Bragaglia Memo Benassi. Un grande attore diverso.

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MEMO BENASSI Un grande attore diverso

Leonardo Bragaglia, iniziò la carriera recitando per il cinema con Vittorio De Sica, Totò, Anna Magnani, Nino Manfredi, nei film di suo zio Carlo Lodovico Bragaglia. In teatro debuttò con la compagnia dell’altro suo zio Anton Giulio Bragaglia al Ridotto di Venezia con Memo Benassi. Dal 1949 si rese indipendente dagli zii paterni e si iscrisse alla Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico vincendo la borsa di studio primo ex aequo con Glauco Mauri. Dal 1950 rientrò in arte nella compagnia di Antonio Gandusio all’Ateneo dell’università di Roma recitando Goldoni e Moliere. Divenne poi allievo prediletto di Lamberto Picasso recitando con lui oltre 100 rappresentazioni di Enrico IV di Pirandello. Diventò in seguito regista lavorando “ a 4 mani” con Riccardo Bacchelli firmando “Giorni di Verità”. Tra regie teatrali e radiofoniche (celebri le sue riduzioni per la Rai “Commedie in 30 minuti”) ha diretto attori come Paola Borboni, Massimo D’Apporto, Elsa Merlini, Mario Scaccia, Wanda Capodaglio, Elena Zareschi, Lia Zoppelli. Ha scritto una quarantina di libri: Shakespeare in Italia e Maria Callas l’arte dello stupore, editi dalla Persiani Editore per cui attualmente dirige la collana dello spettacolo, tutte le biografie di Ruggero Ruggeri, la Storia del libretto in 4 volumi ed altri libri sugli interpreti verdiani, pucciniani, e pirandelliani. E’ inoltre condirettore del Premio “Ermete Novelli” e direttore artistico della Cines, storica azienda di produzione e distribuzione cinematografica.

Leonardo Bragaglia

MEMO BENASSI Un grande attore diverso

Leonardo Bragaglia

In occasione del cinquantenario della scomprasa dell’attore prediletto da Visconti, Max Reinhardt, Jacques Copeau, e molti altri, questa biografia vuole ripercorrere la vita di Memo Benassi, tra il grande Teatro Drammatico Italiano tardo ottocentesco e il teatro del Ventesimo secolo. Un viaggio avvincente attraverso i grandi maestri che hanno lavorato con Benassi come Eleonora Duse, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri, per la “vecchia guardia” e Vittorio Gassman, Enrico Maria Salerno, Glauco Mauri - solo per citarne alcuni - per la nuova. Non mancano importanti curiosità come il ricordo di Charlie Chaplin che aveva assistito entusiasta ad uno spettacolo di Benassi assieme alla Duse. Di notevole interesse la presentazione di Mario Scaccia che, grazie al racconto della sua esperienza professionale con Benassi, traccia un profilo umano del tutto singolare ed incisivo.

presentazione di

prezzo al pubblico

€ 19,00 - iva inclusa

Mario Scaccia


Teatro


LEONARDO BRAGAGLIA

MEMO BENASSI UN GRANDE ATTORE DIVERSO Presentazione di Mario Scaccia

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Memo Benassi Un grande attore diverso di Leonardo Bragaglia

Paolo Emilio Persiani Editore Via Q.Majorana n°4 40126 Bologna tel. 3384540662 fax 363384540662 e-mail: info@persianieditore.com

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I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i paesi. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore ad un decimo del presente volume. Copertina: composizione di Federico Guidi da un ritratto di Romano Gazzera: Memo Benassi 1956, disegno a olio, cm 50x56. Curatori del testo: Daniela Malferrari, Paolo Pretolani. Stampa: Digital Point S.r.l., Perugia. Copyright © 2007 by New Media Entertainment di Paolo Emilio Persiani. TUTTI I DIRITTI RISERVATI – Printed in Italy

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PREFAZIONE DI MARIO SCACCIA: RICORDO DI MEMO BENASSI Vi sono due termini per designare chi agisce in palcoscenico: attore e commediante. Comunemente è attore l’interprete, colui cioè che, spogliandosi della propria personalità, assume quella del personaggio che è chiamato a rappresentare, mentre è commediante colui che finge un ruolo, ne gioca abilmente le situazioni, ne ricava tutti gli effetti che appunto l’arte sua mistificatrice o, meglio ancora, il suo mestiere scenico, gli consentono. Si può essere o l’uno o l’altro, anzi – più specificamente – possedere più dell’una o dell’altra fisionomia. E quando si hanno entrambe al massimo grado, si è “grandi attori”. Tuttavia, io credo possibile individuare una terza categoria fra coloro che esercitano l’arte della scena, ed è quella a cui appartengono alcuni rari fenomeni ai quali poco riguarda il temperamento interpretativo dell’attore, né tanto meno la sapienza scenica del commediante. Son fenomeni rari ma pur sempre classificabili: artisti capaci di una creatività che ben poco ha a che fare con qualsiasi metodo di immedesimazione e con il rispetto e l’osservanza di quei canoni che regolano l’espressione scenica. Questa genia artistica infatti non ha demarcazione fra vita privata e scena: non crea un personaggio, lo è essa stessa; seguita a rappresentarsi in continuazione, potenziando magari quando è sul palcoscenico qualche lato del proprio carattere, semplicemente sublimando al caso difetti di voce, caratteristiche di gestualità e di espressione mimica. E, considerati da un’angolazione puramente ortodossa delle regole sceniche, sono degli eccezionali dilettanti, anarchici a volte neppure molto lodevoli, scardinatori di ogni ordine e disciplina, portatori di disordine e di sovvertimento, che in non pochi casi snaturano il contesto in cui vengono immessi e in altri – pur 5


palesemente non dandoci il personaggio che sono chiamati a darci – riescono, mercé l’efficacia della propria personalità e l’efficienza del proprio carisma, a suggestionarci al punto di farci vedere “altri” da come invece essi rimangono. A questa razza apparteneva senza dubbio Memo Benassi tra i “grandi attori” con i quali ho avuto l’onore di lavorare. Non “genio e sregolatezza” come semplicisticamente di lui s’è detto: che fuori della scena, la sua vita non era per nulla senza regole, e che – seppure senza regole apparisse la sua arte – nessuno mai più di lui ho conosciuto rispettoso di quelle e geniale nel travisarle o tradirle. Espressione artistica totale sia sulla scena che nella vita quotidiana: uno sguardo, una posa, una intonazione, un sorriso, un aggrottare di ciglia, gli stessi – sempre – ma pur sempre specifici alla circostanza, connotatori di una creatività che non è finzione ma realtà continua, verità, modo di essere, espressione estetica allo stato puro, anche quando non intendeva recitare. «Ehi, tu, baronessa, vieni qui. Pagami il taxi, che non ho spicci». E così dicendo entrò nell’atrio del Teatro Comunale di Treviso, dove quella sera del lontano novembre del 1948 avremmo dovuto recitare Il tartufo di Molière. Confuso, sapendo di non avere in tasca un granché, chiesi al tassista quanto gli dovevo. «Duemila cinquecento lire. Capirà, da Venezia!». Racimolai tutti i miei averi e saldai la corsa restando completamente all’asciutto. Quindi raggiunsi Benassi che già sbraitava in sala con il direttore di scena perché quella mobilia presa in affitto da un antiquario non era, a parer suo, propriamente dell’epoca. Girai al largo e me ne andai a fare un giro in città. Quel giorno non mangiai perché senza più un soldo, e la sera fui presto in teatro con la segreta speranza che Benassi, vedendomi, si ricordasse di rimborsarmi. Niente. Solo dietro le quinte, incontrandolo nell’intervallo del secondo atto, mi disse: 6


«Quei soldi scordateli, non li vedrai mai più». E così avvenne. Salvo che un pomeriggio di qualche anno dopo, incontrandolo al Casinò di Saint Vincent, mi mise in mano un bel gruzzolo di fiches di una (a sentir lui) iperbolica vincita dicendomi: «Prendi, baronessa, non pianger più. In fondo sei una brava donna». Nel 1948 ero stato scritturato da Arturo Buleghin per la Compagnia Stabile del Ridotto di Venezia diretta da Anton Giulio Bragaglia. Memo Benassi vi figurava come partecipazione straordinaria per Il tartufo. «Baronessa, deponi il lorgnon e vieni a provare». Allora mi chiamava ancora “la baronessa”, prima di ribattezzarmi “la farfalla”, quando seppe che ero passato alla rivista con Macario e poi tornato alla prosa. “Baronessa”: chissà perché? Forse perché ero allora molto timido e a modino. Certo più di Silverio Blasi, primo attore della compagnia, che spesso alle prove gli rispondeva sgarbatamente e una sera – non ricordo cosa fosse successo – arrivò a mostrargli i pugni sotto il muso. Lui scosse la bella testa candida e lo ammansì facendolo ridere con una delle sue fantastiche uscite: «Che irrimediabile selvaggia!» A tutti parlava al femminile. Arturo Buleghin, nostro capocomico, lo chiamava “la polacca”. A Bragaglia che, accidentato dai reumi, si difendeva dall’umidità di quel gelido autunno veneziano con grandi sciarpe intorno al collo, lobbie calzate fino agli occhi e coperte intorno alle gambe mentre dirigeva le prove in quel salone non riscaldato sul Canal Grande, si fermava a considerarlo e commentava scuotendo il capo: «Povera donna anche tu!». L’amministratore era “la passante”. Il trovarobe “Cosetta”. Fin dal primo giorno di prove aveva portato lo scompiglio in compagnia facendo stare tutti con i nervi a fior di pelle. A Lydia Alfonsi, giovanissima debuttante, un giorno fece ripetere una 7


battuta almeno trenta volte incalzandola con ferocia fino a che la ragazza non svenne. Lui commentò: «Com’è fragile quest’altra valchiria del bidet!». Della sua parte, lui diceva solo le repliche, delle tirate lunghe solo le finali, tanto per dare l’attacco all’interlocutore. Scenate continue, urli, insulti, battibecchi, sbattimenti di porte, pianti, improperi contro tutti: il ministero, il teatro, la sua gente. Poi d’improvviso la bonaccia, l’incanto di una recitazione fluida, tranquilla, piena di echi e di risonanze arcane. Io mi commuovevo e m’incantavo ascoltandolo. E venne il giorno della prova generale. Eravamo tutti pronti e in costume sul palcoscenico, e lui non si vedeva. O, meglio, lo si era intravisto, ma al momento della convocazione di Bragaglia per le ultime raccomandazioni, non si trovava più. Irruppe poi dal fondo della sala, esultante, gridando quasi con tono di rimprovero: «Il teatro è esaurito per tre giorni». Quindi, felice, salì sul palcoscenico e passandoci accanto commentò: «Chiamo?» E scomparve in quinta accennando la romanza del Werther che tanto amava: Ah, non mi ridestar. Il perché me lo spiegò una sera, indicandomi una foto del tenore Ferruccio Tagliavini che teneva in camerino in bella mostra entro una spessa cornice d’argento. «Che guardi? Non sono mica veri, sai, i pettegolezzi su di noi. È solo perché gli ho insegnato come si deve baciare in opera lirica. In opera, non ci si bacia come in prosa, sai». La sera della “prima” noi tutti eravamo in camerino a prepararci e concentrarci, già molto tempo prima del necessario. Alla “mezz’ora”, un urlo di Benassi, inumano: «È la Ghepeu! È la Ghepeu! Io quella lì la porto in tribunale!» (“Quella lì” era la sarta, anzi il sarto di compagnia, che era un uomo). «Era qui, era qui il mio mantello. Io me ne vado, me ne vado. Dov'è la polacca? Lo sai, Misha – (al costumista Scandella) – che senza il mantello non posso fare il mio ingresso in scena. Me ne vado! 8


Ditelo alla ciociara – (Bragaglia era di Frosinone) – che me ne sono andato».

In Tartufo ero Orgone. Non che mi fosse stato particolarmente difficile entrare in quel personaggio, perché il ruolo mi si addiceva e in compagnia era quello che mi spettava, ma sostenerlo, io appena trentenne, vicino al grande Benassi-Tartufo, me ne faceva sentire tutta la responsabilità. Tartufo entra in scena al terzo atto, e per i primi due atti, l’attenzione del pubblico è riservata a Orgone. La sera della prima, le risate e gli applausi scrosciarono dalle mie prime battute. Benassi, in quinta, giocando col mantello ritrovato, rideva a bocca larga e mi sfotteva ad ogni effetto: «Ora entro io, baronessa, e ti rovino la piazza». Infatti, dal suo ingresso in scena, l’attenzione del pubblico fu tutta per lui. Si era fatto corpulento, era riuscito a trasformare il volto in un faccione largo e ingrandito da una folta parrucca nera ricadente sulle spalle. Avvolto nel suo nero mantello, che a tratti si stringeva addosso nascondendovi entrambe le mani, il viso pallido, gli occhi quasi sempre bassi e sfuggenti o quanto meno distolti dalla persona che gli stava dinnanzi, la parola e la voce insinuanti, condusse il suo gioco che non era quello dell’ipocrita, ma la stessa ipocrisia. In quegli atteggiamenti e in Benassi interpreta Tartufo

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quella voce si mescolavano l’avidità, la sete di potere, la sfrontatezza dissimulata sotto parvenze di umiltà. La sua mano, quasi tremando, usciva furtiva dal mantello per scivolare sulle cose e le seriche vesti di Elmira, come i suoi sguardi sulle carni nude di Dorina, i suoi occhi si aprivano assumendo una strana fissità. L’attore e il commediante vi si sovrapponevano continuamente in un gioco che li portava ad allearsi mirabilmente. E, seppure tutto questo io l'avessi visto nascere alle prove, ora mi lasciava sgomento per la sua verità. Riusciva, non so come, a farmi sentire il suo disprezzo verso di me pur nella blandizie di quelle melliflue intonazioni, e, nella scena della tentazione con Orgone sotto il tavolo, quando scopriva la mia presenza, arrivava a farmi male battendomi in testa le nocche della mano fattasi di ferro. Un’interpretazione superba, totale, rimastami nella memoria inobliabile. Ma le altre sere non fu così, o raramente, perché quella prima sera – lo capii più tardi – era stata una lezione per me e tutti i miei compagni. La dimostrazione di essere più bravo di quanto si pensasse che fosse. In privato, con me, Benassi era di grande confidenza e mi preferiva a chiunque altro per fargli compagnia a casa sua alla Giudecca o a passeggio lungo la riva degli Schiavoni. Era sempre elegantissimo, sebbene di un’eleganza alquanto eccentrica. Uno dei suoi gatti l’aveva morso a una mano, e girò per giorni con il braccio fasciato al collo tenuto fermo da una grande sciarpa di seta rosa. Si appoggiava a me raccontandomi ad alta voce aneddoti di teatro e della sua celebre tournée americana con la Duse. Sempre lì finivano d’altronde le sue rievocazioni. La gente lo riconosceva e si voltava a guardarlo. Lui gongolava. Doveva sempre essere il centro dell’attenzione. Se gli sguardi però erano troppo insistenti era capace di commenti vivacissimi che, confesso, mi mettevano alquanto a disagio. 10


Una volta, all’ora del passeggio, in Piazza San Marco, a un marinaio che, al nostro passaggio, rivolto a dei commilitoni, aveva azzardato un apprezzamento salace, lo chiamò, burbero, a gran voce: «Vieni qui, marina». Quel ragazzone, arrossendo, si avvicinò timido timido chiedendo cosa voleva. E lui di rimando: «Dove sono le tue navi?». E riprese il racconto che mi stava facendo lasciando quel poveretto a bocca aperta fra gli sghignazzi dei compagni. Ma non è che in scena – come ho visto in altri grandi attori – questa sua “esuberanza” si disperdesse lasciando spazio solo al personaggio, pur sempre presente e compreso. No, io sotto sotto finivo col leggervi una soddisfazione vitale di libertà che era la stessa che nella quotidianità lo faceva quasi radioso, tolti i brevi momenti di malumore. Sicuramente la gioia d'essere in scena, di vivere quell'altra esistenza che gli era stata data come una grazia e un privilegio. Per questo a volte – infastidito da qualche rumore in sala – era capace di scendere in proscenio e di richiamare il disturbatore, come se quello ce l’avesse dispettosamente con lui. «Golia!» gridò nel pieno di un monologo a una signora, evidentemente raffreddata, al suo terzo colpo di tosse, fissandola negli occhi. E una sera, in piena scena, mi disse ad alta voce, indicandomi il pompiere di servizio che seguiva estasiato la nostra azione: «Ma che ha quello da guardare? Non ti sembra il Re di coppe? ». Aveva capito che io mi entusiasmavo alla manifestazione dei suoi estri improvvisi, sia in scena che in strada, e me ne gratificava continuamente, forse con la segreta intenzione di mettermi a disagio. E quando si rese conto che in scena, di queste sue esibizioni, ero felice, me ne privò; e raddoppiò invece i suoi exploit fuori teatro, perché vedeva che di essi un po’ mi vergognavo. «Baronessa, non ti dico di puttaneggiare, ma almeno civetta un po’». «Ho passato la notte con quattro marinai sloveni. Sapeste! Quattro energumeni. Non mi reggo in piedi!» 11


E non si ricordava che la notte eravamo stati insieme con lui fino all’alba, quando l’avevamo riaccompagnato a casa io, Blasi, la Danesi, Nardacci, la Maestri e il giovanissimo nipote di Bragaglia, Leonardo. Presto ci eravamo accorti che – malgrado tutto quello che si raccontava sul suo conto – egli non solo non aveva una doppia vita, ma neanche una sua vita privata. Tutte chiacchiere: era sempre con noi, e, se non era con noi, col suo amico Willy Lukas intorno ai tavoli della roulette. Finite le recite, se ne partì lasciandomi una sua foto: «Tienila per mio ricordo, ma niente dedica, perché porta jella». Da quell’incontro del 1948 nella Compagnia Bragaglia, Benassi mi aveva annoverato nel numero dei suoi amici o, per dir meglio, fra le vittime dei suoi sfoghi telefonici. Mi telefonava dappertutto e a tutte le ore. Quando a volte ci si incontrava su qualche “piazza”, mi chiamava in teatro per dirmi di raggiungerlo a quel tale ristorante o nel suo albergo. Così fu una volta a Firenze dove, raggiuntolo alla Buca San Giovanni, lo trovai a capo di una lunga tavolata di attori: era quasi per intero la compagnia del Troilo e Cressida messo in scena da Visconti che si esibiva a Boboli. «Vieni, baronessa, ti presento alle mie amiche». E, indicandomi tutti i colleghi, ognuno con il suo nomignolo, mi accompagnò da uno a uno fino a stringere la mano di Franco Zeffirelli, allora aiuto di Visconti: «Ecco, mi disse, questa è colei che non si deve amare». Si, lui recitava, con il pubblico che sentiva partecipe; l'altro, quello che faceva resistenza alle sue provocazioni, non lo considerava, non gli regalava la soddisfazione di averlo inteso recitare. Una sera fu lui che venne a trovarmi al Manzoni di Milano dove con la Compagnia Gioi-Cimara si stava replicando L'adolescente di Natanson. In questa commedia, tanto io che Enrico Maria Salerno, riscuotevamo un particolare successo. 12


Dopo lo spettacolo, mentre si andava io, lui e il suo amministratore, gli chiesi un parere. - Memo, le è piaciuta la commedia? - È roba vecchia. - E della compagnia, che mi dice? - C’è un solo maschio, ma si chiama Maria. Nella stagione 1955-56, fui scritturato dalla Televisione con un contratto fisso che mi impegnava a disposizione dell'Ente per varie trasmissioni sia di prosa che di altro genere, negli studi di Roma e di Milano. Qui, nell’Enrico IV di Pirandello, ritrovai Benassi. C’era anche Paola Borboni e altri attori amici come Franco Volpi e Ottorino Guerrini. Avemmo modo di ammirare il grande “mostro sacro” alle prese con questo nuovo mezzo “infernale” (veri e propri sketches di rivista durante le prove, perché allora si andava in diretta) e l’onore di partecipare a un'irripetibile interpretazione del grande personaggio di cui per fortuna si conserva copia. Ah, gli scontri di Benassi con la mentalità burocratica di quei funzionari! Le umiliazioni alle quali li sottoponeva! Le risse con il buon Claudio Fino che aveva la responsabilità della regia e doveva far rispettare tempi e scadenze! Un giorno – quasi una prova generale – Benassi, preso come da un raptus durante una sua tirata, si spostava per lo studio non tenendo conto dei segni da rispettare per gli stacchi delle camere. I cameraman, messi duramente alla prova, lo inseguivano alla meno peggio cercando di non perdere ciascuno la sua immagine di cui lasciare scelta al regista e non interrompere così la prova fortemente accesa. Ma tutto questo generò una grande confusione perché il piano di ripresa fu presto travolto e tra giraffe, cavi, attori e riflettori ci ritrovammo in un groviglio inestricabile. Lo “stop” gridato da Claudio Fino dalla cabina di regia mise fine al bailamme. Benassi, che aveva seguitato a vedersi inquadrato nel monitor (ma ignorava a quale 13


prezzo), disse: «Hai visto, Fino, che memoria per i movimenti?». E la voce di Fino, serafica, dalla cabina: «Grazie, Memo. Bravissimo. Ma, se non ti dispiace, vorrei riprovare la scena. Ah! Tieni presente che a quella tal battuta devi essere in quel punto; nell’altra devi voltarti verso la camera 2; nell’altra ancora devi cercare di prendere la luce da quel tal proiettore. E poi tieni basso il volume. Toni più sommessi, quasi un bisbiglio al finale dell’ultima battuta, ricordati, perché hai la giraffa proprio su di te. Hai capito?». «Sì, regista Fino - rispose Benassi, luminosissimo, appoggiato con la bella testa a una colonna. - Sono sempre ai tuoi ordini, e, se tu fossi meno brutto, anche ai tuoi desideri». La presenza di Memo Benassi negli studi di Corso Sempione aveva portato lo scompiglio. Le prove erano continuamente interrotte dalla visita di qualche alto funzionario. Tutti gli attori impegnati nelle varie produzioni trovavano continui pretesti per venire nella nostra stanza di prova o nello studio dove si stava montando la ripresa. Un giorno ci si attardava aspettando l’ora di lavoro davanti all’ingresso principale del palazzo. Ad un certo punto arrivò una lunga macchina fuori serie di colore azzurro. Ne scese l’autista che aprì lo sportello a Benassi. Lui, tutto fiero, passando in mezzo a noi, sentenziò: «È la macchina del tenore Di Stefano». Poi salì i gradini dell’ingresso e, prima di scomparire, si volse verso Ottorino Guerrini e gli buttò là, altezzosamente: «Non sono mica come te, sai, che la dà per amore!». Noi gli andammo tutti dietro, ridendo. E lui era felice. Gli piaceva recitare la parte della “diva” che se la fa con i potenti. Ma così, per gioco, come tutta, tutta la sua vita, in teatro e fuori, era da Benassi considerata un gioco, per divertire se stesso prima ancora che gli altri. Non è vero che fosse cattivo. Mi confessò una volta che il suo terrore era quello di morire nel sonno, per questo la notte 14


cercava sempre di far tardi e di non dormire telefonando a tutti, intrattenendo tutti con varie scuse. Così come le sue ire e i suoi rancori – portati al diapason dell’iperbole – ridicolizzavano l’argomento medesimo della discordia rimpicciolendolo a meschinità da risolvere in riso. Perché tutto in fondo per lui era vano e inutile, lo stesso teatro che sembrava essere il solo motivo valido della sua esistenza. «Memo, hai saputo? È morto Ruggeri!». «Era ora!». «Memo, che dici? Ruggero Ruggeri!». «Ah, avevo capito la Torrieri». Ma né dell’uno né dell’altra a ogni modo gli interessava, e non per egoismo, proprio perché “si deve morire” e non c'è nulla da fare. Che poi, lui, della morte, avesse paura, questo è un altro paio di maniche. Una mattina (sempre durante le prove dell’Enrico IV) mi aveva chiesto di accompagnarlo al bar degli studi. Per un corridoio, all’uscita di un ascensore, c’imbattemmo in Emma Gramatica che stava registrando l’Arlesiana ed era in costume provenzale dell’Ottocento, con tanto di cuffietta. Ci fermammo a parlare. «Lo sai, Memo – disse a un tratto scoraggiata la Gramatica – che è settembre e non ho ancora un’offerta?». «Eh, sfido io, conciata così!». Non poteva fare a meno di cogliere di ogni cosa, anche la più tragica e malinconica, il lato grottesco, il contrasto ironico. Per una battuta, era pronto a giocarsi la reputazione e a perdere la stima di chiunque. Quando un attore dei nostri venne a informarci che nella stanza accanto a quella dove noi si provava, Evi Maltagliati aveva iniziato le prove della Donna del mare, il commento di Benassi, dato con voce piana e tranquilla, per sottolineare

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appunto qualunque impossibilità di confronto, fu solo questo: «Io l’ho fatta con la Duse». Un altro giorno, in una pausa di prova, irruppe nello studio Diana Torrieri, in crisi perché un giovane attore aveva osato insultarla dandole della mediocre. Prima, Diana si rivolse a tutti in generale, poi, scegliendo direttamente l’interlocutore, andò cercando solidarietà contro questi giovani arroganti delle nuove leve di teatro, passando dall’uno all’altro di noi, sempre più eccitata, non trovando conforto da nessuno. «Oltre tutto – scoppiò alla fine, e con una precisa intenzione – è anche pederasta». «Hanno i loro paradisi artificiali – fu la gelida sentenza della Borboni». Sempre, alla fine di ogni prova o di una recita [Benassi] chiedeva agli astanti un apprezzamento sul suo lavoro. Non perché volesse sentirsi dire «bravo», ma perché aveva sempre il dubbio di non esserlo stato sufficientemente. Fu così anche alla fine della ripresa dell’Enrico IV televisivo, dove oltretutto gli mancò l’applauso che in teatro gli era l’immancabile confronto. Lui, sul trono, con la voce e col gesto raccoglie intorno a sé i finti consiglieri come in un grande abbraccio, smozzicando in un’allucinata intonazione di consapevole follia le ultime parole del dramma: «Qua insieme, qua insieme... E sempre!». La camera carrella verso il gruppo portando in primo piano, e fissandola, la maschera di Enrico-Benassi. Poi, quasi senza soluzione di continuità, il silenzio della grande emozione che ha investito tutto lo studio, è rotto dal rituale interrogativo dell’attore, dato di testa: - Sono stato bravo?

Mario Scaccia

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PRSENTAZIONE Sicuramente l’Attore che maggiormente ha inciso sui moduli della recitazione moderna in Italia (Albertazzi, Salerno, Mauri, Scaccia e Lionello, ma anche Carmelo Bene) é stato Domenico Benassi. I riti estrosi, le geniali intonazioni, il modo di macerare le battute, divorare le parole per restituirne il “succo”; il suo gestire fluttuante, sarebbe ancora oggi, a cinquant'anni dalla Sua scomparsa quanto di più moderno abbia prodotto la scena drammatica italiana in fatto di recitazione. Alla sublime estraniazione ed epicità di Ruggeri – già anche Lui modernissimo per i suoi tempi, che si protrassero in piena e trionfante attività fino al 1953 - Benassi aggiunse la follia, l’alienazione, la frustrazione, il furore dei giorni nostri. Benassi, inoltre, ebbe l’opportunità d’inserire la sua originale e libera recitazione (libera da ogni schema prefisso) in alcuni tra i più grandi spettacoli della moderna regia di questo secolo. Ed infatti Max Reinhardt e Jacques Copeau, André Barsacq e Renato Simoni, Guido Salvini e lo stesso Luigi Pirandello, Anton Giulio Bragaglia e Luchino Visconti lo predilessero. Benassi era stato prediletto anche da Eleonora Duse: ed in questo fatto egli fu davvero l’anello di congiunzione tra il grande Teatro Drammatico Italiano – il Teatro di Poesia tardo ottocentesco e il Nuovo – il teatro ansiosamente ricercatore di nuovi stili e stilemi del Ventesimo secolo. Scrivemmo in altra occasione che se i tre quarti di nobiltà di un Attore devono ricercarsi - come naturale - nel suo repertorio: nessun attore fu più nobile di Memo Benassi. Il suo repertorio fu soprattutto classico e romantico: Eschilo (Le Coefore a Vicenza accanto ad Irma Gramatica), Sofocle (Edipo a Colono), Euripide (Medea diretta da Visconti), 17


Molière (Arpagone, Arnolfo e Tartufo) e Shakespeare, sopra tutti (Shylock, Tersite, Mercuzio, Marcantonio, Malvolio, Oberon, Amleto e Riccardo II). Ma, abbiamo detto, fu anche romantico in maniera esaltante: Kean di Dumas, I Masnadieri e Amore e raggiro di Schiller, Ruy Blas di Victor Hugo. Nel teatro moderno, poi – Ibsen e Pirandello, Cechov e Dostoievskij, Tolstoj e Shaw, Wilde – fu davvero illuminante e provvidenziale. Le stupefacenti, liriche “volatine” di Ruggero Ruggeri, e, d’altra parte gli studi severi e rigorosi, naturalistici e veristici di Ermete Zacconi, trovarono risveglio in lui, e nel contempo una scudisciata di una forza trascinante. Tant’è vero che oggi nessuno si sognerebbe di “cantare” interiormente come Ruggeri, né di recitare scientificamente come Zacconi: ma di una misteriosa inquietudine benassiana qualche cosa è rimasto sia nelle recitazione di Mario Scaccia e Glauco Mauri, sia nelle temperature altissime di Albertazzi e di Carmelo Bene. Mauri, attore singolare e che fu accanto a Benassi per tre stagioni consecutive (1952-54) quando era agli esordi, dopo tre anni di Accademia Nazionale (dove nel 1949 era stato ammesso primo ex-equo con Leonardo Bragaglia) ha appreso ed esaltato i ritmi, i bagliori improvvisi, le struggenti malinconie benassiane e molto spesso ce ne ha riproposte estrosità e guizzi improvvisi; mentre Albertazzi, specialmente nel suo freudiano Enrico IV, ce ne restituisce la tavolozza vocale, le impennate e gli stridori. Altri, come Mario Scaccia, sembra imitarlo apertamente per innata vocazione, con genialità, ammirazione. Carmelo Bene, invece, ne sfruttava il lato deteriore: il vistoso gigionismo. Comunque sia, il fatto per noi qui da sottolineare è che Benassi, è onnipresente sulle nostre scene, ancora oggi, dopo cinquant’anni della sua scomparsa (Bologna, 1957). 18


A parte il fatto che a Venezia – dove Benassi risedette per oltre trent’anni con i suoi gatti ed il suo “Nani” – sono in molti a sostenere di averlo visto, “sentito” il suo spirito, l’ombra irrequieta del grande attore agitarsi e declamare! Era diverso da tutti ed era solo. Non somigliava a nessuno: la sua immensa solitudine, lo aveva reso diverso dal resto degli attori, dal resto degli uomini. La sua stessa gigantesca statura artistica lo aveva isolato. Vien voglia di pensare all’epigramma di Sandro Penna:

Felice chi è diverso, essendo degli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune!

Sì, davvero, Benassi non avrebbe potuto essere considerato mai un essere umano né un artista comune. Ma non era neanche felice. Di lui scrisse assai profondamente Eugenio Ferdinando Palmieri: «Benassi non è né placido né remissivo: un’inquietudine sua è allegra, e allegra è la gelosia. Egli è gaio ed ha bizza lieta. Una pronta girandola di ironia, di fuochi verbali, e la polemica e passione!». E prosegue l’acuto osservatore che fu tanto vicino ai comici: «Ad un certo punto, Benassi ha bisogno di superare Novelli e Zacconi, Falconi e Ruggeri: di rispondere con un successo a un successo di Cervi e di Ricci, di scomodare il passato di molestare il presente1» 1

dalla rivista “Scenario” 1942.

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Ma del passato egli conserva vivo il più fulgido ricordo: l’arte di Eleonora Duse. Se del presente, forse, veramente non riconosceva niente a nessuno, la sua arte fu tutto e sempre proiettata nel futuro. Benassi fu veramente – dagli anni ‘30 e ‘40, e fino agli anni ’50 – l’Attore, il grande attore di domani. Che è come dire il più veramente moderno, ed il più autenticamente giovane. Benassi morì, a soli sessantasei anni d’età, bruciato dalla febbre e dall’ansietà della ricerca, per lo studio forsennato per portare in scena quel Re Lear che da tempo andava vagheggiando. Alle prove aveva già dato saggi magnifici, ma egli era un perfezionista. Chi scrive ricorda benissimo la travolgente passione di Benassi, che tutto e tutti trascinava e travolgeva con sé durante le estenuanti prove. Era il 1948, appena entrato in arte nella Compagnia Drammatica di Antonio Giulio Bragaglia, a Venezia – Teatro del Ridotto – vidi fare il suo ingresso Memo Benassi, grandissimo attore aureolato anche se discusso e da molti biasimato, vidi entrare in teatro il Teatro. Dopo poche letture, il grande attore era Tartufo, e dopo pochi giorni, per alcune prove, fu “L’imperatore Jones” di O’Neill (che fece in seguito a Bologna). I giovani attori della compagnia (tra essi c’era anche Mario Scaccia che fu Orgone), e lo stesso regista, rimasero sbalorditi. Capitò alle prove – fortunatamente solo alle prove – che qualche giovane attore non entrasse puntualmente in battuta, perché rimasto ad ascoltare lui, il cinquantasettenne grande attore dalle chiome d’argento! Altrettanto avvenne, quattro anni più tardi a Bergamo, per La Leggenda di Ognuno messa in scena dal giovane stupefatto

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regista Enrico D’Alessandro, uno degli ultimi a cui Benassi dette fiducia e stima. A chi scrive, quel tempo ventenne, Benassi si mise ad insegnare affettuosamente le parole del “cugino magro”; ad altre pose la sua decisa, inesorabile antipatia, soprattutto ad una vecchia attrice che egli definiva in “disuso” (sic!) poiché antiquata nell’ostentata dizione pignola. Con alcuni attori fu generosissimo, con altre decisamente contrario. Del resto era sempre stato così. Adorò la Duse, stimò moltissimo Irma ed Emma Gramatica, e delegò la prima attrice Rina Morelli, infine molto si appoggiò alla prediletta Laura Carli, che in tempi di persecuzioni omofobiste aveva garantito per lui – per le sue presunte bizze –davanti ai contratti con i teatri (fu una specie di “condirettrice responsabile”). Ma Benassi non era davvero irresponsabile e fu molto ferito da queste disposizioni. Divenne facile bersaglio delle battute mordaci di critici e giornalisti che non avevano avuto il coraggio, così come lui aveva fatto in maniera assolutamente disarmante per i veri intellettuali, per gli intelligenti e anche per coloro che erano “diversi” ma che non lo avrebbero mai dichiarato. Benassi non fu un esibizionista, ma fu estremamente coraggioso e sincero, come Oscar Wilde. Si, in un certo senso egli fu una sorta di Oscar Wilde del Teatro Italiano, e con ironia sferzante, con un pungiglione imbevuto di acido nitrico – che gli serviva in autodifesa contro gli imbecilli – corrispose sempre ai mille colpi che gli venivano indirizzati senza risparmio. Ebbe il coraggio di dimostrarsi – per mezzo della sua grande ed aristocratica arte – per quello che egli era umanamente e spiritualmente. Fece di sé stesso un vessillo ed un olocausto. Ma soprattutto, smentendo ogni sciocca ed inutile chiacchiera, visse davvero forsennatamente ed esclusivamente per l'arte sua.

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Visse ed operò – raggiungendo vette altissime – le più alte raggiunte dalla scena drammatica italiana dopo la Duse e dopo Ruggeri, controcorrente, da solo. Benassi inventò letteralmente se stesso. Ma realizzò anche 100 personaggi diversi, tutti filtrati attraverso la sua inconfondibile personalità: attraverso una entità scenica unica ed irripetibile. Fu Shylock e Malvolio, Tersite e Mercuzio, Porfirio, Verscinin e Karamazov, e ancora Osvaldo Alving e Gian Gabriele Borckman, Aligi e Lazzaro di Royo, e il Serparo…Fu Arlecchino e Don Marzio, e ancora Oberon e Riccardo III, Ognuno e i pirandelliani Crotone e Romeo Daddi, il signor Ponza ed Enrico IV. Fu il teatro italiano vestito a nuovo, in una sua vitalissima dimensione altamente stimolante, geniale sempre, a volte irrequieta ma mai fredda e ripetitiva. Per questo, ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua scomparsa Benassi lascia un grandissimo rimpianto, un’ammirazione sconfinata. Leonardo Bragaglia

Un ringraziamento particolare al giovane editore Paolo Emilio Persiani che quest’opera inedita – sepolta da 25 anni in un cassetto polveroso – ha voluto rispolverare e pubblicare.

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CHARLES CHAPLIN RICORDA MEMO BENASSI In un suo celebre libro di memorie, Charles Spencer Chaplin ha tracciato un’interessante testimonianza sull’arte del giovane Memo Benassi: «Quando la Duse venne a Los Angeles, nemmeno l’età e la fine incombente poterono offuscare il fulgore del suo genio». Prosegue il grande Charlot: «L’attrice era accompagnata da un’eccellente compagnia 1 italiana . Prima della sua entrata in scena un giovane e bell’attore2 fornì una versione a dir poco superba, tenendo magnificamente il palcoscenico. E tutti noi ci domandammo: come avrebbe fatto la Duse a superare la straordinaria prestazione di questo giovanotto? come avrebbe potuto fare?[…] Poi dal fondo del palcoscenico, all’estrema sinistra, la Duse entrò in scena, sbucando fuori piano piano da una quinta, quasi senza farsi notare. Si fermò dietro un cesto di crisantemi bianchi che troneggiava su un pianoforte a coda, e silenziosamente, cominciò a rimetterli a posto. Un mormorio allora percorse la sala e la mia attenzione lasciò il giovane attore per concentrarsi sulla Duse». 1

La compagnia, ovvero “Rappresentazioni di Eleonora Duse” includeva i nomi di Tullio Carminati e Memo Benassi, Ruggero Lupi e Leo Orlandini, Gino Fantoni, Tina Pini, i coniugi Robert e Ciro Galvani. 2 Memo Benassi n.d.a.

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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELL’ARTE DI MEMO BENASSI

1891 – Alle 21 di sera del 21 giugno nasce a Sorbolo (Parma) e viene battezzato con il nome di Domenico. 1898 – Inizia lo studio del Violoncello. 1915 – Diplomato a pieni voti presso il Conservatorio musicale di Parma, suona anche nell'orchestra del Teatro Regio, ove verrebbe confermato stabilmente se una improvvisa passione per il teatro drammatico non lo conducesse a Milano per frequentare i corsi di recitazione tenuti da Teresina Boetti Valvassura nel Teatro dei Filodrammatici diretto da Giannino Antona Traversi. Prende parte in qualità di generico ad alcuni spettacoli della Stabile del Teatro Manzoni diretta da Marco Praga della quale fanno parte Tina Di Lorenzo, Armando Falconi, Flavio Andò, e quindi Irma Gramatica, Camillo Pilotto e Giannina Chiantoni. 1916 – Al saggio finale del corso di recitazione della Boetti Valvassura, presso il Teatro dei Filodrammatici di Milano, é scritturato insieme al compagno Lucio Ridenti, dalla Compagnia di Ermete Novelli. 1918 – Passa, sempre senza ruolo, nella Compagnia di Gualtiero Tumiati che agisce presso la Sala Azzurra di Torino, ove, tra l’altro, prende parte alla prima rappresentazione italiana della Dodicesima notte di Shakespeare. 1918-19 – Entra a far parte, in qualità di “amoroso”, della grande Compagnia di Luigi Carini della quale é prima attrice Olga Vittoria Gentilli. 24


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PARTE PRIMA GLI ESORDI: DAL GOLFO MISTICO AL PALCOSCENICO (1909-1919) La personalità artistica di Memo Benassi, trascende dal fatto ch’egli sia stato un Attore, sia pure grandissimo. Egli era un Artista, nel senso totale, globale, unitario del termine. Nato a Sorbolo, da famiglia borghese, il 21 giugno 1891, Domenico Benassi, detto Memo, studiò musica fin da bambino: prima il violino, quindi, dopo una breve e turbolenta esperienza pianistica con una zia materna, si specializzò nello studio del violoncello, diplomandosi a pieni voti per questo strumento al Conservatorio di Parma. Fu tanto abile da vincere un concorso nazionale per il posto di primo violoncello nell'orchestra liricosinfonica del Teatro Regio di Parma. Lo studio della musica pervase, quindi, tutta l'adolescenza e la prima giovinezza dell’irrequieto artista. Poi, interrotta d’improvviso la carriera di professore d’orchestra, con uno di quei repentini cambiamenti che sempre caratterizzeranno la sua estrosa natura di uomo e d'artista con continui sbalzi di temperatura e mutamenti di umori e di “rotta”, Benassi parve innamorarsi del Teatro drammatico. Già undicenne aveva assistito inebriato alle rappresentazioni della dannunziana Francesca da Rimini da parte di Eleonora Duse (non era vero, quindi, che non l'aveva mai sentita prima del suo debutto con lei) e nel 1904 aveva assistito alle trionfali recite de La figlia di Iorio allestita da Virgilio Talli con Irma Gramatica, Ruggeri, Borelli, Franchini ed Oreste Calabresi. Era il grande momento del “teatro di poesia” e Benassi - seguendo l’esempio luminoso di Ruggeri mandò a memoria volumi e volumi di liriche. E cantava, anche, benissimo da “tenore di grazia”. 37


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1887 – Eleonora Duse in La Signora delle Camelie. 48


PARTE SECONDA L'ESALTAZIONE DI RECITARE ACCANTO ALLA DUSE (1921-1924) Fu Marco Praga, dopo aver visto il giovane attore recitare un ruolo di protagonista nel Figlio dell'amore di Bataille con la Compagnia di Luigi Carini ove era scritturato da appena sei mesi in qualità di “primo attor giovane”, a segnalare Memo Benassi ad Eleonora Duse. Praga era interessato in prima persona alla grande ed attesissima rentrée della Duse, poiché Ella aveva in programma l’allestimento de La porta chiusa - una delle più belle commedie dello stesso Praga - dove il ruolo dell' attor giovane é davvero predominante. La Duse, pur non costituendo una propria Compagnia ex novo, ma servendosi di quella che il fedele amico Ermete Zacconi Le metteva a completa disposizione, era molto preoccupata per il ruolo dello “straniero” ne La donna del mare di Ibsen. «Comparirò dinanzi agli spettatori – aveva detto la grande tragica – col mio viso stanco e pieno di rughe, e coi miei capelli bianchi. Se mi vogliono così, ne sarò lieta e fiera. Se no, ritornerò al silenzio». Sostenuta moralmente da Marco Praga e dall’affettuosa cura di Ermete Zacconi, la Duse, nonostante la malferma salute, prese parte a qualche prova d’insieme per l’allestimento de La donna del mare di Ibsen che segnò al Teatro Balbo di Torino la sua rentrée. Non recitava da dodici anni: con La donna del mare, la sera del 10 febbraio 1909, a Berlino si era accomiatata dal pubblico, in silenzio. Ora era tornata a recitare per bisogno materiale, per sopravvivere. Benassi le piacque subito, e nell’interpretazione dell’ambiguo personaggio de “lo straniero”, il giovane attore confermò i buoni pronostici fatti sul suo avvenire. 49


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PARTE TERZA IL “DOPO DUSE”: I LUNGHI DIECI ANNI DI ATTESA IN COMPAGNIA DELLE SORELLE GRAMATICA, IL PRIMO CAPOCOMICATO, I PRIMI REGISTI

«[…] Ma prima di farsi capocomico, volle rassodare la propria fama continuando a recitare nell’ombra di grandi interpreti come le due Gramatica: prima con Emma, poi con Irma, quindi con Emma ed Irma riunite». Così scrisse Frateili. Fu Benassi stesso a sollecitare la scrittura con Irma, subito dopo il rientro in Italia, desolato accompagnatore della salma della Duse. Nello stesso 1924, fu con Irma anche in opere che aveva già recitato accanto alla “Signora”: Spettri e Porta chiusa.E fu, umilissimo, accanto ad Irma nei suoi trionfanti cavalli di battaglia: Israel, La sacra fiamma – dove per lui non c’era spazio vitale, né possibilità di emergere. Ma Benassi aveva bisogno di sentir recitare bene accanto a lui. Era una questione squisitamente musicale. Nelle stagioni 1925-26 la sua “scandalosa” interpretazione del Delfino nella Santa Giovanna di Shaw, fa molto parlare la critica. Scandalizzato più di tutti, Silvio D’Amico scrisse ne “La Tribuna”: «La figurazione che il rosso Benassi dette del Delfino ci parve delittuosa. Raramente l’intento di un autore drammatico fu tradito fino a tal punto». Non di questo parere E. F. Palmieri, che scrisse letteralmente: «I suoi errori sono sempre bellissimi: il Delfino della Santa Giovanna parve a D'Amico “delittuoso”: ma la figurazione é indimenticabile per la violenta stravaganza, per l'impeto

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espressivo!». Un’autentica creazione, che molto sarebbe piaciuta a Bernard Shaw. Benassi comincia a “far notizia”, e il pubblico si divide in due – così come la critica – fra osanna e crucifige. Il suo modo di recitare, discontinuo, irrequieto, saltellante é davvero rivoluzionario. Ma il trio costituito con Emma ed Irma Gramatica, sarà memorabile per fusione di stili, oltre che per unicità di intenti d’arte.

Una fotografia di Irma Gramatica. 59


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Memo Benassi è Mercuzio in Romeo e Giulietta: in questa foto recita il racconto della Regina Mab all’estasiato Romeo, interpretato da Gino Cervi (Venezia, Cà Foscari, 1938). 70


PARTE QUARTA I GRANDI CIMENTI SHAKESPEARIANI : AMLETO, SHYLOCK E MERCUZIO, IL CAPOCOMICATO VERO E PROPRIO Con il fantasioso e geniale “Oberon” del 1933, era nato un nuovo grande interprete shakespeariano; se ne accorsero sopratutti gli addetti ai lavori: attori, registi, impresari e critici; ma se ne accorse - quel che più conta - il pubblico. Nel 1934, Benassi, scritturato da Daniela Palmer in qualità di primo attore impone - a grande richiesta - un suo Amleto originale. E impone Anton Giulio Bragaglia come regista. Bragaglia già più volte aveva avuto occasione di dimostrarsi un vero ammiratore di Benassi. Ne nacque uno spettacolo, insolito, graffiante, modernissimo. Ma la povera Palmer, attricemecenate, vi rimise molto denaro. La critica fu pochissimo attenta a questo spettacolo. Già da tempo disertava gli spettacoli di Bragaglia agli “Indipendenti”, messa su da D’Amico e da altri critici romani. L’Amleto di Benassi passò sotto silenzio anche per il fatto che esso fosse nato da una aperta sfida al sessantatreenne Ruggeri, che aveva da poco deposto i panni del suo lirico e malinconico “Prence di Danimarca”. Fu notata soltanto l’originale scenografìa. Ma in realtà, l’interpretazione di Benassi era affatto nuova: era la grande interpretazione barocca di Amleto, così come l’aveva certamente pensata l’Autore, estraneo alle nuove influenze freudiane (Moissi, che proprio in quell’anno recitò in Italia, e in italiano, il capolavoro shakespeariano in uno spettacolo montato da Tamberlani per l’impresa di Pio Campa e Wanda Capodaglio).

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PARTE QUINTA I CAPOLAVORI DELLA MATURITA’: CECHOV E MOLIERE Arrivato ai cinquantacinque anni d’età, con trenta anni di gloriosissima carriera sulle spalle, Benassi entrò in una specie di “climaterio”: cominciò ad essere discontinuo, non soltanto da sera a sera, ma anche nella stessa serata da atto ad atto. Per lunghe stagioni parve ripetere il suo ormai classico “cliché” di attore sopra il rigo: si rifece il verso. E i suoi Shylock persero di mordente, il suo Osvaldo fu davvero invecchiato, il suo Romeo Daddi divenne un “pezzo” da virtuoso trascendentale (con quel monologo della “lucertola” detto capricciosamente seduto sul cupolino del suggeritore!). Benassi si adagiò su pezzi di facile successo – L'urlo di De Stefani, Il Mister WU, La fiaccola sotto il moggio –, e, lui che era stato il più ambizioso esploratore di repertori classici, si rifugiò in autori minori. Per fortuna tutto questo durò pochissimo tempo, infatti, passata la seconda guerra mondiale, Benassi trovò nuovi cimenti. Era successo intanto un nuovo mutamento in Lui: da attor giovane ed amoroso di rara originalità antiromantica, e poi da primo attore e promiscuo di potente fantasia, ere nato il Benassi “caratterista”. Questo venne fuori sopratutto con il teatro dei grandi ruoli, dei “prototipi” di Molière. Fu nel 1948 che Benassi incontrò Tartufo. E Benassi giocò il tutto per tutto comprendendo bene che Tartufo non é un “ipocrita” ma “l’ipocrisia” stessa fatta uomo, o meglio il simbolo della tartuferia. Senza mezzi termini, fin dalla truccatura viscida e dal passo strisciante e dalla voce lamentosa e falsamente dolciastra, Benassi affrontò il personaggio di petto. E fu Tartufo. 85


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MEMO BENASSI Un grande attore diverso

Leonardo Bragaglia, iniziò la carriera recitando per il cinema con Vittorio De Sica, Totò, Anna Magnani, Nino Manfredi, nei film di suo zio Carlo Lodovico Bragaglia. In teatro debuttò con la compagnia dell’altro suo zio Anton Giulio Bragaglia al Ridotto di Venezia con Memo Benassi. Dal 1949 si rese indipendente dagli zii paterni e si iscrisse alla Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico vincendo la borsa di studio primo ex aequo con Glauco Mauri. Dal 1950 rientrò in arte nella compagnia di Antonio Gandusio all’Ateneo dell’università di Roma recitando Goldoni e Moliere. Divenne poi allievo prediletto di Lamberto Picasso recitando con lui oltre 100 rappresentazioni di Enrico IV di Pirandello. Diventò in seguito regista lavorando “ a 4 mani” con Riccardo Bacchelli firmando “Giorni di Verità”. Tra regie teatrali e radiofoniche (celebri le sue riduzioni per la Rai “Commedie in 30 minuti”) ha diretto attori come Paola Borboni, Massimo D’Apporto, Elsa Merlini, Mario Scaccia, Wanda Capodaglio, Elena Zareschi, Lia Zoppelli. Ha scritto una quarantina di libri: Shakespeare in Italia e Maria Callas l’arte dello stupore, editi dalla Persiani Editore per cui attualmente dirige la collana dello spettacolo, tutte le biografie di Ruggero Ruggeri, la Storia del libretto in 4 volumi ed altri libri sugli interpreti verdiani, pucciniani, e pirandelliani. E’ inoltre condirettore del Premio “Ermete Novelli” e direttore artistico della Cines, storica azienda di produzione e distribuzione cinematografica.

Leonardo Bragaglia

MEMO BENASSI Un grande attore diverso

Leonardo Bragaglia

In occasione del cinquantenario della scomprasa dell’attore prediletto da Visconti, Max Reinhardt, Jacques Copeau, e molti altri, questa biografia vuole ripercorrere la vita di Memo Benassi, tra il grande Teatro Drammatico Italiano tardo ottocentesco e il teatro del Ventesimo secolo. Un viaggio avvincente attraverso i grandi maestri che hanno lavorato con Benassi come Eleonora Duse, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri, per la “vecchia guardia” e Vittorio Gassman, Enrico Maria Salerno, Glauco Mauri - solo per citarne alcuni - per la nuova. Non mancano importanti curiosità come il ricordo di Charlie Chaplin che aveva assistito entusiasta ad uno spettacolo di Benassi assieme alla Duse. Di notevole interesse la presentazione di Mario Scaccia che, grazie al racconto della sua esperienza professionale con Benassi, traccia un profilo umano del tutto singolare ed incisivo.

presentazione di

prezzo al pubblico

€ 19,00 - iva inclusa

Mario Scaccia


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