi 268

Indagine de “Il Sole 24 ore”, dicembre 2005

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grandi fattori di sofferenza e di arretratezza continuano a persistere in Campania ed in Grecia - tranne che per l’area del Dodecaneso. Bisogna perciò individuare ed aggredire efficacemente i vincoli strutturali ed infrastrutturali, con le difficoltà storiche, politiche ed amministrative che impediscono l’innestarsi di fattori qualificati di crescita virtuosa, capaci di reggere nel tempo, come altrove, in più realtà, è già avvenuto. Tra tali fattori e vincoli, assai penalizzanti, vanno senz’altro annoverati l’inadeguatezza della rete infrastrutturale, materiale ed immateriale a partire dalla lentezza, ancora eccessiva, della diffusione capillare delle conoscenze informatiche, telematiche e contemporaneamente la scarsa presenza di figure professionali innovative di cui un moderno ed avanzato sistema d’organizzazione territoriale deve - indiscutibilmente - poter disporre per affrontare, con successo, la sfida della competizione. Un’ulteriore e gravissimo elemento negativo è costituito dal persistere dell’intreccio e dalla commistione tra politica ed affari. Molto spesso ci si deve riferire anche all’estrema e persistente diffusione del perverso rapporto tra politica e “piccoli” affari, nel senso che non è stata debellata ed anzi persiste,tra larghi strati di popolazione,una mentalità ed una “cultura” intesa ad eludere ed aggirare comportamenti e pratiche propri dello Stato di diritto. Un tema che rinvia alla permanente decisività della lotta ideale e culturale che, per le grandi implicazioni che comporta, necessita ovviamente di ben altri approfondimenti e tali da non poter essere affrontati nella presente circostanza. La classe politica meridionale e campana- pur se tra importanti eccezioni - non ha dimostrato di essere all’altezza della situazione e la diffusione di un nuovo spirito civico risulta ancora largamente insufficiente. Uno dei limiti strategici più forti nell’azione di governo ha continuato ad essere rappresentato dall’assenza di sistematica e costante coesione interistituzionale. Regione, Province, Comuni hanno troppo di frequente continuato a procedere in maniera separata e non coordinata, sovrapponendosi e contraddicendosi, nella predisposizione e nella gestione degli interventi.

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Ciò ha concorso ad impedire l’individuazione, la precisa definizione e la conseguente, concorde persecuzione di un progetto d’insieme qualificato e condiviso dal cui interno potessero essere rilevate, periodicamente, le principali priorità. Tale progetto avrebbe dovuto potersi basare su poche ed essenziali Idee Forza. Si sarebbe dovuto partire dalla progressiva riqualificazione della spesa pubblica corrente intervenendo - trasversalmente- sul nodo decisivo dell’investimento sulla qualità, sulle risorse umane presenti, puntando anzitutto a difendere e sviluppare le attività esistenti ed implementare l’azione nella direzione di settori nuovi, innovativi, d’avanguardia ancora oggi largamente manchevoli. Anche settori di possibile espansione potenziale, come quelli dell’agricoltura nella Piana del Sele, che sono indiscutibilmente cresciuti negli ultimi anni per fatturato e per volume globale di affari, non hanno visto un adeguato sostegno pubblico sul piano degli aiuti all’innovazione ed all’ammodernamento produttivo, di processo e di prodotto. Stesso discorso può essere proposto, in termini anche più accentuati, per l’assenza d’impulso assicurata alla valorizzazione del turismo, dell’ambiente, dei beni archeologici, del patrimonio culturale o per l’assenza d’intervento di sostegno in alcuni segmenti dinamici di attività industriale, di aziende di piccola e media dimensione che, nell’ultimo quinquennio, hanno manifestato elementi di sorprendente dinamismo. Esperienze, di sicuro ancora troppo limitate e circoscritte, che hanno comunque dimostrato capacità produttive d’eccellenza. E’purtroppo risultata impossibile ogni azione integrata e si è manifestata obiettiva miopia nell’incomprensione del fatto elementare che il territorio, economicamente, non ha rigidi confini. E tuttavia i vincoli prima richiamati non hanno, di per sé, frenato in via indifferenziata ed ovunque ogni possibilità di crescita e sviluppo. Tale affermazione è confermata dal fermento, contraddittorio ma diffuso, rintracciabile in svariati esempi particolari. A Matera, ad esempio, la società “Divani e Divani” è diventata leader mondiale del settore al punto da arrivare persino ad as-

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sumere personale proveniente dal Nord. In provincia di Salerno, nell’Agro Nocerino-Sarnese ma, soprattutto, nella Piana del Sele e nel Vallo di Diano si sono messi in moto processi produttivi d’avanguardia nella trasformazione dei prodotti agricoli grazie all’applicazione di nuove tecnologie di colture e confezionamento dei prodotti agricoli in un contesto di mercato prima del tutto privo di regole. La produzione dell’olio di oliva ha visto, finalmente, la sperimentazione di innovazioni che consentono l’indicazione del luogo d’origine di produzione e la possibilità di utilizzo di marchi specifici di produzione, sulla linea, ad esempio, di quanto già da tempo realizzato con l’esperienza di produzione delle olive toscane. Nel campo della viticoltura campana si è registrato un significativo miglioramento dei vini campani,da quello della provincia di Benevento, il Solopaca, ai vigneti ed alle cantine dell’avellinese (Taurasi). Una serie di piccole imprese cominciano lentamente a farsi un nome ed a proiettarsi in una dimensione mondiale. Ulteriore dimostrazione dell’esistenza di interne articolazioni e differenze economiche e produttive che convivono nel medesimo contesto. Tali imprese iniziano a comprendere l’importanza di uscire dalla dimensione esclusivamente locale, usano i siti Internet per la pubblicità, per espandere la propria immagine a livello planetario, investono sui prodotti locali di qualità, anche grazie a meritorie iniziative di sostegno (per le produzioni agricole) come è stato fatto dalla Provincia di Salerno. L’uso applicato delle moderne tecnologie si va diffondendo anche in altre Province, come quelle pugliesi, per la pubblicizzazione dei vini e delle Cantine Sociali come quella di Manduria (Taranto). Lo stesso settore del Turismo, così come la questione del recupero dei centri storici, e dei beni Storici e Culturali sta vivendo una nuova ed importante stagione seppure le potenzialità esistenti si siano dispiegate, come si è accennato, in misura ancora assai parziale.

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Fattori di crescita e sviluppo possono quindi essere innestati, nonostante le varie difficoltà rappresentate, anche all’interno di territori con antichi e forti condizionamenti negativi. I pochi esempi appena richiamati stanno a dimostrare che esistono energie e capacità organizzative e funzionali, potenzialmente assai valide, che vanno aiutate a crescere ed affermarsi in una dimensione europea e mondiale. Allo stesso modo decisiva appare la questione di avviare, in maniera socialmente accorta e governata, il necessario processo di riorganizzazione e riconversione dei comparti che manifestano forte affanno o incapacità a reggere la sfida della competizione globale. Si tratta in questo caso di predisporre grandi piani di formazione e riqualificazione professionale in grado di riutilizzare, in altre direzioni produttive, le forze del lavoro oggi impiegate in quelle situazioni. Un enorme problema da affrontare a tempo, con il solidale concorso del governo nazionale, delle Regioni interessate, del sistema delle Autonomie Locali, dell’imprenditoria. La struttura complessiva degli assetti istituzionali e di governo, il “sistema” degli Enti locali ha purtroppo rimarcato,invece, preoccupanti elementi di “assenza” nella programmazione, nella gestione e nel sostegno allo sviluppo del territorio. Bisogna invertire il metodo classico di lavoro cominciando a stabilire uno stretto e costante raccordo tra Regione, Province, Comuni con la loro rappresentanza dell’ANCI. Vanno superate vecchie frammentazioni e municipalismi, evitando di chiudersi nell’esclusiva dimensione della singola Autonomia locale. E’opportuno puntare all’individuazione e definizione di ambiti comprensoriali omogenei ed affrontare insieme (Regione, Province, Comuni, Forze imprenditoriali e sociali, mondo della Cultura) le principali questioni d’interesse comune avendo a riferimento l’obiettivo dell’ampliamento delle occasioni di lavoro produttivo e di verificata utilità sociale. Potrebbe a tal proposito essere assunto il modello, concettualmente valido e positivo, delle ASL dando vita a servizi comuni interdistrettuali. Attuando servizi diretti essenziali ed integrati,si potrebbero così evitare sovrapposizioni e confusioni d’intervento che, in genere, producono distorsioni ed aggravi di

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spese insostenibili, in considerazione dei vincoli economici esistenti, con risultati finali del tutto inadeguati. Il volume di risorse impiegate non dovrebbe lievitare in alcun modo rispetto alle disponibilità di spesa pubblica corrente. Un esempio ulteriore di comparti dove realizzare con urgenza una razionalizzazione nell’uso delle risorse pubbliche è il sistema dei trasportiregionali dove spesso si è dato luogo a sovraccarichi di linee in alcune aree ed ad assoluta assenza di servizi in altre. Andrebbe predisposto ed attuato, invece, un Piano di potenziamento delle reti esistenti implementandole con differenti sistemi e reti di trasporto,anche su gomma, procedendo selettivamente- nelle situazioni di maggiore svantaggio. L’insieme di organici collegamenti stradali, marittimi,aeroportuali dovrà essere,in sintesi, certo e di buon livello qualitativo,concorrendo anche alla risoluzione del problema del miglioramento dei collegamenti con le altre Regioni confinanti. Un simile processo dovrà attuarsi in relazione al grande tema della riorganizzazione del Sistema sanitario regionale che, fino ad ora, non ha visto realizzata una progressiva riconversione e ristrutturazione delle proprie funzioni. L’attuazione di un’ inedita integrazione tra territorio e strutture ospedaliere dovrà dar vita a un nuovo riequilibrio ed una nuova riconversione concordata riducendo posti letto di medicina generale e chirurgia generale e contestualmente aumentando terapia intensiva e riabilitazione. Andrà poi robustamente rafforzato il rapporto e la collaborazione tra Università e strutture sanitarie presenti nella Regione. In generale si tratterà di attuare integralmente un nuovo Piano Sanitario Regionale da immaginare e realizzare solo in relazione ai bisogni esistenti oggettivamente censiti ed una grande attenzione dovrà essere rivolta al calcolo dei costi necessari così da assicurare livelli uniformi di assistenza ai cittadini di tutto il territorio. Una necessità assoluta e imprescindibile per non assistere alla indiscriminata soppressione di servizi essenziali ancora oggi garantiti ai cittadini. In sintesi i cittadini, ovunque abitino, dovranno poter disporre di livelli omogenei ed uniformi di servizi e di assistenza.

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Altre Regioni Italiane, come la Regione Toscana, hanno impostato il ragionamento in grande anticipo, partendo dall’individuazione di “Aree Omogenee” di riferimento ricollocando- su diversi confini- sistemi di trasporto, distretti sanitari, distretti scolastici. I Comuni, per molti servizi, hanno attuato azioni concordate a livello sopracomunale. Scelte discusse ed approvate- preventivamente – anche dagli strumenti di democrazia partecipativa come i Consigli Circoscrizionali. Si sono così raggiunti migliori e più efficaci risultati rispetto al passato, con identica spesa finanziaria. Forti risparmi di spesa si sono poi determinati con la decisione dell’individuazione di un unico Centro di spesa sovra comunale incaricato dell’acquisto di Beni e Servizi. I piccoli Comuni, per evitare il rischio di un’irreversibile e progressiva riduzione della qualità e della quantità dei servizi, dovranno necessariamente consorziarsi. Per un’intera area di Comuni potrebbe essere creato un sistema di servizi all’imprenditoria dotato di adeguata conoscenza, competenza, intelligenza, creatività. Potrebbero essere realizzati servizi di qualità, di controllo di qualità,di analisi di mercato e di concreto aiuto alla commercializzazione. Negli anni scorsi in Basilicata è stata l’Università ad assicurare tutto ciò. Sulla stessa lunghezza d’onda dovrebbe proiettarsi la Regione Campania. Il vantaggio sarebbe evidente, a partire dal dato di poter disporre, con immediatezza e stabilmente, di un soggetto istituzionale qualificato con cui interloquire, impegnativamente, in tempi sicuri e con certezza. Fino ad ora si è invece praticata un’altra strada, di frammentazione e di spezzettamento tra più soggetti,non sempre in possesso degli indispensabili e verificati requisiti di qualità e competenza. E ciò ha comportato un’ulteriore dissipazione di risorse pubbliche. E’ invece necessario promuovere un accordo a monte, tra Regione, province, Comuni, affidando alle Università la responsabilità della programmazione e della gestione della formazione sulla base di un accurato e scientifico esame preventivo delle necessità effettive e non fittizie dei singoli territori.

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L’Università- sotto propria responsabilità- può individuare ed attivare strutture di alta formazione in grado di garantire i requisiti di riferimento indispensabili sul piano della qualità. Altre nazioni Europee, come la Spagna, hanno compreso bene ed a tempo come sia decisivo poter disporre di un’Amministrazione Pubblica organizzata in maniera virtuosa ed efficiente, potente volano per uno sviluppo territoriale integrato, non mono ma intersettoriale. Gli Spagnoli hanno investito sulla decisività del vincolo della qualità e dell’efficienza dell’organizzazione, sottoponendo la verifica dei risultati raggiunti ad uno stringente e periodico controllo. In quella realtà, per esempio nel settore del turismo, è il Comune a fornire, direttamente e con tempestività, all’utente le informazioni su prezzi, quantità, qualità, localizzazione dei servizi turistici ed è esso che acquisisce a sé, direttamente, la responsabilità delle prenotazioni. Si potrebbe far un uso migliore delle esperienze organizzative e funzionali già altrove sperimentate e puntare a predisporre un progetto, non meccanicamente esportato da altre situazioni, ampio per obiettivi, modesto per costi globali, in grado di muoversi, essenzialmente, in poche prioritarie direzioni : A) Assicurare a tutte le Autonomie Locali standard organizzativi simili. I Comuni dovrebbero assicurare ai cittadini alcuni servizi primari in grado di garantire risposte in tempi certi e dovrebbero poter disporre di Dati Base di conoscenza, molto ampi ed aggiornati, così da intervenire sulle priorità che, di volta in volta, si evidenziano. Andrebbero periodicamente censite, insieme alla popolazione, le tipologie di attività produttive e dei servizi presenti, sanità, scolarità, attività culturali etc. La conoscenza dettagliata e periodica dell’offerta di servizi e funzioni esistenti è imprescindibile per programmare specifici interventi, anche supplementari, in aree geografiche obiettivo d’iniziative d’azione prioritarie. Questi studi statistici sono in realtà già da tempo disponibili. Si veda al proposito l’utilità dell’Annuario Statistico Campano. Essi, però, in genere non divengono oggetto di interpretazione e riflessione collettiva e an-

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che ciò impedisce di dar vita ad un progetto di sviluppo adeguatamente discusso e condiviso. Eppure operazioni virtuose di riordino e di riorganizzazione sarebbero del tutto praticabili. Potrebbe essere ad esempio immaginata la progressiva differenziazione dei servizi della Pubblica amministrazione. Già nella Legge Finanziaria 1999, i cui contenuti sono stati confermati, su questo argomento, nelle finanziarie successive, s’indicava l’obiettivo della rapida messa in rete di tutti i piccoli Comuni! Una impostazione che rinviava ad un metodo di approccio e di lavoro comprensoriale e sovra comunale. Sulla falsariga di quella impostazione potrebbe ad esempio risultare utile, nelle aree ad elevata popolazione scolastica, costruire una Biblioteca Generale in grado di servire un intero Comprensorio. Prenotazioni e smistamenti di testi richiesti verranno facilmente assicurati ai singoli Comuni e ai cittadini residenti. Tutti i Comuni dovrebbero poi dotarsi di una “Carta dei Servizi” sulla base di un modello regionale e dovrebbe essere possibile collegarsi rapidamente in rete per scambiarsi notizie sul lavoro esistente nell’area interessata,su quelli richiesti dai soggetti pubblici e privati, sui profili professionali da formare, sulla formazione, la Ricerca, i servizi, la loro allocazione territorialmente più opportuna, l’organizzazione e gli orari di fruizione delle prestazioni del servizio Sanitario Nazionale. Insieme a ciò notizie precise sulla programmazione di mostre, film, spettacoli così da poter intercettare la mobilità delle persone in maniera più ordinata ed organizzata. Il volume d’affari globale del territorio s’incrementerebbe in maniera consistente anche nelle varie stratificazioni dell’indotto. L’ultimo punto, senz’altro tra i più impegnativi e delicati, è quello dell’azione- decisiva- per la qualificazione del personale della pubblica Amministrazione, dalla dirigenza fino alle varie funzioni di ogni ordine e grado. Bisogna porsi l’obiettivo di raggiungere, a tappe forzate, i più qualificati livelli di professionalità e capacità di organizzazione

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presenti, già oggi, nelle situazioni europee più evolute recuperando decisamente il gap negativo accumulato rispetto a situazioni di riferimento, assai più positive, come quella francese. La Pubblica Amministrazione dovrebbe assicurare: A) Precisa conoscenza dei problemi organizzativi. B) L’esatto quadro della legislazione attualmente in vigore con la sua periodica evoluzione. C) Dovrebbe garantire la capacità d’uso più ampia possibile delle tecnologie informatiche, telematiche, digitali. D) Possedere, padroneggiandoli pienamente, metodi validi ed efficienti di valutazione e di perseguimento dei “fattori di qualità”. E) La precisa e puntuale conoscenza delle caratteristiche geografiche, ambientali, economiche, produttive del proprio territorio e di quello dell’insieme della Regione e dimostrare, nella pratica, la piena padronanza del “metodo” di elaborazione dei progetti. F) L’accurata ed aggiornata conoscenza delle caratteristiche del mercato, delle sue dinamiche e della sua periodica interna evoluzione per le distinte attività. La situazione data andrebbe riparametrata nell’ambito degli scenari europei garantendo raffronti e comparazioni periodiche con le situazioni più avanzate. G) Le direttrici di sviluppo prefigurate dall’UE andrebbero perfettamente conosciute, padroneggiando l’accesso a tutte le informazioni e conoscendo le diverse possibilità di finanziamento settoriale offerti dalla Comunità economica Europea. Con la padronanza di questo complesso di elementi la Pubblica Amministrazione Italiana potrebbe diventare, in tempi relativamente brevi, un autentico volano per lo sviluppo più che una barriera ed un ostacolo, spesso insuperabile, alla moderna qualificazione del territorio. La disponibilità a riconvertirsi dovrà infine essere premiata,professionalmente ed economicamente. Ciò dovrà significare per alcuni: A) conoscenza delle lingue principali.

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B) Immediata padronanza delle iniziative di “qualificazione di sistema”attuate in altri Paesi,come Irlanda e Spagna,dove in un arco di tempo relativamente breve- sono stati conseguiti importanti risultati. C) Bisognerà predisporre la programmazione di Stage Formativi anche all’Estero, investendo su giovani valenti e motivati. D) Si dovranno assicurare stabili relazioni di collaborazione con altre regioni Italiane, come il Veneto,per effettuare utili comparazioni e correzioni dei modelli organizzativi. Il modello Sanitario adottato da quella Regione,ad esempio, potrebbe essere assunto a riferimento così come l’Emilia andrebbe presa ad esempio per quanto concerne il funzionamento degli Asili Nido, i servizi sociali, gli orari delle Città, l’organizzazione e la gestione dell’imprenditoria turistica. Altre esperienze d’avanguardia possono essere assunti a riferimento per la difesa e la qualificazione ambientale e la valorizzazione del patrimonio dei Beni Culturali, caratteristica peculiare e specifica con cui caratterizzare, in modo originale e distintivo, l’ingresso dell’Italia, ed in specie delle Regioni Meridionali, nell’Europa. E lo stesso potrà avvenire per sostenere la crescita di esperienze positive e d’avanguardia nei settori dell’agricoltura e nella nuova industria di recente insediamento, nel mentre il comparto della pesca e, più in generale, le politiche volte alla valorizzazione della risorsa mare offrono, se finalmente ben suffragate da efficaci politiche di sostegno pubblico, un ulteriore straordinario terreno di potenziale espansione in grado di produrre aggiuntive ed importanti occasioni di lavoro e di sviluppo per le aree regionali collocate sulla costa. E) Decisivo e prioritario dovrà essere in ogni caso l’investimento sulle persone e l’azione per la differenziazione delle figure professionali partendo da quanto già esiste e dal censimento delle necessità presenti in loco il cui bisogno sia stato scientificamente censito. Nella competizione globale tra sistemi è decisiva la possibilità di utilizzo di figure professionali avanzate con una formazione aggior-

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nata e di qualità, in sintonia con le nuove esigenze e domande del mercato. La Lombardia, l’Emilia, la Toscana hanno da tempo messo in moto strategie formative di terza generazione incentrate sulla new economy, su quel complesso di fattori risultati trainanti per concorrere alla ripresa del ciclo economico ed assicurare una capacità di espansione a livello globale . F) La formazione,coi radicali correttivi prima richiamati, dovrà essere, come l’aggiornamento, costante e continua, con verifiche annuali. G) Intorno alla persona qualificata e formata a livello più elevato si creerà un ufficio in grado di moltiplicare quantità e qualità dell’offerta. Impostare un modello organizzativo nuovo che lavori per integrazione tra Comuni diversi e geograficamente vicini,usando strumenti tecnologici adeguati. Bisogna individuare e perseguire gli standard qualitativi da raggiungere. In Campania, fino ad ora, la Formazione è andata invece in tutt’altra direzione. Il più delle volte sono state riprodotti programmi formativi identici a quelli dell’anno precedente che hanno disperso in mille rivoli le corpose risorse disponibili. I “contenuti formativi” vanno invece progettati in relazione ad un effettivo ed oggettivo bisogno e all’obiettivo di qualità da perseguire. Invece di frequente l’obiettivo non è risultato chiaro e la Formazione si è trasformata in un autentico Mercato per organizzatori e docenti. Troppo spesso, nella predisposizione di un corso formativo, non sono state preventivamente ascoltate le aziende né, di conseguenza, individuati gli obiettivi da raggiungere. Le aziende non si sono avvalse dei profili professionali di cui avevano bisogno e, di conseguenza, non hanno potuto usufruire di servizi aggiuntivi indispensabili alla loro attività. Così le loro produzioni non sono state in grado di varcare i confini angustamente locali. Non si sono poi creati in loco Dirigenti e Manager e di alta Formazione e di elevata qualificazione. Serve d’insegnamento la rilettura critica rigorosa delle cause che hanno, nei decenni

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pregressi, determinato la messa in crisi d’interi settori manifatturieri e produttivi nelle singole province della regione Campania e di tutto il Mezzogiorno, strade dimostratesi tragicamente fallimentari e che perciò non vanno mai più percorse. Oltre a quanto finora sostenuto, appare infine necessario tentare di ridare slancio all’avvio, su altre basi,di un nuovo e qualificato processo di reindustrializzazione. Negli ultimi anni è continuato,praticamente concludendosi, il processo di deindustrializzazione nelle maggiori aree urbane iniziato a partire dagli anni 80. La forza lavoro impiegata nelle imprese non ha trovato diversa ricollocazione produttiva. Sono sorte attività di piccole e medie dimensioni con lavoratori di frequente senza alcuna tutela e rappresentanza sindacale. Il complesso di servizi a queste attività è stato improvvisato, scadente, inadeguato o addirittura inesistente. La definitiva deindustrializzazione del territorio va evitata in ogni modo. Bisogna agire per sottrarre alla speculazione le aree dismesse, attrezzando adeguatamente spazi in grado di accogliere iniziative industriali produttive, di servizi e di reti, che possano sinergicamente coniugarsi e fare “sistema”. Non si può rinunciare all’idea di mantenere, ampliare e qualificare quanto c’è sapendo che ciò è però insufficiente e che, nel medio periodo, l’azione va implementata nella direzione della creazione di settori nuovi ed innovativi, insufficientemente presenti e sviluppati o, addirittura, ancora completamente assenti. Ciò obbliga a produrre un confronto ed un’analisi, supplementare ed approfondita, in grado di enucleare, accuratamente, l’insieme delle dinamiche, delle modificazioni, dei problemi e dei vincoli negativi che hanno ostacolato i fattori di unificazione e di coesione. Per l’essenzialità della questione la condivisione dell’idea di rifare su basi completamente nuove il sistema formativo regionale non può essere mera enunciazione. Bisogna scavare, più e meglio, nel merito avanzando proposte specifiche e praticabili, compatibili con il complesso di risorse effettivamente disponibili. Un nuovo, coordinato ed integrato Piano di Offerta Formativa deve scaturire da un’intesa tra le principali forze istituzio-

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nali, sociali, imprenditoriali, del mondo della Cultura presenti nel territorio. Ed essere in grado di ridisegnare una prospettiva di sviluppo non limitata alla semplice e subalterna presa d’atto postuma dell’andamento spontaneo dell’attuale domanda di “professionalità”, in genere di basso profilo, richieste dall’impresa locale (Vari Rapporti Excelsior). Deve operare per scelte e selezioni, indicando le priorità qualitativamente necessarie e in grado di concorrere a realizzare positive ricadute sulle possibilità di modernizzazione del territorio. D’indubbia utilità risulterà istruire e sviluppare una discussione ed un confronto, a più voci e in grado di raccogliere molteplici esperienze, con ulteriori approfondimenti specifici, di tipo seminariale, che in questa circostanza può essere indicato solo per titoli ed argomenti generali. Un confronto preparato con il preventivo assemblaggio dei dati d’analisi di partenza necessari in grado di affrontare, anche con la preparazione di relazioni e comunicazioni specifiche, in uno o due giorni di lavoro, blocchi di problemi che in partenza potrebbero incentrarsi su: 1-Impresa Industriale locale:caratteristiche, tipologie, limiti e potenzialità, specificazioni produttive, tipo d’incidenza sui mercati(locale, regionale, nazionale, europeo, mondiale). Addetti per settore-Caratteri di continuità e-o discontinuità della nuova imprenditoria locale ed individuazione di aree con significativo tasso di crescita riscontrato almeno negli ultimi 5 anni. • L’Associazione degli Industriali Campana e delle singole Province. Lo stato dei servizi all’impresa- la questione del Credito e difficoltà riscontrate nelle condizioni di sua erogazione. Valutazioni sull’attività dei Parchi Scientifici e Tecnologici. 2- Pubblica Amministrazione : Lo Stato di attuazione del Decentramento Burocratico ed Amministrativo. 3-La Dirigenza Pubblica : funzioni e carattere, progressivo o regressivo. Lo stato della Contrattazione in particolare per i progetti formativi, loro predisposizione, loro contenuti. 4-Politiche Culturali e sociali : Fattori di aggregazione. La condizione giovanile ed i principali fenomeni devianti,la dimensione della dispersione scolastica, aree di prevalente

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concentrazione cause, origini, stato dei progetti di recupero, terapie. Indagine sulla quantità di spesa impiegata dai Comuni e dalle Pubbliche Amministrazioni per le politiche di Welfare-State attualmente perseguite. I volumi di risorse impegnati dai Comuni per le Politiche Sociali, con le fluttuazioni registrate di anno in anno, base rilevazione ultimi 5 anni. 5-L’Università ed il territorio. I Centri di eccellenza. Ricerca, Sviluppo e diffusione delle nuove tecnologie e dell’innovazione. Esame dell’offerta, nuove proposte e correttivi. Problemi aperti e questioni organizzative e politiche irrisolte. 6- Le questioni ambientali, l’assetto idrogeologico, il costo sopportato per le catastrofi ed emergenze ambientali, i fattori di maggiore criticità, gli strumenti per fronteggiarli. 7-Sicurezza-Le Organizzazioni Criminali- traffici prevalentiMacro e Microcriminalità – Azione di Contrasto Forze dell’Ordine- Composizione, effettivi, risorse umane e tecnologiche necessarie. Presunta dimensione volumi d’affari delle organizzazioni criminali. 8- Agenda 2007-2013- Principali Progetti già predisposti o ancora da definire e possibili ricadute sull’area regionale. Senza una ripresa del confronto e della contrattazione, nella Regione e nelle singole Province, su opzioni e linee d’indirizzo precise e rigorose, frutto di un critico bilancio dell’esperienza già vissuta e dell’individuazione di poche e definite priorità da perseguire, è sempre più concreto ed evidente il rischio dell’accentuarsi della marginalità, di una nuova, più accentuata ed ulteriore decadenza Tesi proposte per conto della Federazione Regionale Formazione e Ricerca in occasione del VII Congresso Cgil Campania, Napoli, 14-16 gennaio 2002

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Salerno e la Provincia: alcune priorità per lo sviluppo

Anche per la Provincia di Salerno appare indispensabile individuare efficaci priorità d’azione per arrestare il rischio del declino ed innestare un moderno, virtuoso e qualificato processo di sviluppo. Le prospettive economiche e produttive che si profilanonel breve e medio periodoappaiono infatti,ancora una volta, gravi e preoccupanti a fronte dell’accelerazione dei processi di competizione globale. Per reggere questa sfida dirimenti saranno i fattori della conoscenza, della competenza e della qualità delle persone e dei territori, in ogni segmento del mercato del lavoro, in ogni professione. Le forze sociali,le imprese, le organizzazioni sindacali confederali, il mondo della cultura e dei saperi devono pertanto, a partire dai posti di lavoro,concordemente concorrere alla crescita ed all’ampliamento dei saperi, anzitutto scientifici, attualmente esistenti, il cui pieno dispiegarsi è elemento, indispensabile,per tentare di reggere,al meglio,la sfida posta nel tempo presente dai processi di integrazione. E’ decisivo investire sulla risorsa - strategica- del fattore umano per la sua più ampia valorizzazione. Una scuola di qualità, efficaci piani formativi mirati,finalizzati alle effettive esigenze di sviluppo e modernizzazione del territorio, sono priorità assolute. In passato l’inadeguatezza di un’efficace visione strategica sulla qualità dello sviluppo possibile ha causato la progressiva eliminazione di un importante patrimonio industriale preesistente,pubblico e privato,con la quasi totale desertificazione dell’industria manifatturiera tradizionale locale. Un’idea forza generale, un progetto di sviluppo condiviso è fattore indispensabile alla crescita del gracile apparato industriale e dei servizi territoriali,da coniugare all’efficace azione da qualche tempo in atto per il recupero urbano e la valorizzazione, piena, del grande patrimonio ambientale,storico e culturale di cui sono ricche la Provincia di Salerno e la Regione Campania. Una strada obbligata, e senza alternativa, per esercitare un ruolo attivo,non subalterno e residuale. L’attenta gestione dei Fondi per la formazione e la periodica ed accorta verifica dei risultati raggiunti coi piani formativi può costituire un primo viatico idoneo

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ad innestare una fase nuova. Il confronto e la negoziazione dovrà quindi ulteriormente svilupparsi con la Regione Campania,la Provincia di Salerno, gli Enti Locali, con particolare riguardo all’individuazione,selezionata,dei processi formativi e di figure professionali qualificate,oggi manchevoli, di cui il nostro territorio abbisogna. Il nodo dirimente dell’immediato futuro è quello della strutturale condizione di disoccupazione dei ragazzi meridionali. Assicurare un futuro,di lavoro e non assistito,ai ragazzi ed alle ragazze meridionali è il primo e più qualificante obiettivo delle forze di progresso,la vera priorità. Un aggiornato grande Piano del Lavoro rivolto ai giovani del Mezzogiorno d’Italia è obiettivo dirimente di questa fase storica della nostra democrazia Repubblicana. Scelta questa cui, se necessario,sacrificare anche tensioni rivendicative particolaristiche,ciclicamente praticate da parti del mondo del lavoro obiettivamente più protette e garantite. Esistono tutte le condizioni per pervenire, dopo l’adozione di un progetto comune,discusso e condiviso,alla sottoscrizione di un “Patto Formativo” tra OOSS, Assindustria, Università, Regione Campania, Provincia e Comune di Salerno, imperniato su una più incisiva integrazione tra scuola e lavoro da verificare, con periodicità, nella sua progressiva realizzazione. Oggi il Mezzogiorno è un universo composito che esprime nuove realtà economiche e sociali. Non più solo terra di sottosviluppo per antonomasia. Eppure,con più di un terzo della popolazione italiana,le regioni meridionali producono meno di un quarto del reddito nazionale. Negli ultimi anni è ripreso il fenomeno dell’esodo dal Sud, dalla Campania, dalla Provincia di Salerno di persone,in prevalenza giovani,in cerca di lavoro verso il Centro ed il Nord-Est della Penisola. E’ indispensabile una svolta che non proponga la riedizione aggiornata di politiche assistenziali, con trasferimenti di risorse a pioggia ma nuove ed efficaci politiche di sviluppo affidate, se necessario, all’autorità di agenzie indipendenti,con competenze sovra regionali,dotate di proprie dotazioni finanziarie, in parte anche attinte dai Fondi strutturali Europei. Le risorse vanno concentrate su precise priorità, senza essere più disperse in mille rivoli. La riabilitazione delle periferie urbane più degradate, la difesa dell’ambiente, del

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mare e delle coste lese dall’uso, spregiudicato, di sostanze inquinanti. La realizzazione di infrastrutture primarie quali l’Aeroporto di Pontecagnano e l’accelerazione dei lavori della Salerno-Reggio Calabria, un turismo a forte specializzazione, un aiuto alla crescita ed al consolidamento della piccola e media impresa locale. Non più rinviabile è infine il superamento delle disfunzioni e della scarsa efficienza degli apparati amministrativi e di alcuni servizi pubblici essenziali come la sanità. Nella scuola, nel sistema formativo, nella ricerca applicata l’Italia investe molto meno dei paesi più avanzati d’Europa. Assai basso il numero di laureati in materie scientifiche e tecnologiche, ostacolo questo insormontabile a fronte della necessità di assicurare,in breve,un adeguato ricambio dei quadri direttivi intermedi del mondo economico e del lavoro. Il Sud, ed in esso la Regione Campania e la Provincia di Salerno, è crocevia di frontiera decisiva per il futuro. Una straordinaria mistura di contraddizioni e potenzialità, questione decisiva per il destino di tutto il Paese. Aree essenziali dove vincere o perdere la lotta per debellare per sempre la criminalità organizzata, ripristinando il senso dello Stato. La crescita del Sud, della Campania e della Provincia di Salerno non può più essere solo finanziata coi rubinetti della spesa pubblica. Un ruolo dello Stato centrale è però ancora necessario per garantire un avvicinamento alla media europea delle infrastrutture (autostrade, ferrovie,telecomunicazioni,scali portuali, sistemi di protezione del suolo). In tal modo può essere aiutato l’avvio di una crescita auto-propulsiva. La condizione di sostanziale stagnazione dell’economia indurrà, prevedibilmente, il governo ad ulteriori, drastiche riduzioni dei trasferimenti dallo Stato Centrale alle Regioni ed ai Comuni. Nel Sud, in Campania e nella Provincia di Salerno una situazione, già ben più gracile di quella del centro-nord, è aggravata dall’assenza di una riforma del credito e del sistema bancario ancora incapace di assecondare, in maniera efficace, le timide ipotesi d’investimento produttivo. Un nodo decisivo per la realizzazione di un progetto, vincente,di rinascita. L’Unità, 29 maggio 2005

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Il congresso del Partito Democratico Ormai da qualche tempo abbiamo in larga parte accantonato l’involucro ideologico dove a lungo e in tanti abbiamo dimorato. Eravamo giunti al punto da pensare di poterci liberare d’un colpo, perché inutile eredità e fardello, dell’immenso patrimonio del pensiero letterario, filosofico e scientifico della grande cultura borghese per la cui conoscenza e comprensione abbiamo visto poi che non sarebbe stata sufficiente una vita intera, né forse dieci. Una fortuna non aver reciso seccamente quel legame : privi di esso ci saremmo di sicuro profondamente inariditi. La realtà, più cruda ed impietosa delle flebili illusioni, prova dopo prova, ci ha fatto perdere per strada parte delle scorie che ci avevano a lungo accompagnato. Ed ha cancellato l’idea dogmatica, suggestiva ma intrisa nell’inganno, che attendeva dal cielo, come per miracolo, il crollo repentino di una società profondamente ingiusta e diseguale. L’ora cruciale che, d’un solo colpo, avrebbe reso alla nostra offesa umanità l’agognata giustizia e libertà non si sarebbe invece presentata. Il vano obiettivo, simbolico e di fede, fissato nella mente, ci ha impedito a lungo di vedere in chiaro e a fondo, nelle sue diverse contraddizioni e sfumature, il mondo dispiegato intorno a noi, rendendoci di frequente reticenti nell’esprimere, in piena ed assoluta libertà, valutazioni critiche, su quanto si era realizzato in quella parte estesa del Pianeta a cui avevamo a lungo guardato con speranza. Il mito di una nuova ed agognata religione, in larga parte fatto nostro, ci aveva fatto smarrire, almeno in parte, la nostra capacità di orientamento. Giungemmo addirittura al punto da giustificare l’aberrazione secondo cui la libertà individuale, la creatività, la plurale convivenza della diversità delle opinioni poteva tranquillamente sacrificarsi al dogma, al Moloch del nuovo Stato Proletario ed alla dittatura di una classe sola. I rapidi e radicali sconvolgimenti del mondo e della storia, che di recente abbiamo conosciuto, ci obbligano all’urgenza di nette e profonde mutazioni, ad una metamorfosi, e ad una secca presa di distanza, rispetto a quanto, per un lungo arco di tempo e nonostante

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tutto, abbiamo continuato a sostenere, con ferrea ed ostinata volontà. Autentico atto di fede e di utopia. Un grande rivoluzionario italiano dal buio della sua cella, nella sua lucida e solitaria riflessione, coi logori strumenti a sua disposizione, ma con la mente straordinariamente acuta, rivolta all’avvenire, apriva nuovi, originali squarci di pensiero. E proponeva così una lettura, diversa ed aggiornata, dei due mondi distinti, d’oriente ed occidente. Lì, in Oriente, sosteneva, lo Stato è tutto, qui la società è più densa, magmatica e complessa e la conquista del potere politico e statuale passa di necessità attraverso la progressiva occupazione di “molteplici fortezze e casematte”. Come all’improvviso, illuminati da quella intuizione folgorante, abbiamo intrapreso un percorso accidentato, di elaborazione e di ricerca critica costante che, col trascorrere del tempo, si è andato ad intrecciare, indissolubilmente, alla paziente ed accurata indagine della nostra storia nazionale, della vita democratica della Nazione nel suo peculiare divenire. Passo per passo, siamo giunti a comprendere che la fortuna politica di parte, e il nostro stesso destino, allora come oggi, non possono essere scissi da quelli più generale del Paese, ed anzi con esso inseparabilmente si confondono. Uno squarcio di luce che ci ha obbligati ad aggiornare, continuamente, la nostra visione delle cose, a rinunciare alla pigrizia ed all’appagamento dei punti di approdo e conoscenza a cui di volta in volta eravamo pervenuti. Liberata la mente dall’ossessione di avere scoperto per sempre la pietra filosofale e l’assoluto, abbiamo iniziato ad inquadrare il nostro contingente agire all’interno di una più fluida visione delle cose e di una più sicura strategia. E’ diventata sempre più chiara in noi l’idea della nuova società che andava costruita. La storia è processo fecondo, in continuo e permanente, non rettilineo divenire. Accantonato il dogma, abbiamo finalmente compreso come la nostra azione dovesse essere volta ad ampliare e dilatare, oltre i confini fino ad allora conosciuti, i recinti di un’antica, antecedente idea di libertà non consentita a tutti, monca e parziale, non comprensiva della complessità della persona umana, e per questa ragione ancora troppo angusta, contratta e limitata.

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Un metodo d’indagine ed un’azione, paziente e quotidiana, che ci ha consentito, con la critica e l’avanzamento di proposte alternative su ogni nuova questione di rilievo che si proponeva nel paese, di rendere più robusta e sostanziale, ed in tal modo percepita dalla pubblica opinione, la nostra democrazia repubblicana. L’attuale libertà di cui godiamo non ci è stata regalata per diritto, ma conquistata con prezzi e sacrifici immani. Siamo così cresciuti, affinando la nostra capacità di analisi e il nostro sapere collettivo. Ed in questo percorso, seppure accidentato, pur perdendo lungo la strada qualche pezzo, abbiamo incrociato tante energie nuove. L’incontro e la contaminazione con le esperienze ed il vissuto degli altri indubbiamente ci ha arricchito. L’89 ha rappresentato, nell’immagine simbolica della caduta del Muro di Berlino, lo spartiacque epocale e conclusivo di una fase, lunga e drammatica, di frontale antagonismo nella storia mondiale, che si è riflessa nei singoli Stati Nazionali, l’ultimo retaggio di un tempo ormai concluso. Ci siamo infine liberati anche della nostra arbitraria pretesa d’una presunta e superiore distinzione, quella “diversità” che, quali guerrieri o uomini di fede reclusi in vuoti monasteri medioevali, a lungo abbiamo orgogliosamente continuato a custodire. Sotto l’incalzare delle nuove sfide, la nostra cultura politica si è contaminata nel confronto con gli altri, e sono apparse in chiaro le molteplici ragioni di una comune convergenza su più piani con altre forze d’ispirazione democratica. Ma non abbiamo abdicato mai alla speranza di poter costruire un nuovo mondo e alla difesa, intransigente, delle nostre più profonde convinzioni. Alla ragione che ci ha indotto a fare nostre quelle idealità che anzi dobbiamo continuare a tener vive, nella complessità nuova e inedita dei tempi moderni in cui viviamo, non rinunciando all’originario ceppo di pensiero da cui abbiamo mosso i primi passi. Il mondo tumultuoso che ci è intorno pullula di un grumo di irrisolte e persistenti storture ed ingiustizie odiose, denso come è di contraddizioni irrisolte, antiche e più recenti. L’ancoraggio a solidi valori ed a sicure convinzioni appare perciò, se possibile, ancora più obbligato.

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La situazione attuale del Paese, ed in specie del nostro Mezzogiorno, impone l’obbligo di agire, con determinazione, qui ed ora, per l’avvio di una svolta politica, economica, civile e culturale assai profonda, che appare sempre più urgente e indifferibile. Ogni passività deve essere bandita, ciascuno, dovunque collocato, deve riprendere ad esercitare a pieno il proprio ruolo. Troppo evidente e preoccupante lo scollamento tra Istituzioni e paese reale. L’estensione del protagonismo di ognuno ed un radicamento, ancora più profondo, delle diverse forme organizzate di partecipazione alla vita pubblica, a partire dal rafforzamento del tessuto diffuso dell’associazionismo democratico, è perciò questione vitale, del tutto aperta e non risolta. In questo contesto, essenziale appare la necessità della limpida riconquista di un ruolo e di una funzione di rappresentanza generale del mondo del lavoro da parte del sindacalismo confederale, che deve riprendere la strada della ricerca dell’unità tra le grandi organizzazioni sindacali democratiche liberandosi- contemporaneamente- di ogni retrograda forma di incrostazione corporativa e di conservazione. Vanno riaperte porte e finestre al libero confronto circolare delle idee. La conquista, mai raggiunta in via definitiva, di un’autonomia vera, costruita intorno ad un progetto e ad un programma di lavoro, di medio e lungo periodo, a livello di massa discusso a fondo e condiviso, è l’unico referente a cui essere fedeli. Questo a me pare il sentiero, obbligato, da intraprendere di nuovo per ridare slancio, prestigio, credibilità alla funzione di coesione di un Sindacato rinnovato di cui, soprattutto nel nostro Mezzogiorno, si avverte un urgente e imprescindibile bisogno. La riapertura di una mobilitazione democratica e civile, di salvaguardia dei diritti conquistati e per ampliare le occasioni di lavoro alla cui testa si ponga, in modo costruttivo, proprio il Sindacato Confederale è sempre di più questione all’ordine del giorno. La sfida, non oltre rinviabile, è quella di non smarrire, né disperdere, la nostra originale identità, di paese moderno, civile, colto e democratico che difende, salvaguarda e innova, insieme alla propria particolare tradizione, il legame con l’antica civiltà

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da cui proviene e che si integra, sempre più pienamente, con le specificità che le sono peculiari, nell’orizzonte più ampio e necessario dell’Europa. Una dimensione, per più aspetti inedita, e tuttavia obbligata, che ci impone di ragionare in un modo nuovo. Solo politiche di pace ed inclusive, di superamento delle discrasie e del grumo d’ ingiustizie più acute e laceranti a quel livello comunemente definite, concordate e perseguite con coerenza, potranno fare argine all’incombente pericolo di nuovi arretramenti, al rischio di esclusioni e di derive devastanti. Il nostro destino appare sempre più intrecciato, indissolubilmente, a quello più ampio e generale dell’Europa. Si deve agire, al meglio ed ora, per scongiurare, con la riconquista di una funzione d’avanguardia nostra e dell’antico Continente nel suo insieme, il riproporsi della pericolosità nefanda di atti unilaterali di potenza nella gestione delle acute crisi locali ancora oggi aperte in più punti del mondo. Il Mezzogiorno troppo di frequente scompare dalle priorità d’azione nelle scelte di politica economica e sociale della Nazione. Sta a noi lavorare, di comune intesa, perché tale tendenza sia invertita. Ciò impone l’obbligo di un’analisi, da perseguire in maniera collettiva, più accorta ed aggiornata, che indaghi sulle mutazioni che in questi anni, proprio nel Mezzogiorno, si sono realizzate, coi rischi e le possibilità di crescita e sviluppo che, in tale contesto, sono ancora realisticamente perseguibili. I più recenti indicatori economici confermano la sussistenza, come ha ricordato Alfredo D’Attorre, pur in presenza di una contingente curva positiva della crescita, di un tasso di sviluppo diseguale del Mezzogiorno rispetto al centro-Nord ed alle più evolute regioni dell’Europa. Continua ad essere troppo elevato il tasso di disoccupazione giovanile e femminile, con evidenti rischi di esplosioni di aspre tensioni sociali nel prossimo futuro. Abbiamo bisogno dell’individuazione di linee d’azione più stringenti e della costruzione, a breve, di un progetto, aggiornato, realistico e concreto, di crescita e sviluppo equilibrato con definite e rigorose priorità. In tempi relativamente recenti la fine della Prima Repubblica ha consegnato poteri e responsabilità, nuovi e più am-

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pi, al Partito ed agli uomini da esso indicati alla guida delle Istituzioni nazionali, regionali e locali. Un’esperienza, di rilievo, che ha consentito il realizzarsi di profondi cambiamenti come tali avvertiti dal cuore e dalla coscienza profonda del Paese. Oggi però appare indifferibile la messa in moto di una marcia nuova. La sollecitazione e l’organizzazione di un ben più ampio, esteso e diffuso protagonismo, più stabilmente strutturato, travalicante le forme, insufficienti e logore, di una democrazia in ampia parte delegata, è fattore vitale e decisivo per le forze che a noi si riferiscono. Alla sua costruzione possono e debbono concorrere, come già in parte sta avvenendo, i grandi filoni delle diverse culture presenti nella nostra storia nazionale, da quella liberale e democratica a quella del popolarismo cattolico a quella espressa dall’umanesimo socialista, tutte convergenti verso la comune tensione nel porre l’uomo al centro dell’azione e dell’attenzione pubblica. Ancora troppe le energie che appaiono però costrette e relegate ai margini. La faticosa ed entusiasmante sfida per cui spenderci, senza risparmio alcuno, deve tendere alla creazione di una nuova e moderna formazione politica in cui possano convivere, riconoscendosi in un comune sentire, valori condivisi, pluralità e diversità di posizioni, molteplici sensibilità e culture, ed anche distinzioni, di cui non aver paura. Una forza che si colleghi, che innovi e che sviluppi la grande tradizione, teorica e politica, del meglio dell’esperienza della sinistra democratica europea. E la partecipazione attiva e consapevole la si può realizzare se il progetto proposto, costruito grazie al più ampio concorso possibile, d’iscritti, simpatizzanti ed elettori, riuscirà a sollecitare, per la sua capacità di persuasione, di nuovo, passioni ed entusiasmi, in verità sopiti, anzitutto tra le giovani generazioni. La nuova formazione politica, che nasce nel pieno del travaglio dei profondi e vorticosi cambiamenti del mondo che c’è attorno, e in specie della nostra società italiana, deve radicarsi esercitando e difendendo - sempre- il proprio ruolo, nella più piena autonomia.

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Nessuna confusione, o annullamento, della propria identità, di forza capace di una corretta ed aggiornata analisi del reale, e dei cambiamenti che in esso si succedono, nessuna commistione con altre e distinte sfere istituzionali e di governo. Ruoli ben distinti, quindi, tra le due funzioni. Una questione di importanza evidente, quella appena richiamata, e che va rimarcata sempre, in quanto mantenere il proprio specifico profilo, senza appiattimenti, potrà concorrere a rendere più produttiva, ricca ed efficace la stessa azione di governo. Tema essenziale che - più in generale - diviene dirimente e decisivo per il futuro della democrazia repubblicana, non più delegata a gruppi ristretti nè sottoposti ad alcun controllo. Serve sempre di più una democrazia partecipata, diffusa, attiva, consapevole. E’ questa la condizione indispensabile per dare vita ad una nuova e più autorevole classe dirigente, selezionata solo in relazione ai requisiti di competenza, professionalità, legame di massa, passione, eticità, correttezza politica, assoluto disinteresse personale e non per subalterna fedeltà ad alcuno. Un passaggio obbligato per realizzare finalmente una più matura democrazia dell’alternanza, che assicuri maggiore stabilità all’Italia, equiparando finalmente il nostro ai paesi più avanzati e progrediti dell’Europa. La riforma della politica, nell’immediata contingenza, non può eludere questioni dirimenti. Mi limito a ricordarne almeno due. La prima è l’obbligo del cambiamento urgente della pessima legge elettorale che ha espropriato i cittadini del diritto di scegliere, in maniera libera e democratica, i propri rappresentanti al Parlamento e che al contempo limiti gli eccessi di frammentazione della rappresentanza. Un altro nodo di rilievo- e se possibile ancora più vitale- è quello di eliminare l’invadente, pervasiva, impropria ingerenza del potere politico nella Pubblica Amministrazione. Troppi i casi, si pensi- per un attimo solo- al vitale comparto della sanità. Un nodo eclatante per come esso si manifesta in specie in Campania, nella nostra specifica realtà, seppure non il solo.

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In quel settore, estremamente delicato, si continua ad essere nominati di frequente alle più alte responsabilità di direzione, e di gestione, solo in relazione a requisiti di appartenenza a gruppi o a clan, prescindendo troppo spesso del tutto dall’oggettiva valutazione delle capacità, della competenza, dell’esperienza dimostrata e sperimentata direttamente sul campo. Una situazione avvilente ed umiliante per tanti operatori di valore per poter essere ancora tollerata. Un terreno centrale su cui aprire uno scontro politico, e di principio, forse troppo a lungo rinviato! Va definitivamente interrotta la pratica passata, di eccesso di occupazione militare delle Istituzioni che, per comune sentire, ha causato gli annosi danni che da più parti sono stati rilevati Di fronte a noi si prospettano due strade, distinte e alternative: navigare per inerzia nell’attuale equilibrio stagnante dei poteri rinunciando, nei fatti, ad innestare, nel reale, un’idea di cambiamento o essere ambiziosi nell’operare per trasformare, in meglio e nel profondo, la società e il mondo in cui viviamo. Noi dobbiamo infondere speranza nella possibilità di modificare, a fondo, l’attuale stato delle cose. Realizzazioni e avanzamenti non attuabili per atto velleitario di sola volontà, ma che necessitano dell’individuale e collettiva disponibilità alla messa in discussione di un nucleo di discutibili certezze antiche e radicate. Un progetto ambizioso, che si potrà integralmente realizzare solo se si riuscirà ad agire ed operare con altruismo e generosità, con la coerenza e la lungimiranza necessarie, ben al di là ed oltre le individuali pur legittime ambizioni e aspettative. Va rimesso stabilmente e con rapidità di nuovo in campo il meglio dell’esperienza dell’Ulivo, ben altro dalla riedizione di un nuovo assemblaggio burocratico, che garantisce rendite di posizione politiche personali non oltre tollerabili. Lo sguardo delle forze di progresso, finalmente avviate a divenire più compatte, deve essere rivolto ad accogliere e promuovere energie nuove. I giovani del Mezzogiorno, insieme colti, istruiti, con uno straordinario talento in troppe circostanze inespresso ed umiliato, devono d’ora in avanti costituire la prima delle priorità su cui investire, la linfa vitale da cui copiosamente attingere, su cui operare in maniera continua e strenuamente.

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Un grande patrimonio di energie che rischia di disperdersi, e che invece va salvato dalla morsa stringente in cui oggi troppe volte si contrae, nella grigia altalena del disincanto e della disperazione. Instabile è il loro presente, di forti ipoteche ed incertezze appare tinto il futuro. Dobbiamo riprendere l’azione per una scuola d’avanguardia ed una formazione permanente d’eccellenza. La diffusione della conoscenza, nei vari segmenti del sapere umano, essenziale per il futuro del paese, l’impegno e il sacrificio nello studio delle diverse discipline, l’abnegazione, la serietà, devono costituire i requisiti di valutazione premianti ed essenziali, gli unici fattori da considerare nelle varie scelte che si compiono. Da ciò potrà alla fine derivare la formazione di una nuova e qualificata classe dirigente. Inadeguati o addirittura del tutto inconcludenti appaiono invece i piani predisposti di formazione e di avvio alle esperienze di lavoro in campi e settori decisivi e vitali per il futuro di tutti, da quelli della difesa dell’ambiente a quelli della valorizzazione dell’enorme patrimonio archeologico e culturale di cui la nostra realtà, come quella di gran parte di tutto il nostro Mezzogiorno dispone e che continua ad essere valorizzato, ancora oggi, in maniera assolutamente residuale. Noi dobbiamo riuscire, anche nella realtà locale, a dare vita a un progetto d’eccellenza che ci faccia conoscere ed apprezzare, a livello europeo e mondiale, oltre i limitati confini, oggi insufficienti e angusti, della Regione e dello stesso Mezzogiorno. L’individuazione di un’ideaforza trascinante alla cui realizzazione si mettano a concorrere, fin d’ora, il meglio delle energie dell’intelletto. I nostri giovani sono una risorsa straordinaria ed essenziale per la fortuna del nuovo Partito Democratico. Eppure in tanti vedono come unica via possibile ed obbligata quella dell’emigrazione o addirittura del reclutamento nei gruppi criminali. Noi dobbiamo sentirci responsabili della fragilità, o addirittura dell’assenza di riferimenti e di valori, di questo senso di vuoto che il mondo in cui viviamo coi suoi messaggi ingannevoli propone e diffonde di continuo a piene mani. Dobbiamo riuscire a trasmettere la netta percezione che non abbiamo rinunciato a batterci, ogni giorno, anche nei momenti di amarezza

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e di sconfitta, per una nuova dignità e moralità della politica, per assicurare ad ognuno un quadro di maggiori certezze e garanzie, un identico punto di partenza in un contesto d’insieme d’equilibrio tra diritti e doveri che riesca a garantire - a ognunol’espressione piena dei talenti e l’integrale valorizzazione delle qualità di cui dispone. Dobbiamo riuscire ad infondere nuove speranze e rinnovata fiducia nel futuro! Consiste in ciò il valore della battaglia culturale che nel tempo presente dobbiamo nuovamente sostenere. Anche per questa ragione servono azioni e scelte il più possibile concordate e condivise, tra le distinte Istituzioni, con puntuali e periodiche verifiche su quanto degli obiettivi posti si riesce a realizzare. Quello giovanile è un universo grande e per più versi ancora inesplorato, un immenso serbatoio di energia vitale da cui è necessario attingere per concorrere a costruire nel nostro Mezzogiorno e, più in generale nel paese, orizzonti nuovi. La relativa crescita dell’occupazione, che si è realizzata di recente, è avvenuta anche grazie alla moltiplicazione del ricorso a forme di lavoro flessibili. E’sensibilmente cresciuto il numero dei contratti a tempo determinato. Un viatico su cui riprendere a lavorare ed agire più in profondità. Deve apparire esplicita la scelta di ridurre, in maniera drastica, il numero di quei contratti di lavoro atipici che altro non producono se non l’accentuazione di un senso frustrante d’incertezza e di precarietà. Parti consistenti delle risorse rese disponibili dalle maggiori entrate ricavate dalla lotta all’evasione, assieme al risanamento finanziario indispensabile, devono essere usate sia per l’incremento degli assegni pensionistici più bassi che per la drastica riduzione della precarietà. Si deve intervenire per saturare, con gli ammortizzatori sociali, i tempi morti, di non attività, tra un lavoro e un altro. Questo periodo di interregno va utilizzato, nelle singole regioni e per mezzo delle province, per predisporre piani formativi mirati, non di natura assistenziale ma di verificata utilità sociale. Serve perciò la rielaborazione di un nuovo e grande Piano del Lavoro rivolto ai giovani del Sud. Sulla traccia di quanto ci ha proposto Alfredo, dobbiamo in conclusione tratteggiare una prospettiva di lavoro, chiara ed

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ambiziosa per i suoi contenuti, di crescita economica e civile equilibrata, di più estesa inclusione sociale. Un compito che necessita del massimo grado di convinzione, compattezza e di responsabilità. Sta a noi dimostrare di essere all’altezza delle necessità dell’ora. Marzo 2007

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L’immigrazione e i diritti violati: San Nicola Varco Un libro-inchiesta, apparso di recente269, ha l’indubbio merito di aver riportato in emersione, con grande crudezza ed efficacia, utilizzando l’agile stile proprio del racconto, la condizione di estremo degrado e sfruttamento in cui hanno a lungo vissuto alcune centinaia di lavoratori provenienti dal Maghreb. I fatti, nella quasi totale indifferenza delle istituzioni e delle forze politiche locali e regionali, si sono consumato nel cuore della Piana del Sele, a San Nicola Varco, nei pressi di Eboli, in Provincia di Salerno. 700 i giovani, in prevalenza marocchini, accampati in condizioni di fortuna, in autentici tuguri spesso privi di servizi igienici, acqua, gas e illuminazione costretti in una condizione di segregazione e marginalità assoluta, in un ghetto, impiegati in agricoltura, come stagionali, nella raccolta dei prodotti della terra, quasi tutti lavoratori al nero in regime di semi-schiavitù. Persone senza alcuna tutela contrattuale, normativa, salariale, sottoposte ai soprusi e alle angherie dei caporali, spesso periodicamente impiegate anche in altre aree dell’Italia meridionale, emigrate dai loro paesi d’origine ancora oggi condannati all’endemica miseria. Essi, lasciate alle loro spalle condizioni di estrema povertà e di conflitti acuti, di frequente sanguinosi, si sono mossi alla disperata ricerca di un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie270. 269

Anselmo Botte, Mannaggia la miseria. San Nicola Varco. Storie di immigrazione terra-terra. Tipografia Fusco, Salerno 2008. 270 L’immigrazione straniera in Italia è cresciuta, dal 2000 in avanti, in maniera esponenziale. Il Rapporto Istat 2014 rileva che, su una popolazione complessiva di 60.782.668 unità, gli stranieri sono 4.922.085 (l’8,10% del totale). In Campania si attestano a 203.823 (3,47% della popolazione) nel mentre in provincia di Salerno sono 44.514 (4,03% del totale). Tra essi i più numerosi sono i rumeni (5.634 unità), seguiti dagli ucraini (4.807) e dai marocchini (3.846 ). Consistente altresì la comunità senegalese. Tra gli asiatici gli indiani (716) ed i cinesi(499), dato quest’ultimo assai inferiore alla realtà. La stima di migranti irregolari si aggira intorno alle 4.000 unità. Infine, il dipartimento immigrazione Cgil Salerno, nel IV Rapporto sulla presenza dei migranti in

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Tale situazione, estrema e sintomatica, su cui troppo forte è stata ed è la propensione a stendere un velo di assoluto e colpevole silenzio, è stata fotografata nella sua asciutta essenzialità, anche grazie ad alcune specifiche interviste ai diretti interessati. Comodo e rassicurante è, in genere, il processo di rapida rimozione di ciò che risulta scomodo e sgradito. Questa condizione, d’incertezza e di degrado, induce in ogni caso ad alcune considerazioni supplementari e integrative, più ampie e generali, e impone l’obbligo di un’azione impegnativa collettiva, determinata e indifferibile, di contrasto, istituzionale e sociale, a scelte culturali ed economiche dimostratesi finora perdenti, odiose e inefficaci. I fatti più recenti di Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro in Calabria, hanno riproposto in altre forme, con la rivolta degli extracomunitari ed il conflitto a tinte più marcatamente xenofobe che ne è derivato, la sussistenza di un persistente stato di emergenza. La prima elementare riflessione, che immediatamente si impone, è che appare sempre più perdente, illusoria e vana l’idea di guardare il mondo attuale, col suo groviglio di contraddizioni ed ingiustizie in apparenza irrisolvibili, in prevalenza, ma non solo, incentrate nelle aree più marginali del mondo, restando chiusi ed arroccati nelle anguste fortezze e casematte delle singole realtà locali, economicamente e socialmente più evolute dell’Occidente, puntando magari a costruire intorno ad esse improbabili muri e inaccessibili recinti. E’ sempre più evidente, invece, come ogni particolare situazione di disagio non è più strutturalmente risolvibile, se mai lo è stata, nell’esclusivo e ben limitato ambito delle mura domestiche, non si tiene per proprio conto e da sola ed obbliga ad azioni ed a scelte politiche coordinate, non oltre differibili, di ben più ampio spettro, di natura sopranazionale, tra i diversi Stati del vecchio continente e le nazioni più sviluppate, evolute e progredite del mondo. Le dimensioni locali e quelle continentali e planetarie sono sempre più strettamente interconnesse ed interdipendenti tra di Provincia di Salerno del 2.014, stima che i comunitari non registrati all’anagrafe e gli extracomunitari con permesso di soggiorno ospitati da connazionali siano intorno al 10% del totale.

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loro. E, di conseguenza, una tale contraddizione, presente in forme simili se non eguali a macchia d’olio in più punti dell’Europa e della stessa Italia, impone a tutti i paesi più avanzati, ed in specie al nostro, da un lato l’immediato avvio di efficaci politiche dell’accoglienza, dall’altro il rilancio, dopo decenni di colpevole ed assoluta inerzia, di piani concreti di aiuto ai paesi in ritardo di sviluppo e tali da consentire, con le ovvie gradualità, l’inizio di una strutturale e duratura fuoriuscita dalle condizioni di fame, di miseria, d’indigenza strutturale in cui consuma la propria vita larga parte delle popolazioni del Sud ed ora anche dell’est del mondo. Sono necessari aiuti economici e finanziari, mirati e consistenti, capaci di favorire finalmente l’avvio di uno sviluppo e di una crescita effettivamente endogeni ed auto-propulsivi, a partire dal garantire il bene primario dell’acqua e la liquidazione delle epidemie nel continente nero. Non c’è pace e sicurezza vera e duratura se, appena oltre i confini nazionali ed europei dei paesi cosiddetti progrediti, sull’altra sponda del mediterraneo, c’è povertà, degrado, disperazione, guerra. Oggi siamo ancora pienamente immersi nel pieno del ciclone di una gravissima recessione mondiale che, generata dalla drammatica crisi finanziaria che ha avuto la sua origine negli USA, si è pesantemente riversata, come era prevedibile, sul resto dell’Europa e del mondo: una crisi acutissima che continua a distruggere assai ingenti risorse finanziarie e milioni di posti di lavoro. L’ondata recessiva è tuttora in atto ed avrà probabilmente un’ulteriore accelerata nei prossimi mesi del 2010 e nel 2011, con margini di distribuzione di ricchezza sempre più assottigliati. L’Italia ha registrato, nel 2009, un crollo del PIL del 5,5%, l’emersione di una situazione assai acuta e delicata, di una dimensione mai conosciuta negli ultimi decenni, una drastica inversione di tendenza rispetto al recente e più lontano passato, di crescita graduale e progressiva, magari lenta e altalenante, ma sicura. Purtroppo, di converso, la rappresentazione del reale appare contraddittoria e subdolamente edulcorata, virtuale, in stridente contrasto rispetto alla realtà, e troppo spesso non ha voce e ri-

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lievo alcuno né è ascoltata la parte del paese in più palese ed acuta sofferenza. Aspro è il contrasto tra le necessità dell’ora e il vacuo chiacchiericcio inconcludente, di una politica troppo di frequente schiacciata, nelle sue quotidiane rappresentazioni, su questioni marginali, secondarie, di dettaglio. Oggi, infatti, nei tempi complessi e gravi in cui viviamo, segnati per tante persone da sempre più aspre incertezze sul prossimo futuro, gran parte del dibattito politico nazionale continua ad apparire irresponsabilmente irreale, degradato a scontri, veleni, ritorsioni, vendette trasversali che poco o nulla si conciliano con l’incalzare dei drammatici problemi del Paese e con la capacità di rimozione delle sue vere ragioni di crisi strutturale. E così, con ciclica frequenza, il dibattito si incentra sul tema, spesso agitato in maniera strumentale, della sicurezza e sull’allarme criminalità. Queste le questioni, di gran lunga prevalenti, su cui nel recente passato si è concentrato il confronto politico in Italia e che ha avuto i suoi echi anche nell’ultima recente campagna elettorale per le Europee. E’ questo il terreno privilegiato su cui le forze in campo, in buona parte, da tempo si contendono consenso e egemonia. In tale contesto, il fenomeno dei lavavetri, dei graffitari, dei parcheggiatori abusivi, dei mendicanti e poi dei rom, degli zingari, dei rumeni, degli albanesi e degli slavi, dei lavoratori in nero impiegati in prevalenza nei lavori agricoli e nelle campagne della pianura padana e dell’Italia meridionale, nei settori delle costruzioni, oltre che in altre svariate attività che da troppo tempo in verità gli italiani rifiutano, ha negli ultimi tempi fortemente concentrato, con ciclica cadenza, l’attenzione della pubblica opinione. La criminalità di sussistenza sembra in tal modo essere divenuta il vero e forse l’unico tema di cui occuparsi, l’emergenza che, se non affrontata drasticamente e con strumenti draconiani, rischia di minare la civile convivenza e la serenità, l’insieme di valori su cui si fonda il modo d’essere e la concordia della nostra comunità.Si ha la percezione di una crescita, diffusa e incontrollata, di una condizione di ansia e insicurezza, le cui ra-

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gioni e cause più profonde risultano in verità piuttosto oscure e indefinite e non di rado sfuggono. Pertanto esse sono difficili da tenere razionalmente sotto controllo e da governare in maniera efficace e razionale anche quando le si riesce a percepire in un modo non pregiudizialmente distorto. E in questo contesto riemergono e si moltiplicano preoccupanti pulsioni ed episodi di natura autenticamente razzista. Fatto è che, a fronte dell’aggravarsi di questo pericoloso stato di incertezza, riesce complicato resistere alla tentazione di individuare, in maniera semplificata e rapida, colpevoli presunti ed esclusivi contro cui intraprendere un’azione in apparenza difensiva ma in realtà offensiva, ostile e punitiva. Si torna così ad azioni repressive contro i mendicanti, al drastico richiamo all’Europa a politiche di rigida ed improbabile chiusura dei confini, per misure sempre più aspre contro “l’immigrazione clandestina”. Sostanzialmente si abbandona ogni determinata azione, ogni minimo progetto o idea rivolti piuttosto alla comprensione delle ragioni degli altri, all’inclusione sociale e alla solidarietà:una strada che non si tenta né si persegue affatto. Solo la voce della Chiesa, negli ultimi tempi in verità ben più sfumata, sembra levarsi contro una tale deriva rovinosa. Ai Sindaci vengono attribuiti particolari poteri repressivi. C’è, in sostanza, una convergenza a confondere e identificare, arbitrariamente, marginalità e criminalità, blindando la società contro le varie forme di “devianza”, o sbrigativamente ritenute tali, che tendono a diffondersi a macchia d’olio nel tempo della crisi economica e sociale da cui ancora non si intravede una positiva, imminente fuoriuscita. Si verifica, insomma, un trascinamento ritardato, di comportamenti e di tendenze, già da tempo apparse in paesi come gli USA, dove l’uso di una militarizzazione poderosa della società non ha prodotto la drastica riduzione, quanto piuttosto l’incremento, di fenomeni di violenza e di criminalità. In quella parte del mondo, infatti, negli ultimi anni, con l’esclusione sociale è aumentata l’insicurezza, assieme al numero di rapine, furti, aggressioni, stupri ed omicidi.

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L’Europa, e in questo contesto in modo più specifico l’Italia, sembrano avere smarrito, in questa fase, il meglio della propria storia passata e della propria cultura e civiltà e le peculiari tradizioni di tolleranza, di accoglienza, di solidarietà. Sembra sfiorita e persa per sempre nelle nebbie la specificità di una democrazia partecipata che, garantendo ai propri cittadini innanzi tutto il diritto al lavoro e all’istruzione, favorisca la crescita culturale ed il benessere economico dei suoi membri e sia indotta ad affrontare i problemi che di volta in volta si pongono, predisponendo per essi, a tempo, adeguate soluzioni in grado di intervenire, contemporaneamente, su più livelli e piani. E d’altra parte, nello specifico, è ormai ampiamente riconosciuta l’indispensabilità del contributo dei lavoratori emigrati nel garantire la continuità del lavoro in tante aziende italiane, in specie, ma non solo, del Nord Est, a fronte della difficoltà a reperire forza lavoro locale anche in relazione al processo, da decenni in atto, di progressivo invecchiamento della popolazione. La sicurezza, da noi, è sempre stata intesa, nel passato, come sicurezza sociale, come concetto che dovesse anzitutto prevedere l’affermazione di inalienabili diritti sociali e di cittadinanza (dal lavoro, alla salute, alla casa, alla previdenza, alla sussistenza, all’istruzione) mai separabili dai diritti di libertà: un’architettura costituzionale incentrata in sostanza su un giusto equilibrio tra diritti e doveri, da non delegare in maniera esclusiva alle questioni di repressione e di ordine pubblico. E lo Stato democratico, secondo il dettato costituzionale originale della nostra Nazione, non a caso deve intervenire, con specifici interventi legislativi, finanziari, economici e sociali atti a rimuovere le ragioni e gli ostacoli strutturali alla base dell’impedimento della concreta realizzazione di una maggiore eguaglianza e di una più ampia libertà, ossia l’insieme di diritti essenziali per la piena affermazione della personalità di ognuno e di tutti. Lo Stato italiano condanna, infatti, non a caso, qualsiasi forma di discriminazione politica, religiosa, razziale, sessuale. Ebbene, in realtà, sembra che si stia determinando piuttosto, passo dopo passo, in difformità dal dettato costituzionale, una pericolosa e profonda mutazione genetica dei cardini su cui sono state a lun-

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go incentrate, dal secondo dopoguerra in poi, la nostra vita nazionale e la stessa identità della Repubblica: una tendenza, in sostanza, alla graduale manomissione dei capisaldi essenziali della Costituzione271. L’articolo 41 della Costituzione Italiana, al terzo comma, a tal proposito non a caso sostiene che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, pubblica e privata, possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”. Eppure un tale concetto è sempre più rovesciato nel suo esatto contrario. Non c’è infatti equilibrio, né misura, nella salvaguardia delle condizioni di vita e di lavoro di tanti lavoratori dipendenti se ciò comporta scontrarsi con la libertà d’impresa e gli imperativi del mercato. Illuminante risulta al proposito la strage che annualmente si consuma sui posti di lavoro, con migliaia e migliaia di operai morti o feriti, in specie in Italia, e per cui finora pressoché mai nessun datore di lavoro ha pagato in maniera severa ed adeguata. Oltre un anno fa la stampa nazionale, già prima del libroinchiesta su San Nicola Varco, diede un certo risalto alla incredibile vicenda dei lavoratori rumeni stagionali impegnati nelle campagne pugliesi:sfruttamento schiavistico, percosse e maltrattamenti continui, assenza di ogni diritto e tutela, anche la più elementare. E quella situazione, di cui già a quel tempo tutti sapevano tutto, ancora oggi non migliora e, in verità, non è solo circoscritta a quella particolare realtà ma continua ad interessare anche altre importanti aree geografiche dello stesso mezzogiorno compresa, 271

Si consideri che, negli attuali processi di ristrutturazione del mercato del lavoro, gli Stati Nazione vedono il proprio margine di manovra che si restringe sempre più: si assiste alla creazione di gruppi di lavoro specifici, per esempio con l’individualizzazione dei salari e delle carriere sulla base delle competenze individuali, e la conseguente atomizzazione dei dipendenti; alla riduzione del potere di difesa dei diritti collettivi dei lavoratori; all’indebolimento di sindacati, associazioni, cooperative; e la profonda mutazione della stessa famiglia che, in seguito alla ristrutturazione dei mercati per fasce d’età, con la frattura tra le generazioni che ne è derivata, ha perso gran parte del controllo sul consumo.

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come già si è ricordato, la stessa Provincia di Salerno. La vicenda di San Nicola Varco s’inquadra in un contesto provinciale d’insieme carico d’incognite. Non sembri a questo punto estemporaneo e peregrino il richiamo a questioni di natura più ampia e generale presenti in un’area territoriale che, pur proponendo un quadro d’insieme meno negativo rispetto al resto della Regione Campania, tuttavia pone con estrema urgenza il tema indifferibile d’individuare nuove e sicure priorità d’azione in grado d’invertire il declino innestando finalmente un moderno, qualificato e virtuoso processo di sviluppo. La questione drammaticamente urgente ed irrisolta, carica di negative potenziali conseguenze, è come ampliare le occasioni di sviluppo e di lavoro produttivo in realtà sempre più marginali e stagnanti. Dagli anni 80 in avanti alla progressiva eliminazione dell’importante patrimonio industriale preesistente, pubblico e privato, con la pressoché totale desertificazione dell’industria manifatturiera locale tradizionale, non è seguita alcuna alternativa incentrata su iniziative parallele in nuovi e moderni settori produttivi coerenti con la nuova fase di sviluppo scientifico e tecnologico. Si fa fatica ad individuare l’esistenza un’idea-forza di grande valenza strategica, di un credibile progetto di sviluppo, virtuoso e alternativo, incentrato sulla qualità, in grado di attrarre risorse ed attenzione, un qualcosa che funga da leva per la creazione di un potente indotto. Sembra sussistere una preoccupante assenza o un’adeguatezza di scelte e strategie. Altrove, in realtà di medie dimensioni simili a quella di Salerno, si è scelto a tal proposito, da tempo e con qualche innegabile successo, d’investire con decisione nella cultura e nella conoscenza. A Mantova il territorio promuove l’annuale “Festival della Letteratura”, a Modena e a Reggio Emilia il “Festival della Filosofia”, a Sarzana (La Spezia) il “Festival della Mente”, a Siracusa le rappresentazioni del Teatro classico greco sono diventate stabili occasioni di incontro e di confronto pubblico che aggregano e attirano migliaia e migliaia di persone. Si tratta di grandi eventi di qualità, di rilievo nazionale ed europeo, che attraggono visitatori e risorse consistenti. Anche a Salerno si dovrebbe finalmente scegliere di investire su un progetto più am-

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bizioso e di più lunga durata, di respiro e dimensione non solo contingente, insieme ed oltre la programmazione del Teatro Verdi, nella diffusione e nella valorizzazione di stabili esperienze culturali d’eccellenza, in un rapporto virtuoso ed integrato tra la città e la sua provincia, dando ulteriore forza ed incisività all’azione rilevante, da tempo in atto, per il recupero e la riqualificazione urbana. Si dovrebbe progettare qualcosa che qualifichi e caratterizzi il territorio, con le sue naturali vocazioni turistiche, ambientali e culturali e lo lanci per capacità di competizione a livello nazionale ed europeo. Palese è la contraddizione tra realtà e potenzialità. Invece persiste una condizione d’incertezza e d’instabilità, una stagnazione di stampo recessivo, un vuoto di strategia che ipoteca drammaticamente il prossimo futuro, ed in specie il destino delle nuove generazioni272. Ed il problema di maggiore urgenza e gravità, il primo e più importante obiettivo dell’insieme delle forze di progresso è proprio quello di assicurare ai giovani del nostro territorio, e del Mezzogiorno nel suo insieme, un futuro di lavoro, di lavoro non precario ed assistito. Invece contraddizioni antiche ed irrisolte si sommano a nuovi e inediti problemi, come quello dell’immigrazione, rendendo la situazione ancora più magmatica e stagnante, instabile ed incerta, gravida di tensioni e di pericoli. Ritardi si sommano a ritardi. Tornando al punto di partenza di questa riflessione, al tema della condizione della manodopera immigrata impiegata nei nostri territori, nel nord e nel sud della penisola, bisogna aggiungere 272

Il Bollettino 2009 della Banca d’Italia, a proposito della Campania, con riferimento al 2008, tra l’altro rileva che nel settore del turismo si è registrato un calo di 175.000 visitatori, il più elevato dal 1986, soprattutto a causa della crisi dei rifiuti. La città di Napoli è stata la realtà più colpita (-11,2% sul 2007). Le famiglie in una condizione di indigenza e povertà sono 380.000, oltre il doppio della media nazionale. Il netto disequilibrio strutturale tra domanda e offerta di lavoro ha prodotto nell’ultimo decennio l’emigrazione, dalla Campania al Centro-Nord del Paese, di circa 350.000 persone, la grande maggioranza giovani e donne ad elevato tasso medio di istruzione. Il rapporto Eurostat del 2007 faceva rilevare come la Campania risultasse all’ultimo posto tra le regioni U.E. nella graduatoria dei tassi di occupazione della popolazione in età da lavoro tra i 15 ed i 64 anni, 4 punti percentuali in meno rispetto alla media dell’Italia meridionale e 16 punti in meno rispetto al dato nazionale. Una situazione ulteriormente peggiorata nell’ultimo triennio.

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che non c’è traccia di un decreto che affranchi il lavoratore e riconosca il diritto di soggiorno all’emigrato che denunci per maltrattamenti il datore di lavoro. Di conseguenza lo Stato italiano, più che alleato, è quasi sempre percepito come pregiudizialmente nemico e ostile dal lavoratore immigrato che proviene dal sud e dall’est del mondo. L’ossessione della sicurezza, questione vera ma dilatata spesso strumentalmente a dismisura, e l’arroganza tendono a riempire l’assordante vuoto di analisi, di progetto, di risposte. Le misure unilaterali adottate in nome della sicurezza personale, in conclusione, stanno producendo pericolose involuzioni, tendenze di divisione e non proprio d’inclusione, seminano il sospetto e la paura incontrollate, allontanano le persone, le spingono a vedere cospiratori e nemici dietro ogni distinzione di etnie, razze e religioni e, più che dare risposte efficaci e persuasive, distraggono sempre di più i poteri nazionali e locali dall’urgenza di riportare i grandi problemi nuovi del tempo presente nell’ambito di uno spazio pubblico la cui gestione sia più ampiamente collettiva e politica. Si spara troppo spesso alla cieca e nel mucchio, evitando di effettuare i distinguo necessari. I pochi, sempre più limitati e occasionali spazi di partecipazione alla vita pubblica sono di conseguenza sostanzialmente vuoti e senza valore alcuno, il che facilita la politica, prospetticamente miope e gravida di incognite, delle forze che tendono all’obiettivo di ridimensionarli e di ridurli gradualmente e sempre più.D’altra parte non sono quasi più considerati crimini la corruzione, la frode e l’evasione fiscale, il falso in bilancio, il riciclaggio del danaro sporco, la devastazione dell’ambiente, gli attentati alla salute, l’inquinamento, la riduzione delle persone in schiavitù, lo sfruttamento della manodopera clandestina, gli infortuni sul lavoro. E addirittura, quasi rassegnati, non ci si indigna più. Si pratica, in definitiva, una politica di repressione dell’illegalità a senso unico ed a geometria variabile. Si verificano degenerazioni involutive e disequilibri gravissimi che, sovrapponendosi tra loro, chiamano in causa il perverso meccanismo che regola la nostra organizzazione economica e sociale e la sua natura non aperta ed inclusiva quanto piuttosto

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escludente ed anti-egualitaria. E l’area della marginalità si allarga a dismisura, seppure in forme diverse, distinte e non eguali. A tal proposito il mito della flessibilità, poi, ha dato un colpo di maglio pesantissimo ed ha, anzi, per più aspetti liquidato i capisaldi del diritto del lavoro conquistato in decenni di aspre e dure lotte del movimento dei lavoratori. Il ventaglio delle contraddizioni, in sostanza, si amplia coinvolgendo e destrutturando l’attuale composizione del mondo del lavoro che dovrebbe costituire la più potente diga alla deriva.. Ha anzi eroso o sta erodendo gran parte delle conquiste dei lavoratori generando al suo interno una supplementare e grave condizione di disuguaglianza ed ingiustizia. Si radica e si accentua, di conseguenza, una profonda e lacerante incertezza esistenziale. L’uomo moderno, in questo contesto, appare di conseguenza sempre più spaurito, indifferente, poco appassionato e distante dalle vicende della vita pubblica, solo, tendenzialmente ostile all’altro e portato alla chiusura negli angusti confini recintati della propria esclusiva individualità. Una generazione di giovani lavoratori italiani impara che non ha quasi più alcun diritto e che la precarietà è diventata la condizione strutturale permanente della propria esistenza presente e futura: una situazione ben più grave e peggiore rispetto alle generazioni precedenti. La politica di converso disegna una dimensione d’intervento essenzialmente locale mentre, più in generale, la classe politica persiste nella tendenza a ricercare spiegazioni e rimedi contingenti, di mera gestione, nell’ambito del parziale e pallido terreno dell’esperienza quotidiana. Invece, la struttura di base dell’economia globale è sempre più indipendente addirittura dalla struttura politica del mondo e sempre più di frequente ne invade e ne viola i confini. Anzi il potere, quello vero, appare sempre più distinto e separato dalla politica e dalla sua rappresentazione, quasi completamente estraneo e indifferente ad essa ed ai suoi rituali. Il potere, in un certo senso, fluisce, grazie alla sua mobilità assai meno vincolata, ed è sempre più globale, ovvero extraterri-

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toriale, mentre le istituzioni politiche esistenti eleggibili e rappresentative si ostinano a rimanere in una dimensione esclusivamente ed angustamente locale. Il cittadino moderno, così, oggi appare soltanto come un consumatore passivo di merci e di informazioni veicolate, del tutto subalterno ai voleri ed alle decisioni imposte, spesso in modo artificioso, dagli indirizzi e dagli orientamenti prevalenti dei potentati economici che condizionano ed orientano il mercato. La competitività dell’impresa sembra essere diventata l’unica certezza da salvaguardare ad ogni costo, l’esclusivo totem a cui è lecito sacrificare i propri diritti individuali e collettivi conquistati nel passato con grandi lotte ed enormi sacrifici, finanche, non di rado, con la messa in gioco della propria libertà. Il padrone a sua volta diviene l’unico soggetto che governa il lavoro, le braccia, la intelligenza, il tuo tempo e l’organizzazione completa dell’esistenza del prestatore d’opera scandendone i tempi e determinandone le modalità. Chi cerca di opporsi a tendenze e derive di tal fatta o ad esse non si adegua è nemico del “progresso” e della “modernità”, concetti oggi sempre più irreali, aleatori, incerti. L’unilateralità del potere dell’impresa, questo il nuovo dogma della contemporaneità, non va mai più messo in discussione, così come avveniva nel secolo scorso, tanti decenni fa. Una tale ideologia ha permeato i vari gangli delle attività umane, anche la pubblica amministrazione, presidio ritenuto a lungo nel passato in qualche modo più inviolabile e amico. Molti servizi iniziano ad essere nella sostanza smantellati, si pensi in specie all’istruzione ed alla sanità pubblica,273 ed altri, anche di 273

La sanità campana è stata di recente commissariata per decisione del Governo, avendo accumulato un livello di esposizione debitoria gigantesco, del cui rientro non si ha certezza alcuna. Questa situazione, a rischio di collasso, sta già determinando, di conseguenza, la chiusura di servizi essenziali per il diritto alla vita e alla salute come i Pronto Soccorso. Si tratta della presa d’atto postuma di un sostanziale fallimento. La scuola pubblica, nella stessa Regione, a fronte delle decisioni di drastica riduzione della spesa finanziaria nel settore, vede a rischio circa 8.000 posti di lavoro di docenti e personale ATA, circa 1200 per la sola Provincia di Salerno :una drastica e definitiva perdita di posti di lavoro e di professionalità qualificate senza alcuna seria ipotesi di reimpiego delle stesse in altri segmenti di

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natura sociale, vengono disinvoltamente affidati in appalto, senza controllo sul rispetto dei contratti collettivi, sulla base del massimo ribasso d’asta, con gravissime e spesso letali conseguenze sulla sicurezza del lavoro. La scuola pubblica vive, a fronte di scelte draconiane di riduzione della spesa, una condizione che sembra ormai prossima al collasso, in specie nelle Regioni meridionali, in Campania e nella Provincia di Salerno274, accentuando i fattori di criticità mentre l’investimento su cultura e conoscenza, sulla formazione permanente e lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica costituisce, ancora più che nel passato, l’elemento decisivo, l’indispensabile volano per iniziare ad invertire la tendenza all’inarrestabile declino del Paese. E invece migliaia di posti di lavoro dal mattino alla sera si volatilizzano e vengono soppressi, in specie in Regioni come la Campania ed in province, come quelle di Salerno, con un tasso di disoccupazione e di precarietà già particolarmente elevato. Non ci si pone affatto il problema di utilizzare questa forza lavoro intellettuale in funzioni nuove e innovative, in pratiche formative rivolte anzitutto in direzione delle fasce di consistente evasione scolastica, a partire dalle periferie urbane, ovvero per favorire politiche e pratiche di integrazione di cittadini extracomunitari che ormai da tempo soggiornano, in pianta stabile, nelle nostre realtà. Ne è all’ordine del giorno l’idea di ampliare gli orari attuali aprendo i plessi scolastici anche al pomeriggio.

attività educative e formative che pur potrebbero essere utilmente individuate. La Provincia di Salerno è a sua volta pienamente interna alla grave crisi che attanaglia i due comparti. 274 Il rapporto 2008 della Banca d’Italia sull’economia italiana, ed in specie sulla situazione della Regione Campania, evidenzia un quadro d’insieme particolarmente grave e compromesso. Lo stato dell’economia annaspa in maniera paurosa, cresce la crisi industriale, del turismo e del commercio,l’edilizia ristagna, aumenta a dismisura il ricorso al lavoro irregolare e al nero, crolla verticalmente il PIL regionale, s’incrementa sensibilmente la disoccupazione, in specie giovanile e femminile, c’è un vorticoso aumento del ricorso alla cassa integrazione, peggiora la qualità di molti servizi pubblici essenziali, cresce ulteriormente la piaga della criminalità che controlla totalmente intere aree e territori della Regione.

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E’ in atto, in conclusione, un processo di distruzione autentica, di destrutturazione ed annullamento di grandi risorse intellettuali e umane di elevata qualità. Nel contempo sembra essere ripresa, ed anzi accentuarsi, la prassi troppo diffusa dell’evasione fiscale, plateale esempio di ingiustizia e di diversità di condizione dei cittadini di fronte alla legge, così che le risorse, già scarse, si assottigliano sempre di più. E i servizi ispettivi adibiti al contrasto delle illegalità troppo di frequente sono lasciati, nei diversi territori del paese, al nord come al sud, in uno stato di assoluto abbandono, senza l’adeguamento necessario delle piante organiche. La loro funzione, in sostanza, appare colpevolmente latitante. Lo Stato, di conseguenza, già in partenza, rinuncia ad avvalersi di una notevole quantità di ulteriori risorse in entrata, risultando inadeguato e inerme nell’affrontare i gravi e nuovi problemi che si pongono. Ovvia, scontata, netta ed inequivocabile è l’osservazione che uno Stato ed una comunità debbano pretendere sempre e comunque, col massimo rigore, da ogni persona che vive sul proprio territorio, il pieno rispetto delle leggi vigenti e che determinata e ferma debba essere la repressione di ogni atto di violenza e di illegalità, ovunque e da chiunque perpetrato. Ma è stupefacente rilevare come non si pensi di predisporre e rafforzare neppure i più elementari interventi di prevenzione. Sarebbe necessaria, ad esempio, la creazione di un coordinamento, combinato ed efficace, dell’azione delle direzioni provinciali del lavoro, INPS, INAIL, ASL, di Guardia di Finanza, Carabinieri e Polizia.Si tratta di una misura di riorganizzazione minima, che non comporterebbe alcun aggravio dei costi: è un mistero che ancora non sia stata realizzata. Ciascuna di queste strutture continua, infatti, di converso, a procedere e ad operare in maniera sostanzialmente solitaria e separata. Il recupero di una quantità ingente di risorse, derivate dalla lotta senza quartiere alla evasione ed all’elusione, potrebbe invece consentire la realizzazione di processi virtuosi di riconversione della spesa, migliorando i percorsi di accoglienza e di integrazione con la creazione di supplementari servizi sociali indispen-

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sabili ed ancora oggi manchevoli o prossimi al collasso ed alla soppressione. La condizione dei lavoratori italiani, come è del tutto evidente, negli ultimi anni non è migliorata, anzi è andata ulteriormente peggiorando. La legge 30 e il progressivo smantellamento delle architravi su cui era basato il diritto del lavoro in Italia sono risultati in sostanza funzionali all’aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’infinita proliferazione dei molteplici e difformi tipi di rapporto di lavoro ha concorso a sfilacciare e indebolire la tenuta, la forza, l’unità del mondo del lavoro, con ovvie e negative conseguenze sul complesso della società locale e nazionale. Il lavoro a progetto è stata un’invenzione capace di privare, in un sol colpo, in netto contrasto con ciò che da più parti si affermava, il lavoratore neo assunto del diritto alla tredicesima, alle ferie, al trattamento economico di malattia e per gli infortuni.L’assoluto dominio della flessibilità, con la precarizzazione strutturale che ne è derivata, ha prodotto gravi effetti pratici e psicologici:si è resa ancora assai più fragile e incerta la condizione delle persone assunte con contratti atipici, mantenendole precarie per un tempo indefinito, con l’adozione di misure quali le collaborazioni temporanee ed a termine al posto dei contratti di lavoro a tempo indeterminato garantiti dalla legge. Si sono addirittura nei fatti realizzate misure che consentono il licenziamento immediato e senza giusta causa. E centinaia di migliaia di questi lavoratori, per di più giovani, negli ultimi mesi sono stati i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro al primo comparire del vento della crisi. Si tratta di una serie di atti ed esemplificazioni che hanno dilatato a dismisura la condizione di già endemica incertezza. La minaccia del licenziamento e della perdita dei diritti acquisiti e, col posto di lavoro, della dignità umana che esso comporta, dà luogo a conseguenze dagli effetti devastanti, nell’immediato e poi in tempi differiti. Tale violenza strutturale mina alla radice l’antica pratica e teoria della solidarietà su cui si è costruita nel tempo l’identità del mondo del lavoro in Italia e che costituisce il tratto distintivo della nostra democrazia.

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Il lavoratore a progetto è una figura sconosciuta in tutti gli altri paesi europei. La trasformazione di quei contratti in contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato è battaglia che va fatta! In definitiva, contraddizioni si aggiungono a contraddizioni, rendendo sempre più incerto ed instabile il già fragile equilibrio antecedente col rischio concreto del moltiplicarsi di aspri e innumerevoli conflitti, di dolorose e insopportabili ingiustizie. Gli attuali rapporti sociali si collocano, in conclusione, ai margini se non fuori i concetti di democrazia e dei principi costituzionali, che non a caso fu a suo tempo formulata in modo prescrittivo e rigido. Norme e diritti in essa contenuti erano intesi, al tempo della sua stesura, come vincolanti per l’intera produzione legislativa che ad essa ispirazione d’origine doveva essere coerente. Oggi non è affatto così, ed anzi troppe leggi, approvate dagli anni 80 in poi, ne delineano un obiettivo sovvertimento con una conseguente fuoriuscita275. Bisogna invertire con la massima urgenza questa pericolosa condizione, di autentica deriva e regressione, riprendendo un’azione culturale e di mobilitazione di massa efficace, diffusa e duratura, che parta dal rilancio di una grande battaglia culturale e politica incentrata anzitutto sulla difesa delle fasce sociali 275 ZigmuntBauman, La solitudine del cittadino globale, pp.11 e 26, U.E., Saggi Feltrinelli, Aprile 2006, lucidamente rileva come “Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni che si consumano rapidamente euna volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiamma della fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo, mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima, sembra più buio che mai. L’opportunità di mutare questa condizione dipende dall’agorà: lo spazio né privato né pubblico, ma più esattamente privato e pubblico al tempo stesso. Lo spazio in cui i problemi privati si connettono in modo significativo. Per cercare strumenti gestiti collettivamente abbastanza efficaci da sollevare gli individui dalla miseria subita privatamente; lo spazio in cui possono nascere e prendere forma idee quali “bene pubblico”, “società giusta” o “valori condivisi”. Il problema è che oggi è rimasto poco degli antichi spazi Privati/pubblici, ma non se ne intravedono di nuovi idonei a rimpiazzarli”.

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più deboli, esposte e marginali, per ripristinare l’equilibrio di poteri incrinato. L’applicazione corretta della Costituzione impone e garantisce innanzitutto la difesa della parte più debole della società nazionale, o di quelli che comunque vivono nel nostro Paese: all’autenticità di questa originaria impostazione è urgente e necessario far ritorno. Si tratta di problemi senza dubbio complessi, e certo di non semplice ed immediata soluzione, ma banco di prova ineludibile per tutte le forze di progresso. Seguendo ancora il filo di ragionamento già a suo tempo proposto da Bauman, il compito immediato e indifferibile che ci si pone innanzi, a fronte degli acuti problemi proposti dalla gravità dell’ora, contro il cinismo e l’indifferenza che sembrano al giorno d’oggi in larga maggioranza prevalere, è quello di riconquistare e riempire di un nuovo senso l’agorà, il pubblico spazio in cui esigenze private e pubblici bisogni virtuosamente si combinano e si mischiano tra loro, lo spazio in cui si possano incontrare, di nuovo, in maniera feconda, individui autonomi e società autonoma, dotati di un’autonomia non estranea, anzi ispirata a nuovi vincoli di solidarietà, che necessariamente non separano ma uniscono e rafforzano legami ed individui tra di loro. L’Italia, e in specie il mezzogiorno, hanno bisogno vitale dell’avvio di un reale cambiamento di tal segno per riprendere a guardare al futuro con speranza. Solo le battaglie che non si fanno sono già perdute. E’ questa è una battaglia di civiltà indifferibile che, invece, si può e che si deve fare!

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LA DECISIVITA’ DELLA CULTURA

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La crisi e l’opportunità della Cultura

La recessione mondiale, originata dalla drammatica crisi finanziaria iniziata negli USA, si è pesantemente riversata sul resto dell’Europa e del mondo, con la distruzione di ingenti risorse finanziarie e la perdita di milioni di posti di lavoro. Essa è tuttora in atto ed avrà un’ulteriore accelerata nell’ultimo scorcio del 2009 e nel 2010. L’Italia ha registrato, nel 2009, un crollo del PIL del 5,5%, con una drastica inversione di tendenza rispetto al recente e più lontano passato, di crescita graduale e progressiva, magari lenta ma sicura. Il rapporto 2008 della Banca d’Italia sull’economia italiana evidenzia un quadro d’insieme particolarmente grave e compromesso. In Campania, poi, lo stato dell’economia annaspa in maniera paurosa, cresce la crisi industriale, del turismo e del commercio, l’edilizia ristagna, aumenta a dismisura il ricorso al lavoro irregolare e al nero, crolla verticalmente il PIL, il turismo è in grave crisi, s’incrementa sensibilmente la disoccupazione, in specie giovanile e femminile, c’è una crescita vorticosa della cassa integrazione, peggiora la qualità di servizi pubblici essenziali, cresce ulteriormente la piaga della criminalità che controlla intere aree e territori della Regione276. Molti servizi iniziano ad essere in sostanza smantellati, a partire dall’istruzione e dalla sanità pubblica277. La scuola, a fronte di

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Nel Bollettino 2009 della Banca d’Italia, a proposito della Campania, con riferimento al 2008, si sostiene che nel turismo si è avuto un calo di 175.000 visitatori, il più elevato dal 1986, soprattutto a causa della crisi dei rifiuti. La città di Napoli è la realtà più colpita (-11,2% sul 2007). Le famiglie in condizione di povertà in Campania sono 380.000,oltre il doppio della media nazionale. 277 La sanità campana è stata commissariata per decisione del Governo, a causa di una esposizione debitoria gigantesca. Una situazione, al limite del collasso, che ha già determinato la chiusura di servizi essenziali come alcuni Pronto Soccorso. La scuola pubblica, a fronte delle decisioni di drastica riduzione della spesa finanziaria nel settore, vede a rischio circa 8.000 posti di lavoro di

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scelte draconiane di riduzione della spesa, è in una condizione ormai prossima al collasso, nel mentre l’investimento sul futuro, su cultura e conoscenza, sulla formazione permanente e lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, potrebbe progressivamente invertire la tendenza all’inarrestabile declino del Paese. E invece migliaia di posti di lavoro qualificati vengono soppressi, in specie nel Mezzogiorno ed in province, come quella di Salerno, con un tasso di disoccupazione e di precarietà già assai elevato. I temi della cultura e della formazione non hanno assunto finora il rilievo dovuto e le limitate risorse disponibili sono finite disperse in mille indistinti rivoli, distribuite a pioggia, discrezionalmente e senza rigorose selezioni. La questione più critica fra tutte è la condizione di disoccupazione di tante ragazze e ragazzi meridionali. Esiste da tempo, in specie nel Sud d’Italia ed in Campania, un disequilibrio strutturale tra offerta e domanda di lavoro. 300.000 persone sono emigrate, negli ultimi 10 anni, dalla Campania verso il Centro-Nord nel generale silenzio e nell’indifferenza. Un’autentica distruzione di potenzialità, intellettuali e umane, di elevata qualità, nel mentre di converso si accentuano i fattori disgreganti, l’evasione e l’elusione fiscale, così che le risorse, già scarse, si assottigliano di più. Il mito sbandierato della flessibilità, poi, ha dato un colpo di maglio, ed anzi per più aspetti liquidato, i capisaldi del diritto del lavoro conquistato in decenni di aspre lotte del movimento dei lavoratori. Il ventaglio delle contraddizioni si è ampliato a dismisura, destrutturando ulteriormente la classica composizione del mondo del lavoro e ne sta erodendo le conquiste, generando supplementari disuguaglianze ed ingiustizie. La condizione dei lavoratori italiani negli ultimi anni non è migliorata, anzi è andata ulteriormente peggiorando, con la legge 30 e il progressivo smantellamento delle architravi su cui era basato il diritto del lavoro.

docenti e personale ATA, circa 1200 per la sola Provincia di Salerno, pienamente interna alla grave crisi che attanaglia i due comparti.

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L’infinita proliferazione dei diversi rapporti di lavoro ha concorso a sfilacciare e indebolire la tenuta, la forza, l’unità del mondo del lavoro. Il lavoro a progetto è stata un’invenzione che ha privato il lavoratore neo-assunto del diritto alla tredicesima, alle ferie, al riconoscimento economico della malattia e degli infortuni. Il dominio della flessibilità, con la strutturale precarizzazione che ne è derivata, ha prodotto gravi effetti, pratici e psicologici: si è resa più fragile e incerta la condizione delle persone assunte con contratti atipici, mantenendole precarie a tempo indefinito. E centinaia di migliaia di questi lavoratori, i più giovani, negli ultimi mesi, al primo comparire dei venti della crisi, sono stati i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro. Si è accentuata così una profonda e lacerante incertezza esistenziale e si è ampliata la distanza dalle vicende della vita pubblica, con la chiusura di molti cittadini negli angusti confini recintati della propria esclusiva individualità. Una generazione di giovani lavoratori italiani impara che non ha quasi più alcun diritto e che la precarietà è diventata la condizione strutturale, permanente e inevitabile, della propria vita. Una situazione ben più grave e peggiore delle generazioni che la hanno preceduta. Assicurare ad essi un futuro, di lavoro non precario ed assistito, ampliando le occasioni di lavoro, deve essere il primo e più qualificante obiettivo dell’insieme delle forze di progresso, la vera priorità. Gli attuali rapporti sociali si collocano, per più aspetti, ai margini se non fuori i concetti di democrazia e dei principi costituzionali, a suo tempo formulati in modo prescrittivo e rigido. Il potere dell’impresa, questo il nuovo dogma della contemporaneità, non va più messo in discussione, così come avveniva nel secolo scorso, tanti decenni fa. Nella provincia di Salerno, in un quadro meno negativo dal resto della Regione Campania, è ormai urgente e indifferibile l’individuazione di nuove e sicure priorità d’azione per arrestare il declino innestando un moderno, virtuoso e qualificato processo di sviluppo.

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Dagli anni ‘80 in avanti pesa la progressiva eliminazione dell’importante patrimonio industriale preesistente, pubblico e privato, con la pressoché totale desertificazione dell’industria manifatturiera tradizionale, una ricchezza in genere non sostituita da iniziative produttive parallele in nuovi settori innovativi coerenti con lo sviluppo scientifico e tecnologico. Conoscenza, innovazione, formazione, ricerca, investimenti mirati a salvaguardia dell’ambiente, del mare e della costa, l’estrema valorizzazione dei beni storici, culturali ed archeologici, l’organizzazione, non approssimativa, di un’offerta turistica integrata e di grande qualità l’ossatura portante delle priorità da perseguire previo una preventiva e impegnativa intesa tra le diverse Istituzioni e le principali forze sociali e culturali del territorio (Amministrazioni locali, Industriali, Università, Sindacati). Una scuola di qualità, efficaci piani formativi mirati, finalizzati alle effettive esigenze di sviluppo e modernizzazione del territorio, la conseguente creazione di profili professionali d’eccellenza, coerenti all’obiettivo perseguito, sono assolute priorità. Altrove si è scelto, da tempo e con successo, d’investire sulla cultura e sulla conoscenza. A Mantova la Festa annuale della Letteratura; a Reggio Emilia e Modena le Giornate della Filosofia; a Siracusa le rappresentazioni del teatro classico greco, sono diventate annuali occasioni d’incontro e di confronto per migliaia e migliaia di persone. Grandi eventi di qualità, di rilievo nazionale ed europeo, che attirano visitatori e risorse, volano per un potente indotto. Anche a Salerno si può scegliere di investire su un progetto ambizioso e di lunga durata, insieme ed oltre la programmazione del Teatro Verdi, sulla diffusione e valorizzazione della cultura d’eccellenza, in un rapporto integrato tra Salerno e la sua provincia, dando ulteriore forza ed incisività all’azione rilevante, da tempo in atto, per il recupero e la riqualificazione urbana. Reperire risorse dalla lotta alla corruzione, alla frode e all’evasione fiscale, al falso in bilancio, al riciclaggio del danaro sporco, alla devastazione dell’ambiente, agli attentati alla salute, all’inquinamento, ed investirle in queste alternative dire-

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zioni è battaglia di civiltà , non oltre rinviabile, per costruire al meglio il prossimo futuro. Salerno 10 novembre 2009

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Il «Corriere del Mezzogiorno», spunti sull’organizzazione della cultura a Salerno Cultura e conoscenza, nelle varie espressioni, sono da troppe parti considerate questioni secondarie e residuali. Un grave errore, denso di negative conseguenze! Merita perciò attenzione l’idea di D’Antonio e Rosco di “creare sinergie tra più soggetti, pubblici e privati realizzando una proposta imprenditoriale in grado di gestire attività e spazi culturali”. D’altra parte a Salerno, come in Campania, dagli anni 80 in avanti, alla progressiva eliminazione del patrimonio industriale manifatturiero pubblico e privato preesistente, non è seguita alcuna alternativa incentrata su iniziative parallele, in nuovi e moderni settori produttivi, coerenti con la nuova fase di sviluppo scientifico e tecnologico di un mondo sempre più globalizzato. E’ a lungo mancata un’idea-forza, un credibile progetto di sviluppo, di forte impatto strategico virtuoso e alternativo, incentrato sulla qualità, in grado di attrarre risorse e investimenti, una leva alla creazione di un potente indotto. Si è drammaticamente avvertita un’inadeguatezza, di scelte, iniziative, strategie. Altrove, in città di medie dimensioni, da tempo e con successo, si è scelto d’investire, con decisione, sulla cultura e nella conoscenza. A Mantova il “Festival della Letteratura”, a Modena e a Reggio Emilia il “Festival della Filosofia”, a Sarzanain Liguria il “Festival della Mente”, a Siracusa le rappresentazioni del Teatro classico greco sono diventate stabili occasioni di pubblico confronto di alta qualità che attirano annualmente migliaia e migliaia di persone e risorse consistenti. Eventi rilevanti, di dimensione nazionale ed europea. Anche a Salerno è possibile scegliere di investire su un progetto qualificato di sviluppo, incentrato sulla promozione della cultura e della conoscenza, nelle accezioni più diverse, su di un piano più ambizioso e di lunga durata, di respiro e dimensione non solo contingente, insieme ed oltre la programmazione del Teatro Verdi, nella diffusione e valorizzazione di stabili esperienze

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culturali d’eccellenza, in un rapporto - virtuoso ed integrato - tra la città e la sua provincia. Una scelta che darà ulteriore forza ed incisività all’importante azione della Pubblica Amministrazione, ed in specie del Comune di Salerno, da tempo in corso, per il recupero e la riqualificazione urbana. Mi sembra che, su questo piano, tutte le forze dell’ingegno siano chiamate a fornire contributi, suggerimenti, idee. E’decisivo puntare a scelte d’eccellenza in grado di qualificare e di caratterizzare ulteriormente il territorio, con le sue naturali vocazioni turistiche, ambientali e culturali lanciandolo sempre più, con decisione, per capacità di competizione, a livello nazionale ed europeo. E’ la qualità che fa sistema, che vince e che si afferma varcando la contraddizione tra realtà e potenzialità. Si deve iniziare finalmente ad invertire la stagnazione di stampo recessivo, che ipoteca drammaticamente il prossimo futuro, in specie il destino delle nuove generazioni. La Provincia di Salerno e la Campania sono all’ultimo posto tra le regioni UE nella graduatoria dei tassi di occupazione della popolazione in età da lavoro tra i 15 ed i 64 anni, 4 punti in meno dell’Italia Meridionale, 16 punti in meno del dato nazionale. Assicurare ai giovani del nostro territorio, e del Mezzogiorno nel suo insieme, la grande maggioranza ad elevato tasso medio di istruzione, un futuro di lavoro non precario ed assistito, è la priorità da perseguire! Scegliere di investire in cultura e conoscenza può dare un rilevante contributo in tale direzione. Si può già iniziare con la catalogazione e la messa in rete della pluralità di eventi, spesso di buona qualità, che oggi appaiono ancora troppo frammentati e scollegati tra di loro. Scuole, Università, come ha rilevato Massimo Bignardi, le Case Editrici, seguendo la traccia recentemente suggerita e promossa dall’Einaudi, la rete dei teatri e dei cinema locali, le diverse istituzioni e strutture impegnate sul terreno della promozione del territorio, l’EPT, le istituzioni musicali, la pluralità delle organizzazioni di associazionismo attive in vario grado sul terreno della diffusione del sapere, le forze imprenditoriali e sociali più avvertite dovrebbero lavorare, in maniera più coesa e coordinata, per tessere una rete di offerta di occasioni d’incontro e pro-

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mozione e tali da coprire, in una seria programmazione d’insieme, l’intero arco temporale dell’anno così da moltiplicare le occasioni di confronto, approfondimento, socializzazione. Una programmazione, annuale, da pubblicizzare ad ampio raggio tra tutti i cittadini che avrebbe senz’altro una ricaduta rilevante sul grado di crescita civile della comunità locale. In questo contesto un ruolo di rilievo, di stimolo e di aiuto alla programmazione, può essere svolto anzitutto dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Salerno che, con uno sguardo rivolto anche ben oltre i suoi confini, in direzione dei tanti comuni grandi e piccoli della Provincia, può oggi cominciare a esercitare un ruolo essenziale di collante e di coordinamento. Può altresì promuovere, nel merito, un pubblico confronto col mondo dei saperi, l’associazionismo, il mondo del lavoro. Una scelta, in conclusione, da perseguire in maniera costante, non estemporanea e occasionale, che privilegi l’interesse generale, non i particolarismi più svariati. I benefici per la collettività, in termini di crescita civile collettiva e di capacità di attrarre attenzione e risorse, anche dall’esterno del territorio, col tempo risulterebbero evidenti. Si tratta, in conclusione, di aprire un nuovo fronte, decisivo per le prospettive di crescita economica, civile e culturale del prossimo futuro. L’investimento progettuale in tale direzione non dovrebbe risultare oneroso finanziariamente, ed anzi il grosso delle iniziative in campo andrebbe autonomamente finanziato. Si tratterebbe infine di fare un periodico bilancio delle esperienze attuate, e della loro qualità, verificandone in termini di risultati raggiunti l’efficacia, così da introdurre, di volta in volta, ulteriori miglioramenti e correttivi. Un percorso, di metodo e di merito, che può finalmente iniziare a realizzarsi. Incrementare e qualificare lo sviluppo dell’area, a partire dai comparti della cultura e del turismo, imperniato sulla qualità, su fattori di crescita produttivi, reali, non assistiti è possibile. Sarà il mercato- inteso come pubblico e spettatori- che scremerà, col tempo, l’offerta culturale in relazione ai requisiti oggettivi di maggiore competenza e qualità. Aislo, 11 Marzo 2012

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LaCultura, contributo per una discussione Il compito primario che ci sta di fronte è quello di fronteggiare, in maniera sempre più stringente e più sicura, le grandi, straordinarie sfide imposte dalla modernità nella complessità dei tempi attuali. In tale inedito contesto, si deve diffusamente avvertire, più di quanto sia avvenuto fino ad oggi, la responsabilità di fornire un contributo, individuale e collettivo appassionato, qualificato ed incisivo. Il punto di partenza non può che essere la consapevolezza dell’estrema criticità della situazione, con le gravissime emergenze che ai vari livelli da troppo tempo si trascinano irrisolte, rischiando di ipotecare pericolosamente in negativo il prossimo futuro. La profonda e preoccupante perdita di senso e di coesione, di cui nell’attualità si avverte in modo sempre più evidente il segno, obbliga alla necessità indifferibile di iniziare finalmente ad attrezzare un’ambiziosa sfida, da troppo tempo elusa e rinviata, tesa a rilanciare una forte ed incisiva battaglia sul terreno prioritario e decisivo della lotta ideale e culturale. E’, d’altronde, sempre più evidente che lo scontro, con gli avanzamenti, i successi e le sconfitte che negli ultimi decenni si sono registrati, si è svolto e si protrae, ancora oggi, innanzitutto sullo specifico terreno delle idee, delle distinte ed anzi opposte visioni del mondo rivolte a strutturarsi stabilmente nel reale. Nel procedere del tempo si sono ridefiniti - e strutturati - nuovi potenti poteri e gerarchie, inedite fisionomie, di frequente acriticamente assunte e poi colpevolmente spacciate come “modernità”, nell’organizzazione della società e nell’indirizzo diseguale assunto dai suoi sommovimenti, a consuntivo risultate poi del tutto deludenti, ed anzi perdenti e velleitarie. Distinte concezioni del mondo contrapposte si sono confrontate e poi scontrate, fin quando infine, almeno per una lunga e tormentata fase, una soltanto delle posizioni in campo è parsa prevalere. Troppo vicini e forti, in ogni caso, assai rapidi, veloci ed incisivi i cambiamenti per consentire, nella contingenza, una riflessione almeno in parte più oggettiva, pacata e più compiuta.

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Jean Francois Lyotard ha opportunamente rilevato come nel mondo contemporaneo si sia determinata, rispetto ai decenni trascorsi, una condizione radicalmente nuova. Crollati gli antecedenti edifici ideologici possenti, dell’illuminismo e del positivismo, dell’idealismo e del marxismo, si è dischiuso uno scenario un tempo imprevedibile, quello che il filosofo francese definisce della “post-modernità”. Senza l’involucro compatto delle ideologie, in grado di esercitare in ogni caso una potente funzione di collante, l’uomo moderno è sempre di più apparso, rispetto ai mutamenti quotidianamente in atto, della vorticosa e permanente rivoluzione scientifica, tecnica ed informatica, smarrito e privo di riferimenti ed ancoraggi, ed anzi di qualsivoglia rete protettiva. Una profonda metamorfosi, una diffusa crisi d’identità dell’individuo, che ha finito per stravolgere antiche certezze, riti e consuetudini, apparse per troppo tempo sicure e inalterabili. Si è determinata, di contrasto, una profonda e verticale perdita di senso, e una difficoltà nell’assicurare una nuova, feconda e virtuosa prospettiva, di crescita più ampia e regolata e di ulteriore, armonico sviluppo, economico e civile, più ordinato. In modo più accentuato nella realtà locale, ma anche nel Mezzogiorno e nel paese intero. Un quadro d’insieme, in verità, ben più deludente di quanto s’era auspicato. Il Mezzogiorno si è sempre proposto come un’ampia area territoriale, mai del tutto eguale ed omogenea al proprio interno, che ha manifestato di certo nel suo seno ampie dissintonie e varie diversità, insieme stridenti arretratezze ma anche virtuosi dinamismi. In tale contesto, la complessa realtà salernitana, segnata da contraddizioni acute e dalla persistenza di una crisi economico-sociale molto aspra e dalle prospettive alquanto incerte e indefinite. Un microcosmo che appare, per così dire, per più versi costantemente in bilico, tra decadenza e inedite, originali seppure ancora troppo timide possibilità espansive, di nuova crescita e sviluppo, su altre basi, del tutto differenti dal passato. Un’area in cui, seppure in maniera approssimata, continuano a persistere, assieme ad un’ormai troppo lunga stagnazione, fattori originali, seppure frammentati, di molteplici sperimentazioni culturali, per vari versi nuove e sparse, agenti in parallelo alla profonda trasfor-

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mazione dell’assetto urbano realizzata. In verità non è solo deserto e decadenza, tuttavia, ma anche germe di fermenti positivi, ancora non adeguatamente raccolti e strutturati in una proposta politica d’insieme convincente. Concluse le stagioni precedenti, va individuato finalmente un campo d’intervento radicalmente altro, potenzialmente ricco, originale e inedito, intorno a cui sia possibile iniziare ad agire in via sicura e più decisa, svolgendo un’importante azione di collante, nella maniera il più possibile rapida e incisiva. Un nuovo ed ambizioso progetto generale, serio ed ambizioso! La gravissima crisi finanziaria mondiale negli ultimi anni si è drammaticamente riversata sull’economia, con la conseguenza di un’immane distruzione di risorse, con costi sociali inenarrabili, nel mondo e nell’Europa intera e, in specie, in maniera se possibile ancora più acuta e disgregante, nel nostro Mezzogiorno. Da ciò è necessario ripartire per tentare d’invertire la tendenza. In chiaroscuro questa appare la situazione della nostra realtà territoriale. Non c’è possibilità di futuro, diverso e più qualificato, se non si riparte dalla centralità della cultura, dal grande e decisivo valore del sapere e della conoscenza! In maniera ancora più specifica si potrebbe prevedere l’avvio, in via sperimentale, per circoscrivere per ora la riflessione a Salerno e alla sua provincia, in attesa di un’eventuale diffusione del modello politico-organizzativo a livello regionale, di un coordinamento delle diverse forze che si trovano ad agire e ad operare sui piani, distinti e convergenti, della Cultura, della Ricerca e della Formazione. Ad iniziare dal garantire l’accurata conoscenza e l’approfondimento di alcuni degli snodi più significativi delle battaglie del movimento democratico sviluppatesi nel corso del XX secolo e fino ai giorni nostri nella provincia, in Campania e in tutto il Mezzogiorno, mettendone in evidenza crudamente luci e ombre, per realizzare una diversa prospettiva, di maggiore e più piena giustizia e libertà. Questa traccia iniziale, d’impianto generale, dovrebbe poi essere arricchita ulteriormente dalla rivisitazione, critica e aggiornata, del pensiero e dell’insegnamento di alcuni dei maggiori protagonisti delle vicende, di lotte e di avanzate, politiche e sociali, che hanno concorso - in maniera decisiva - in specie dal tempo

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della lotta di opposizione, minoritaria e tuttavia intransigente, alla dittatura fascista in poi, a determinare uno scatto in avanti ed un generale elevamento nella coscienza democratica del complesso della società civile. Punti di approdo e fecondi risultati di cui, nonostante le svariate traversie che si sono succedute, usufruiamo ancora oggi, da non considerare mai, di per sé, inalterabili, raggiunti e realizzati per sempre in via definitiva. In questo scenario, particolarmente utile e prezioso potrà risultare il contributo scientifico degli «Annali Storici di Principato Citra», rivista semestrale di studi su Salerno e la provincia. Il lavoro minuzioso, di ricostruzione in chiaroscuro, di analisi critica e di approfondimento, l’analisi accurata delle tendenze in atto, in specie ma non solo nell’economia, dovrebbe costituire il nucleo essenziale di partenza per un progetto, più attuale e rinnovato, atto a garantire un diverso rapporto, di maggiore conoscenza e di coesione, tra le generazioni apparso negli ultimi decenni, in più occasioni, piuttosto sfuocato o sfilacciato. Potrebbe in tal senso risultare opportuna la costruzione di un gruppo di lavoro, agile e veloce nel suo agire, che possa avvalersi del concorso e della collaborazione delle diverse professionalità, in particolare ma non solo della scuola e dell’università. Utile altresì iniziare a effettuare un censimento, su base provinciale, delle diverse Associazioni Culturali, con l’indicazione dei distinti piani su cui - nell’azione corrente e nella quotidianità- esse spesso proficuamente si cimentano. Istruire un periodico confronto, in conclusione, anche tra diversi orientamenti e differenti scuole di pensiero. In verità, seppure in maniera piuttosto occasionale, si sono nelle diverse fasi stabiliti, da parte delle forze sociali ed istituzionali, fecondi legami e relazioni con strutture come l’ANPI e varie formazioni, come “Memorie”, agenti sull’obbligo di non consegnare all’oblio definitivo l’immensa tragedia vissuta dall’Europa durante il fascismo ed il nazismo, e in specie l’agghiacciante vicenda dello sterminio degli ebrei. Una proficua collaborazione, su altri aspetti, si è già verificata anche con l’Istituto Galante Oliva di Nocera, con il Museo dello Sbarco, negli ultimi tempi particolarmente attivi nel promuovere numerose e interessanti iniziative. Forze importanti, stabil-

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mente impegnate sul terreno della difesa della Pace, dei diritti e dell’ampliamento della partecipazione e della democrazia. Ebbene, si tratterebbe di mettere in rete, in maniera più stabile e sicura, l’insieme delle distinte esperienze realizzate, a livello cittadino e provinciale, tessendo una sempre più solida trama di rapporti tra le distinte e variegate realtà.La comunità locale può essere segnata in positivo da un nuovo sussulto, quello della cultura! Il collegamento ed il coinvolgimento protagonista e organico dell’Università di Salerno, a partire dai dipartimenti di Scienze Politiche, Economia, Informatica, Lettere e Filosofia, ma non solo, appare scelta strategica decisiva e imprescindibile per assicurare all’azione intrapresa, nella continuità, il massimo di rigore scientifico, di efficacia e di validità tale da esercitare un’influenza effettiva e di lungo periodo nel reale. Bisognerebbe pervenire ad uno specifico protocollo d’intesa, da rivisitare ciclicamente nei suoi assi, con il Rettore ed i docenti più avvertiti, di area insieme umanistica e scientifica, dell’Università, tale da delineare, con chiarezza, l’ispirazione e le scelte formative di fondo prioritarie che negli anni a venire s’intende perseguire. Ovvero quelle, per usare una semplificativa sintesi, della realizzazione di un collegamento, e di un patto di periodica consultazione, di azione comune e di collante, tra mondo dei saperi e la parte più sensibile e avvertita del mondo del lavoro. Attenzione specifica andrebbe inoltre rivolta allo stesso mondo dell’impresa, con le sue rappresentanze locali ed istituzionali, perché sia evidenziato quanto di meglio su quel versante si agita e si muove in tema di capacità d’innovazione, e d’internazionalizzazione, dei modi di produzione e dei prodotti. Un nuovo, ambizioso progetto di sviluppo, ampiamente discusso e condiviso, incentrato anzitutto sulla valorizzazione del grande patrimonio storico, culturale, paesaggistico e ambientale già esistente, intorno a cui ripensare, in modo nuovo, l’idea dello sviluppo, il ruolo e le funzioni dei diversi attori e delle distinte attività economiche. A tal proposito non appare affatto peregrino proporre e ribadire una riflessione elementare. L’Italia, per la sua storia e per la sua antichissima cultura, nell’indispensabile, seppure piuttosto ac-

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cidentato processo, ormai da tempo in atto, rivolto alla realizzazione di una più compiuta integrazione dell’Europa, non può che caratterizzarsi apportando, quale originale tratto distintivo, la specificità di un proprio contributo innanzitutto sul piano della massima valorizzazione dello sterminato patrimonio culturale, storico e archivistico, architettonico, archeologico ed ambientale di cui dispone, anche attraverso la collaborazione e l’integrazione regolata tra intervento pubblico e privato. Un patrimonio nazionale, e dell’umanità nel suo complesso, disseminato in maniera capillare su tutto il territorio, specie meridionale, da iniziare finalmente a tutelare ed a valorizzare pienamente. Un obiettivo, alto ed ambizioso, da perseguire anche grazie all’utilizzo virtuoso dei fondi strutturali europei all’uopo disponibili.Una linea d’azione dinamica, con lo sguardo rivolto in modo particolare, e in via privilegiata, alle nuove generazioni, il cui futuro appare oggi particolarmente incerto e oscuro. Nel 1944, settanta anni fa, in Europa e nel mondo s’iniziava a sfaldare l’ossatura portante degli Stati autoritari, crollavano il nazismo tedesco, col fascismo italiano e le altre dittature che avevano costituito un pericolo mortale per la democrazia nel mondo, e s’accentuava la resistenza armata popolare nei singoli paesi fatti oggetto di occupazione e di aggressione. Un processo simile si registrava nel lontano Oriente, ove iniziava a sfarinarsi l’imperialismo giapponese. Un percorso doloroso, di riconquista della libertà, destinato a completarsi, con un nuovo ed inedito ordine mondiale, che, prendendo l’avvio nel 1945, avrebbe dilatato la sua impronta nei decenni a venire, fino al 1989. In Italia il 1946 vedeva l’atto conclusivo della caduta della monarchia e la nascita, sancita da un referendum popolare, della Repubblica e poi, più avanti, della Costituzione. Il meglio delle energie, intellettuali e materiali del paese, dopo la buia e lunga notte della dittatura, iniziava a cimentarsi alacremente, con eccezionale fervore, nella grandiosa opera di ricostruzione civile, materiale e morale del paese. Un fase, straordinaria, particolarmente intensa ed esaltante, più avanti nel tempo troppe poche volte replicata con la stessa intensità, passione, determinazione ed ampiezza. Di un simile sussulto, di consapevolezza e impegno, c’è bisogno oggi!

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Questioni tutte, quelle richiamate, su cui le forze più avvertite della comunità locale devono iniziare a lavorare di nuovo alacremente, perché sopra di esse non si distenda un colpevole e definitivo oblio. Un ulteriore aspetto, da considerare con tutta la cura necessaria, è anche quello dell’avvio della rigorosa catalogazione dei materiali, su tali questioni già prodotti, non ancora integralmente disponibili all’analisi, allo studio, alla pubblica fruizione. In tal senso, andrebbe resa esplicita la scelta dell’avvio della raccolta minuziosa di tutte le fonti disponibili, di archivi, istituzioni e fondazioni, pubbliche e private. Potrebbe, in questo impianto, essere prevista l’intensificazione di un piano, parallelo, di iniziative pubbliche e convegni, dei quali raccogliere e assemblare gli atti, costituendo un indice aggiornato, di consultazione facile e immediata, in modo da arricchire e sistematizzare al meglio, in rete, l’archivio finalmente più ordinato di una memoria sociale collettiva. Andrebbero infine individuati, quali garanti del successo dell’operazione, i componenti di un autorevole e qualificato comitato scientifico, almeno cittadino e provinciale. Un più solido legame andrebbe infine stabilito, oltre che con gli Assessorati provinciali alla Cultura, a partire da quello di Salerno, con strutture prestigiose come gli Annali Storici di Principato Citra e la Società Salernitana di Storia Patria, con le librerie, presenti nella città e nella Provincia di Salerno, dall’Einaudi, a Guida, a Feltrinelli, l’Archivio di Stato, la Biblioteca Provinciale e la diffusa rete di Biblioteche comunali capillarmente diffuse in più punti della Provincia che hanno dato vita, nel passato ed anche in tempi più recenti, ad esperienze feconde e parallele ai piani prima richiamati. Più soggetti distinti, quindi, potenzialmente intenzionati a relazionarsi ed a contaminarsi reciprocamente tra di loro, ed a collaborare, procedendo nelle stesse direzioni in sintonia, nel pieno rispetto della propria distinta specificità ed autonomia. L’istruzione di un simile percorso dovrebbe alla fine, come in precedenza si è accennato, porsi l’obiettivo di strutturarsi saldamente e di durare a lungo nel tempo, concorrendo alla realizzazione di un salto di qualità, su questo piano, ovvero della crescita diffusa della civiltà, della cultura, della conoscenza, fattori

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essenziali e decisivi, come di recente ha sottolineato la stessa Banca d’Italia, per la tenuta democratica e la crescita civile ed economica della comunità. Nodi di rilievo ed essenziali, contro il degrado, per qualificare decisamente il territorio, di cui si avverte sempre più un urgente e indifferibile bisogno. L’esigenza di un nuovo modo, d’agire e di pensare, va colta ed assunta con tempestività, per risultare in maggiore aderenza e sintonia col mondo attuale e l’insieme dei profondi, radicali, straordinari cambiamenti verificatisi negli ultimi decenni nello scenario globale, in cui si sono già innestate nuove, prima impreviste gerarchie. Si pensi soltanto al grande balzo realizzato, negli ultimi anni, da grandi paesi come la Cina, l’India, il Brasile, la stessa Russia. Un nuovo mondo, carico d’incognite e di possibilità, con grandi, inedite e impegnative sfide che il nostro paese, come l’Europa intera, si trovano di fronte, nell’oggi e nella futura e più lontana prospettiva. Un confronto a più voci e appassionato,in conclusione, libero ed aperto, non precostituito già in partenza nei suoi approdi e che, partendo dall’esame dei cambiamenti acuti e strutturali realizzatisi negli ultimi decenni, possa individuare un nuovo sentiero progettuale, di analisi, d’azione e d’impegno collettivo condivisi, con diverse, aggiornate e più sicure priorità, del tipo di quelle che si è voluto in questa circostanza almeno parzialmente evidenziare. info@istitutogalanteoliva.it Dicembre 2013

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Cultura e mondo del lavoro, nuova alleanza per il futuro della società italiana Nella complessità dei tempi attuali, dopo la fine del mondo bipolare, i conflitti, lungi dal contrarsi, si sono moltiplicati a dismisura. Innumerevoli e sanguinose le crisi regionali, sintomo crudo di un globo instabile ed inquieto, non pacificato e ridisegnato nelle sue antecedenti gerarchie. Con nuovi ruoli, protagonisti e di rilievo, di grandi paesi come Brasile, India e Cina. La crisi dell’economia mondiale, che si trascina irrisolta ormai da troppo tempo, più che congiunturale, appare di struttura e di sistema. E dagli sbocchi assolutamente incerti e imprevedibili. Essa procede ininterrotta dal 2008, polverizzando enormi risorse produttive e innumerevoli posti di lavoro. E’ingenuo ed illusorio immaginare di fuoriuscirne ripristinando logori, già sperimentati e falliti modelli di sviluppo. In tale scenario, l’Italia si propone come una realtà d’instabile incertezza, in grave ritardo con le sfide e le necessità dell’ora. Il nostro paese è gracile ed in costante stagnazione, privo di smalto e dinamismo, ancora incapace di avviare una netta, radicale e subitanea inversione di tendenza. Ha perso terreno, in via definitiva, nei tradizionali comparti manifatturieri ed è sempre più marginale nei nuovi settori d’avanguardia della ricerca e dell’innovazione. Estesa è la sfiducia, s’amplia a dismisura la platea di chi appare inesorabilmente condannato ad un avvenire di pura povertà. Milioni di persone hanno visto repentinamente cancellate le proprie aspirazioni ad un futuro di maggiore benessere e di più ampia, personale e collettiva, libertà. E chi avrebbe dovuto fronteggiare l’eccezionale situazione ha platealmente evidenziato la propria, colpevole e grave inconsistenza ed è rimasto inerte, senza indicare una credibile e vincente prospettiva progettuale. La strutturale assenza di equilibrio finanziario nei conti dello Stato, con il livello insostenibile raggiunto dal debito pubblico, ipoteca drammaticamente in negativo qualsivoglia ipotesi di ri-

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presa dell’economia, minando alla radice la coesione ed il rilancio della società italiana. Priorità assoluta è l’aggressione strutturale alla spesa improduttiva, conuna lotta senza tregua e ad ampio spettro ai molteplici e persistenti fenomeni di corruzione, sprechi e corporativismi che stringono in una morsa asfissiante la società italiana, ostacolandone una qualsiasi, incisiva svolta. Il non aver ridotto, nei decenni passati, il grave divario tra il Nord ed il Sud del Paese, che anzi di recente si è accentuato, è il sintomo più evidente dei limiti e dei fallimenti delle classi dirigenti che si sono nel tempo succedute. Nella Germania unificata, dal 1989 ad oggi, con una grande prova di coesione nazionale, il gap tra l’Est e l’Ovest è stato nella sostanza superato. In Italia, e in specie nel Mezzogiorno del Paese, di converso, la situazione è invece progressivamente divenuta sempre più critica e stagnante. Da decenni il Sud non si configura più come problema agrario e contadino. Il nodo più intricato e doloroso è quello della gran massa di giovani disoccupati, di elevato livello medio d’istruzione, privi di qualsivoglia prospettiva, d’identità, di vita e di lavoro. Figli di emigrati prima, poi della fitta, stratificata piccola borghesia impiegatizia e delle professioni, più acculturati delle generazioni che le hanno precedute. Il Sud, se valorizzato, è una straordinaria risorsa potenziale, e non un freno ed un ostacolo alla crescita dell’insieme del Paese. Ai giovani del Sud è stato più volte ribadito il concetto secondo cui studiare con profitto era l’unica possibilità per conquistare un futuro di vita e di lavoro decorosi. Una generazione che invece è rimasta dolorosamente in mezzo al guado. La società, anche nelle componenti più evolute, più che aprirsi, ha accentuato l’assunzione di forme di chiusura neo corporative ed è ancora inquinata, in maniera devastante, da sprechi e corruzione e dal peso stritolante di lobby e corporazioni economiche e finanziarie assai potenti. Non premia l’impegno, il merito, le capacità. Ed appare tutt’ora per più versi priva di un valido progetto, un’idea-forza ambiziosa e generale di riferimento.

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La carta peculiare dell’Italia, nell’Europa e nel mondo a noi contemporaneo, non può innanzitutto prescindere dalla tutela, valorizzazione e promozione, più piena e sistematica, da troppo tempo colpevolmente eluse, dell’enorme patrimonio storico e culturale, artistico, architettonico, archeologico e ambientale senza eguali nel mondo. L’Italia dispone di oltre 2.500 musei e di circa 12.500 chiese e monasteri. Un giacimento sterminato, di saperi e ricchezze accumulate, tramandato dalle generazioni che ci hanno preceduto e concentrato, in maniera capillare, su un territorio che trasuda, in ogni suo segmento, di storia e di cultura millenarie, tracce indelebili dell’ingegno umano. E’, in sostanza, urgente riscoprire la nostra natura peculiare, di paese dell’arte e della memoria di tutto l’Occidente. La piena rivalutazione di questa straordinaria ricchezza nazionale è impedito da più fattori, in parte decisiva anche dovuti all’evanescenza del ruolo dei Partiti, ombre sbiadite di ciò che sono stati, sempre più simili a meri comitati elettorali, all’indebolimento delle organizzazioni sindacali, da troppo tempo costrette sulla difensiva, all’assenza di un’imprenditoria moderna, in grado di svolgere una funzione competitiva e vincente a livello globale sul libero mercato. In particolare, il mondo del lavoro, nella fisionomia non più compatta a lungo conosciuta, esplicita al suo interno grandi frammentazioni e differenze, con forme di tutela diseguali. E storicamente la forza del mondo del lavoro è più incisiva nelle fasi di crescita dell’economia, nel mentre riduce il proprio potere negoziale quando la crisi dell’economia s’accentua in modo più grave e prolungato. Inoltre alcune aree, nel Sud del paese ma non solo, assieme a servizi e ad infrastrutture inadeguati o inesistenti, vedono il sempre più strutturato radicarsi della criminalità organizzata, ostacolo invalicabile a qualsivoglia volontà d’investimento. Più fattori, che hanno concorso al decadimento dello spirito pubblico, sacrificando all’interesse di parte quello generale e collettivo. Di conseguenza, non essendo il tutto risolvibile col richiamo ideologico al presunto effetto salvifico del libero mercato, non sembra esistere alcuna alternativa ad un ripensamento della qua-

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lità dell’intervento pubblico e diretto dello Stato, tramite un’auspicabile azione rinnovata di governo, aperto ad un raccordo con quella parte, seppur minoritaria, dell’imprenditoria privata più avvertita. Un’azione combinata, che inizi ad affrontare alla radice, con l’avvio di un piano straordinario per il lavoro dei giovani meridionali, la piaga endemica della disoccupazione giovanile che, se non aggredita con urgenza e determinazione estrema, concorrerà ad accentuare, ancora oltre e a dismisura, la persistente frattura tra il centro nord ed il sud del paese, con conseguenze disastrose per il complesso della società italiana. Scelte politiche nette, mirate e comprensibili, di profonda riconversione della spesa, frutto di una corretta analisi aggiornata e di una chiara strategia, con l’individuazione di poche e precise priorità da perseguire, un’azione non schiacciata sulla gestione del quotidiano e della perenne contingenza. Il primario obbligo dell’oggi è ridare alla Nazione una speranza nel futuro! L’uomo si relaziona al mondo con molteplici strumenti, arte, filosofia, letteratura, scienza, tecnologia. E’ il campo delle idee il piano privilegiato su cui per primo va prodotto uno scatto d’impegno collettivo, spingendo per un nuovo progetto di sviluppo innovatore. In questo quadro, frammentariamente tratteggiato, riacquista perciò inestimabile valore il tema della cultura ed della conoscenza. Una cultura, armata di un metodo affinato di lettura del reale, dei molteplici fermenti che in esso pullulano incessanti, non contemplativa, ma capace di concorrere al percepibile mutamento delle cose. Cultura quale potente collante e forza materiale, in grado di innestare processi di permanenti mutazioni, autentico moltiplicatore di opportunità, di crescita e sviluppo economico e civile. La cultura, pur con ambivalenze e ambiguità, ha sempre esercitato un ruolo di rilievo nel dipanarsi della vita umana. L’attuazione di un nuovo processo virtuoso di sviluppo è in ogni caso imprescindibile dalla rimozione di limiti gravissimi, di tipo strutturale. L’inadeguatezza delle infrastrutture, il deficit di ricerca e innovazione, già prima richiamati, spiegano l’insufficienza di un qualificato e moderno tessuto d’imprese

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d’avanguardia, l’assenza di una diffusa imprenditoria vincente nella dimensione della globalizzazione. Una democrazia nuova e più avanzata non si afferma eludendo tali nodi. Ed inoltre la stessa autonomia della politica è minata alla radice dalla gravissima crisi economico e sociale che persiste. E nuovi, immensi problemi si sommano agli antichi. L’immigrazione, ormai senza controllo, impone con urgenza la fuoriuscita da ogni dimensione angusta e localistica ed obbliga l’Europa ad una visione nuova e consapevole sull’interdipendenza del mondo nel suo insieme. Al giorno d’oggi, ben più velocemente del passato, tutto immediatamente si consuma, e l’uomo moderno appare più gracile e smarrito, spesso in una relazione solo di superficie col repentino succedersi dei fatti e delle cose. Più di 70 anni or sono, in una fase drammatica in cui il paese era piegato ed ovunque coperto di rovine, le avanguardie del mondo del pensiero, in sintonia col mondo del lavoro, davano vita ad uno straordinario scatto d’orgoglio e d’impegno collettivo che consentiva alla Nazione la Rinascita. Oggi, di nuovo, il meglio delle forze progressive del paese, d’intesa tra di loro, mossi dalla fiducia nel futuro, devono assumere su di sé, con decisione, la responsabilità e l’impegno di questa nuova sfida. Ritessere una trama lacerata, realizzare la svolta, è una stringente urgenza ed una necessità. Articolo apparso in GEAART, anno III, n.9, Ottobre-Novembre 2014

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Una ragionata galleria di avvenimenti, fatti, personaggi, del Novecento e di tempi più recenti, utile a distendere una trama su snodi di rilievo di storia italiana ed europea. Le grandi speranze naufragate, le crisi sanguinose riesplose, dopo il 1989, in più punti del mondo; le inedite minacce alla pace ed alla comune sicurezza. Nel testo si esamina con cura la funzione di alcuni dei maggiori protagonisti della nostra democrazia repubblicana e ci si sofferma sui temi della cultura e della conoscenza, decisivi per riaffermare un ruolo centrale dell’Italia e del Mezzogiorno, inscindibili dal comune destino del vecchio continente.

Piero Lucia è autore di Intellettuali Italiani del secondo dopoguerra, impegno, crisi, speranza, Guida, Napoli 2003; Salerno, Firenze, frammenti sparsi di storia e di cultura democratica, Arti Grafiche Boccia; Nel labirinto della Storia perduta, Guida, Napoli 2006; Ha curato, con Francesco Sofia, Il ’68 a Salerno, miti, utopie e speranze di una generazione, 2008; Ha anche pubblicato Sul Filo, Book Sprint Edizioni, 2011; e Antonio Sileo, Il senso di una scelta, le ragioni di una vita, CalicEditori, 2013.

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