Mensile Valori n. 125 2015

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Cooperativa Editoriale Etica

Anno 15 numero 125 febbraio 2015

€ 4,00

CROLLA IL PREZZO DEL PETROLIO: GLI USA PIANGONO, L’ARABIA SAUDITA FESTEGGIA

finanza etica

BOOM PER IL PESCE, PREZIOSO PER LE ECONOMIE EMERGENTI

economia solidale

VENTI DI GUERRA: IN EUROPA NON SI PARLA D’ALTRO

internazionale

9 788899 095048

ISBN 978-88-99095-04-8

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NE/VR. Contiene I.R.

PAUL HILTON / GREENPEACE

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Mare da difendere

Ocean grabbing: dopo la terra una nuova risorsa naturale rischia di cadere vittima della speculazione


editoriale

OCEANI DEPREDATI di Silvestro Greco

L’AUTORE

SILVESTRO GRECO

Silvestro Greco, biologo marino, per 30 anni si è occupato di pesca e acquacoltura per il CNR e successivamente per l’ICRAM; oggi è dirigente di ricerca dell’ISPRA. Docente di Controllo delle produzioni agroalimentari dell’Università di Scienze Gastronomiche. Ha svolto campagne scientifiche di pesca in tutti i mari del mondo, tra le quali sei spedizioni in Antartico. 2

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egli ultimi anni si è parlato molto di land grabbing, cioè dell’accaparramento di terre da parte dei Paesi ricchi del mondo, che ha avuto inizio dopo la crisi alimentare mondiale nel 2007. Ma c’è anche un’altra forma meno conosciuta, ma non per questo meno pericolosa, di accaparramento che si sta sviluppando in modo esponenziale. È l’ocean grabbing che riguarda il 70% del nostro Pianeta, cioè gli oceani e i nostri mari. Ispirandosi proprio all’accaparramento delle terre fertili, il relatore Onu per il diritto al cibo Olivier De Schutter ha coniato questo termine durante la sua relazione all’Assemblea Generale. È possibile definire ocean grabbing – ovvero depredazione degli oceani – l’accaparramento predatorio di risorse ittiche in acque territoriali altrui e in acque internazionali. La pesca praticata dalle flotte straniere – soprattutto Cina, Russia, Unione europea, Stati Uniti e Giappone – è una minaccia alla sicurezza alimentare dei Paesi in via di sviluppo, dove i governi dovrebbero fare di più per promuovere e tutelare la piccola pesca costiera. L’ultimo rapporto sul Global Ocean Grab – pubblicato dal WFFP (una rete che rappresenta oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo), insieme a Transnational Institute, Afrika Kontakt e Masifundise – ci mostra una situazione tragica in quasi tutti i mari del Pianeta, dal Senegal all’Ecuador, dal Cile allo Sri Lanka. La privatizzazione degli oceani viene spesso presentata dai media come l’unica soluzione possi-

bile al sovra-sfruttamento delle risorse alieutiche (disponibili per la pesca, ndr). Vogliono farci credere, ad esempio, che l’introduzione delle ITQs (Individual Transferable Quotas) in Sud Africa sia una soluzione ambientale alla pesca eccessiva. In realtà gli stessi tacciono La copertina sugli effetti della privatizzaziodell’ultimo rapporto ne sulle comunità rurali e coGlobal Ocean Grab, pubblicato dal WFFP stiere. Non dicono dei piccoli pescatori che perdono il fondamentale diritto al sostentamento economico e alimentare, né delle migrazioni economiche alle quali sono costretti. Alla base della privatizzazione del suolo e degli oceani c’è un grave problema di regole, che determina il continuo calpestamento di diritti e l’assoggettamento all’unica legge che conta: il profitto a breve termine. Stiamo assistendo a un processo di privatizzazione silenzioso, che non smetterà di monopolizzare le risorse e generare disuguaglianze sociali. Gli oceani hanno molti problemi, è vero, ma la soluzione non risiede nella loro privatizzazione, quanto piuttosto in una gestione partecipata, che tenga conto di tutti gli attori e che dia voce anche a chi è generalmente inascoltato. Perché “il mare è di tutti”: anche dei piccoli pescatori, anche delle comunità indigene e anche nostro. Non possiamo non interessarcene. ✱

3


fotoracconto 02/05

sommario

febbraio 2015 mensile www.valori.it anno 15 numero 125 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 ROC. n° 13562 del 18/03/2006 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente) direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Christian Åslund, Paul Hilton, Lorenzo Moscia, Clément Tardif (Greenpeace); Marina Pulcini (Marevivo); Priwo, Tim From Schönebeck, Zerohund (commons.wikimedia.org); Michela Bruna; Paulo Lima; Edoardo Quatrale distribuzione Press Di - Segrate (Milano)

Acqua del mare come elemento di vita e sostentamento primario, per il Pianeta e per le popolazioni. Ma anche e soprattutto risorsa da preservare contro l’inquinamento, le attività illegali, lo sfruttamento sconsiderato, la mancata tutela degli habitat protetti e delle specie viventi che li abitano. In questo fotoracconto le istantanee della pesca negli oceani, dove si incontrano l’uomo e la natura in un rapporto che può essere rispettoso e sostenibile se concepito pensando al futuro, come 4

insegna la sapienza locale di chi da sempre strappa al mare con fatica solo poco più di quanto serve ad alimentare sé e le proprie comunità. Viceversa, da una pesca intensiva, industrializzata e che mira principalmente agli utili deriva il rischio intrinseco di perdere di vista gli equilibri necessari a mantenere gli oceani in buona salute. E allora l’auspicio è che la grande industria della pesca, che saccheggia le acque della Manica o ha depredato i fondali del Senegal, non distrugga la sua stessa ragione di esistenza; e che

pratiche come quelle qui raccontate, osservate tra Sicilia, Africa e Oceano Indiano, mantengano i propri spazi, vitali per tutti. Questo è un breve viaggio che profuma di salsedine, realizzato con la preziosa collaborazione di Greenpeace (greenpeace.org) e Marevivo (marevivo.it), organizzazioni da decenni in prima linea nella battaglia per la difesa degli ambienti marini – e non solo – dalle pratiche umane insostenibili.

Nella foto pescatori su piroghe artigianali al lavoro con reti a circuizione al largo della costa senegalese, di fronte a Kafountine e Casamance, dove un estremo impoverimento ittico preoccupa. Nel Paese è in corso un processo di ripristino delle attività di pesca locale dopo un periodo di sfruttamento intensivo su larga scala attuato da pescherecci provenienti da Cina, Russia, Corea, Islanda, e soprattutto dalla Spagna e altri Paesi Ue. Nel 2012 il governo appena eletto ha perciò proceduto ad annullare le licenze di pesca precedentemente concesse.

DA: GREENPEACE CLÉMENT TARDIF (LUGLIO 2012)

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali.

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Annuali

Euro 38 Euro 48 Euro 28 Euro 48

Biennali Euro 70 Euro 90 Euro 50 Euro 85

fotoracconto 01/05 La pesca intensiva è l’emblema dello sfruttamento del mare. E l’ecosistema marino ne fa le spese. Ma è possibile anche una pesca sostenibile, oltre a un’acquacoltura certificata

dossier

8 MARE DA DIFENDERE

Enormi pescherecci che solcano i nostri mari, piattaforme off-shore per estrarre gas e petrolio, reti a strascico che distruggono gli ecosistemi marini. Sono i simboli di un business che sfrutta l’ennesima risorsa naturale

global vision finanza etica

7

Scoppia la guerra del petrolio Gli studenti gridano: “Stop alle fonti fossili!” L’anno nero dei fondi hedge Microcredito: la legge è operativa finalmente!

19 22 23 25

numeri della terra economia solidale

28

Il mondo ha fame di pesce Le nuove attrattive della terra Design, un futuro di carta

31 35 37

social innovation internazionale

40

Siete pronti alla guerra? Il Giappone verso l’endorsement di massa Climate change: tutto rimandato, vincono le lobby

43 46 49

avvistamenti bancor

52 54

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global vision

Azione e reazione

Le Banche centrali entrano in gioco

Per non parlare sempre dei misfatti, dei contraffatti, degli artefatti Valori propone i suoi

FATTI IN ITALIA

di Alberto Berrini

L’eccellenza italiana sotto la lente di Valori ’eccellenza italiana sotto la lente di Valori V lori Va FATTI F FA ATTI ITA T LIA L’L’eccellenza TA T IN ITALIA

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e previsioni di crescita mondiale per il 2015 indicano negli Stati Uniti l’unica area di vero sviluppo e individuano nell’Europa l’area economica occidentale di maggior debolezza. Dunque le politiche monetarie in atto o previste sulle due sponde dell’Atlantico sembrano coerenti con tale scenario macroeconomico. Una Fed (Federal Reserve, Banca centrale americana) che azzera il suo sforzo espansivo favorendo il rafforzamento del dollaro (meno “stampo” una moneta, più ne aumenta il prezzo). E la Bce (Banca centrale europea) che finalmente attua il QE (Quantitative Easing), ossia una politica monetaria espansiva non convenzionale in quanto la creazione di liquidità si attua attraverso l’acquisto sul mercato di ogni tipo di titoli, ma in particolare di titoli di Stato. In questo modo non solo si attenua la pressione (ossia la necessità di finanziamento) sui debiti pubblici europei, ma si contribuisce in modo determinante all’indebolimento dell’euro, favorendo la crescita dell’economia europea e facilitando le sue esportazioni. Dunque tutto ok, ossia nessuna complicazione deriva da tali politiche monetarie? Non proprio, poiché bisogna considerare gli effetti globali, e in particolare come esse impattano sulle strategie e sull’operare dei mercati finanziari. L’esempio più recente è rappresentato dall’aumento repentino e vistoso (+20%) del franco svizzero (in rapporto all’euro) in previsione del QE

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FATTI IN ITALIA Isonio Emanuele to ta Tramon ed Elisabet prefazione lacci Ermete Rea

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europeo. Il balzo del franco ha, infatti, provocato uno tsunami mondiale con il fallimento di varie società di brokeraggio (dagli Usa fino alla Nuova Zelanda) e ha causato perdite per 100/150 milioni di dollari a testa per le più grandi banche del mondo. Dunque questa vicenda è emblematica per capire come gira il mondo sempre più globalizzato. La Banca centrale svizzera ha ritenuto di non essere più in grado di difendere il tetto al cambio franco-euro che essa stessa aveva imposto a fronte della crisi europea del 2011. E ciò a causa dell’afflusso sui conti svizzeri dei capitali in fuga dall’euro in procinto di svalutarsi. Come ha sottolineato il professor Marco Onado (insegna Diritto ed Economia dei mercati finanziari e Comparative financial systems presso l’Università Bocconi di Milano), alla base di quanto successo al franco svizzero «c’è il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli delle loro economie». In altre parole mercati finanziari ancora sostanzialmente deregolamentati (e perciò fragili) possono interferire in modo destabilizzante, creando effetti collaterali non desiderati, su politiche attuate per coerenti obiettivi economici. E le Banche centrali, che spesso sono costrette a operare in ordine sparso, non possono che essere in balia di un mercato che, anche per le sue dimensioni, è sempre più fuori controllo. ✱ 7


fotoracconto 03/05 Gabbiani seguono il peschereccio tedesco Maartje Theadora della compagnia olandese Pelagic Freezer-trawler Association (PFA). Molte grandi navi officina come questa, in navigazione a caccia di aringhe, partecipano all’intenso traffico che affolla il Canale della Manica ogni anno tra novembre e dicembre, durante la stagione autunnale di deposizione delle uova. Una nave simile in un solo viaggio può pescare fino a 600 tonnellate di pesce, l'equivalente di 2 milioni di pasti.

10 / Ocean grabbing. La speculazione prende il largo 12 / I signori degli oceani 14 / Il mare senza regole fa male alla salute 16 / Il Canada studia un oleodotto artico. Ecologisti in rivolta

Le risorse naturali sono sempre più preda della speculazione. Dopo la terra, il mare rischia di essere attaccato con gravi conseguenze per gli ecosistemi e per le popolazioni locali

Dalla pesca intensiva alle multinazionali che sfruttano gli oceani, alle estrazioni off-shore di gas e petrolio. La privatizzazione degli oceani è dietro l’angolo

MARE DA DIFENDERE

FOTO: GREENPEACE / CHRISTIAN ÅSLUND (DICEMBRE 2014)

DOSSIER


DOSSIER MARE DA DIFENDERE

Ocean grabbing La speculazione prende il largo di Emanuele Isonio

I PADRONI DELLE QUOTE

La privatizzazione delle risorse naturali non riguarda più solo la terraferma. Complice un quadro normativo confuso, gli oceani sono sotto attacco. Con gravi danni alle popolazioni locali e agli ecosistemi marini

«F

ino all’80% del valore del pescato, una volta scaricato a terra, mi serve a finanziare l’affitto della concessione di pesca. Non mi rimane alcun margine da reinvestire per modernizzare la mia barca. Intanto la maggior parte dei ricavi va a persone che con la pesca non hanno niente a che fare. Per quel che

PESCA ILLEGALE, UN AFFARE DA 23 MILIARDI DI DOLLARI

Dagli 11 ai 26 milioni di tonnellate. È il peso della pesca illegale nel mondo secondo le stime citate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Un dato, equivalente nella peggiore delle ipotesi a 1/6 dell’ammontare totale del pesce prodotto nell’ultimo anno su scala globale, che si traduce in una perdita economica oscillante tra i 10 e i 23 miliardi di dollari e che nasconde, sostiene dal 2011 uno studio dello United Nations Office on Drugs and Crime, la tratta di esseri umani (tra cui i bambini) destinati al “lavoro forzato”. Lo scorso mese di settembre uno studio a cura dei ricercatori Ganapathiraju Pramod, Katrina Nakamura, Tony J. Pitcher e Leslie Delagran, pubblicato sulla rivista di settore Marine Policy, ha stimato che la quota di pesce illegale introdotto negli Stati Uniti nel 2011 oscillasse tra il 20 e il 32% delle importazioni totali (pari a loro volta al 90% del pesce consumato negli Usa) per un controvalore economico compreso tra 1,3 e 2,1 miliardi di dollari. Secondo lo studio la maggiore incidenza della pesca illegale sulle importazioni si sarebbe registrata nei prodotti ittici (tonno in testa) provenienti dalla Thailandia. Sugli altri gradini del podio il merlano e il salmone cinese, che precedono i tonni provenienti da Filippine, India e Indonesia (ma non mancano casi rilevanti anche tra le importazioni da Messico, Cile, India, Canada ed Ecuador). Affidata negli Usa alla National Oceanic and Atmospheric Administration, la lotta alla pesca illegale si scontra con la difficoltà di monitoraggio del settore. Navi e barche da pesca, ricordava a gennaio Mark P. Lagon, docente della Georgetown University, sulle colonne del Washington Post, sono esentati dal mantenimento di numeri identificativi e dall’obbligo di portare a bordo strumenti di rilevamento come i transponder. Le imbarcazioni, inoltre, non sono soggette al controllo degli enti portuali dei luoghi di attracco, ma solo a quello delle autorità dei Paesi d’origine. [M.Cav.] 10

ha rappresentato Greenpeace nella causa contro la realizzazione di un rigassificatore al largo delle coste livornesi (vedi BOX a pag. 17). Le regole sono poche, assai diverse tra Stato e Stato, incapaci di regolare quanto avviene in acque internazionali. E, quando esistono, le norme sembrano pensate con l’unico scopo di arricchire poche potenti multinazionali a discapito dei molti che in quei luoghi vivono.

ne so, potrebbero anche vivere dall’altra parte del Pianeta». Dan Edwards è un pescatore dell’isola canadese di Vancouver, testimone oculare di uno dei tanti effetti perversi di un fenomeno complesso, che attivisti ed esperti chiamano ocean grabbing. Parente dell’ormai storico land grabbing, l’accaparramento su vasta scala di terreni agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali e governi stranieri. Ugualmente preoccupante, ma assai meno conosciuto, sapere quello che avviene sotto il pelo dell’acqua a centinaia o anche migliaia di chilometri dalla costa è evidentemente complicato. E forse proprio su questo contano speculatori e imprenditori senza scrupoli. Lontano dai clamori dei media, le loro mani stringono sempre più saldamente le risorse che mari e oceani celano dentro di sé.

UN FENOMENO COMPLESSO L’aspetto più indagato – perché influenza direttamente le nostre abitudini alimentari – è il depauperamento delle risorse ittiche causate da stili e quantità di pesca insostenibili. Ma è solo la patina superficiale di un fenomeno più complesso, che questo dossier cercherà di documentare: inquinamento, imperi industriali più o meno nitidi che hanno trovato nei mari una nuova opportunità di lucro, estrazioni off-shore di gas e petrolio, sistematica riduzione dei diritti delle comunità costiere. Il sistema, insostenibile e miope, è agevolato da un quadro normativo caratterizzato da lacune e faziosità: «Per il mare non esiste una legislazione equivalente a quella che pianifica l’uso del territorio», rivela Giancarlo Altavilla, avvocato che valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

Di esempi ce ne sono decine in giro per il mondo. Ma il filo conduttore che li unisce è unico. La parola d’ordine è “razionalizzazione”, paravento semantico per dire “privatizzazione”: «Presentandoli come una risposta alle preoccupazioni ambientali sulla salute dei mari, in numerosi Paesi sono stati ridefiniti i diritti d’accesso o i privilegi di sfruttamento delle risorse ittiche libere, comuni o dello Stato, aumentando i livelli di attribuzione ai privati», spiega Silvio Greco, presidente del comitato scientifico di Slow Fish. Un sistema di quote e concessioni che sta tagliando fuori i piccoli pescatori. Nel Nord come nel Sud del mondo: in Islanda dieci compagnie controllano il 50% delle quote. In Cile 127mila pescatori devono dividersi il 10% del mercato mentre 4 grandi aziende detengono il 90% delle concessioni. In Danimarca, dal 2005, le flotte dei pescatori tradizionali sono state dimezzate. In Namibia succursali locali di aziende spagnole detengono il 75% del mercato. E in Sud Africa l’Individual Transferable Quota (ITQ) introdotto nel 2005 ha portato alla repentina esclusione di 50mila piccoli pescatori. Una situazione odiosa: «L’ocean grabbing – conferma Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione – nella forma di accordi che colpiscono i pescatori su piccola scala, catture non dichiarate, incursioni in acque protette e distrazione delle risorse dalle popolazioni locali, è una minaccia altrettanto grave del land grabbing». Denuncia che è anche un (indiretto) atto d’accusa contro le strategie di un’altra potente istituzione internazionale, la Banca Mondiale, che sul tema ha una posizione ben diversa. «L’ocean grabbing – spiega un dettagliato rapporto della tedesca Lighthouse Foundation – è entrato in una nuova fase nel 2012 con l’istituzione della GPO (Global Partnership for Oceans), ideata dalla Banca Mondiale per sostenere la privatizzazione dei diritti di proprietà delle risorse acquatiche». Al suo interno grandi Ong ambientaliste come WWF e l’Environmental Defense Fund, ma anche soggetti più controversi come la Fondaziovalori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

QUALE PESCA?

MARE DA DIFENDERE DOSSIER

PESCA SU LARGA SCALA

PICCOLA PESCA

$$$$$ 25-27 BILIONI

$ 5-7 BILIONI

1/2 MILIONI (CIRCA)

pescatori impiegati

SOPRA I 12 MILIONI

30 MILIONI DI TON. (CIRCA)

catture annuali per consumo umano

30 MILIONI DI TON. (CIRCA)

catture annuali per farina di pesce e oli

catture annuali per farina di pesce e oli

sussidi

sussidi

35 MILIONI DI TONNELLATE

pescatori impiegati

catture annuali per consumo umano

QUASI NULLA



consumo annuo di olio combustibile

5 MILIONI DI TON. (CIRCA)

1-2 TON.

cattura per ton. di carburante consumato

cattura per ton. di carburante consumato

pesce e altre forme di vita rigettate in mare

pesce e altre forme di vita rigettate in mare

37 MILIONI DI TON. (CIRCA)

=

8-20 MILIONI DI TON.

consumo annuo di olio combustibile

=

4-8 TON.

MOLTO POCO

600 metri

la lunghezza di una delle più grandi reti a strascico, l'equivalente di 2 Tour Eiffel

ne Walton Family, una delle dinastie più ricche del Pianeta, fondatori del colosso mondiale della Grande distribuzione Walmart. Presupposto alla base delle azioni della GPO è che i danni ambientali causati dal settore pesca siano prodotti dall’assenza di diritti di proprietà di 11


DOSSIER MARE DA DIFENDERE

MARE DA DIFENDERE DOSSIER

L’ECONOMIA BLU IN EUROPA: LA RIFORMA DELLA POLITICA COMUNE DELLA PESCA

Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno varato una nuova politica comune della pesca (Pcp) in vigore a partire dal 1° gennaio del 2014. La riforma si articola in molti punti che hanno come fine la sostenibilità della pesca e la creazione di nuove opportunità di occupazione e di crescita nelle zone costiere. Per raggiungere questi obiettivi la nuova politica prevede la fine dei rigetti in mare dei pesci non commercializzabili attraverso un ventaglio di misure da attuare zona per zona, il rafforzamento dei diritti nel settore ittico, il decentramento e la semplificazione del processo decisionale, il potenziamento dell’acquacoltura, il sostegno alla piccola pesca, il miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti lo stato dello stock e l’assunzione di responsabilità nelle acque dei Paesi terzi attraverso accordi internazionali dell’Unione europea. Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) è lo strumento di finanziamento che fornirà sostegno all’attuazione della politica comune della pesca. [Pa.Bai.]

sfruttamento delle risorse ittiche, piuttosto che da un’assenza di equità. Esattamente l’opposto di quanto sostiene il Forum Mondiale dei pescatori, che individua nelle politiche di mercato neoliberiste la causa fondamentale dell’ocean grabbing, tanto da chiedere una politica che riconosca il ruolo primario della piccola pesca.

I MOSTRI DEL MARE Ma, intanto, il braccio “armato” di questa corsa all’accaparramento delle risorse ittiche è in piena azione: megapescherecci, finiti nel mirino di un

rapporto di Greenpeace, “Monster Boats”, e spesso appartenenti ad affaristi e imprese tutt’altro che limpide (vedi SCHEDE ). Rappresentano una quota minima della flotta mondiale (nella Ue le barche superiori a 24 metri sono appena il 3%), ma, con i loro metodi di pesca, sono i massimi responsabili dei danni alle specie marine (vedi GRAFICO ): reti lunghe anche 600 metri (l’Empire State Building si ferma a 381), 350 tonnellate di pesce pescate in un solo giorno, tra 8 e 20 milioni di tonnellate di pesce scartato (quindi ributtato in mare morto) perché considerato di scarso valore commerciale. Tanti difetti inesistenti nella piccola pesca, che per di più consuma molto meno carburante (1 tonnellata ogni 4-8 tonnellate di pesce pescato, contro i 2 delle flotte industriali) e impiega oltre 12 milioni di persone nel mondo. Eppure i sussidi mondiali premiano chi è più insostenibile: circa 25 miliardi di dollari nel mondo, contro i 5 riservati ai piccoli pescatori. «Continuando così, interi ecosistemi marini sono a rischio», spiega Serena Maso, responsabile Mare di Greenpeace. «Già oggi su 97 stock ittici analizzati nel Mediterraneo, il 91% è sovrasfruttato e in alcuni casi siamo oltre il punto di non ritorno. Al tempo stesso gli stock pescati in modo compatibile con la loro conservazione sono scesi dal 90% degli anni ’70 all’attuale 70%. L’esigenza di un cambio di rotta è certa». La possibilità di sconfiggere le lobby della grande pesca, molto meno. ✱

BARRIERA SENZA DIFESE di Corrado Fontana

Dai progetti minerari di una multinazionale indiana l’estrema minaccia alla salvaguardia della Grande barriera corallina. La controffensiva ambientalista potrebbe però funzionare, perché i conti degli speculatori non tornano Per centinaia di specie animali sottomarine ospitate nella Grande barriera corallina australiana l’attesa durerà ancora poco. Probabilmente entro marzo 2015 si saprà infatti se il più grande organismo vivente del mondo – e straordinaria fonte economica, come polo di attrazione turistica del continente oceanico – vedrà materializzarsi una nuova e vicina origine d’inquinamento, e quindi di pericolo per la propria sopravvivenza: la Banca centrale indiana (State Bank of India) deve infatti decidere se contribuire

con un miliardo di dollari pubblici all’enorme progetto di sfruttamento minerario che Adani Group, multinazionale con base nel Gujarat, cerca di realizzare nella regione australiana del Queensland, a partire dall’acquisto della miniera di carbone Carmichael nel cosiddetto Bacino Galilea. Un progetto da 10 miliardi di dollari complessivi, che prevede un prossimo investimento da 3,5 miliardi nelle infrastrutture ferroviarie e portuali necessarie a movimentare ed esportare 60 milioni di tonnellate di carbone l’anno: dalla miniera per 400 chilometri fino ad Abbott Point, sulla costa, attraverso linee di carico, scarico e rotte di navigazione capaci di generare traffico ed emissioni micidiali per il fragilissimo ecosistema della barriera corallina. Un progetto avversato strenuamente dagli ambientalisti. Ma anche di incerto successo economico, tanto che alcune delle banche sostenitrici (Citigroup, Goldman Sachs, Deutsche Bank, JP Morgan, RBS, HSBC) hanno (solo) dichiarato pubblicamente un disinvestimento. Dubbi ci sono sulla qualità e la quantità della produzione

del minerale; dubbi sul futuro andamento dei prezzi del carbone (crollati dai 141 dollari/tonnellata di gennaio 2011 ai 67 dollari di novembre scorso); dubbi infine sulla sostenibilità economica del progetto, se ai costi non parteciperanno altre compagnie minerarie (in primis il gruppo GVK, concorrente di Adani) co-interessate al carbone australiano. E così, benché la Grande barriera corallina sia protetta dall’UNESCO, che ha già minacciato di toglierle lo status di patrimonio dell’umanità se il governo del premier Tony Abbott non si impegnerà adeguatamente nella sua salvaguardia. Greenpeace & Co. puntano innanzitutto sui temi economici, forti anche delle parole del ministro indiano per l’Energia, il carbone e le rinnovabili Piyush Goyal, che a novembre scorso dichiarava: «Forse nei prossimi due o tre anni, dovremmo essere in grado di fermare le importazioni di carbone termico». Un bel problema per il magnate Gautam Adani, che 40 dei 60 milioni di tonnellate di carbone pensa di esportarli proprio nel suo Paese.

I SIGNORI DEGLI OCEANI UNIMED GLORY

PARLEVLIET & VAN DER PLAS

CORNELIS VROLIJK

Era da poco finita la Seconda guerra mondiale quando Dirk Parlevliet e i fratelli Dirk e Jan Van der Plas fondarono in Danimarca l’omonima azienda che, nel tempo, si è consolidata nella pesca d’alto mare e si è estesa nel mercato tedesco. Oggi l’azienda è di proprietà della PP Groep Katwijk BV, con sede legale in Olanda, ma i suoi pescherecci battono bandiera danese, tedesca o lituana: Annelies Ilena, Margiris, Helen Mary e Maartje Theodora i più grandi. Il gruppo conta circa 1500 dipendenti nei vari Paesi.

Dal 1880 le generazioni di questa dinastia olandese si tramandano l’azienda che conta oggi 600 addetti (100 a terra e 500 in mare), divisi su una flotta di pescherecci frigoriferi registrati oltre che nei Paesi Bassi anche in Francia e Inghilterra attraverso società controllate. Gli sgombri sono la specie che ha fatto la fortuna dei Cornelis Vrolijk. Ma l’azienda si è estesa occupandosi ormai anche della parte logistica, trasporto e congelamento.

WILLEM VAN DER ZWAN EN ZONEN

ALBACORA GROUP

BALTLANTA

Albacora Uno e Albatun Tres sono due dei 18 pescherecci della holding spagnola controllata dalla Albacora SA e fondata nel 1974 dalla famiglia Uria. Il gruppo è coinvolto in tutti gli aspetti della pesca al tonno, dalla cattura alla trasformazione. E questo ha ampliato le sue attività, spostandole dal golfo di Biscaglia a siti di pesca più lontani nell’Oceano Indiano e Pacifico, dove è più facile usare le controverse mega-reti FAD. Il fatturato del gruppo spagnolo si è attestato nel 2012 a 340 milioni di euro.

È tutto un intreccio tra paradisi fiscali la storia di Baltlanta, proprietaria del megapeschereccio Kovas. Prima detenuta da imprese registrate in Lichtenstein (Henessen) e a Panama (AB Cosaco Naval Enterprises e AB Vapores Nauticos Merrimack). Il ramo del Lichtenstein fu liquidato nel 2007 per non aver pagato 1750 euro di tasse. Le compagnie panamensi sembrano legate a Kostantin Koval, primo direttore di Baltlanta dal ‘96 al ‘99, cittadino lituano tra i più ricchi del suo Paese con un patrimonio personale di 144 milioni di euro.

© WILLEM048 / MARINETRAFFIC.COM

Dietro il megapeschereccio Odin c’è la Unimed Glory, azienda controllata dalla Laskaridis Shipping, di proprietà dei fratelli Laskaridis: due imprenditori ellenici che hanno affiancato agli investimenti marittimi quelli nel settore alberghiero e dei casino. Oltre alla greca Laskaridis, hanno fondato in Liberia la Lavinia Corporation, sviluppando progetti portuali e nei trasporti in numerosi Stati. Odin è però solo uno dei pescherecci della flotta dei Laskaridis, che conta ormai 50 navi.

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valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

La nave Franziska è la più grande della flotta della Willem Van der Zwan en Zonen, azienda attiva nella pesca dal 1888. Anch’essa si è sviluppata a partire dalla città portuale olandese di Scheveningen, ma le controllate del gruppo sono ormai nate in molti altri Stati e contano filiali in Nigeria, Perù e Ghana. L’azienda stessa quantifica in un milione le persone che si nutrono con il pesce pescato dalle sue navi.

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

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DOSSIER MARE DA DIFENDERE

MARE DA DIFENDERE DOSSIER

Il mare senza regole fa male alla salute di Emanuele Isonio

Le emissioni delle navi provocano tra 5 e 12mila morti premature in Nord America e costano 45 miliardi agli Stati Ue per danni sanitari. Il rimedio più realistico è sfruttare una guerra tra lobby

L

ontano dagli occhi, drammaticamente vicino alla salute (e al portafoglio) di tutti noi. Quanto avviene in alto mare è per sua natura difficilmente controllabile. E la frammentazione delle normative non facilita la soluzione del problema. Il risultato è che le attività commerciali, legate soprattutto al trasporto marittimo delle merci, producono costi esterni inimmaginabili. Ambientali, economici e sanitari.

DA ONDE E MAREE L’ENERGIA DEL FUTURO

Il mare potrebbe costituire una gigantesca risorsa energetica in futuro. Soprattutto per Francia e Uk che, non a caso, rappresentano i due Paesi che con più convinzione stanno sperimentando la possibilità di sfruttare l’energia maremotrice. Sulle coste che bagnano la Manica le maree sono estremamente ampie (anche di parecchi metri) e così il gruppo Tidal Energy, insieme a EDF, ha progettato la tecnologia DeltaStream, il cui primo generatore sottomarino, nelle acque del Galles, dovrebbe essere installato a breve. Secondo i promotori del progetto, l’energia prodotta sarà rinnovabile, pulita e non emetterà CO2. Sarà inoltre possibile stimare con notevole precisione la produzione, sulla base dei coefficienti delle maree. Il problema, tuttavia, ad oggi restano i costi, che sono ancora elevati, soprattutto per quanto riguarda l’installazione e la manutenzione degli impianti. Ciò nonostante, l’Ue sembra voler esplorare le possibilità dell’energia marina: nel 2014, la Commissione aveva lanciato un piano d’azione per lo sviluppo tecnologico nel settore. «È una fonte a portata di mano, che si può sfruttare in modo ecologico», aveva spiegato l’allora commissario all’Energia Günther Oettinger. Anche l’Italia è interessata, non tanto in termini di sfruttamento delle maree (non così ampie sulle nostre coste) quanto del moto ondoso. A luglio scorso si è tenuto a Roma il workshop “Energia dal mare: le nuove tecnologie per i mari italiani”, organizzato dall’Enea e dal ministero per lo Sviluppo economico. La European Ocean Energy Association aveva spiegato che «in Europa i dispositivi per la conversione dell’energia dal mare raggiungeranno una potenza installata di circa 3,6 GW entro il 2020 e 188 GW entro il 2050». Per ora l’energia maremotrice rappresenta appena lo 0,02% della domanda complessiva europea. [A.Bar.] 14

PROVE SCIENTIFICHE INNEGABILI I dati esistono. Poco noti, ma autorevoli. L’International Maritime Organization (Imo), organizzazione mondiale che riunisce praticamente tutti gli Stati costieri, ha stimato le ricadute di polveri sottili e ozono emesse dalle navi nei mari statunitensi e canadesi: tra 5 e 12mila morti premature, 6,5 milioni di episodi respiratori acuti, 4.600 bronchiti croniche, 8.400 ricoveri ospedalieri (vedi TABELLA ). E ad essi si aggiungono ovviamente i danni ambientali per un costo economico affatto irrilevante. Un altro studio, commissionato dal Parlamento europeo qualche anno fa, lo quantificava in 45,4 miliardi, diviso tra i diversi mari che bagnano il continente: solo nel Mediterraneo il trasporto marittimo causa danni per quasi 11 miliardi. Numeri allarmanti che dovrebbero imporre soluzioni. Qualcosa, in qualche caso, si è già fatto: aree speciali nei luoghi più a rischio (le cosiddette ECA, aree di controllo emissioni), che impongono limiti più stringenti sulle emissioni e sul carburante utilizzabile. Ma sono ancora esempi positivi in un mare di deregulation. E non pienamente soddisfacenti: in un’ECA il limite delle emissioni di zolfo è dieci volte più basso che altrove (0,1% anziché 1). Ma il tetto rimane generoso: nel caso dei trasporti terrestri è infatti mille volte più basso (0,00001). «La prova scientifica e sanitaria dell’esigenza di introdurre regole più stringenti non manca di certo – osserva Andrea Molocchi, autore dello studio dell’Europarlamento e ricercatore del centro di ricerca ECBA Project – ma è altrettanto evidente l’assenza di volontà politica, soprattutto dove il traffico è più intenso». E quindi il Mediterraneo, che pure è uno dei mari bisognosi di intervento, rimane fuori dalle ECA. valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

GUERRA TRA LOBBY Fieri oppositori di ogni misura restrittiva, gli operatori del trasporto marittimo. Tutta una questione di soldi, ça va sans dire. «Se il Mediterraneo divenisse area speciale – spiega Molocchi – le navi dovrebbero utilizzare il gasolio marino, più pulito ma molto più costoso del bunker oil oggi utilizzato, ottenuto dagli scarti di raffinazione. I costi di trasporto lieviterebbero del 50%». Un’ipotesi vista come fumo negli occhi dalle aziende. Finora la loro attività di lobby ha funzionato. L’IMO non ha mai concretamente valutato proposte di introdurre un’ECA. Anche perché nel loro sforzo sono di fatto sostenuti dai gestori dei porti che affacciano sul Mare Nostrum, che, pur logisticamente meno competitivi dei concorrenti nel Mar del Nord, si stanno avvantaggiando delle norme lassiste. Ma qualche novità potrebbe presto arrivare. Paradossalmente per l’intervento di un’altra (più potente?) lobby. I produttori di gas premono perché tale carburante soppianti nelle pance delle navi il più inquinante petrolio. Molti intravedono il loro zampino in un decreto legislativo approvato in Italia pochi mesi fa, che riduce di dieci volte i li-

IN BUONE ACQUE di Corrado Fontana

Il mare può anche essere affrontato in modo sostenibile: dall’acquacoltura certificata alla dissalazione alimentata da rinnovabili. Proposte in Europa, praticate in Africa e promosse da Slow Fish 2015 Non solo sfruttatori senza scrupoli e danni ecologici in cambio di profitto. C’è anche chi guarda agli oceani e alle loro risorse per preservarne l’integrità, come fonti di sostentamento e lavoro in armonia con l’ambiente. A questa filosofia risponderebbe, ad esempio, l’attività della Northern Harvest Sea Farms Group, prima impresa al mondo dedita all’allevamento e commercializzazione del salmone, certificata secondo gli standard BAP (Best Aquaculture Practices) in tema di acquacoltura: il comparto industriale per l’allevamento controllato di organismi acquatici (pesci, crostacei e molluschi, alghe). Azienda valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

GLI EFFETTI SANITARI DOVUTI ALLE CONCENTRAZIONI DI PM2,5 E OZONO, ASSOCIATI ALLE EMISSIONI DELLE NAVI NEGLI USA E NEL CANADA

FONTE: IMO-MEPC 59/6/5, 2 APRIL 2009 - PROPOSAL TO DESIGNATE AN EMISSION CONTROL AREA FOR NOX, SOX, AND PM® SUBMITTED BY USA AND CANADA

Effetto sanitario

Mortalità premature Bronchiti croniche Ricoveri ospedalieri Visite a camere di emergenza Episodi di bronchiti acute Episodi di sintomi respiratori acuti

Incidenza annuale nel 2020 dovuta al traffico marittimo senza ECA 5.100 - 12.000 4.600 8.400 4.100 13.000 6.500.000

Riduzione annuale nel 2020 dovuta al traffico marittimo con ECA 3.700 - 8.300 3.500 3.300 2.300 9.300 3.400.000

STIMA DEI COSTI ESTERNI DELL’INQUINAMENTO ATMOSFERICO DEL TRASPORTO MARITTIMO NEL MEDITERRANEO, ANNO 2005

FONTE: S. MAFFLI, C. CHIFFI, A. MOLOCCHI. EXTERNAL COST OF MARITTIME TRANSPORT (2007), A STUDY FOR THE POLICY DEPARTMENT STRUCTURAL AND COHESION POLICIES OF THE EUROPEAN PARLIAMENT

[valori in milioni di euro] Mare del Nord Mar Mediterraneo NE Atlantico Totale

SO2

9.230 6.557 2.919 21.355

NOx

8.504 2.247 3.375 16.431

PM2,5

3.795 1.950 732 7.407

COV da combustione 131 63 30 247

Totale

21.660 10.817 7.056 45.441

%

47,7 23,8 15,5 100,0

miti di zolfo nei carburanti usati nelle rotte in Adriatico (pur subordinando l’applicazione della regola al consenso di tutti gli Stati confinanti). ✱

modello, insomma, secondo i criteri di trasparenza e tracciabilità della filiera, nonché di responsabilità sociale e ambientale, elaborati da un ente certificatore statunitense. Torna Slow Fish È un modello apprezzabile anche per associazioni come Legambiente, Marevivo MedReAct e Lav, che, con Maria Damanaki (ex Commissaria europea per gli Affari marittimi e la pesca), hanno sostenuto a maggio 2014 la proposta di mettere al bando in Europa la pesca con le reti derivanti (o “da posta”), “muri di maglie” sottomarini che non fanno distinzioni tra specie protette e non. La proposta, osteggiata finora, è in attesa di un voto a Strasburgo per maggio 2015. Proprio quando a Genova, dal 14 al 17, si rinnoverà l’esperienza di Slow Fish, la fiera organizzata da Slow Food per offrire soluzioni per una pesca che protegga il mare e la salute dei consumatori. Ci saranno storie di lavoro e riscatto che si sposano col rispetto del mare, come quelle delle donne Imraguen, che in Mauritania sono custodi del presidio Slow Food della bottarga di muggine; o delle donne senegalesi delle isole di Dionewar, Falia e Niodior, che mantengono viva la raccolta e

la lavorazione dei molluschi endemici yeet (in lingua wolof, ndr), oggi messe in crisi dalla crescente pressione sulle risorse marine da parte delle flotte straniere e locali e dall’alta salinità dell’acqua. Innovazione al servizio dell’ambiente Diverse realtà ecocompatibili, cui si affianca uno sfruttamento degli ambienti oceanici che non produce benefici effetti solo sulla filiera che da essi deriva. È il caso dell’innovazione tecnologica sviluppata da una società australiana di Port Augusta, la Sundrop Farm, che commercializza un processo in cui il solare termico viene adottato per alimentare sia le macchine per la dissalazione del mare che gli ambienti climatizzati delle serre, fornendo così acqua dolce ed energia a basso impatto ambientale. Una sorta di circuito hi-tech, chiuso e pulito, che favorisce la riduzione di emissioni di gas serra e l’acquisizione di sali minerali e nutrienti da parte delle piante, mirando a produrre cibo e a sostenere aziende agricole situate in zone costiere non raggiunte dalle comuni infrastrutture elettriche e idriche. Sul futuro di questa tecnologia punta la società americana di private equity KKR. 15


DOSSIER MARE DA DIFENDERE

MARE DA DIFENDERE DOSSIER

Il Canada studia un oleodotto artico Ecologisti in rivolta di Andrea Barolini

 ONLINE Global Aquaculture Alliance www.gaalliance.org Best Aquaculture Practices - BAP bap.gaalliance.org Legambiente www.legambiente.it Marevivo www.marevivo.it Slow Food slowfish.slowfood.it Sundrop www.sundropfarms.com

Un collegamento di 2.400 chilometri unirebbe l’Alberta e l’estremo nord del Paese. Obiettivo: continuare a estrarre petrolio dalle controverse sabbie bituminose e trasportarlo via nave in Europa

I

l 18 novembre scorso il Senato Usa ha rifiutato di concedere il via libera al progetto Keystone XL, un immenso oleodotto che dovrebbe trasportare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose della provincia dell’Alberta, in Canada, fino alle raffinerie texane. Pochi giorni prima, anche la Camera si era espressa in modo analogo: un sospiro di sollievo per gli ecologisti, e una doccia fredda per i repubblicani, che hanno fatto del Keystone XL un vero e proprio cavallo di battaglia in campagna elettorale. Il GOP puntava a una votazione sull’oleodotto che segnasse il primo successo parlamentare dopo la conquista della camera alta alle elezioni di mid-term. Nonostante la vittoria ambientalista, la prudenza è d’obbligo. I repubblicani sono già tornati

DALLE PROFONDITÀ MARINE UNA NUOVA FONTE ENERGETICA di Paola Baiocchi

L’estrazione dei gas idrati potrebbe rivoluzionare gli equilibri mondiali dell’energia, perché stiamo parlando di risorse più che doppie rispetto a quelle fossili convenzionali. Mentre si stanno studiando le tecnologie estrattive, si pone il problema del rispetto ambientale 16

alla carica: mentre questo numero di Valori va in stampa è possibile che il Congresso sia chiamato nuovamente a esprimersi sulla questione, dopo un parere positivo arrivato da una commissione parlamentare. Il 6 gennaio il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha spiegato che Obama potrebbe in ogni caso porre il veto sul progetto. Ma l’industria petrolifera non si arrenderà. Sono troppi gli interessi in gioco, anche e soprattutto da parte dei canadesi. Non a caso, proprio nei mesi scorsi le autorità della provincia dell’Alberta hanno messo, in un certo senso, le mani avanti. Prima ancora che si conoscesse l’esito delle votazioni sul Keystone XL, è stato pubblicato un rapporto commissionato dalla provincia canadese, che indica

Dopo l’entrata tra le risorse energetiche dello shale gas, che ha rivoluzionato prezzi ed equilibri consolidati nello scenario mondiale, un’altra fonte d’energia potrebbe presto essere resa disponibile, con effetti potenzialmente più travolgenti: i gas idrati, ossia gas intrappolato nel ghiaccio dei sedimenti marini o terrestri. Le proiezioni effettuate sulle risorse totali sono impressionanti, si parla di più di 3.400 miliardi di barili equivalenti di gas, a fronte di risorse stimate su scala globale di circa 1.700 miliardi complessivi di barili di greggio e gas naturale.

Maria Filomena Loreto, geologa dell’ISMAR-CNR di Bologna, ci spiega di cosa si tratta: «Quando nei sedimenti, ad esempio lungo i margini continentali marini, o in ambiente subaereo dove c’è il permafrost, in presenza di adeguata concentrazione di gas si vengono a creare le condizioni di stabilità dell’idrato, ossia elevata pressione e bassa temperatura, l’acqua ghiaccia intrappolando nella sua struttura molecolare le particelle di gas (principalmente metano). All’interno dei pori dei sedimenti si formano così strati di idrato abbastanza comvalori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

un “piano B” rispetto all’oleodotto Canada-Usa: un progetto, secondo gli ecologisti, ancor più pericoloso e allarmante. Lo studio, intitolato An Arctic Energy Gateway for Alberta, conclude infatti che il petrolio delle tar sands (considerato tra i più pericolosi in termini ambientali) potrà essere trasportato grazie a una gigantesca pipeline, di oltre 2.400 km, che da Fort McMurray, vicino al fiume Arhabasca, raggiungerebbe il porto di Tuktoyaktuk, nell’estremo Nord. Da qui l’idea di sfruttare lo scioglimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento globale per caricare il greggio sulle petroliere e raggiungere l’Europa. Ovviamente, d’estate, e d’inverno? Secondo il rapporto si potrebbero usare rompighiaccio o sottomarini nucleari (è tutto nero su bianco, a pagina 13 del rapporto, reperibile on line). Domanda: perché avanzare una proposta del genere? «Perché i petrolieri sono disperati», spiega Patrick Bonin, responsabile della campagna Clima-Energia di Greenpeace Canada. «L’oleodotto artico è probabilmente un bluff, è il tentativo di dimostrare che hanno altre opzioni di fronte al fallimento di ciò che è stato avanzato finora. È evidente che l’industria ha bisogno di dare segnali positivi, subito, visto che colossi come Total e Statoil hanno già annunciato che diminuiranno i loro investimenti legati alle sabbie bituminose».

OLEODOTTI SÌ E NO Gli industriali delle tar sands si sono in effetti visti rifiutare o bloccare numerosi progetti di pipelines. I petrolieri hanno bisogno di un’alternativa spendibile. E pazienza se l’unica strada non ancora patti e spessi (300-400 metri). Questi sedimenti, chiamati clatrati, formano dei veri e propri reservoir che si estendono per migliaia di chilometri quadrati – continua Maria Filomena Loreto – e fanno da “tappo” impedendo al gas sottostante di migrare verso l’alto». Al di sotto di un bacino di gas idrato esiste, di solito, un giacimento di gas naturale: i luoghi dove più facilmente si trovano queste riserve sono i margini continentali, praticamente le scarpate marine che degradano dalle zone di piattaforma (-200 metri), verso le profondità oceaniche. Conosciuti da tempo, i gas idrati stanno ora attirando l’attenzione e le speranze di molte potenze. Tra queste il Giappone, alla ricerca di un’alternativa al nucleare dopo il valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

QUANDO IL MARE DIVENTA UN SITO INDUSTRIALE: IL CASO DELLA OLT DI LIVORNO

Il primo impianto al mondo di rigassificazione su una nave gasiera è nel mare di fronte a Livorno. Gli argomenti portati, senza successo, dai cittadini nella loro battaglia per impedirne l’installazione (Valori n° 41, giugno 2006) andavano dalla pericolosità dell’impianto e la sua inutilità alla privatizzazione del mare, al suo pesante impatto ambientale e alla poca rilevanza dei posti di lavoro creati: la nave della Olt (Offshore Lng Toscana) avrebbe dovuto riportare allo stato gassoso il gas naturale liquefatto (Gnl) trasportato dalle gasiere a -161 gradi centigradi, utilizzando acqua marina al ritmo di 500/600 milioni di litri al giorno. L’acqua sarebbe poi stata reintrodotta in mare, ma clorata e più fredda di 16 gradi. Un procedimento che avrebbe desertificato l’ambiente floro-faunistico circostante. La nave gasiera, inaugurata nel dicembre 2013, è inattiva, a riprova di quanto sostenevano i Comitati No Off-Shore. In compenso E.On e Iren, che ora controllano Olt, hanno trovato il modo per rifarsi dei costi dell’installazione caricandoli sulle spalle dei cittadini: il terminale galleggiante Fsru Toscana è stato riconosciuto “infrastruttura strategica per la sicurezza energetica nazionale” e quindi non solo è stato destinato a deposito di gas per le emergenze, ma grazie a una clausola di garanzia riceverà in pagamento almeno il 64% della tariffa, anche se resterà vuoto. [Pa.Bai.]

battuta punta verso l’Artico, con gli elevati rischi ecologici connessi. «Una fuga di petrolio – spiega Hannah McKinnon, esperta dell’associazione Oil Change International – è sempre drammatica, ma se pensiamo a un incidente in una regione vulnerabile come quella artica, dove tra l’altro le condizioni di accesso sono estremamente difficili, lo scenario non può che essere definito catastrofico». Per parlare in termini concreti, basta tornare indietro con la memoria al 24 marzo 1989, quando in Alaska un incidente della superpetroliera Exxon Valdez provocò uno dei peggiori disastri ambientali mai causati dall’essere umano. ✱

disastro di Fukushima. Ma anche dei grandi produttori di gas, tra cui la Russia che, dal 1969, ha iniziato lo sfruttamento del pozzo Messoyakha, perforato nel campo di gas idrato del bacino occidentale della Siberia allo scopo di estrarre il gas sottostante. Nel Golfo del Messico sono stati trovati enormi accumuli di gas idrati affioranti al fondale marino, mentre in Canada è stato perforato il pozzo Mallik, nel delta del fiume Mackenzie, allo scopo di sperimentare le varie tecniche di sfruttamento. «India, Giappone e Cina sembrano essere i Paesi con maggiori disponibilità di idrato e stanno investendo cospicue somme nella ricerca» aggiunge la dott.ssa Loreto. La vera “frontiera” è la messa a punto di tecnologie e modalità estrattive che per-

mettano il recupero del gas dall’idrato utilizzando una quantità di energia inferiore a quella che si andrebbe ad estrarre senza, inoltre, arrecare danni all’ambiente: il metano è un gas climalterante e le preoccupazioni degli ambientalisti sono che durante le estrazioni se ne liberino delle quantità in modo incontrollato, contribuendo ad aumentare il riscaldamento globale. Inoltre le estrazioni potrebbero rendere incoerenti i sedimenti delle scarpate continentali dando luogo a frane o/e subsidenza. Trattandosi, poi, di perforazioni da effettuare soprattutto in ambiente marino, anche nelle zone artiche e antartiche, si moltiplicano i timori che si consideri l’ambiente circostante come un territorio di nessuno, da sfruttare o inquinare senza limiti. 17


FINANZA ETICA

SCOPPIA LA GUERRA DEL PETROLIO

U

di Matteo Cavallito

Il crollo del prezzo del barile inguaia le compagnie americane. Un vantaggio per l’Arabia Saudita, ma non per i bilanci di molti membri Opec valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

na volta tanto la speculazione non c’entra. Ma le buone notizie, purtroppo, finiscono qui. Il clamoroso tracollo del prezzo del petrolio sperimentato a partire dalla scorsa estate di fronte al più classico dei fattori “materiali” – l’eccesso di offerta, ovviamente – ha gettato nello sconforto un po’ tutti. Dai grandi malati di inflazione (Russia e Venezuela) al fondo sovrano norvegese, che nonostante tutto ha scelto ancora di puntare sull’oro nero (vedi BOX ), passando per gli operatori del comparto obbligazionario corporate statunitense. Un settore chiave, quest’ultimo, che a modo suo sembra raccontare meglio di chiunque altro il significato più intimo dell’attuale bearish moment. E che moment, a leggere le cifre. A metà giugno, il petrolio americano (West Texas Intermediate, WTI) aveva toccato il suo picco annuale a 107,52 dollari. Sei mesi dopo il suo valore era sceso fino a quota 56 (vedi GRAFICO 1 ). Nello stesso periodo, il rendimento medio dei junk bond statunitensi, misurato dall’indice Merrill Lynch US 19


finanza etica oro nero in caduta libera

Il fondo sovrano norvegese non dovrebbe avviare il disinvestimento automatico dalle imprese del comparto delle fonti fossili, limitandosi, piuttosto, a valutare le ipotesi di esclusione con un’analisi “caso per caso”. È la raccomandazione avanzata da un gruppo di sei esperti allo stesso governo di Oslo. La squadra di periti, guidata dal consulente indipendente Martin Skancke, ha giudicato gli investimenti nei comparti del carbone e del petrolio compatibili con quegli stessi princìpi etici che – ha ricordato il quotidiano norvegese in lingua inglese The Local - avevano ispirato in passato l’esclusione dal portafoglio delle imprese attive nel settore delle armi “particolarmente disumane” e del tabacco così come i gruppi coinvolti in qualche modo con il fenomeno del lavoro minorile o con la violazione dei diritti umani. Con 700 miliardi di euro di asset gestiti, quello di Oslo è tuttora il più grande fondo sovrano del mondo. [M.Cav.]

120 100 90 70

4,00

«Un insieme di fattori fisici e di aspettative». Secondo Luigi De Paoli, professore ordinario di Economia dell’energia e di Economia dell’ambiente presso l’Università Bocconi di Milano, il forte ribasso sperimentato dal barile a partire dalla scorsa estate si spiega essenzialmente così. Un problema di «eccesso di offerta», dovuto soprattutto all’incremento della produzione Usa di shale oil e a una domanda stagnante di Cina e Paesi Ocse, non più controbilanciato dal timore di una possibile crisi delle forniture. «Per un certo periodo l’effetto ri20

Fino a quando? Fino al punto in cui si è capito che anche l’Isis aveva interesse a vendere il suo petrolio e che, nonostante tutto, la produzione non si sarebbe contratta ulteriormente, malgrado le crisi in Libia e nello scacchiere medio-orientale, ovvero che nessuna crisi politica, al di là di qualche oscillazione di breve periodo, sarebbe stata in grado di tagliare l’offerta. Il fuoco comunque covava sotto la cenere e da un po’ di tempo vi erano segnali che il prezzo del petrolio era troppo alto, almeno guardando al suo rapporto con il prezzo del gas.

Cioè? Storicamente, a parità di energia prodotta, il prezzo del petrolio tende a superare quello del gas di 1,5 o 2 volte circa. Negli ultimi anni, tuttavia, il rapporto registrato negli Stati Uniti si è allargato fino a 6-7 volte. Uno squilibrio tra due prodotti almeno in parte sostituibili che doveva essere compensato o dal rialzo dell’uno, cosa che è avvenuta molto limitatamente, o, per l’appunto, dal ribasso dell’altro. Con un prezzo del petrolio attorno a 40 dollari al barile siamo ritornati quasi alla situazione di equilibrio tradizionale. Parliamo delle conseguenze: ci sono problemi evidenti per molti Paesi esportatori? Alcuni Paesi, come Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, hanno saputo tesaurizzare la produzione degli anni passati e per questo valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

comparto potrebbe toccare quota 8%. Il doppio dell’anno precedente.

ARABIA SAUDITA ALL’ATTACCO «Se il prezzo dovesse rimanere troppo basso troppo a lungo le società americane produttrici di shale oil dovranno pagare un conto salatissimo», nota ancora Galeotti secondo cui proprio le analisi sul mercato americano potrebbero aver occupato parte delle «riflessioni fatte dai Paesi Opec a Vienna lo scorso 27 novembre». Nell’occasione, l’Arabia Saudita ha

possono permettersi di sopportare un certo periodo di ribasso prolungato. Molti altri, come Iran e Russia ad esempio, saranno invece costretti a tagliare la loro spesa corrente o i loro investimenti – che sono finanziati dai ricavi del settore petrolifero –, una scelta che potrà deprimere il commercio mondiale. Un problema anche per noi importatori, insomma… Non è detto. È vero che la riduzione della spesa russa costituisce un problema per l’Europa. Ma va detto che la contrazione di quella iraniana non dovrebbe avere effetti significavalori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

3,00

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set 02, 2014

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lug 01, 2014

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Eccesso di offerta per lo shale oil Usa e domanda stagnante. Le cause del crollo del barile

bassista legato al rallentamento dei Paesi emergenti è stato compensato dalla paura delle conseguenze della crisi geopolitica in Medio Oriente, fino a quando…».

Spread [punti %] Merrill Lynch US High Yield Master II / US Treasuries 10y

7,00

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PETROLIO E FUTURO «LA VERA BATTAGLIA? OPEC VS NON OPEC» di Matteo Cavallito

FONTE: FEDERAL RESERVE BANK OF ST. LOUIS (HTTP://RESEARCH.STLOUISFED.ORG/), GENNAIO 2015. NOSTRE ELABORAZIONI

Prezzo per barile (WTI) [in dollari Usa]

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mag 01, 2014

LA NORVEGIA INVESTIRÀ ANCORA NEL FOSSILE

ANDAMENTO DEL RISCHIO SULLE OBBLIGAZIONI SPAZZATURA

FONTE: U.S. ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION (WWW.EIA.GOV), GENNAIO 2015

apr 01, 2014

Il fatto, ha notato Bloomberg, è che anni e anni di tassi a zero e di Quantitative Easing (QE, l’iniezione di liquidità attraverso il riacquisto del debito da parte della Fed) hanno favorito a lungo la corsa

IL CROLLO DEL BARILE

mar 03, 2014

BOLLA ENERGETICA

agli alti rendimenti alimentando la domanda di obbligazioni più rischiose. A beneficiare dell’afflusso di investimenti sono state in particolare le società energetiche trascinate a loro volta dal boom dello shale oil, le cui fortune, come noto, dipendono in larga parte da alti livelli di prezzo del petrolio. Non stupisce, di conseguenza, che la flessione del barile – favorita dalla fine del QE stesso, che dei precedenti rialzi dell’oro nero era stato in parte responsabile – abbia fatto saltare il banco. L’analisi di Bloomberg appare «assolutamente realistica» spiega a Valori Fabio Galeotti, analista di Saxo Bank secondo il quale «la battaglia dei prezzi» starebbe ormai «entrando nel vivo». Il guaio è che la scommessa Usa sul comparto shale ha implicato puntate di grosso calibro che oggi suscitano ampie preoccupazioni. Dal 2010 ad oggi, notano gli analisti di Deutsche Bank ripresi ancora da Bloomberg, le compagnie energetiche hanno raccolto prestiti per oltre mezzo trilione di dollari e alcune di loro non saranno in grado di restituirli. Nel corso del 2015, sostiene la società di ricerca CreditSights, il tasso di default nel

feb 03, 2014

tore energetico che tra giugno e dicembre, ha riferito Bloomberg riprendendo i dati di Merrill Lynch, hanno visto i loro rendimenti medi passare da 5,7 a quota 9,5%. Un incremento di 380 punti base, ovvero 1,2 punti percentuali “peggio” del comparto junk nel suo complesso.

gen 01, 2014

High Yield Master II, è passato da 5,24 a 7,28 punti percentuali. Contemporaneamente, lo spread tra quest’ultimo e i titoli di Stato Usa a 10 anni è cresciuto di 260 punti base (2,6%, vedi GRAFICO 2 ). Dal punto di vista degli operatori, in altre parole, gli investimenti nel settore junk (alto rendimento) sono diventati di colpo molto più rischiosi alimentando, almeno in parte, l’alternativa degli “asset rifugio” (i titoli del debito pubblico). Ma il bello, o per meglio dire il brutto, della vicenda è che a performare ancor peggio della media sono state proprio le obbligazioni spazzatura del set-

oro nero in caduta libera finanza etica

confermato la scelta di non tagliare la produzione assecondando quindi la caduta dei prezzi. Una mossa, sostiene Luigi De Paoli, ordinario di Economia dell’energia e di Economia dell’ambiente dell’Università Bocconi di Milano (vedi INTERVISTA ), che finisce per «frenare i progetti più costosi dei Paesi concorrenti» (shale Usa in testa) mettendo in crisi però gli anelli deboli dell’Organizzazione. Il pensiero corre ovviamente a Iran e Venezuela che per compensare i propri deficit di bilancio, ha notato l’Economist, neces-

siterebbero di prezzi di mercato prossimi rispettivamente a 140 e 160 dollari per barile contro i 100 dollari dell’Arabia Saudita. Ma quello individuato per Ryad resta un valore teorico, visto che il Paese, al pari di Kuwait ed Emirati Arabi, non è costretto a finanziare la spesa corrente con le sole entrate petrolifere odierne. Ovvero può sopportare, a differenza di altri concorrenti, un fruttuoso quanto prolungato periodo di ribasso. Condizione necessaria per vincere qualsiasi guerra dei prezzi. ✱

tivi per l’Occidente senza contare, inoltre, che la riduzione del prezzo del petrolio rappresenta anche uno stimolo ai consumi, ovvero una spinta per i Paesi importatori.

ni di barili. Solo che oggi si pone un altro problema: quello del rapporto tra l’Opec e gli altri produttori.

Si dice che i rapporti all’interno dell’Opec non siano mai stati così tesi. È in atto uno scontro tra l’Arabia Saudita e l’asse Iran-Iraq? Non c’è dubbio che nell’area del Golfo vi siano conflitti economici e religiosi tra sciiti e sunniti che pesano nei rapporti tra i diversi Paesi, ma non parlerei propriamente di “scontro”. La situazione attuale mi fa pensare più che altro alla riproposizione del vecchio modello “Opec anni ’80”. Ovvero? Paesi come Iran e Iraq, che sono costretti a produrre al massimo della loro capacità, chiedono a chi se lo può permettere un taglio produttivo a difesa dei prezzi, qualcosa di simile a quanto avvenuto tra il 1981 e il 1985, quando l’Arabia Saudita ridusse la sua produzione giornaliera da 9 a 2,5 milio-

E qui entra in gioco il fattore shale, vero? Certamente, ma non solo. I Paesi produttori non-Opec studiano progetti di sviluppo nell’Artico e continuano a incrementare la produzione offshore e quella dello shale oil, ovvero del petrolio più costoso. Ma, siccome il mondo punta a una riduzione del peso degli idrocarburi per lottare contro i cambiamenti climatici, è chiaro che questa situazione non potrà andare avanti a lungo. Per questo motivo l’Arabia Saudita – che, insieme agli altri Paesi Opec, controlla la maggior parte delle riserve petrolifere a basso costo di estrazione del Pianeta – ha tutto l’interesse a estrarre il “suo” petrolio ora per portare a casa un profitto significativo in tempi ragionevoli, favorendo contemporaneamente un ribasso dei prezzi che sia in grado di frenare i progetti più costosi dei Paesi concorrenti. 21


finanza etica oro nero in caduta libera

investimenti speculativi finanza etica

Gli studenti gridano: “Stop alle fonti fossili!” di Valentina Neri

Dopo le campagne contro l’industria del tabacco e l’apartheid in Sudafrica, gli studenti di tutto il mondo lanciano una nuova sfida: stop agli investimenti nelle fonti energetiche inquinanti da parte delle università

22

I

l 13 e il 14 febbraio sono date particolari per le università più prestigiose al mondo. In calendario non ci sono cerimonie accademiche, ma il Global Divestment Day: due giorni in cui gli studenti di tutto il Pianeta, affiancati in molti casi dai professori, hanno organizzato sit-in, marce pacifiche, flash mob e altre iniziative creative per lanciare un messaggio chiaro: gli atenei devono smettere di investire nei combustibili fossili.

I RISULTATI NEGLI USA Il movimento è nato nei campus americani nel 2010, con i tentativi pionieristici dello Swarthmore College in Pennsylvania, seguito dal 2012 da un numero crescente di istituti. Erano made in Usa anche le campagne di boicottaggio degli scorsi decenni contro l’industria del tabacco o il Sudafrica dell’apartheid, ricorda un rapporto pubblicato a ottobre 2013 dalla Smith School of Enterprise and Environment dell’Università di Oxford. In confronto a questi precedenti, sottolinea il report, i risultati conseguiti in queste poche manciate di mesi sono di tutto rispetto. Già tredici università e college Usa sono passati dalle parole ai fatti, votando per il “no” agli investimenti nelle fonti inquinanti. Sono soprattutto realtà di piccole dimensioni, come il californiano Pitzer College, che lo scorso aprile ha scelto di ritirare i capitali e ridurre del 25% la propria impronta ambientale entro il 2016. L’eccezione, di tutto rispetto, è la Stanford University, che gestisce 21,4 miliardi di dollari. Dopo mesi di contestazioni studentesche, a maggio il Consiglio dell’ateneo ha deliberato il ritiro di tutti gli investimenti nei colossi del carbone. Ma non è abbastanza, affermano a gran voce trecento professori in una lettera inviata a gennaio al presidente e al Consiglio: bisogna dire addio anche a petrolio e gas naturale. È andata peggio ai vertici dell’Università di Harvard, citati in giudizio a novembre da sette stu-

denti che li accusano di «cattiva gestione delle donazioni» e chiedono di prendere una posizione netta sul clima, per conto degli studenti e «delle future generazioni». In attesa della pronuncia della Corte, il presidente dell’Ateneo, Drew Gilpin Faust, non cede: il fondo dell’università, dice, è «una risorsa, non uno strumento per incitare cambiamenti sociali o politici». È di parere diverso l’Australian National University, che a ottobre ha detto addio a sette società petrolifere e minerarie che rappresentavano circa l’1% dei suoi investimenti.

…E IN EUROPA Anche in Europa qualcosa si muove. Lo scorso 8 ottobre, dopo un anno di proteste da parte di 1.300 studenti e docenti, il Consiglio dell’Università di Glasgow ha ritirato capitali per 18 milioni di sterline. Mentre a Edimburgo e Oxford si medita sul da farsi, alla londinese UCL la strada è in salita. Sono circa 21 milioni di sterline i patrimoni stanziati, più o meno direttamente, in società che operano coi combustibili fossili. Gli studenti interpellati da Valori si dichiarano «delusi dalle risposte e dalle false promesse». E annunciano di «intensificare la campagna fino a quando non si vedranno progressi reali». La Smith School of Enterprise and Environment, però, mette i puntini sulle “i”: gli atenei americani hanno investito nelle società minerarie e petrolifere il 2% dei loro asset, percentuale che sale al 4% nel Regno Unito, dove tali aziende sono più rappresentate in Borsa. Ciò significa che, anche se le università si mobilitassero in massa, non dovremmo certo aspettarci un repentino crollo delle quotazioni. Le conseguenze più rilevanti, secondo gli studiosi, sarebbero semmai quelle indirette,a lungo termine, quando sulle big delle energie inquinanti si è ormai abbattuto uno stigma che allontana potenziali investitori, fornitori, clienti, dipendenti. E che può spingere i governi a osare di più nelle politiche per il clima. ✱ valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

L’anno nero dei fondi hedge Record di chiusure e rendimenti ai minimi. Per i fondi hedge il 2014 è stato un anno da dimenticare. Pesa il calo delle materie prime, ma alcuni errori strategici partono da lontano

A

certificare la crisi ci ha pensato la Chicago Hedge Fund Research, rendendo noti gli ultimi dati del settore. Nel primo semestre del 2014, l’ultimo periodo per il quale sono disponibili cifre definitive, i fondi hedge chiusi sotto il peso di performance negative sono stati 461. Un dato che impressiona, soprattutto nel confronto con gli anni passati. Al ritmo attuale, ha notato infatti Bloomberg, la conta dei caduti registrata alla fine dell’anno (ma i numeri definitivi non sono ancora noti) potrebbe aver raggiunto il valore teorico di 922. Ovvero il livello più alto dal 2009, il famigerato annus horribilis dei mercati finanziari in cui le chiusure dei fondi superarono quota mille (vedi GRAFICO 1 ). Ad alimentare il fenomeno, ovviamente, ci sono i modesti rendimenti offerti dal comparto che, nel corso del 2014, si sono attestati a un livello medio del 2%, la peggior performance dal 2011. L’indice BarclayHedge (nessuna parentela con l’istituto Barclays) – che analizza un paniere composto da migliaia di fondi – ha calcolato un rendimento medio per l’anno appena concluso prossimo al 4%, un dato apparentemente più confortante, ma pur sempre lontano dalle performances tipiche registrate in passato quando i risultati in doppia cifra erano stati frequenti (vedi GRAFICO 2 ). Un fenomeno particolarmente critico, che acuisce, tra gli altri, l’annoso problema dei costi di gestione (vedi BOX ).

COMMODITIES ED EMERGENTI In un anno caratterizzato da rendimenti modesti, ha notato Bloomberg, a patire in modo particolare sono stati i fondi attivi nel comparto materie valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

di Matteo Cavallito

prime. Tra questi Hall Commodities LLP, un hedge londinese da 100 milioni di dollari che ha chiuso i battenti a ottobre dopo due anni di attività, e il fondo di settore della Brevan Howard Asset Management LLP, un veicolo d’investimento da 630 milioni di dollari chiuso dalla stessa casa madre (una maxi creatura da 37 miliardi) dopo lo sconfortante -4,3% registrato quest’anno. Determinante il calo dei prezzi del comparto su cui pesa, negli ultimi tempi, il forte ribasso del petrolio. Ma, accanto al trend ribassista del barile, notava a fine novembre la CNBC, altri fattori chiave come il deprezzamento di alcune valute (tra cui il real brasiliano e ovviamente il rublo) e le tensioni geopolitiche (conflitto Russia-Ucraina in testa) avrebbero finito per condizionare negativamente il mercato, contribuendo così a influire sui destini di un altro comparto chiave per gli investimenti alternativi: quello dei mercati emergenti.

FONDO SPECULATIVO, QUANTO MI COSTI!

Costosi. Tanto. Anzi, troppo. Soprattutto in relazione ai risultati. Sono i fondi hedge, già protagonisti di deludenti performance di mercato, e ora nel mirino di una clientela costretta a sobbarcarsi costi di gestione decisamente elevati. Lo ha riferito Bloomberg citando, tra le altre, le critiche mosse dalla Alignment of Interests Association (AOI), un gruppo di pressione che rappresenta gli interessi degli investitori nel comparto. Alcuni operatori, come il fondo pensione degli insegnanti texani, chiedono a gran voce ai fondi di vincolare le commissioni imposte agli investitori ai risultati raggiunti. A settembre, PMT, il fondo pensione dei lavoratori dell'industria siderurgica olandese, e Calpers, l’omologo dei dipendenti pubblici della California, hanno annunciato il disinvestimento dagli hedge a causa dei costi eccessivi. I manager dei fondi hedge, che gestiscono asset complessivi per 2,8 trilioni (mila miliardi) di dollari a livello globale, ricorda Bloomberg, sono tuttora tra i più pagati di Wall Street. 23


finanza etica investimenti speculativi

un cappotto normativo finanza etica

NUMERO DI FONDI HEDGE CHIUSI 2008-14

FONTI: BLOOMBERG, DICEMBRE 2014; BLOOMBERG BUSINESSWEEK, DICEMBRE 2009; FINANCIAL TIMES, MARZO 2013; OPALESQUE, DICEMBRE 2014; THINKADVISOR, MARZO 2014; NOSTRE ELABORAZIONI. *DATO AL PRIMO SEMESTRE

40%

11,12%

3,89%

2013

2014

-5,48% 8,25% 2012

10,88% 2010

2007

23,74%

12,39%

10,22%

2006

2009

8,80%

17,99%

10,67%

1,42%

2003

2005

6,77%

2002

-20%

Microcredito: la legge è operativa finalmente!

L’ONDA LUNGA DEI BASSI RENDIMENTI Per quanto rilevanti nel loro insieme, tuttavia, i trend più recenti sperimentati dal mercato – commodities, Russia e svalutazioni varie – sembrano in grado di offrire una spiegazione solo parziale, oscurando, nel marasma delle cifre, quello che in realtà appare a qualcuno come un fenomeno di medio-lungo periodo. «Il 2014 è stato indubbiamente segnato da numeri negativi, ma la verità è che gli hedge fund sono in declino già dai tempi del crack Lehman quando molti operatori, che si erano trovati a fare i conti con fondi alternativi illiquidi, hanno iniziato a vendere innescando così un meccanismo al ribasso», spiega Raffaele Zenti, socio fondatore e responsabile dell’area Financial Strategies della società di consulenza Advise Only. Un declino «che parte da lontano», insomma, come evidenziano alcuni confronti impietosi. «Prendiamo l’HFRX Equity Hedge Index, un indice di riferimento dei fondi che investono nel mercato azionario», nota Zenti. «Dalla fine del 2008 ad oggi (intervista del 18 dicembre 2014, ndr) il suo total return, ovvero il rendimento complessivo, dividendi compresi, è stato del 2,6%, come a dire in

2011

2008

-30%

Nel corso del 2014, osservava l’emittente Usa, gli investimenti degli hedge nel continente latinoamericano avrebbero reso circa il 3,5%, una performance molto modesta. Quelli condotti in Russia, da parte loro, si sarebbero rivelati a dir poco disastrosi registrando addirittura una perdita complessiva del 12%. A fare eccezione, trascinati dai rialzi del mercato azionario locale, sono stati invece gli investimenti dei fondi attivi in India, capaci, sempre secondo CNBC, di centrare un rendimento annuale medio del 42% circa.

24

2004

12,19%

2001

2014 (1° sem.)

36,56%

2013

2000

2012

8,23%

2011

1999

2010

22,35%

461*

-10%

1997

0%

1998

904

775

873

10% 743

2009

-21,63%

20% 1.023

2008

FONTE: BARCLAYHEDGE ALTERNATIVE INVESTMENT DATABASE (WWW.BARCLAYHEDGE.COM), GENNAIO 2015

30%

1.471

1.600 1.500 1.400 1.300 1.200 1.100 1.000 900 800 700 600 500 400 300 200 100 0

IL RENDIMENTO ANNUALE MEDIO DEI FONDI HEDGE 1997-2014

media 52 punti base, o lo 0,52%, all’anno. Nello stesso periodo l’MSCI World, un indice di riferimento per i mercati azionari delle economie avanzate, ha raggiunto una media annuale del 10,71%, ovvero 1071 punti base, registrando un total return complessivo del 66% circa. Come si può vedere siamo su due ordini di grandezza completamente diversi». Sugli scarsi rendimenti pesano diversi fattori, «a cominciare dall’inasprimento dei controlli che ha un’inevitabile ricaduta sui costi di gestione dei fondi» e proseguendo con «la forte concorrenza all’interno del settore». Ma l’aspetto maggiormente decisivo, forse, è di natura strategica. «Dallo scoppio della crisi in avanti i mercati sono stati guidati, per così dire, dalle idee “macro”, legate alla politica monetaria e d’indirizzo dei mercati come il Quantitative Easing, ad esempio, e gli interventi della Troika nell’eurozona» spiega ancora Zenti. «Chi ha saputo valutare dall’alto con analisi ragionate e complessive l’impatto di grandi fenomeni, come la politica monetaria espansiva americana o la crisi dell’euro, ha fatto bene. I fondi che si sono affidati maggiormente a un approccio di tipo quantitativo – analisi di dati statistici confronto tra titoli simili, uso di metodi algoritmici – al contrario, possono essersi trovati in difficoltà nel centrare in pieno i rendimenti del mercato». Un’impasse che trova riscontro soprattutto nel comparto azionario, una potenziale miniera d’oro di cui i fondi non hanno saputo approfittare adeguatamente. Dal 2008 ad oggi, ha notato Bloomberg, le azioni presenti nei portafogli dei fondi equity del comparto hedge hanno reso il 41%. Nello stesso periodo, l’indice Standard & Poor’s 500, uno dei principali punti di riferimento delle Borse, ha registrato una crescita del 153%. ✱ valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

Dopo 4 anni è stato approvato il regolamento attuativo dell’articolo dedicato al microcredito (111 del Tub). Gli esperti esprimono soddisfazione per una norma che diventa operativa. E molte critiche

I

n piena crisi economica, tra il 2011 e il 2013, c’è uno strumento che ha permesso di creare circa 20mila posti di lavoro in Italia. È il microcredito produttivo: piccoli prestiti (25mila euro al massimo) che hanno permesso a chi avrebbe ricevuto un “no” da una qualsiasi banca di avviare un’attività produttiva. In tre anni ne sono stati concessi più di 8mila. È la fotografia scattata dal IV rapporto dell’Ente nazionale per il microcredito. Un fenomeno in crescita (in 3 anni le somme erogate sono quasi raddoppiate, dai 42 milioni di euro del 2011 ai 76 milioni del 2013, per i microprestiti d’impresa), per il quale però la domanda supera di gran lunga l’offerta: i microcrediti produttivi concessi coprono solo il 30% della domanda reale. «Dall’analisi risulta una carenza di offerta per il microcredito d’impresa, che avrebbe potuto essere in parte incrementata dall’intervento del legislatore. Ma così non è stato». È la denuncia del presidente dell’Ente nazionale per il microcredito, Mario Baccini. Questo strumento finanziario, infatti, pur essendosi dimostrato molto utile, fino ad oggi era “zoppo”, gli mancava un capotto giuridico. A dire il vero la “rivoluzione” era avvenuta più di quattro anni fa, quando, con la riforma del Testo unico bancario, era stato inserito un articolo, il 111, intitolato proprio “microcredito”, che definiva i contorni legislativi di questo particolare strumento finanziario (definizione, importi, requisiti dei soggetti erogatori). Peccato che nei successivi quattro anni nulla si sia mosso per rendere operativa la legge. Solo lo scorso dicembre, finalmente, è stato approvato il regolamento attuativo, che purtroppo non è stato accolto con scrosci di applausi. “Ben venga questo passaggio che permette valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

di Elisabetta Tramonto

di applicare la norma dopo quattro anni, ma sono molti i limiti introdotti”, è il commento più o meno unanime degli operatori del settore.

LUCI E (MOLTE) OMBRE «Un passaggio normativo fondamentale per gli operatori del settore», aveva commentato a caldo Ritmi, Rete italiana microfinanza, secondo cui, però, il regolamento attuativo è solo il punto di partenza per una normativa ancora tutta da scrivere. «Accogliamo positivamente il regolamento attuativo dell’articolo 111 che definisce il percorso da intraprendere per diventare operatori di microcredito», dichiara Ugo Biggeri, Presidente di Banca Popolare Etica, secondo cui però «Alcuni limiti oggettivi nel quadro normativo ostacolano il riconoscimento come operatori di microcredito di esperienze storiche». E, continua Biggeri «il tetto di 200mila euro di fatturato e di 5 anni di attività limita eccessivamente i potenziali beneficiari ed esclude le micro imprese in stato di crisi». Una delle principali critiche alle novità introdotte dai regolamenti attutivi riguarda proprio i requisiti per poter beneficiare di un microcredito. Il legislatore, a quanto pare, a voluto riservare i prestiti a realtà giovani, start up, escludendo però una larga fetta di possibili beneficiari. «In questo modo la norma non rispetta l’intenzione espressa dal legislatore 4 anni fa di rafforzare il ruolo del microcredito come strumento per politiche attive del lavoro», commenta Mario Baccini. «Il regolamento attuativo introduce una definizione più rigida di microcredito, degli erogatori ammessi e dei beneficiari», spiega Andrea Limone, amministratore delegato di Permicro, la socie25


finanza etica un cappotto normativo IL MICROCREDITO IN ITALIA: DOMANDE, PRESTITI CONCESSI E AMMONTARE PER FINALITÀ. ANNO 2013 FONTE: PROGETTO MONITORAGGIO, ENTE NAZIONALE MICROCREDITO - MINISTERO DEL LAVORO

Domande valutate Sociale Produttivo Totale

v.a. 10.067 13.461 23.528

% 42,8 57,2 100,0

Microcrediti concessi

v.a. 5.958 3.983 9.941

% 59,9 40,1 100,0

Ammontare Erogati/ medio per domande Ammontare totale prestito valutate erogato Rapporto Euro % Euro 59,2 26.014.073 25,4 4.366,2 29,6 76.323.653 74,6 19.162,4 42,3 102.337.726 100,0 10.294,5

tà torinese che dal 2007 eroga microcredito. «Questo da un lato evita che soggetti che in realtà non si occupano di microcredito, usino impropriamente questo termine – continua Andrea Limone – dall’altro però, introduce una serie di difficoltà anche per chi si occupa davvero di microfinanza». Ma alla domanda chiave: “questi decreti permetteranno di concedere più microprestiti?” la risposta sembra unanime: no. «Se non ci sono vantaggi significativi per gli erogatori, non nascerà più mercato. E dalla norma attuale non vedo questi vantaggi significativi», risponde Andrea Limone. «Di certo la normativa attuale non è sufficiente per sviluppare il settore», aggiunge Giampietro Pizzo (vedi INTERVISTA sotto). «Manca una serie di tasselli per incrementare l’offerta – spiega Mario

Il regolamento attuativo è una condizione necessaria, ma non sufficiente per svuluppare il settore del microcredito in Italia «Oggi il 25% degli italiani affronta una condizione di esclusione finanziaria. La crisi da anni colpisce in particolare le fasce più deboli della popolazione: giovani, donne, disoccupati, migranti, che non trovano risposte nel sistema bancario tradizionale. E molti piccoli imprenditori non riescono a ottenete prestiti. Il microcredito è da più parti riconosciuto come un efficace strumento di lotta alla povertà e di contrasto all’esclusione finanziaria e sociale. Ma non può rimanere riservato a poche migliaia di persone, deve diventare uno strumento accessibile a tutti. È l’Europa a chiederlo. In Italia il microcredito continua a crescere in termini di erogazioni (vedi ARTICOLO alla pagina precedente, ndr), ma non soddisfa an26

Usa, cresce il “dark trading” sulle azioni

SOLO PER LA FINANZA MUTUALISTICA Chi sta festeggiando per il nuovo regolamento sono le realtà della finanza mutualistica, come le Mag (Mutue di autogestione), o almeno una parte di esse. «Mentre nella stesura dell’articolo 111 la finanza mutualistica non era neanche citata, nel regolamento attuativo le viene riservato un intero articolo: il 16, intitolato “Operatori di finanza mutualistica e solidale”», spiega Patrizio Monticelli, presidente di Mag2 Finance. A questa categoria il legislatore ha riservato una serie di deroghe rispetto agli altri operatori, per esempio nel tetto degli importi erogabili (75mila, invece di 25mila) e nella durata massima del prestito (10 anni, invece di 7). Se le Mag potranno essere “operatori di microcredito” è tutto da vedere («dipenderà anche dalla capacità di rispettare le richieste operative e burocratiche contenute nel regolamento», spiega ancora Monticelli), fatto sta che la valenza simbolica dell’articolo dedicato alla finanza mutualistica è elevato. ✱

UN PRIMO PASSO, MA C’È ANCORA MOLTO DA FARE di Elisabetta Tramonto

NEWS

Baccini – dalla formazione alle agevolazioni fiscali, dai servizi di accompagnamento a risorse specifiche per il settore».

cora la crescente domanda, anche a causa delle difficoltà provocate dalla mancanza di un quadro normativo appropriato». Descrive così il crescente bisogno di microcredito in Italia Giampietro Pizzo, presidente di Ritmi (Rete Italiana Microfinanza).

L’approvazione del regolamento attuativo dell’articolo 111 è una buona notizia? Certamente sì, anche se, per come è stato scritto, comporta una serie di limiti. È un fattore positivo, innanzitutto, perché rende operativa una norma che per quattro anni era rimasta sulla carta. E, in secondo luogo, perché consente un salto di qualità nell’offerta di servizi finanziari inclusivi in Italia: si passa da una logica a progetto a una logica più istituzionale, capace di garantire una presenza permanente sul territorio. Quali aspetti invece non la convincono? Il regolamento attuativo approvato ha una serie di limiti. Riguardano, per esempio, i beneficiari dei microprestiti d’impresa: possono essere finanziate solo imprese costituite

da non più di 5 anni. Una logica che favorisce le start up, ma esclude tutte le realtà preesistenti, riducendo quindi la portata del microcredito come strumento per politiche del lavoro attive. I beneficiari vengono selezionati anche sulla base delle dimensioni, favorendo le microimprese e tagliando fuori le realtà un po’ più grandi, ma comunque piccole. Oltre ad essere stata introdotta una serie di regole macchinose che rendono complesso anche stabilire il tasso di interesse da applicare.

Ci sarebbe molto da migliorare, quindi… L’articolo 111 è una condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo del settore. Occorre al più presto una legislazione specifica, che, per esempio, introduca delle agevolazioni fiscali e preveda adeguate risorse per promuovere la microfinanza. Come Ritmi abbiamo proposto due progetti di legge che ora sono in attesa di discussione alla Camera dei Deputati. L’attenzione riservata dalla Presidente Laura Boldrini al tema del microcredito ci fa ben sperare. valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

2.560 milioni di dollari, oltre due miliardi e mezzo di biglietti verdi, registrati nel terzo trimestre 2014. È l’ammontare crescente (+3% rispetto allo stesso periodo dell’anno passato) dei volumi

medi di scambio giornaliero di azioni nelle piattaforme extra borsistiche (dark pools) americane. Lo riferisce l’ultima ricerca di TABB Group. Una massa di operazioni che copre ormai il 45% degli scambi totali.

VALORITECA MININEWS

I MIGLIORI TWEET DEL MESE

Gli hedge cinesi dietro al crollo del rame

Meno 6,4%. Ovvero il più consistente deprezzamento da più di tre anni a questa parte. È la performance negativa fatta registrare dal rame nella seconda settimana di gennaio. Un tracollo di cui sarebbero largamente responsabili le strategie speculative dei fondi cinesi, sempre più protagonisti nel mercato delle materie prime e dei metalli in particolare. Lo ha sostenuto il Financial Times.

DISEGUAGLIANZA: L’ASCESA DELL’1%

La ripartizione della ricchezza globale (per fasce di ricchezza) [percentuale di popolazione adulta]

7,9 21,5

69,8 <$10,000

$10,000-100,000 $100,000-1m >$1m

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

0,7

Basta lamentele, titola @DIEZEIT #Germania ha approfittato dell'euro e della crisi. Ora tocca agli altri Paesi. 23 gennaio @meggio_m

Credito erogato +5%, sofferenze 2,5% (media banche italiane 9,5%). Alcuni numeri di @bancaetica nel 2014 15 gennaio @abaranes

 LIBRI Hyman Philip Minsky COMBATTERE LA POVERTÀ. LAVORO NON ASSISTENZA Ediesse, 2014

Una raccolta di saggi di Minsky ripubblicata oggi con un saggio di Riccardo Bellofiore (economista dell'Università di Bergamo) e Laura Pennacchi (economista ed ex-sottosegretario al Tesoro nel primo Governo Prodi) analizza il ruolo dello Stato nel combattere la povertà. Minsky affronta, negli anni Sessanta e Settanta, il problema delle politiche di contrasto della povertà adottate dalle amministrazioni statunitensi. Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi propongono, come indica il titolo del loro contributo – Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento – una riflessione sull’attuale situazione di crisi e sul modo di uscirne che non sia quello regressivo prospettato dalle politiche di austerità. 27


menù a base di pesce

numeri della terra

 4.420  1.260 [5.680]

Nelle acque

UE  53.120

DEL MONDO

 47.000

NORVEGIA

 2.150  1.321 [3.471]

 1.449  5 [1.454]

 8.912

 16.168  41.108 [57.276]

 4.262  130 [4.392]

ISLANDA RUSSIA

 461  205 [666]  6.064 FRANCIA

CINA SPAGNA

 5.108  420 [5.528] USA  5.753

 196  164 [360]

 17.561

 18.228

ITALIA  5.562

 7.441

 3.611  633 [4.244] GIAPPONE

 882  267 [1.149]

di Matteo Cavallito Quasi 160 milioni di tonnellate. È la stima della produzione mondiale di pesce calcolata dalle ultime rilevazioni disponibili della Fao e dai più recenti dati Ue. Un ammontare che si concentra soprattutto in Cina (oltre 57 milioni di tonnellate prodotte), leader globale davanti a India, Indonesia e Vietnam. L’acquacoltura pesa sulla produzione totale per quasi 67 milioni di tonnellate (di cui 41 milioni circa coperte dalla sola industria degli allevamenti cinesi) con un’incidenza pari al 42%, destinata ad aumentare nei prossimi anni a fronte dei forti ritmi di crescita del segmento. Il commercio mondiale dei prodotti ittici, stima ancora la Fao, vale quasi 130 miliardi di dollari, 53 dei quali coperti dalle sole operazioni dei Paesi membri dell’Unione europea (ma si sale a 66 considerando anche il peso di Norvegia e Islanda). Con 47 miliardi di dollari di controvalore l’Unione europea si conferma anche primo importatore del Pianeta davanti al Giappone e agli Stati Uniti. Quarta la Cina (7,4 miliardi), seconda nella graduatoria dell’export (18,2 miliardi). 28

 4.862  4.209 [9.071]

 17.991

 2.623  3.086 [5.709]

INDIA  3.927

 6.428

 1.835  1.234 [3.069]

VIETNAM  6.278

 8.079 THAILANDIA

 5.814  3.068 [8.882] INDONESIA

 2.573  1.071 [3.644]

MONDO CILE

Pesce  91.336  66.633

 4.386

[produzione in migliaia di tonnellate, 2014]  Pesca  Acquacoltura [produzione totale] valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

[157.969] FONTI: NOSTRE ELABORAZIONI DA FAO, "THE STATE OF WORLD FISHERIES AND AQUACULTURE 2014", EUMOFA - EUROPEAN MARKET OBSERVATORY FOR FISHERIES AND AQUACULTURE, "THE EU FISH MARKET 2014 EDITION", EUROSTAT, "FISHERY STATISTICS", MAGGIO 2014. PRODUZIONE: DATI IN MIGLIAIA DI TONNELLATE. IMPORT/EXPORT: DATI IN MILIONI DI DOLLARI.

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

 129.107  129.338

 import  export

29


ECONOMIA SOLIDALE

IL MONDO HA FAME DI PESCE

U

di Matteo Cavallito

Le economie emergenti e in via di sviluppo trainano il mercato globale del pesce: fonte di proteine e di lavoro. I consumi volano, ma l’Italia è in controtendenza. Boom per l’acquacoltura 30

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

n settore in crescita e non potrebbe essere altrimenti. Comparto alimentare chiave per molte economie emergenti, fonte primaria di assimilazione di proteine animali nei Paesi in via di sviluppo, segmento economico fondamentale per il lavoro nel continente asiatico, il più popoloso del mondo. Bastano queste caratteristiche, va da sé, a spiegare l’espansione del mercato globale del pesce. Dal 1960 ad oggi, dicono i dati Fao, il consumo annuale pro capite di prodotti ittici è passato da 9,9 a 19 chili, con l’Europa – 24 kg secondo Ismea, ma l’Italia è in controtendenza (vedi BOX ) – a guidare la classifica per continenti. La crescita, evidenzia ancora la Fao, si è confermata ampiamente anche nell’ultimo quinquennio rilevato (+12,3%) grazie soprattutto all’onda lunga del comparto cinese. Ad oggi Pechino si conferma il primo produttore mondiale con oltre 57 milioni di tonnellate di prodotti ittici (vedi MAPPA alle pagg. 28-29) pari a circa il 36% del tota31


economia solidale settore ittico in crescita

BOOM DI ALLEVAMENTI. «GRANDI OPPORTUNITÀ, MA OCCORRE EQUILIBRIO» di Matteo Cavallito

L’opinione di Pier Paolo Gatta, ordinario di Zoocolture dell’Università di Bologna. «L’acquacoltura? Un’occasione per i Paesi del Mediterraneo»

«Garantire la sostenibilità della pesca, offrire ai Paesi in via di sviluppo la possibilità di contare su un elemento nobile nella dieta, sfruttare le caratteristiche nutrizionali del pesce e i suoi benefici per la dieta

32

anche in Occidente». Secondo Pier Paolo Gatta, ordinario di Zoocolture presso il Dipartimento di Scienze mediche veterinarie dell’Università di Bologna, le ragioni a sostegno degli investimenti nell’acquacoltura non mancano di certo. Negli ultimi anni, ha certificato la Fao, il settore conosce uno sviluppo particolarmente significativo alimentato in primo luogo dalla necessità di trovare un’alternativa allo sfruttamento dei mari. Le critiche alla sostenibilità del comparto sono note da tempo. Ma la possibilità di «modulare le operazioni», assicura il docente, non manca.

Professore, l’acquacoltura mondiale è in forte crescita. chi c’è in prima fila? Nel mondo domina la Cina ma non mancano importanti investimenti in altri Paesi. La Norvegia, con una produzione di 1,2 milioni di tonnellate all’anno solo per il salmone, svetta nella classifica europea. La Francia, grazie alla spinta della grande distribuzione, evidenzia una produzione significativa di ostriche mentre in Italia spiccano allevamenti di qualità di trote, branzini, orate e mitili che interessano anche medi e grandi produttori sebbene non si raggiungano mai, per intenderci, le dimensioni produttive delvalori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

la Norvegia dove domina l’approccio industriale. ci sono prospettive importanti anche in europa, dunque? Negli ultimi 30-40 anni l’Europa ha investito molto nell’acquacoltura anche a livello tecnologico. Ne deriva una forte espansione del settore, con allevamenti più estesi in contrasto con le operazioni più frammentate del passato, così come un aumento delle opportunità per i Paesi del Mediterraneo, storicamente penalizzati sul fronte della pesca in mare dalla concorrenza delle nazioni del Nord Europa. in che senso “penalizzati”? Esistono da sempre alcuni elementi critici, come ad esempio la determinazione delle aree di valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

PRODUZIONE ITTICA PER SETTORI 2007-12

FONTE: THE STATE OF WORLD FISHERIES AND AQUACULTURE, MAGGIO 2014. NOSTRE ELABORAZIONI. DATI IN MILIONI DI TONNELLATE, LA VOCE "TOTALE" E LA SOMMA DELLE SINGOLE VOCI DIFFERISCONO A CAUSA DELL'APPROSSIMAZIONE

100 90

+0,55% 90,8

90,1

89,1

90,1

93,7

91,3

80

+33,4%

60 50

49,9

52,9

55,7

59,0

62,0

66,6

+12,3%

30

0

140

2007 Catture

2008 Acquacoltura

158,0

10

150 145

40 20

160 155

70

155,7

Economia della Pesca e dell’Acquacoltura della Fao, le entrate nette del commercio di pesce realizzate nel 2011 hanno superato la somma di quelle derivanti dalle esportazioni di tè, riso, cacao e caffè. Nel 90% dei casi, ha notato ancora l’organizzazione alimentare mondiale, le attività di pesca e allevamento si basano su imprese di piccole dimensioni. Ma il mercato globale evidenzia comunque un ruolo significativo da parte delle grandi corporation. Nel 2013, ricorda l’ultimo report del notiziario di set-

Ma il fenomeno più significativo per il settore ittico resta senza dubbio il clamoroso sviluppo delle attività di allevamento. La cosiddetta acquacoltura è oggi responsabile di una produzione annuale di oltre 66 milioni di tonnellate contro i 91 milioni circa registrati dalle catture. Il fatto, però, è che i ritmi di crescita dei due comparti sono profondamenti diversi. Dal 2007 al 2012 l’ammontare annuale del pesce “catturato” è cresciuto dello 0,55%, nello stesso periodo la produzione da allevamento è aumentata del 33,4% (vedi GRAFICO ), attestandosi a un livello quasi trenta volte superiore a quello registrato nel 1970. A novembre, inoltre, la stessa Fao ha corretto al rialzo le previsioni per gli anni a venire ipotizzando un tasso di crescita annuale dei prodotti di allevamento del 4,14% contro il 2,54% stimato

sviluppo. Nell’Unione Europea «le catture vengono limitate per ragioni di sostenibilità», spiega Patrizio Piozzi, coordinatore area mercati di ISMEA. «Da più di quindici anni la politica comunitaria tende a ridurre la dimensione della pesca con interventi mirati per diverse specie a rischio», prosegue. «Di contro si tende a valorizzare sempre di più l’acquacoltura orientandola però verso uno sviluppo sostenibile, ovvero a basso impatto ambientale, promuovendo l’utilizzo di mangimi adeguati e limitando l’uso di prodotti chimici». Un tema controverso, quest’ultimo, di fronte alle critiche piovute addosso al comparto (vedi DOSSIER ), che necessiterà, in futuro, di ulteriori approfondimenti. ✱

148,1

Asia (84% del totale del Pianeta) e in Africa (10%). Attualmente, in un mercato mondiale dove le transazioni complessive del settore – che coinvolgono anche il fiorente settore della pesca illegale (vedi ARTICOLO pag. 34) – hanno raggiunto nel 2012 un valore di oltre 129 miliardi di dollari, le aree in via di sviluppo coprono oltre la metà (54%) delle esportazioni in termini di valore e più del 60% delle quantità scambiate. Per questi stessi Paesi, ha ricordato a novembre Audun Lem, del Dipartimento Politiche ed

DALLA PESCA ALL’ACQUACOLTURA

a inizio anno. Dietro allo sviluppo c’è ovviamente la ricerca di un’alternativa di fronte ai problemi del sovrasfruttamento del mare (vedi DOSSIER ) e della pressione della domanda. Due questioni necessariamente collegate. «Di fronte alla crescita della popolazione mondiale l’allevamento di specie acquatiche rappresenta una risorsa particolarmente importante sia per la dieta sia per le prospettive di crescita economica», spiega Pier Paolo Gatta, ordinario di Zoocolture presso il Dipartimento di Scienze mediche veterinarie dell’Università di Bologna (vedi INTERVISTA ). Ma l’espansione del settore, è bene ricordarlo, non riguarda solo le aree in via di

145,8

A trainare la crescita della produzione, nota la Fao, c’è soprattutto la spinta della domanda mondiale nel comparto food che, nel 2012, assorbiva oltre l’85% della produzione complessiva (contro il 70% circa registrato negli anni ’80). Non è un caso, quindi, che l’enfasi sul ruolo del comparto si concentri in primo luogo sulle aree in via di sviluppo, ovvero su quelle regioni in cui la crescita demografica viaggia a ritmi più elevati e nelle quali, come si diceva, il pesce resta la fonte principale dell’apporto di proteine animali alla dieta (vedi ARTICOLO a pag. 34). Ma a rimarcare l’importanza del settore per le aree emergenti non è solo il contributo della domanda. Ad oggi il settore ittico mondiale impiega circa 60 milioni di lavoratori, il 94% dei quali soltanto in

diminuisce la pesca, anche a causa degli incentivi alla dismissione delle imbarcazioni, mentre resta “più o meno stabile” l’acquacoltura. Sarebbero essenzialmente questi, secondo Patrizio Piozzi, coordinatore dell’area mercati di ISMEA, gli ultimi trend che caratterizzano il settore ittico italiano. Un comparto, quest’ultimo, capace di incidere per il 4% sul valore totale dell’agricoltura della Penisola e che ha scontato, negli ultimi anni, una non trascurabile contrazione della domanda, con un consumo pro capite calato da 22 a 20 chili circa nello spazio di dieci anni. Dal 2008 al 2013, spiega ancora il coordinatore, i consumi hanno registrato un calo medio annuo del 3,5% nel volume che si traduce in una riduzione del 5% sul valore totale. Nonostante tutto, però, il 2014 potrebbe far registrare un’inversione di tendenza. Nei primi otto mesi dell’anno – gli ultimi per i quali esistono dati definitivi – i consumi domestici “hanno dato segnali di risveglio”, con un aumento dello 0,7% nel comparto del fresco e una crescita del valore dei consumi vicina allo 0,5%, su cui incidono in particolare gli acquisti di salmoni, pesce spada, spigole e alici. Abbastanza stabili i prezzi pur in un contesto di forte concorrenza con le produzioni di acquacoltura provenienti da Turchia e Croazia. [M.cav.]

tore Undercurrent News, le prime 100 imprese del settore ittico hanno accumulato ricavi per quasi 100 miliardi di dollari, 1,8 miliardi in più rispetto agli anni precedenti. Le prime dieci della classifica hanno incassato più di un terzo del totale (35 miliardi), le prime 25 oltre metà (57 miliardi). A dominare sono le corporation giapponesi (ben 26 nella Top 100) davanti alle americane (11) e alle norvegesi (9).

143,1

IL MERCATO GLOBALE

Pesce italiano: dalla contrazione ai “segnali di risveglio”

140,7

le globale (un’incidenza cinque volte superiore a quella registrata nel 1961 quando l’output cinese si fermava al 7%). Significativo, per la Cina, anche l’aumento dei consumi pro capite che, nel ventennio 1990-2010, sono cresciuti a un tasso medio annuale del 6%, attestandosi a quota 35,1 chili nell’ultimo anno di rilevazione. Un dato, quest’ultimo, più che doppio rispetto alla media registrata nel resto del mondo, pari, sempre secondo la Fao, a 15,4 chili per persona (contro i 13,5 rilevati negli anni ’90).

settore ittico in crescita economia solidale

2009 Totale

2010

2011

2012

pesca, calcolate in relazione alla distanza dalla costa, o il tipo di reti da utilizzare. In generale si tratta di vincoli che tendono a favorire la pesca del Nord Europa ma che sono inadeguati al contesto del Mediterraneo. come giudica le critiche mosse al comparto sul fronte della sostenibilità ambientale? Tutte le attività umane hanno ripercussioni sull’ambiente ma nel caso dell’acquacoltura c’è un’ampia possibilità di modulare le operazioni. È vero, si fa uso di antibiotici, ma rispetto ad altri tipi di allevamenti si tratta di un utilizzo molto limitato. Quanto al problema dei reflui inquinanti va detto che l’attuale tecnologia consente di monitorare costantemente la qualità delle acque soprattutto in mare, dove l’effetto diluizione può favorire il riequilibrio con gli allevamenti intensivi. La

135 130

legge europea, in ogni caso, è molto severa e impone controlli molto precisi. resta il problema dei mangimi però… Quella dell’alimentazione resta effettivamente la criticità maggiore. In passato si faceva soprattutto ricorso a farine e olii di pesce, oggi servono valide alternative. Da un lato i consumatori esprimono preoccupazione per l’utilizzo di mangimi vegetali, soia in primis, ma dall’altro il problema della sostenibilità della pesca in mare non consente di continuare a sfruttare le risorse ittiche marine per produrre mangimi. È un conflitto paradossale che va risolto in modo ragionevole e cioè garantendo il benessere dei pesci allevati e la sostenibilità nell’approvvigionamento di materie prime adatte. La ricerca può giocare un ruolo determinante in questo processo. ✱ 33


economia solidale settore ittico in crescita

agricoltura e criminalità economia solidale

Acquacoltura un’arma a doppio taglio

Le nuove attrattive della terra

di Emanuele Isonio e Matteo Cavallito

Da elemento quasi residuale del sistema economico, l’agricoltura si è trasformata in un solido motore di sviluppo, che occupa giovani e donne. Ma permangono zone d’ombra dove la criminalità si insinua

IL NODO DEI MANGIMI «Per capirlo – spiega Serena Maso, responsabile Mare di Greenpeace – bisogna sapere che per produrre un chilo di pesce tramite acquacoltura sono necessari 5-7 chili di pesce selvatico». Ci sono ovviamente casi in cui si possono usare mangimi vegetali, «ma questo non garantisce la sostenibilità del sistema – continua la Maso – sia perché quasi mai si utilizzano criteri di agricoltura sostenibile, sia perché le coltivazioni per sfamare il pesce vanno in conflitto con quelle per l’alimentazione umana». Dal punto di vista dei critici quello dei mangimi resta un aspetto chiave. «L’allevamento di pesci carnivori, tra cui spigole, orate e salmoni, implica un costante apporto di altro pesce destinato alla produzione di farine animali», spiega Silvestro 34

Greco, biologo marino, dirigente di ricerca dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e presidente del consiglio scientifico di Slow Fish, secondo il quale, ad oggi, l’utilizzo alternativo di mangimi vegetali a base di proteine di soia non avrebbe prodotto risultati apprezzabili. «Un’altra possibilità – prosegue – è costituita dall’utilizzo di proteine animali di altro tipo, come gli scarti del pollo ad esempio, che la nuova legislazione Ue ha introdotto di recente. Ma è pur vero che, di fronte alla resistenza mostrata dai consumatori, la stessa grande distribuzione tende a rifiutare i prodotti di allevamento alimentati in questo modo».

I CONTROLLI UE L’Europa si caratterizza oggi per una legislazione piuttosto severa, ma questo, ricorda ancora Greco, non risolverebbe i problemi sul fronte dei consumi. «L’acquacoltura europea tiene conto di diverse problematiche, ma non bisogna dimenticare il peso di molte importazioni (come i salmoni cileni e norvegesi o i gamberi del Sud est asiatico, questi ultimi capaci di coprire tre quarti del totale consumato nel Vecchio Continente) provenienti da Paesi dotati di legislazioni diverse nei quali, ad esempio, si fa un uso massiccio di antibiotici e coloranti». Aspetti chiave, questi ultimi, che incidono direttamente sulla salubrità del pesce da acquacoltura. «L’enorme utilizzo di antibiotici nel settore è un problema innegabile, ma difficilmente evitabile – rileva ancora Serena Maso – perché tali farmaci sono necessari a contrastare le malattie diffuse dalle deiezioni dei pesci coltivati». Un circolo vizioso, insomma, che imporrebbe un vero e proprio cambio di rotta. «I Paesi più sviluppati – spiega Greco – dovrebbero ridurre i loro consumi per garantire la sostenibilità delle risorse. Diverso il discorso per le aree in via di sviluppo, con piccoli allevamenti destinati all’autoconsumo per i quali, ovviamente, non si pongono particolari problemi di impatto ambientale». ✱ valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

M

olti occhi sono puntati con interesse sull’agricoltura italiana nell’anno dell’Expo, ma certo non tutti gli osservatori sono benevoli. Alla metà di gennaio, nello stesso giorno in cui alla Camera veniva approvata all’unanimità la proposta di legge contenente “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare”, Coldiretti ed Eurispes, in collaborazione con l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare (nato per iniziativa della stessa associazione), hanno presentato a Roma il 3° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia in cui si evidenzia una forte penetrazione della criminalità organizzata, soprattutto nella contraffazione di produzioni di eccellenza come il Parmigiano Reggiano, i pomodori o vini Dop e Igp. Certo non è un caso che, assieme alla consapevolezza istituzionale che il settore agroalimentare abbia delle ottime potenzialità, arrivi anche la conferma che l’agromafia ha colto le opportunità offerte dal settore primario e vi sia entrata come un cuneo sfruttando le sue debolezze, perché la nostra agricoltura è uno scenario con molte luci e molte zone d’ombra.

CONDUZIONE FAMILIARE, PRECARIETÀ, CRESCITA DEGLI OCCUPATI Un milione e 600mila aziende, 969mila occupati, una produzione di 42,6 miliardi di euro e un valore aggiunto di 23,8 miliardi di euro (entrambi valutati ai prezzi base) sono i numeri dell’agricoltura italiana, pubblicati nel Rapporto Istat 2014, su dati del 2012. valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

di Paola Baiocchi

HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / ZEROHUND

L’allevamento ittico è uno strumento che potrebbe soddisfare la domanda globale di proteine animali. Ma gli aspetti critici sono tanti. A partire dalla sua sostenibilità ambientale

N

el vortice delle cifre sul comparto del pesce, un dato sembra meritare un ruolo di primo piano: il peso del settore ittico nella fornitura di proteine. Il valore medio, stimato dalle Nazioni Unite, viaggia attorno al 15% dell’apporto proteico complessivo di origine animale. Ma in alcune aree, dove sulla terraferma il cibo scarseggia, il tasso sale vertiginosamente: 23% in alcune regioni dell’Asia meridionale e 50% negli Stati dell’Africa occidentale. Quote importantissime, dalle quali dipende l’esistenza stessa di molte popolazioni. Negli anni il depauperamento delle risorse ittiche ha imposto nuovi metodi di produzione, promuovendo l’acquacoltura come il sistema più adatto per assicurare una disponibilità costante di proteine animali a fronte dell’incremento della popolazione mondiale. Con il contributo decisivo della Cina (responsabile, ha ricordato a gennaio il settimanale Science, di oltre il 60% della produzione globale da allevamento), il tasso di crescita del settore è stato impressionante: quasi decuplicato dagli anni ’50 a oggi, a fronte di catture a mare aperto cresciute di 4 volte. Ma le insidie non mancano.

La ridotta dimensione delle unità produttive è il primo dei punti deboli dell’agricoltura italiana: secondo l’Istat le aziende individuali rappresentano il 96,7% del totale, oltre un terzo dell’occupazione è in aziende a conduzione familiare con meno di 15mila euro di fatturato annuo, ed è questo tipo di occupazione che assorbe l’80,4% delle giornate complessivamente lavorate. Sono però le poche attività costituite in società (il 3,3% del totale) a realizzare il 26,1% della produzione, il 25,8% del fatturato e il 21,7% del valore aggiunto. La precarietà del lavoro nel settore agricolo è contenuta tutta in questa cifra riportata dall’Istat: soltanto il 3,6% delle giornate di lavoro è prestato da dipendenti a tempo indeterminato.

Il magazzino della fabbrica di Parmigiano Reggiano, Modena. 35


economia solidale agricoltura e criminalità

abitare sostenibile economia solidale

agricoltura sociale in toscana

Design, un futuro di carta

grazie a un bando regionale del 2012 di 2 milioni di euro, è partito in Toscana il progetto Agricoltura sociale, rivolto a persone con disabilità. Sono 362 i soggetti che svolgono un’attività retribuita in campagna, inseriti in 53 aziende agricole su tutto il territorio regionale. La maggior parte di loro (260) ha un’età compresa fra 18 e 40 anni, 11 hanno meno di 18 anni, altri 91 ne hanno più di 40. Tutti hanno problemi di disabilità o di disagio, in gran parte di tipo psichico (243 persone), mentre 43 sono i soggetti autistici; 15 hanno avuto esperienza con il carcere, 45 di tossicodipendenza, altri 16 hanno invece problemi di diverso tipo. [Pa.Bai.]

www.regione.toscana.it/web/blog-agricoltura/agricoltura-sociale

Nonostante queste debolezze strutturali nel secondo trimestre dello scorso anno, secondo un’analisi di Coldiretti rispetto allo stesso periodo del 2013, l’agricoltura è il settore che ha registrato il più elevato aumento nel numero degli occupati, con un positivo +5,6%. Il diavolo si nasconde nei dettagli e in questo caso lo scopriamo in un’altra delle debolezze storiche dell’agricoltura e della stessa Italia, l’asimmetria della crescita tra Nord, Centro e Sud: «Il trend positivo dell’agricoltura – sottolinea l’associazione Coldiretti – è il risultato di una crescita record del 27,6% al Nord e del 28,6% al Centro, mentre si registra un calo del -8,3% nel Sud Italia».

LA TERRA È UN BENE RIFUGIO IN TEMPO DI CRISI

Il 3° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia 36

Anche se “la terra è bassa e costa fatica” è un “bene rifugio” in tempi di crisi e i giovani vi ricorrono: 57mila aziende sono condotte da giovani con meno di 35 anni e un’azienda su tre è guidata da una donna. È anche boom di iscritti negli istituti professionali, e nella facoltà di Agraria nel 201213 in Italia si sono immatricolati circa 7.000 studenti, il 41,7% in più rispetto all’anno accademi-

co 2006-07. Ma un vero balzo in avanti l’hanno compiuto le facoltà di Agraria di Firenze con +81,5% nel 2012-13 rispetto all’anno precedente, e di Pisa (+44,5%). Numeri di un boom che si registrano anche nel rapporto Irpet dello scorso marzo sul sistema rurale della Toscana, in cui si rileva che da elemento quasi residuale del sistema economico regionale, il settore primario si è trasformato in uno dei motori di sviluppo più solidi, comparativamente agli altri settori produttivi. Sono circa 260 le imprese d’eccellenza individuate da Irpet nel settore agroalimentare, caratterizzate da un forte processo di espansione, pur in periodo di crisi. C’è da dire che la Regione Toscana ha avviato una serie di politiche innovative di sostegno all’agricoltura: come la Banca della terra che, dal 2013, ha già assegnato in affitto 270 ettari di terreni e fabbricati pubblici abbandonati, soprattutto a giovani che volevano dedicarsi all’attività agricola, ma non avevano i mezzi per accedere all’acquisto delle terre. ✱

FINANZA ETICA UN PENSIERO DIVERSO

Quotidiani, carte decorate, cartone, riciclo da uffici diventano oggetti di arredamento creativi. Se un mercato è saturo bisogna trovare impieghi nuovi e innovativi dal recupero dei materiali

L

ampade, cassettiere, sedie, piani d’appoggio, rivestimenti murali. Guardando le foto in queste pagine di simili oggetti, così diversi tra loro per aspetto e funzione, immaginereste mai che siano tutti fatti di carta e cartone riciclato? Sono solo alcune delle immagini raccolte dalla pubblicazione “Le nuove frontiere di carta e cartone”, edita a novembre scorso dal consorzio Comieco e da Matrec (vedi BOX ) con un intento ben preciso: «La carta e il cartone hanno trovato una nuova identità», dichiara con sicurezza l’architetto Marco Capellini, titolare di Matrec. «Abbiamo voluto individuare gli attori del cambiamento a cui stiamo assistendo, per far capire al mercato e ai consumatori che la carta e il cartone, ben lungi dall’essere materiali fragili, hanno le caratteristiche e i valori giusti per collocarsi al centro di un vero e proprio percorso di innovazione, in cui l’Italia rappresenta un’eccellenza a livello internazionale».

ISPIRAZIONE DAI MATERIALI Per tradurre questa mission nel concreto torniamo a osservare più da vicino le foto. Le lampade ( FOTO 1) 1

2

di Valentina Neri

e le cassettiere ( FOTO 2-3) sono di Paperpulp, un materiale che si ottiene riciclando la carta di giornali e che può assumere colori diversi a seconda della quantità di inchiostro. Sempre dai quotidiani – come suggerisce il suo stesso nome – arriva il Newspaperwood delle sedie ( FOTO 4): le copie in eccesso dei giornali vengono incollate foglio a foglio, pressate e tagliate in tavole e impiallacci, che a loro volta sono levigati e trattati proprio come il legno. Il piano d’appoggio, invece? ( FOTO 5) La risposta è Re-y-stone, un pannello duro e resistente composto da carta decorativa riciclata e resina naturale acquisita dagli scarti di produzione dello zucchero. Per i colorati rivestimenti murali dalle forme geometriche tridimensionali entra in gioco Paperforms ( FOTO 6-7-8-9-10), realizzato con un processo di stampaggio che usa come materia prima la carta riciclata derivante dagli scarti di lavorazione e dai rifiuti di case e uffici. Sono quindici i materiali che si contano sfogliando la pubblicazione ed è difficile restare indifferenti di fronte alla varietà delle loro caratteristiche e applicazioni. «È come preparare una torta, in 3

1

Lampada Paperpulp

4

Sedie Newspaperwood

2

3

Cassettiera Paperpulp

4

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Richiedi lo spazio a sviluppo@valori.it valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

37


economia solidale abitare sostenibile

5

fotoracconto 04/05

6

I protagonisti

Comieco (www.comieco.org) è il Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base cellulosica. Nato nel 1985 da alcune aziende del settore cartario, conta ad oggi 3.300 soci, tra produttori, importatori e trasformatori di materiale e di imballaggi cellulosici. Matrec (www.matrec.com) è un società di consulenza specializzata in materiali, prodotti e innovazioni ecosostenibili. Già nel 2002 inizia a collaborare con i principali consorzi del riciclo (oltre a Comieco, Corepla per la plastica e Cial per l’alluminio) per dare vita alla prima EcoMaterials Library. Dal 2014 è un vero e proprio Osservatorio Internazionale per l’Innovazione Sostenibile di materiali e prodotti.

cui la carta rappresenta la base, vale a dire farina e uova – continua l’architetto Capellini – poi bisogna scegliere gli altri ingredienti e la pentola; è a questo punto che entra in gioco la fantasia nella capacità di combinare le innumerevoli possibilità».

INNOVARE RICICLANDO

5

Piano d’appoggio Re-y-stone

7 8 9 10 Rivestimenti murali Paperforms 6

8

L’innovazione, insomma, procede a ritmi serrati. Ma, chiarisce a Valori Carlo Montalbetti, Direttore Generale di Comieco, «noi non abbiamo finalità di profitto, dobbiamo semplicemente creare le condizioni perché ciò che viene dalla carta riciclata abbia un impiego. Tanto più perché nel campo degli imballaggi, con il recupero di 9 su 10, siamo ormai alla saturazione. Mettersi alla prova in settori nuovi, come quelli descritti nella pubblicazione, diventa dunque un imperativo: ma spetta alle singole aziende il compito di lanciare il prodotto sul mercato». 9

7

Dai laboratori di ricercatori e designer alle case degli italiani, insomma, il passo può essere più o meno breve: «Al momento siamo a livelli di diffusione diversificati. Mentre prodotti come le lampade sono ancora di nicchia, il segmento di arredi e stand si sta ormai industrializzando». «Non ci sarebbero così tanti prodotti se non ci fosse una domanda» gli fa eco Capellini. «Però – aggiunge –, per far competere questi materiali ad armi pari con quelli più tradizionali, bisogna sgombrare il campo da alcuni equivoci: «Non è vero, come pensano alcuni, che le soluzioni ecologiche costano di più. Per ogni prodotto in fase di lancio, che si colloca su una fascia di prezzo più alta, ce ne sono tanti altri molto più accessibili. Ancor più se si tiene conto del loro intero ciclo di vita e delle potenzialità uniche che la carta può garantire per determinate applicazioni». ✱

Aspettando il Salone del Mobile

Continua il nostro appuntamento con il design attento all’ambiente e alla sostenibilità, in attesa del Salone Internazionale del Mobile, in programma a Milano dal 14 al 19 aprile 2015. Nella prima puntata avevamo parlato di Farm Cultural Park, un’officina culturale permanente che ha cambiato volto a Favara, un piccolo paese nell’agrigentino. Stavolta ci concentriamo sui materiali: perché anche dal riciclo possono arrivare soluzioni per l’abitare che siano belle, performanti e di qualità. 10

La pesca come si è sempre fatta, o quasi. Con un pescatore che trascorre le sue notti in barca cercando il pesce, e le sue giornate a pulire e sciogliere le reti per poterle buttare in acqua la notte successiva. Una pratica antica, in cui il tempo è scandito dal ciclo delle maree e del sole, dove sono protagoniste

innanzitutto la pazienza delle mani e degli occhi, l’esperienza maturata per generazioni, nell’ossequioso rispetto che la potenza e ricchezza del mare meritano. Anche in queste due immagini fasi di pesca col tramaglio, rispettivamente in Sicilia e nel Mar Tirreno, nell’arcipelago pontino.

DA MAREVIVO MARINA PULCINI (APRILE 2004)

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valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

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social innovation

Dalla Grecia una lezione di economia solidale

Impresa sociale vs austerity

NEWS

NEWS

NEWS

Italia regina del biogas

(Il)legalità nel sacco

Expo apre le porte ai giovani artisti

Nella produzione di biogas l’Italia è terza al mondo: 1,8 miliardi di metri cubi di metano equivalente annui prodotti, 12mila addetti e 4,5 miliardi di euro di investimenti. Un risultato che interessa le 15 aziende agricole che alimentano l'impianto a biomasse Greenway di Bertiolo (Ud). La centrale, avviata all’inizio del 2012, ha già prodotto 25mila Mwh, risparmiato 4,5 mila tonnellate equivalenti di petrolio, fatturato 6 milioni di euro. C.F.

di Andrea Vecci lla fine del 2014 l’autorità statistica ellenica ha rilasciato nuovi dati che dimostrano che più di 2,5 milioni di greci, quasi un quarto della popolazione, sono a rischio povertà. A quattro anni dall’inizio della crisi economica e dall’introduzione delle prime misure di austerità per la Grecia, è ancora evidente che le persone stanno lottando per sbarcare il lunario. Nonostante un modesto calo, il Paese ellenico ha ancora il più alto tasso di disoccupazione nell’Unione europea, il 27%, ed è secondo solo alla Spagna in termini di disoccupazione sotto i 25 anni, con oltre la metà di tutti i giovani adulti attualmente senza lavoro. Nello stesso periodo è nata la legge sull’impresa sociale che ha visto crescere decine di realtà, con una concentrazione particolare a Creta. Nate con l’intento di dare lavoro a categorie protette (detenuti, disabili, tossicodipendenti), si sono specializzate nel contrasto della disoccupazione giovanile proprio mentre la Troika toglieva dal pacchetto dell’austerity tutti i benefici fiscali previsti per le imprese sociali greche. Nonostante la mancanza di aiuti ad hoc le giovanissime imprese sociali non si sono date per vinte, fornendoci alcuni casi interessanti. Attorno al tema del cibo e dell’alimentazione nasce Boroume (in greco “noi possiamo”), il network contro lo spreco alimentare, che oggi distribuisce più di tremila pasti al giorno nella zona di Atene.

A

Nata due anni fa come una semplice iniziativa che forniva torte di formaggio avanzate da un panificio a una mensa vicina, Boroume si è moltiplicato in 200 punti di distribuzione e oggi conta quattro dipendenti a tempo pieno e centinaia di volontari al mese. Tina Kiriakis è un ex Pr e marketing manager aziendale. Dopo essere stata licenziata nel 2010, ha deciso di lanciare un’agenzia viaggi per i turisti: Alternative Athens. Ora gestisce una media di dieci escursioni a settimana durante la stagione turistica e impiega cinque guide freelance, ha ricevuto premi e riconoscimenti per aver svecchiato l’appeal internazionale di Atene. Filisia è una giovane startup che ha creato un dispositivo musicale che supporta la riabilitazione cognitiva e fisica delle persone affette da paralisi cerebrale, sindrome di Down o autismo. Il suo prototipo è stato salutato positivamente da medici e terapisti di tutto il mondo ed è stato il destinatario di numerosi premi e borse di studio. I suoi fondatori continuano a perfezionare il modello, con la speranza di avviare il processo di produzione a breve. Quello che accomuna queste piccole storie è che tutti i giovani protagonisti dicono di aver imparato a vivere con 200/300 euro al mese negli ultimi quattro anni lottando contro la voglia di emigrare in un altro Paese. ✱

I sacchetti di plastica “inquinanti”, messi al bando in Italia da anni, circolano ancora. La denuncia arriva da Legambiente con un'inchiesta condotta nel 2014 sulla presenza di shopper illegali nella grande distribuzione organizzata. Sono stati trovati sacchetti vietati nel 54% dei casi esaminati dalla Ong in diversi punti vendita del Paese, concentrati in cinque regioni: Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Lazio. C.F.

Si chiama StartArtist: due volte al mese, per tutta la durata di Expo, gli spazi del Padiglione della Società Civile saranno animati da giovani artisti, che metteranno in mostra la propria arte, fotografia, pittura, scultura, design, musica, teatro o altri tipi di performance. Il progetto è sostenuto da Etica Sgr che insieme a Fondazione Triulza vuole dare agli artisti emergenti un’opportunità unica all’interno di Expo Milano 2015. www.fondazionetriulza.org

VALORITECA APPUNTAMENTI

20-22 FEBBRAIO 2015

13-15 MARZO 2015

GUIDARE O IMPARARE?

FONTE: IEA WORLD ENERGY OUTLOOK; WORLD BANK; NATIONAL SOURCES

Milano, Università Bocconi

33° Convegno dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica

Un incontro tra esperti e società civile, per trattare di alimentazione, paesaggio, ambiente, turismo e artigianato, ma anche delle prospettive occupazionali. www.convegnobiodinamica.it Milano, fieramilanocity

Fa’ la cosa giusta!

L'economia solidale sarà tutta qui, a Milano, per la dodicesima fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, per raccontare un mondo sostenibile e possibile, tra cibo sano, laboratori per bambini, incontri, mobilità a basso impatto ecologico, libri, cooperazione e turismo sostenibile. Valori e il direttore Andrea Di Stefano ci saranno, come sempre. www.convegnobiodinamica.it

Iran

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Arabia Saudita

In molti Paesi la spesa pubblica per sussidi all'industria petrolifera supera quella destinata all'istruzione. Lo sottolinea in questo grafico l’Economist. Con l'aggravante che Algeria l'obiettivo di abbassare i prezzi dei carburanti per tutti vada a vantaggio Libia soprattutto dei più ricchi, in quanto maggiori consumatori di energia. Kuwait Secondo l'agenzia internazionale per l'energia IEA, tra il 2007 e il 2013 i sussidi all'industria petrolifera sono Sussidi alla produzione di petrolio (2013) aumentati del 60%, toccando quota Spesa pubblica in educazione (2012 o successivi) 550 bilioni di dollari.

Ecuador

I MIGLIORI TWEET DEL MESE

Maggiori approfondimenti sul blog Social Innovation di valori.it valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

Nuovo studio: ogni ton di #CO2 causa danni economici per 220$, 6 volte + di quanto stimato finora! Chi inquina paghi! 19 gennaio @assoRinnovabili

valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

@distefanonova se non si rilanciano investimenti e infrastrutture la manovra di QE di Draghi sarà per l'Europa un pannicello caldo 23 gennaio @PeriodiciValori

Le compagnie petrolifere abbandonano l'artico. Greenpeace: lo faccia anche Eni 15 gennaio @Greenpeace_ITA

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INTERNAZIONALE

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SIETE PRONTI ALLA GUERRA?

«I di Paola Baiocchi

Mentre l’Italia ricorda i cento anni dalla sua entrata nel primo conflitto mondiale, sull’Europa soffiano pericolosi venti di guerra. Come se la Storia non ci avesse insegnato niente valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

n una normale giornata di conferenze a Bruxelles, ormai non c’è un solo think tank (CEPS, EPC, Friends of Europe) che non organizzi o non abbia organizzato iniziative “su come il conflitto può arrivare in Europa”. L’unica domanda che circola in questi quartieri è: “Siete pronti per la guerra?”». La corrispondenza allarmata che vi riferiamo risale a dicembre: è di Roberto Ferrigno, direttore di Luminaconsult, società di consulenza sulle politiche europee con sede a Bruxelles. Da allora la temperatura della crisi europea è aumentata: le stragi di gennaio a Parigi hanno spostato la tensione dai Paesi periferici al cuore del Vecchio Continente e le hanno dato i contorni indefiniti della lotta globale al terrorismo, riedizione della dottrina di Bush jr dopo l’attacco alle Torri gemelle, per cui i cittadini non devono sentirsi sicuri in nessun luogo, che si trovino in una riunione di lavoro o a fare la spesa. 43


internazionale obiettivo sicurezza

obiettivo sicurezza internazionale

I PRIMI 15 PAESI PER SPESE MILITARI NEL 2013 FONTE: SIPRI.ORG

[miliardi]

CINA

FRANCIA

188 mld [2,0% del Pil]

61,2 mld [2,2% del Pil]

USA 640 mld [3,8% del Pil]

RUSSIA

ARABIA SAUDITA

87,8 mld [5% del Pil]

67 mld [9,3% del Pil]

REGNO UNITO

GIAPPONE

57,9 mld [2,3% del Pil]

48,6 mld [1,0% del Pil]

COREA DEL SUD

BRASILE

GERMANIA

INDIA

33,9 mld [2,8% del Pil]

33,4 mld [1,4% del Pil]

48,8 mld [1,4% del Pil]

47,4 mld [2,5% del Pil]

EMIRATI ARABI UNITI

ITALIA

AUSTRALIA

TURCHIA

32,7 mld [1,6% del Pil]

24,0 mld [1,6% del Pil]

19,1 mld [1,1% del Pil]

19,0 mld [4,7% del Pil]

Il totale della spesa militare mondiale nel 2013 è stata di 1.747 miliardi di dollari, pari al 2,4% del Pil globale

All’inizio di un nuovo ciclo istituzionale-politico dell’Unione europea (20142019), segnato dal rinnovo lo scorso maggio del Parlamento Ue, il Vecchio Continente si trova ancora alle prese con gli effetti recessivi della crisi economica/finanziaria nata dai derivati, che gli Stati Uniti sono stati abili a rovesciare sull’altra sponda dell’Atlantico, grazie alla complicità dei governi e dei politici locali. Mentre tra e all’interno dei Paesi che compongono l’Unione europea le forze centrifughe stanno guadagnando forza, e le sanzioni alla Russia per la questione Ucraina stanno assumendo la dimensione della catastrofe economica, soprattutto per i Paesi più deboli dell’area euro. Ma tutto questo non è un film già visto?

CHI SOFFIA SULLA CRISI IN EUROPA Come italiani sappiamo bene quale possa essere l’uso politico delle stragi e che dietro al terrorismo non ci sono giuste rivendicazioni, ma il potere che vuole piegare la storia alle sue esigenze: in questo momento storico, per uscire dalla crisi che ha 44

generato, il capitalismo fomenta con ogni espediente (dalla violenza ai tatticismi economici) la guerra, come dopo la grande crisi del 1929. Sembra di rileggere le pagine scritte da Gore Vidal nel romanzo “L’età dell’oro”, che illustrano il piano in otto punti preparato dagli Usa per costringere il Giappone ad attaccare per primo: un piano che comprendeva l’embargo economico e il blocco delle forniture di petrolio al Paese del Sol levante. Con la stessa determinazione, il 16 dicembre scorso, a tarda notte tre membri del Congresso Usa sono riusciti a far passare senza dibattito (e senza che nessuno ne avesse letto il testo) una legge contenente sanzioni di vasta portata contro la Russia che il presidente dovrà decidere quando adottare, ma sulle quali Dennis Kucinich – senatore democratico fino al 2013 – si è espresso definendole «un incubatore di velenosi conflitti» e Roberto Ferrigno «una vera e propria dichiarazione di guerra», aggiungendo che «contemporaneamente a questo voto, fulgido esempio di “democrazia occidentale”, il governo ucraino trasformava di fatto il territorio

che ancora controlla in “zona di guerra”, mettendolo a disposizione della Nato». Nello stesso giorno, infatti, a Kiev il Parlamento ucraino ha votato un piano di sicurezza che prevede, oltre all’aumento delle spese militari, l’adesione alla Nato e l’adozione dei suoi standard militari. Un gesto visto dalla Russia come fortemente destabilizzante, non solo nei suoi confronti, ma per la sicurezza dell’intera Europa, come aveva ribadito il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in un’intervista rilasciata a Bloomberg News, in cui stigmatizzava anche il comportamento della Nato e degli Stati Uniti per non aver mantenuto gli impegni presi dopo il 1989 «di non allargare l’Alleanza, poi (dopo che la Nato è stata ampliata in contrasto con tale impegno), di non dispiegare consistenti forze sui territori dei nuovi membri e poi di non portare infrastrutture Nato sul confine russo». Eppure è stata proprio la Russia con la mediazione di Lavrov a impedire l’escalation americana in Siria, trovando la soluzione al problema delle armi chimiche.

L’EUROPA A MISURA DELLA NATO Bisogna fare un passo indietro per ricordare cosa è cambiato nel Vecchio Continente dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, che avevano aperto la possibilità di una riconfigurazione dell’Unione europea allargata almeno fino a comprendere gli Urali, come prefigurato nelle analisi di Alfred Herrhausen, il presidente della Deutsche Bank ucciso in un misterioso attentato il 30 novembre 1989. Non è andata così, a riconfigurarsi è stata la Nato che, dopo le guerre in Iugoslavia, ha iniziato la sua espansione nei territori dell’estinto Patto di Varsavia e dell’ex Urss, come spiega Manlio Dinucci nel libro “Se dici guerra” (Kappa Vu, aprile 2014). A partire dal 1999 la Nato ingloba Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria; nel 2004 si estende su Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia. Mentre nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato “anti-terrorismo”, che si svolge in Ucraina. Nel 2008 l’Alleanza decide l’ingresso di Albania e Croazia e viene preparato valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

C

l’ingresso di Macedonia, Ucraina e Georgia. La maggior parte di questi Paesi entra a far parte della Ue tra il 2004 e il 2007, fornendo a Washington «notevoli strumenti di pressione all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche», dato che «il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono» e per di più – continua Dinucci nel suo libro – «i nuovi Paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica Usa, dato che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l’ammissione alla Nato […] Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue, un’Europa basata sull’allargamento della Nato». In questa situazione parlare di autonomia dell’Europa è una falsificazione dei fatti, anche alla luce dei dati che dimostrano come sia il Vecchio Continente a pagare la crescita economica degli Stati Uniti, che utilizzano parte di quelle risorse per finanziare il terrorismo dell’Is per far arretrare la presenza europea nei Paesi arabi e nel Nord Africa. ✱

«

La forza della Russia può essere insidiata soltanto attraverso la separazione dell’Ucraina. Quelli che vogliono che ciò accada, non solo devono dividerle, ma devono mettere l’Ucraina contro la Russia, insanguinare le due parti dello stesso popolo e assistere a come il fratello uccide il fratello. Per realizzare questo, devono individuare ed istruire traditori nel seno dell’élite nazionale, e con il loro aiuto cambiare la coscienza di una parte del popolo a tal punto che essa aborrisca tutto quanto è russo, aborrisca la propria stessa stirpe, senza nemmeno che se ne renda conto. Il resto lo farà il tempo. Otto von Bismarck (1815-1898), cancelliere tedesco valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

»

GLI SQUADRONI DELLA MORTE SI ADDESTRANO A PISA di Paola Baiocchi

Il Comando delle forze speciali dell’esercito ha sede nella città della Torre: per via della presenza della vicina base statunitense di Camp Darby e di un comparto industriale e della ricerca in grado di produrre anche droni istituito nel mese di settembre 2013 nell’ambito della riforma dell’esercito voluta dal ministro della Difesa del governo Monti, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, il Comando delle forze speciali dell’esercito (Comfose) ha ricevuto gli onori della cronaca alla fine dello scorso anno grazie a una breve cerimonia pubblica, bagnata dalla pioggia. il Comfose è il primo del suo genere in italia: ha sede presso la Caserma Gamerra di Pisa, dove c’è il Centro addestramento paracadutismo, e riunisce sotto un comando unificato forze speciali e corpi d’élite dell’esercito italiano, già sperimentati in scenari di guerra come l’afghanistan. Si tratta del 9° reggimento d’assalto Col Moschin, con il 185° reggimento acquisizione obiettivi folgore di stanza a Livorno, il 28° reggimento Pavia di stanza a Pesaro preposto alle operazioni psicologiche (chiamate però dalla Difesa italiana Comunicazioni operative), e il 4° reggimento rangers alpini paracadutisti con sede presso Verona. a questi si aggiungerà tra poco il 26° reparto elicotteri per operazioni speciali, destinato a trasformarsi in 3° reggimento elicotteri per operazioni speciali aldebaran. Manlio Dinucci, editorialista esperto di questioni militari, chiarisce a cosa servono le forze speciali: «Sono sempre più impiegate nelle guerre coperte: si infiltrano nottetempo in territorio nemico senza essere viste, individuano gli obiettivi da colpire, li eliminano con un’azione fulminea paracadutandosi dagli aerei o calandosi dagli elicotteri, quindi si ritirano senza lasciare traccia, salvo i morti e le distruzioni». «in altre parti del mondo li chiamano squadroni della morte», li descrive così, in un suo documentario di prossima uscita, fulvio Grimaldi, giornalista inviato in tutti gli scenari di guerra dal Vietnam all’irlanda al Sudamerica, fino ai più recenti conflitti mediorientali. Tra i compiti del Comfose, come ha specificato il generale Zanelli che ne è a capo, ci sarà il mantenere un «collegamento costante» anzitutto con lo «U.S. army Special operation Command», il più importante comando statunitense per le operazioni speciali, impiegate principalmente in Medio oriente. Ma dovrà garantire anche una presenza nell’est europa, come ha avuto modo di specificare il Capo di stato maggiore, il generale Graziano. La presenza a Pisa del Comfose è amplificata dalla vicinanza della base statunitense di Camp Darby, dove sono conservate munizioni, armi e mezzi bellici per le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, che possono essere rapidamente proiettate nelle zone di operazione attraverso l’aeroporto militare di Pisa e il porto di Livorno. Ma c’è un’altra ragione, come documenta un articolo uscito sul sito analisi Difesa: l’esistenza a Pisa di un comparto industriale e della ricerca che lavora a stretto contatto con il militare. il drone Manta «studiato e realizzato per rispondere alle esigenze operative espresse dal Comfose» è stato realizzato, infatti, in tempo record dalla ditta pisana ingegneria dei sistemi (ids). Una ditta a così alta specializzazione da effettuare la ricerca del personale direttamente sul sito della Scuola superiore Sant’anna di Pisa. ✱ 45


internazionale tentativo di rilancio

tentativo di rilancio internazionale

Il Giappone verso l’endorsement di massa di Corrado Fontana

A dicembre la netta vittoria elettorale del partito liberale e il reincarico al premier uscente Shinzo Abe. Per sfuggire al declino i giapponesi si aggrappano all’Abenomics, che dovrà mostrarsi più liberista che mai

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l 23 dicembre 2014 è iniziata la terza volta di Shinzo Abe: il leader del nazionalista e conservatore Partito Liberal Democratico (LPD) ha accettato l’incarico di primo ministro del Giappone, come già nel settembre 2006 e a dicembre 2012. Un mandato forte: la coalizione che lo sostiene ha una maggioranza di oltre due terzi (328 seggi su 470) nella più importante Camera bassa e 135 seggi su 240 alla Camera alta. E, soprattutto, un risultato che sembra una sorta di crash test superato per la sua strategia economica, la famigerata Abenomics (vedi anche Valori di luglio 2013), pensata per far uscire da un ventennio di stagnazione la terza economia del mondo, afflitta da un mercato del lavoro bloccato, una popolazione sempre più vecchia e un rap-

FOTO DI MICHELA BRUNA, 2013

porto tra debito pubblico e Pil (245%) che al confronto quello italiano (133%) è una passeggiata.

UNA RICETTA COSTOSA Un mandato per Abe che diventa un volano a insistere con il Quantitative Easing (QE; vedi GLOSSARIO ), messo in crisi fino a ieri sia dai risultati sotto le attese (mentre scriviamo è lontano l’auspicato rialzo dell’inflazione al 2%), sia dalla recessione inaspettata, materializzatasi a fine 2014 (-1,6% sul Pil del terzo trimestre 2013), sia dal debito pubblico inarrestabile, che però – ricorda Patrizio Tirelli, docente di Economia all’Università di Milano-Bicocca – ha «il vantaggio di essere detenuto per la grandissima maggioranza (circa il 95%, ndr) dal settore privato delle banche giapponesi, limitando perciò il rischio che possa essere venduto improvvisamente da società straniere». E così Abe, col preziosissimo sostegno del governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda, ha già approvato una nuova manovra da 96,3 mila miliardi di yen (circa 680 miliardi di euro). Per rilanciare l’economia nazionale, innanzitutto con 40 miliardi di euro in opere pubbliche, e poi puntare all’ambiziosissimo obiettivo del pareggio di bilancio nel 2020, anno delle Olimpiadi di Tokyo. Di certo l’elettorato nipponico (ma solo il 52% degli aventi diritto si era recato al voto) ci spera. E si augura che la svolta vera e duratura arrivi dalla cosiddetta “terza freccia” dell’Abenomics (dopo le frecce della politica monetaria ultraespansiva e di un piano di stimoli fiscali da 50 miliardi di euro, già scoccate): tutti aspettano le riforme strutturali. E il vero crash test per l’impostazione liberista di Abe sarà

PIÙ NUCLEARE PER TUTTI

di Corrado Fontana

Il Giappone riaccende i reattori anche se il vantaggio economico per ora non c’è. Ma il vento nucleare non spira solo da Tokyo il successo di Shinzo abe nasce anche dalle ceneri del disastro di fukushima, capitato – caso ha voluto – proprio durante una rara fase a guida del partito democratico, giunta dopo quasi 50 anni di potere dei con46

IL PESO DELL’ETÀ

«Cento anni fa la popolazione del Giappone era di circa 40 milioni di persone. Ci sono voluti 100 anni per salire a 120 milioni, e in 100 anni potremmo essere di nuovo 40 milioni. e insieme con l’invecchiamento, sta cambiando la demografia. Stiamo andando verso un periodo in cui il 40% della popolazione avrà più di 65 anni. oggi un giapponese su quattro ha più di 65 anni. Nel 2035 sarà uno su tre. entro il 2060, due giapponesi su cinque avranno più di 65. oggi abbiamo 2.57 lavoratori che sostengono ogni anziano. Ma nel 2060, il rapporto sarà solo di 1.19 lavoratori per anziano». È questo il quadro demografico allarmante tratteggiato di recente da Junko edahiro, giornalista ambientale giapponese e attivista per la crescita sostenibile in diverse organizzazioni (Japan for Sustainability, institute for study in Happiness, economy and Society). Un quadro che pesa come un macigno sui piani di abe di rientro del debito per almeno due motivi: da un lato imporrà un progressivo ed elevatissimo aumento della spesa sanitaria, assistenziale e pensionistica; dall’altro vedrà la generazione nata tra gli anni ’40 e ’60, che finora ha risparmiato acquistando quote di debito pubblico, andare in pensione e cominciare a spendere, esponendo così maggiormente il Paese alle possibili speculazioni degli investitori internazionali. [C.F.]

primi due reattori (Sendai 1 e 2) su 48 presenti in grado di rispettarle, pur dopo manifestazioni e allarmate petizioni di protesta degli abitanti della prefettura di Kagoshima, che ospita gli impianti. e benché l’approvvigionamento di energia atomica fatta “in casa” non porterà al Giappone significativi vantaggi economici nell'attuale scenario, in cui il prezzo del petrolio è ai minimi storici (oggi sotto i 50 dollari al barile), abe insegue i concorrenti vicini in un periodo di rinvigorito entusiasmo per il nucleare, che si manifesta dalla Cina (26 reattori in fase di realizzazione) all’india alla Corea del Sud. e con gli Usa prudenti, ma non inerti. Non a caso il prezzo dell’uranio sui mercati mondiali era cresciuto a gennaio del 35% da maggio

servatori, e anche per ciò interrottasi dopo appena tre anni. Una fortuna politica per abe, che, a urne ancora calde, nel dicembre 2012 definiva irrealistico e irresponsabile l’obiettivo del “nucleare zero”, regalando così, poche ore dopo, un balzo in alto in borsa del titolo Tepco (Tokyo electric Power), il contestatissimo gestore della centrale colpita dallo tsunami. Tantomeno oggi abe ha cambiato opinione, deciso a portarsi dietro tutto il Giappone. e il 2015 è il nuovo anno zero del nucleare nipponico, con l’introduzione di procedure e norme di sicurezza rafforzate; e il riavvio dei valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

2014. e non a caso società giapponesi del settore come Toshiba (con progetti in corso in Kazakistan, Cina e inghilterra) e Hitachi (che collabora col Dipartimento per l’energia americano a ricerche su reattori di nuova generazione) si mostrano assai attive. Nel mentre da fukushima si susseguono notizie sulla Tepco che non riesce a smaltire l’acqua radioattiva, che a sua volta contamina altra acqua e le strutture con le quali entra in contatto, per un’operazione di decommissioning che, secondo Victor Gilinsky, ex membro della commissione Usa di regolamentazione sul nucleare, sarà più impegnativa di quella ancora in corso nel sito americano di Hanford, che costerà tra 100 e 130 mila miliardi di dollari. ✱ 47


internazionale tentativo di rilancio

aspettando la Cop21 internazionale

Climate change: tutto rimandato, vincono le lobby Il summit sul clima di Lima si è concluso praticamente con un nulla di fatto. Tutto rimandato a Parigi, a dicembre 2015. Forte l’ingerenza nelle negoziazioni delle lobbies dell’energia superato se il Premier sarà disposto anche a pagare un prezzo politico, quello che una riduzione dei dazi sulle importazioni di prodotti agricoli e l’alleggerimento dei sussidi agli agricoltori più colpiti dallo tsunami (e da Fukushima) nel 2011 produrranno sul suo bacino di voti nelle campagne.

INSEGUENDO IL TRENO

 GLOSSARIO QUANTITATIVE EASING O ALLEGGERIMENTO QUANTITATIVO È uno strumento di politica monetaria usato per stimolare la crescita, abbondantemente praticato dalla Federal Reserve americana per uscire dalla crisi internazionale e adottata anche dalla Bce per l’Europa, a partire dallo scorso mese, su decisione del governatore Mario Draghi. Prevede che la Banca centrale stampi grandi quantità di moneta che viene impiegata per lo più nell’acquisto di titoli di Stato, iniettando così liquidità nel sistema bancario e quindi, a cascata, in quello economico di un Paese, a partire da una maggior propensione al credito per imprese e famiglie, se tutto va bene. 48

Abe sta facendo quanto un’aggressiva politica monetaria consente, ritardando pure l’inasprimento della leva fiscale, prima o poi necessario. Eppure i risultati non sono consolidati. E c’è chi parla di rischio fallimento del Paese. «Il Giappone ha puntato moltissimo su uno stimolo della domanda che passasse attraverso la spesa pubblica in infrastrutture, in un contesto dove sono però presenti dei colli di bottiglia, in particolare poiché le imprese hanno difficoltà a reclutare la manodopera. Il risultato c’è stato, ma meno significativo delle attese», ammette il professor Tirelli. Anche se, qualora non dia frutti, «il Quantitative Easing può proseguire teoricamente in eterno. Il problema nasce semmai quando l’economia riprende: cosa farà allora la Banca centrale? Negli Stati Uniti la Federal Reserve sta attuando un percorso in cui, terminato il QE, pian piano si alzano i tassi d’interesse». Ma, visto il preoccupante rapporto debito/Pil, «la soluzione che si prospetterà per il problema del debito sarà cruciale per determinare l’atteggiamento di fiducia delle famiglie», e quindi la loro propensione a spendere. Sempre che il progressivo invecchiamento della popolazione non produca un’instabilità (vedi BOX ), finora sconosciuta, proprio sulla gestione del debito.

Abe punta su una politica monetaria aggressiva basata sul Quantitative Easing, già adottata da Usa ed Europa. Ma molto si gioca sulle soluzioni prospettate per l’enorme debito pubblico, di un’economia che, secondo molti, necessita deregolamentazione Da dicembre a oggi qualche segnale di ottimismo si è palesato, del resto, ma servono innanzitutto idee, impresa e lavoro. La “cara vecchia” economia reale che, così com’è, appare purtroppo “fuori mercato globale”, associando al pregio di un tasso di disoccupazione bassissimo (meno del 4%) poca flessibilità e competitività. «Ciò di cui avrebbe bisogno l’economia giapponese – sostengono molti, come pure Tirelli, che conclude – è un’introduzione significativa di deregolamentazione: il modello di crescita giapponese è sempre stato basato sulla presenza di colossi esportatori caratterizzati da un mercato del lavoro sostanzialmente interno, con dipendenti che una volta entrati rimangono fino alla pensione. Inoltre, mentre negli anni ’80 e ’90 l’agricoltura, ma anche il settore dei servizi, così protetti, potevano essere sostenuti dalla crescita della produttività e della produzione nel settore esportatore, oggi questo è venuto meno. È una economia rimasta inchiodata al fatto di essere produttori di automobili ed esportatori di tecnologia, ma non nei settori più innovativi: Samsung non è nata in Giappone, e non è un dettaglio da poco. Hanno perso quel treno». ✱ valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

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l 2015 è (o dovrebbe essere) un anno cruciale per il futuro del Pianeta: a metà luglio si terrà la terza Conferenza Onu per i Finanziamenti allo Sviluppo e a dicembre la 21ª Conferenza delle Parti Onu (COP21) di Parigi, ultima occasione per trovare un accordo per limitare l’innalzamento della temperatura globale a meno di 2° C rispetto ai livelli pre-industriali. Obiettivo che ci consentirà, secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), di evitare il verificarsi di scenari catastrofici. «Il primo dei due summit sarà fondamentale in vista del secondo, dato che l’obiettivo comune dovrebbe essere rimodulare il sistema finanziario globale per adeguarlo al principio di sicurezza climatica», sostiene Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University e Special Adviser delle Nazioni Unite per i MDGs (Millennium Development Goals, gli Obiettivi del Millennio, ndr).

valori / ANNO 15 N. 125 / febbraio 2015

di Serena Boccardo e Camilla Forti

(agenzia di Stampa Giovanile)*

UN ACCORDO DIFFICILE Ma mettere tutti d’accordo non è facile. Lo dimostrano i risultati della COP20 che si è tenuta lo scorso dicembre a Lima (Perù): i negoziatori hanno di fatto rimandato all’anno prossimo decisioni definitive su finanza climatica, Loss&Damage e su altre strategie di mitigazione e adattamento, tanto che il Presidente della COP20, Manuel Pulgar-Vidal, ha presentato le 37 pagine di accordo finale (il Lima Call for Climate Action) come un compromesso dove “ognuno vince”, mentre i commentatori ritengono che alla fine l’accordo non abbia scontentato né convinto nessuna delle Parti. La versione finale del documento fa poche concessioni ai Paesi in via di sviluppo. È stato riconfermato l’approccio bottom-up (dal basso) nella definizione dei target di riduzione delle emissioni: anziché fissare l’obiettivo globale e poi, a cascata, gli impegni di ognuna delle Parti, strategia che in passato non si è rivelata efficace, i singoli Paesi dovranno proporre autonomamente entro marzo 2015 i propri “obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni” (INDCs, ndr). Sulla base di questi, a Parigi verrà poi deciso il da farsi per colmare il gap tra l’obiettivo minimo fissato dall’IPCC a livello globale e gli sforzi intrapresi collettivamente. Tra le questioni più spinose discusse a Lima c’è stata quella del finanziamento al Green Climate Fund (Fondo verde per il clima), lo strumento principale attraverso il quale i Paesi sviluppati, in linea con le necessità globali di mitigazione e adattamento, si obbligano a contribuire economicamente alla “conversione energetica” dei Paesi in via di sviluppo verso tecnologie a basse emissioni di CO2.

* È un progetto di educomunicazione internazionale realizzato dall’Associazione Jangada (TN) con il sostegno, tra gli altri, dell’Assessorato alla Cooperazione e allo Sviluppo della Provincia Autonoma di Trento. Si occupa di divulgazione ed educazione alla sostenibilità ambientale nelle scuole e nei Comuni trentini. 49


internazionale aspettando la Cop21

fotoracconto 05/05

l’accordo 2015: se fosse un Protocollo d’intesa, come è stato Kyoto, per esempio, non sarebbe legalmente vincolante, al contrario di una Convenzione.

Durante la COP20, grazie ai versamenti (inattesi) di Australia e Belgio, è stata superata la soglia prevista di 10 miliardi di dollari, anche se l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari da raggiungere entro il 2020 è ancora lontano. D’altro canto, si è discusso più dell’entità delle risorse che delle modalità di un loro utilizzo efficace. Un ulteriore punto sul quale non è ancora stata fatta chiarezza è la forma legale per

LA FINANZA METTE LE MANI SULLE RISORSE NATURALI All’esterno dei corridoi della COP20 si è movimentata la società civile che, organizzata nella Cumbre de los Pueblos (Cupola dei Popoli), ha delineato un’agenda alternativa ed espresso un forte dissenso verso l’adozione di misure, come REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and foreign Degradation in Developing Countries) e CDM (Clean Development Mechanism), promosse dall’UNFCCC come “meccanismi di mitigazione a favore dei Paesi del Sud del mondo” [vedi BOX ]. Entrambi i meccanismi sono espressione del fenomeno della cosiddetta carbon violence, come è stata definita dal think tank californiano Oakland Institute, cioè violenza dovuta alla creazione di un mercato delle emissioni con il quale sostanzialmente le risorse naturali vengono scambiate sui mercati finanziari internazionali. La Cumbre de los Pueblos ha puntato dunque il dito verso l’ingerenza delle lobbies dell’energia nelle negoziazioni. Un altro meccanismo molto discusso è stato il CCS (Carbon Capture & Storage) esplicitamente promosso da Shell all’interno della COP20: lo stoccaggio delle emissioni nel sottosuolo, tuttavia, è ancora una soluzione rischiosa ed economicamente poco conveniente. I più critici la considerano infattibile e vedono questa apertura verso il CCS da parte delle grandi corporation come l’ennesima strategia per attrarre denaro pubblico. Considerando che, secondo il Worldwatch Institute di Washington, circa la metà delle multinazionali più potenti al mondo lavora nel settore dei combustibili fossili, all’interno dei negoziati si dovrebbe discutere, oltre che della responsabilità storica dei Paesi sviluppati, anche della responsabilità sociale delle corporazioni transnazionali. Visto che tutti noi, come recita lo slogan della Cumbre de los Pueblos, vorremmo “cambiare il sistema, non il clima”. ✱

Meccanismi tutt’altro che sostenibili

Sulla carta il REDD+ è un meccanismo di riduzione della deforestazione, per promuovere «la conservazione, la gestione sostenibile e il potenziamento dell’azione delle foreste come immagazzinatrici di CO2». Di fatto, alimentando il mercato dei cosiddetti carbon o emission credits sui mercati finanziari, il REDD+ consente ai Paesi sviluppati il controllo su ampie aree forestali nel Sud del mondo, sottraendolo alle comunità locali. L’applicazione indiscriminata del REDD+ favorisce meccanismi di corruzione e di violazione dei diritti umani tra le popolazioni locali, nonché lo sviluppo dell’industria estrattiva e mineraria illegale. Un altro meccanismo di compensazione, promosso dai Paesi che nel 1997 sottoscrissero il Protocollo di Kyoto, è il Clean Development Mechanism (CDM), che dà luogo a certificati di riduzione delle emissioni (CERs) in cambio della costruzione di grandi opere come dighe e acquedotti nel Sud del mondo (in Cina, India, Brasile e Messico). La costruzione di queste grandi opere, spesso superflua, oltre a danneggiare la biodiversità, provoca nel migliore dei casi l’esodo delle popolazioni locali. Altre volte sfocia in conflitti armati o nell’intimidazione di leader locali. [S.B e C.F.]

Breve storia di una Convenzione

PAULO LIMA

EDOARDO QUATRALE

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) entra in vigore nel 1994 con l’obiettivo di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera. La Conferenza delle Parti (COP) è stata designata come l’organo fondamentale della Convenzione. I 195 Paesi che vi hanno aderito si incontrano una volta all’anno, per due settimane, per esaminare l’applicazione della Convenzione e sviluppare il processo di negoziazione tra i Paesi membri con l’obiettivo di stipulare nuove intese sotto forma di Protocolli, Convenzioni o Accordi legalmente non vincolanti secondo il diritto internazionale. Durante la COP17 è stata istituita la Durban Platform for Enhanced Action (ADP) che, in conformità al suo mandato, deve portare avanti le negoziazioni su mitigazione, adattamento, finanza, utilizzo e trasferimento di tecnologie, capacity-building e trasparenza nell’azione e supporto. I lavori della ADP si basano sui rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un organo intergovernativo che ha il ruolo di «valutare in maniera aperta, obiettiva e trasparente la letteratura tecnico-scientifica e socio-economica rilevante per comprendere il fenomeno del cambiamento climatico, le sue cause, i suoi potenziali impatti e in particolare i rischi per l’uomo ad essi associati, nonché le possibili misure di risposta di adattamento e mitigazione da mettere in atto». Il quinto Assessment Report dell’IPCC offre un’istantanea delle attuali conoscenze scientifiche sul cambiamento climatico, oltre a promuovere una particolare posizione o linea guida da parte della maggioranza della comunità scientifica. I negoziati dell’ADP termineranno nel 2015 alla COP21 di Parigi, durante la quale le Parti dovranno ratificare la prossima fase di un accordo climatico a livello globale (dopo il Protocollo di Kyoto). L’entrata in vigore di questo nuovo accordo è prevista per il 2020. Daniele Saguto

Alcuni momenti a Lima, lo scorso dicembre, fuori dalla COP20. 50

[Nella foto in alto] Condotta così, con una linea di uomini armati di canna da pesca sulla poppa dell’imbarcazione, la pesca del tonnetto striato (skipjack tuna) nelle acque delle Maldive è un metodo selettivo, equo e sostenibile. Proprio per evidenziarne i pregi contro i rischi di una pesca eccessiva, attuata con pratiche di sfruttamento indiscriminato delle risorse ittiche, Greenpeace svolge spedizioni di sensibilizzazione nell'oceano indiano.

[Foto a destra] antonio e Vito puliscono le reti dopo una mattina di pesca. La pesca con il tramaglio, se effettuata secondo le regole, ha un impatto minimo sull’ambiente, ed è selettiva. Nel porto di Trapani si contano oltre 50 piccole imbarcazioni che pescano in questo modo. il tramaglio è una rete formata dall'unione di altre tre a maglie diverse, e si cala verticalmente in acqua.

DA GREENPEACE FOTO IN ALTO: PAUL HILTON (OTTOBRE 2012) FOTO SOPRA: LORENZO MOSCIA (APRILE 2014)

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avvistamenti

A 100 anni dalla Grande Guerra

Uno sguardo sul passato E sul futuro di Angela Madesani

ome noto nel 2014 cadeva il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale. Il Mart di Rovereto ha dedicato a questo anniversario una grande mostra (che continuerà fino al 20 settembre prossimo), che occupa buona parte del museo, in cui sono presentate opere storiche e contemporanee, manifesti, libri, documenti. La location è perfetta, a pochi passi dai luoghi, le montagne, dove la guerra è avvenuta. Ma la mostra, oltre a raccontare quell’evento, pone un’interessante riflessione su un tema più e più volte analizzato dagli artisti nel corso dei secoli: la guerra, appunto. Lo spettatore è chiamato a percorrere un cammino articolato e ben allestito tra dipinti, sculture, fotografie, installazioni, cinema e video. Il titolo della rassegna “La guerra che verrà non è la prima” apre numerosi quesiti. Se è vero che la parte del mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere da quasi settant’anni non è direttamente coinvolta in alcun conflitto, è altrettanto vero che le guerre nel resto del mondo non tendono a smorzarsi e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Chi produce armi non vuole certo la pace e anche in Italia i produttori di armi non mancano, proprio come nel resto dell’apparentemente pacifico Occidente. Appeso su una parete poco in vista c’è un curioso lavoro della body artist francese Orlan, intitolato “L’origine de la guerre”, che mostra l’immagine degli organi genitali di un uomo nudo. Il riferimento alla famosa “L’origine du monde” di Gustave Courbet è evidente. Se quasi

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NEWS

Selezione bovina, boom dei test genetici

NUMERI

Prevedere in anticipo quali bovini offriranno la carne migliore, più gustosa e più redditizia in età adulta. Lo garantiscono i test genetici più avanzati. Un risparmio sui costi di selezione per i produttori ma anche un business per le società come Neogen e Zoetis, i cui esami, scrive il Wall Street Journal, interessano oggi il 20% dei bovini Usa certificati come razza Angus. Contro l’1% del 2010. M.C.

centocinquanta anni fa quell’opera aveva destato un grande scalpore, oggi dovrebbe farci, a maggior ragione, riflettere. Forse l’artista francese offre una versione un po’ troppo femminista degli eventi, perché no? La guerra sarebbe dunque parte della natura maschile? Tra le opere in mostra non poteva mancare quella del sudafricano William Kentridge: un film di animazione intitolato “Zeno Writing” del 2002, dove filmati e canti della Prima guerra mondiale sono posti in stretta relazione con “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo e, in particolare, con la storia dell’ultima sigaretta, che evidenzia l’abulia del protagonista. Materiali di repertorio sono anche quelli utilizzati dalla coppia di cineasti Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi nelle toccanti opere in mostra. “Un reggimento che va sottoterra” è l’installazione appositamente realizzata da Paolo Ventura. L’esercito marcia verso l’unica direzione possibile: la morte. Parecchie le opere storiche in mostra: da Anselmo Bucci ad Aldo Carpi a Mario Sironi. Fanno parte della collezione della Cassa di Risparmio di Venezia gli straordinari bassorilievi di Arturo Martini, realizzati fra il 1934 e il 1935. Formelle bronzee, in cui la profondità è esaltata dalla capacità tecnica dello scultore, che ci rimanda alla storia dell’arte del rinascimento italiano, a certo stiacciato donatelliano. Come già detto, in mostra sono manifesti, fotografie professionali, santini, cartoline, fra le quali quelle litografiche del grande quanto dimenticato Alberto Martini, realizzate tra il 1916 e il 1918, con un titolo quanto mai azzeccato e coraggioso: “La danza macabra europea”. Martini, precursore del surrealismo, racconta con il suo tratto straordinario la stupida inutilità della guerra. Una mostra questa antiretorica, intelligente, in grado di porre la riflessione sul passato, certo, sulla storia, ma che ci obbliga a spingere il nostro sguardo, oggi più che mai, verso il futuro. ✱ La guerra che verrà non è la prima. Grande Guerra 1914-2014 Mart Rovereto 4 OTTOBRE 2014 / 20 SETTEMBRE 2015 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

Disoccupazione: una questione di “razza” 2014 Bianco > 4,8% Nero > 10,4% Ispanico > 6,5% Asiatico > 4,2%

VALORITECA NEWS

Cina-Corea del Nord: un villaggio sotto assedio

Furti, rapimenti e una ventina di omicidi commessi dai vicini nordcoreani che, spinti dalla fame, varcano abitualmente il confine per sottrarre cibo e denaro. È ciò che sperimenta da qualche anno Namping, villaggio cinese di 300 abitanti nella regione di Jilin. Un’emergenza denunciata ufficialmente da Pechino, nota il quotidiano South China Morning Post, che alimenta una tensione crescente tra i due Paesi.

I MIGLIORI TWEET DEL MESE Chinese-owned Volvo says it will be the first major global automaker to export cars made in China to the U.S. [Il proprietario cinese della Volvo ha dichiarato che sarà il primo produttore mondiale a esportare negli Usa auto made in China] @CNNMoney

Deaths from: Boko Haram: 10,340 (Nov '13 - Nov '14, CFR) Ebola: 8,400

[Decessi causati da Boko Haram 10.340; e dall’Ebola 8.400 (novembre 2013-novembre 2014)] @ianbremmer

LE PREVISIONI DI CRESCITA NEL MONDO NEL 2015

 LIBRI

FONTE: ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT

Louis D. Brandeis I SOLDI DEGLI ALTRI E COME I BANCHIERI LI USANO Edizioni di Storia e Letteratura, 2014

Pubblicato negli Usa nel 1914, dopo un secolo è stato tradotto anche in italiano il pamphlet di Louis Brandeis, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti. Un nome che a noi italiani probabilmente non dice molto, ma che per gli Usa rappresenta un pilastro dell’identità politico-culturale liberal. Una delle riviste di riferimento di quel mondo, The Nation, lo ha inserito tra i 50 progressisti più influenti del Novecento. Un manifesto contro lo strapotere di un manipolo di grandi banchieri d'investimento che, attraverso incroci azionari e la costituzione di trust – non solo nel settore bancario ma anche nell'industria, nelle ferrovie, nei servizi – hanno dominato l’economia degli Stati Uniti a cavallo tra XIX e XX secolo. valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

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e ragioni della crisi, che ha toccato uno stato cronico, attengono a contesti ben più ampi dell’oggettiva timidezza del nostro governo: Piketty parla di oligarchia economica globale; gli americani Brynjolfsson e McAfee arrivano a riabilitare il luddismo, indicando nell’era digitale il vero ostacolo al benessere diffuso. In Italia abbiamo quella che Edgar Quinet chiamava «l’arte del mentire e del barattare l’indipendenza per la quiete della servitù», una stoltezza che nei secoli ci ha fatto schierare dalla parte dei cardinali banditi durante l’epopea illuminista di Napoleone, poi del Duce e dei suoi gerarchi, quando altrove si creavano gli Stati Nazionali, e, infine, delle clientele e delle mafie quando oltralpe si guardava al progresso e alla modernità. Nessun governo in pochi mesi avrebbe potuto cambiare verso a un Paese avvilito da problemi così gravi e antichi. Eppure singolare è che l’unica vera riforma ultimata durante il mandato del presidente Renzi sia stata quella dello Statuto dei lavoratori, una delle cose migliori, insieme alla Costituzione, che fa (faceva?) dell’Italia un Paese degno di definirsi “Stato di diritto”. Era il 1970 e nel nostro codice entrò il principio secondo cui in aziende di una certa grandezza non si potesse licenziare senza giustificato motivo e che, anzi, spettasse ai lavoratori dismessi ingiustamente l’immediato reintegro e un congruo risarcimento. Una norma di buon senso per un Paese fondato sul lavoro, la cui Costituzione stabilisce che l’iniziativa economica non penalizzi l’“utilità sociale” e la “dignità” di ciascuno. Una

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legislazione all’avanguardia che l’Unione europea ha recepito solo trent’anni dopo nella Carta di Nizza e che ha ispirato molti Paesi come la Gran Bretagna dove, oltre al risarcimento, il giudice può sempre scegliere tra più forme di reintegro. Serviva cambiare, si dice, perché in troppi se ne approfittavano e qualche giudice equivocava: dovremmo allora chiudere il Parlamento o nazionalizzare le imprese perché esistono politici e imprenditori corrotti? La realtà è che ogni volta che l’Italia ha attraversato gravi crisi economiche e sociali si è discusso, non di mafie o di politiche industriali dissennate, ma di Articolo 18: accadde nel 1990, quando si introdusse l’obbligo di conciliazione, e di nuovo due anni fa, quando si codificarono tre fattispecie di ingiusto licenziamento rimodulando i risarcimenti per i casi cosiddetti “discriminatori” e “disciplinari”, per i quali si mantenne in larga misura il reintegro, limitando al solo indennizzo la disciplina per i casi di tipo “economico”. Un non-sense: sarebbe come stabilire le pene per falsa testimonianza in ragione dei motivi, autocertificati dal mentitore, che hanno spinto alla menzogna: chi non ammetterà di aver mentito in buona fede o per errore, piuttosto che per puro intento di calunnia o per procurarsi un indebito vantaggio rischiando anni di reclusione invece di una semplice ammenda? Ma perché Renzi, che si dice socialista, si è impegnato in questa crociata che rischia di far peggio della già sfortunata riforma Fornero? Oltre all’esigenza di compiacere l’elettorato moderato di cui sente di aver bisogno, sembra pensare di non volersi sottrarre a quella che Hannah Arendt chiamava la deriva identificativa dei diritti con l’utile, fondamento teoretico non a caso del nazionalsocialismo, per il quale diritto era ciò che giovava al popolo tedesco. Finiti, per fortuna, i totalitarismi del secolo scorso, se anche chi si è formato nel segno di La Pira e Don Milani si mette a disegnare un’Italia à la Marchionne allora non promette bene il futuro dei diritti nella nostra povera Italia. ✱ todebate@gmail.com

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