Un giorno persi la luce

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Piero Lucia

IL sole. Il profondo sole. “In un luogo grigio ed opprimente. Le mani nascondono un problema. Un gatto silenzioso, perfido, si muove sui gradini, scompare e ricompare, pronto all’agguato. Il gatto è infido, falso, ingannatore”. L’ictus ha fatto stramazzare al suolo. Il cervello si è rallentato e contratto divenendo più piccolo di volume. Prima si è prodotto il sonno, poi il silenzio, quasi la fine di questo mio dolore. Pensi che la vita non abbia più ragione, né che serva più battersi per qualcosa poi tutto ciò che è stato, le forme, le immagini, i suoni, le persone, gli affetti, le tristezze, le gioie, le speranze, quasi come sospese, in maniera improvvisa ,richiamano al ricordo dell’armonia perduta. Prometeo sale e scende, punito per l’azzardo di aver voluto dare, senza contropartita, la felicità agli umani.


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Contro di lui i detentori d’ogni destino che con l’inganno han conquistato il potere insorgono: i suoi muscoli, i suoi nervi, non la sua volontà, sono piegati. Ha voluto varcare le Colonne d’Ercole, per questo non è per lui sufficiente morire una sola volta. Si è posto il problema di superare i confini del mondo e del sapere rivelato. Per lui perciò non ci può essere perdono. Lo legano, lo incalzano, l’hanno catturato. Pensano di averlo alla loro fonte. Lo spirito di Prometeo è però impalpabile ed infinito: nessuno scrigno lo può contenere. Per questo vola e, di sé, avviluppa il Mondo. Nel tempo e nel moto che, senza fine, s’inseguono tra loro troverai, dove mai avresti pensato, in un angolo, sul ciglio di una strada, nel deserto assolato, vicino ai ghiacciai senza tempo, lungo i ripidi confini della roccia, lo Spirito di Prometeo.”


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“Vedo tutto vedo niente. Alle quattro del mattino l’ictus, quale avvoltoio nero uscito dalla tana alla ricerca di preda, ha penetrato il mio corpo. Mi sono alzato dal letto e senza difesa sono stramazzato al suolo. Simone, al suo risveglio, (alle otto del mattino)si è accorto del mio malore, ha cominciato ad urlare. Io avevo smarrito le parole. I miei occhi ormai inespressivi. Rosaria e sua madre, sono balzate giù dal letto. Vomitavo. Con sforzo, mi toccavo la gamba, il braccio, la testa. Provavo a dire qualcosa ma non ci riuscivo. Ero reciso a metà. Rosaria ha subito chiamato un’ambulanza. I barellieri mi hanno imposto di non muovermi. Una folla si era radunata davanti alla mia stanza. Dopo avermi sistemato sulla barella, fra le lacrime di Simone, mi hanno portato via giù per le scale. Di corsa al San Leonardo. Rosaria e Nino dietro di noi. Dalla barella dell’ambulanza a quella dell’ospedale. Mi sono sentito trascinato su e giù per i reparti come un sacco di patate. Ero frastornato dal vocio continuo. Ogni flebile sibilo per me era uragano. Mi hanno depositato nel reparto. Dalla finestra vedevo gli alberi. Erano “spezzati”, piegati sulla mia testa. Le immagini ballavano in un vortice


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davanti agli occhi. Nella mia testa i resti di cose smarrite, sul lettino d’ospedale perdo me stesso. Mi sento impotente davanti al destino. Non leggo, non scrivo, i miei sensi sono strappati. Le parole si inseguono a meta’. Albina, Mariella, Franca, in ospedale. Mi hanno abbracciato, mi hanno baciato: le mani senza forza tattile. Il viso inespressivo, perso, le ginocchia ferme senza tempo. Il rapporto col mondo si scompone l’oblio assoluto e feroce mi avvolge. La pelle sembra volersi separare dalle ossa, le ginocchia tremano vorticosamente, senza direzione. Sospeso verso il nulla ho sentito scorrere a frammenti tutti gli attimi della mia vita. Le mie membra aggredite una ad una. Il nero assoluto si stende sui miei occhi, un’esplosione devastante ha invaso il lobo occipitale. Da tre anni, costanti, continuano le scosse concentrate nell’involucro parietale. La mia vita è sempre la stessa. Mangio, dormo, tento di ribellarmi, ma ritorno nella condizione di stasi. Ogni mattina, al mio risveglio, sento come un ululato che sale per le scale e mi attira a sé, avviluppandomi. Vano ogni disperato tentativo di sottrarmi ad esso. E’ come il sogno!! E’ come il sogno!! Il dottore tenta di rassicurarmi. Basterà fare una TAC. Io, in uno stato di angoscia ed apprensione attendo. Il tempo trascorre ora dopo ora. Dentro di me l’angoscia che mi ha ghermito non mi abbandona. Quello che per altri è un minuto o un’ora per me è un secolo!!


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Di fronte a me la distesa informe dei palazzi oscilla. E’da oltre tre anni che continua tutto ciò. L’erba che calpesto si sposta ondulando, gli alberi ,a loro volta, si toccano. Per quanto tempo continuerà? Da tre anni vivo a letto, con l’incubo che mi insegue. E’ l’uomo nero che da bambino mi faceva orrore. Così, privo di una parte di me, della mia storia e della mia memoria, combatto depressione e malinconia. Disarmato ho spesso la percezione di non potercela fare. Precipito nel ventre del vulcano, senza appigli, privo d’ogni forza e volontà. I miei denti, le mandibole, le orecchie, i capelli, la testa, le membra tutte sfuggono, staccandosi da me, e, senza orientamento, non ritrovano più la loro sede naturale. Tutto è scomposto, senza più armonia. Scomparsa ed inutile l’idea dello spazio e del tempo. Non uso più l’orologio. Non mi serve. E’ sempre così, da tre anni e più. Non c’è né ragione né senso; tutto è lontano, perduto inesorabilmente. Mia sorella Ninetta vive con me il mio dolore, tra la sua casa e la mia. E’ tanto, è tanto che anche il suo calvario continua. Frigorifero, tavolo, vaso. Cerco vanamente qualcosa che ho perduto e il mio cervello declina nei meandri. Suoni sconcertanti, continuamente dilatati, penetrano nella mia testa. Sono caduto due volte. Il letto si muove come una culla, son tornato bambino?


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A Campoli: il mio io diviso. Sulla sedia a rotelle un infermiere mi spingeva e rideva in un gioco crudele. La televisione che mi obbligavano a sentire mi scoppiava nel cervello. La sua voce mi giungeva come suono senza senso. Il lettino piccolo in una stanza buia, minuscola e senz’aria. In un’atmosfera di grande abbattimento mi trovai, all’improvviso, davanti una luce. Era entrata nella mia stanza chiedendo, con flebile dolcezza quasi in punta di piedi “permesso”. Una luce, solo una luce, vestita di scuro e una gran barba nera. Annunciava Speranza per tutti, per i derelitti e per gli afflitti. La sua calda voce proteggeva. Due parole mi disse e mi abbracciò forte, il Monaco, con Cristo sul petto. Sono rimasto a Campoli due giorni a scrutare i pensieri, prima di scappare via, con la mente offuscata, inseguendo l’illusione della pace. Campoli, la finestra, due letti diseguali, la stanza piccola e senz’aria comprimeva tutto il mio essere. Ho chiesto aiuto ed ho voluto fuggire. In un luogo grigio ed opprimente, le mani ancora nascondono un problema.


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MI STANNO ACCECANDO. La barba mi trascina via, mi stanno rasando. Tentano di darmi un aspetto migliore: io mi sono affidato mansueto e rassegnato. Non posso fare niente da solo. In questo momento altri devono fare per me quanto dovrei fare io. Mi sento privo di forza e volontà, in attesa, inquieta, non so bene di cosa. Il mio inconscio si muove percependo oscuramente che qualcosa sta per catapultarsi su di me, qualcosa di indefinito ma mostruosamente immenso, contro cui, soli, non si può ergere difesa alcuna. In quest’essere si concentra tutta la forza della storia che ha popolato il Mondo. Non è una forza in benevolo movimento non è natura benigna, è forza malefica e distruttiva; si muove tutto travolgendo e cancellando, deride gli ostacoli, gracili, frapposti al suo cammino. Le mura, le porte oscillano e mi aggrediscono incalzandomi con ferocia. Vogliono prendermi e fagocitarmi cibandosi di me. Col loro giro vorticoso vogliono ridurmi a magma indistinto. Il mio aspetto, la mia fisionomia, il mio volto, i miei pensieri coi ricordi di fanciullo vanno dolorosamente ma per sempre cancellati. E’ ancora l’urlo selvaggio che sale per le scale, travolgendo ogni illusoria resistenza. Si è mischiato all’incubo


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e da questa mistura una nuova terribile creatura, priva di forma definita, emersa dal centro della terra è venuta a pretendere il Nuovo Sacrificio. Nella sua inarrestabile ascesa cerca e trova amici ed alleati. Può conseguire quanto si è proposto se nelle sue schiere si aduna l’umanità stravolta ridotta a mera indifferenza, cinismo e ipocrisia. Merce senz’anima ridotta a puro oblio. Sentire che accade tutto ciò riduce le difese immunitarie, ossifica la fede, fa interrogare del come e del perché si è vissuto e si è agito. L’argine di tanta comune umanità se coesa è infrangibile respinge il mostro che ulula avanzando, ricompatta in sé lo spirito comune, lo mette in fuga e lo batte, lo costringe alla resa per superiore amore. Se invece si sgretola e cede travolgendo ogni argine umano, segna per sempre la morte della speranza e d’ogni gioia. Falsa e ingenua illusione quella di chi ritiene che, conquistato l’obolo preteso, il mostro sanguinario, sazio ed appagato, freni il suo percorso. Ognuno interroghi perciò la sua coscienza!


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La vita non serve. La vita è solo cumulo di sofferenze. Dodici anni passati a Napoli a fare psicoanalisi con un gruppo di lavoro. E poi? Mio padre e mia madre erano preoccupati della mia fragilità. Avevo 18 anni: non mi ero mai allontanato da casa. Ero bloccato. Quando arrivavo a Napoli ero preso dalla fobia di quei luoghi e non vedevo l’ora di scappare. Dodici anni con queste paure. Torno indietro con la memoria. Mi rivedo ragazzo, pieno di incertezze e speranze. Non so ancora cosa mi riserva il futuro. Ho tante voglie e desideri. E’ il tempo dell’inizio dell’amore, grande, per la poesia e la letteratura. Scopro Leopardi e, davanti a me, si dischiude un mondo sconosciuto, straordinario ed immenso per la sua bellezza ancora inesplorata. Mai prima avevo immaginato si potesse esprimere tale ricchezza di sentimento e amore. Leggo tanto, di notte, con vorace ed insaziabile passione. Di giorno dormo, stremato ed appagato. Leopardi per me diventa un amico inseparabile, un compagno fedele di cui fidarsi ciecamente. Riferimento e guida che mi conduce in salvo per gli oscuri sentieri delle mie paure. Come è intenso il suo ragionare antidogmatico e non retorico. Quale attenzione alla indefinibile complessità dell’essere vivente, quale inestricabile permanente intreccio tra antico e moderno. Quale infinita tensione nel capire e difendere il diritto


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dell’uomo alle lacrime, al suo desiderio della felicità. Nessuno per me ha mai rappresentato con eguale efficacia l’estrema complessità dell’uomo contemporaneo. La sua perenne tensione verso l’approdo di superiori sintesi, l’incessante procedere oltre le colonne d’Ercole. Per me, poco più che fanciullo, è stata una folgorazione. Leggendo e rileggendo Leopardi scoprivo sempre nuove cose e mi si aprivano, di continuo, nuovi orizzonti. Neanche i grandi Maestri del Pensiero Marxista, per i quali, per scelte anche dovute alla mia storia familiare, avevo già deciso di orientarmi, mi davano un’eguale ed appagante ricchezza. Leopardi ha rappresentato per me, giovane ed incerto adolescente, l’ancora della salvezza. Un amico per sempre, che non tradisce mai, per tutto l’arco della vita. Per questo, mi sono impegnato a diffonderne sempre più la conoscenza approfondita tra i miei ragazzi. Ho lavorato per difenderne l’autenticità del pensiero contro caricaturali critiche d’accatto. Così, quasi senza accorgermene, la sua presenza si è confusa con la mia anima. Poche sono le grandissime personalità che riescono a fendere il tempo attraversando la Storia. A conti fatti possono contarsi sulle dita di una mano. Giacomo Leopardi è stato questo per me. Il suo spirito mi ha consentito


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di dare risposte ad enigmi in apparenza insolubili.

Per dieci ore al giorno. “Camera di Commercio Industria e Agricoltura -SalernoPremiazione della Fedeltà al Lavoro e del Progresso Economico Medaglia D’oro Al Merito Concessa al Sig. Antonio Giordano Per aver prestato dal 12 maggio 1933 ininterrotto servizio alle dipendenze della S.A.L.I.D. di Salerno. Salerno 19 aprile 1964.” Mio padre lavorava dal mattino alla sera, per dieci ore al giorno.Tornato a casa, a sera tardi, sbrigava tutte le faccende irrisolte e badava a noi figli (la febbre, il mal di gola, la tosse). Mio padre era una persona dall’animo buono, era dedito al lavoro e alla famiglia.


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E’ apparso un fiore. Fiorangela Di Liso è venuta a farmi visita in ospedale ed ho parlato con lei. (Fiorangela Di Liso è una persona straordinaria. Mi ha fatto conoscere Mattè Blanco, uno tra i più grandi psicoanalisti dopo Freud. Un’emozione immensa, uno stupore nel trovarmi lì di fronte a lui. Dopo il “male” il mio spirito era morto). Freud è morto. Le porte erano chiuse nel mio cervello e senza chiavi. Per due lunghi anni. Ho aspettato un’eternità. Ricordo l’ondata che mi ha trascinato via senza pietà. La malattia mi ha reso ineguale. Le parole stesse disperse nel nulla su ali di farfalla. (L’occhio è soltanto un’idea. Siamo scesi giù nelle viscere della terra e poi la fine). Fiorangela mi ha fornito un appiglio, mi ha aiutato ad accettare cure ed aiuti proprio mentre l’ululato m’invadeva le mani, i piedi, le gambe. Fiorangela Di Liso è perciò sempre presente in me e perciò il mio pensiero s’incrocia con lei.


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Una mattina di agosto s’è fatto buio. Una mattina di agosto Rosaria, Nino e Tina mi accompagnarono al Clinic Center di Napoli.(Simone era tra le mie braccia, quanto bene ti voglio Simone mio!)Durante il viaggio in auto stetti malissimo. Ci fermammo all’autogrill per una breve sosta. Il fumo di sigarette contribuì ad accentuare il mio malore.(Simone mio è passato tanto tempo dalle passeggiate e dalle corse in bicicletta, quando ti tenevo per mano e andavamo per i campi a cogliere i fiori. Simone mio, ora sei diventato grande!)Arrivati in clinica, io sulla sedia a rotelle, andammo dal medico per una prima visita. Il medico osservò la mia cartella clinica e, senza battere ciglio, disse che non c’era niente da fare. (Simone mio la collina di papaveri, io e te ad inseguirci felici e spensierati nel canto degli uccelli) Comunque, dopo poco, mi portarono nella mia stanza. Al passaggio degli aerei la collina tremava, tremavano le pareti della mia stanza, come in un incubo gli occhi sbattevano sotto le palpebre. Non riuscivo ad alzarmi dal letto.(Simone mio siamo andati sul mare. Rosaria, noi tre, a pescare lungo il fiume dei sogni.)Alle otto del mattino il risveglio era terribile. Gli occhi sbattevano dappertutto, non sapevo cosa e quando, mi sentivo perso nella vita. Un mese intero durò questo calvario, non distinguevo le immagini della televisione, due volte mi ritrovai giù dal letto catapultato sul pavimento. Rosaria dormiva in ospedale con me. Alle otto del mattino scendevo al piano terra dove facevo terapia. Continuavo a stare male. Persi la memoria, non riconoscevo più il mondo che ruotava attorno a me. Non distinguevo l’erba, il pavimento, sprofondavo sotto i piedi, la poltrona si piegava e rimaneva sospesa nel vuoto.(Simone mio quel giorno, noi tre a sciare sui bianchi monti, la seggiovia ci portava in cielo e la terra si innalzava nello spazio.) Un mese intero a Napoli, agosto, il cibo era poco e immangiabile, l’ambiente che mi circondava era disumano.


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TUTTI GLI ORGANI DEL MIO CORPO. Mimma Ragone, Luciano Sagliocca, Bruno Fontana sono stati per me bravissimi medici e carissimi amici. L’ictus non ha solo aggredito il mio cervello ma mi ha comportato un diffuso stato di dolore e contrazione che ha coinvolto tutti gli organi del mio corpo. Il male si muoveva e radicato nel cervello fuoriusciva dalla sua sede originaria ostacolando, con secca turnazione, tutta la funzionalità degli altri organi vitali. Sfuggiva e rifiutava di essere placato dalle cure e dai farmaci. Si metteva in movimento, senza preavviso, e portava il suo agguato di volta in volta nei meandri più oscuri del mio corpo. Non pago di aver devastato una parte del mio cervello e della mia memoria saltava nel ventre negandomi il riposo e la pace. Non mi dava neanche un attimo per riorganizzare la parte di me che rifiutava di soccombere. Voleva stritolarmi facendomi pesare tutto il dolore ancora sconosciuto. Il mio corpo, debole e provato, non riusciva a resistere reagendo. Ero in balia del vento e l’antico orientamento che mi aveva portato a percorrere le strade della terra, svanito, si perdeva. Sospeso nel vuoto e nel dolore tante volte ho creduto di morire. Il buio infinito, solo il buio


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senza la luce alla fine del tunnel. In quel momento mi hanno aiutato, molto, a superare il dolore, l’angoscia, la paura del nulla Mimma, Luciano e Bruno. Hanno individuato i luoghi dove si era espanso l’impostore ed hanno tentato di riportarlo nel cerchio della prima sede invasa.


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DORMO, DORMO, PROFONDAMENTE DORMO. Pasquale Vitale tutti i giorni, per due mesi e mezzo, mi ha accompagnato all’ospedale di Avellino. (Pasquale Vitale nutre per me un affetto e una tenerezza “spietata”. Tutti i giorni, con la sua presenza, mi ha portato sollievo. Alle otto del mattino, Pasquale Vitale mi prendeva in braccio, mi portava in macchina e mi accompagnava ad Avellino. Che bella persona ho trovato!) Io mi ricordo l’ambiguità dei miei occhi che mi tormentava continuamente. Dormo su un tavolo che barcolla li ad Avellino. L’erba si muove sotto i miei piedi. (Una donna sensuale appare davanti ai miei occhi. Vengo colpito da tanta bellezza. Il tavolo è molto grande. Si spoglia e mi viene vicino come l’acqua. Mi sveste. Il tavolo non lo riconosco più. Il tavolo è un enorme piano in cui io mi perdo. All’improvviso lei scompare nel nulla).


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La luce dei miei occhi. E poi le flebo, quante flebo! Un giorno in ospedale venne a trovarmi il mio Simone. Ero emozionato nel vederlo. Era cambiato, improvvisamente era diventato più grande. Lo abbracciai forte e lo baciai molto. “Come stai?” mi domando’. “Sto bene” gli risposi con le lacrime agli occhi. Simone mi guardava in silenzio e io cercavo di mascherare il mio volto. Era una sensazione inumana.


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Mi Manchi. Entrammo subito in confidenza. Espansivo, alto, un bel ragazzo. Generoso e buono, protestante, d’intensissima religiosità. Entravi immediatamente in sintonia con lui. Suonava l’organo, defilato. Gli dissi che doveva essere tra i protagonisti della rappresentazione teatrale che stavamo preparando. Non ci fu niente da fare!!! Si rifiutò in tutti i modi. Allora gli dissi che doveva collaborare in un altro modo: avrebbe dovuto raggruppare sull’enorme parete tutti gli infiniti sacchi di rifiuti per l’allestimento del teatro. Dovette cedere. Lavorò tantissimo, fino allo stremo. Un giorno, dopo il teatro, mentre era con amici in strada, davanti ad una pizzeria, uno sparo. L’uomo fugge su un motorino, Davide Sannino è a terra, senza vita. La notizia, terribile, mi raggiunse a Scario, dove ero in vacanza. Sono corso subito a Napoli, col cuore denso di angoscia e di speranza. Ognuno di noi ha perso, con Davide, una parte di sé. Con gli alunni dell’istituto professionale di Ponticelli preparammo uno spettacolo dal titolo: ”Cantata per Davide Sannino”. Lo abbiamo portato in alcune delle più grandi città d’Italia. Tre anni di lavoro, la preparazione di più scenografie, le prove, l’impegno dei ragazzi, la riconoscenza del preside, sono stati il più bel regalo. Con Michele Migliaccio, Lucio Campanile, Luigi Piccolo, Albina Arpaia ho portato questo spettacolo a livello nazionale. Perfino i più importanti giornali nazionali, dal “ Mattino” alla “Repubblica”, al “Corriere Della Sera”


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ne hanno parlato sorpresi dell’esistenza, ad un passo, di un piccolo angolo di sud America. La mamma ed il padre di Davide Sannino si sono molto emozionati nel vedere la rappresentazione. Il nostro lavoro è stato riconosciuto con due premi: migliore sceneggiatura e migliore regia.) Vedevamo premiato il nostro impegno e la nostra passione. Avevamo dimostrato di essere capaci di costruire cose belle. Come potrò più rifare un’esperienza eguale che mi ha dato tanta gioia? Davide Sannino è morto, senza alcuna colpa o ragione, ed è ancora dentro di me, in una parte del mio cuore.


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IL DISTACCO, LA MORTE. Con Giovanni e Sante Avagliano ero diretto a San Felice al Circeo per ritirare il premio speciale della giuria per “Il mistero di via Monaci”. Ma da Ponticelli era arrivata la notizia che un balordo aveva sparato al “gigante buono”, a Davide Sannino, il ragazzo del “Gruppo teatro” che suonava la tastiera, che scherzava sempre con tutti e con me in particolare. Davide era in coma al secondo policlinico. Al policlinico ho incontrato i genitori di Davide, il preside era già lì e così altri insegnanti. Dolore e lacrime. Sono ripartito. Ho ricevuto il premio ma non ho gioito: Davide moriva in un letto d’ospedale a diciannove anni. (A San Felice al Circeo c’erano personaggi illustri della cultura e del giornalismo, ma di tutta la cerimonia non ricordo quasi nulla, nè ricordo i nomi, pur noti, dei presenti. Serbo solo memoria di Piero Angela , di Luciano Rispoli e del giornalista Claudio Angelini che mi ha intervistato.)


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Le dolci note. Sara è una figura delicata, ha due anni, e il suo sorriso sempre mi accompagna. Roberta è una persona speciale, mi è sempre accanto e vivo con lei. Quanto tempo dovrò aspettare per ritrovare il sole?

Il viaggio infinito. (Rosaria, Giovanni ed io partimmo. Dieci ore – mi dissero - durò quel viaggio. Verso Rovigo. Acquisti d’amore. La nausea mi dava la sensazione del tempo: un pendolo gigantesco scandiva le distanze dei chilometri che si accumulavano, senza che potessi contarli. La città mi accolse come fauci cariate, le sue strade sobbalzavano rubandomi l’equilibrio. Giungemmo a piedi. Davanti alle scale tentai con grande sforzo di salire. Paola Gasman e Ugo Pagliai mi strinsero la mano. Terzo classificato. Acquisti d’amore. Secondo classificato, Rino Mele. Primo classificato, Paolo Valesio. Voci l’una sull’altra: il presidente, la giuria, i poeti, gli amici dei poeti, i parenti dei poeti: il pendolo scandiva il tempo delle voci che si accavallavano senza che potessi distinguerle. Giovanni Ferrara mi disse che le mie poesie erano belle. Ma quali poesie! Volevo solo andare via. Quel giorno fu un martirio. La premiazione durò quattro lunghissime ore.


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Io mi aggrappai a Giovanni, cercando di raggiungere l’albergo. Le gambe non mi reggevano ed ero costretto a trascinarmi avvinghiato a lui.)

Il Rumore. Mentre io stavo male, qualcuno teneva la televisione, la radio accesa tutto il giorno ad alto volume. Mi tappavo le orecchie provando a riposare ma non ci riuscivo. Mettevo la testa sotto al cuscino. Mi svegliavo di soprassalto in quel caos infernale. La radio era diventata per me un incubo e le note di quelle canzoni un suono spregevole. Un uomo grasso e volgare, sprofondato nel letto, teneva a tutto volume quella radio mentre io ero tormentato dalla visione di un albero che mi ballava davanti agli occhi. Di notte in ospedale non ero lasciato mai da solo: Salvatore, Rodolfo, Tonino, Gianluca e Giannino si alternavano al mio fianco. Si prendevano cura di me mettendosi a disposizione per qualsiasi bisogno. All’ospedale San Leonardo ho trascorso venti giorni. Venti giorni da incubo. Stavo male, molto male ma il medico era praticamente assente. Ero a letto, guardando al di la della finestra, mi sembrava che gli alberi del cortile si abbattessero su di me. Le mura, il palazzo, l’erba sotto i piedi sembravano in balia delle onde. Che sonno quella sera! Le stanze, i corridoi mostravano i segni di una grande trascuratezza, la polvere si annidava in ogni angolo. (Tonino, mio nipote, tutti i giorni veniva trovarmi in ospedale. L’ho visto crescere. Fin da bambino ha sempre nutrito un grande affetto nei miei riguardi, stava sempre a casa mia. Il suo affetto è


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rimasto immutato nel tempo.)

(Il raggio di Sole. Margaret, Filomena Murano, Clementina: il sereno dopo la tempesta. Clementina aveva la stessa dolcezza della Madonna raffigurata nella Pietà di Michelangelo. Io coi miei dolori, e loro accanto a me, la divisa bianca, i loro sorrisi, le loro parole, mi trasmettevano una tranquillità del cielo. Le uniche persone, i cui occhi mi comunicavano un’allegria di fondo.)

(Piccola piccola. Marta è un’amore di bambina. Piccola piccola, mi stirava le camicie. Riusciva appena ad arrivare all’altezza dell’asse ma era già più brava di una professionista. Le camicie venivano stirate proprio a puntino. Ti voglio bene, bene, bene.)

(Sprazzi di luce. Com’è bella Maria: col sorriso nella testa, sprazzi di luce corrono silenziosi e tranquilli. Emana luce calda.)

Ebbe inizio il sogno. Gentile e aspra, indifferente e premurosa, mi incoraggiava nel mio letto di sventura. Andammo al mare. (Ebbe inizio il sogno) Mi sarebbe piaciuto lasciarmi avvolgere dalla natura, ma quel mare mi divenne improvvisamente odioso, pieno di onde vorticose che mi


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travolgevano. (Sugli scogli battevano le onde e poi dal niente venivano sommerse. L’agognata simbiosi, assoluta, tra me e la natura si muta in movimento torbido e devastante, produce tumulto di guerra, muta colori e suoni, aggredisce lo spirito e l’avvolge d’incontrollabile paura. Tutto il mio desiderio si stravolge in orrore, ancora più grave ed agghiacciante in quanto evidenzia, d’un tratto, l’impossibilità di ogni resistenza e contrasto tra il mio essere e quella forza sconfinata che, liberata senza freno, si catapulta sul mondo tutto travolgendo al suo procedere. Mai prima avevo visto, dispiegata in tutto il suo vigore, l’immensa forza della natura. Fino a quel momento avevo creduto di poter toccare il cielo confondendomi con esso, mi ritrovavo perso, senza peso e volume, come il fuscello gracile in balia dei venti. Pensai che allora, in maniera inattesa e feroce, tutto si fosse in un momento concluso. Tutto era finito, per sempre, ed il ritorno non si sarebbe mai più realizzato). Il sogno è una maschera orrenda. Il sogno è maledetto! Dal corpo putrido, chi sei tu? “Questa è la cerimonia della morte. La tomba vi accoglierà con amore. Arrendetevi alla morte. Restituite ciò che vi è stato prestato. Rinunciate ai vostri piaceri, ai vostri dolori.


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Rinunciate ai vostri amici, agli amanti. Rinunciate alla famiglia, al passato. Abbandonate ciò che odiate, ciò che desiderate. Voi conoscerete il NULLA. E’ l’unica realtà. Non abbiate paura. E’ così facile dare. Non siete soli. Avete la tomba. E’ la vostra prima madre. La tomba è la parte della vostra rinascita. Ora abbandonerete il fedele animale che chiamavate il vostro corpo. Non tentate di tenervelo, ricordate che era un prestito. Rinunciate alle vostre gambe, abbandonate il vostro sesso, la vostra testa, il vostro sangue, i vostri organi, le vostre ossa. Non vogliate più possedervi. Il possesso è l’ultimo dolore. La terra cade sul vostro cadavere. Viene a ricoprirvi d’amore perché è la vostra vera carne. Ora voi siete un cuore vuoto, pronto a ricevere la vostra vera essenza, la vostra perfezione, il vostro nuovo corpo che è l’Universo, l’opera di Dio. Voi rinascerete, sarete reali. Sarete vostro padre, vostra madre, i vostri figli, la vostra perfezione. Aprite gli occhi! Siete la terra, siete il verde,


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siete l’azzurro, siete gli alberi. Siete l’essenza. Guardate i fiori. Per la prima volta guardate i fiori. Adesso siete un gruppo”. (Versi che ho appreso da un film, un capolavoro di immagine, uno spettacolo agghiacciante tratto da “La montagna sacra” di Alexandro Jodorowsky.)

HO SAPUTO, Ho saputo, per caso, all’improvviso. Sconcerto, sgomento, rabbia, reazione, urlo, pazienza, silenzio, resistenza. Un dolore sordo, che t’attraversa e t’annienta. Un tumulto di sensazioni antiche e già vissute di quando eravamo fanciulli e ,col sorriso, di speranza intatta, ci guardavamo negli occhi. Eravamo sicuri di poter capovolgere il Mondo. Una parte certa delle proprie ragioni, tanti, tanti io stretti in una sola mano. Le strade del quartiere, luminose, trasudano di sole. Le riviste di filosofia e di letteratura dell’Europa inquieta. Ed il parlare fitto, intenso e senza fine, che dalla sera ci fa scoprire il giorno, con la candida aurora. E il desiderio riarde inappagato, di cumular “virtute e conoscenza”. La generosa ingenuità delle nostre passioni, l’orizzonte si amplia all’infinito. Nuovi e sconosciuti mondi per placare la sete. Storie, storie, storie, tante storie di una sola Storia. E i giovanili amori, gli spazi sconosciuti della pubertà.


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Tutto compresso in un pensiero solo, angoscia, dolore e rabbia insieme. Un filo teso di relazioni antiche, che non ha più bisogno di infinite parole, nel quale ci si ritrova guardandosi nel viso, interrotte crudelmente dal caso. Ho saputo per caso, discretamente mi è stato sussurrato, quasi a voler distendere la coltre protettiva, dei tanti io di un tempo, riuniti nel dolore. Dolore da affrontare con tutta la tenacia, la volontà, l’amore di cui dare segno d’esser capaci ancora. Tornano nitidi i ricordi di un tempo, di ciò che siamo stati, di cosa siamo sempre. La nostra Scuola, costruita dal nulla, che ci ha fatto conoscere mille e mille persone nuove. Arcangelo Leone, uomo autentico, e poi, nella nostra rossa sezione, che ha il nome di un altro grande e sfortunato amico, Angelo Petillo, ghermito dalla falce nel campo senza tempo, abbiamo conosciuto un uomo tra quelli cui è dovuta, per sempre, gratitudine eterna, Umberto Terracini. Piero Lucia poco più che bambino. Con Luigi Giordano e con tutti gli altri ragazzi, abbiamo vissuto lo stupore del Mito. Quanto abbiamo appreso, in un attimo, da quell’uomo esile, elegante, il fiore nel taschino, dal parlare limpido e forbito, oratore immenso, privo di retorica, cui bastava un’esilissima frase tracciata su un foglietto, per portarci rapiti nel campo sterminato degli infiniti colori. Lo abbiamo accompagnato al treno preoccupati che potesse essere sfiorato dal silenzio nero che intorno minacciava.


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E’ rimasto calmo, ci ha rassicurato, ci ha guardato negli occhi ed è partito, con l’eguale serenità con cui era venuto. Ed i libri di quando all’Università studiavano assieme, Piero e Luigi, appassionandoci per Gramsci e per Gobetti. La mamma, lieve col suo cammino, che sfiora l’aria intorno e che con il suo sguardo c’avvolge e ci protegge. Una madre, mia madre. Tutto questo e tanto altro ancora quando mi è stato detto ciò che era accaduto.

Intorno al collo. Arrivati in ospedale una sedia a rotelle mi trascina fino al bagno. Le onde, le onde. Cerco una corda per farla finita. Il dottore mi blocca invocando di fermarmi. Rosaria mi trascina via mentre provavo a stringere le corde attorno al collo. Accorsero tutti ed ognuno a modo suo cercava di risollevarmi. Mi accompagnarono in stanza. Caddi in un sonno profondo. Al risveglio, con la solita sedia a rotelle, mi hanno portato giù in una stanza angusta. L’ascensore si muoveva ondeggiando sui lati. Inizia la terapia. Un’ora di esercizi e poi di nuovo nella mia stanza. Un vitto magro e poi di nuovo a dormire. Per un mese questa è stata la mia vita.


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La fuga. Venti giorni, un’esperienza orrenda: per il dottore andava sempre tutto bene. I suoi calcoli mi davano guarito in pochi mesi. Mi visitava convinto delle sue teorie. Sono passati tre anni da quando una sedia a rotelle sgangherata mi ha portato via da quello ospedale. Rosaria mi è stata vicino in tutto questo tempo.

Sogno la normalità. Tutto mi appare inclinato. Il tavolo, i piatti, le posate tutto è avverso davanti ai miei occhi. Sono tre anni che si verifica tutto ciò e che sogno una vita normale. I miei percorsi sono lenti e faticosi a causa del mio passo inclinato. Il rimbombo assordante mi segue implacabile anche quando attorno a me tutto è silenzio.


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Il cervello è spaccato in due. L’occhio perennemente coperto da una benda. Esco di rado e subito rientro stravolto dalle immagini che investono i miei occhi.

Una convivenza difficile. Il cinquanta - sessanta per cento del mio cervello è inesistente. Non ricordo le parole per esprimere i miei pensieri. Le rincorro ma si perdono. Sono tre anni che sento, perenne, questo vuoto nella mia testa. Dimentico tutto. Due anni chiuso in casa a combattere con un corpo a metà. Che disastro è questa vita. Non leggo più, non riesco a scrivere, non posso fare nessuna delle cose che un tempo mi piacevano tanto. La bellezza ineguagliabile di un giorno assolato senza nubi, l’abbraccio rassicurante di un azzurro mare pacato mi viene raccontato. Come è bello ed ineguagliabile il mare azzurro, come ricorda il bacio della madre come distrae da te preoccupazioni ed affanni,


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come ti avvolge d’ovattata protezione! Quando l’uomo si congiunge col mare due entità si fondono in un tutt’uno. Il mare sereno trasferisce la sua forza e da sollievo. I colori si mischiano, gli odori di salsedine diffondendosi generosi ricoprono ogni cosa che vive. Tutto si rianima, la natura, le piante, gli animali, ogni uomo o donna che popola il pianeta. I colori, gli odori, la salsedine, la voce silenziosa della divinità azzurra da speranza. Si torna nel ventre della madre.

La fede e l’inganno. La vera e la falsa religione, la fede e l’inganno. Uno, due, tre, quattro preti più volte sono stati chiamati per dare frasi d’amore e di speranza, per offrire il conforto della lieve parola. Avevamo chiesto un segno, solo un segno di presenza e di umana, cristiana solidarietà. Un aiuto per fronteggiare la sventura, per unire la famiglia, per cementarla nel dolore. Il senso di religiosità di mio padre e mia madre, esaltato e difeso quale muraglia estrema nelle supreme prove, violato e calpestato. Invece silenzio, assenza, mera indifferenza. I quattro preti, che pur l’avevano promesso, più che la religiosità, invisibili, hanno scelto la fuga. Li aspettavamo, non sono venuti, non si sono fermati, non si sono visti, per loro irreligiosità hanno fatto cadere infranto lo spirito della vera Religione di mio padre e mia madre.


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(Mario dell’Acqua, Mario Carotenuto, Pietro Lista, don Ciro Torre: tutti assieme, a mercatello, hanno lavorato al restauro della chiesa di don Ciro Torre. Ciro Torre ed io ci conosciamo dall’infanzia. Ho un bellissimo ricordo degli anni passati trascorsi insieme da bambini, quando Ciro già cominciava ad avvicinarsi al mondo religioso.)

Il Ritorno. Che disastro è la vita! Un medico, due medici, tre medici, quattro medici, tutti i medici sono venuti a turno. Mi hanno guardato, mi hanno tastato, mi hanno sorriso dicendomi che tutto andava bene!!!! Ma di quale bene parlavano? Tre anni e quattro mesi. Io so cosa sono stato e cosa sono ancora adesso. Io so cosa è accaduto. Ho ricostruito, attimo per attimo, tutto ed ho coscienza che il calvario non si è concluso. Il peso che mi porto nel cervello è di mille e mille anni fa. Altro che bene!!! Lo scendere le scale impedisce l’equilibrio; l’orientamento svanisce e sono perennemente sospeso. I medici mi dicono un cumulo di menzogne e col loro goffo bofonchiare mi appaiono tanti azzeccacarbugli. In verità non sono in grado di scomporre l’ululato, di contrastarlo sconfiggendolo e mettendolo definitivamente a tacere. Il mostro, meraviglia del mondo, si è messo in cammino duemila anni fa.


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Ha scelto con cura, senza ostacolo sul suo procedere, una dopo l’altra le sue vittime sacrificali. Ha percorso spazi infiniti, interi oceani e continenti, ha conosciuto usanze, culture e tradizioni. Le ha subdolamente incorporate in sé accentrando nelle sue mani increspate tutto il potere ed il sapere delle ere che si sono succedute, del giorno e della notte, delle albe e dei tramonti. La stolta presunta civiltà, il fallace sviluppo della scienza e della tecnica, di cui si vanta la casta sacerdotale nuova, al suo cospetto è moscerino invisibile. I medici, meraviglia del mondo. La loro teatrale rappresentazione nelle cicliche finzioni è ridotta a ridicola farsa.


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Piero Lucia “D’oro e d’argento riannodati i fili, lacerati e consunti, della mia generazione, in mille rovi sparsi. Vedo Luigi. Mi guarda abbozzando un sorriso, dolce e profondo come lama, con lo sguardo che dell’interlocutore l’anima scruta. Lo sguardo di chi è ormai alla saggezza vicino, quasi del tutto pronto a interpretare il mondo, in esso distinguendo il faceto dal serio. Il sorriso è uguale a tutte quelle volte in cui ci si è incontrati. “Poesie, solo poesie”, mi dice. “Leggo e scrivo solo poesie”.” FINE

Luigi Giordano


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Un tempo mi legavano le mani

“L’OCCHIO SOLO L’OCCHIO” Ciliegie e rose Buona notte, Signor mio, buonanotte. Gli alberi le case: Dio me lo perdona. Usciva dalla strada un bambino forse uomo, lungo il viottolo alberato di ciliegi e fiori vide gli occhi di sole. Un contadino vangava un orto, sollevò il capo e vide il bambino forse uomo, che volava, volava, volava. Ciliegie e rose, frutti e fiori, pesca e violetta. Non dormiva mai il bambino forse uomo. Ad un certo punto il suono della campana potente aleggiò forte sulle case. Tremò la terra. Quel che accade adesso è un mistero. Volò sull’albero e prima che fosse notte il bambino forse uomo, armato di dolore, pianse per mezza via. Quella notte gli uccelli si divisero. Egli allora guardò le sue mani,


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e la paura di cadere l’afferrò giù. Il bambino tuonò:” Siamo scesi giù verso l’infinito, madre mia, gli uccelli che gridano salvezza ci attendono...”

L’occhio, dentro l’occhio.

Canne, appesa per le reni, è scesa guidando la mia macchina.

Vincenzo Vanacore: un bel giorno succede a te, lo scopritore di una banda! Allegria stasera, Le viscere della terra insieme cantiamo esistono per guardarmi: un inno alla Gioia. le viscere della terra sono in sommossa. I fuochi d’artificio dipingono il cielo. Un fragore Vincenzo questa sera nella discesa ripida ho le scarpe bucate, è un suono sordo. i pantaloni gialli, la giacca penzolante Due corpi nudi tra dita e dita. si amavano lungo il pendio Le mani sul cappello: della salvezza. non ti ricordi più? La giovinezza è fuggita via (I corpi avvinghiati appartengono senza un lamento! ad una vista oscena. Ricordati di me! I corpi senza veli appartengono alla macchia: i corvi, quelli piccoli e quelli grandi, furiosi cominciano a gridare:


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trasportati dal vento, lottano tra i corpi nudi stretti nel triangolo infernale.) Canne, molte canne, fitte da non lasciar intravedere nulla. L’uomo e la donna, sfigurati, cadono sui resti inermi. Lo stormo infinito, li divora a viva forza. Assaliti da corvi piccoli e grandi, avviliti e macerati, si confondono nella forma delle carni. La macchina è scesa giù e poi su come fanno i serpenti a sonagli. Le canne morte non lasciano filtrare luce che sveli un inganno. Un serpente agita la coda. Nelle viscere della terra, i corpi assaliti, si scontrano come vermi attaccati sulla pelle. Il pavone nel triangolo diabolico è sopraffatto dall’impeto dei corpi. Canne, soltanto canne: un tunnel che mai vedrà la luce. La macchina avanza su e giù per il monte Dal Passo


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e mai ne uscirà. ( I corpi sprofondano. I corvi piccoli e grandi, scavano nello spazio infernale. Non è rimasto niente, scavano, scavano sempre, non è rimasto niente.) L’essere laido e l’altra ancora, sono polvere senza peso, gli uccelli vanno a morire. Tutti e quattro, e cinque, e sei, siamo rimasti lì a piedi nudi. Canne, soltanto canne e gli occhi asciutti. Siamo saliti su fino all’inferno: i corpi nudi si confondono nella macchia, i corpi nudi sono spariti. Canne, soltanto canne, gli occhi che parlano da soli. La macchina non riesce più a passare: le canne chiudono ogni varco. A fatica inverte la sua rotta e finalmente sale su per la riva: le canne folte ondeggiano con impeto. Svelata: trapela su per le mura, fino a sfiorare il cielo. (E’ la strada, è la strada quella che io abbandono!)


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Un presagio sovrannaturale: riaffioriamo dalle fitte canne. Salvezza? Rovesciati, senza più parole.

Nilla, Nilla ed Io. ( Nilla ed io: le parole si rovesciano sul cielo, scendere e salire: un viaggio interminabile. (Ascetica visione.) Sporco di fiori s’innalza fino al vento, l’aria si è fatta queta: Nilla ed io eravamo sperduti nei pensieri. (La morte si è dissolta in uno spazio. “Un cantico d’amor”, e poi silenzio. “Silenzio agli occhi miei, persi nel nulla.”) Nilla ed io, “sei il mio contrario”: taciturna udivi l’eco della fantasia. (Una risata Sadica, nei secoli dei secoli.) (Non senti l’eco della nostra voce?) Dorme su questo letto solo, assopito. Non riconosci più le vecchie stanze. Si è svegliata da una partita a carte. Il fuoco è maldestro: il sogno che ho fatto, manca alla fede mia. Soltanto gli occhi parlano, guardano da vicino.


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E’ scesa verso il mare. (Doppio senso, doppio senso) E’ una donna estrema. Sei caduta. Non riesco a darti pena ed a staccare il mio sguardo dal tuo. Il mio corpo è la, sulla spiaggia nera. Ho conosciuto l’intenso estremo. Combatte tra le onde Angelica e spossata vince l’irruenza delle acque. E’ trasportata dal vento. Fievole e sommessa vola sui campi, il suo bagliore accarezza la dimenticanza. Immobile, lascio che il sogno continui. Il Sole, cammina sul mare, avanza severo verso di me. Un pensiero lambisce la sua mente, mi afferra sulle scale e mi trascina a morire. Vola leggera: leggera disegna forme nel vento. Le sue labbra urlano di gioia. Il suo canto intimorisce il mare. La terra, il mare, gli alberi, i fiori si muovono nella loro abbattuta dissonanza. (Doppio senso,, doppio senso) Rotte le funi, la barca prende il volo: apparenza che mi porta giù nel fondo. “ La fuliggine divina, imbavaglia il tuo respiro. Bocca a bocca, cuore a cuore: uno sparo è già accaduto”. Bella come un ciliegio, la chioma argentata,


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le mani bianche, bagnata di sole, riflessa sull’acqua: (doppio, decisamente doppio.) Una lingua di fuoco,, domani è già avvenuto. Eterno Sole, sono passati gli anni e dalla finestra la lucciola a riposo. Nella stanza è come uno spazio spuro. Tu non parli, tu non rispondi al gioco. Una camicia nera, è strappata dal grido rabbioso. Io e te siamo stati all’estremità del cielo. A fatica avanzavamo tra i rovi, mano nella mano, nell’infinita scalata, siamo arrivati in cima. E poi precipitati giù fino a morire. Mia gioia, mio dolore. Il camice d’amore, è sparito per sempre. Sole, il camice d’amore è diviso a metà. in un letto bianco, dormo per te. Per me e per te, che soli, senza dimora, tocchiamo la terra. Ho sognato fino a morire.)


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Il gallo non sapeva dove fosse caduto: non sapevo cosa fosse successo. (Le mani bianche morte sul confine). Il mio corpo spaccato in due. Il gallo pieno d’amore procedeva barcollando in un vorticoso ondeggiare di tutti i miei sensi. Il mondo è caos indiscriminato. Le strade si accavallano, non posso fuggire altrove. Dormo nella capanna. Il sole sembra sterminato dalle grida. I sicari si colpiscono al cuore, cado sotto i colpi dello strazio. Dormo sul letto nero, le spalle forti proteggono il viso. La talpa nera abbandona il mare. Il pescatore tira su la rete vuota. Il male irrompe sulla strada. Un fuscello, come trapano, s’addentra nella testa. A faccia in giù, soffocato nella polvere gialla, ho visto il cielo e la terra scorrere nella mente. Sono un naufrago anch’io. Annaspo davanti ai marosi. La benda mi trascina nel vortice spettrale. La benda è sparita dalla faccia della luna. (E’ scesa giù a morire: il vestito nuovo è una salvezza.)


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Una schiera infinita di rane mi confonde. (Gli angeli suonano per me.) La volpe grande mi tormenta. Le castagne vuote cadono al suolo. Castagne vuote si schiacciano sotto i passi della strada. I nomi risuonano quale eco di bussola piana. Il ramoscello d’ulivo è sporco di fango. Un vento schiaccia le case. E’ ingiallita la luna. E’ notte, è sempre notte, i lupi ruggiscono sul letto d’agonia. I lupi, soffocati, tornano alla casa del padrone. Il gallo si mette a cantare sul fiume in piena. Va contro l’acqua. Il corvo si mette a gracchiare nel vuoto del proprio cammino: è caduto come un sasso. Un uomo solo col ferro in mano è ingannato dal vento. E’ sparita la nave dei miei sogni. Dal mare vengono le stelle. E dal mare sognano le ali per rincorrere il cielo.

L’occhio è nell’incavo.


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Lelio mio (no, Non ti scordar di me!) Lelio, un’altalena che grida: i tuoi quadri raccolti sulla neve: (una ventata così non l’avevo mai patita) noi siamo stati lì a nutrirci di pane: Lelio mio, la strada è in discesa e nulla ci può fermare: (Lelio: lava le tue mani, lavale dal delitto) siamo stati lì, in dormiveglia e sonno:

( La strada che mi porta giù s’interrompe di colpo. La strada è un’abitudine incessante: abbandoniamo già la nostra via. Lelio mio, il drappo agitato è stato preso.)


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Lelio mio, ogni volta ti incontro sulla strada: (ormai la vita è ostile, Lelio, abbandona il mio senno) soltanto rose, continuamente rose, intorno a te: Lelio mio, è sparito in una coltre di stelle: (Lelio mio, il dolore è già venuto) Lelio mio, un giardino fiorito e tu in mezzo ai campi: (no, Non ti scordar di me!)

(Frammenti)

1 Senso oscuro, nella città


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fantasma. Oscuro senso. Dopo la notte il giorno. La città s’è svegliata. - una macchia d’idea - sotto le frasi antiches’è svegliata cantando passo dopo passo. È arrivata col sole conchiglia piena di luce primula bianca e tu: “Tebe sveglia dal sonno” Gli alberi sono fioriti le finestre sognano Dio.

(Sei partito grande come il sole. In quel tempo le altalene correvano anelando. Una macchia antica sotto le coperte nuove.) (È un tormento, essere tranquilli. Laio è scappato Giocasta s’è impiccata Edipo è maledetto.) Ci saranno fulmini e saette? Ci sarà l’oscurità dei sensi?


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Vento, soltanto vento.

(Frammenti)

2 Splende il sole e tutto si fa amaro. Oscuro senso Dopo la notte il giorno. La città s’è svegliata. Si è svegliata tremando passo dopo passo ritorna a trascinarsi. Riprende il suo moto. Un giardino di marzo solo, impietrito e afflitto. (L’albero chiude gli occhi: non ricordo quando nel mio grato passato.) (Non ricordo quando, attaccato alla finestra, mi sporgevo, boccheggiavo,


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lì sul davanzale. Non ricordo quando, ininterrottamente guardavo giù fino a cadere, a morire.) (E’ un tormento, essere impassibili. Laio è scappato Giocasta s’è impiccata Edipo è maledetto.) Ci saranno fulmini e saette? Ci sarà l’oscurità dei sensi? Fiato, soltanto fiato e poi scompare.

(Frammenti)

3 Gli alberi sono sommersi. Abbattuti, violentemente al suolo. Oscuro senso. Un sole esile così. Un sole grande e poi,


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(potenza degli Dei) siamo venuti al passo non ricordo quando, appeso alla finestra precipitai nel vuoto.

Una cristiana memoria mi assale e mi trascende. Una spoglia di vita, un silenzio mortale.

(“Leggendario, quasi fosse eroico. Sfrontato, sul giumento nero, come un leone, impugna la sciabola trafigge chiunque si para davanti.”)

(È un tormento essere presenti. Laio è scappato Giocasta s’è impiccata Edipo è maledetto.) Ci saranno fulmini e saette? Ci sarà l’oscurità dei sensi? Neve soltanto neve e poi tutto sommerso.


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La lunga notte sogno (E’ un mistero di fili spezzati. Un silenzio che avvolge le cose.) È un fatto di sangue. E poi svanisce. Sogno che sei qui a gridare su una scialuppa nera.

(Alle sette del mattino, un sole pallido e screziato, risuona come spari. L’eco dissolve il suono potente del rimbombo.)

Mi riparo come un soldato, dentro la casa: nell’atmosfera cupa, un brandello di me. (Napul’ 44: le figlie del soldato si uccisero senza rimorsi). Pure io sono andato a picchettare il castello dantesco. Pur io sono andato a morire. Il pane è smorto. Un rumore mi attrae: dormo e tu sei là


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- senza patria e senza soldi sparare è morireL’avventura di questo piccolo uomo è vivere combattendo. Pur io sono andato a vedere le lancette dei sogni! (Napul’ 44: appeso al tram salgo alla fermata: tu sparisci. I tuoi capelli biondi, come serpi avvolti, strisciano per baciarmi. Io incantato, sgomento, li osservo nel mio sogno.) (Se questa è vita. Le lancette corrono lentamente, esisti davvero? Un salto all’ostacolo). (Napul’ 44: corridoio bruciante come l’acqua: per tutto il giorno, vacillare, cadere al suolo, il corpo si frantuma. Ogni giorno che passa la scena si ripete. Ombra per ombra qui dove la vita è sospesa). Ho un corpo solo! Ahimè un corpo solo: la vita è un’altra cosa


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si rivela all’infinito. Oltre la siepe c’è il tramonto, oltre il tramonto il nulla. (Napul’ 44: il soldato americano, forte, dai capelli biondi, sparò una fucilata. La guerra finì, morirono tutti. I confini dei due fronti, demarcati dal fil di ferro, furono distrutti). Ho sognato di volare !

Mattanza forte. La casa è un rifugio. Il balcone della cucina barcolla, per questo gioco a metà. E’ avvenuto di colpo: l’impresa vale l’essenziale. Là sulle panchine del bar scendono lentamente, (Corpo, Anima):


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il crocifisso a metà. (Il quadro che volevi si confonde: l’occhio è una pallida idea, un giardino sommerso.) L’occhio è un’altra metà:

Il pullman graffiava tutto il giorno. Tutto il giorno graffiava col martello. Il pullman graffiava e dava sogni. “Avanzava felice come un Re”. Il martello picchiava là sul muro. Sul muro grande, forte, uguale a carri. Un serpente attanaglia la sua preda. L’Entità oscurava le ginestre il sole si spegne dietro i muri. L’uomo è rimasto solo.


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L’uomo è sparito dalla faccia della luna. Il pullman graffiava tutto il giorno. Tutto il giorno graffiava col martello.

Secco come l’olio, il viso scavato. Si è addormentato quasi per incanto. La vita è dietro di noi. Camminando, a poco a poco, la notte si fa cupa. La porta bianca, e tu coglievi il mio giardino. In un luogo smarrito: le volpi dormono sparute.


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Un fosso, l’altro fosso una mestizia umana. (L’ora non è. Non è più l’IDEA.) Limpida, agli occhi miei, la casa è spoglia. Spoglia di fiori, la casa è triste. Arido di parole il viso scavato. Il volto cereo, le stanze vuote. Cent’anni son passati. Nell’oblio il respiro rinchiuso, incatenato. Cent’anni son passati. Logoro di sventura il viso scavato. Ora mi è rimasto il sole, ora mi è rimasto il canto. Morire nelle notti silenziose abbandonare la terra abbandonare il mare abbandonare ogni cosa che nascondo. (L’ora non è. Non è più l’IDEA.) Gli sguardi ad occhi nudi lentamente si spengono sui canali.


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Sono sceso in fondo al pozzo e non restano che sogni. Vago per antri e antri col fucile sulla spalla: quando si muore piccola cosa è rimasta lì: quando si muore è rimasto l’osso.

1 (Frammenti) Tutto si muove. Il cranio scoppia, tutto si muove. Gli alberi, le case, tutto si muove. Dio mio quante volte ho visto il “sole a mezzanotte”!


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Due anni e metà corpo non si muove. Metà corpo è una fiumara d’azzurro che guarda il mondo.

2 (Frammenti) Mangio, bevo, dormo. Metà della mia persona è morta. Non parlo, non scrivo è già accaduto a me, il cervello esiste? Metà della bocca. Carità di Dio: un cervello che funziona a metà. Un cervello di Dio. La parte funzionante è morta. Carità di Dio.

3


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(Frammenti) Non ricordo quando: attaccato alla finestra, muso a muso, fuori e dentro. Non ricordo come afferrare i pensieri che mi attendono. I pensieri rallentano i pensieri. Il mio nome è un giardino diverso: lo spazio è fuori dal tempo: il mio corpo è fuori da me. Dall’altro lato una rivelazione tragica: il mio nome è scomparso dall’idea. Raggiungo, pure io, questo spazio. Pure io Vivo. Solo, aggrumato, nascosto: non ricordo dove.


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1 (Frammenti) Oblio, soltanto oblio. E null’altro. Inclinato su me stesso, le due metà si aprono e crollano insieme.

2 (Frammenti) Liturgia del vento si dissolve. Un drappo è stato dato alla pace di Dio. Inclinato come, quando: non so spiegare quanto. E’ il destino di Dio.


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3 (Frammenti) “Un gentiluomo che passa questa sera è un blasonato. Un gentiluomo che passa questa sera è un nobiluomo. Il dotto ha un cilindro in testa e mostra la sua sapienza. Un cilindro strappato dallo strazio, abbandonato lì in un angolo di via.” Sapienza mia, in quale altro luogo del mio corpo sei precipitata nello spazio?


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L’occhio. Nel profondo, l’occhio.

Un giardino sul mare, ruotato di colori e d’aspra pena, ogni sera l’osservo. (Punto estremo: la vita.) Mi chiama “Che fai vecchio relitto?” T’osserva.” E non capisce che sei mio soltanto mio.” “Qualche passo dovrai pur fare vecchia carogna.” “Sei partito come fossi un Dio.” “Non me ne volere. Io lo so che domani starò male.” “ Vieni qua vecchia carcassa, per te domani è uno zampillo di gioia.


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1 (Frammenti) A che punti parabolici ci seguono? Fino all’eternità? Fino al cenacolo superbo? Fino all’età della vita?

2 (Frammenti) Un gemito d’amore passa e ripassa. Il pane che mangiavo olio santo: la durata del vino olio santo: sotto il sole d’agosto il cielo sembra equivoco


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3 (Frammenti) Sognare un battito di ciglia un viluppo essere presenti: quello che voglio è quello che hai creduto.

4 (Frammenti) L’onda è sparita in mezzo agli occhi.

5 (Frammenti) L’arca


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mi ha penetrato gli occhi: l’arca mi ha penetrato il petto.


67

Astro del cielo sei tu che mi hai fatto morire: ora per ora sta sempre lÏ. Astro del cielo, sei sempre tu? Le notti trascorrono in silenzio. L’estate non la riconosco piÚ. Il cielo non ha senso, le notti quasi quasi mi addormento per gioco: Astro del cielo

Astro del cielo i giorni passano leggeri come un soffio di vento. Sparisco nelle nuvole dimenticando il mondo.


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Astro del cielo quando sarò vicino al sole? Quando i miei occhi torneranno a vedere? Astro del cielo quando questa fasciatura scivolerà via dal mio viso? Il mio occhio è spento, Il mio volto è bendato: in cinque stanze, vivo rinchiuso all’origine del cielo. Il mio cervello è là sul bordo della strada: Astro del cielo.

Astro del cielo un sorriso, soltanto un sorriso e poi svanisce.


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Ho sognato di volare. I cavalli fuggono oltre la siepe. (Coro

Verso la libertà, quasi remota!)

Le parole mi assalgono innalzandosi oltre il possibile. (Coro

Verso la libertà, quasi remota!)

(Quanti cieli, quanti mari! L’illusione passa e ogni cosa fugge.) (Coro

Verso la libertà, quasi remota!)

Nella volta celeste ho percorso la spirale sconfinata. Dalla cima degli alberi infiniti ho visto il sole. (Coro

Verso la libertà, quasi remota!)

Ho sognato di volare, la mia metà (splendida parola!) ciondola nelle tenebre, l’altra metà un vascello di Dio.


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(Coro

Verso la libertĂ , quasi remota!)

Ho sognato di essere un Messaggero Divino.

Parte Prima


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La faccia bruna, l’occhio è sceso sul viso impiccando gioia e dolore. Notte dei tempi dalle mani aguzze di dolore, un paradiso e più nulla. Cielo d’agosto. Sembrano tempestose là sul vento, le notti insonni, eterne. Ogni giorno che passa è un brandello di vita senza tempo, uno straccio senza vento, un deserto spettrale. Le mani monche, le gambe tronche, il corpo nudo. Le strade deserte, perse dal Nulla, rovinano in fuga sparite per sempre senza ritorno.


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“La terra questa sera è alta come il grano” Dormirò. In un letto di mare, la scialuppa in balia delle onde a fior d’acqua fu distrutta dal mare. Dormirò. La campana è suonata, dormirò fino a quando all’istante giungerà la notte dei Tempi. Dormirò. Tra le onde, in un cielo di mare, una barca rapita dai flutti. Il ladro: una pietra all’orecchio. Dormirò. Fa risveglio, razzia d’ogni cosa. Fa risveglio, imprigiona la vita. Una guerra a colpi di reni. Dormirò. Lamento di stelle cadenti. Una voce tuonò tra le righe. Un sospiro e d’incanto la neve. Dormirò. I vestiti stracciati con forza,


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gli occhi penetrati sul petto: la morte travolge i respiri. Dormirò. L’ingordo danza sui corpi: malvagio è appagato di morte. L’infido avvolge i corpi caduti. Dormirò. Sul letto maligno e la spada trapassata sul cuore è la morte è la morte racchiusa nel legno. Dormirò. Bianco come carta sul letto un colpo di brando infuocato il corpo squarciato in brandelli. Dormirò. Il destino del mare abissale sprofondo nel baratro scuro scompaio tra i flutti furiosi. Dormirò. (Lo so che svanisce nel mare: la vita è soltanto un’idea. Gli uccelli scomparsi dal male. Trent’anni e la vita è piegata.)


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È venuto con gli occhi rampicanti È venuto con gli occhi di sole È venuto furtivo come il cielo E’ venuto fuliggine divina E’ venuto silenzioso e scaltro E’ venuto con la coltre sua segreta E’ venuto sul finire del tramonto E’ venuto cantando senza tregua E’ venuto affondando e riaffiorando E’ venuto apparso per incanto E’ venuto

A Mario Marino: l’acqua, molta acqua. Ma che mare c’è?


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greve sussurrando

E’ venuto immolandosi nel gioco

(Ti sotterra: per un lungo gioco.)

Giuliana degli spiriti: un abito da sposa. (Uno squarcio ferito, una spada che attraversa il fondo). Giuliana degli spiriti: con la mano bianca, vola via dalla finestra: un solo tonfo d’ala e poi si spegne. Giuliana degli spiriti: una camicia strana. (Un colpo secco: sparo. E’ avvenuto tra il sogno e la ragione). Giuliana degli spiriti:


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(rompe la falce, rompe le mani, rompe il sorriso, di chi la vuole). Giuliana degli spiriti: doppio volto di verità e d’inganno, ti lusinga e ti perde. Giuliana degli spiriti: non sei tu? ho avuto solo una visione? è così facile ingannarmi? Giuliana degli spiriti: nel mezzo delle onde tu sei nata, dall’alto hai guardato l’infinito, pensando di comprenderlo da sola. Giuliana degli spiriti: (Doppia natura. Doppia perfidia. Doppio legame. Doppio distacco. Doppia viltà. Doppio coraggio.)

La culla cantava tutto il giorno. Tutto il giorno cantava col cappello.

A Beniamino Venosi: un tempo, l’arca di Noè navigava contro


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Versi d’amore dondolava e cantava, per me, solo per me, sospirava cantando.

il mare. La sua ombra è in discesa in mezzo al mare. Piccolo veliero vai con Dio.


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Questa sera ho gli uccelli di mare. La formica ha mangiato la mela. Un lampo: la nave è sparita. La nave è sparita d’incanto. La montagna sprofonda per gioco. Il bambino morì dentro il fuoco.

Parte seconda

Un giaciglio di rose Un giaciglio di rose su questa terra addormentata: Simone mio non credevo che una tempesta marina, laggiù

Simone mio è già mattino le cicale cantano un dolce richiamo e tu sei là. La nave che mi porta, io soltanto io


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nel mare rosso di colori, potesse travolgere l’arca del sole. Un bel giorno vidi occhi marini, Simone mio laggiù ti sei addormentato nei fondali. Simone mio lassù nel bosco silenzioso, sulla coperta di penitenza, lassù sulle colline del tempo, lassù dorme la luna piena. Simone mio dormi supino. Il mare ti ha baciato, il sole ti ha sfiorato. Simone mio svegliati e rendimi felice.

in alto fino al sole. Dove sei Simone mio? Dove sei?


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Un sole grande il mare è un oceano- istrice. Io mi ricordo una malattia d’amore. Un nome sconosciuto. Mi ricordo il dissolvimento di ciò che mi era intorno: la malattia d’amore è già scomparsa. Il male d’amore è già sparito. L’uccello è preso a mare. Come la fiamma brucia nel mio letto: alto, magro, impetuoso: chi sarà mai?


1

Le parole dei nostri vent’anni erano poche e modeste: inchiodavano il mondo. A vent’anni dicevamo “ abbasso” il più delle volte, “evviva” in rare occasioni. Non era un linguaggio molto elaborato, il nostro. Eppure ne leggevamo di libri e di giornali. In pubblico erano Marx, Lenin e Mao, qualche volta Gramsci le nostre citazioni concettuali. In privato, con vergogna a noi stessi un lirico e, molto spesso, la via maestra un poeta di lacrime e sangue della nostra educazione sentimentale. I labirinti delle possibilità semantiche, le ambiguità dei significanti, la irriducibilità dei significati: versi da una magia possibile. “…per dirti quanto è buio il mondo e come ai nostri sogni di libertà s’accenda….” Cerchiamo mondi più chiari da questo osservatorio dell’ottantadue. (1982)

Apri quella porta. “Taglia il telo, liberami dal sogno!” Un boato: taglia la terra sotto i piedi.


2

Le sfere rosse, enormi, slittano sul mio corpo. Le barelle corrono inesorabili, veloci, come il vento. Un soffio di vento: è già avvenuta: la finestra appesa: un tonfo secco: poi, solo parole mute. (Dove mi porti, alle quattro del mattino? Dove mi porti?) Un tunnel. Barelle tutte uguali. La testa è schiacciata in fondo al pozzo, cervello al limite dell’esplosione. (Ascensore, piani infiniti, sala radioscopica, Tac, tre camici senza faccia. Dieci giorni, quindici giorni, venti giorni. Buco nella vena, male alla pancia, gonfiore.) Latte, tè, orzo: ma qual è il latte,


3

qual è l’orzo? Veglia e sonno, sonno e veglia. Alle otto del mattino gli uccelli gridano: “Non c’è più il sole. E’ scoppiato l’inverno.” Camera da letto come fossi un dormiente. Latte, tè, orzo: ma qual è il latte, qual è l’orzo? La testa sempre uguale, su questo letto sogno. Tè, orzo, latte. Buco, soltanto buco, poi, soffitto della nostra casa. Gli infermieri, sembrano uccelli fatti a pezzi. Uno due tre. Uno due tre. Uno due tre. Ho guardato il profilo delle cose, la mia metà è un vuoto a perdere. Sirena passa, e il mio corpo è là: avvinghiato di dolore. Una famiglia bianca, come un sudario.


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Latte, orzo, tè. “La sirena d’aprile, ogni cosa strappa i capelli d’oro al vento, alla tempesta”. (L’ambulanza è una camera a gas. La sirena squarcia le pareti. Un tronco inanimato di dolore). La sirena, metà donna e metà pesce, mi trasporta tutto il giorno. Io, con le gambe aperte e non uguali, a correre nel vento e poi addormentarmi così, senza clamore.

A Maria Cerri Torneremo nella tua casa piena delle tue voci e degli inviti dolci dei tuoi pensieri. Ti troveremo bianca di ascolti e azzurra di sguardi, a palme aperte, com’eri nelle sere di Pasqua davanti all’uscio ad aspettare tutti e per ognuno un sorriso d’incanto e d’ironia torneremo tutti e tutti insieme ti porteremo i fiori bianchi e gialli degli aranci di primavera a raccontarti di noi, Maria, di tutti noi, delle nostre speranze, delle attese, delle nostre sconfitte. E tu ci ascolterai come ci ascolti coi tuoi ragazzi intorno a fare giostra allegra tra le stanze.


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E ti diremo grazie che ti vogliamo bene come si ama solo chi si fa pane buono per gli altri, e tu per noi.

FINE Luigi Giordano

Un bel giorno

A Nerella e Alfonso Siamo qua, ostinatamente siamo qua. Dalla foce scorre l’acqua fino al fiume.


6

Nerella Alfonso siamo qua ostinatamente qua.

Fabio Negri, 22 anni, obiettore di coscienza, una persona che ammiro molto. Assiduamente mi ha aiutato in questo mio lavoro. Gaetano De Donato, 24 anni, obiettore di coscienza, una persona che stimo molto. Tutte le volte assiduamente lavorava con me. In silenzio, davanti al computer, leggero come fosse un cristallo marino. Siamo riusciti a capirci fino in fondo in un lungo lavoro di ore ed ore, per veder finalmente ultimato questo libro. (Per tre anni, quattro ore al giorno, mi sono dedicato a questo libro.)

Due sommi si dividono, uno muore, e l’altro si lascia attraversare da uno sciame di larve. Lentamente lo uccidono


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“La morte mia è l’idea stessa, la morte mia è l’ultimo sorriso”. Luigi Giordano

1 Una pioggia che non finiva mai: sul trenino dei contrasti umani avvinghiato, ravvolto sui dolori. Le castagne tornano a svelare un proprio senso, un segreto. Lungo il bordo, un argine apparente, trovo la fine di questo mio calvario. Le castagne anchilosate, morte, in un cesto di vimini, viste in un lampo, divenire vive e corpose. Mio padre con l’ombrello, inflessibile, nella tormenta va contro l’acqua. Contro l’acqua, lui. Si volta e mi rivolge lo sguardo, io, impietrito dal terrore, nascondo il viso sotto le coperte. . .


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(Le rose, in quel tempo, profumavano di maggio. Ci arrampicavamo sulla scala per cogliere i boccioli. Gli alberi fioriscono, il prato è il mio letto, e il cielo sopra di me è sconfinato. Mauro, Renato ed io andavamo tutti i giorni in fondo al vicolo per vedere i germogli, grandi e piccoli, aprirsi lentamente. La cappella è là: magica, contemplativa, ascetica. E’ un luogo in cui lo spirito di ognuno trova rifugio). * * In otto, dormivamo stretti stretti, in una stanza angusta, senza luce. L’acqua, silenziosa, lambiva quasi i nostri letti. Mio padre, sul ciglio della nostra casa, urlando ci destò: “Sveglia, sveglia! L’acqua è salita.

*


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Bisogna andare via!” In fila indiana, con l’acqua alle ginocchia, lentamente salimmo i gradini. La luna piena sembrava scomparsa dalla scena. Mia Madre, faticosamente saliva. Mio padre la sorreggeva, stringendole il braccio al petto, baciandola teneramente. . . . (“Mia madre è sopraffatta. Distesa sul letto,il suo corpo compresso, tra quattro mura. Il legno,intriso dal dolore,incendierà il suo corpo”.) . . . Gerardina, mi prese per mano, mi strinse forte a lei, impaurito gridavo: “Si muove, la casa si muove!” La frana, scendeva giù dalla montagna. In ginocchio, imploravamo la fine


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di quel supplizio. . . . (“Mia madre, col cappello in testa, cerca la stanza. È accasciata, con le vene perforate. Il vento ha spazzato via ogni ricchezza”.) . . . (Palazzo grande, forte. Mi ricordo la scena: seduto a fianco al tavolo, un cagnolino di “gesso”, accucciato in grembo. Quattro germogli in fiore, si salutarono senza “pietà”. Quattro aquiloni nel cielo in tempesta, travolti dal mare.) . . . (“Dov’è andata mia Madre? Il suo vestito rosa all’orizzonte, una perla brilla sul suo seno. Il sereno è un giardino di mare”.) . . . (Una mattina di sole, piccolo, su un grande prato verde. La vidi passare, sparire all’orizzonte. Il mio male fuggiva via con lei.) . . . (“Mia madre,il suo cuore sembra battere sempre più lentamente.


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E’ alta, la sua figura enorme, incombe su di me. Nascosto sul gradino della scala, la guardo intimorito”.) . . . (Mi ricordo la sera più antica che possa immaginare. Un vestito d’azzurro, come se fossi io a mostrarlo: sette anni io, a cogliere le mele. Frutta, fichi, la rugiada di marzo. D’estate, su per la salita, lasciavo briciole di pane alle formiche.) . . . (“Mia Madre è un ritratto eterno. Regna sul mio tempo. Cosa farò degli anni, cosa farò di me, cosa farò di tutto?”.) . . . (Fondaco bianco nella nostra casa, basso, stretto, tetro. Due genitori, sei fratelli, si allontanano verso le scale. Il letto, come uno splendore:


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giallo, alto, bianco. Un cagnolino, rosa, alto, rosso, lo tenevo stretto tra le braccia. Il cagnolino era aggrappato a me.) . . . (“Madre mia, nella mia casa costruiamo le prime mura. Precipitano ai tuoi piedi. Le candele sembrano spettrali,le finestre sbattono nel vento, la porta spalancata non lascia entrare nessuno.”) . . . (Arturo cerca il pane: è una risata amara! Un rumore! Scorgiamo la testa: “Un cavallo! Un cavallo!” Alto, bruno, la criniera al vento. Galoppa impazzito, furiosamente, avanti e indietro. Sono scappato su per la collina, spaventato dalla sua enormità.) . . . (“Madre mia,non senti il rumore dell’acqua che cade? Non senti un frastuono venire dal paese in tumulto? Viso a viso, l’idea stessa ed io siamo diventati una sola persona.)


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. . . La montagna fa orrore. A mezzanotte, suonano le campane. Un lamento sotto i ponti crollati. A mezzanotte, gli uomini, vanno verso l’inferno: giungono urla di dolore. Lo vedono, le gambe attorcigliate. Vent’anni, aveva. Strappato per le spalle, la gamba fracassata, le spalle curve, stremato dalle lunghe ore di agonia. Lo presero sulle spalle. Lo condussero ai bordi della strada. . . . (“Mia Madre, tutto il giorno, prese la terra delle montagne. I miei fratelli dissero: “Padre mio, la montagna è sparita. Guarda, è l’alba, la casa si è divisa in due metà.”) . . . (I lunghi capelli ricci, un sorriso che rapisce, sfrontata,


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si muoveva nell’aria: sotto casa, col gesso bianco, aveva disegnato “la settimana”. Mauro, Renato ed io, incantati e sognanti l’osservavamo. (Ero innamorato di Filomena e tutti i giorni guardavo verso il suo balcone. Bella e distaccata, non usciva mai. Bella e distaccata, la “vedevo” sempre.) Mai prima era stata così vicina, mai prima, col suo sorriso, ci aveva sfiorati.) . . . (“Siamo scesi giù. Io e lei perduti, in questo Paradiso di dolore. Ogni giorno che passa,dormiamo con dolore”.) . . . (Mi ricordo le corse in salita e in discesa. Sotto i ponti della mia fanciullezza, risuona l’eco delle prime avvisaglie:


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i primi amori, a sette anni, (meraviglia di Dio!). L’incontrai, per puro senso alla nostra vita. Un vestito d’argento, volava in alto nel cielo, sembrava un folletto dei boschi. In discesa e in salita, capelli lunghi senza fine: un gesto, che mai vorrò scordare. Che anni! Ora, mi è rimasta la tristezza del mondo!) . . . (Mia Madre è addolorata: “La montagna, in cima è come il mare, il caprifoglio è in vetta, irraggiungibile. Lei guarda in cielo la sommità delle nuvole, il caprifoglio è là, intoccabile.”) . . . (Ogni giorno che passa, è una fatica bianca: mio fratello è di là, a piangere i suoi morti.) . . . (“Madre mia tu non ricordi. Sei scesa giù a morire. Un vaso enorme è caricato sulla mia schiena. Madre mia, perché tutto quello che ci unisce


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vola via col vento?”) . . . (Anna, dai capelli lunghi, affabile, un viso angelico. Era la nostra maestra: la mano nella mano, su per la collina di castagni e limoni. Diciotto anni lei, sei anni avevo io. Frutta, fiori, un giardino di rose. Siamo scesi giù, in fila indiana, la collina dei funesti. Un contadino, ci donò il latte, il latte appena munto. Il latte caldo: una manna dal cielo! Dopo, siamo scesi a valle. Ad un tratto, un uccellino morto, (sbalordito il viso), ora non piango mai, ma allora piansi come non mai. L’uccellino, sprofondato nel fosso. Lo vidi dall’alto. Presi la scala.


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Anna, mi urlava di lasciar perdere. Gli occhi lucidi, mi calai giù nel fosso. “Che fai, che fai?” gridava Anna. Riportai alla luce, il piccolo uccellino. Lo avvolsi in un panno candido, lo adagiai, nella terra calda. Il piccolo uccellino, se ne “andò”.) . . . (“Sogno un uccello grande, alto, che mi trafigge il cuore: mi risucchia, senza scampo. Mi opprime le mani e la faccia. Mi rinchiude nella nera caverna”.) . . . (Bella come un fiore al mare, dalle rosse lentiggini, piccola piccola, mi prende per mano. Una nave era chiusa nel vetro. Mi porta nei campi, corriamo nei fiori.) . . . (“Mia madre dorme nel letto immemore. Solitario la cerco negli antri oscuri,


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nei deserti di sabbia, tra le stanze vuote. E’ sparita dal mio abbraccio”.) . . . (Era Pasqua. La pecora al laccio, tutto il giorno belava, quasi piagnucolava. Bambino, tiravo la corda continuamenete. Mia madre mi rimbrottava. Quasi per gioco, la corda si spezzò, la pecora scappò! Mio padre, la cercò dappertutto. Non la trovò. Piccolo eroe, andai a riprenderla, stava salendo su per la strada: la presi in braccio, la portai a casa, la lasciai libera. La capretta, andò verso la finestra, batteva di continuo il muso contro il vetro per due, tre, quattro ore. Verso le due, io e la capretta, salimmo in cima al monte,


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da li salutammo tutti. “Addio” dicemmo. Sciolsi la capretta, che scappò via, verso la libertà. Era Pasqua, i bambini cantano allegramente per le vie del paese: la capretta saliva tra gli alberi, era ormai lontana!) . . . (“Mia Madre dorme. Il seno scoperto. Bianca è la strada che porta lontano. Sul treno, che porta fino al mare: l’ululato dell’onda, con tutto il suo terrore. Ora chi ci salverà?”) . . . (Sono sceso giù. Presi uno sgabello, mi arrampicai fino alla finestra. Lo sgabellino traballò lentamente, mi trascinò con sé. Sul pavimento, mi addormentai così, senza rumore.) . . .


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(“Una nave scortata fino in cielo. Il vento forte la trascina via, io e Lei navighiamo all’orizzonte, io e Lei sperduti nella pace di Dio”.) . . . Giovannino, sui bordi della strada, in silenzio, con l’acqua fin sopra le ginocchia, camminava e cadeva, cadeva e si rialzava: un deserto d’acqua. Vincenzo, col bastone, cerca l’appoggio sul selciato. (Non ho mai visto ciò che vidi allora!). Le ginocchia coperte di fango, la porta è chiusa. La luce è spenta. Nostra madre sta male: il portone è serrato. Vincenzo col martello picchia. Giovannino con le mani allarga l’inferriata. Lentamente, al buio,


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cercano la medicina. Mia madre, sui gradini di casa mia: il dolore in petto è lancinante. L’androne è allagato. Giovannino e Vincenzo, doloranti, afferrano le medicine. Un tonfo, le scale sommerse, affondate. Giovannino e Vincenzo, prendono le scale. I fratelli, arrivano all’estremità, salgono su, per ritrovare la loro madre. . . . (“Mia Madre, un giardino di sole: tutta la vita sognai pane e ciliegie. Un cane di gesso è contro il muro. Vergine Santa, è scappato con gli anni! I lumi bianchi in fila, solo riflesso, illusione vana dell’immagine tua”.) . . . (Gerardina indossa gli abiti più belli: sembrano vesti dorate.


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I contadini tutto il giorno vanno sul remoto monte dell’usanza. I cavalli, agghindati di giallo, verde, azzurro, si mostrano per vanto. Al passo allegro, i campanelli suonano, al trotto, li guidano i Re. Voci si levano dalla strada, acclamano il corteo.) (La bambina, le lentiggini in volto, è bella come un tormento. Il pavone, con la coda a ventaglio, giallo, verde, arancione, sembra un uccello di mare, a piedi nudi. La barca sembra una prua, avanza spaccando il mare. E poi scompare lassĂš, bianca, come la neve.) . . . (“Mia madre


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è un’immagine senza tempo. Sono rimasto solo. Sui gradini della nostra casa, il tempo è scomparso. Naufragio dei pensieri”.) . . . (Sotto casa c’era la bottega di Pasquale, il “nostro” fruttivendolo. Mi fermavo spesso davanti ai profumi delle sue cassette colme di frutti colorati. Neanche una lira avevamo con noi. Quante volte, Mauro ed io, abbiamo rubato due nespole. Con gli occhi pieni di gioia correvamo verso casa. Le nespole erano strette in pugno. A testa bassa, la strada scivolava veloce sotto i piedi,


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saltavamo i “gradini”. La mamma, sempre lì, distesa nel letto buio, tra le quattro mura fredde. Con le mani aperte avanzavamo lentamente a porgere il frutto. La mamma stava male, più volte, con lo sguardo dolce ma dispiaciuto, rifiutava il “dono”. Ma alla fine, ogni volta, a fatica si alzava, si metteva seduta. Gli occhi negli occhi, un profondo senso di serenità e assieme mangiavamo i piccoli frutti.) . . . (“Un vestito bianco, un velo sulla testa. Mia madre è sola.Dorme nel passato. Il cuore è massacrato, il petto è lacerato. La chiesa è la montagna, alta, impietrita e scura”.) . . .


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(Mauro ed io avanzammo tra la folla. Tanta gente, radunata in cerchio, si cimentava a scalare l’albero, l’albero della “cuccagna”. Mio fratello Giovannino, solo lui, riuscì ad arrivare in cima.) . . . (“Mia Madre, la sciarpa sulla testa, il vestito a cappello, le logge del paese gridano alla vendetta. La vendetta son io, son io che faccio scena, son io che impugno l’arma, son io che muoio là”.) . . . Piove a dirotto, la luce è spenta. Madre e figlia, sotto l’ombrello, cercano il riparo dalla tempesta. Le castagne, sono ammuffite. Le pareti, crollano con fragore. Si schiantano al suolo, portano la morte. La terra trema. . . .


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(“Mia madre è andata lontano. Nemmeno una lira aveva con sé. Siamo stati poveri. La barca va lontano e piange i cari morti. Col suo pianto allontana la paura di cadere.”) . . . Mio padre apre il balcone, prende un vaso di terracotta, lo lancia giù: il vaso è inghiottito dall’acqua. La pioggia, densa e perenne, travolge tutto. Siamo lì, in un vortice di vento. (E’ tanto, tanto tempo fa, quattro camicie nere, tornano dalla guerra. Oggi, come se fosse allora, io e te, Padre mio, nel vento forte.) . . . (“Mia madre, tutto il giorno, con una zappa in mano. Il fulmine rosseggia la notte.


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Guarda lassù, una coltre di stelle, un drappo funereo. “Son io, che ti faccio morire? Son io, alla tua nefasta corte?””) . . . (Sono stato dal fornaio, la bottega di Mimì. Il grande bancone, bello come fosse una pittura. Sono uscito con Ninuccio, vendevo il pane. Andavamo girando, per le piazze dicendo: “Comprate il pane!” Seduto nel carretto, mi lasciavo trasportare da Ninuccio. Lui, con la sua pazienza, mi insegnava, i trucchi del mestiere. Quel giorno, vendemmo tutto il pane. Il carretto, volava leggero. Ridendo, tornammo alla bottega.


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Mia madre, sullo scalone: “Dove sei stato?” “Sono andato a vendere il pane, il pane di Dio”. “Ti ho cercato tutto il giorno!” Lei mi ha abbracciato, teneramente, mi ha portato con se, nel suo letto. In pace ci siamo addormentati.) . . . (“Mia Madre ed io ci siamo perduti, non sappiamo ritrovare più la strada del ritorno. Un mistero, è un mistero. Nessuno può tornare indietro, nessuno può andare avanti, ognuno rimane sui propri passi”.) . . . (Eravamo a tavola tutti assieme. I vicoli del palazzo erano deserti. Senza mangiare uscii di casa assieme a Renato. Sul ciglio


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della strada, fui incantato da una carretta e il suo alto cavallo. Gerardina era corsa dietro di me: col piatto in mano, mi esortava a mangiare. Saltai sulla carretta, non pensavo più a nulla! Gerardina dal basso, con le braccia protese, mi faceva mangiare. Passarono pochi istanti, il cavallo cominciò ad agitarsi, a battere le zampe. Gerardina mi afferrò con un braccio, mi tirò giù. Che spavento! Renato, bianco nel volto, si era riparato alle spalle di Gerardina. Tutti assieme guardammo la scena.


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In un attimo il cavallo prese a correre e la carretta scomparì con lui in fondo al vicolo.) . . . (“Un luogo eterno, senza inizio ne fine. Senza spazio ne tempo”.) . . . (A passi morbidi, scendevo i tre gradini: il silenzio bloccava il respiro del primo pomeriggio. Le persiane erano socchiuse. Una luce fioca, distingueva a stento il letto. Nel buio, con le gambe piegate, cercavo la benevola presenza. Alle mie spalle, una “voce cupa” sembrava fuoriuscire dal vecchio comodino. La mamma si svegliava, mi vedeva immobile, impaurito,


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avvolto nel gelo. A fatica si sollevava sul letto. Con dolci parole, a braccia tese ma tremanti, mi chiamava a se: “Che c’è? Che c’è?” “Niente, niente!” Vedevo la “sfera di cristallo” divenire un puntino invisibile. Con passi incerti, mi avvicinavo al letto di mia madre. Cercavo una dimora sicura. Volevo essere avvolto dal suo abbraccio, restando riparato sotto le coperte. Volevo un momento che nella mia illusione diventasse eterno.) . . . (“Mia Madre offre una stanza là sul ponte: la fisarmonica manda una piccola nota: Lei cerca tra le macerie i corpi bianchi, sepolti dal crollo.


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Ho sognato una stanza piena di luce. Lei indossa un abito rosso che la rende splendente. Le mura di ogni stanza crollano giù. Mia Madre, dai capelli di sole, regna in questo spazio immenso”.) . . . (Il sole, dietro la porta, è malato. Come un volare di vento. I bambini, tornano a farsi grandi. Il pezzo di legno è la. L’orologio, segna le ore al rovescio. Quella mattina, offusca le cose. Il bambino, sul letto bianco, è solo, in uno stuolo di culle. Sono stato tra le case assolate. Uno scatolo di cartone, era il mio tamburo, come di latta era quello di Gunther.


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Tra le strade strette, picchiavo contro il muro, forti e ripetuti colpi. Noncurante di tutto. Ora, affondavo le mani nelle pozze d’acqua, ora, scendevo nei prati, lungo il ciglio delle strade. Il suono assordante, penetrava nei muri. Al mio passaggio, tante finestre si aprivano. Camminavo, senza un perché! L’urlo è smorzato. Un silenzio tombale, piomba sulle strade. La marcia si ferma. Sogno, tu sbatti contro il muro. Gli occhi e le mani, sono pietrificati, da una vista crudele: tre volpi attendono il segreto.


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Una folla radunata in cerchio. Atterrito e spaventato, lascio cadere il tamburo, corro verso casa. Un sogno. La mamma mi stringe forte al suo seno. Mi prende per mano, siamo andati in chiesa. In ginocchio, davanti al Signore, abbiamo pregato per le volpi senza vita. “Il Signore è la, ad ascoltare il canto dell’amore”. Il cavaliere è tornato, sotto i colpi della spada, muore.) . . . (“Piove su questa terra. Non so spiegare quanto. Piove sulla città. Mia madre con l’ombrello mi protegge dalla pioggia. Piove sulla città”.) . . .


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(Le formiche, silenziose e invisibili, spuntavano da ogni angolo. Accovacciato, restavo incantato a guardarle. Strisciavo sul pavimento, per seguire il frenetico via vai, di quei lunghi cortei neri: non s’interrompevano mai, sbucavano da tutte le fessure. Come per magia, penetravano il cemento, sembrava di vederle ancora, nell’infinito labirinto nascosto tra le pareti. Il cagnolino Fritz era lÏ, si agitava nel portone: la testa bassa, il muso radente il suolo, sembrava incuriosito quanto me.)


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. . . (“Un corpo morto è caduto in terra. Dall’alto è piombato giù. Come mai tutto questo è un limite infinito? Forse la vita è una. Forse il destino è grave. Il cielo infinito ci attende. Un cesto di frutti è sulla testa del padrone, colmo fino all’orlo della vita”.) . . . (La comare Lisetta, che stava a casa nostra, l’aiutava sempre. Era lei, che dal medico la portava, prendeva il soprabito blu, che era consunto. Mi dava la mano, andando alla porta mi salutava. Andavano a piedi, camminava a fatica: premendosi la mano sul petto. Attendevo con ansia, il loro ritorno. Aspettavo per ore. Mio padre e noi figli, spiavamo la strada,


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sempre deserta. Lisetta, sotto il braccio, sorreggeva Marta. Noi figli l’accoglievamo tra le braccia. Era stremata. Dormiva sempre. In silenzio, per non svegliarla. In silenzio, le rimanevo accanto tutto il giorno. Ogni giorno, per due volte, mattina e sera, Lisetta, veniva per le punture. La buona donna, anche di me si dava pena.) . . . (“Mia Madre ha la camicia bianca, l’acqua fino al collo, non riesce a respirare. Siamo scesi giù nel profondo della terra, il bambino morto è sempre lì. Lo guarda in silenzio mentre lui sprofonda sempre più giù.”) . . . (Di notte, tanti pellegrini che cantano.


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Ninetta ed io, nascosti, dietro il davanzale della finestra, cantiamo per una, due, tre ore, finchè non ci vince il sonno. La Mamma, di colpo, è investita dal canto delle “verginelle”. Una miriade di gente, continua a sfilare. Verso le due della notte, i pezzenti storpi, mutilati, prendono posto lungo la via. La via del campo.) . . . (“Mia madre è sulla carrucola, poi dorme per sempre. Nulla rimane al nostro destino. Mia Madre, è un giardino d’inverno, riposa sulla montagna. È sparita in mezzo al cielo”.) . . . (Eravamo bambini. Tutti e quattro, vedevamo il mondo,


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come un baule colmo di ricchezze. Ninetta, Gerardina, Lina, io, Olga, Mauro e Renato andavamo correndo, per una via di campagna, che costeggiava il fiume. Le botteghe, si raggiungevano facilmente, attraverso una strada asfaltata. (Che sogni la vita, che sogni!) Nelle acque, del fiume trasparente, nuotavano veloci i girini. Entusiasta, del vorticoso movimento, col barattolo di vetro, provavo a catturarli. Dopo un po’, le mie sorelle, mi incitavano a tornare a casa. Arrivati sull’uscio, le mie sorelle, nascondevano me


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ed il barattolo, che custodivo nelle mani, dietro la schiena. Mia Madre, affaticata, mi scrutava, seguiva ogni mio movimento. “Cosa nascondi?” “Niente, niente!” (Mi arrendevo.) Le mostravo il barattolo: “Lo sapevo, lo sapevo! Li puoi tenere.”) . . . (“Sono venuto. Ho pianto sulla tua bianca tomba. Verso l’oblio,sull’orlo del dirupo. Mia Madre è nel sepolcro. Io sogno. Tu rimani là. Mia Madre danza nel letto d’oro: il tempo si consuma, la vita si dissolve.”) . . . (Dormo, non dormo, profondamente dormo. Non era ancora l’alba, quando ha messo


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i panni della caccia. (Che aspetto severo!) E’ uscito, col fucile in spalla, la cartucciera ai fianchi, il cappello in mano. Ha varcato il portone, ha attraversato la strada, fino al camion. Gli amici lo aspettano, lo salutano con rispetto. (Dormo. Le balene saltano sull’acqua.) Sono andato alla fabbrica di mattoni a sparare agli “uccelli”. “Spara, spara! Contro il vento!” Spara: gli uccelli cadono! E’ pomeriggio. Sulla strada, appare il camion. Pieno di cacciatori,


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stanchi e silenziosi. Ritornano seduti, dalla guerra, col sonno sulle spalle, il capo ciondolante. Corro affannato, verso mio padre: “quanti ne hai presi?” “Aspetta! Aspetta!” Mano nella mano, andiamo verso casa. Varchiamo il portone, scendiamo gli scalini: “Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Il buio, è troppo vasto! Tu non ricordi.” Seduto intorno al tavolo (presentimento antico) intorno a me il Nulla. In quel momento, le lacrime asciutte, rigano le mani). . . . (“Mia Madre soffre tanto: nell’antico bosco. Lassù sulle montagne, patisce per amore”.)


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. . (A casa mia, c’era Costanza. Una bambina bella e dolce. Io, lei, Arturo (senza capelli!) e Raffaele, giocavamo sempre assieme. Io e Costanza, litigavamo sempre, lei mi canzonava, si burlava di me. Un giorno, persi la pazienza, presi una pietra, gliela tirai in faccia. “Che hai fatto? Che hai fatto?” -disse ArturoIl viso sanguinava, la bambina era spaventata. “Che sarà di me?” Bianco in volto, mi diressi nel bosco. Disperato, mi rintanai, tra le fronde verdi. “E ora che faccio? Sono solo, è buio,

.


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i monti sembrano giganti!” Sento la voce di Raffaele: “Dove sei, torna a casa!” Mi sono fatto piccolo, per non farmi scoprire. “Vieni qua -diceva ArturoCostanza sta bene. Vieni a casa, stai tranquillo, non è successo niente. Per carità di Dio, torna a casa!”) . . . (“È sparita come fossimo una sola cosa. E ’sparita fasciata di fuliggine. Mia Madre, le mani legate, un carroccio pesante attaccato alla schiena. Un carroccio solo, lo trascina su per la salita”.) . . . Alle tre del mattino, il lavoro di tante braccia, porta alla luce, i segni di una catastrofe. Uomini, donne,


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bambini, volti conosciuti, scoperti dalle macerie, lasciano sgomento ovunque. E quell’uomo che scava, scava, scava, il volto rigato dalla disperazione. Ormai è tardi. Ma la speranza, ignora il tempo spietato. La mia amica se ne è andata. I compagni di classe, sconvolti, lacerati dal dolore, quasi increduli, non riescono a farsi una ragione. . . . (“Le ciliegie le coglievamo insieme. La campagna tinteggiata di grano, il rosso col verde si tingeva in oro. Il sorriso che aveva le dipingeva il volto. Il suo sguardo aveva attraversato il tempo. Portai con me malinconia con gioia”.) . . . (Giovanni, Raffaele ed io, a mezzanotte,


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andavamo per i viottoli bui della nostra vallata. Lucciola, lucciola Vieni da me Che ti do il pan del re Il pan del re e della regina Lucciola, lucciola stammi vicina. Il gioco, durava delle ore, corse affannose, cadute, risa, caratterizzavano l’impresa. Raggiunto l’intento, le tenevamo custodite tra le mani, pian piano, le avvicinavamo agli occhi. Sono inciampato e scivolato giù nel fiume. I miei amici, mi hanno cercato per diverse ore. “Dove sei? È buio, non si vede niente! Le lucciole sono scomparse, la montagna


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fa paura!” Le mie urla, si diffondono dappertutto, ma nessuno riesce a sentirle. Organizzano un gruppo di persone che dalla montagna, scende giù a valle. “Aiuto, aiuto! Sono qui giù.” Miracolosamente, qualcuno udì le mie grida. Subito, si radunarono, intorno a me. Mi afferrarono per le braccia, mi tirarono su. “Tra abbracci e baci”, ognuno ritornò tranquillo a casa sua.) . . . (“Mia madre, i capelli neri, è tornata. Il vestito a festa, le rose azzurre, il suo abbraccio accorato: dormo su questo letto, è un fantasma d’idea”.) . . . (Nel vicoletto, c’era una ragazzina,


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bella come il sole. Gli occhi perduti, mi trascinavano via. La sera, nel buio della stradina, avvolsi un filo di ferro intorno al piccolo pene. Provai dolore. A casa, scoprirono il mio segreto, d’amore. Mi picchiarono forte. “Un dolore! Un dolore!” Nella mia stanza, piansi davvero. Appoggiato al davanzale, le mani sorreggevano la testa dolorante. Guardavo fuori dalla finestra, piangevo. La strada era desolata.) . . . (“Il viso è scavato, il corpo lievita nell’aria, privo ormai d’ogni peso umano. Sul fiume imploro mia Madre di non lasciarsi cadere. Lei avanza, non sente più nulla”.)


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. . . (Luciella, era una grassona, devota a Santa Rita da Cascia! Nel corso dell’anno, raccoglieva soldi, che custodiva e dava in beneficenza nel giorno della ricorrenza di Santa Rita. Era splendida! “La sirena non c’è!” -disse lei“C’è, c’è, lo so che c’è!” Alle sei della sera, sicuro di me, andai alla fabbrica. Mio padre scese sul portone, là ci incontrammo. All’uscita, i suoi panni da lavoro, erano sempre stirati e puliti. Mi abbracciò forte, insieme tornammo a casa.) . . . (“Confusa tra le coperte, si riscalda col sole. Lentamente si muovono i bambini intirizziti, assiderati dal dolore.


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E’ solo il bambino che avanza con fatica”.) . . . Alle otto del mattino, tutti dormono. Un sole giallo, ha aperto i nostri occhi. Il cucciolo, piccolo, si è svegliato sereno, al mio fianco. Lina scende giù per la scala. Giovanni, io e Fritz, facciamo lo stesso. Il terreno è infangato, i nostri pantaloni arrivano alle ginocchia. Mio padre, ci richiama tutti accanto a sé. (Com’è bello mio padre!) La folla è là. Centinaia di persone, lentamente, scendono le scale. Di fronte casa mia, gli alberi sradicati. Rimasi impressionato, dal numero di alberi


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che vidi. Uno scenario apocalittico. I miei pantaloni, macchiati di fango, come due antiche mappe. Con i miei occhi, ho assistito alla tragedia. Nella corsa impetuosa il fango ha spento il sorriso dei miei “fratelli” (Giovanni, Anna, Mimma, Giuseppe, Filomena e Franco). Ho visto i loro volti sfigurati dalla melma, ho visto, morte e distruzione. Ho visto, i vigili del fuoco, caricare i corpi senza vita su un carretto nero. E portarli via.) . . . (“E’ l’ora di rivolgersi al Signore: dormono tutti. La carrozza si spande per le strade infinite, attraversa le stagioni che cambiano. Mia Madre è già polvere,


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è sparita per sempre. E’ l’ora di rivolgersi al Signore”.) . . . Maria ha un cuore d’oro. Aveva sempre qualcosa per noi. Ci chiamò tutti in casa, eravamo in tanti. Laceri ed affamati, alle dieci del mattino, ci accolse nella sua casa. Zia Teresina, zia Esterina, zia Giuseppina e zio Pasquale, arrivarono col treno. Rimasero senza parole dinanzi al disastro che si presentò ai loro occhi. Tra le macerie, ci abbracciammo forte. Chiesi del nonno: zio Pasquale disse che non era venuto, era a letto malato.


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2 Un treno ci portava, me bambino, lĂ . La Mamma divideva con me la merenda. Il treno correva attraversando il paesaggio. Infilando i pali della luce. In lontananza alberi grandi, forti, maestosi, correvano incontro alla meraviglia del mondo. La Mamma era un giardino di luce e le parole sono carezze. Il treno volava sfiorando gli argini del fiume. Una pernice pallida e malata si innalza lentamente dai miei sogni. Vacilla su se stessa e prende il volo. Nonno è malato. Trent’anni sono passati. Il Nonno è morto.


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La scala è sempre più erta. Il Nonno (lo cerco ancora) è lì addormentato, sereno, angosciato. * * Siamo scesi giù dal treno, in fretta, abbiamo raggiunto la sua casa. Disteso sul letto, le mani incrociate sul petto, il viso cereo. Una scala infinita, per raggiungere quella stanza. La mamma, (il viso pallido, quasi bianco, come quello del nonno) in cima alla scala, lanciò un grido, scoppiò in lacrime. Il nonno ci vide e ci salutò. Il suo sorriso impercettibile, profondo di gioia, era intenso e stanco. “Come stai?” “Bene bene!” “Quando andiamo

*


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a cogliere le castagne?” “ Presto, presto, figlio mio”. Lo guardai e lo vidi come prima non l’avevo visto mai. (Chi tra noi due era più bambino?) Senza accorgermene, lacrime, senza pudore, solcarono il mio volto. Mai prima avevo provato così grande malinconia. Scendemmo le scale, vidi il volto di mia madre, coperto di dolore. Ci mettemmo intorno al tavolo, restammo tutti muti, disperati e soli coi nostri pensieri. La mamma, all’improvviso, non riuscì a trattenere le lacrime. Io, inebetito, diventavo


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ancora più piccolo. Avevo percepito che il nonno stava per andare via. Di fronte a noi la strada, che ci portava fuori. Le mie gambe in moto senz’anima. Non volevo andare via. “Il nonno si è salvato!” Questa la frase che di continuo, dentro di me dicevo. Vana, ingenua illusione, di un piccolo bambino. E poi un’altra voce: “il nonno se ne è andato”. Il sorriso di Dio. . . . Enzo correva, su e giù per la vita. Sul sagrato della chiesa, reggevo orgoglioso, pieno di mestizia, la bara del nonno. “L’ulivo s’è schiantato, mai più risorgerà. Mai più, dalla terra brulla, mai più germoglierà.” . . . (Io ed Enzo distesi sotto l’immensa quercia secolare,


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quasi addormentati, fummo svegliati dal sibilo di morte. Il fruscio aveva mosso l’erba. L’istinto mi fece aprire gli occhi. La vidi. La vipera aveva sollevato il proprio collo, pronta a colpire. Il terrore di ghiaccio fermò il flusso del mio sangue. Impietrito guardai il mistero della vita. L’essere, dentro di se, portava la morte. L’incubo estremo da cui non si può uscire. Ci vedemmo perduti. Eravamo soli. Anche il sonno ci aveva abbandonato. Guardammo verso il cielo. Dentro di noi chiedemmo protezione. Le urla del nonno, la sua potente voce “Vattene, vattene”, gridava


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al serpente infernale. Un falco improvviso piombò fendendo l’aria. Nero e maestoso colpì l’essere orrendo, dritto sulla sua testa, non gli diede scampo.) . . . Il Nonno s’era addormentato. Il mare trafigge il cielo. Enzo ed io sulla barca, a piedi scalzi, travolti dalle onde. La burrasca non da pace alla vita. I flutti della vita ci schiantano sugli scogli. I fulmini spaccano il mare, noi, con le mani legate sul capo, aspettiamo il ritorno della pace. . . . Dall’alto del balcone lo vidi arrivare: come ogni volta rimasi affascinato dalla sua austera e nitida figura. Il suo vestito elegante, il passo fiero, i modi raffinati, ritto e sicuro, avanzava verso casa. Tutti lo salutavano con rispetto, accompagnando il saluto con sincero sorriso. In un attimo


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mio padre giunse sul portone, lo aprì e salì su. Il suo sguardo vagò per quella stanza e si fermò. Di fronte a lui il nonno sull’antica poltrona, con la rossa coperta, gli occhi socchiusi rivolti verso il sole. Il suo riposo nel meritato oblio. Era realtà o sogno? . . . Mio Nonno è volato. Il suo corpo sparito, sottratto al mio sguardo. Cammina tra gli astri, accarezza la punta delle nubi, dentro di me soltanto il suo bel viso. . . . (A sera, la mamma mi faceva il bagno. La vasca era grande. L’acqua si raffreddava in pochi istanti e dava i brividi. Intirizzito dal freddo, le braccia strette al corpo, piangevo di continuo.


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Tante volte, ho visto sopraggiungere il nonno. Stava male. Ma accorreva ogni volta, appena udiva il mio pianto: “lascialo stare, lascialo stare!” -diceva“Lo so io quello che devo fare!” - rispondeva la mamma Ma il nonno, noncurante di tutto, mi prendeva con le sue mani forti. Mi avvolgeva in una lunga coperta. Sedendosi sulla poltrona, mi asciugava il viso, stringendomi nel suo caldo abbraccio.) (Ogni giorno, tante volte, salivo quella scala. Il nonno, silenzioso nel suo letto. A volte, per pochi momenti, parlavamo sottovoce. Più spesso


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il nonno dormiva sereno.) . . . Le risa appartengono al passato, appartengono all’età della vita. Il nonno è l’origine del tempo, avanzato negli anni, il nonno è là, in un velo bianco, abbattuto nel tempo. . . . (Poche volte sono uscito col nonno. Avvolto nel mantello, il cappello a punta sul capo. Enzo ed io passeggiavamo con lui. Tenendoci per mano, ci guidava nelle strade, tra i negozi e la gente. Scambiava saluti, sembrava conoscere chiunque incrociasse. Comprava le caramelle, per noi piccoli. Con gli occhi tra meraviglia e sogno, indicavamo i giocattoli nelle vetrine. Il nonno non riusciva mai a dire di no ai nostri capricci: “Va bene, va bene, compriamo i giochi!” Il cammino


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era troppo stancante. A malincuore dovevamo rientrare a casa. La scena, sempre la stessa. Il nonno varcava la soglia dopo di noi. In silenzio e col cappello in mano, saliva la lunga scala, andava verso il riposo.) . . . Una scogliera di fronde. Il nonno salva a piene mani gli uccelli privi di direzione. . . . Zia Esterina, mi teneva per mano. Si mungevano le mucche, lì nella stalla. E sull’aia, io bambino, afferrai il rastrello, per raccogliere la paglia da un covone. “Fai attenzione! –diceva la ziaFai attenzione, potresti cadere!”. Rimasi lì per ore, a giocare.


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La zia, mi portò il latte appena munto. Quando fu sera, lungo il sentiero, mi riaccompagnò a casa. Ero stanco. (La bambina è alta come il cielo. Capelli biondi, senza un’ala di vento. Mi porta laggiù, stretti per mano, avanziamo controcorrente, nel fiume grande. Mi guida in alto. Il letto del fiume è sempre più stretto. L’acqua corre sempre più veloce. In cima alla montagna, tra le rocce della sorgente, la bambina scompare. Riappare. Avvolta in un velo nuziale, è lì, sulla pietra, dietro le cascate trasparenti. Solo, a piedi nudi e bagnati,


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resto a guardare.) . . . Il Nonno mi prende per mano, sale su per le scale. “Non senti fischiare il vento? Non senti attorno a te l’aria tetra e oscura?” Arrivati su, si apre una porta. Io precipito giù. Il Nonno mi riporta in cima alla scala. Io precipito giù. . . . Se ne andava fuori dal paese: tra le strade offuscate, era di pattuglia a cavallo. Improvvisamente, sentì schiamazzi dalla strada vicina. Tre uomini, in camicia nera, ubriachi, armati di pistola, cantavano a squarciagola. Si rivolse ai tre scalmanati. Nel fumo del vino, i tre, per tutta risposta, dalle parole passarono ai fatti. Mio padre sfoderò la sciabola. Con un colpo secco, abbattè


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il più violento dei tre. Fu arrestato. Fu assolto. Ma, temendo vendette, fu trasferito. Viaggiò in carretta, con la schiena a pezzi. Giunse prostrato alla nuova destinazione, stanco e impolverato, senza mangiare nulla. Appena fu in caserma, si gettò sulla branda. Si addormentò, senza spogliarsi. . . . Il Nonno è quasi spento. Il nostro calesse è scomparso. Il Nonno appare solenne, quasi mi incanto a guardarlo. Il mantello ondeggia mentre prendiamo il volo. Mi porta con se: insieme, corriamo all’infinito. Il Nonno, nel suo caldo mantello, per intero m’avvolge. L’aquila dalle ali sterminate l’ha fissato nel volto. E’ rimasta rapita dalla sua effigie ritagliata nel tempo. Senza di lui il suo volo s’arresta. Deve portarlo con se, all’inizio dei tempi. Il pane di mio nonno è scomparso con lui. . . . Passò improvvisamente


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una ragazza. “Rapì” subito la sua attenzione. Chiese chi fosse: quella ragazza, aveva una sorella ancora più bella, che viveva nel paese vicino. Decise di andarci. La strada era lunga. Ma lui, non voleva fermarsi: era ansioso, di vedere e di conoscere quella ragazza sconosciuta, che gli aveva preso il sonno. Quella notte, provò ad immaginarla. S’era prefigurato l’incontro. Che dirle? Era davvero così bella? Adesso, cavalcava verso il paese. Si fermò, solo il tempo, per portare un garofano rosso. Lei, abitava da un vecchio zio, che era monsignore di quel paese. La vide,


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affacciata al balcone, ingentilita d’animo, rimase affascinato da tanta bellezza. Le lanciò il garofano rosso: ella arrossì, si schermì, ringraziò il galante sconosciuto. . . . Il Nonno è alto nei cieli. Salgo ad osservare la luna. Un nido è li tra le tegole. Una giovane rondine esce dal suo giaciglio. Cade sulla terra, aveva un’ala spezzata. A nulla valsero le mie cure. Dopo poco tempo morì. . . . Enzo ed io, bambini, giocavamo per strada. Sui muri di pietra, catturavamo le lucertole. Il “gioco” non ci stancava mai. Legavamo le bestiole ai lunghi fili d’erba. Su per la “collina”, verso la casa “incantata”, alta, piena di sole. Vi abitava Francesca, maestra elementare,


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un profilo radioso, bella. Vent’anni aveva. Ogni volta, bussavamo alla sua porta. Sull’uscio arrivavamo, le lucertole in pugno. “Prendi, prendi la lucertola!” Francesca, spaventata e inorridita, lanciava un grido. E giù per le scale, a rincorrerci fino in fondo al viale. Tornati a casa, zia Teresina, ci guardava insospettita: “Cosa avete fatto?” “Niente ,niente, abbiamo giocato per strada!” Guardandoci negli occhi, in fragorose risate ancora esplodevamo. Eravamo sicuri di averla fatta franca. Ma, puntualmente, Francesca, raccontava alla zia le nostre marachelle. E, per noi, erano botte da orbi. . . .


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(Mia Madre e mio padre s’incontravano di nascosto. Il loro amore durò tutta la vita. Cinquant’anni hanno trascorso insieme. Mai un ripensamento. Ricordo i boccioli di rosa offerti ogni giorno a mia Madre. Ogni giorno che passa. I rossi petali appassiti gelosamente custoditi per cinquant’anni, abitano ancora lì, nel vecchio portafoglio.) . . . Enzo, Gerardino ed io, seduti sul divano a confabulare. La farfalla, grande e nera, ci attendeva dietro l’uscio: il suo volo rapì i nostri sensi. Stupiti e spaventati, la seguimmo con lo sguardo. Volteggiava di stanza in stanza: tra le pareti chiuse cercava un varco verso il cielo. D’improvviso il suo volo si perse. Invano


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continuammo a cercare. . . . (“Mio nonno, impercettibile ombra, svanita nel fondo della terra”) . . . Era estate. A piedi nudi, camminavamo nel fiume. Pescavamo, con le nostre canne, quando, all’improvviso, sento tirare la lenza. Un grosso pesce aveva abboccato. Quasi increduli, andiamo verso casa: “Guarda, zia. Guarda come è grande!” “Dove l’hai pescato?” - mi domanda Raffaele“Giù al fiume! Dove se no?” - gli risposi -. “Ma così grossi non è possibile!” Ci volle tanto, a convincerlo. Mamma, mi abbracciò e mi baciò: “Non fare rumore,


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il nonno dorme!” -disse“Va bene, non ti preoccupare, starò in silenzio” -risposi. . . Il Nonno è senza vita. Il Nonno è già scappato. Il Nonno è indebolito. Il Nonno è inflessibile. Il Nonno all’improvviso esplode dentro il cielo. . . . (La fiamma, alta, crepitava nel camino. Con l’aiuto del nonno, Enzo ed io, avevamo acceso il fuoco. Ora, guardavamo felici, le lingue ardenti che alte serpeggiavano. Spostavamo la legna, ne aggiungevamo altra, avanti e indietro a caricare grossi ceppi sulle spalle. “State attenti, state attenti!”diceva il nonno. All’improvviso, Enzo, lanciò un grido di dolore, colpito da un tizzone


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scoppiettante. “Ahi! Ahi! Guarda nonno, guarda cosa mi sono fatto!” “Dove? Dove?” Zia Esterina, con zia Giuseppina, impastavano il pane. Accorsero, anche loro spaventate. Enzo strillava piangendo di dolore. “Aspetta, aspetta – diceva il nonno lasciami vedere cosa ti sei fatto, benedetto ragazzo”. Ma Enzo, ormai, era inconsolabile.) . . . Mio padre, tutte le volte, guardava in alto, verso il suo balcone. La luce era spenta, le finestre ostinate restavano chiuse. Si domandava dove fosse andata. Ma non riusciva a darsi una risposta. Rimaneva da solo,


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con la sua rosa. Rassegnato, ma con la sua speranza, a lenti passi se ne andava via. . . . Nelle mattine fredde, ci riscaldavamo, al calore del braciere. Raccolti in cerchio, ascoltavamo i racconti della mamma. Il sonno ci vinceva: lucciole e gabbiani invadevano la mente. . . . Un sogno questa sera, è un sogno immaginario. Nessuno lo vide più: lo vide in altro tempo sul suo calesse d’oro. Nonno malato, i treni corrono nel tempo.. E passa il tempo, il Nonno è là. Passa il tempo, un granello di mare. (Passa il tempo, nessuno lo vide più.) . . . Un mormorio, proveniva dalla stanza di mia mamma. Avanzammo in silenzio. Aprimmo la porta. Le mie zie, in ginocchio, con la corona tra le dita, dicevano il rosario.


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A noi, sembrò quasi un gioco. La cosa ci divertiva, ci unimmo a loro. Pochi istanti, il riso segnò i nostri volti, divenne incontenibile. Abbandonammo la stanza, rincorsi dalle zie, diffondendo il nostro riso tra le vie del paese. Era il Mese Mariano, in tante case, si udiva il sordo mormorio del rosario. Finita la sequela, i bambini scendevano per strada, a bussare di porta in porta, per ricevere i dolci. Anch’io mi aggiravo sorridente. Ad ogni porta che si apriva: “come sta il nonno?” - mi sentivo ripetere. - “Così e così, - non sta troppo bene, - è a letto il nonno!” . . .


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(La mia Mamma malata. Era malata al cuore, riposava sempre. (E’ un sonno antico: io e te, senza via di fuga.) Il Nonno ci assiste da lassù. Il tuo male persiste. Il tuo sonno, ormai è diventato eterno. Il Nonno precipita giù. Scendi con lui nel baratro profondo.) . . . Alle cinque del mattino, tutti dormono. Mia madre, in silenzio, si affaccia alla finestra. Un giardino in fiore. Mio padre coglie dei fiori, poi su per le scale, fino a lei: un sorriso e un bacio, un gesto d’amore. E via insieme. La passione. Camminano per le strade deserte. Solo un carroccio, alle cinque del mattino, rompe il silenzio. Tenendosi per mano, abbracciati, sulle sponde del fiume. Solo per pochi istanti. . . .


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Mio Nonno corre. Le rotaie diffondono la loro voce. La parola è lontana, il Nonno rincorre l’impossibile. Nonno mi rende lieve come piuma. Nonno mi prende per mano. Nonno è sul treno dei sogni. Nonno mi regala la sua giacca. . . . Zia Teresina, una donna dall’animo gentile. Non era sposata. Tutto il suo tempo dedicato a noi nipoti. Enzo, Raffaele, Gerardo ed io, intere giornate insieme a lei. Era lei che ci accudiva. Con lei, uscivamo per i campi, nei pomeriggi di sole, mano per mano. Di tanto in tanto, ci portava nelle stalle del nonno. Ogni volta, restavamo immobili, gli occhi sbarrati, a guardare dal basso verso l’alto, gl’infiniti “capannoni”.


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Era un continuo via vai, di operai e di “mucche”, che a noi, sembravano tutte uguali. C’erano i cavalli, così lucidi, neri e bianchi, divini ed immensi al nostro cospetto. Il sordo mugugno degli animali, riempiva tutto lo spazio intorno a noi. Eravamo incantati, nell’osservare, il frenetico, ritmico lavoro di tanti uomini. Tante braccia, mosse a tempo, precise tra di loro, mungevano il latte caldo. Tante altre, con “strani” movimenti, preparavano le balle di paglia. Queste, una sull’altra, formavano altissimi e morbidi “castelli”. Cercavamo sempre di arrampicarci


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a quelle alte pareti gialle. Zia Teresina, ci teneva stretti a lei, ma, alla fine, cedeva ai nostri desideri. Ci lasciava scalare le balle di fieno e, al solito, rotolavamo a terra. Stretti alla zia, continuavamo, ad aggirarci soddisfatti, ma ancora curiosi, nei larghi spazi delle stalle. Scrutavamo con stupore, quel mondo tanto grande. . . . Ricordo una sera: seduti attorno al tavolo, avevamo finito di cenare. Zia Teresina, protese le braccia, ci guardò negli occhi. Cominciò a raccontare una vecchia storia. Io, non ero ancora nato. Presi dall’incanto del suo narrare, come sotto magica, benefica ipnosi,


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pendevamo dalle sue labbra. “Era il 1943 - cominciò la ziapapà, era stato chiamato in guerra. La mamma, per non restare sola, si trasferì dai nonni. Neanche lì c’era la pace. La casa era sulla strada per Roma. Era un brutto periodo. Si combatteva e si uccideva. Nessuno era mai al sicuro. In quel tempo, dei ragazzi per gioco, avevano rubato un elmetto dalla tomba di un tedesco. I crucchi, si aggiravano per le strade, facevano irruzione nelle case. Continui saccheggi, incendi e guerriglie,


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insanguinavano le strade. I nazisti, cercavano uomini italiani, adulti e bambini. Volevano fucilarli, per sfregio e per vendetta. Giunsero vicino casa nostra. La nonna li vide. Momenti di paura. Ebbe appena il tempo, di prendere in braccio Giovannino. Lo nascose sul forno. I soldati, rigidi e senz’anima, nelle loro divise grigie, fecero irruzione. Coi fucili spianati, frugarono in tutte le stanze. Non trovarono uomini, andarono via. Portarono altrove la loro voglia di morte e distruzione. Giovannino, immobile e silenzioso, rimase nel ”rifugio”, per molte ore ancora. Quando uscì,


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cadde, si fratturò la caviglia. Dalla finestra, osservammo i tedeschi. Si allontanavano, freddi ed ordinati, così come erano venuti. Poco distante da casa nostra, spianarono i fucili contro un gruppo di bambini. Questi, presero a correre, in mille direzioni tra i viottoli stretti. I soldati, li inseguirono a fatica. Per fortuna, i bambini scomparvero nel nulla”. Tutti noi, muti per lo stupore, non perdevamo una sola parola dell’incredibile storia. La zia, quella sera, come ogni sera, ci trattenne diverse ore. . . . Ricordo un’altra storia. La storia di “Zucchero”. Così era soprannominato


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un uomo imponente, dai lunghi capelli neri, la barba folta e grigia. Sulla sua carrozza, vagava senza fissa dimora. Un giorno, papà, usciva con la sua bicicletta: doveva affrontare un lungo viaggio e aveva bisogno di un carro. Lungo la strada, incontrò “Zucchero”, che si offrì di aiutarlo. Mio padre, sulla bicicletta, seguiva la carrozza. Attraversarono sentieri impervi per evitare i tedeschi. All’improvviso uno scenario sanguinoso, una vallata di morte, impietrì gli sguardi: mucche, cavalli, pecore, asini, tori, giacevano nel proprio sangue. Erano passati i tedeschi: nei loro carri pesanti, con le armi arroganti, avevano fatto carneficina


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delle innocue bestie. Dopo lungo cammino, papà, mamma, Giovannino, Enzo, Ninetta e Gerardina, (io e Lina non eravamo ancora nati) giunsero a destinazione. Mio padre offrì del denaro come ricompensa. Ma “Zucchero” esclamò: “non voglio soldi, mi basta il vostro sontuoso cappello!” Aveva tanti cappelli mio padre: erano tutti neri, di diverse forme, tutti eleganti e raffinati. Anche se a malincuore, si tolse il cappello, lo donò a “Zucchero”. . . . Il Nonno è sofferente. Una scala, che porta fino in cima. Un corpo, che fa spavento ancora. Io come sospeso, tra tenerezza e orrore. Il Nonno vive ancora. Nonno è malato, soffre, soffre ancora. Neanche il nostro amore, che può frenare il vento, intriso di dolore, può vincere la sorte. Nessuno è più capace di riportarlo in vita.


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E’ morta la speranza, nessuno lo salverà. . . . (Un giorno, da bambino, saltai sulla piccola bicicletta. Attraversavo le vie del paese, correvo contro il vento. Gli alberi, le case, i volti noti, mi sfioravano e subito sbiadivano nell’aria, lungo i bordi delle strade. Pedalavo, sempre più forte, rincorrevo la fantasia. In pochi attimi, la piccola bicicletta, mi portò via, lontano dal paese. Dietro di me, l’ombra delle case, sbiadiva fino a diventare bianca. Gli alberi altissimi, si piegavano nel vento. Dinanzi a me, una strada sempre più larga,


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andava incontro alla meraviglia del mondo. Con la testa bassa, gli occhi sognanti, viaggiavo veloce nella luce candida. (I miei occhi, sono ammaliati. Sul bordo della strada, “appare” seduta sull’albero bianco. Il sole accarezza i suoi lunghi capelli: mi perdo nel vento. Un mare infinito invade il mio sentiero. Cado. E la piccola bicicletta affonda nel fango. In piedi, sporco di terra, afferro la bicicletta, che continua a sprofondare. Girandomi intorno, mi ritrovai solo. La bambina, muta, si allontanava piano piano. La chiamai più volte, lei avanzò, silenziosamente,


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innalzandosi verso il cielo.) . . . La tempesta violenta, Nonno è scappato, e quasi dormo anch’io. La carrozza è viva. Il Nonno non c’è più. . . . S’erano fidanzati di nascosto. Era molto ricco, il papà di lei. Un giorno, mio padre lo multò. “Che cosa hai fatto?” gli disse lei, timorosa, per le conseguenze del gesto. (“La sposo, benedetto il signore, la sposo!” disse mio padre. Le parole furono aspre! Il padre di lei, minacciò, di mandarla per sempre in un’altra città). E quel giorno si lasciarono, e urlavano ancora. . . . Il Nonno ora è sul tavolo. E’ morto tra di noi. Lo sciame del vento che culla e dorme ancora. Il Nonno ora dorme


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il suo petto squarciato è coperto da una miriade di uccelli. . . . Scrisse una lettera per lei. Di nascosto gliela consegnò assieme ad una rosa, andando via le diede un bacio. Quella lettera, il primo passo della loro fuga. E così fu. Alle quattro del mattino, il treno partì, accompagnandoli lontano, lontano, molto lontano. Nessuno potè mai infrangere il loro sogno. Fuggirono via per difendere il loro amore. Mio nonno, non voleva per nulla, che si sposassero. Era ricco, sperava che la figlia, sposasse un uomo di nobili origini. La loro discussione fu aspra.


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Mio padre, inflessibile e testardo, impose la sua scelta. Veniva anche lui da una ricca famiglia, non voleva per niente al mondo perdere la sua amata. In un attimo solo giocò tutto se stesso. (“Una rosa che attraverserà tutta la vita”.) . . . Quel giorno siamo stati lì, a piangere da soli. Il Nonno, scomparso dall’idea. Avanzo da solo, “è l’acqua, è l’acqua!” Il Nonno mi richiama, “terra, terra!”. Al mio risveglio però del sogno non è rimasto nulla. . . . Gerardino, Enzo ed io, sempre assieme a giocare. Giocavamo con le fionde, cercando di scagliare le pietre il più lontano possibile.


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Il gioco, si fermò improvvisamente quando, per sbaglio, colpii un passante in testa. Scappammo via, e il poveretto gridava dal dolore: “scappiamo, scappiamo” - dicevo Il vecchio imprecava “mascalzoni, farabutti, se vi prendo…”. C’è la filammo a gambe levate. Tra risate a singhiozzi e pensieri d’angoscia, entrammo a casa, a passi calcati. Zia Caterina, seduta in cucina, aveva sentito quel frastuono di passi e risa. Si era alzata dalla sua poltrona e, minacciosa, ci veniva incontro dicendo: “Ma cosa fate, cosa sta succedendo?” Allo stesso tempo, prese a rincorrerci attorno al tavolo e, col bastone in alto,


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“State zitti, state zitti! Il nonno è malato, dorme nella stanza sopra!” - gridava a labbra strette . . . “Dopo che fummo morti, ora siamo rinati” . . . Il quindici d’agosto era festa in paese. I balconi venivano addobbati con le coperte più belle: merletti e sete di San Leucio. La processione partiva dalla chiesa tra botti e fuochi d’artificio. La grande statua dell’Assunta veniva portata, a spalla dagli uomini, per le strade e i vicoli. Zia Esterina e zia Teresina, tenendo per mano noi nipoti (Peppe, Gerardino, Enzo, Raffaele ed io) ai lati della strada si inginocchiavano al passaggio della Madonna. Rivolte al cielo, pregavano per il nonno malato: “Signore, il nonno è malato,


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ti prego ascolta le nostre preghiere”. . . . Nonno si veste di nero. Nonno si veste di bianco. Nonno si veste di grigio. Nonno è a letto malato. Nonno è morto malato. Dentro di me è vivo. . . . (Un triste giorno, un evento terribile, fece tremare il paese. Era già sera, un lampo assordante, illuminò le strade. Dall’alto di un balcone, uno sparo: avvolto dall’eleganza, che lo distingueva, il fratello di mio nonno, s’accasciò al suolo. La notizia, giunse presto a mio nonno. Immediatamente scese in strada, raggiunse il luogo della tragedia. Era disperato, gridava vendetta. Suo fratello era lì, annegato


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in una pozza di sangue. Un uomo assai elegante, rispettato, stimato da tutti. Ora, il suo bel vestito, il suo cappello, i suoi stivali, inesorabilmente si tingevano di rosso. Spirò subito, il fratello di mio nonno. Il corpo senza vita, giaceva sul selciato. “Come sei bello, con la tua cravatta bianca, col tuo vestito blu, il sorriso che dà ancora gioia al tuo volto!” Queste le poche parole, che mio nonno riuscì a pronunciare, piangendo sul corpo senza vita. La pozza di sangue era ormai un mare. Il viso, sempre più pallido, vi annegava col suo autentico sorriso. Tanto tempo, la tragedia,


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rimase sotto gli occhi di tutti. Il corpo, immobile, fermo per quattro ore. Arrivò la bara, in carrozza, fu portata al cimitero. Nonno, era affranto dal dolore. Si sentì male. A casa, si distese sul letto. Ora, aveva gli occhi chiusi, ora, nuovamente li riapriva. Il suo respiro affannava, stava molto male. L’incubo non gli dava pace. (Dorme ancora, e ancora dorme.) La lucertola, invadeva la sua mente. Nonno si desta, poi dorme. Appare il topo: è fulmineo, corre veloce. Nonno si desta, poi dorme ancora. Il serpente, immobile, è lì, incute terrore.


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I suoi occhi di ghiaccio, non danno nessuna speranza di salvezza. (Dorme ancora e ancora dorme.) Nonno ha un sussulto. Il lupo, affamato, mostra le sue zanne. Avanza, sempre più minaccioso. (Dorme ancora e ancora dorme.) Nonno ha uno scatto. Ha paura, vuole fuggire. Apre gli occhi, ora è in salvo. (Dorme ancora e ancora dorme.) Ma, nel dolore, il sonno, continua ad ingannare. La volpe, attraversa il buio, guardinga e silenziosa, coi suoi occhi, fende le tenebre. Lo sguardo furbo, gira, alla preda intorno. (Dorme ancora e ancora dorme.) La preda è lì, ormai stremata.


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Il sonno, soltanto il sonno la salverà). . . . Nonno è morto. La stanza è affollata di gente. La scala è un mesto corteo, silenzioso, le teste chinate. La scala che mi porta su, un calvario mai prima veduto. Fin nel profondo mi scava nelle membra. La mamma, prega in ginocchio, le lacrime negli occhi. Nonno ha perso le parole, è fuori da ogni tempo. E’ morto. L’eco della sua voce rimbomba all’infinito. Zia Teresina sale con fatica, prostrata dal dolore. Zia Peppina, nella sua lunga veste nera, alla scala si trascina. Dorme: l’Antenato ora dorme, è stato raccolto


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nella pace di Dio. Zia Esterina, bianca nel volto, la testa piegata sulle sue ginocchia. Zia Caterina, bagnata di lacrime, appoggiata alla porta, l’attonito suo sguardo rivolto verso il nonno. Io, come di pietra, muto guardo il sarcofago austero. S’arrampica in alto, su per l’erta scala, portando insieme a se la scia d’ogni dolore. . . . (Papà, bello come non mai, sale la scala, con la testa bassa e il passo lento si avvicina al nonno. E’ morto, è morto: un sorriso, bello di sole, è ancora sul suo volto. E’ morto, è morto.) . . . Nonno dorme sul letto col suo mantello d’oro. Sento fischiare il vento. Dopo una lunga scala, dinanzi alla sua porta. L’abito elegante, una cravatta blu.


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Noi restiamo immobili, presi dal mistero. Il viso sereno, come di velluto mi riporta alla mente i sogni già veduti. Mia Madre lo accarezza, piena di dolore. Io e il Nonno insieme, lo sguardo verso il cielo, da cui dovrà venire bianco il cavallo alato. Fuggiamo lievitando, superiamo gli spazi. Incontro a nuovi Mondi ritorniamo insieme. Il Nonno, prendendomi per mano, mi incita a salire. Lassù, lassù il cielo, che sembra inabitato. Eppure, è ricoperto dalle infinite stelle. . . . (La casa non c’è più. Sono morti anche loro. Il paese è deserto, sono andati tutti via. Anch’io sono lontano dal paese. La piccola bicicletta, non so più dov’è. I giochi, i sogni, le corse, le urla delle zie, sono frammenti nella mente. Le lucertole sui muri mi appaiono nelle giornate di sole. E poi la capretta e il latte appena munto, rendono l’anima libera e leggera. Il nonno, sul suo calesse d’oro, col suo bel sorriso, nella sua imponente figura,


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mi accompagna ancora. Le caramelle che mi donava, ancora riempiono l’anima. E’ morto, il nonno. Mio padre, i suoi ordinati capelli neri. La scala non c’è più. La scala che mi portava su è sparita. La mamma e il suo dolore, danno forza e speranza. La rosa rossa, ogni giorno, mio padre la porgeva alla mamma. E’ scomparso, mio padre. E’ morta, la mamma è morta. E’ appassita, anche la rosa è appassita, gelosamente, è ancora custodita nel portafogli. L’infanzia è trascorsa. Le urla delle zie, risuonano come eco sottile. Sono morte anche loro, le zie sono morte. La casa di Francesca è ancora lì: è solitaria,


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non splende più nel sole, nessuno bussa alla sua porta con le lucertole in pugno. Le terre del nonno sono aride di sole. I capannoni, le stalle, gli animali, le balle di paglia, il frenetico e ritmico lavoro di tutti quegli uomini, sono solo invisibile passato. Il cagnolino Fritz, col muso radente il suolo a seguire quei lunghi cortei neri che si perdevano negli infiniti labirinti nascosti nelle pareti. Al buio, lo ricordo accucciato in grembo. E’ ancora tra le mie braccia, anche Fritz è morto. La lucciola, nel buio, non la vedo più. E’ scomparso tutto. Tutto ciò che ha riempito la mia vita, è andato perduto. Mille anni sono passati! Il treno, è ormai troppo lontano. Tutto porta via. Quasi invisibile,


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va verso l’orizzonte, poco rimane alla vista. Uno sciame di larve ci avvolge.)

FINE

“Spacca le dita di questa mia montagna. Spacca le dita di questa mia Natura” Il mio occhio de l’ingresso dell’inferno. Una benda bianca sbarra la bocca dello stomaco. Un vortice apparente che non ha forma, né nome, né consistenza, fagocita come antimateria la nave del mio equilibrio.


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La risucchia e la trascina. Nel profondo e sul fondo la fa a pezzi. Poi si placa. E i miei frantumi rigurgita a galla. Allan Poe: “dice sempre così, così, così!”

Fine

Avanzava lentamente La strada


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era tortuosa. Il pullman avanzava lentamente. Dai finestrini guardavamo giÚ. Strapiombi altissimi, giungevano fino al mare. Le onde, si infrangevano sugli scogli. Il cielo rosa, il sole scomparso all’orizzonte. Una serie di curve ci separava dalla meta. (Non dimentico mai quella giornata. Soleggiata, serena, senza intoppi. Salutavamo tutti, mentre il pullman, avanzava lentamente. Presi sonno. Immaginai, una finestra aperta, al limite del sole, un pullman senza ruote, che si muoveva nell’aria, io, a testa in giÚ, e poi, nuovamente retto!


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Il nonno è venuto a trovarci. Quante cose ci ha lasciato! “Non preoccuparti, - mi diceva – stretti per mano, andremo a scoprire la luna”.) All’improvviso precipito nel vuoto. (Dai capelli lunghi, le lentiggini disegnate sul volto, come un soldato volteggia nell’aria, lentamente, si adagia al suolo: mi tende la mano e salendo, l’infinita scala a chiocciola, mi conduce in alto, oltre le nuvole.) . . . Gerardina ed io, eravamo seduti vicino. Scrutavo alla vista ogni minimo particolare. Le case, gli alberi, le persone in lontananza, apparivano come delle miniature. Rimasi a lungo,


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con il viso incollato al vetro. Cinque anni avevo, è stata la mia prima gita. . . . Era quasi sera, la fame, iniziava a farsi sentire. Si accendono le luci. Gerardina mi teneva stretto per mano. “Senti, senti –dicevole onde non sbattono più!” Cantilena che passa questa sera ha un vestito bianco. Nessuno la conosce. Cantilena che passa questa sera ha un suono malinconico e profondo. Il mare, era una tavola bianca. “Gerardina, Gerardina – -dicevoè profondo. Ho timore di tanta altezza.” “Non aver paura, tanto il pullman è sicuro!


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Avvicinati a me.” Il destino crudele era in agguato. All’improvviso suona alla nostra porta: “Aprite, aprite!”. Nessuno può rifiutare il suo invito. “Aprite, aprite!”. E attraversa la soglia del mio uscio. Dei fossi, sul manto stradale, causavano continui sobbalzi. Non c’era altra via, per raggiungere la meta. Gerardina è affranta dal dolore. Gerardina è morta per sempre. (Docile, un respiro da vento. La bambina, rossa di lentiggini, sul cavallo alato, corre veloce verso la chiazza di mare. Chiazza di mare, e poi, illumina anche il sole. Dondola alta,


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ricade su se stessa, su se stessa. (Dio me lo perdona!) Un mare grande mi avvolge con impeto. Cerco un appiglio per mettermi in salvo. E’ più forte di me. Chi mi salverà? Un’onda gigante sta per riversarsi sulla mia testa. Il pullman si ribalta. (Un brutto sogno.) “Usciamo, usciamo!” La folla si accalca alle porte, respiro a fatica. “Muovetevi, muovetevi!” Battevamo forte le mani contro le porte, sperando che si aprissero. “Non avere paura – diceva Gerardinafra un po’ usciamo.” La calca, non si accorgeva di me, mi colpiva ripetutamente. Gerardina mi cerca. Gerardina è costernata. Gerardina soffre.


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Gerardina non sa darsi pace. (Dormo su questo letto. Un viluppo umano mi circonda. Si apre la porta. Un volo nel vuoto. Il pullman sull’orlo del precipizio. Un suono sordo. Il mio corpo immobile sulla ghiaia. Annunciano la mia morte. Il mare rapisce il corpo. Dormo sul letto bianco.) E’ morta così, senza un respiro di vento. La mente corre fino al treno. Invade il cielo e il mare, la terra e l’aria, la morte e la vita. I capelli biondi, le lentiggini rosse al petto, “Scriverò per te”. La bambina è morta. Scriverò una lettera d’amore: io e te, io e te, io e te, Madre Mia.


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FINE

Gaetano Di Marino e Peppe Colasante molte volte sono venuti a farmi visita. Gaetano Di Marino ha ottant’anni e ancora adesso scrive libri, lavora e viaggia continuamente. Io l’ho conosciuto


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tantissimi anni fa al partito comunista. E’ una persona di grande cultura. Peppe Colasante ha sessant’anni, ma è un uomo molto attivo e allegro “i fichi, ti ho portato i fichi, guarda come sono grandi e belli”. La casa mia è un teatro, da sempre Di Marino e Colasante, si sono “scontrati”. (Vi voglio bene, bene, da morire!) Giovanni Vietri. Quando io ero in ospedale, entrava a tutte le ore, senza permesso, e all’ora di uscita si tratteneva nonostante le proteste dell’infermiere. Le sue visite erano molto lunghe, tre, quattro ore. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Al comune di Salerno io, Goffredo Fofi, Antonio Padellaro e Giuliana De Sio, abbiamo presentato il libro “Alfonso Gatto – Il Mistero Di Via Monaci – Romanzo quotidiano dal processo Fenaroli – A cura e con un saggio di Luigi Giordano – Introduzione di Fruttero e Lucentini”. Alla presentazione ha partecipato un vasto pubblico.(Avagliano Editore) Alla libreria “Feltrinelli” ho presentato con Erri De Luca il suo libro “Tu mio”. C’erano tutti. Michele Prisco è un amore di persona. Insieme abbiamo presentato un libro. Lelio, un mio caro amico, in tale occasione, ha organizzato una cena. Lelio, un grande amico mio, quella sera siamo rimasti soli a rincuorarci: Luigi Compagnone e Luigi Necco hanno presentato il libro “Luigi Giordano – Sognando di volare – Alfonso Gatto – Al giro e al tour – Il catalogo – Prefazione di Antonio Ghirelli”. Mariapia Malizia, veniva sempre a trovarmi. Mi salutava abbracciandomi, mi sorrideva e mi faceva mille feste. Ogni mattina puntualmente, offriva il suo aiuto, voleva rendersi utile per me. ”Grazie, non ti preoccupare”. Le stringevo forte la


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mano, come segno della mia riconoscenza. Prima di andare via, mi abbracciava e mi baciava forte forte sulle guance. Mariapia Malizia è parte di me. L’affetto che provo per lei è infinito! Filiberto Menna e Alfredo Capone hanno presentato il mio libro “La città rimossa”. Sono molto legato a queste due persone, purtroppo Filiberto Menna è venuto a mancare, mi resta uno splendido ricordo.(Il Catalogo) Dante Maffia è un altro grande amico mio. Insieme abbiamo presentato un suo libro alla libreria “Feltrinelli”. Dante è una persona deliziosa e molto spesso passeggiamo assieme. (Io e Salvatore siamo uniti da un forte affetto: sono anni che ci conosciamo. In tutto questo tempo siamo diventati come un’unica persona. Trent’anni passati insieme non si dimenticano facilmente. Salvatore trent’anni fa era il mio unico amico. Fiorinda e Claudia sono mie nipoti e gli voglio un mare di bene.) Ad Avellino, Angelo Trimarco , l’Assessore alla Cultura Generoso Picone ed io, una folla di persone. Angelo Trimarco è molto bravo: e le parole sorgono così. Gatto quella volta diventa un castigo di Dio! A Montpellier, io e Achille Millo parliamo e leggiamo le poesie di Gatto. Tra il pubblico Lyliane Foulquiè, una donna d’incanto. A Parigi, Adelaide Perilli, Attilio Bonadies, un grande pianista ed io, parliamo di Edoardo Sanguineti. La sala era gremita di persone. Il pubblico, visibilmente soddisfatto, applaudì a lungo. A Napoli, all’Istituto degli Studi Filosofici, io, Aldo Masullo,


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Franco Rinaldi (Professore di Psichiatria alla Federico II), Olga Pozzi (Vice Presidente della Società Italiana di Psicoanalisi), presentammo il libro di Guelfo Margherita “Un calcio alla gabbia”. Libro di cui ho curato personalmente la prefazione. A Roma, maggio 1996, nel ciclo di conferenze organizzate dalla Fondazione Athenea presieduta dalla Principessa Pallavicini, parlai di Alfonso Gatto agli studenti dell’Università “La Sapienza”. Relatori erano i proff. Antonio barbuti (Direttore del dipartimento di italianistica alla Sapienza), Paolo Memmo e Paola Minucci. La conferenza venne ripresa da Rai Tre che ne dette ampio risalto. A Salerno, nel Salone dei Marmi del palazzo di città, Emma Grimaldi, Goffredo Fofi, Vincenzo De Luca (Sindaco di Salerno),Antonio Padellaro e Giuliana De Sio, parlano del mio libro “Il Mistero di Via Monaci”(Avagliano editore). A Napoli nel 1999,alla fiera del libro “Galassia Gutenberg”, Giuseppe Galasso, Augusto Placanica, Novella Bellucci, Giulio Ferroni ed io abbiamo presentato il libro di Placanica dal titolo “Leopardi e il mezzogiorno del mondo”,(Avagliano editore). Un mare di gente. All’Università del Molise: presentazione del libro “Franco Ciantitti” di Gianbattista Faralli, (ed. Marinelli). Relatori: Sebastiano Martelli, Tarquinio Maiorino, Luigi Giordano. A Firenze, Fortezza da Basso, presentazione del libro: “Acquisti d’Amore”, (ed. 10/17). Relatori: Alida Cresti, Ernestina Pellegrini, Giovanni Maccari, Giuseppe Scalera. Letture di Paola Pitagora. Salerno, Salone della Provincia, presentazione del libro di poesie


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“Acquisti d’Amore”. Relatori: Ernestina Pellegrini, Alida Cresti. Letture di Paola Pitagora. Fausto Curi ed io, al Teatro Verdi di Salerno, abbiamo presentato il libro “Ideologia e Linguaggio” di Edoardo Sanguineti. La conferenza si è tenuta in una bellissima sala all’ultimo piano del teatro. Al Teatro Verdi di Salerno, ho presentato il libro “Lo specchio cieco” di Michele Prisco. Prisco è rimasto molto entusiasta della mia relazione. Un giorno Sebastiano Martelli e Alberto Granese, mi convinsero ad andare all’Università di Salerno, dove avrei dovuto tenere una conferenza per la presentazione di un libro di Alfonso Gatto. In realtà, all’inizio, non me la sentivo di cimentarmi in tale “avventura”. L’aula Magna era gremita di persone. Una folla immensa ascoltò la mia relazione: fu un tripudio. Rimasi sbalordito da quello scroscio infinito di applausi. Giuseppe Grattacaso ed io abbiamo presentato “Lo specchio cieco” di Michele Prisco nella galleria d’arte “Il catalogo” di Lelio Schiavone. Con Giuseppe Scalera e Maria Teresa Messina ho presentato il libro ”Interni di Mario Carotenuto”, (Il catalogo). Vittorio Dini ed io abbiamo presentato il libro “Il pellicano di pietra” di Michele Prisco, nella galleria d’arte di Lelio Schiavone. Con Renzo Paris, a Potenza, ho partecipato ad un dibattito. Subito dopo abbiamo rilasciato un’intervista ai giornalisti televisivi.


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Franco Fortini, da me invitato, ha tenuto una conferenza al liceo “T. Tasso” di Salerno. Siamo stati accolti da centinaia di studenti. Ho presentato il poeta: cinque minuti e poi ho ceduto il microfono a Franco Fortini. Gli studenti hanno mostrato grande interesse per il suo discorso e lo hanno applaudito a lungo. Alberto Folin, Augusto Placanica ed io alla “Fondazione Menna” abbiamo tenuto una conferenza su Leopardi. Io ho parlato a lungo del poeta. Placanica ha fatto uno splendido intervento; e Folin, esperto di Leopardi, ha, a sua volta, relazionato su alcuni degli aspetti principali della poetica leopardiana. Insieme al direttore di “Cronache del Mezzogiorno” ho presentato il libro “Da la sotto” di Gerardo Malangone. La presentazione si è svolta nella sala della “Fondazione Menna” che, per l’occasione, era affollata da un gran numero di persone. Gerardo Malangone è uno scrittore raffinato e un osservatore acuto delle vicende della nostra città. Achille Millo, la figlia, Elena Viani ed io abbiamo parlato e letto di Alfonso Gatto e le sue poesie, in occasione di una serata dedicata al poeta. La manifestazione si teneva nella strada sulla quale si affaccia la galleria di Lelio Schiavone. Ilenia ha sei anni. E’ la mia nipotina. Veniva spesso a trovarmi e mi chiedeva come stavo, “abbastanza bene” le rispondevo. Poi mi stringeva le mani ai fianchi e, dolcemente, derideva la mia “ciccia”. Dario ha solo nove anni e, un giorno, mi ha meravigliato tanto. E’ venuto a trovarmi, ha aperto il suo quadernetto e, con le lacrime agli occhi, ha cominciato a leggermi un tema che aveva svolto in classe, parlava del male che mi ha colpito!


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“Il mistero di via Monaci” fu presentato a Roma da me e Corrado Augias. Durante la serata, bellissima, Augias ebbe parole di grande apprezzamento per il mio lavoro. Al circolo Canottieri di Salerno, durante una splendida serata organizzata da Nicola Fruscione, presidente dello stesso circolo, io, Enzo Striano e Paolo Giuntella abbiamo presentato il libro di Enzo Striano “Il resto di niente” (Edisud). Al circolo Canottieri di Salerno Emma Grimaldi, Roberto Fedi ed io abbiamo presentato il libro di Giuseppe Leone “Note di Critica Letteraria” (Avagliano Editore). Giuseppe Leone ed io siamo un'unica persona. E’ stato il mio maestro. Amato e indimenticabile. Ad Avellino e a Moliterno Geppino Gentile e Maria Teresa Messina hanno presentato “Acquisti d’amore”. Poeta Nuove letture internazionali “Lo stellato”, premio di narrativa che io ho voluto fortemente, che fortemente ho sostenuto e finalmente realizzato, grazie all’aiuto di Alfonso Andria, nasce da una intuizione suggestiva d’una lettura gattiana dedicata al castello di Arechi. Lì dove Gatto dice: Al castello d’Arechi in quel grande passato, nella città ove fui la vetta solitaria dell’ultimo chiarore, vedrò nei baci bui notturni lo stellato. Splendida, illuminante, nacque l’idea che non mi


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diede tregua finché non fu realizzata. Alfonso Andria tre volte è venuto a trovarmi all’ospedale S. Leonardo (una cosa triste). Commosso e rattristato mi abbracciò e mi baciò forte. Si informò circa quello che era accaduto. Mi incoraggiò e mi disse di essere forte. Anch’io ero commosso e, non potendo esprimerlo a parole, cercai di comunicarlo con l’espressione del volto. Alfonso mi augurò di guarire presto per tornare nuovamente a dirigere la manifestazione che da dieci anni, con tanta dedizione, avevo portato a livelli di conoscenza internazionale. (Che nostalgia per quegli anni “invisibili” tanto intensi ed entusiasmanti. La vita è strana!). Achille Millo, Paola Pitagora, Riccardo Cucciolla e Vito Riviello mi telefonarono dopo la tragica notte e con apprensione mi chiesero cosa mi era accaduto. Era accaduto l’irreparabile. Mi aveva colpito un male inesorabile che mi aveva lasciato prostrato in un letto. Dieci anni di intenso entusiasmante impegno letterario, di incontri, conoscenze, amicizie con i nomi più brillanti della poesia internazionale, tutto d’un colpo mi rovinarono addosso lasciando soltanto un deserto. Angel González (Spagna), (Persona molto elegante. Gentile, raffinata. Ha collezionato tantissimi riconoscimenti. Durante il suo soggiorno a Salerno, Geppino Gentile lo ha guidato nel centro storico). Sanguineti, Millo, Luporini, Uli Becker (Germania),Durante, Frasca, Lamarque, Burgos (Spagna), Guicharder (Francia), Frixione, Risset (Francia), Lucente, Dombroski (Russia), Colasanti, Annino, Baiano, Duque Amusco (Spagna), Ana Rossetti


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(Spagna), Lello Voce, Amelia Rosselli. (Amelia Rosselli nel ’50, assieme a Rocco Scotellaro, si trasferì a Tricarico. Ma qui Scotellaro fu arrestato. Il fatto suscitò l’ira del popolo e in breve tempo il poeta fu scarcerato. Amelia Rosselli fu la prima a battersi con tutte le sue forze per ottenere questa scarcerazione. Dopo anni Amelia Rosselli è stata qui a Salerno e ha presentato uno dei suoi più grandi capolavori letterari.) Wassim Damash (Palestina), Emma Grimaldi, Giuseppina Igonetti, Hedi Bouraoui, Pino Blasone, Franco Fortini, Alfredo Giuliani, Renzo Paris, Paola Pitagora, Valerio Magrelli, Tommaso Ottonieri, Fausto Curi, Corrado Cicciarelli, Fawzi Al Delmi (Iraq), Vincenzo Strica, Nouri Jaran (Libano), Tea Lateif (Iraq), Samih Al Qasim (Palestina), Saadi Yousef (Iraq). (Durante la guerra del golfo, il poeta iracheno Saadi Yousef, si trovava a Parigi. A causa della guerra gli fu impedito di lasciare la Francia. Contattai telefonicamente Nilde Iotti e, con la sua intercessione, il presidente della Repubblica francese, accettò la nostra richiesta di ospitare il poeta in Italia. Fu così che Saadi Yousef prese l’aereo e giunse a Napoli. Per mia gioia il grande poeta iracheno partecipò alla nostra manifestazione.) Dario Bellezza, Valentino Zeichen, Marco Belisso, Piero Cademartori, Pedro Provencio (Spagna), Antonio Carvajal (Spagna), Francisco Castaño (Spagna), Jesús Munárriz (Spagna), Margarita Ardanaz (Spagna), Marino Biondi, Lucio Lugnani, Niva Lorenzini, Franco Contorbia, Umberto Carpi, Fernando Bandini. Nella mia vita ho fatto esperienze uniche. Ancora adesso mi riempiono l’anima e mi ripagano in parte dello scippo della vita. Si affollano alla mia mente i ricordi legati a queste persone. Questi nomi non sono puri suoni ma corpo e sangue di un organismo vivente. Ognuno di loro, anche se per poche ore, è stato


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un affetto spontaneamente vissuto. La mia mente è ancora piena di un mare di cose, anche se ne ha perdute altre che attualmente mi impediscono di riprendere l’attività interrotta. Ricordo i viaggi e le conoscenze fatte. Milano, Torino, Venezia, Montpellier, Palermo, Taranto, Bari, Parigi, Recanati, sono altrettante tappe di conferenze, tavole rotonde, incontri letterari che mi riempivano la vita di esperienze, conoscenze e soddisfazioni. Pasquale Stoppelli, Lucio Felici, Giuseppe Pacella, Roberto Vecchioni, Renzo Cremante, Luigi Blasucci, Antonio Prete, Cesare Galimberti, Desmond O’ Grady (Irlanda), Elio Pagliarani, Gennaro Savarese, Gore Vidal (Stati Uniti), Davide Riondino, Lina Sastri, Mariano Rigillo, Sebastiano Martelli, Ida Di Benedetto. Yelena Trofimova (Russia), Anastasia Kharitonova (Russia), Andrei Cernov (Russia), Olesia Nikolaiva (Russia), Vladimir Tuchkov (Russia), Alexandr Makarov Krotkov (Russia). (I testi in italiano saranno letti da: Flavia Palumbo, Carla Varista, Elena Viani, Roberto Lombardi, Claudio Rubino). (Concerto: Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi” diretta dal M° C. Columbro “Pierino e il lupo” di S. S. Prokof’nv , voce recitante Antonio Angrisani.) (Un giorno, in un elegante bar di Salerno, a mezzanotte, dei sei poeti russi, uno solo, Alexander Makarov Krotkov, ha vinto una targa di riconoscimento. Il giorno dopo il sindaco e Alfonso Andria hanno premiato personalmente lo stesso poeta. L’indomani, tutti assieme, organizzato un confortevole viaggio, siamo andati ai templi di Paestum. I poeti russi sono rimasti senza parole dinanzi a quella meraviglia del mondo. Stupefatti dalle maestose colonne che circondano la città antica, affascinati dalla storia dei templi e dai tanti monumenti che rievocano il passato, siamo rimasti “allucinati”.)


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Salerno. “I Novissimi”: presentazione di Fausto Curi.(Letture di Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Federico Sanguineti per Antonio Porta e Nanni Balestrini). Salerno. Per la poesia araba femminile contemporanea: Toni Maraini e Isabella Camera D’ Afflitto, Wafaa Lamrani (Marocco), Amina Said (Tunisia), May Muadhffar Naciri (Iraq), Aisha Arnut(Siria). (I testi in italiano saranno letti da Kadigia Bove accompagnata al liuto da Al – Shalabi Anan, Carla Varista, Flavia Palumbo. Concerto: “Quartetto Zirijab”). Ravello. “Mediterranea”: Presentazione di Costantino Nikas ,Toni Maraini e Giuseppe Gentile. (Letture di Titos Patrikios, Grecia, Moamhed Aziza, Egitto, Cèsar Simon, Spagna. Letture di Federico Sanguineti per Alfonso Gatto. I testi in italiano saranno letti da Mariano Rigillo e Giuseppe Gentile. Concerto “Ensemble Cantilena Antiqua”.) Salerno – Castello di Arechi: consegna del premio internazionale “Salerno ‘92” a Titos Patrikios e Fadwa Tuqan. (I testi in italiano saranno letti da Mariano Rigillo e Lina Sastri. Concerto “Ensemble Cantilena Antiqua”). Quante donne ho conosciuto! Nella cornice del castello d’Arechi, della villa Guariglia e della villa Cimbrone molte ne ho conosciute. (Ricordo con maggiore simpatia Linda Di Lieto ed il marito. E’ stata una splendida esperienza e un incontro felicissimo). Quartetto Zirjab, Giuseppe Caliceti, Compagnia Solari Vanzi, Marco Solari, Stefano Cavedoni, Antimo Negri, Euphrase


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Kezilahabi. Ravello. Poesia Araba Femminile Contemporanea: Chebbi Fadhila(Tunisia), Dhabiya Khamees (Abu Dhabi E.A.U, Al Awaj Zyneb (Algeria). (I testi in italiano saranno letti da: Michela Manzoni, Flavia Palumbo, Elena Viani). (Concerto: Ensemble Cantilena Antiqua, “Ondas do mar – Il Medioevo del Mediterraneo”. Salerno. Poesia Araba Femminile Contemporanea

Mario Di Pinto, Titos Patrikios (Grecia), Mohamhed Aziza (Egitto), Fadwa Tuqan (Palestina), Cantilena Antiqua Ensemble, Alberto Folin, Anna Dolfi, Augusto Placanica, Emilio Vigo, Vito Riviello, Giuseppe Gentile, Luciano Erba, Maria de las Nieves Muñiz Muñiz (Spagna), Gianni Scalia, Michele Dell’Aquila, Breyten Breytenbach (Germania), (amico di Nelson Mandela ,con il quale aveva condiviso per sette anni l’esperienza del carcere in Sudafrica;a Salerno trascorse giorni indimenticabili con E. Sanguineti, amico carissimo che non incontrava da anni) Marhmud Darwish (Palestina). (Marhmud Darwish e Arafat, sono due uomini che stimo tantissimo. Darwish era il ministro della cultura in Palestina. Ad una tavola rotonda con illustri personaggi israeliani, propose un trattato di pace; ma Israele non accettò. Darwish diede le sue dimissioni e da allora non si sono più avute sue notizie.) Alfredo Giuliani, Iulita Iliopùlu (Grecia), Domenico Notari, Giuseppe Cantillo, Sergio Astrologo, Mariano Baino, Roberto Barbolini, Giuseppe Bella, Marosia Castaldi, Laura De Palma,


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Luca Doninelli, Enzo Fontana, Vincenzo Gambardella, Umberto Lacatena, Giulio Mozzi, Tommaso Ottonieri, Fulvio Panzeri, Felice Piemontese, Achille Serrao, Enzo Fileno Carabba, Andrea Carraro, Vincenzo Esposito, Idolina Landolfi, Giovanni Maccari, Dante Maffia, Gabriella Maleti, Sergio Nelli, Elio Paoloni, Mario Graziano Parri, Francesco Piccolo, Federico Sanguineti. Ricordo tutti i volti dei poeti e degli scrittori premiati, la gioia dei vincitori e la delusione sul volto dei perdenti. Le voci degli attori che evocavano personaggi e atmosfere narrate. Musicisti che trasformavano i luoghi in scene fantastiche, in giardini di Klingsor. Ernestina Pellegrini, Alessandro Tamburini, Gaetano Cappelli, Carmen Covito, Sergio De Santis, Raffaele Nigro, Antonio Pascale, Luigi Pingitore, Adonis. (Adonis è un illustre ed elevatissimo poeta. Ogni sera, a teatro, centinaia e centinaia di persone pendevano dalle sue labbra. Ogni sera il pubblico rimaneva impietrito e muto come in un incubo. Tre anni ho impiegato a rincorrere questo grande uomo. Sono rimasto sbalordito nel vedere la spropositata quantità di illustri capolavori da lui pubblicati. Mi ha meravigliato ancora di più scoprire le sue tante opere scritte in lingue diverse: tedesco, francese, spagnolo, inglese, arabo etc. etc.) Michele Serio, Dario Voltolini, Salwa Bakr (Egitto), Muhammad Barrada (Marocco), Muhammad al-Busati (Egitto), Nafla Dhahab (Tunisia), Gamal al-Ghitani (Egitto), Haydar Haydar (Siria), Walid Ikhlasi (Siria), Ibrahim ‘Abd al-Magid (Egittto), Baha’ Taher (Egitto), Fu’ad al Takerli (Iraq), Nada al-Tasan (Arabia Saudita) Quante cose ho visto, quante ne ho ascoltate. Dieci anni non si raccontano in poche righe. E questi dieci anni mi seguono sempre adesso che sono costretto a muovermi in poche stanze. Il ricordo degli spazi infiniti che ho attraversato è tanto più


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malinconico e doloroso in questi spazi chiusi. Stento a credere d’essere la stessa persona. Come è possibile che sono io quello che si è mosso tanto, che tanto ha lavorato con entusiasmo, che tanto ha viaggiato e vissuto e che ora è costretto a muoversi nello spazio chiuso di cinque stanze, stentando passi strascicati, profferendo poche parole delle tante usate un tempo, spesso solo con tutto il peso del loro passato. Michele Campanella, Lina Vertmuller, Gruppo di Flamenco, Michele Scozia, Quartetto di Torino, Quartetto “Les Flûtes Joyeuses, il tenore Spiros Sakkàs (Grecia), Jorgos Kurupòs (Grecia), il pianista François-Joël Thiollier (Francia), César Simón (Spagna), Michalis Ganas (Grecia), Kikì Dimulà (Grecia), Markos Meskos (Grecia), Paola M. Minucci. (Kikì Dimulà, Markos Meskos, Michalis Ganas, Achille Millo e Riccardo Cucciolla, hanno preso parte ad una importantissima manifestazione a Villa Guariglia: accompagnati dal compositore Jorgos Kurupòs e dal tenore Spiros Sakkas, hanno dato vita ad uno spettacolo entusiasmante.) Quanti personaggi illustri. Quanti nomi corrono nel mio passato e volano via dalla mia mente. Gelsomino D’Ambrosio è un personaggio illustre: è conosciuto in tutto il mondo e viaggia continuamente. Tutto il lavoro di organizzazione, di scelta del materiale, di selezione di centinaia di libri è gravato solo ed esclusivamente sulle mie spalle, sulla mia responsabilità. Quante cose! Quante esperienze attraversate! Quanto lavoro, quanto entusiasmo! Dieci anni di tutto questo sono difficilmente riassumibili in poche pagine scritte. Attilio Bonadies è sempre lì. Insieme a Parigi, a Recanati, in tutti i luoghi della poesia


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attraversati. Stefano Giuliano è colto, intelligente, sensibile.(”Diversi Racconti“) Paola Zacometti: che bella testa!( “Diversi Racconti “) Stefania Zuliani, scrittrice raffinata.(“Diversi Racconti”) Nadia, instancabile.(“Diversi Racconti”) Mimmo Notari è sempre lì, una penna e un libro tra le mani, mi resta il ricordo del lavoro svolto assieme. Mi resta il ricordo del suo libro, delle manifestazioni in cui abbiamo collaborato e della grande amicizia che ci lega. (“Diversi Racconti”) Sono stato bene con loro. Geppino, un grande amico. Siamo stati amici per la pelle. Trent’anni fa, io e Geppino Gentile, giocavamo a pallone. Quel giorno a teatro, Geppino Gentile, ebbe grandissimo successo. Lo abbracciai forte tra gli applausi che scrosciavano.(“Diversi Racconti”) Giuliana Sabatini è una persona squisita! Amica mia quante cose sono accadute! (“Diversi Racconti”) è il frutto del nostro lavoro! Maria Grazia Tedesco ha organizzato tanti voli per far giungere, qui a Salerno, importanti poeti dalle più diverse parti del mondo. E’ una donna sensibilissima! Ogni giorno Maria Grazia Tedesco è ligia al suo dovere e svolge il suo lavoro con estrema professionalità e passione. Grazie a lei abbiamo conosciuto la cultura e il talento di persone provenienti da altri paesi.(“Diversi Racconti”)


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