Valori 136

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Cooperativa Editoriale Etica

Anno 16 numero 136 marzo 2016

€ 4,00

OCSE ALL’ATTACCO DEGLI EVASORI MA NON TROPPO

finanza etica

economia solidale

La resa dei conti

9 788899 095161

ISBN 978-88-99095-16-1

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NE/VR.

IVO CARAVELLO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

CIBO SICURO SOTTO ACCUSA I CRITERI DELL’EFSA L’ITALIA INVIA ARMI IN ARABIA SAUDITA TUTTO IN PROCURA

internazionale

Banche in crisi e un decreto che le salva; centinaia di miliardi di euro di sofferenze e i risparmiatori che temono per i loro conti correnti. E i responsabili? Pochi grandi attori, che cascano in piedi


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valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


editoriale

LA DITTATURA DELLA FINANZA

COMMONS.WIKIMEDIA.ORG NICCOLÒ CARANTI

di Andrea Fumagalli

L’AUTORE

ANDREA FUMAGALLI

Professore associato di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’Università di Pavia dove ha insegnato Macroeconomia e tuttora Teoria dell’impresa. Insegna anche Economia politica della conoscenza presso il corso di laurea in Comunicazione multimediale della stessa università e, dal 2011, Storia dell’economia politica presso la facoltà di Filosofia a Pavia. valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

L’

inizio d’anno ha visto un’ampia volatilità delle Borse mondiali, con un forte ribasso, tale da bruciare in poco più di un mese i guadagni dei due anni precedenti. La bolla speculativa che aveva cominciato a gonfiarsi all’inizio del 2014 è scoppiata. È la terza volta negli ultimi otto anni, a conferma della strutturale instabilità della governance finanziaria che comanda il capitalismo contemporaneo. Diversi i fattori scatenanti: il crollo delle Borse cinesi l’estate scorsa; le tensioni sui mercati valutari, con la pressione al ribasso sullo yuan, a cui si oppone il governo cinese (riserve valutarie ai minimi dal 2012); l’entrata in vigore del nuovo regolamento bancario europeo (Basilea 3), con l’introduzione del bail-in e i rischi per l’azionariato bancario; le aspettative negative per il commercio internazionale e per la crescita statunitense ed europea. Anche la tempistica della Fed sull’aumento dei tassi d’interesse Usa può aver favorito l’innescarsi di aspettative negative, a fronte della difficile situazione di alcuni Paesi Bric (Brasile e Russia), il cui indebitamento in dollari a causa del calo dei prezzi dei prodotti energetici è fortemente aumentato. Si aggiungono poi fattori di carattere “locale”: la debolezza patrimoniale e di capitalizzazione delle banche italiane o le difficoltà della Grecia (con le pressioni sul governo Tsipras da parte della Troika per la riforma delle pensioni). Fattori che possono spiegare il cambiamento di segno delle aspettative finanziarie negli ultimi mesi, accompagnato tuttavia da segnali che hanno anticipato questo trend: l’aumento del prezzo dell’oro (+10% in gennaio) pur in assenza di tensioni inflazionistiche e la riduzione dell’indice PMI degli Usa (Purchasing Manager Index).

La speculazione finanziaria al ribasso è, oltre che fonte di introiti per chi la governa, anche un formidabile strumento per ridefinire gli assetti proprietari. Il crollo di un titolo ai minimi storici (come sta succedendo a Mps, Carige, Ubi, Bper, ma anche alle Poste appena privatizzate e ad alcune imprese del comparto energetico, come Saipem) può attivare scalate da altri gruppi o da fondi di investimento (da quelli sovrani agli hedge funds), magari quegli stessi che hanno contribuito al calo del titolo favorendone la vendita, per esempio, a 10 per poi ricomprarlo a 5. Tali dinamiche di solito favoriscono processi di concentrazione e di riassetto delle strutture proprietarie con l’effetto di aumentare l’autorevolezza finanziaria di chi esce vincitore. È probabile che una tendenza di questo tipo sia già ora presente nel sistema bancario italiano, oggi assai sotto pressione dopo l’entrata in vigore del nuovo ordinamento europeo (Basilea 3) e la riforma delle banche popolari voluta da Renzi. In conclusione, accusare alcune attività speculative di essere alla base delle forti vendite di queste settimane è riduttivo e fuorviante. Puntare il dito contro i fondi sovrani arabi (ottimi capri espiatori) serve solo a nascondere quella che è oramai un’evidenza consolidata degli ultimi venti anni, soprattutto se si ha a che fare con un’economia comandata dalla dittatura finanziaria: la necessità della governance finanziaria di “resettare” continuamente, sempre all’interno di una logica speculativa, gli indici di Borsa, distruggendo in poche settimane ingenti somme di liquidità, dopo averne creata in precedenza, al fine di perpetuare e allargare a dismisura quella sorta di accumulazione originaria non più reale ma sempre più finanziaria e sempre più riferita allo sfruttamento della vita: anzi, alla speculazione sulla vita. ✱ 3



sommario

marzo 2016 mensile www.valori.it anno 16 numero 136 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 ROC. n° 13562 del 18/03/2006 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, First Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, First Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Luca Martino, Mauro Meggiolaro, Alessandro Santoro, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Ivo Caravello; Issei Kato; Gonzalo Gonzalo; Luana Monte; Niccolò Caranti; David Shankbone, Lutz, Russell Watkins, Roland ZH (commons.wikimedia.org); Cesar Sangalang, Lily Rhoads (flickr.com) distribuzione Press Di - Segrate (Milano)

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

fotoracconto 01/04 Una manifestazione organizzata dal comitato Vittimedelsalvabanche: un gruppo di risparmiatori, obbligazionisti subordinati e piccoli azionisti, che si ritiene vittima del cosiddetto “decreto salvabanche”. www.vittimedelsalvabanche.it

dossier

8 LA RESA DEI CONTI

[FOTO: IVO CARAVELLO]

Centinaia di miliardi di euro di sofferenze e di crediti deteriorati. E la crisi delle banche scoppia. Le colpe in capo a pochi operatori. Dietro le quinte relazioni “pericolose” con gli immobiliaristi. I furbetti ancora una volta cadono in piedi. I piccoli risparmiatori no

global vision finanza etica

7

L’Ocse attacca gli evasori, ma non troppo Salari dei manager. Vince il Gattopardo Bitcoin: una moneta che fa gola a molti

19 22 24

la mappa del mese Il club dei paperoni economia solidale

28

Glifosato & Co. I tanti dubbi sui criteri Efsa “Fa’ la cosa giusta!”. Economia nuova in vetrina Le molte vie della biodiversità La diseguaglianza accorcia la vita

33 37 38 40

social innovation internazionale

43

I voli delle armi atterrano in procura L’aria pulita dei quartieri alti Così si corrompono gli scienziati

45 48 50

bancor

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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ISSEI KATO

COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / ROLAND ZH

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fotoracconto 02/04

In principio fu Zuccotti Park a bucare il muro di gomma e la disattenzione che aveva fino a quel momento attanagliato gran parte dei media mondiali. Dal parco newyorkese ad appena un paio di isolati da Wall Street, partì la prima occupazione di protesta contro l’ottusità dei banchieri e la cupidigia dei finanzieri. Era il 17 settembre 2011. Una scintilla di un incendio che ha coinvolto nel corso del tempo quasi cento Stati in tutto il globo e quasi tremila comunità promotrici. Occupy Movement è diventato un fiume mondiale di denuncia contro le zone grigie di denaro e speculazioni. 6

Tante città hanno fatto da scenario alle manifestazioni. Uguali, se ci si limita a guardare i cortei dalle foto aeree. Ma dentro ogni fiume umano si riescono a scovare modi diversi per sottolineare la follia di una ricchezza mondiale concentrata in poche mani. E se il pragmatismo degli Inglesi ricorda che “l’economia dev’essere verde, non avida”, altrove sono poesia e ironia a prendere il sopravvento. Talvolta, dove meno te l’aspetti: a pochi passi dal quartier generale della Bce e della Borsa tedesca, un manifestante, traducendo Jimi Hendrix nella lingua di Hegel,

profetizza che “quando il potere dell'Amore supera l'amore per il Potere, il mondo capirà cosa significa la vera Libertà”. E fra le arterie del cuore pulsante della finanza continentale, nella controversa Zurigo, c’è chi “preferisce dormire in tenda, piuttosto che con un banchiere”: probabilmente più scomodo di un hotel extralusso, ma senza dubbio non si corre il rischio di ammalarsi di solitudine. In fondo, non c’è piazza dove non si ricordi che “noi siamo il 99%”.

Dall’alto e in senso orario: i movimenti di protesta seguiti a Occupy Wall Street in quattro città, simboleggiati da altrettanti cartelli: Londra (“Economia verde, non economia avida”). Zurigo (“Piuttosto che dormire con i banchieri dormo in tenda”). Tokyo (“Noi siamo il 99%). New York City (“L’ingiustizia economica non è bella”).

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


global vision

Stop alla flebo della Fed

La moneta da sola non fa ripartire

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I

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

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l crollo delle Borse a cui stiamo assistendo da inizio anno (il peggiore della storia!) è da attribuire a cause diverse (Cina, petrolio, tensioni geo-politiche) che lasciano presagire un severo rallentamento della già incerta crescita mondiale. Ma c’è una causa più diretta. La caduta dei mercati finanziari non è iniziata nel 2016, ma nel dicembre 2015 a seguito della decisione della Banca centrale americana di porre fine all’era del denaro a costo zero. Il 16 dicembre 2015 la Fed, interrompendo una fase che durava da nove anni e mezzo, aveva alzato, anche se di poco, i tassi di interesse. La fine della politica monetaria ultra-espansiva Usa ha significato asciugare, almeno nelle aspettative degli operatori finanziari, “la grande flebo” che per anni ha alimentato Borse e mercati finanziari di ogni genere. E, ovviamente, in un’economia mondiale al 60% “dollarizzata” in varie forme, la contrazione della liquidità in dollari rappresenta un problema non indifferente. Problema che, nella logica dei mercati finanziari, è stato ulteriormente accentuato dalla decisione della Banca centrale europea di non dare immediatamente seguito a una nuova fase di quantitative easing, ossia di avviare una dose aggiuntiva di espansione quantitativa sul versante dell’euro. In realtà la “crisi che non finisce” dimostra che la sola politica monetaria non è in grado di sconfiggere lo scenario deflazionistico che abbiamo di fronte. Né è pensabile che le politiche economiche mondiali siano

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di Alberto Berrini

ostaggio delle pretese dei mercati finanziari. Gli effetti collaterali di anni di politica della “moneta facile” e dei “bassi tassi di interesse” sono sotto gli occhi di tutti (guerre valutarie, bilanci bancari che non reggono). In realtà di “soldi in giro” ce ne sono a sufficienza. Ma, nelle mani sbagliate (i mercati finanziari de-regolamentati), non arrivano dove servono, ossia all’economia reale e, in particolare, al sistema produttivo. È dunque necessaria un’azione espansiva diretta dei governi, tramite politiche di bilancio che abbiano nel rilancio degli investimenti il primo obiettivo (in Europa gli investimenti sono calati del 20% dall’inizio della crisi). Tutto ciò implica una leadership politica che non affidi al solo mercato la responsabilità della fuoriuscita dalla crisi. I governi hanno invece, in questi anni, di fatto delegato tale compito alle banche centrali attraverso le, pur utili in varie circostanze, politiche monetarie espansive. Il G20 di Londra (aprile 2009) fu un tentativo di governance mondiale dell’economia che fu velocemente abbandonato non appena vi fu il sentore che l’economia globale aveva evitato il collasso. La speranza è che la prossima conferenza dei ministri finanziari del G20 (a Pechino a inizio marzo 2016) possa rappresentare una nuova opportunità per i governi di cercare quanto meno un coordinamento tra le politiche economiche dei vari Paesi, in grado di tracciare una direzione per un’economia mondiale sempre più in difficoltà. ✱ 7


DOSSIER

fotoracconto 03/04 C'è un cartello che, almeno per chi conosce il tedesco, salta agli occhi nella marea umana scesa in piazza in una delle manifestazioni del movimento Occupy a due passi dalla Eurotower di Francoforte: è in primo piano nella foto di queste pagine e ricorda che solo “quando il potere dell’Amore supera l’amore per il Potere, il mondo capirà cosa significa la vera Libertà”. Un manifesto politico, ripreso da una canzone di Jimi Hendrix.

10 / All’origine di tanta sofferenza 12 / Quelle relazioni pericolose tra banche e debitori 14 / Da IFIS a Wall Street, gli spazzini del credito 16 / Bad bank all’italiana. Operazione nostalgia


201 miliardi di euro di sofferenze, 350 miliardi di euro di crediti deteriorati. Sono i numeri della crisi delle banche

Protagonisti: pochi grandi attori, in primis gli immobiliaristi. Dietro relazioni ambigue e conflitti d’interesse

COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / LUTZ HTTP://WWW.23HQ.COM/LUTZ

LA RESA DEI CONTI


DOSSIER LA RESA DEI CONTI

All’origine di tanta sofferenza I crediti a rischio nei bilanci delle banche italiane hanno raggiunto livelli da record: quasi il 17%, tre volte la media Ue. Le responsabilità spettano a pochi operatori e alle erogazioni decise direttamente dai CdA

di Matteo Cavallito

350

miliardi di euro, ovvero il 16,7% dei prestiti, contro una media Ue del 5,6%. È il valore nominale dei crediti deteriorati in mano alle banche italiane. Una cifra che copre da sola circa un terzo del totale continentale (quello delle 105 banche più importanti monitorate dall’EBA, la European Banking Authority) e in cui le sofferenze, vale a dire i crediti più difficili da riscuotere (vedi gLOssAriO a pag. 12), pesano da sole per circa 200 miliardi. Basta guardare ai numeri e al loro trend di lungo periodo (vedi grAFiCO ) per comprendere la gravità del problema. Ed è bastato passare attraverso le pesantissime sedute borsistiche di inizio anno per capire che la retorica del sistema solido, a cui per anni ci si è aggrappati con insistenza, non abbia ormai più alcuna ragione di esistere. LA CRESCITA DELLE SOFFERENZE LORDE IN ITALIA FONTE: ABI MONTHLY OUTLOOK, GENNAIO 2016 ED EDIZIONI PRECEDENTI.

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nov. ’11

nov. ’12

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nov. ’14

nov. ’15

L’istituzione della bad bank (o, per meglio dire, “delle” bad bank), il piano di dismissione dei crediti deteriorati nato dall’accordo tra l’Italia e la Ue, imporrà alle banche perdite pesanti, le stesse evocate implicitamente dalle operazioni già realizzate nel mercato dei fondi distressed (vedi ArtiCOLO a pag. 14). Un esito inevitabile – rimandato per troppo tempo – figlio della crisi e della recessione. Ma anche, e questo non va dimenticato, di una gestione complessiva ampiamente discutibile che svela oggi i limiti di un sistema bancario capace per anni di premiare soprattutto pochi grandi operatori. Gli stessi che si spartiscono oggi la quota più ampia delle responsabilità.

GRANDI DEBITORI… A evidenziarlo i numeri dell’ultimo rapporto del centro studi di Unimpresa, che ha disaggregato i dati per “classi” di prestito. «Sul totale delle sofferenze pari a 201,1 miliardi di euro – si legge in una nota – 141,4 miliardi sono relativi a finanziamenti oltre il mezzo milione di euro erogati ad appena 32.608 soggetti, il 2,63% dei clienti problematici degli istituti; 25,5 miliardi di sofferenze sono a carico di soli 579 soggetti, lo 0,05% del totale» (vedi inFOgrAFiCA ). All’origine di tanta sofferenza, in altre parole, sono pochi grandi attori che nulla hanno a che fare con l’universo della clientela retail. Quali? «Tralasciando l’aspetto dimensionale degli affidamenti, abbiamo osservato che oltre il 30% delle sofferenze delle banche è riconducibile al settore immobiliare», spiega a Valori Paolo Longobardi, presidente di Unimpresa. «Su 201,1 miliardi di euro di prestiti non rimborsati agli istituti di credito – aggiunge – più del 21% è legato al comparto costruzioni e il 10% circa è riferito ad altre attività immobiliari come intermediazione, valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


LA RESA DEI CONTI DOSSIER

LE SOFFERENZE PER DIMENSIONE DEI PRESTITI [dati in milioni di euro]

FONTE: UNIMPRESA, GENNAIO 2016 SU DATI BANKITALIA A NOVEMBRE 2015.

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ilfattoquotidiano.it, 28 ottobre 2013. (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10/28/sofferenze-bancariesono-causate-dai-prestiti-facili-ad-amici-e-furbetti/757379/)

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valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

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…GRANDI DECISORI

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25 0K

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-2 50 K

75 K

-1 25 K

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25 M

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I dati sugli importi rappresentano con ogni probabilità il punto chiave dell’intera vicenda. Vale per il fronte dei debitori, come si diceva, ma vale anche per quello dei decisori, ovvero quegli stessi creditori che si preparano oggi a incassare le inevitabili perdite. Determinanti, in questo senso, le autonomie sugli importi: per i prestiti fino a 125 mila euro, notava nel 2013 uno studio interno della Fiba Cisl (oggi First, il sindacato dei lavoratori del comparto bancario e assicurativo), la decisione ultima spetta di norma al titolare di filiale; per quelli di valore superiore, invece, si sale di livello coinvolgendo, al crescere dell’entità del prestito, attori sempre più importanti. Mettendo in relazione i dati sui singoli importi con l’indice di autonomia sulle erogazioni, scoprirono allora i ricercatori, alla fine del 2012 solo il 16% delle sofferenze totali (circa 20 miliardi) risultava imputabile a decisioni del titolare di filiale; il 43% (54 miliardi circa) coinvolgeva il resto della filiera fino al direttore generale mentre i restanti 52 (il 41% del totale) derivava direttamente da scelte compiute ai livelli superiori fino al Consiglio di Amministrazione. «Incrociando ulteriormente i dati – spiegò all’epoca il segretario generale Fiba Giulio Romani – potremmo ipotizzare che oltre la metà delle sofferenze bancarie sia imputabile a delibere emesse dal direttore generale in su. Come dire che un centinaio di persone è causa della maggioranza delle sofferenze mentre le responsabilità di 300 mila impiegati e quadri si riducono a meno del 50% del totale» 1. All’epoca dello studio le sofferenze lorde nei bilanci delle banche italiane ammontavano a 125 miliardi. Oggi, come detto, si è superata quota 200. I dati dell’ultima analisi disaggregata del sindacato sul credito concesso ai vari settori produttivi differiscono in parte da quelli di Unimpresa, ma il quadro sostanziale resta il medesimo. A svettare su tutti nella classifica dei beneficiari, manco a dirlo, è il comparto real estate, responsabile da solo di circa 60 miliardi di sofferenze (quasi 42 miliardi per le costruzioni, 18,5 per l’immobiliare). Un dato che colpisce. E che, come spiegheremo nelle pagine seguenti, impone necessariamente una riflessione più profonda. ✱

 n. clienti > percentuale  sofferenze [mln euro] > percentuale

TOTALE 1.240.410 > 100% / TOTALE  201.029 > 100%

fondi e gestione». Traducendo in cifre, precisa ancora, si tratta di 64 miliardi (43,7 miliardi per le costruzioni, 20,3 per gli altri comparti del settore) contro i 37,7 delle «sofferenze legate alle attività manifatturiere» e i 27,1 del segmento del commercio.



25.580 > 12,72% >500K 32.608 > 2,63%

<500K 59.611 > 29,75%

<500K 1.207.802 > 97,37%

>500K 141.418 > 70,35%

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DOSSIER LA RESA DEI CONTI

Banche e debitori Relazioni pericolose di Matteo Cavallito

La logica del credito di relazione e i conflitti di interesse hanno condizionato per anni l’attività delle banche. Sotto gli occhi della vigilanza

«N

on abbiamo dati disaggregati, non conosciamo nomi e cognomi dei grandi debitori insolventi. Ogni tanto però viene fuori qualche scandalo e allora si torna a parlare di vicinanze politiche e amicizie importanti». Giulio Romani, Segretario Generale FIRST Cisl, la sintetizza così. E in tal modo va al cuore del problema. Un problema tuttora irrisolto che continua a pesare in un sistema bancario storicamente distorto. In cui amicizie e vicinanze politiche, spesso, hanno contato più del merito creditizio.

IL CREDITO DI RELAZIONE Dal punto di visto tecnico parliamo di conflitto di interesse, un fenomeno che in Italia si è tradotto in un eufemismo tristemente famoso: credito relazionale. Il significato è di per sé intuitivo, “auto evidente” per così dire. Solo che la partita, occorre precisarlo, si gioca ad alti livelli, al punto da tra-

 GLOSSARIO NON PERFORMING LOANS (NPL) Altrimenti detti “crediti deteriorati”, i NPL’s, o “prestiti non performanti”, sono attività che non riescono più a ripagare il capitale e gli interessi dovuti ai creditori. Stante queste condizioni, la riscossione dei crediti diventa incerta. I NPL’s si distinguono – in ordine crescente di rischio insolvenza – in esposizioni scadute, inadempienze probabili e sofferenze. ESPOSIZIONI SCADUTE E/O SCONFINANTI Esposizioni su crediti le cui rate non vengono saldate da oltre 90 giorni. INADEMPIENZE PROBABILI Esposizioni creditizie unlikely to pay, ovvero crediti probabilmente non recuperabili in assenza di azioni ad hoc da parte della banca come l’escussione delle garanzie (il pignoramento ad esempio). SOFFERENZE L’insieme dei crediti vantati nei confronti di soggetti a rischio insolvenza e, in quanto tali, di riscossione difficile e incerta. Si distinguono in sofferenze lorde (il valore nominale totale dei crediti a rischio) e nette (il controvalore lordo meno le svalutazioni già effettuate, ovvero le perdite già iscritte come tali in conto economico). Tali crediti possono essere trasformati in denaro liquido attraverso l’impiego di strumenti finanziari derivati. Questo processo si definisce “cartolarizzazione”. CREDITI FORBORNE Crediti che sono oggetto di concessioni (forbearance), ovvero di modifiche delle condizioni originarie del prestito, da parte della banca (riduzione del tasso di interesse, riscadenziamento del debito ecc.). Le misure possono riguardare clienti in difficoltà temporanea likely to pay oppure giudicati in stato di deterioramento. Nel primo caso si parla di prestiti performanti (forborne performing exposures), nel secondo si rientra nella categoria dei crediti deteriorati (non performing exposures with forbearance measures). 12

sformare il conflitto in qualcosa di strutturale. Per capirlo occorre tornare indietro di almeno dieci anni alla mitica stagione delle scalate bancarie. Un’epoca di credito facile a immobiliaristi, industriali e speculatori, finanziati senza remore per operare sul mercato e comprarsi, già che c’erano, le quote delle stesse banche che avevano concesso loro il credito per farlo. È così, ad esempio, che un finanziere come Romain Zaleski ha potuto ricevere 9 miliardi di crediti tra il 2006 e il 2007 a fronte di un collateral, la sua società Carlo Tassara Spa che – ricordò due anni or sono Il Sole 24 Ore – macinava ricavi per appena 160 milioni. Con i crediti ottenuti, Zaleski avrebbe rastrellato quote importanti di Intesa Sanpaolo (diventerà il secondo azionista dell’istituto), Ubi, MPS e Mediobanca, l’ex tempio dell’aristocrazia finanziaria che non aveva esitato ad accogliere i capitali di un altro big dell’epoca: l’immobiliarista Danilo Coppola. E il risultato? Un sistema chiuso, nel quale i debitori sono anche azionisti e come tali meritano un trattamento di favore. Lo stesso riservato ai grandi gruppi industriali che, in un modo o nell’altro, non possono fallire. «Al 30 settembre 2015, l’81,1 per cento delle sofferenze in capo ai nostri istituti bancari è stato generato dal primo 10 per cento degli affidati che rappresentano, con buona approssimazione, la platea delle grandi imprese e dei gruppi societari», ha rilevato a febbraio la CGIA di Mestre. «Sebbene le grandi imprese siano poco più di 3.000 aziende, pari allo 0,08 per cento del totale nazionale, e abbiano problemi di insolvenza», ha dichiarato il coordinatore dell’Ufficio studi di CGIA Paolo Zabeo, «gli istituti di credito continuano a riservare a queste un trattamento di favore del tutto ingiustificato» (vedi inFOgrAFiCA ).

SOTTO GLI OCCHI DELLA VIGILANZA Il 30 maggio 2014, in occasione della sua relazione annuale, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


LA RESA DEI CONTI DOSSIER

Visco, ha sottolineato la necessità «di prevenire degenerazioni nei rapporti di credito con la clientela e correre ai ripari quando queste si siano manifestate». Un riferimento esplicito alle banche del territorio e al sistema delle fondazioni ma che, in termini più generali, può essere letto come il segnale di un auspicabile cambio di rotta rispetto a un passato fatto di authorities particolarmente insensibili. Un fenomeno, quest’ultimo, che suggerisce almeno un paio di interpretazioni. «Nella prima metà degli anni 2000 ci siamo trovati in mezzo a una bolla globale» spiega a Valori Carlo Milani, economista e docente presso l’Università di Roma Tre. «In Europa in particolare, l’entrata in vigore della moneta unica ha favorito una fase di bassi tassi di interesse incapaci di prezzare adeguatamente il rischio reale sul fronte dei finanziamenti. In questa fase di esuberanza è probabile che le autorità di vigilanza abbiano sottostimato il problema. Dopo l’esplosione degli scandali bancari della stagione delle scalate

GRANDI DEBITORI: CRESCONO I CREDITI E LE SOFFERENZE La concentrazione del credito in Italia

FONTE: ELABORAZIONE UFFICIO STUDI CGIA SU DATI BANCA D’ITALIA. IL DATO FA RIFERIMENTO ALLE BANCHE ESCLUDENDO CASSA DEPOSITI E PRESTITI E ALTRI INTERMEDIARI FINANZIARI NON BANCARI.

Dati in % Quota dei finanziamenti per cassa ottenuti dal primo 10% degli affidati Quota delle sofferenze causate dal primo 10% degli affidati

set. ’11

set. ’12

set. ’13

set. ’14

set. ’15

punti di variazione % set. ’15 - set. ’11

79,3

80,9

81,5

80,2

80,4

+1,0%

78,3

78,3

79,3

80,2

81,1

+2,8%

– aggiunge – si sarebbe certamente potuto intervenire in modo più efficace sul tema dei conflitti di interesse. Ma alla fine si è preferito conservare il sistema delle fondazioni con l’obiettivo di favorire una certa stabilità dell’orticello nazionale e tenere gli istituti italiani al riparo dalle ipotesi di possibili acquisizioni straniere». Una scelta “politica” che da tempo ha presentato il conto. ✱

I FURBETTI SONO SALVI I COCCI LI RACCOLGONO GLI ISTITUTI DI CREDITO Da Zaleski a Zunino, da Coppola a Ricucci. Immobiliaristi sì, ma sempre più giocolieri della finanza e superdebitori Ve lo ricordate Romain Zaleski, l'ottuagenario investitore francopolacco naturalizzato bresciano? In tutta la sua vita, come ha commentato qualche anno fa Il Sole 24 Ore, ha creato un solo posto di lavoro: quello della sua segretaria. In compenso le banche, prima della crisi, gli hanno concesso crediti per 9 miliardi di euro: oltre l'1% di tutti i prestiti alle imprese in Italia. Una cifra enorme, con cui Zaleski ha giocato in Borsa comprando azioni, in particolare quelle delle stesse banche creditrici. Poi, a partire dal 2008, i prezzi dei titoli sono crollati e il grande finanziere si è incartato. Alla fine del 2011 la sua holding, Carlo Tassara, aveva un debito di 2,93 miliardi di euro con i maggiori istituti bancari italiani che hanno cercato di salvare il salvabile con una serie di accordi di standstill: congelamento dei crediti e negoziazione di successivi piani di rientro. Nel 2013 i debiti si sono ridotti a 1,42 miliardi, mentre a fine 2014 l'esposizione verso le banche è scesa a 772,5 milioni di euro, di cui solo 317 milioni coperti da garanzie reali. Aiutato da accordi favorevoli con le banche, dalla fase positiva delle Borse e da tassi di interesse ai minimi, Zaleski è riuscito a cedere buona parte delle sue partecipazioni senza svenderle e ora, all'ultima riga del conto economico, dietro al segno meno ci sono "solo" 39,6 milioni di euro. Considerando che nel 2013 la perdita ammontava a quasi 218 milioni, la Tassara pare essere ormai fuori pericolo. Molto più tortuoso il percorso di Luigi Zunino, il viticoltore di Nizza Monferrato che nei primi anni Duemila si lanciò in una serie di opevalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

razioni immobiliari coinvolgendo, tra gli altri, l'immobiliarista Danilo Coppola. Nel 2009 è stato cacciato da Risanamento SpA, la sua creatura, e da allora ha cercato in tutti i modi di riprendersela, finora senza successo. Da anni Risanamento, a seguito della riconversione dei debiti in azioni, è in mano alle banche (Intesa ha il 49%, Unicredit quasi il 20%) che cercano di spremere valore dagli immobili in portafoglio. Dopo un ritorno all'utile nel 2014, nel 2015 si è visto di nuovo il segno meno: al 30 settembre le perdite erano di oltre 27 milioni di euro. E passiamo quindi a Coppola: assolto in appello nel 2013 dall'accusa di bancarotta fraudolenta, si è recentemente lanciato in una vera e propria battaglia legale contro il Banco Popolare, che aveva finanziato per 218 milioni di euro il progetto immobiliare, mai concluso, dell'area di Porta Vittoria a Milano. Mentre il Banco esige il rientro del prestito, Porta Vittoria SpA, riconducibile all'ex moglie di Coppola, ha chiesto alla banca un risarcimento da 500 milioni perché, chiedendo il pagamento dei debiti prima della fine dei lavori, avrebbe «impedito di realizzare la cessione degli immobili». La partita è ancora aperta e mentre la società dei Coppola rischia il fallimento, il Banco spera in una soluzione il più possibile indolore della vicenda. E per finire eccoci a Stefano Ricucci, l'odontotecnico di Zagarolo convertito all'immobiliare che un tempo tentò persino la scalata a Rcs. A quanto pare vive a Londra, dove continuerebbe a comprare e vendere immobili, la sua passione. I suoi nuovi affari passano dalla Lekythos Srl, con sede a Roma ma controllata da un trust londinese. Nel 2014 ha chiuso con un fatturato di 1,5 milioni di euro, una perdita di 470.000 euro e debiti per 3,21 milioni di euro. Quelli con le banche italiane ammontavano a soli 79.400 euro. Tutti coperti da garanzie reali. [M.M.] ✱ 13


DOSSIER LA RESA DEI CONTI

Gli spazzini del credito di Matteo Cavallito

In attesa della “bad bank” i crediti non performanti sono già sul mercato. Una necessità per chi vende. Un affare per chi compra

D

a una parte la necessità di vendere in fretta. Dall’altra la capacità di trarre profitti. Bastano questi due fattori, oggi, per spiegare la crescita del mercato dei non performing loans (NPL), i crediti deteriorati che tanto preoccupano banche e autorità di controllo. Smaltirli in via definitiva, è noto, sarà compito delle varie bad bank (Sic). Ma in attesa della maxi cartolarizzazione c’è chi ha deciso da tempo di giocare d’anticipo.

CHI VENDE Parliamo dei grandi istituti, ovviamente, chiamati a fare i conti con le esposizioni più consistenti (vedi grAFiCi a pag. 17), ma anche con la pressione congiunta di investitori e correntisti (vedi BOx ), nonché con il peso dei sempre temibili stress test europei che impongono, implicitamente, una progressiva liquidazione dei crediti a rischio. A risolvere il problema, in tal senso, ci pensano i fondi del cosiddetto comparto distressed, il settore degli asset “critici”, la cui specialità, ricorda Andrea Fumagalli, professore associato di Economia politica pres-

so l’Università di Pavia, «consiste nel cercare di rinegoziare con i debitori per ottenere un saldo parziale del credito superiore al prezzo d’acquisto, così da generare una plusvalenza». Una strategia relativamente semplice che si basa però su un presupposto irrinunciabile: comprare a poco, anzi, a pochissimo. Il che, date le circostanze, è tutt’altro che complicato. «Unicredit e Intesa hanno già venduto prestiti non performanti a fondi americani che li hanno acquistati a un prezzo pari al 20-25% del loro valore nominale», spiega il professor Fumagalli evidenziando l’ordine di grandezza delle svalutazioni già in atto in un mercato, come si diceva, caratterizzato da un forte trend di crescita. Nei primi tre trimestri del 2015, rileva uno studio di PriceWaterhouseCoopers (PWC), Unicredit ha ceduto NPL per un valore nominale di 4,8 miliardi di euro, mentre il Banco Popolare e MPS hanno realizzato operazioni per circa 1 miliardo a testa. In rampa di lancio, nota PWC, ci sarebbero nuove operazioni sui portafogli di altri big del credito con MPS e Intesa Sanpaolo in

LE PRINCIPALI OPERAZIONI NEL MERCATO ITALIANO DEI NPL’S: 2014-15* FONTE: PWC, “THE ITALIAN NPL MARKET”, NOVEMBRE 2015; NOSTRE ELABORAZIONI. Q=QUARTER, TRIMESTRE. *DATI A SETTEMBRE 2015.

1

 Unicredit  Fortress + Prelios  2.400  Q1 2015

3

14

 non specificato  Banca iFis  1.263  Q2 2014

4 2    

Unicredit Anacap 1.900 Q4 2014

   

venditore compratore volume [mln €] periodo

   

Unicredit Anacap 1.200 Q3 2015

5    

MPs Banca iFis 1.000 Q2 2015

7 6

 Banco Popolare  Hoist Finance  950  Q3 2015

 non specificato  non specificato  900  Q4 2014

8    

9

Unicredit Anacap 700 Q1 2014

   

MPs Banca iFis 650 Q2 2015

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


LA RESA DEI CONTI DOSSIER

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

LE OBBLIGAZIONI BANCARIE NEL MERCATO ITALIANO

300.000

386.141

400.000

409.950

500.000

443.683

FONTE: ABI - ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA (WWW.ABI.IT), MONTHLY OUTLOOK, GENNAIO 2016. NOSTRE ELABORAZIONI. DATI IN MILIARDI DI EURO.

480.450

Protagonisti dell’operazione di pulizia, per il momento, sono soprattutto i fondi stranieri. Tra questi il colosso Fortress, un fondo quotato a Wall Street che nel primo trimestre 2015 ha realizzato la più vasta operazione di acquisto registrata ad oggi nel mercato italiano (vedi inFOgrAFiCA ): una maxi transazione su prestiti in mano a Unicredit per un valore nominale complessivo da 2,4 miliardi di euro. Fondato nel 1998, Fortress opera in differenti comparti dal private equity ai mercati più liquidi (fixed income, ovvero titoli obbligazionari) passando ovviamente per il settore distressed. Nel 2002, il suo portafoglio titoli valeva 2,5 miliardi di dollari. A settembre 2015, il controvalore dei suoi assets gestiti ammonta a 74,3 miliardi. Accanto a Fortress ci sono altri grandi operatori esteri come gli statunitensi Lone Star e Cerberus, lo svedese Hoist e il britannico Anacap. Ma anche tra gli operatori italiani c’è chi ha deciso di puntare forte su questo mercato. È il caso di Banca IFIS, istituto fondato nel 1983 dal banchiere Sebastien Fürstenberg – figlio di Clara Agnelli e del principe tedesco Tassilo von Fürstenberg – che ne è tuttora l’azionista di riferimento. «Unico operatore indipendente in Italia specializzato nella filiera del credito commerciale, del credito finanziario di difficile esigibilità e del credito fiscale», Banca IFIS ha realizzato diverse operazioni di acquisto di crediti problematici sul fronte retail da istituti e società finanziarie come MPS, Santander, Banca Sella e Findomestic oltre ad altri operatori non specificati. Il valore nominale dei crediti acquisiti dalla banca tra il 2014 e il 2015 (primi tre trimestri) ammonta a circa 3,5 miliardi di euro. Interpellata da Valori, Banca IFIS non ha dato disponibilità per un’intervista chiamando in causa «gli impegni societari imminenti, tra cui l’approvazione del pro-

la congiuntura negativa dei mercati, il pressing europeo sulla bad bank e lo spettro del bail in come schema di intervento “a carico” della clientela definitivamente sancito dalla vicenda dei quattro istituti salvati lo scorso novembre (Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti). Sono questi, con ogni probabilità, i fattori decisivi che contribuiscono a plasmare il momento negativo del comparto bancario italiano. Una crisi di fiducia che coinvolge investitori, piccoli risparmiatori e correntisti e che si manifesta tanto nei ribassi di borsa, su cui incide però anche la speculazione, quanto nei movimenti sul fronte obbligazionario, vero e proprio osservato speciale da un po’ di tempo a questa parte. Nei primi 11 mesi del 2015, rileva l’ultimo rapporto ABI, le emissioni nette (il nuovo debito) di obbligazioni bancarie si sono ridotte di 95 miliardi contribuendo così a esasperare una tendenza negativa di lungo periodo. Attualmente, l’ammontare totale dei bond emessi dagli istituti di credito presenti sul mercato è di 386 miliardi di euro contro i 514 di due anni fa (vedi grAFiCO ). Un quadro preoccupante. Nel corso del 2016, notava nelle scorse settimane L’Espresso, le banche dovranno fronteggiare bond rischiosi in scadenza per quasi 6 miliardi di euro. «Una volta rimborsate le obbligazioni – scriveva il settimanale – gli istituti dovranno anche trovare il modo di rimpiazzarle. Difficile immaginare che i clienti faranno la fila per sottoscrivere nuovi titoli subordinati». Un’ipotesi decisamente coerente con gli attuali umori di mercato. Ad oggi «si inizia a registrare una crisi di domanda per le obbligazioni subordinate che i risparmiatori vedono ormai come più pericolose delle azioni» spiega Andrea Resti, professore associato presso l’Università Bocconi e consulente del Parlamento Europeo sulla vigilanza bancaria, interpellato da Valori lo scorso 21 gennaio. «Un paradosso, quest’ultimo, visto che i titoli azionari, per loro natura, comportano da sempre la possibilità di perdere l’intero capitale, anche quando i bond subordinati non vengono toccati».

513.555

CHI COMPRA

NoN solo NPl. Dall’allarMe iN borsa al ProbleMa obbligazioNi

200.000 dicembre '13 gennaio '14 febbraio '14 marzo '14 aprile '14 maggio '14 giugno '14 luglio '14 agosto '14 settembre '14 ottobre '14 novembre '14 dicembre '14 gennaio '15 febbraio '15 marzo '15 aprile '15 maggio '15 giugno '15 luglio '15 agosto '15 settembre '15 ottobre '15 novembre '15 dicembre '15

prima fila. A conti fatti, il valore nominale degli NPL venduti sul mercato italiano nei primi nove mesi del 2015 ha raggiunto i 12 miliardi di euro, ma nel corso del 2016, sostengono i ricercatori, il giro d’affari annuale dovrebbe salire a quota 20. Le potenzialità del mercato, in ogni caso, non mancano di certo. «Si stima che i 350 miliardi di crediti problematici italiani siano coperti da garanzie – beni immobili in particolare – per circa 1.000 miliardi, praticamente tre volte tanto», nota Fumagalli. «Poi ci sono le opportunità di acquisizione: quando il debitore è un’impresa in attività, il fondo che ha acquistato il credito può pensare di far valere quest’ultimo acquisendo una quota della società per poi ristrutturarla e rivenderla pezzo per pezzo».

getto di bilancio d’esercizio» prevista, secondo quanto comunicato dall’istituto, per il prossimo 22 marzo. I risultati preliminari, nel frattempo, evidenzierebbero l’ottimo momento del gruppo: nel 2015 l’utile netto ha raggiunto quota 162 milioni di euro, quasi il 70% in più rispetto al 2014. ✱ 15


DOSSIER LA RESA DEI CONTI

Bad bank tricolore Operazione nostalgia di Matteo Cavallito

Esclusa la via della banca di sistema, a causa delle recenti regole Ue sugli aiuti di Stato, l’Italia punta a cartolarizzare le sofferenze. Un invito alla speculazione che ha inquietanti analogie con il passato

A

ggiungere, mescolare, agitare bene prima dell’uso. E poi vendere, possibilmente a buon prezzo, senza preoccuparsi troppo di chi compra. Perché l’importante, in questi casi, è smaltire tutto quanto. A prescindere dalle conseguenze. È uno schema che sa tanto di déjà vu quello che dovrebbe caratterizzare la cosiddetta bad bank italiana, ovvero la maxi operazione di pulizia dei bilanci bancari. I dettagli – per lo meno mentre scriviamo – sono ancora in via di definizione, ma l’idea di fondo è ormai chiara: gli istituti maggiormente gravati dai prestiti non performanti (NPL, vedi grAFiCi ) daranno vita ai loro special purpose vehicles (SPV), le singole bad bank che avranno il compito di emettere obbligazioni garantite da un

l’esPerieNza sPagNola UN aFFare Per PoCHi

sareb. Ovvero Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria. È l’entità incaricata di smaltire gli asset tossici provenienti dai bilanci delle banche spagnole. Gli osservatori stranieri la conoscono come “la bad bank di Madrid”, ma la definizione, in realtà, è contestata. Al pari della sua gestione. «La SAREB non è una bad bank», spiega a Valori Juan Pedro Velázquez-Gaztelu, giornalista del quotidiano El País e della rivista Alternativas Económicas, nonché autore del saggio “Capitalismo a la española” (febbraio 2015, inedito in Italia), «bensì una società privata di liquidazione degli attivi creata grazie all’emissione di obbligazioni per 50 miliardi di euro, vale a dire l’ipotetico valore degli attivi stessi, con l’avallo dello Stato». Una critica profonda, che punta il dito contro la struttura proprietaria dell’ente – partecipato al 45% dal governo e al 55% dalle banche private e dalle compagnie assicurative (soprattutto locali) – e, contemporaneamente, contro lo 16

mix di crediti a rischio variabile composto da sofferenze e prestiti più sicuri. In termini tecnici, insomma, parliamo di asset-backed securities (ABS), prodotti derivati nel cui sottostante vengono mescolati crediti di rating diverso e che, nota Andrea Fumagalli, professore associato di Economia Politica presso l’Università di Pavia, «ricordano molto da vicino i titoli tossici dei vecchi mutui subprime». Un parallelo inquietante. Al pari delle possibili conseguenze.

UN ASSIST AGLI SPECULATORI «Nel breve periodo la cartolarizzazione delle sofferenze e dei crediti deteriorati risolve il problema della speculazione al ribasso sui titoli azionari del-

stesso schema di salvataggio. Nel mirino la gestione delle perdite, ovvero del divario tra il valore attribuito agli asset e il loro prezzo di vendita: «Se non si riesce a recuperare l’intera cifra – aggiunge Velázquez-Gaztelu – lo Stato coprirà la differenza contabilizzandola come debito pubblico». Basterebbe questo particolare per aprire un dibattito sull’annosa questione della cosiddetta “socializzazione delle perdite”. Ma i problemi, rileva ancora il giornalista, non finiscono qui. «Finora i veri beneficiari sono stati i fondi avvoltoio e i grandi investitori immobiliari», spiega, ovvero quelli che si fiondano sul mercato nei momenti di forte ribasso. Sarebbero stati loro, per ora, ad accaparrarsi i pezzi migliori in saldo lasciando ai piccoli investitori gli scarti del portafoglio. Quali? Le case vuote dei quartieri degradati, le abitazioni improbabili costruite accanto alle autostrade, i centri commerciali senza futuro, i terreni senza valore o i crediti con le imprese già fallite. Insomma, la “spazzatura immobiliare” che nessuno vuole e che, in definitiva, andrà a finire nel grande calderone delle perdite. Quelle dei contribuenti, ovviamente. valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


LA RESA DEI CONTI DOSSIER

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

60,0 50,0 40,0 30,0 20,0

CR Asti

Banco Desio

Mediobanca Credem

CRParma

DB*

Credem

Ubi

BP Sondrio

DB*

Banca Sella

Banco Desio

BP Sondrio

CreVal

CRParma

Veneto Banca

BPM

Carige

BPVicenza

Ubi

Bper

BNL*

Banco Popolare

Monte dei Paschi

Intesa Sanpaolo

0,0

Unicredit

10,0

PRESTITI NON PERFORMANTI SUL TOTALE DEI PRESTITI

FONTE: PWC, “THE ITALIAN NPL MARKET”, NOVEMBRE 2015; NOSTRE ELABORAZIONI. *DATI 2014.

20% 18% 16% 14% 12% 10% 8% 6% 4%

BPM

BNL*

Intesa Sanpaolo

Unicredit

CR Asti

Banca Sella

Mediobanca

Veneto Banca

Banco Popolare

CreVal

0%

Carige

2% BPVicenza

«Per molti anni dopo lo scoppio della crisi le banche italiane hanno sostenuto la tesi del sistema solido caratterizzato da sofferenze fisiologiche, un’interpretazione funzionale a giustificare i mancati interventi di aumento di capitale» spiega Carlo Milani, economista e docente presso l’Università di Roma Tre. «Da parte del governo, contemporaneamente, non c’era una grande spinta a promuovere una bad bank sul modello spagnolo che avrebbe implicato il ricorso al fondo salva Stati e nuovi vincoli sulla politica fiscale. L’entrata in vigore dell’unione bancaria e la pressione degli stress test – conclude Milani – ha fatto emergere il quadro critico delle sofferenze. Ma ha anche escluso la possibilità di creare una bad bank di sistema che, alle regole attuali sugli aiuti di Stato, non è più realizzabile». L’esperienza del banco malo spagnolo, per altro, non è certo immune da critiche (vedi BOx ), ma quello messo in atto da Madrid, è bene ricordarlo, non rappresenta l’unico schema possibile. Almeno in teoria. In passato, ricorda Fumagalli, la Francia aveva avanzato l’ipotesi di un fondo europeo monitorato dalla Bce, idea definitivamente naufragata sotto il peso della prevalente linea tedesca: una politica fiscale unica con una gestione dei debiti affidata però ai singoli Stati. Peccato, verrebbe da dire, perché l’ipotesi avrebbe risolto implicitamente l’eterno nodo del sostegno pubblico: «Se la proposta francese fosse passata – ricorda Fumagalli – la vigilanza sarebbe stata affidata alla Bce che, a differenza delle banche centrali nazionali,

FONTE: PWC, “THE ITALIAN NPL MARKET”, NOVEMBRE 2015; NOSTRE ELABORAZIONI. DATI IN MILIARDI DI EURO. *DATI 2014.

Bper

SOLUZIONI ALTERNATIVE

VOLUME DEI PRESTITI NON PERFORMANTI NEI BILANCI BANCARI

Monte dei Paschi

le banche – spiega ancora Fumagalli – ma a lungo termine offre anche un assist decisivo alla speculazione sui prodotti della cartolarizzazione stessa». Le ABS sono prodotti finanziari da scambiare sul mercato e, per loro natura, sono soggetti alla volatilità. Le opportunità di guadagno, quindi, non mancano. Ma i problemi, per contro, sono pur sempre dietro l’angolo. «Si può speculare scommettendo sul rialzo del loro prezzo di mercato – rileva ancora il docente – oppure approfittare del loro ribasso collocandosi opportunamente nel mercato parallelo dei Credit default swaps, i derivati che “pagano” in caso di insolvenza dei titoli che assicurano. È il classico schema della speculazione, un gioco pericoloso nel quale qualcuno rischia di rimanere col cerino in mano». L’alternativa teorica più ovvia sarebbe stata quella della bad bank di sistema, ma le più recenti regole Ue sugli aiuti di Stato, come noto, la escludono definitivamente. L’Italia, insomma, si è mossa tardi. E il ritardo, nota qualcuno, non sembra essere stato casuale.

ha il potere di battere moneta. Il suo sostegno, in altre parole, non avrebbe costituito un aiuto di Stato». Un particolare non da poco. La realtà odierna, in ogni caso, è molto diversa. E il futuro si preannuncia movimentato. Lo lasciano intendere i guai delle banche medio/piccole chiamate a ricapitalizzarsi attraverso inevitabili processi di fusione e acquisizione tra loro. Uno scenario, quest’ultimo, condizionato anche dalla recente riforma delle popolari che, secondo il docente, potrebbe aprire la strada a «una nuova stagione delle scalate», ovvero a una riedizione di quell’epoca avventurosa che, come abbiamo avuto modo di spiegare, sembra essere stata almeno in parte all’origine di tanta “sofferenza”. L’orizzonte, insomma, sa tanto di già visto. Non esattamente una bella sensazione. ✱ 17



FINANZA ETICA

WWW.FLICKR.COM / CESAR SANGALANG

L’OCSE ATTACCA GLI EVASORI MA NON TROPPO

N di Andrea Barolini

L’Organizzazione internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo economico ha svelato un pacchetto di regole per combattere l’evasione fiscale delle grandi aziende. Ma le Ong considerano troppo timidi i passi in avanti fatti valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

on possiamo di certo affermare che il problema sia risolto, ma almeno un piccolo passo avanti nella lotta all’evasione fiscale delle multinazionali è stato compiuto. Non sufficiente, secondo le Organizzazioni non governative, ma forse utile per tracciare una nuova via. Nello scorso mese di ottobre, infatti, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) ha svelato le nuove regole che i Paesi membri del G20 (assieme ad altre settanta nazioni) dovranno adottare nei prossimi anni con l’obiettivo dichiarato di tassare in modo più equo le grandi imprese. E mettere un freno allo sfruttamento dei paradisi fiscali. Secondo quanto indicato dall’organismo internazionale, le compagnie saranno chiamate a fornire alle autorità fiscali del Paese in cui è presente la loro casa madre una contabilità separata per ciascuno Stato in cui operano. Si tratta del 19


finanza etica lotta all’evasione

famoso reporting giurisdizione per giurisdizione (country by country), chiesto a gran voce, e da tempo, dalle stesse Ong. Ciò andrà fatto a partire dal 2017, e tra le informazioni che saranno rese note ci saranno quelle relative a fatturato, numero di dipendenti, ricavi realizzati e tasse pagate. L’obiettivo è comprendere se le imposte vengano versate altrove oppure se le multinazionali tentino semplicemente di nascondere i loro guadagni al fine di evadere.

NON PER TUTTI Si tratta, dunque, di una buona notizia. Ma che avrebbe potuto senz’altro essere condita da maggiore trasparenza. Non tutte le informazioni svelate dalle aziende saranno, infatti, rese disponibili anche al pubblico (cittadini, associazioni e mezzi di comunicazione). Potremo conoscere solo i dati dei gruppi il cui fatturato supera i 750 milioni di dollari, il che restringe il cerchio a circa il 10% delle aziende. Un peccato, anche se, sottolinea l’Ocse, esse rappresentano comunque

circa il 90% del totale in termini di fatturato. «Si tratta del principale punto debole della manovra – ha spiegato Antonio Tricarico, dell’associazione Re:Common – perché questi scambi, per numerose aziende, non saranno pubblici ma avverranno unicamente tra amministrazioni. Ciò eliminerà l’elemento di deterrenza che è stato alla base, ad esempio, della decisione del governo Cameron nel Regno Unito di muoversi di fronte agli scandali che hanno colpito Starbucks, Amazon e Google. In secondo luogo, la clausola di esclusione a 750 milioni rischia di svincolare troppe aziende. Detto ciò, è chiaro però che, in linea di principio, il fatto che finalmente si sia deciso di attuare una cooperazione internazionale sul tema non può che essere giudicato positivamente».

UN’ARMA DA AFFILARE Certo, per il buon funzionamento del programma sarà essenziale verificare la risposta dei governi: è probabile che alcuni si mostreranno non particolarmente atti-

L’hedge fund Che nOn TI ASPeTTI: APPLe è IL PIù grAnde AL mOndO Il colosso di Cupertino costruisce computer? Senza dubbio. Ma va forte anche in finanza speculativa. A rivelarlo sono l’Osservatorio francese sulle multinazionali e il centro Somo dei Paesi Bassi Il colosso informatico Apple è in realtà un gigantesco fondo speculativo. A dichiararlo è un rapporto pubblicato nello scorso autunno dalla Ong dei Paesi Bassi Somo - Centro di ricerca sulle imprese multinazionali, intitolato Rich corporations, poor Societies: The financialization of Apple. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di ricostruire il mosaico che ha portato l’associazione olandese a formulare un giudizio così duro. 20

Alla fine del 2015 l’azienda di Cupertino ha raggiunto un accordo con il fisco italiano: una sanatoria per chiudere un contenzioso legato a circa 880 milioni di euro che, secondo la procura di Milano, sono stati evasi dal colosso di Cupertino tra il 2008 e il 2013. Il gruppo aveva, infatti, omesso di presentare la dichiarazione dei redditi all’Agenzia delle entrate italiana per i ricavi centrati nel periodo in questione. Ciò grazie a un sistema che ruotava attorno a una serie di imprese: la Tech Data Italia, di proprietà dell’americana Td Corp., che a sua volta si rifornisce dalla Apple Sales International e dalla Apple Distribution International, entrambe società con sede in Irlanda. Paese nel quale, come noto, il fisco è particolarmente tenero con le imprese. La posizione nei confronti delle autorità italiane è stata poi sanata con il pagamen-

vi sulla questione, e proprio per questo Pascal Saint-Amans, dirigente dell’Ocse, ha già annunciato che il sistema sarà oggetto di una revisione nel 2020: fino a quel momento, dunque, si attraverserà in qualche modo una fase di test. Dopo il primo quinquennio si potrà stilare un bilancio complessivo del programma: soprattutto si potrà verificare quanti saranno stati i governi che avranno prontamente recepito le novità nel loro diritto interno. Il pacchetto, però, non convince del tutto le Organizzazioni non governative: «La riforma non impedirà alle imprese multinazionali di aggirare le regole del fisco per evitare di pagare le imposte», ha spiegato Manon Aubry, responsabile di Giustizia fiscale di Oxfam in una nota d’analisi. Mentre Lucie Watrinet, coordinatrice della piattaforma Paradisi fiscali dell’associazione francese CCFD-Terre Solidaire, ha osservato che «se i Paesi Ocse avessero davvero voluto riformare il sistema fiscale internazionale, avrebbero dovuto esaminare più in profondità i metodi che vengono utilizzati dalle grandi azien-

to di 318 milioni di euro: una cifra nettamente inferiore rispetto agli 880 milioni di mancati versamenti Ires reclamati inizialmente. Il che ha anche fatto storcere il naso a qualcuno (fosse stato un contribuente con un debito da 3mila euro, si sarebbe chiesto probabilmente di versare fino all’ultimo centesimo...). Le cifre in ballo sono in ogni caso impressionanti. Secondo il Centro di ricerca olandese, l’azienda «rappresenta in modo emblematico il modo in cui le multinazionali sono diventate progressivamente in grado di realizzare profitti infinitamente superiori alla loro capacità di reinvestire nell’economia reale. Queste enormi quantità di contante alimentano infatti soprattutto i mercati finanziari. Con risultati paradossali: le grandi imprese sono ricche come non mai di liquidità, senza che quasi nessuno possa giovarne. Né le economie in termini di investimenti, né i governi in termini di flussi fiscali. Ciò rafforza in modo inquietante la disoccupazione di massa, le diseguaglianze e le politiche di austerità». valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


lotta all’evasione finanza etica

de per ripartire in differenti giurisdizioni i loro ricavi». Al contrario, Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse, si è detto estremamente ottimista: «Tutti i Paesi sono colpiti dal fenomeno dell’erosione della loro base imponibile e dalla dissimulazione dei ricavi. Queste pratiche privano le economie di risorse preziose per rilanciare la crescita, per superare la crisi mondiale e per offrire ai propri cittadini maggiori opportunità». Inoltre, ha aggiunto il dirigente, l’evasione «mina la fiducia della popolazione nei sistemi fiscali. Per questo abbiamo presentato la più importante riforma delle regole internazionali da quasi un secolo a questa parte, capace di mettere sotto scacco i dispositivi di pianificazione fiscale utilizzati da alcuni gruppi». Un ulteriore passo avanti è quello che riguarda gli accordi fiscali tra grandi aziende e singoli Paesi: negli anni scorsi sono stati svelati in particolare quelli sottoscritti da Irlanda e Lussemburgo (qui nacque lo scandalo LuxLeaks). Dal 2017 sarà obbligatorio, per le nazioni coinvolte, avvisare automaticamente il Paese di

origine delle multinazionali. Mentre altre novità saranno introdotte in materia di “società schermo”, presenti nei paradisi

Un’inchiesta pubblicata dall’Osservatorio francese sulle multinazionali ricorda la crescita esponenziale vissuta da Apple negli ultimi anni. L’azienda è passata da ricavi ante-imposte pari a 1,8 miliardi di dollari nel 2005 a 54 miliardi nel 2014: «Ciò grazie da un lato al mantenimento di un livello di salari estremamente basso, grazie soprattutto alla

delocalizzazione della produzione; dall’altro grazie all’ottimizzazione fiscale». Sul primo punto, celebre è stato soprattutto lo scandalo della cinese Foxconn. Questa mole imponente di riserve, dunque, «viene investita – prosegue il rapporto del Somo – sempre più in asset finanziari. Apple si comporta come se fosse una banca o un hedge fund. Il più gran-

fiscali, nelle quali le sole multinazionali americane nascondono circa 2mila miliardi di dollari. ✱

L’UE SVELA IL SUO PACCHETTO “ANTI-OTTIMIZZAZIONE FISCALE”

Alla fine di gennaio anche la Commissione europea ha presentato un piano di lotta contro “l’ottimizzazione fiscale” delle multinazionali, che dovrà ora essere approvato dai 28 Paesi membri, e che punta a combattere quelle pratiche che – secondo uno studio del Parlamento europeo – permettono alle grandi imprese di non versare nelle casse pubbliche degli Stati comunitari una cifra compresa tra 50 e 70 miliardi di euro ogni anno. Il “pacchetto” dovrebbe comprendere due direttive e due raccomandazioni per rafforzare la trasparenza e gli scambi di informazioni tra le varie amministrazioni, e far sì che le grandi multinazionali paghino le stesse tasse che vengono chieste alle piccole imprese (normalmente le prime riescono a versare circa il 30% in meno rispetto alle seconde). In particolare, una delle proposte punta a bloccare la pratica (utilizzata di frequente) di trasferire i profitti di una casa madre verso società satelliti in Paesi meno esosi: gli Stati Ue potranno, infatti, imporre il pagamento delle tasse quando l’aliquota richiesta altrove sia inferiore al 40% di quella imposta in Europa. Inoltre la Commissione punta a sopprimere il meccanismo che consente alle imprese di “alleggerire” la dichiarazione usando strumenti finanziari strutturati. Come nel caso delle regole dell’Ocse, tuttavia, anche le novità che vuole introdurre l’Ue non prevedono che gli scambi di informazioni siano effettuati alla luce del sole. I dati, in altre parole, non saranno pubblici. Il che, secondo Manon Aubry, specialista di giustizia fiscale presso la Ong Oxfam France, «spunta la norma dell’arma più importante: quello della deterrenza».

de del mondo però». D’altra parte, le riserve accumulate da Apple (al termine del primo trimestre del 2015) erano pari a 194 miliardi di dollari: una cifra immensa, la cui maggior parte è utilizzata per operazioni legate a fondi e obbligazioni sovrane o d’impresa. Spesso, conclude la Ong olandese, in Irlanda o in altri Stati al di fuori degli Usa. [A.Bar.] ✱

evOLuzIOne deL vALOre degLI ASSeT fInAnzIArI dI APPLe

LA LIquIdITà A dISPOSIzIOne dI APPLe

160.000

200

140.000

175

120.000

150

100.000

125

80.000

100

60.000

75

40.000

50

20.000

25

FONTE: RICH CORPORATIONS, POOR SOCIETIES: THE FINANCIALIZATION OF APPLE, SOMO.NL.

FONTE: RICH CORPORATIONS, POOR SOCIETIES: THE FINANCIALIZATION OF APPLE, SOMO.NL.

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

Netherlands

Spain

Australia

Cisco Systems

Pfizer

Long Term Investments

2008

Google

2009

UK

2010

Canada

Cash and Short Term Investments

2011

Microsoft

2012

France

2013

Germany

2014

Apple

0

0

21


finanza etica premi iniqui

Salari dei manager Vince il Gattopardo di Emanuele Isonio

Otto anni dopo l’inizio della Grande crisi, gli stipendi dei dirigenti sono ancora immotivatamente alti. 183 volte più del lavoratore inglese medio. Sotto accusa finiscono i sistemi di incentivi e i loro effetti perversi

I

l fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, sancì l’avvio ufficiale della Grande crisi. Tra listini di Borsa che crollavano e dipendenti che lasciavano gli uffici con gli scatoloni in mano, finirono subito sotto accusa i compensi eccessivamente generosi garantiti ai top manager delle aziende e i meccanismi di incentivazione, che avrebbero incoraggiato rischi eccessivi e danneggiato le aziende nel lungo periodo. Il trionfo del breve-termismo. Un fenomeno comune a molte piazze finanziarie. Da Wall Street alla City di Londra. Ma i sette anni e mezzo trascorsi sembrano non essere stati sufficienti a cambiare strada: i sistemi di remunerazione degli executive manager continuano a essere perversi e a garantire compensi ingiustificatamente alti. L’analisi è contenuta nel rapporto No Routine Riches, realizzato dal think tank inglese High Pay Centre.

UNO CONTRO 183 Due i principali filoni di critiche contenuti nel dossier: l’eccessiva disparità negli stipendi interni alle aziende e lo scollamento tra i premi riconosciuti al top management e i guadagni degli azionisti. Sul primo fronte, la differenza è impressionante. Basta un calendario per percepire il divario: il 5 gennaio scorso si è celebrato in Inghilterra il Fat Cat Tuesday.

UNO A 180: IL RAPPORTO DELLA VERGOGNA

Le cifre del contatore scattano ogni 6 secondi. In quel lasso di tempo, il contenuto del salvadanaio ideale dello stipendio di un amministratore delegato delle FTSE 100 (le cento società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange) aumenta di una sterlina. Può sembrare poco ma da quando il conteggio è iniziato a quando questo numero di Valori è andato in stampa, la somma è quasi di 800mila sterline. E per fine anno, sfiorerà i 5 milioni. Giusto per fare un confronto: nello stesso periodo, un dipendente medio in Gran Bretagna ha guadagnato 180 volte meno. 22

Poco più di cento ore dopo il brindisi di Capodanno, e soprattutto dopo appena due giorni lavorativi da 11 ore ciascuno, i “gatti grassi” ( i dirigenti strapagati delle 100 principali aziende quotate nella Borsa londinese) avevano già guadagnato più del salario medio annuale di un lavoratore dipendente full time britannico. Cinque giorni contro 365. Tradotto in denaro: quasi cinque milioni di sterline (1.260 ogni ora) contro le 27.645 dell’inglese medio. 183 volte in più. E la beffa è duplice se si considera che il divario ha continuato ad ampliarsi dal 2000, con la sola parentesi del biennio 2007-2009 (vedi GRAFICO 1 ). «Compensi di queste dimensioni vanno decisamente oltre quanto è logico o necessario per incentivare i dirigenti», commenta Deborah Hargreaves, direttrice dell’istituto di ricerca. «Segno che le strutture di governance, almeno qui in Gran Bretagna, sono troppo deboli e soggette a troppi conflitti di interesse». Valutazione ancor più comprensibile se si analizza la corrispondenza tra i salari degli amministratori delegati e i risultati aziendali ottenuti: a una crescita degli emolumenti dei dirigenti non corrispondono altrettante rose per gli azionisti: mentre da inizio secolo, i primi sono cresciuti del 250%, gli utili aziendali sono aumentati cinque volte meno (poco più del 3% annuo). Ulteriore prova di quanto i compensi individuali non siano parametrati sul valore creato. Anzi, gli analisti dell’High Pay Centre si spingono oltre e sottolineano come il sistema degli incentivi sia, nel lungo periodo, controproducente per gli interessi aziendali.

AI DIRIGENTI NON CONVIENE INVESTIRE I compensi dei manager sono infatti sempre più costituiti da bonus che guardano all’andamento azionario e al numero di anni di permanenza alla guida dell’azienda. Particolarmente criticato in tal senso il Long-Term Incentive Plan (LTIP) che consiste in azioni garantite al dirigente dopo un periodo di tempo di attività, a prescindere da quanto sia crevalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


premi iniqui finanza etica grAfICO 1 SuPerdIrIgenTI e ImPIegATI: STIPendI A COnfrOnTO

grAfICO 2 regnO unITO: dAgLI AnnI ’90 InveSTImenTI In PICChIATA

FONTE: RAPPORTO “NO ROUTINE RICHES” - HIGH PAY CENTRE.

FONTE: ONS - ECOWIN (RAPPORTO “NO ROUTINE RICHES” - HIGH PAY CENTRE).

300 250 200

FTSE 100

Mid-250 CEO

Dipendenti a tempo pieno

sciuto il valore delle azioni. Ma anche altri bonus, per quanto legati all’incremento del listino di Borsa, sono considerati perversi perché, come spiega, all’interno del dossier, l’editorialista del Financial Times Andrew Smithers «incoraggiano e involontariamente ricompensano i risultati a breve termine ed evidenziano un conflitto tra gli interessi dei dirigenti da un lato e quelli dell’impresa e dell’economia nazionale dall’altro». A suffragare il ragionamento, c’è il dato degli investimenti in strumentazioni e capitale umano: elemento necessario per un’azienda che voglia sopravvivere in salute per molti anni, ma paradossalmente un freno alla crescita azionaria a breve e medio termine, perché capace di dare frutti più lentamente. Nelle aziende inglesi, tra il 1960 e il 1990, avevano seguito l’andamento del Prodotto interno lordo più o meno fedelmente. Ma, in coincidenza con l’aumento dell’uso degli incentivi per il top management, sono poi rapidamente diminuiti, anche in anni di crescita economica (vedi GRAFICO 2 ). Segnali che gli analisti britannici traducono in una serie di proposte di riforma (vedi SCHEDE ). In realtà, dal 2013, il governo di Sua Maestà aveva già approvato nuove regole ma, sostiene Hargreaves, «non sufficienti a creare un contesto in cui tutti sono ricompensati in proporzione al lavoro che svolgono». A dire il vero c’è chi, come gli ultraliberisti dell’Adam Smith Institute, difende a spada tratta la situazione attuale («Le decisioni azzeccate di un amministratore sono inestimabili. Lo dimostrano gli enormi sbalzi nel valore delle azioni quando un’impresa assume o licenzia un Ceo» osserva il suo vicepresidente Sam Bowman). Ma è la stessa Confederation of British Industry a sottolineare che stipendi tanto elevati si giustificano solo con performance altrettanto brillanti. E invita gli azionisti a monitoravalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

2013

2012

2011

2010

2009

2008

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2006

2005

2004

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2002

100

2001

150

28

4.5 4.0

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3.5 3.0

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2.5

22

2.0 1.5

20

1.0 0.5

18

0.0 -0.5

1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010

Variazioni % Pil a prezzi costanti rispetto al quinquennio precedente

16

[Investimenti fissi in % al Pil a prezzi costanti]

350

Andamento del Pil e degli investimenti dal 1960 a oggi [andamento Pil / investimenti rispetto al Pil]

400

2000

[2000=100]

Trend dei salari degli amministratori delegati delle 350 principali società, comparati con quelli di impiegati a tempo pieno - periodo 2000-2013

Investimenti fissi in % al Pil a prezzi costanti

Le PrOPOSTe deLL’HIGH PAY CENTRE 1 Abolire il LTPI

I programmi d'incentivo a lungo termine LTPI sono uno dei premi più sostanziosi. Vanno rimossi sia per l'effetto perverso che creano sia perché non sono collegati con i reali risultati conseguiti dai top manager. E sono inutili per legare l'amministratore alla compagnia: se ha investito tempo e sforzi per raggiungere un ruolo direttivo, è già legato al successo a lungo termine della sua azienda.

2 Vietare i compensi in azioni

Secondo il rapporto dell'High Pay Centre, ci sono prove che evidenziano come i dirigenti sottovalutino i loro premi in azioni, perché non sono certi del valore che potranno avere quando saranno effettivamente pagate, soprattutto se sono vincolate a lunghi periodi di differimento.

3 Ampliare i target aziendali

Il report critica i limiti delle misure di performance più utilizzate: portano con sé il rischio che i dirigenti considerino come priorità il taglio dei costi, la riduzione del personale, tralasciando invece l'importanza di investimenti a lungo termine. Ecco perché è bene rivedere tali criteri, enfatizzando il ruolo della produttività, sia perché interessa anche l'economia nazionale, sia perché un suo aumento riflette uno stile aziendale che investe in modo lungimirante.

4 Ampliare i comitati di remunerazione

I cosiddetti “remuneration committees” disegnano pacchetti retributivi connessi alle prestazioni ma spesso non li creano in modo sufficiemente critico, trasformandoli in uno stimolo per l'azione dei manager. Per questo la composizione dovrebbe essere ampliata, evitando che in essi siedano solo gli stessi amministratori della società.

5 Vietare i “golden hello”

Sono una sorta di premio di “buona-entrata”, giustificati con l'esigenza di ricompensare i dirigenti dalla perdita di LTIP causata dall'aver abbandonato altre aziende. Oltre a dimostrare che i LTIP sono inutili per trattenere in un'impresa un amministratore, i golden hello hanno l'effetto perverso di avviare un lucrativo “calciomercato” applicato al mondo del management. Questa forma di incentivo è già stata vietata in Svizzera.

re le scelte sul compenso dei manager. Dal 2013, le riforme hanno permesso di bocciare in assemblea le retribuzioni degli Ad. Ma per ora la possibilità è rimasta spesso lettera morta: a parte una piccola minoranza di azionisti critici, di solito le buste paga degli amministratori finiscono per essere approvate senza troppi clamori. ✱ 23


finanza etica il futuro della criptovaluta

Bitcoin: una moneta che fa gola a molti di Elisabetta Tramonto

 LIBRI

PER UN PUGNO DI BITCOIN di Massimo Amato e Luca Fantacci Università Bocconi Editore

Mentre uno dei fondatori ne ha annunciato il fallimento, molte banche si dimostrano interessate alla sua tecnologia. Due docenti della Bocconi hanno appena pubblicato un libro in cui ne raccontano luci e ombre

«B

itcoin è un esperimento e, come tutti gli esperimenti, può fallire. […] Mi rattrista molto l’innegabile conclusione che Bitcoin ha fallito». A scrivere questo epitaffio della famosa moneta elettronica è stato uno dei suoi fondatori, Mike Hearn, in un post pubblicato il 14 gennaio scorso, che ha fatto crollare di quasi il 20% il valore degli scambi tra Bitcoin e dollaro. Ma perché l’esperimento sarebbe fallito? «Perché la comunità ha fallito – spiega Hearn –, quello che avrebbe dovuto essere un nuovo sistema monetario, decentralizzato e non dipendente dalle istituzioni bancarie è diventato qualcosa di peggio di quel sistema bancario da cui voleva smarcarsi: un sistema completamente controllato da un pugno di persone».

L’ENTUSIASMO DELLA BANCA D’INGHILTERRA

“What I think is now reasonably clear is that the distributed payment technology embodied in bitcoin has real potential. On the face of it, it solves a deep problem in monetary economics: how to establish trust – the essence of money – in a distributed network. Bitcoin’s ‘blockchain’ technology appears to offer an imaginative solution to that distributed trust problem”. «Ritengo, ora in modo ragionevolmente chiaro, che la tecnologia di pagamenti distribuiti rappresentata dal Bitcoin abbia un reale potenziale. Risolve un grave problema dell’economia monetaria: come creare fiducia – che è l’essenza della moneta – in una rete distribuita. La tecnologia blockchain del Bitcoin sembra offrire una fantasiosa soluzione a questo problema di fiducia distribuita». Queste parole entusiaste non arrivano da un membro della comunità Bitcoin, ma da Andrew Haldane, capo economista e direttore esecutivo della Banca d’Inghilterra, la Banca centrale del Regno Unito. Le ha pronunciate il 18 settembre scorso, in un discorso in cui ha suggerito ai banchieri centrali di ridurre alcuni tipi di operazioni come il quantitative easing perché potrebbero portare a un crollo della fiducia nel sistema bancario centrale. Per risolvere il problema Haldane suggerisce di emettere una moneta digitale di Stato basata su Bitcoin. 24

È davvero fallito questo innovativo sistema di pagamento? Di Bitcoin e dei suoi “difetti” Valori aveva già scritto tre anni fa (sul numero 110 di giugno 2013). Possibile che oggi questi “difetti” abbiano superato i vantaggi? Di luci e ombre della celebre criptomoneta, creata nel 2009 dal misterioso Satoshi Nakamoto, hanno scritto due docenti dell’Università Bocconi, Massimo Amato, che insegna Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale, e Luca Fantacci, docente di Storia economica, che hanno appena pubblicato un libro intitolato “Per un Pugno di Bitcoin. Rischi e opportunità delle monete virtuali” (UBE-Università Bocconi editore, 2016).

UNA SOLUZIONE INEFFICIENTE «Bitcoin è la risposta sbagliata a una domanda giusta: la domanda di riforma del sistema monetario, che, nella sua forma attuale, è inefficiente», spiega Luca Fantacci, intervistato da Valori. «Il Bitcoin si propone come la soluzione: un sistema monetario alternativo che permette di smarcarsi dal monopolio delle banche. Peccato che non risolva affatto il problema, anzi, rischi di aggravare la distanza del denaro dal lavoro, della finanza dall’economia reale. Vale tuttavia come una provocazione per ripensare la funzione delle banche centrali, per elaborare sistemi di monete complementari che sappiano davvero promuovere e non ostacolare scambi e investimenti». È questa la tesi sostenuta dai due docenti della Bocconi. «Dal punto di vista del trasferimento del potere d’acquisto il meccanismo è vincente – continua Luca Fantacci –, il sistema dei pagamenti viene effettivamente gestito senza l’intermediazione banvalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


il futuro della criptovaluta finanza etica

L’INTERESSE DEL SISTEMA BANCARIO È questo forse l’aspetto più interessante che emerge oggi relativamente al Bitcoin: l’attenzione che i protagonisti del sistema finanziario tradizionale – banche commerciali, Banche centrali, società di venture capital – stanno dedicando alla moneta elettronica, anzi, al meccanismo che ne gestisce il funzionamento: la blockchain. «Se la moneta Bitcoin comporta dei difetti strutturali, al momento insormontabili, è la tecnologia sottostante ad essere davvero innovativa e per studiarla si stanno riversando fiumi di milioni. È un libro contabile diffuso, che consente di registrare le scritture contabili in maniera sicura, controllabile e incorruttibile su uno strumento libero, che però nessuno custodisce ed è liberamente accessibile da tutti. Il tutto viene reso sicuro dalla crittografia. La vera “utilità” di questa valuta elettronica è aver lanciato una sfida al sistema bancario, costringendolo a fare i conti con il rischio di disintermediazione. E il sistema bancario la sta raccogliendo. Al meeting di Davos il Bitcoin è stato considerato e molte banche stanno investendo per trovare applicazioni alla tecnologia della blockchain». Anche le Banche centrali stanno dedicando grande interesse al Bitcoin. Ad averlo dichiarato espressamente è stata la Banca d’Inghilterra (vedi BOX ). «Potrebbe essere una prospettiva interessante – continua Luca Fantacci – che le banche centrali, valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

grAfICO 1 CAmbIO dOLLArO/bITCOIn FONTE: BLOCKCHAIN.INFO.

Gen. ’16

Lug. ’15

Gen. ’15

Lug. ’14

Gen. ’14

Lug. ’13

Gen. ’13

Lug. ’12

Gen. ’12

Lug. ’11

Gen. ’11

Lug. ’10

Gen. ’10

Lug. ’09

Gen. ’09

[Prezzo di mercato (USD)]

1 1.200 1.100 1.000 900 800 700 600 500 400 300 200 100 0

grAfICO 2 Per ACquISTAre COSA? FONTE: SOSKA E CHRISTIN 2015.

1,00

[Quota delle vendite (media mobile a 30 giorni)]

caria. Ma sul piano della creazione di moneta è fallimentare. Come moneta, infatti, i difetti di Bitcoin sono sempre più evidenti: ha un valore estremamente volatile, è detenuta soprattutto per scopi speculativi e il suo principale utilizzo pratico è per il commercio di droga e armi (vedi GRAFICO 2 , ndr). È perfetta per traffici illeciti, perché garantisce l’anonimato. Certo, ogni transazione è tracciata, ma l’autore è identificato con uno pseudonimo. Sarebbe possibile passare alla sua vera identità, ed è stato fatto, ma con costi elevati. E, infine, il principale difetto è il fatto che la quantità di moneta in circolazione non possa essere commisurata ai bisogni, elemento fondamentale di qualsiasi sistema monetario. Un sistema con una quantità fissa e predeterminata di moneta è costitutivamente esposto a oscillazioni di prezzo e a fenomeni speculativi. Alcuni sono convinti che siano “peccati di gioventù” che Bitcoin saprà superare con la maturità. Altri, più realisticamente, cominciano ad accorgersi che si tratta di problemi strutturali della moneta bitcoin, e dedicano i loro sforzi (e ingenti investimenti) a sviluppare la tecnologia sottostante in vista di possibili applicazioni alternative».

0,75

0,50

0,55

0,00 Lug. ’13

Ott. ’13

Gen. ’14

Apr. ’14

Lug. ’14

Cannabis

Stimolanti

Psichedelici

Oppiacei

Ecstasy

Miscellanei

Benzodiazepine

Altro

Allucinogeni

Farmaci che richiedono prescrizione

Ott. ’14

Gen. ’15

Beni digitali

I NUMERI DEL FENOMENO FONTE: BITCOIN E L’ASCESA DELLA CRIPTO FINANZA, RAFFAELE MAURO 2015, LIMES.

4

LA CAPITALIZZAZIONE

miliardi di dollari

23 miliardi di dollari

100 MILA

IL VOLUME ANNUO CIRCOLANTE

LE TRANSAZIONI GIORNALIERE GLI ESERCENTI NEL MONDO CHE ACCETTANO BITCOIN

120

I BANCOMAT CHE CAMBIANO BITCOIN CON ALTRE VALUTE

deputate a creare denaro e che finora lo hanno fatto sotto forma di pezzetti di carta e metallo, domani potrebbero farlo con una moneta elettronica: contante digitale, ma emesso da un’autorità che può essere chiamata a risponderne. Una soluzione interessante che coniugherebbe i vantaggi del contante elettronico con quelli del controllo da parte di un’autorità». ✱ 25


valori fiscali

Una ricetta in 15 passi

Tasse per ridurre la diseguaglianza di Alessandro Santoro

aumento delle diseguaglianze è un fenomeno che sta caratterizzando questa fase dello sviluppo economico sia all’interno dei Paesi occidentali, o meglio di alcuni di essi, sia tra Paesi e continenti diversi. È naturale chiedersi quali politiche possano essere adottate per contrastare queste tendenze. Il tema è stato sollevato e trattato da Thomas Piketty nel suo ormai celebre testo “Il capitale nel XXI secolo”, ma viene approfondito da ormai più di un decennio con articoli scientifici e ricerche da un più ampio gruppo di economisti di cui Piketty fa parte. Tra questi, vale la pena citare Emmanuel Saez, dell’Università di Berkeley, Peter Diamond del MIT e, soprattutto, Anthony Atkinson dell’Università di Oxford. Caratteristica comune a questi economisti, e che li distingue da altri che pure hanno continuato a occuparsi del tema delle disuguaglianze anche in tempi precedenti all’ultimo decennio, è che si tratta di ricercatori di fama internazionale, autori di pubblicazioni sulle riviste accademiche più quotate e che certo non possono essere stigmatizzati come esponenti di un’ideologia o di una corrente di pensiero minoritaria. Anthony Atkinson è autore di uno dei più importanti indici di misura della diseguaglianza e a lui (e a Joseph Stiglitz) si deve il teorema fondamentale sulla tassazione indiretta. Secondo molti, avrebbe già dovuto ricevere da tempo il Premio Nobel all’Economia, che, dicono i maligni, gli è stato più volte negato solo per le tendenze iperconservatrici dell’Accademia reale svedese delle scienze. L’ultimo volume dato alle stampe da Atkinson si intitola, nella versione italiana, “Disuguaglianza.

L’

26

Che cosa si può fare?” ed è un vero e proprio vademecum di azioni e proposte per ridurre la diseguaglianza. L’autore ne elenca 15, e qui ci soffermiamo sulle quattro di carattere più squisitamente fiscale. La prima è il ritorno a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con un aumento dell’aliquota massima che, per il Regno Unito, dovrebbe arrivare al 65% (essendo attualmente pari al 45%), accompagnata da un allargamento della base imponibile. La proposta si basa sulla confutazione dell’idea opposta, dominante negli anni Novanta, secondo cui aliquote troppo elevate avrebbero l’effetto di disincentivare il lavoro e la dichiarazione dei relativi redditi da parte degli individui più produttivi e ricchi, fino ad arrivare al paradosso, espresso nella celebre curva di Laffer che ispirò la Reaganomics, di ridurre il gettito. Secondo Atkinson, questi effetti disincentivanti sono incerti e, inoltre, non di entità tale da impedire un aumento delle aliquote con effetti, invece, di incremento del gettito. Atkinson sottolinea anche come l’aumento dell’aliquota massima serva ad ampliare gli spazi per aumentare le aliquote anche sui redditi medio-alti, eventualmente aumentando il numero di scaglioni. Cruciale per l’impatto redistributivo di questa misura è l’ampliamento della base imponibile, ovvero la riduzione di tutti gli sconti fiscali (le cosiddette tax expenditures) di cui godono gli individui più ricchi. La seconda proposta di Atkinson riguarda l’introduzione a favore dei redditi più bassi, compresi nel primo scaglione, di uno sconto sui redditi da lavoro, ed è strettamente collegata alla precedente, perché consentirebbe di sterilizzare, per la prima parte del reddito di lavoro, l’aumento delle aliquote derivante dall’aumento delle aliquote dell’imposta sui redditi, aumentando ulteriormente la progressività. La terza e la quarta proposta riguardano i patrimoni. Secondo Atkinson, eredità e donazioni tra vivi dovrebbero essere assoggettati a un’imposta progressiva sugli introiti da capitale ricevuti nell’arco della vita. Più precisamente, Atkinson immagina che tali introiti vengano sommati e rimangano detassati fino a quando la somma raggiunge un valore inferiore a una soglia (che per esempio pone uguale a 100mila sterline, ovvero poco meno di 130mila euro) e poi tassati quando superano tale soglia, e solo per la differenza rispetto alla soglia. Infine, Atkinson propone un’imposta proporzionale, o progressiva, sul valore catastale aggiornato degli immobili. ✱ valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


la bacheca di valori finanza etica

 I NUMERI

3,7 MILIONI di obesi in meno nel corso dei prossimi 10 anni grazie all’introduzione nel Regno Unito di una tassa sulle bevande zuccherate (sugar tax). Lo sostiene un rapporto elaborato da due organizzazioni britanniche specializzate su temi della salute (Cancer Research UK e UK Health Forum). E ci sarebbe anche un risparmio economico notevole: 10 milioni di sterline l’anno entro il 2025 per il sistema sociale e sanitario nazionale prevenendo malattie cardiache, ictus e altri fattori negativi per la salute. Se ne parla da tempo nel Paese, l’ipotesi ha l’appoggio della maggioranza dell’opinione pubblica e ha visto recenti aperture da parte di David Cameron, ma continua ad essere osteggiata dalle multinazionali delle bevande zuccherate, in primis Unilever.

BANCHE: ALLARME COCO BOND Crollano i prezzi dei contingent convertible bonds (coco) di alcune delle maggiori banche europee. Lo segnala il Financial Times. I “coco” sono obbligazioni che si trasformano automaticamente in azioni quando il valore patrimoniale della società che li ha emessi scende sotto una certa soglia (l’emittente estingue il debito, il creditore diventa azionista). Il calo dei prezzi dei coco bond sul mercato secondario evidenzia una maggiore probabilità di “conversione” azionaria, ovvero un peggioramento dei conti dell’emittente. A febbraio i coco bond di Deutsche Bank, Unicredit e Banco Popular erano scambiati a 70/75 cents per euro contro i 95/100 di novembre.

(nel grafico: 100 è alla pari) FONTE: FINANCIAL TIMES

VALORITECA SPUNTI DA NON PERDERE NEL MESE APPENA TRASCORSO

CURIOSITÀ

I MIGLIORI TWEET DEL MESE In the 1950s large corporations contributed over 30% of federal tax revenue. Today it's less than 10 and they still ask for more tax breaks.

[Nel 1950 le grandi aziende hanno contribuito alle entrate fiscali federali per oltre il 30%. Oggi la percentuale è scesa a meno del 10% e chiedono altri tagli alle imposte] 11 febbraio Bernie Sanders @SenSanders

Titoli tossici: le cause legali negli #USA pesano per 64 miliardi di dollari sui bilanci delle banche #bassafinanza 12 febbraio Mauro Meggiolaro @meggio

The life expectancy gap between rich and poor is growing by astounding leaps [La differenza nell’aspettativa di vita tra ricchi e poveri sta crescendo con un balzo sorprendente] 16 febbraio Occupy Wall Street @OccupyWallStNYC

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

BANCHE ETICHE: IN AUSTRALIA SI PENSA ALL’AMBIENTE

Una riserva di tutela ambientale creata da una banca. È successo in Australia: Bank Australia, banca etica membro della Global Alliance for Banking on Values, ha avviato una riserva di tutela ambientale, un luogo per “coltivare” le biodiversità e per la compensazione di emissioni di carbonio di tutte le nuove case e automobili finanziate dall’istituto. Quando Bank Australia concede prestiti per case e auto, compra un lotto di terre coltivate degradate e lavora con i gruppi di salvaguardia ambientale, gruppi di comunità e scuole per piantare alberi e reintrodurre le specie native. [DA NONCONIMIEISOLDI.ORG, TRATTO DA UN ARTICOLO DI JASON SPICER E LILY STEPONAITIS COMPARSO SU COLABRADIO.MIT.EDU]

UTILI RECORD PER LA BCE

Ebbene sì, anche la Banca centrale europea ha un bilancio, che può essere in utile o in perdita come qualsiasi altra banca. A differenza delle banche commerciali, la Bce non ha tra i suoi obiettivi quello di realizzare profitti ma li genera comunque prestando denaro alle banche o vendendo e comprando cartolarizzazioni, in somme che poi tornano alle banche centrali nazionali sulla base delle quote che le stesse detengono nella Bce. Bene, nel 2015 la Bce ha realizzato un bell’utile! 1,08 miliardi di euro, in rialzo del 9,4% rispetto al 2014. 27


numeri della terra

TANTI SOLDI DA FINANZA E SANITÀ

Il club dei Paperoni 3

Warren Buffett 2015

2014

diff. %

72,7 58,2 +24,9 Berkshire Hathaway

14

Michael Bloomberg 2015

2014

diff. %

35,5 33 +7,5 Bloomberg LP

29

George Soros 2015

2014

diff. %

24,2 23 +5,2 Hedge funds

31

96

Carl Icahn

2015

2014

Patrick Soon-Shiong

diff. %

23,5 24,5 -4,1 leveraged buyout

2015

2014

diff. %

12,2 10 +22 Farmaceutico

174

Thomas Frist Jr & family 2015

7,6

2014

diff. %

6,1 +24,6 Sanità

STATI UNITI 60

Ray Dalio

2015

2014

diff. %

15,4 15,2 +1,3 Hedge funds

69

Ronald Perelman 2015

2014

diff. %

14,5 14 +3,6 leveraged buyout

76

James Simons 2015

2014

14 12,5 +12 Hedge funds

di Emanuele Isonio Gira a velocità diverse il mondo della ricchezza. Ha spesso ritmi vorticosi quello dorato della piccola élite di miliardari (in dollari). Viaggia a passo d'uomo, e innesta non di rado la retromarcia, quello dei comuni mortali. In questo arricchimento a geometrie variabili, due settori più di altri dimostrano di essere alleati dei Paperoni: la finanza e l'industria farmaceutica. Ha interessi principali in banche, investimenti e assicurazioni il 20% dei 1.645 super-ricchi della lista Forbes 2015. Nella top10 dei “trader”, che presentiamo nella mappa di questo mese, c'è tanta Wall Street, guidata dagli inossidabili Buffett e Soros, insieme all'ex sindaco di New York con aspirazioni presidenziali, Mike Bloomberg. Solo tre i non statunitensi: due latinoamericani e un principe saudita. Più internazionale la platea dei big della sanità, con l'India in pole (3 su 10) grazie al boom dei farmaci generici. Ma il numero 1 è in questo caso l'abruzzese Stefano Pessina, “l'imperatore delle farmacie” con 13mila punti vendita in 11 Stati. In un solo anno il suo patrimonio è cresciuto del 16% superando i 12 miliardi. Nello stesso periodo, il reddito medio degli italiani è restato pressoché fermo a 34.700 dollari. 28

diff. %

REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

57.139* 54.629

56.811* 52.980

+0,6

+3,1

COLOMBIA REDDITO MEDIO 2013 US$

REDDITO MEDIO 2012 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

4.680** 7.903

4.373** 8.028

+7

-1,6

85

Luis Carlos Sarmiento

2015

2014

diff. %

13,4 14,2 -5,7 Banche

BRASILE REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

7.104** 11.384

6.655** 11.711

+6,7 -2,8

52

Joseph Safra 2015

17,3

2014

diff. %

16 +8,1 Banche

valori / anno 16 n. 136 / MARZO 2016


ricchi e poveri a confronto

SVIZZERA

GERMANIA

REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

57.082* 85.594

56.461*

+1,1

84.669

Ernesto Bertarelli 2015

8,8

2014

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

43.872*

149

+1

REDDITO MEDIO 2014 US$

diff. %

43.326*

47.822

12 -26,6 Biotech

+1,2

46.442

+3

230

Curt Engelhorn 2015

2014

diff. %

6,2 4 +55 Farmaceutico

ITALIA REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

34.744* 34.908

34.476* 35.420

+0,7 -1,4

SVEZIA REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

40.994*

99

Stefano Pessina 2015

2014

diff. %

12,1 10,4 +16,3 Farmacie

40.447*

58.939

121

+1,3

60.283

-2,2

318

Frederik Paulsen 2015

5

Massimiliana Landini Aleotti 2015

2014

2014

5 Sanità

diff. %

--

diff. %

10,4 11,3 -8 Farmaceutica

INDIA REDDITO MEDIO 2012 US$

REDDITO MEDIO 2010 US$

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

1.435** 1.581

ARABIA SAUDITA REDDITO MEDIO 2014 US$

REDDITO MEDIO 2013 US$

DIFF. %

PIL PRO CAPITE 2014

PIL PRO CAPITE 2013

DIFF. %

19.029** 24.161

17.410** 24.646

+9,3

DIFF. %

+8,6

208

34

2014

1.455

DIFF. %

+39***

Cyrus Poonawalla 2015

6,6

diff. %

22,6 20,4 +10,8 investimenti

I 10 miliardari più ricchi (dalla lista del 2015) che hanno fatto la loro fortuna (o almeno parte di essa) grazie ad attività collegate al settore finanziario, e l’incremento della loro ricchezza tra marzo 2014 e marzo 2015 valori / anno 16 n. 136 / MARZO 2016

44

Dilip Shanghvi 2015

2014

diff. %

20 12,8 +56,2 Farmaceutico

-2

Principe Alwaleed Bin Talal Alsaud 2015

1.027**

I 10 miliardari più ricchi (dalla lista del 2015) che hanno fatto la loro fortuna (o almeno parte di essa) grazie ad attività collegate al settore farmaceutico e sanitario, e l’incremento della loro ricchezza tra marzo 2014 e marzo 2015

N ricchezza 2014

Settore

diff. %

diff. %

4,9 +34,7 Vaccini

posizione in classifica forbes 2015

Nome Cognome

ricchezza 2015

2014

254

Desh Bandhu Gupta 2015

2014

diff. %

5,8 3,2 +81 Farmaceutico

fonTi per daTi box sTaTi: * oecd, per impieghi a Tempo pieno. Valori a prezzi cosTanTi e a pariTà di poTere d'acquisTo; ** ufficio sTaTisTico ilo (inTernaTional labour organizaTion); *** differenza biennale Tra 2010 e 2012; World bank (per pil pro capiTe 2013 e 2014). per paTrimoni dei miliardari: archiVio forbes

29


GONZALO GONZALO

fotoracconto 04/04

Dagli slogan nelle piazze a strategia di marketing per la propria impresa: una sorta di vendetta perpetrata dagli imprenditori che hanno dovuto tirare avanti nonostante le porte in faccia ricevute quando hanno chiesto prestiti in banca.

“I cani possono entrare, i banchieri no (salvo diritto d’entrata di 70mila euro)” ha scritto alexandre Callet sulla vetrina del suo ristorante Ecuries de richelieu nel centro di rueilmalmaison, Comune dell’Île-de-France. La mossa gli è valsa grande eco nei giornali d’oltralpe. Il giovane imprenditore si è rivolto l’anno scorso a otto banche per ottenere un prestito: la metà glielo ha negato, l’altra metà non ha mai risposto. Passando dalla Francia alla Spagna, la situazione non cambia. a La roja, tra Pamplona e Bilbao, Gonzalo Gonzalo, enologo e viticoltore, si è rivolto, nel 2013, alle banche per ottenere un prestito di 6mila euro. ovviamente rifiutato. allo sportello gli dissero che il vino «non è un bene pignorabile». Lui il vino l’ha prodotto comunque: 90% Tempranillo e 10% Graciano. Il nome scelto è una dedica al direttore di banca: “Gran cerdo”. Cerdo, in italiano, vuol dire porco.

30

Nella foto grande: l’etichetta del vino polemicamente dedicato dal viticoltore spagnolo Gonzalo Gonzalo ai direttori di banca che nel 2013 gli rifiutarono un prestito di 6mila euro.

Qui sopra: l’imprenditore Alexandre Callet accanto al “divieto” anti-banchieri che ha messo in bella vista sulla vetrina del suo ristorante Ecuries de Richelieu a Rueil-Malmaison. valori / ANNO 16 N. 136 / marzo 2016


investi responsabilmente

Salvaguardia dell’ambiente

Finanza: la risposta nei green bond www.finanzasostenibile.it www.investiresponsabilmente.it info@finanzasostenibile.it

a cura del Forum per la Finanza Sostenibile l cambiamento climatico e le problematiche ambientali ad esso connesse occupano il primo posto nella classifica dei più rilevanti rischi a livello globale stilata dal World Economic Forum in vista del meeting di Davos (che si è svolto dal 20 al 23 gennaio scorso). È la prima volta, negli undici anni di vita del rapporto, che il rischio clima occupa il vertice della lista. Il campanello di allarme del WEF va a unirsi ai numerosi avvertimenti lanciati negli ultimi anni da organizzazioni e autorità internazionali: da ultimo la Conferenza di Parigi COP21 del dicembre scorso, che ha ribadito l’importanza del tema, sancendo un chiaro e deciso impegno a livello globale per gestire e ridurre i rischi derivanti dal climate change. Oltre a costituire una priorità nell’agenda politica, le problematiche ambientali sono un tema cruciale dal punto di vista economico-finanziario: secondo una stima del gruppo assicurativo tedesco Munich Re, negli ultimi dieci anni le perdite economiche connesse al climate change sono passate da una media annua di 50 miliardi a 200 miliardi di dollari l’anno; mentre l’Università di Cambridge ha calcolato che da qui al 2020 il valore del capitale investito potrà deprezzarsi del 45% a causa di cambiamenti nella politica ambientale, novità tecnologiche ed eventi meteorologici1. L’industria finanziaria è pertanto chiamata ad agire direttamente nei confronti delle problematiche ambientali emergenti, adottando un comportamento proattivo, orientato alla ricerca di soluzioni in favore di un’economia low carbon. Una delle risposte più innovative è rappresentata dai green bond (“obbligazioni verdi”): strumenti finanziari che associano all’emissione di un titolo di debito un investimento vantaggioso per l’ambiente, consentendo agli investitori di indirizzare i capitali verso progetti orientati alla riduzione delle emissioni, alla gestione sostenibile dei rifiuti e delle risorse idriche, alla tutela della biodiversità, all’efficientamento energetico. Quello dei green bond è un mercato in crescita, che ha conosciuto negli ultimi anni un incremento esponenziale, arrivando nel 20152 a circa 40 miliardi di dollari di emissioni complessive a livello globale (+272% rispetto al 2013). Le obbligazioni sono emesse in prevalenza (61%) da organizzazioni internazionali come la World Bank o la European Investment Bank, che nel 2007 ha lanciato la prima obbligazione verde; la restante parte delle

I

valori / ANNO 16 N. 136 / marzo 2016

emissioni (39%) fa riferimento a obbligazioni aziendali, emesse soprattutto da multi-utility come GDF Suez (ora ENGIE) in Francia o, nel nostro Paese, il Gruppo Hera. Mentre il mercato cresce – Moody’s stima che nel 2016 si supereranno i 50 miliardi di dollari – la principale esigenza degli operatori è quella di fare chiarezza in merito al perimetro di applicazione dei green bond e alla valutazione degli impatti ambientali. In risposta a tale esigenza l’International Capital Market Association (ICMA) ha identificato – con il supporto degli operatori di mercato – una serie di principi (Green Bond Principles) riguardanti, in primo luogo, il processo di selezione e di gestione dei progetti e, secondo, la fase di rendicontazione. Occorre precisare che non è stato identificato uno standard di riferimento, bensì un sistema di certificazione volontaria, volto ad aumentare la trasparenza nei confronti degli investitori e a facilitare la valutazione e la comparabilità dei progetti finanziati. In effetti l’identificazione di criteri e indicatori condivisi pare essenziale, anche in vista dell’ingresso nel mercato dei green bond di economie emergenti quali India e Cina; inoltre, la nuova politica ambientale post COP21 è chiamata a creare un quadro normativo favorevole alla diffusione di questi strumenti innovativi. Sempre più attenzione sarà dedicata alle obbligazioni verdi: per la loro portata innovativa, non si limitano a finanziare attività meritorie sul piano ambientale, ma – prendendo in considerazione anche criteri sociali e di governance (ESG) – possono influenzare prodotti e processi nel quadro di uno sviluppo sostenibile integrato. La finanza per l’ambiente diventa dunque un driver in grado di mettere in relazione gli investitori responsabili con le imprese, comprese le piccole e medie imprese, disposte a modificare i processi di produzione per facilitare la transizione a un’economia low carbon. La contemporanea crescita di consapevolezza da parte dei consumatori/risparmiatori verso questi prodotti non può che incentivare ulteriormente gli interventi positivi, finalizzati a mitigare gli effetti del riscaldamento globale. ✱ http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-11-12/climate-risk-may-hitportfolios-hard-now-cambridge-study-finds

1 2

Climate Bonds Initiative “Year End Review 2015” – www.climatebonds.net

31


32

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


ECONOMIA SOLIDALE

GLIFOSATO & CO. I TANTI DUBBI SUI CRITERI EFSA

L

di Emanuele Isonio

L’Agenzia per la Sicurezza alimentare Ue è finita nell’occhio del ciclone per le decisioni sul celebre pesticida. Ma non è l’unico caso controverso: alla base dei sospetti, il metodo di valutazione utilizzato per giustificare i propri pareri valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

a questione è squisitamente tecnica e forse per questo è stata sottovalutata dai media italiani. Ma ciò non le evita di avere serie conseguenze sulla vita (e la salute) dei cittadini europei: al centro della vicenda c’è l’Efsa, l’Agenzia europea per la Sicurezza alimentare finita sotto i riflettori per la decisione con la quale, nel novembre scorso, ha contraddetto il pronunciamento della Iarc (l’Agenzia dell’Organizzazione mondiale della Sanità specializzata nelle ricerche sul cancro) che definiva “probabilmente cancerogeno” il glifosato. Da più parti, dopo la discussa decisione sull’erbicida più utilizzato al mondo (è presente nell’11% dei campioni alimentari controllati a livello europeo), sono stati ricordati i conflitti d’interessi in seno all’Efsa, oggetto di numerosi interventi da parte delle istituzioni comunitarie (ultima, in ordine di tempo, una sentenza del Mediatore europeo, vedi ARTICOLO ). Ma, risolvere il problema dei rapporti grigi tra scienziati e aziende, per quanto rilevante, potrebbe non bastare a evitare casi analoghi in futuro. 33


economia solidale sicurezza alimentare sotto attacco RICHIESTE DI AUTORIZZAZIONE AD EFSA: QUADRUPLICATE IN CINQUE ANNI FONTE: EFSA

1.000

800

* I dati di questo grafico sono i più recenti a nostra disposizione. Abbiamo chiesto un aggiornamento all’ufficio stampa di Efsa ma senza esito.

600

400

200

0

2003

2004

Richieste di autorizzazione

2005

2006

2007

2008

2010*

Altri pareri / rapporti scientifici

UNA DENUNCIA GIÀ NEL 2009 A monte dei controversi pareri Efsa ci sono i criteri utilizzati per decidere se autorizzare o vietare la commercializzazione di una sostanza. La denuncia è autorevole ed è stata firmata da 36 biologi europei, statunitensi e giapponesi (tra loro gli italiani Stefano Parmigiani e Paola Palanza dell’Università di Parma e la senese Francesca Farabollini). Quello che sconcerta è la data dell’articolo, apparso sull’Environmental Health Perspectives, giornale dell’Istituto americano per l’Igiene ambientale: 3 marzo 2009. Già sette anni fa, gli scienziati facevano riferimento a un altro caso: quello del bisfenolo A (Bpa), una sostanza molto usata nei contenitori plastici – dalle bottiglie d’acqua ai biberon – sospettato di

essere un pericoloso interferente endocrino, in grado di danneggiare il sistema ormonale umano e animale.

COME SI SCELGONO GLI STUDI? In quell’occasione l’Efsa, insieme alla sua omologa americana Food and drug Administration, aveva autorizzato l’uso del Bpa, basandosi su due studi condotti da laboratori commerciali e non considerando invece centinaia di ricerche degli Istituti nazionali di Sanità di numerosi Paesi. Motivo? Efsa e FdA hanno deciso di considerare, per i propri pareri, solo gli studi realizzati secondo un approccio noto come “Buona pratica di laboratorio” (Bpl). «Tale metodo – spiega Carlo Modonesi, docente di Ecologia umana e coordinatore del gruppo di

COMMISSIONE UE SORDA AI DUBBI: "Sì AL GLIFOSATO PER ALTRI 15 ANNI"

La Commissione europea è pronta ad autorizzare per i prossimi 15 anni l'uso del glifosato, il controverso erbicida alla base di numerosi prodotti usati nell'agricoltura convenzionale, a partire dal Roundup della Monsanto. La denuncia arriva dal gruppo dei Verdi al Parlamento europeo che hanno preannunciato la decisione ufficiale per il 7-8 marzo, quando sul tema dovranno esprimersi i rappresentanti dei governi degli Stati membri. Nel frattempo, il 24 febbraio, la bozza di provvedimento di riapprovazione del pesticida fino al 2031 è stata resa disponibile al Parlamento europeo. Dopo la decisione dell'Efsa che ha contraddetto le conclusioni dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Oms e ha negato la cancerogenicità del prodotto, la scelta era nell'aria. Ma questo non ha eliminato le proteste: «È scandaloso che la Commissione 34

2009

lavoro sui pesticidi dell’Isde, associazione Medici per l’Ambiente – è stato ideato per la valutazione dei farmaci e codifica una serie di regole accettate a livello mondiale per garantire qualità, affidabilità e integrità degli studi, oltre che la tracciabilità dei dati e l’affidabilità delle conclusioni». Il sistema apparentemente migliore per garantire i consumatori dai rischi di tossicità. Ma quel che vale per i farmaci e in laboratorio non vale necessariamente nel caso di sostanze pensate per essere diffuse nell’ambiente. Più o meno una ripetizione, in ambito alimentare, di quanto avvenuto nei test per le emissioni nocive delle auto che hanno inguaiato la Volkswagen: «L’esempio è perfetto per capire i dubbi degli esperti – osserva Modonesi – perché la situazione di laboratorio difficilmente si ripete nella vita reale, in particolare nel caso di sostanze che, disperse nell’ambiente, possono essere assorbite involontariamente dall’uomo». D’altro canto, già nell’articolo del 2009, i 36 firmatari sottolineavano come l’approccio Bpl «non specifica nulla circa la qualità del progetto di ricerca, le competenze dei tecnici, la sensibilità degli strumenti o se i metodi impiegati sono attuali o ormai antiquati. È fonte di grande preoccupazione che gli organismi regolatori europei e americani siano disposti ad accettare studi imperfetti, antiquati e finanziati dall’industria come prove di sicurezza mentre considerano non validi gli esiti di un numero molto elevato di indagini accademiche e governative».

europea stia decidendo semplicemente di ignorare le diffuse preoccupazioni della comunità scientifica circa i rischi per la salute e voglia estendere l'uso del glifosato per altri 15 anni senza prevedere alcuna restrizione» ha osservato il responsabile Agricoltura e Salute pubblica dei Verdi europei, Martin Häusling. «Le conclusioni dell'Organizzazione mondiale per la Sanità che ha definito “probabilmente cancerogeno” il pesticida, dovrebbero portare a una moratoria globale del suo utilizzo. Tuttavia, le lobby industriali hanno condotto un'aggressiva campagna di pressione per mantenerlo in commercio». A prevalere, secondo i parlamentari ecologisti, dovrebbe essere il rischio di precauzione: «La Commissione, tra l'altro, non sta pensando ad alcun vincolo sull'uso del glifosato, nonostante la stessa Efsa abbia ammesso rischi a lungo termine per il sistema mammario e non siano stati adeguatamente valutati le proprietà d'interferenza sul sistema endocrino umano» conclude Häusling. valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


sicurezza alimentare sotto attacco economia solidale

QUELLE BIRRE TEDESCHE AL SENTORE DI ERBICIDA

A sette anni da quella denuncia, poco o nulla è cambiato. Dal bisfenolo al glifosato, il problema del metodo di valutazione rimane. E rischia di minare la credibilità di un’authority sempre più cruciale per l’igiene pubblica, chiamata a dare un numero di valutazioni quintuplicato in pochi anni (vedi GRAFICO ). «I panel tecnici che analizzano le richieste – ammette Modonesi – sono composti sempre da scienziati di alto livello e dei quali ho massima stima. Ma le procedure di valutazione sono inadeguate. Per risparmiare tempo e costi, si è deciso che Efsa dovesse valutare e confrontare i risultati di studi effettuati da altri organismi anziché dargli il potere di effettuarne di propri. Ma fare un mero confronto tra i dati della letteratura scientifica non è sempre sufficiente». Il rischio è che, sull’altare del (temporaneo) risparmio, si ponga a repentaglio la salute pubblica. ✱

Augustiner, Beck's, Bitburger, Erdinger, Franziskaner, Hasseroeder, Jever, König Pilsener, Krombacher, Oettinger, Paulaner, Radeberger, Veltins, Warsteiner. È lungo l'elenco delle birre tedesche che, secondo le analisi dell'Istituto per l'Ambiente di Monaco di Baviera, sono risultate contaminate dal diserbante glifosato. Per la birra non esiste un limite massimo ma i valori registrati nelle marche analizzate oscillano tra 0,46 e 29,74 microgrammi, fino a 300 volte superiori al limite di 0,1 microgrammi consentito nell'acqua potabile. L'Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (BfR, di cui parliamo nell' ARTICOLO a pag. 36) ha subito sottolineato che «un adulto dovrebbe bere mille litri di birra al giorno per assumere una quantità di glifosato preoccupante per la salute» ma ha definito «plausibili dal punto di vista scientifico» i residui del diserbante nella birra. L'Unione dei birrai tedeschi ha invece puntato il dito sull'importazione di malto d'orzo. Quale che sia la causa, il colpo per l’immagine delle storiche bevande è palese. Ma non è la prima volta che un prodotto alimentare rischia la reputazione causa pesticidi. Tre anni fa, toccò alla Francia: l'associazione di consumatori Ufc-Que Choisir fece analizzare 92 bottiglie di vino vendute tra i 2 e i 15 euro. In tutte furono trovate tracce di pesticidi. Il massimo (14 diserbanti diversi) fu riscontrato in un Bordeaux del 2010 venduto a 10,45 euro. E ancora oggi le preoccupazioni permangono: proprio a Bordeaux, il giorno di San Valentino, si è tenuta una manifestazione di protesta per l'uso di pesticidi nei vigneti, ai quali, pur rappresentando appena il 7% delle superfici agricole europee, è destinato il 70% degli agenti fitosanitari. I manifestanti hanno chiesto un controllo europeo sul cosiddetto “effetto cumulativo” dei pesticidi sull'organismo umano. Il fatto che in Francia Parkinson e Alzheimer siano riconosciute come malattie professionali dei viticoltori non fa certo ben sperare.

CONFLITTI D’INTERESSE L’EURO-OMBUDSMAN CONTRO EFSA Accolta la denuncia di una Ong inglese: l’Agenzia per la Sicurezza alimentare dovrà dotarsi di norme più severe «L’Efsa non è riuscita a garantire che i propri esperti provenienti dal mondo accademico dichiarino tutte le informazioni utili» e quindi «dovrebbe rivedere le proprie norme sui conflitti di interesse e le relative istruzioni attualmente utilizzate per compilare le dichiarazioni di interessi». Al lungo elenco di istituzioni che hanno nel tempo valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

espresso pareri contro i pericoli di rapporti inappropriati tra le aziende del mondo agrochimico e i tecnici dell’Agenzia europea per la Sicurezza alimentare si aggiunge anche l’Ombudsman europeo, l’organismo comunitario che indaga sulle denunce relative a casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o di altri enti della Ue. La decisione contro l’Efsa è arrivata dopo un iter durato due anni. Nel 2013, Genewatch, ong inglese impegnata a monitorare le attività nell’ambito delle tecnologie genetiche, aveva segnalato al Mediatore europeo il caso di un ricercatore del gruppo di

lavoro sugli Ogm di Efsa, Michael Bonsall, che non aveva dichiarato i finanziamenti per alcune ricerche nel campo delle biotecnologie ricevuti dall’ateneo di appartenenza (la prestigiosa Università di Oxford) da parte di un’azienda produttrice di insetti geneticamente modificati ad uso agronomico, la Oxytec (tra gli azionisti, con il 12,5% di azioni, proprio l’ateneo inglese, che si sarebbe quindi potuto arricchire grazie a una commercializzazione degli insetti). Il gruppo di esperti lavorò sugli Ogm tra il 2010 e il 2013. continua a pagina 36 35


economia solidale sicurezza alimentare sotto attacco

LE zONE GRIGIE DEL BFR DI BERLINO In Germania le critiche non mancano, soprattutto da parte dei movimenti ambientalisti. Il 28 settembre 2015 il BUND (Associazione per l'ambiente e la tutela della natura) ha pubblicato un'analisi sul processo di valutazione del glifosato in cui si accusa apertamente il BfR di essere vicino all'industria chimica. Roland Solecki, direttore del dipartimento “Sicurezza dei pesticidi" del BfR avrebbe «collaborato per anni, e almeno fino al 2015, con rappresentanti dell'industria», si legge nell'analisi. Nel 2006 è stato

co-autore di uno studio dell'ILSI/HESI (Istituto per la scienze ambientali e della salute finanziato dai big della chimica e dell'agricoltura) assieme a rappresentanti di Basf, Bayer CropScience, Dow AgroSciences, DuPont Crop Protection, Monsanto e Syngenta. Il tema dello studio era, guarda caso, la «semplificazione dei test sui pesticidi». Solecki ha inoltre coordinato una serie di workshop del Centro Europeo per l'Ecotossicologia e la tossicologia delle sostanze chimiche (ECETOC), un'associazione che rappresenta gli interessi delle multinazionali della chimica e del petrolio ed è stato, fino al 2015, membro del gruppo di lavoro per il progetto “Risk21" dell'ILSI/HESI, «un'iniziativa finanziata dalle industrie dove, tra le altre cose, si sviluppano nuove procedure per la valutazione del rischio dei pesticidi». All'interno del gruppo di lavoro siedono ricercatori di Monsanto, Syngenta e Dow Chemical. «Le stesse imprese – continua l'analisi di BUND – che hanno presentato al dipartimento di BfR diretto da Roland Solecki le pratiche per la valutazione del glifosato». Dal 2015 lo stesso Solecki è anche membro del comitato scientifico dell'Efsa ma, nella dichiarazione sui potenziali conflitti di interessi, avrebbe omesso di citare le sue collaborazioni con l'ILSI/HESI. E quindi non possiamo sorprenderci se, come ha dichiarato il parlamentare tedesco dei Verdi Harald Ebner, «il BfR continua a interpretare male il principio di “precauzione" che dovrebbe guidare le sue analisi». L'unica precauzione adottata, spiega Ebner, pare essere quella di «evitare la pubblicazione di risultati critici su determinati composti». ✱

propria decisione – che le università lavorino a stretto contatto con aziende per portare avanti le ricerche e commercializzarne i risultati. La tradizionale convinzione che un ateneo è necessariamente e automaticamente indipendente deve essere rivista, per riflettere le nuove, profonde relazioni tra accademici e tessuto produttivo». Un’esigenza giustificata con l’obiettivo di garantire che gli esperti scelti da Efsa siano «liberi di fornire consulenze, senza essere indebitamente influenzati da parti interessate» perché «agli occhi dei cittadini, qualsiasi so-

spetto di una mancanza di indipendenza deve essere evitato». Una doccia fredda arrivata dopo che l’Agenzia europea aveva rivisto, nel luglio 2014, la propria policy sul conflitto d’interessi, per renderla ancora più stringente. Nelle nuove regole, aveva deciso di equiparare a impieghi a tempo pieno le consulenze dei propri ricercatori. E aveva deciso di considerare come “organizzazioni pubbliche”, dalle quali poter selezionare gli scienziati per i gruppi di analisi, solo le realtà finanziate per più del 50% con soldi pubblici. [Em.Is.] ✱

Decisione pro-glifosato: top secret i nomi degli esperti di Emanuele Isonio e Mauro Meggiolaro

Dei 73 scienziati che hanno deciso di non inserire il famoso pesticida tra le sostanze cancerogene, solo 14 hanno autorizzato l’Efsa a rivelare la loro identità. Nel gruppo, nessun tedesco. Si rinfocolano i sospetti sui legami con i colossi della chimica

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anno provato a scoprire i nomi di chi ha deciso, il 12 novembre scorso, che il glifosato non presenta rischi di cancro per l’uomo, ma, nella maggior parte dei casi, si sono visti opporre un netto rifiuto. Il tentativo è stato portato avanti dal Corporate Europe Observatory (Ceo), un gruppo di ricerca olandese che ha presentato all’Efsa una richiesta di accesso agli atti, per scoprire l’identità dei 73 esperti nazionali che hanno partecipato alla revisione sul pesticida più diffuso al mondo. Ma a quella richiesta, solo 14 autori (meno del 20%) ha permesso che il proprio nome fosse di dominio pubblico. E, aspetto che ha lasciato interdetti gli esponenti del Ceo, tra quei 14 non c’è nessun esperto della Germania, Stato relatore del provvedimento pro-glifosato. L’organismo referente a livello comunitario per i pesticidi, che collabora a filo doppio con l’Efsa, è il tedesco BfR (Istituto federale per la valutazione dei rischi), che, in base ai propri criteri, permette ai dipendenti delle aziende chimiche l’accesso ai suoi panel di valutazione.

segue da pagina 35 Dalle accuse della ong, Efsa, davanti al Mediatore, si è difesa sostenendo che l’incarico in una università sia sufficiente a non dover considerare mai in conflitto d’interessi lo scienziato. UNIvERSITà NON SEMPRE INDIPENDENTI Una posizione rigettata dall’Ombudsman europeo, l’irlandese Emily O’Reilly: «È sempre più frequente – ha argomentato nella 36

«Nel proprio gruppo sui pesticidi – rivelano dal Ceo – siedono impiegati dei giganti chimici Bayer e Basf». Nonostante la replica di BfR che ricorda come «le valutazioni sono realizzate da personale BfR mentre gli esperti esterni possono solo fungere da consiglieri ma non sono coinvolti a nessun livello nella rivalutazione del principio attivo glifosato», non si può escludere che siano proprio loro a celarsi dietro i nomi secretati dell’elenco Efsa.

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


nuovi stili di vita in fiera economia solidale

Economia nuova in vetrina Torna a Milano l’appuntamento con il consumo critico, l’equosolidale e la sostenibilità. Tra economia circolare, spezie dal mondo e turismo a basso impatto, una gamma di antidoti alla finanza predatoria

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

APPUNTAMENTI

18-20 MARZO 2016

Milano

Fa’ la cosa giusta!

Anche quest’anno Valori sarà a “Fa’ la cosa giusta!” Ci trovate ospiti di Banca Etica (Stand SP 04, Padiglione 4)

© LUANA MONTE

delle attività culturali, “Fa’ la cosa giusta!” dedica un’area, fisica e tematica, ai Percorsi e grandi itinerari italiani ed europei. Un luogo dove presentarsi per associazioni di promozione territoriale, artigiani, prodotti tipici, circuiti di accoglienza al pellegrino, comuni e regioni attraversati dai cammini (quello per Santiago di Compostela, la via Francigena, quelli di San Benedetto e San Francesco), nonché soggetti e territori protagonisti delle esperienze di trekking. Un mondo di economie locali trasversali, tra le gioie del palato e un turismo sostenibile sempre in crescita: il cicloturismo, ad esempio, che secondo uno studio del Parlamento europeo avrebbe un giro d’affari da più di 50 miliardi di euro l’anno. E se non bastasse, quest’anno arriva lo Speziale. L’antica bottega del farmacista si trasforma in un progetto che profuma di tradizione, rinnovando il gusto per le spezie e gli aromi di tutto il mondo. Non solo d’Africa e d’Oriente, ma anche e soprattutto di casa nostra: un’area dove degustare differenti miscele di tè, acquistare il peperoncino e lo zafferano, scoprire la storia delle saline italiane. E poi laboratori creativi per realizzare un vero e proprio mappamondo con gli infiniti colori del curry, del cumino e del pepe, che lascia grandi e piccoli visitatori ad occhi e narici spalancati. ✱

© LUANA MONTE

R

educi dai miasmi degli scandali bancari recenti, una boccata di economia reale, alternativa e sostenibile, non può che far bene. Con questo spirito approda a Milano da giovedì 18 a domenica 20 marzo la XIII edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Che si ripromette di raggiungere i 75mila visitatori del 2015 e conferma la scelta dei padiglioni di Fieramilanocity, la “vecchia” fiera milanese, tanto per mostrare da subito un’attenzione ai temi del riuso. Tra i molti i temi portanti della manifestazione l’economia circolare, protagonista del convegno della giornata di apertura: Verso l’economia circolare: innovazione, prassi e visione. Un’economia circolare di cui spesso avete letto su queste pagine (vedi il dossier di Valori di maggio 2014) e che, a partire dal convegno iniziale, allarga il dibattito all’intera tre giorni milanese, grazie a due temi collaterali: quello degli “attivatori di spazi pubblici”, cioè le realtà sociali e imprenditoriali che cercano di dare nuova vita ai territori abbandonati in contesti urbani; e quello dei “territori resistenti”, ovvero aree di montagna o extraurbane da valorizzare, dove in difficili contesti ambientali, talvolta a rischio di spopolamento, si portano avanti comunque attività produttive di interesse (in fiera incontrerete il progetto Ciboprossimo e l’esperienza innovativa della Scuola del ritorno in montagna). Lo spazio, insomma, come fonte di rinascita socioeconomica. Da non sprecare. Ma anche da attraversare senza impatto sull’ambiente, e da assaporare sia con gli occhi che con l’olfatto. Non per nulla, in questo 2016 proclamato “anno nazionale dei cammini” dal ministero dei Beni e

di Corrado Fontana

 LINK Fa’ la cosa giusta! http://falacosagiusta.org Giacimenti urbani www.giacimentiurbani.eu Ciboprossimo www.ciboprossimo.net

> 18 marzo ore 16, Piazza Pace “La resa dei conti: dai salvataggi delle banche ai conti correnti a rischio” > 20 marzo ore 12, Piazza Caes “Tessile tossico, via le sostanze dannose dai nostri vestiti”, con Greenpeace e la campagna Detox 37


economia solidale indipendenza nei semi

Le molte vie della biodiversità di Corrado Fontana

Tra il mondo del bio, che dal basso forza le regole, e il programma pubblico di ricerca in biotecnologie sostenibili, il miglioramento genetico dei semi in agricoltura si fa tema caldo

«L’

obiettivo è diventare indipendenti. Se per acquistare sovranità all’interno delle aziende agricole dovremo sostituire le sementi, fa solo parte del processo»: parole semplici, pacate, ma combattive, pronunciate da Giuseppe Li Rosi. È un coltivatore siciliano, da diversi anni ha abbracciato la pratica del miglioramento genetico partecipativo dei semi tramite miscugli, ovvero l’impianto nella terra di popolazioni miste di semi di grano tenero e incroci, lasciate poi evolvere liberamente di raccolto in raccolto. È il contadino a selezionare le varietà migliori secondo esigenze proprie e di maggior adattamento al clima e al suolo, per poi ripiantare la nuova popolazione così stabilita. Una tecnica di miglioramento che esalta la biodiversità, collaudata da decenni e che non richiede competenze scientifiche né l’acquisto di semi industriali, ma permette al contadino di produrseli autonomamente. Una tecnica che oggi balza agli onori della cronaca, sia perché l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab)

vI RICORDATE LA RICERCA PUBBLICA?

Riparte la ricerca pubblica, viva la ricerca pubblica. Partiamo innanzi tutto da qui, perché erano anni che più che tagli di personale e riduzioni di budget non si vedevano nei laboratori italiani. E, tanto meno, investimenti importanti sull’agricoltura. E, invece, in questi primi mesi del 2016 arriva la notizia di uno stanziamento da 21 milioni di euro per un piano triennale di ricerca coordinato dal Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) sul miglioramento genetico tramite le biotecnologie dette “sostenibili” del genome editing e della cisgenesi (non Ogm transgenici, tanto per semplificare). Soldi che saranno ripartiti – non si sa ancora in quali percentuali e per quali progetti specifici – su diverse specie (vite, olivo, pomodoro, pesco, albicocco, agrumi, frumento, melanzana, melo, ciliegio, pioppo) in due ambiti: la parte di bioinformatica – sempre più es38

ne sta facendo una bandiera della sua campagna ColtiviAMO BIOdiversità-bene comune, presentata all’inizio di febbraio, sia perché, quasi contemporaneamente, il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf ) annunciava lo stanziamento nell’ultima Legge di stabilità di ben 21 milioni di euro, destinati a un programma pubblico di ricerca triennale in biotecnologie sostenibili, fondato però su due altre metodologie: il genome editing e la cisgenesi (vedi GLOSSARIO ).

senziale per sfruttare i dati di sequenziamento del genoma, spesso prerequisito per sviluppare programmi di miglioramento genetico mirati – e la parte di laboratorio e sperimentazione in campo. Molte piante da frutto, quindi, e arboree, oltre che ortaggi e frumento, che saranno oggetto di studio a partire dal sequenziamento del genoma (vedi GLOSSARIO ) e dalle necessità di miglioramento concordate innanzitutto durante un incontro svolto in Expo 2015 tra enti di ricerca, società scientifiche e grandi soggetti privati del settore vivaistico e sementiero. E tre saranno i filoni di miglioramento genetico su cui si punterà per rafforzare le specie italiane già eccellenti (ma evidentemente segnate da alcune fragilità): la maggiore resistenza agli agenti patogeni (parassiti e malattie); l’adattamento ai cambiamenti climatici; l’incremento della qualità delle produzioni («sia con riferimento al potenziamento delle proprietà salutistiche e nutraceutiche, sia diminuendo la necessità di ricorrere all’uso dei fitofarmaci», specifica il Mipaaf). valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


indipendenza nei semi economia solidale

 GLOSSARIO CISGENESI Tecnica di laboratorio che trasferisce all’interno della stessa specie – o di altra sessualmente compatibile – geni che sarebbe possibile introdurre anche con metodi classici. GENOME EDITING Modificazione della struttura di specifici geni d'interesse nel corredo genetico (genoma) di un organismo vivente.

L’EUROPA NON DICE NO Aiab e Mipaaf non battono insomma la stessa strada, ma concordano nel ritenere il patrimonio di biodiversità una chiave per il futuro sviluppo agricolo nazionale, ed entrambi vogliono che l’Europa si pronunci a favore del loro percorso. L’Italia – con Olanda e altri Stati membri – si fa forte, infatti, di valutazioni già espresse da Svezia e Usa e vuole una sorta di crisma di onorabilità per genome editing e cisgenesi, chiedendo «che Bruxelles faccia chiarezza sulla diversità di queste biotecnologie rispetto al transgenico», riaffermando così per l’ennesima volta il rifiuto degli Ogm. Il mondo del bio auspica che le tecniche di miglioramento genetico partecipativo, ad oggi autorizzate in Europa nella forma della sperimentazione, possano trasformarsi in una pratica accettata senza incertezze. Finora invece erano incagliate in un susseguirsi di programmi di ricerca a termine (Solibam, poi Cobra e ora Diversifood). L’Ue autorizza lo scambio di “modiche quantità” di miscugli di semi, ma non grazie a una legge, bensì per una deroga che concede lo scambio di miscugli, solo per “frumento, orzo, avena e granturco”.

IL BIO NON SI ACCONTENTA Il presidente di Aiab Vincenzo Vizioli è cauto («non vogliamo essere eversivi e non vogliamo che le aziende che aderiscono al progetto poi vengano sanzionate») e auspica persino il sostegno del Mipaaf. La campagna dell’associazione del bio italiano in qualche modo forza la mano alle istituzioni: ColtiviAMO BIOdiversità, portata avanti con la Rete Semi Rurali e sotto la supervisione dell’agronomo Salvatore Ceccarelli (spesso interpellato anche da Valori), offre infatti i miscugli e la consulenza necessaria per la loro evoluzione alle aziende agricole biologiche che aderiranno, impegnandole allo scambio reciproco dei semi. E va oltre: «A cominciare da Toscana, Emilia-Romagna e Marche – spiega Ceccarelli – stiamo cercando di costituire delle filiere cortissime, in cui una rete di agricoltori sia accoppiata ai mulini a pietra che macinino il grano prodotto da questi miscugli e ai forni locali per la panificazione delle farine. Pervalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

DAL PUBBLICO AL PRIVATO. E RITORNO Le caratteristiche del nuovo programma di ricerca pubblica e le necessità del mercato nelle parole del commissario del CREA, Alessandra Gentile. Che si augura sia solo il principio «Il nostro Paese è leader di alcune produzioni, ma sconta la contraddizione di non possedere i materiali genetici di proprietà da impiantare», così la professoressa Alessandra Gentile, docente di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree a Catania, nonché commissario dell’Ente CREA, punta immediatamente il dito verso una criticità che forse ha condizionato – finalmente – anche la politica. E poi specifica: «Questo accade perché l’attività di breeder (letteralmente “allevatore”, ndr) è sempre più in mano a società private invece che alla ricerca pubblica, la quale è rimasta in qualche modo in stand by per lungo tempo a causa degli alti costi che impone questo tipo di attività, mentre i privati hanno spesso ottenuto novità genetiche investendo in autonomia e in proprio. Ora accade però che queste novità genetiche dei privati provengano da materiali sviluppati in ambienti diversi dal nostro, e così, spesso, l’agricoltore e il frutticoltore si trovano a impiantare varietà che dopo alcuni anni risultano non essere le più indicate per il nostro territorio, generando così una sorta di affaticamento dell’intero sistema. Senza contare l’importanza di valorizzare il patrimonio di agro-biodiversità di cui l’Italia è assolutamente ricca». Nel programma triennale non c’è nessuna compromissione con gli Ogm transgenici rispetto ai quali l’Italia ha opposto un rifiuto in tutte le sedi? L’ottenimento degli Ogm prevede l’inserimento di Dna estraneo all’interno di un individuo. E questo Dna estraneo può essere prelevato da qualsiasi altro essere vivente (batteri, funghi) e da qualsiasi specie vegetale, anche sessualmente incompatibile con la varietà da migliorare. Il programma finanziato dal ministero prende invece in considerazione altre due tecniche che oggi appaiono efficaci e utilizzabili con successo. Innanzitutto la cisgenesi, che permette di realizzare un trasferimento di Dna tra individui che potrebbe avvenire tranquillamente in natura, cioè un passaggio di Dna come avverrebbe in un incrocio tradizionale quando il polline di una varietà sessualmente compatibile raggiunge lo stigma di un fiore di un’altra varietà. Il programma si esaurisce in ambito pubblico o avrà necessariamente bisogno di interagire con il settore privato? Il pubblico esegue la ricerca ma abbiamo assolutamente bisogno del privato, da cui derivano le istanze, le esigenze degli agricoltori per indicare gli obiettivi da perseguire, avendo la consapevolezza delle necessità determinate dal mercato. ✱

ché in ogni regione nascano nuclei di questo tipo, nei quali da una parte si coltiva biodiversità e dall’altra parte gli agricoltori sono più forti, grazie alla costanza di produzione che – si è visto – i miscugli garantiscono». ✱ 39


economia solidale equità sociale

La diseguaglianza accorcia la vita di Paola Baiocchi

62 super ricchi nel 2015 possedevano quanto 3,6 miliardi di persone. Nel 2010 la stessa quota di ricchezza era nelle mani di 388 multimiliardari. Con la crisi cresce il divario tra remunerazione del capitale e del lavoro

L

a disuguglianza sociale crea solchi più profondi di quanto si possa pensare: vuol dire differenze nell’aspettativa di vita anche di tre anni tra i quartieri poveri e quelli ricchi della stessa città. Lo spiega l’epidemiologo Giuseppe Costa, con il percorso di un tram che attraversa Torino dalle colline dove abitano gli Agnelli alle periferie operaie, perdendo ad ogni fermata mesi di vita. Con la stessa mappa, Costa documenta anche che nelle zone più povere di Torino è più alto il rischio di infarto, ma che ci si cura di più nei quar-

tieri ricchi. Ma non solo: chi è ricco ha più accesso alle cure e allo stesso tempo, essendo più colto, vive di più perché evita stili di vita più pericolosi. L’istruzione può essere un grande “ascensore sociale”. Ma anche qui la diseguaglianza di classe gioca il suo peso, spiega il sociologo Fabrizio Bernardi: «Studenti bravissimi riescono comunque ad andare avanti negli studi, anche se provengono da ceti non abbienti. Mentre quelli non bravi e poveri si bloccano più facilmente di fronte a una difficoltà rispetto a quelli più ricchi, perché non possono

DIvERSI ANCHE NEL CLIMA: PER I RICCHI FA MENO CALDO

[popolazione mondiale classificata per reddito (decili)]

super ricchi inquinano molto: Oxfam stima che il famoso 1% emetta con il suo stile di vita, fatto di jet esclusivi, anche 175 volte di più del 10% più povero. Una tesi già illustrata da Hervé Kempf nel suo libro La Ong Oxfam, in occasione della Conferenza sul clima di Parigi, ha Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo. pubblicato il report Disuguaglianza climatica: i suoi dati dimostrano Quella climatica è una crisi provocata dai ricchi ai danni dei più poche le persone più povere del Pianeta sono quelle che hanno le mi- veri, dice Oxfam, quindi le responsabilità per i cambiamenti climatici nori responsabilità nel provocare i sono da ripartire in modo differente cambiamenti climatici, e sono an- DISTRIBUZIONE DEL REDDITO GLOBALE non solo tra Paesi, ma anche per E LIVELLO DI EMISSIONI ASSOCIATO AI CONSUMI che quelle maggiormente vulneraclassi sociali: nei Paesi ricchi si osFONTE: OXFAM. bili alle loro conseguenze e meno in servano le stesse “diseguaglianze [percentuale di emissioni di CO prodotte dalla popolazione mondiale] grado di affrontarle. Secondo Oxclimatiche”. Gli abitanti più poveri di Il 10% più povero della popolazione mondiale è responsabile 10% 49% di circa la metà delle emissioni associate ai consumi. più ricco fam la metà più povera del mondo è alcuni stati Usa come Louisiana, 19% responsabile di circa il 10% delle Mississippi e Alabama sono i più 11% emissioni associate ai consumi (vecolpiti in caso di alluvioni costiere, 7% di GRAFICO ); si tratta di 3,6 miliardi di così come i più devastati dall’urapersone che abitano per lo più nelgano Katrina sono stati i quartieri 4% l’Asia centro-meridionale, in Mediodella popolazione di colore. Infine, 3% riente, Africa e Sud America. Mentre povere tra i poveri e maggiormente 2,5% Il 50% più povero della il 49% delle emissioni associate ai esposte ai rischi del surriscalda2% popolazione mondiale 50% consumi è prodotto dal 10% più ricmento globale ci sono le donne, alè responsabile di circa più 1,5% il 10% delle emissioni povero co della Terra, che vive per un terzo le quali vanno rivolte particolari poassociate ai consumi. 1% negli Usa. Nonostante siano pochi i litiche di promozione sociale. 40

2

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


equità sociale economia solidale

FONTE: ELABORAZIONI SU DATI DELLO STUDIO LONGITUDINALE TORINESE - SERVIZIO SOVRAZONALEDI EPIDEMIOLOGIA ASL TO3.

77.8

78.2

79.4

82.1

SPERA NZA DI VITA ALLA NASCITA Uomini

“compensare”, magari con delle ripetizioni. Anche dopo laureati quelli ricchi possono avvalersi di un effetto “spintarella” per collocarsi meglio nel mondo del lavoro. Bisognerebbe pensare – continua Bernardi – sistemi di sostegno che aiutino in caso di momentanee difficoltà nel corso degli studi. O far pagare rette universitarie più elevate a studenti ricchi ma non bravi. Di certo l’Italia – conclude Bernardi – è un Paese profondamente diseguale». In questo primato della diseguaglianza siamo ai livelli della Gran Bretagna e degli Usa.

GRAFICA SU DATI OXFAM CONTENUTI NEL RAPPORTO “WORKING FOR THE FEW” WWW.STAMPAPRINT.NET/IT

REDDITO NEGLI ANNI 2000 A TORINO

LIBRI

LA GRANDE FRATTURA di Joseph E. Stiglitz Einaudi, 2016

CAUSE DA CERCARE LONTANO La consapevolezza che la crescita della diseguaglianza negli ultimi cinquant’anni sia da ricercare nella deregolamentazione, nelle privatizzazioni, nella diminuzione del carico fiscale verso i più ricchi, nei paradisi fiscali e nella somma di tutte le politiche varate in difesa del grande capitale e del suo accumulo, è condivisa dall’economista Joseph Stiglitz, che ha appena pubblicato una raccolta di suoi scritti sull’argomento (La grande frattura) e dalla organizzazione internazionale Oxfam, che poco prima della convention a Davos dei decisori mondiali ha presentato Un’economia per l’1%, un rapporto con i numeri delle dispari opportunità, che segnala come le differenze siano aumentate anche per il “declino globale dei sindacati del settore privato”. Una cessione di rappresentanza che ha smesso di bilanciare gli eccessi, che ora si palesano in tutta la loro violenza “dall’erosione delle regole democratiche all’indebolimento della coesione sociale”, con l’aumento della produttività da lavoro che non è seguita dall’aumento delle retribuzioni e 62 sconosciuti personaggi che nel 2015 possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Per raggiungere la stessa quota di ricvalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

chezza nel 2010 ci volevano 388 supermiliardari. Segno che non è in atto una crisi economica, ma lo spostamento di ingenti quote delle ricchezze nazionali dal reddito dei lavoratori verso i profitti da capitale. Con l’eccezione dell’America Latina, dove cresce il reddito da lavoro e in Cina, dove si sono realizzati numeri importanti per la diminuzione globale dei poveri.

LA VIA D’USCITA Come si esce dalla diseguaglianza? Secondo Oxfam si devono riequilibrare i poteri all’interno delle economie nazionali e globali, dando un ruolo a chi è escluso e tenendo sotto controllo l’influenza dei ricchi e potenti. Il primo obiettivo della comunità internazionale dovrebbe essere l’eliminazione dei paradisi fiscali, poi salari più dignitosi per i lavoratori e parità di genere. Un nuovo carico fiscale sulle spalle dei più ricchi e la spesa pubblica usata per combattere la diseguaglianza. ✱

 LINK Il rapporto Oxfam sulla diseguaglianza economica www.oxfamitalia.org/wp-content /uploads/2016/01/RapportoOxfam-Gennaio-2016_-UnEconomia-per-lunopercento.pdf Il rapporto Oxfam sulla diseguaglianza climatica www.oxfamitalia.org/wp-content /uploads/2015/12/mb-disugua glianza_clima_021215-IT.pdf 41


la bacheca di valori economia solidale

BASTA SOSTANZE TOSSICHE NEL TESSILE DI PRATO

Un passo avanti verso una moda “pulita”. Venti aziende del distretto tessile di Prato hanno sottoscritto l’impegno Detox di Greenpeace, lo standard più elevato per una produzione senza sostanze tossiche nel settore della moda. Si tratta del più grande distretto tessile d’Europa, rappresenta circa il 3% della produzione tessile europea ed esporta ogni anno più di 2,5 miliardi di euro di prodotti di abbigliamento realizzati per alcuni dei marchi internazionali più famosi tra cui Burberry, Prada, Valentino, Armani e Gucci. Per la prima volta lo standard Detox viene adottato collettivamente da intere filiere produttive. L’accordo interessa più di 13 mila tonnellate di filati e materie prime e oltre 13 milioni di tessuto prodotti ogni anno.

L’elenco delle aziende che hanno aderito sul sito HYPERLINK www.confindustriatoscananord.it /sostenibilita/detox

VALORITECA SPUNTI DA NON PERDERE NEL MESE APPENA TRASCORSO

IL RAPPORTO

Circular economy in Europe Developing the knowledge base Un taglio di centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente ogni anno: potrebbe essere il primo risultato di una svolta dell’Europa verso un modello di economia circolare. A fare i conti è l’Agenzia europea per l’ambiente, che ha pubblicato il rapporto Circular economy in Europe - Developing the knowledge base (Economia circolare - Sviluppare la conoscenza di base). Come ricorda il rapporto, l’economia circolare propone un modello basato sul riciclo e sul rinnovo delle risorse, al posto di un’economia lineare take-make-consume-dispose (prendiproduci-consuma-butta). Secondo il rapporto, già “solo” con il riciclo dei rifiuti urbani e da imballaggio e con la riduzione dei rifiuti smaltiti in discarica, il taglio delle emissioni di gas serra potrebbe arrivare fino a 424-617 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente entro il 2030.

I NUMERI

1.000 MILIARDI $ Il valore del cibo che ogni anno viene buttato nelle pattumiere di tutto il mondo. I dati sono frutto dell’iniziativa “Alimentare la salute”, promossa dalla Fondazione Enpam. La cifra sale a 2.600 miliardi se si considerano i costi “nascosti” legati all’acqua e all’impatto ambientale. In Italia lo spreco di cibo domestico vale complessivamente 8,4 miliardi di euro all’anno.

Il rapporto: www.eea.europa.eu/publications/circular-economy-in-europe

NIENTE BANCOMAT A CASTEL SANT’ANGELO È il quinto sito italiano più visitato, terzo museo per visitatori (oltre un milione quelli registrati nel 2014) e un introito lordo di oltre 5 milioni di euro, ma la biglietteria del Museo nazionale di Castel Sant'Angelo non accetta pagamenti con carta. Per fortuna che in Italia doveva essere incentivato l’uso del denaro elettronico! 42

APPUNTAMENTI MILANO

18-20 MARZO

Fa’ la cosa giusta!

Valori sarà presente allo stand SP04-PADIGLIONE 4 e organizza due convegni Venerdì 18 marzo, ore 16.00 - Piazza Pace “Tessile tossico” (con Greenpeace)

Domenica 20 marzo, ore 12.00 - Piazza Caes “Banche alla resa dei conti” valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


social innovation

Reagire agli shock climatici

Resilienza e Impact Investing di Andrea Vecci

HTTPS://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / RUSSELL WATKINS/DEPARTMENT FOR INTERNATIONAL DEVELOPMENT

iù volte sulle pagine di Valori abbiamo presentato l’evoluzione della cosiddetta finanza d’impatto (nel numero 109 e nello speciale del numero 121) trovando nell’impostazione sottostante a un Social Impact Bond alcuni punti di contatto con la finanza green. Nel 2013 due cicloni hanno colpito la costa orientale dell’India e la costa orientale delle Filippine causando poche decine di morti a fronte di tempeste che, nelle stesse posizioni e con la stessa forza 15 anni prima, avevano ucciso decine di migliaia di vite: i sistemi di allarme e di evacuazione hanno fatto la differenza. Anche se la perdita di vite umane è stata ridotta al minimo, l’impatto sulle condizioni di vita resta grave: case danneggiate, barche da pesca distrutte, colture decimate. Com’è possibile affrontare e superare uno shock ambientale sapendo che un’altra tempesta di dimensioni simili potrebbe ricacciare le comunità al punto di partenza? La frequenza crescente e l’impatto di questi shock climatici ostacola il progresso in molte parti del mondo, soprattutto quelle più povere: si stima che il 30% degli investimenti dedicati alla cooperazione internazionale venga dirottato sulle ricostruzioni post disastro naturale. Occorre sperimentare nuovi approcci all’assistenza umanitaria e allo sviluppo, ottimizzando gli investimenti che curano quelle vulnerabilità sistemiche responsabili di trasformare uno shock in un vero e proprio disastro. La resilienza è la capacità di individui, comunità, organizzazioni e sistemi di sopravvivere, adattarsi e crescere a fronte di urti e sollecitazioni. Più che una risposta ai disastri, la resilienza si concentra sugli investimenti che possono essere fatti prima, non solo sulla

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valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

mitigazione del rischio. La resilienza tiene conto delle capacità e dei punti di forza degli ecosistemi locali o della forte coesione culturale tra le risorse di una comunità, caratteristiche da sfruttare non solo in tempi di crisi, ma ogni giorno. È possibile così individuare un “dividendo d’impatto”: una comunità resiliente minimizza, ad esempio, la quantità di famiglie colpite, oppure aumenta la sicurezza economica e la salute, o più in generale, massimizza la velocità alla quale una ripresa può iniziare, diminuendo il fabbisogno di aiuti. Fondazione Rockefeller, Stanford University e Oxfam hanno analizzato i modelli climatici dell’Africa sub-sahariana da cui dipende l’agricoltura, lanciando così un programma di assicurazione del raccolto in Etiopia che protegge gli agricoltori poveri in periodi di siccità in cambio del loro lavoro su progetti comunitari, come la costruzione di bacini irrigui, per migliorare la resilienza contro le future stagioni secche. Con il programma 100 Resilent Cities sempre la Fondazione Rockefeller intende introdurre il metodo pay for success che sta alla base dell’impact investing, anche sul tema della resilienza urbana, essendo le città soggette a terremoti, incendi, inondazioni, ma anche a quelle sollecitazioni che ne indeboliscono il tessuto come l’elevata disoccupazione, un sistema di trasporto pubblico inefficiente, tassi di violenza alti, carenza cronica di cibo e acqua. Sia nel contesto urbano che nel contesto dello sviluppo decentrato, gli investimenti in resilienza d’impatto possono contribuire a un maggiore progresso economico e sociale, migliorando nel complesso le funzioni di base sia in tempo di crisi ambientale che in tempi normali. Investire nella resilienza di un sistema ha come effetti quello di migliorare le capacità di previsione e la gestione del rischio ambientale o di un rischio sistemico. I Resilience Impact Bonds potrebbero finanziare una serie di progetti di rafforzamento degli ecosistemi naturali e urbani per infrastrutture su piccola scala. Non possiamo prevedere quando e dove capiterà la prossima catastrofe, ma saremo in grado di controllare meglio i modi e i tempi di risposta a queste sfide. Investire in resilienza consentirà di migliorare le capacità di adattamento alle sollecitazioni ambientali e a trasformarle in opportunità di crescita. ✱ Maggiori approfondimenti sul blog Social Innovation di valori.it

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INTERNAZIONALE

I VOLI DELLE ARMI ATTERRANO IN PROCURA

L

di Emanuele Isonio

L’Italia continua a spedire bombe all’Arabia Saudita impegnata nella guerra contro lo Yemen. Ma il governo tace. La Rete Disarmo ha quindi presentato una serie di esposti per verificare il rispetto della legge 185/90 valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016

a scacchiera è quella della Penisola arabica, ma gli interessi in gioco sono tutti tricolore. A giocare la partita c’è, da un lato, il governo italiano e, dall’altro, le associazioni riunite nella Rete italiana per il disarmo, che da tempo stanno cercando di ottenere informazioni sui frequenti carichi di armi che partono dal nostro Paese alla volta dell’Arabia Saudita per essere poi utilizzate nei bombardamenti in territorio yemenita in un conflitto condannato dalle Nazioni Unite e già da mesi indicato come la peggiore tra le emergenze umanitarie dall’Ocha (l’ufficio Onu di coordinamento per gli Affari umanitari, vedi MAPPA ). Ma Palazzo Chigi, di fronte alle richieste di informazioni e chiarimenti, sceglie di arroccarsi dietro silenzi e risposte evasive. La coalizione pacifista cambia quindi strategia e gioca di sponda: a fine gennaio, con una conferenza stampa alla Camera dei deputati annuncia di aver presentato una serie di esposti in diverse Procure. Obiettivo: chiedere alla magistratura di verificare se, nell’invio di armi all’Arabia Saudita, effetti-

La foto di una bomba inesplosa scattata in Yemen da un fotografo-attivista pacifista. Grazie al codice scritto sulla superficie è stato possibile appurare che le bombe usate sono italiane. 45


internazionale l’export della morte EMERGENZE UMANITARIE IN MEDIO ORIENTE E NORDAFRICA FONTE: OCHA (UFFICIO ONU DI COORDINAMENTO PER GLI AFFARI UMANITARI)

Totale rifugiati

57,6 milioni di persone bisognose di aiuti umanitari

13,5 m

2,4 m

di persone bisognose 74% della pop. totale 10,1 m di persone bisognose 28% della pop. totale

5,2 m

8,1 m di persone bisognose 30% della pop. totale

di persone bisognose 39% della pop. totale

2,3 m di persone bisognose 48% della pop. totale

Syria Afghanistan

Iraq

Libia

21,2 m di persone bisognose 82% della pop. totale

Yemen

vamente è stata rispettata la legge 185/90, la norma che regola il commercio di armi, giudicata unanimemente come molto innovativa ma interpretata, nel corso del tempo, in modo sempre meno rigoroso dai diversi governi. Le associazioni sospettano infatti che, autorizzando la vendita di armi alla Royal Air Force saudita, l’esecutivo abbia violato il punto chiave della legge 185, che vieta espressamente

5 VIAGGI NEL MIRINO

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non solo l’esportazione, ma anche il transito e l’intermediazione di materiali di armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato» e verso Stati «la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione».

LE FOTO CONFERMANO GLI INVII Roma e Milano sono state le prime Procure coinvolte dagli esposti. Seguite, nelle

settimane successive da Brescia (sede centrale di RWM Italia, filiale dell’azienda tedesca Rheinmetall, fornitrice delle bombe aeree), Cagliari (dove i carichi di armi sono partiti per il Medio Oriente), Verona, Pisa, Perugia, La Spezia e Como. «In questo modo – spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo – speriamo di far partire più indagini e tenere alta l’attenzione su una vicenda sconcertante che sta esacerbando un conflitto responsabile finora di quasi seimila morti di cui circa la metà tra la popolazione civile e 830 tra donne e bambini». Inizialmente il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha negato: «L’Italia non vende bombe all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen», diceva il 4 dicembre scorso. Ma Rete Disarmo, insieme al deputato sardo ex Pdl, Mauro Pili, ha ricostruito le spedizioni avvenute in poche settimane (vedi SCHEDE ): i carichi finiscono tutti nella penisola saudita. E l’utilizzo in territorio yemenita delle bombe fabbricate a Domusnovas in Sardegna dalla RWM è stato appurato grazie alle fotografie effettuate da Ole Solvang, ricercatore della Ong Human Rights Watch. Dalle foto degli involucri esplosi si legge chiaramente la sigla NCAGE A447, che identifica la provenienza italiana. «Per di più – rivela Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal di

29 ottobre 2015 PARTENZA DA

Aeroporto di Cagliari Elmas In pieno giorno diverse tonnellate di bombe e munizioni sono state imbarcate su un Boeing 747 della compagnia azera Silk Way con destinazione Arabia Saudita: il cargo, rintracciato dai sistemi di rilevamento, è giunto a Taif, sede di una base militare della Royal Saudi Armed Forces.

19 novembre 2015 PARTENZA DA

Aeroporto di Cagliari Elmas Il secondo invio dall'aeroporto di Cagliari avviene di notte. E, per rendere più difficile fotografare le armi, la fase di carico viene rapidamente nascosta con un bus aeroportuale. Anche in questo caso, secondo quanto affermato dal deputato sardo Mauro Pili, l'invio riguarda ordigni della fabbrica RWM di Domusnovas.

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


l’export della morte internazionale

Brescia – considerate le ingenti forniture di bombe aeree della RWM Italia avvenute in questi mesi, riteniamo che si tratti di nuove autorizzazioni all’export rilasciate direttamente dall’attuale governo». «Ci auguriamo – osserva ancora Vignarca – che la Magistratura, o chi di dovere, prenda presto in esame il nostro esposto e che, finché la materia non sia accertata, possa sospendere immediatamente l’invio di bombe e materiali militari verso l’Arabia Saudita».

PARLAMENTO SCAVALCATO Ma alla base dell’esposto della Rete Disarmo c’è anche un altro aspetto: gli invii sono stati effettuati senza il previo parere del Parlamento, previsto sempre dalla legge 185. «Non ci risulta – conclude Vignarca – che le Camere siano state consultate in merito a queste spedizioni, anzi sono state presentate diverse interrogazioni alle quali il Governo non ha ancora dato risposta». Le uniche voci a parlare sono arrivate dalla Farnesina: il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, replicando a un’interpellanza urgente del gruppo Sel di Montecitorio, aveva sostenuto a inizio dicembre, che «il governo rispetta scrupolosamente gli embarghi e le altre misure di carattere restrittivo adottate a livello inter-

“EMBARGO EUROPEO ALL’INVIO DI ARMI” L’EUROPARLAMENTO Dà SCACCO AI SAUDITI

A Strasburgo si racconta di forti pressioni saudite per fermare il voto, o quanto meno arginare i danni. Ma i tentativi sono falliti: il 25 febbraio, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione urgente che chiede alla Commissione e, in particolare, al vicepresidente Federica Mogherini, di decretare lo stop alla vendita di armi europee all'Arabia Saudita. L'esito non era affatto scontato: il testo base della risoluzione prevedeva solo un generico appello a cessare la guerra in corso. A rafforzarne il contenuto, un emendamento presentato da socialdemocratici, liberali, verdi, sinistra europea e Cinquestelle: nel testo, oltre a formulare la richiesta di embargo, si denuncia come «la continua concessione di licenze di vendita di armi ai sauditi sarebbe in violazione della posizione comune del Consiglio Ue dell'8 dicembre 2008». Fino all'ultimo il Paese mediorientale ha tentato di bloccare il voto. Prima facendo pressioni sulla delegazione di parlamentari europei in visita a Ryad nelle settimane precedenti. Poi diplomatici sauditi a Bruxelles hanno tentato di far edulcorare il contenuto della risoluzione, trovando – sostengono fonti vicine ad alcuni eurodeputati – qualche sponda negli uffici di Mogherini. Alla fine però l'emendamento è passato con 359 sì e 212 no. «Questo voto – commenta il coordinatore di Rete Disarmo, Francesco Vignarca – riconosce il lavoro delle Ong per il disarmo contro l'impatto negativo delle armi europee nel conflitto in Yemen. Ora è responsabilità della Commissione Europea implementare questa forte posizione politica».

nazionale». E il suo “superiore”, il ministro Gentiloni, rispondendo al deputato pentastellato, Manlio Di Stefano, aveva minimizzato le esportazioni: «L’Arabia Saudita – affermò in aula – non è il primo Paese destinatario delle nostre esportazioni. Nel 2014 è stato il sesto e, l’anno prima, l’Italia è stata preceduta nelle esportazioni verso Riad da Regno Unito, Francia e Germania. Siamo quindi quelli che esportano meno verso l’Arabia Saudita». ✱

16 gennaio 2016 PARTENZA DA

22 novembre 2015 PARTENZA DA

Porto di Olbia (via Piombino) Un convoglio di quattro tir, scortati da vigilanza privata, parte alle 14 dalla fabbrica RWM nel Sulcis e, percorrendo la Statale 131, arriva al molo Cocciani del porto di Olbia. Lì i tir vengono imbarcati su un cargo Moby Lines. Partono così per la penisola saudita, dopo una sosta a Piombino, altre mille bombe Mk83.

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14 dicembre 2015 PARTENZA DA

Porto di Cagliari Dopo l'aeroporto di Elmas e il porto di Olbia, viene scelto il porto canale di Cagliari per l'invio di mille bombe della RWM. Lo rivela ancora una volta il deputato di Unidos, Mauro Pili: l'operazione, coperta da codice di riservatezza assoluta, è scattata alle 13.48 dall'attracco più lontano, irraggiungibile dai teleobiettivi. La nave cargo – la Hanne Danica – batte stavolta bandiera danese.

Aeroporto di Cagliari Elmas Nel cuore della notte spicca il volo l'ultimo carico finora inviato dalla Sardegna al governo saudita. Come per gli altri invii aerei, è stata utilizzata la compagnia SilkWay. I camion della RWM Italia sono arrivati alle 22 e da quel momento, fino alle 5.30 del mattino, il piazzale aeroportuale è stato riservato alle operazioni di carico.

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internazionale città blindate

L’aria pulita dei quartieri alti di Corrado Fontana

Dietro la spinta globale alla urbanizzazione dai Paesi emergenti nascono città chiuse, che sono specchio di diseguaglianza e ossessione per la sicurezza

G

ated cities (in italiano “città chiuse, recintate”) che spuntano come funghi in tutto il mondo, ma soprattutto nei Paesi emergenti. Progettate secondo diversi gradi di separazione rispetto al modello urbano che il secolo scorso ci ha consegnato; ora inarrivabili per l’alto costo di case e servizi al loro interno (il cuore della City di Londra), ora letteralmente circondate da alte mura e sistemi di sorveglianza armata e hi-tech (barrios privados in Argentina, condominios fechados in Brasile), grazie ai quali le nuove classi sociali più abbienti si possano sentire al sicuro e – solo – tra pari. Nuovi complessi a vocazione essenzialmente residenziale (Aria City, Kabul, Afghanistan) o anche commerciale (Liverpool ONE e Cabot Circus in Inghilterra) per l’alta borghesia arrembante, o veri e propri golden ghettos (“ghetti dorati” tutti piscine e resort di lusso). Interi quartieri incastonati in aree urbane di maggiori proporzioni o cittadine e

Prima città dell’India costruita da zero da un privato (la Hindustan Construction Company del magnate Ajit Gulabchand), grazie a un controverso megaprogetto da 30 miliardi di dollari che occuperà un centinaio di chilometri quadrati, a 250 km da Nuova Delhi. Il marchio Lavasa è frutto di uno studio di marketing statunitense ed è il modello di smart city propagandato dal premier indiano Narendra Modi. Realizzata secondo standard abitativi e urbanistici d’eccellenza (il primo progetto fu pensato da Le Corbusier nel 1947), offre gli appartamenti meno costosi a cifre comprese fra 17mila e 36mila dollari.

Lavasa, Pune, India

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villaggi di nuova costruzione, dotati di ogni servizio: dalla scuola d’élite all’ospedale – d’eccellenza, naturalmente – (Clifford Estate, Guangzhou, Cina), dagli impianti sportivi ai campi da golf (Aamby Valley City, India), fino al circuito per auto da corsa (Punta del Este, Uruguay); e quant’altro possa attirare l’investimento dell’upper class del Paese in cui sono realizzati, compreso il panorama naturale da sogno (Lavasa, India) o un livello di inquinamento acustico e dell’aria ridotto rispetto a quello dei quartieri poveri rimasti oltre la recinzione (Ciputra, Hanoi, Vietnam).

TUTTI DENTRO Il fenomeno è planetario e non uniforme per caratteristiche, senza dati complessivi per analizzarlo. Ma alcune stime pubblicate sul britannico The Guardian dicono che il Messico vanterebbe il maggior numero di comunità chiuse (gated com-

Ciputra Hanoi International City, Hanoi, Vietnam

È un quartiere di lusso esteso su 300 ettari tra il fiume Rosso e il West Lake, realizzato a partire dal 2000. Progettato per 50mila abitanti, ha ingressi sorvegliati e guardie che pattugliano le ampie strade con villette curate, di un bel color beige (in affitto per oltre 4.300 dollari al mese, a fronte di 5.873 dollari di Pil pro capite annuo nel 2015), con scuole primarie e secondarie, giardini, aree commerciali e servizi. Ad Hanoi sarebbero oltre 30 gli insediamenti simili già completati e ben 200 quelli in fase di cantiere.

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


città blindate internazionale

munities) in tutto il mondo, con ben 57 milioni di persone al loro interno; quasi 11 milioni di americani (soprattutto in California, Florida e Texas) vivrebbero in simili insediamenti, che nel Regno Unito sarebbero almeno un migliaio. Certo, come si è visto, ognuna di queste realtà è differente, però sembrano quasi tutte rendere evidente un allargamento della forbice socio-economica tra ricchi e poveri, e una riduzione delle occasioni di commistione libera tra loro: un esercito di lavoratori di bassa qualifica è sì impiegato nella località turistica extra lusso di Punta del Este, ma quasi nessuno di essi ci vive, né può permettersi di acquistarvi beni e servizi. E se da una parte si tratta di modelli già noti (vedi il Consorzio Costa Smeralda che dal 1962 urbanizzò la Gallura su input del principe Karim Aga Khan), la cui evoluzione certifica una crescente accondiscendenza di amministrazioni pubbliche sempre più fragili verso l’intraprendenza privata dei grandi gruppi immobiliari (come il pakistano Bahria Town, impegnato contemporaneamente su progetti simili a Lahore, Karachi, Nawabshah, Rawalpindi e Islamabad), tutto ciò pare anche in linea con i principali dati macroeconomici e demografici.

L’ASIA VA IN CITTÀ I Paesi asiatici, Cina su tutti, nel corso dell’ultimo ventennio hanno infatti abbattuto drasticamente il numero di persone in povertà estrema (in Vietnam è passato dal 60% al 20%, tanto da essere riclassificato come Paese a medio reddito dalla Banca Mon-

Rosinka International Residential Complex, Mosca, Russia

diale), ma stanno sperimentando contemporaneamente una crescita importante delle diseguaglianze, associate all’aumento esponenziale della presenza di cosiddetti super-ricchi: il World Wealth Report 2015 di Capgemini e Rbc registra il sorpasso della regione Asia-Pacifico sugli Stati Uniti per numero di milionari (4,69 milioni – 9% sul 2014 – contro 4,68 milioni di persone il cui patrimonio supera un milione di dollari). Più ricchi, quindi, ma anche maggiori diseguaglianze, e una rapidissima tendenza della popolazione globale a stare nelle città, con i tassi più alti di urbanizzazione previsti attribuiti proprio ai Paesi emergenti. Se già oggi il 54% dell’umanità vive in aree urbane, questa percentuale raggiungerà il 66% entro il 2050: a dirlo è il rapporto delle Nazioni Unite World Urbanization Prospects 2014, le cui proiezioni dicono che, vista una crescita complessiva della popolazione mondiale, entro il 2050 avremo 2,5 miliardi di nuovi cittadini – in senso etimologico –, e quasi il 90% di loro si concentrerà in Asia e in Africa. Mentre nei Paesi ad alto reddito il livello di urbanizzazione degli abitanti si prevede potrebbe passare dall’80% del 2014 all’86% nel 2050, la stima per quelli a reddito medio-alto (Brasile, Cina, Iran, Messico) ipotizza un balzo dal 63% al 79%. Nei Paesi a reddito medio-basso (India, Marocco, Pakistan) e basso (Afghanistan, Etiopia, Nepal), dove pure il ritmo di urbanizzazione è stato finora più lento, la quantità di persone che nel 2050 si troveranno in un contesto urbano salirà fino a raggiungere rispettivamente il 57% e il 48% della loro popolazione (nel 2014 erano in media il 39% e il 30%). ✱

Alti dirigenti, diplomatici e uomini d’affari, soprattutto stranieri, ma residenti a Mosca per lavoro, si isolano a Rosinka, a 5 km dalla capitale. 100 ettari con 400 abitazioni di lusso da 3mila dollari al metro quadro (il salario medio moscovita è di 735 dollari al mese), offre una British International School, centri ricreativi e un centro sportivo di 13.500 metri quadri. E questa città, classificatasi al 43° posto su 50 tra quelle più sicure al mondo (Safe Cities Index 2015), ha un servizio di sicurezza 24 ore su 24, sistemi di tracciamento e sensori.

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Progetto residenziale e turistico di lusso da 245 milioni di euro d’investimento, occupa 35,3 ettari con 420 unità abitative, tra ville e appartamenti, affacciate sul mare, servizi commerciali d’alta gamma, un hotel 5 stelle lusso, centro benessere e centro congressi ancora da concludere (fine lavori previsto nel 2016), il porto e la spiaggia. Situato in un’area dal potenziale turistico importante e però ancora poco sviluppato, subisce la concorrenza del boom dell’offerta slovena, croata e montenegrina, e il prezzo di vendita delle abitazioni si aggira intorno ai 7.500 euro al mq.

Portopiccolo Sistiana, Trieste, Italia

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internazionale Greenpeace all’opera

Così si corrompono gli scienziati di Andrea Barolini

Fingendosi emissari di aziende, alcuni attivisti di Greenpeace Uk hanno chiesto a celebri scienziati di scrivere articoli minimizzando il problema del climate change. La risposta? Positiva. Con il tariffario allegato

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a notizia è arrivata mentre la Cop 21, la Conferenza mondiale sul clima di Parigi, era in pieno svolgimento, a dicembre. Mentre sui tavoli dei delegati di 195 nazioni si ammassavano pile di studi scientifici, analisi, rapporti sui cambiamenti climatici in atto. Ebbene, è probabile che una parte di quei documenti fosse carta straccia. Frutto non di lavori minuziosi, portati avanti con onestà intellettuale da ricercatori indipendenti, bensì commissionati à la carte da lobby

WILLIAM HAPPER, LO SCIENzIATO CHE AMA LA CO2

Chi è Will Happer, il fisico dell’Università di Princeton che gli attivisti di Greenpeace hanno fatto sapere di aver contattato, spacciandosi per emissari di multinazionali delle energie fossili, per scrivere rapporti anti-ecologisti? Si tratta di uno scienziato particolarmente celebre, premiato per il suo lavoro, che rifiuta apertamente le teorie che indicano l’esistenza di un cambiamento climatico in atto sulla Terra. Specializzato in fisica atomica, ottica e spettroscopia, cominciò la sua carriera accademica presso la Columbia University. Dal 1980 è alla Princeton, ma tra il 1991 e il 1993 ha ricoperto anche un ruolo istituzionale: quello di direttore dei finanziamenti dedicati alla ricerca scientifica presso il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. In pratica, è lui che dirigeva gli uffici dai quali dipendeva l’allocazione di un budget complessivo gigantesco, pari a circa 3 miliardi di dollari. Nel febbraio del 2009 fu chiamato per un’audizione di fronte al Congresso degli Usa, nel corso della quale dichiarò: «Credo che l’incremento della CO2 non costituisca causa di allarme e che sarà un fattore positivo per l’umanità». Si fece anche promotore di una lettera all’American Physical Society, invitando l’associazione a modificare la propria posizione ufficiale sul climate change. La proposta fu sostenuta solo da una piccola minoranza della comunità scientifica e venne rigettata. Nel marzo del 2012 firmò un articolo sul Wall Street Journal dal titolo eloquente: “CO2, non c’è bisogno di panico”. In un’intervista concessa alla CNBC nel luglio del 2015 si lanciò in un paragone decisamente audace: «La demonizzazione del biossido di carbonio è esattamente come quella dei poveri ebrei ai tempi di Hitler». 50

e soggetti interessati affinché vengano accreditate tesi “climatoscettiche”. Un gruppo di attivisti della divisione inglese di Greenpeace si è dedicato per qualche mese al tentativo di corrompere degli scienziati. I militanti si sono presentati come rappresentanti di grandi imprese del carbone e del petrolio, domandando ad alcuni noti docenti universitari di redigere articoli scientifici a favore dello sfruttamento delle energie fossili. A fronte di lauti pagamenti. Non stupisce che anche nel mondo accademico possano verficarsi episodi di corruzione. Ma numerosi elementi che emergono dall’azione di Greenpeace risultano particolarmente inquietanti. In primo luogo la facilità con la quale è possibile “indirizzare” i paper scientifici, sulla cui base, come detto, i decisori politici assumono le loro scelte. Inoltre a preoccupare è il fatto che i professori che l’associazione ambientalista ha contattato lavorano da anni in atenei prestigiosissimi, come le università di Pinceton e della Pennsylvania. Infine, a lasciare allibiti è la disinvoltura con la quale i docenti hanno sciorinato i loro tariffari.

CORRUZIONE A PORTATA DI MANO Prendiamo ad esempio William Happer, universitario climatoscettico di primo piano (vedi BOX ). Digitando il suo nome su internet è facile trovare decine e decine di video nei quali l’accademico «distrugge l’isteria del cambiamento climatico», come recita il titolo di uno dei tanti filmati. Uno degli attivisti di Greenpeace lo ha contattato, spacciandosi per un consulente che chiamava da Beirut, in Libano: «Il nostro cliente – ha dichiarato – è una compagnia petrolifera del Medio Oriente, preoccupata per l’imvalori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


Greenpeace all’opera internazionale

patto che potrebbe comportare la Conferenza mondiale sul clima di Parigi. Crediamo che, visto il suo importante lavoro su questo tema e considerando il suo posto di prestigio a Princeton, un breve articolo scritto da lei ci permetterebbe di aiutare fortemente la causa dell’azienda in questione». La proposta, nel dettaglio, era di decantare i benefici del petrolio e del gas. Happer risponde accettando senza remore e precisando candidamente il suo onorario: 250 dollari l’ora. Non solo: secondo Greenpeace il docente ha anche chiesto di non essere pagato direttamente, ma di effettuare un versamento alla CO2 Coalition, un think tank climatoscettico del quale Happer non è a libro paga, ma da cui può ricevere rimborsi. Il finto consulente impone però al professore una condizione: quella di non rivelare la fonte del finanziamento, al fine di garantire credibilità al paper: «Se scrivo solo io l’articolo – assicura lo scienziato – non credo ci sia il minimo problema ad indicare che l’autore non ha ricevuto alcun compenso finanziario per la redazione del testo». Come se non bastasse, nelle conversazioni intrattenute da Happer, quest’ultimo ha anche rivelato senza alcun problema che anche il colosso americano del carbone Peabody lo ha pagato per una sua audizione di fronte a un organismo amministrativo del Minnesota. Del tutto simile la vicenda di Frank Clement, sociologo e professore emerito della Penn State University della Pennsylvania. A lui un sedicente funzionario di una compagnia asiatica ha chiesto un rapporto che potesse «contrastare gli studi che legano l’uso del carbone alle morti premature, e in particolare le cifre dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo la quale 3,7 milioni di persone

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IL PRECEDENTE DEL 2007

La rivelazione di Greenpeace sugli scienziati corruttibili ha un precedente. Nel febbraio del 2007, spiegò all’epoca il Guardian, l’American Enterprise Institute, think tank legato alla multinazionale del Petrolio Exxon, aveva offerto diecimila dollari a ogni studioso disposto a dissentire in merito alle teorie che indicano le attività antropiche come le principali responsabili dell’aumento della temperatura media a livello globale. Secondo il quotidiano inglese a far recapitare tali proposte fu un certo Kenneth Green, che aveva «ammesso di aver spedito lettere anche ad economisti ed analisti politici di fama», ai quali fu chiesto di sostenere «un rapporto “indipendente” da contrapporre a quelli delle Nazioni Unite».

muoiono ogni anno a causa dell’inquinamento prodotto dalla combustione di fonti di energia fossile». Anche in questo caso la risposta è stata positiva e immediato è arrivato il tariffario: 275 dollari per ogni ora di lavoro; 15mila per un paper tra le 8 e le 10 pagine; 6mila per un articolo scritto per gli organi di stampa; fino a 50mila euro per un lavoro più lungo, che richieda un impegno di parecchie settimane. Clement, per dimostrare la sua efficacia, cita un articolo giornalistico ripreso nel marzo del 2015 da una cinquantina di testate statunitensi. E assicura, ricordando anche una testimonianza resa davanti a un organismo pubblico del Tennessee, che «in nessuno di questi casi lo sponsor è stato identificato. Mi qualifico sempre come scienziato indipendente».

UN SISTEMA COLLAUDATO Il tutto lascia apparire un meccanismo ben oliato, confermato anche dalle strategie utilizzate per far arrivare a destinazione il denaro. Ad Happer è stato chiesto infatti di spiegare come potesse garantire che non si sarebbe potuti risalire in alcun modo al “committente”. Il docente, a quel punto, ha contattato un suo collega da parte del consiglio di amministrazione della CO2 Coalition. Si tratta di William O’Keefe, ex lobbista per conto di Exxon, che ha suggerito di far transitare le somme attraverso la controversa società Donors Trust, organizzazione che permette di raccogliere donazioni anonime, «soprannominata da alcuni “distributore automatico di denaro sporco”», sottolinea Greenpeace. «Questa inchiesta – ha commentato John Sauven, direttore dell’associazione ambientalista nel Regno Unito – rivela l’esistenza di una rete di docenti disposti a vendere i loro servizi per influenzare il dibattito internazionale sul clima. Senza lasciare alcuna traccia. La domanda che non possiamo che porci è: nel corso degli anni, quanti rapporti scientifici che mettevano in dubbio i cambiamenti climatici erano stati in realtà commissionati dalle industrie del petrolio, del carbone e del gas?». ✱ 51


internazionale la bacheca di valori

IL RAPPORTO

Global Corruption Report. Sport

«Lo sport è un fenomeno globale che impegna miliardi di persone e genera un fatturato annuo di più di 145 miliardi di dollari», afferma Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia, alla vigilia della presentazione del rapporto Global Corruption Report sullo Sport realizzato e pubblicato da Transparency International, associazione leader nella lotta alla corruzione. L’edizione di quest’anno affronta il tema delle interferenze politiche nel calcio asiatico, la corruzione nello sport africano, i rischi di match-fixing nel calcio, il lascito della Coppa del Mondo e delle Olimpiadi in Brasile, il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Sochi, i flussi di denaro della Coppa del Mondo in Russia, il controllo politico del calcio in Ungheria, la governance del cricket in Bangladesh, gli assetti proprietari delle società di calcio nel Regno Unito, e molto altro ancora. Il rapporto su: www.transparency.org/research/gcr/gcr_sport/0/

MILIARDARI CHE POSSEGGONO LA RICCHEZZA DI MEZZO MONDO … e quello dei trasporti FONTE: OXFAM

VALORITECA SPUNTI DA NON PERDERE NEL MESE APPENA TRASCORSO

 I NUMERI

60 MILIARDI DI EURO Il giro d’affari mondiale del cibo biologico nel 2014 Sono i dati diffusi al salone mondiale degli alimenti biologici, il Biofach 2016, che si tiene ogni anno a Norimberga. Il mercato del biologico in Europa nel 2014 ha continuato a crescere con un +7,6%, eguagliando quasi quello degli Stati Uniti, il maggiore al mondo per giro d’affari: 26 contro 27 miliardi di dollari.

NEWS

Se a uccidere è anche l’inquinamento in casa

Sono almeno 40mila i decessi nel Regno Unito causati ogni anno dall’inquinamento, con un costo di 20 miliardi di sterline, oltre 25 miliardi di euro. Lo sostiene un recente report del Royal College of Physicians e del Royal College of Paediatrics and Child Health. Rapporti che mettono in luce una responsabilità finora poco considerata, quella dell’inquinamento domestico, che significa fumo di sigaretta, caldaie malfunzionanti, perdite di gas dai fornelli, ma anche sostanze chimiche usate per i detersivi. I rapporti evidenziano l’impatto di queste sostanze inquinanti senza però quantificare il danno sulla salute delle persone.

IL GIAPPONE ALLUNGA LE MANI NELL’OCEANO PACIFICO

I MIGLIORI TWEET DEL MESE Scontro #ArabiaSaudita-#Iran, #Africa sempre più schierata con le monarchie del Golfo. 22 febbraio Nigrizia @nigrizia

13 miliardi di dollari. È quanto ha speso il governo giapponese per costruire delle strutture sull’atollo di Okinotorishima, 1.740 km a sud di Tokyo. Un modo per espandere la propria autorità economica nell’Oceano Pacifico. 52

La fine di Schengen può costare ai Paesi europei fino a 1.400 miliardi di euro in 10 anni 22 febbraio IlSole24ORE @sole24ore

valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


precisazioni

Errata corrige articolo “Commercio equo, il futuro è vicino a casa?”, pubblicato sul numero 135 di Valori di febbraio 2016, conteneva alcune imprecisioni. Ce le ha sottolineate Fairtrade Italia. Ce ne scusiamo, con i lettori e con Fairtrade Italia. In particolare ci sono stati segnalati i seguenti errori: > “Il dato di riconoscibilità del marchio Fairtrade non è del 10% (come riportato nell’articolo, ndr) ma del 26% come da Ricerca Nielsen del 2014”. La percentuale riportata nell’articolo rientra in una dichiarazione dell’intervistato, Rudi Dalvai, presidente della World Fair Trade Organization (WFTO): «In Inghilterra il marchio Fairtrade è noto a circa l’80% dei consumatori, qui siamo sotto il 10%». In ogni caso, in base alla ricerca Nielsen segnalataci da Fairtrade Italia, si tratta di un dato inesatto. > “La citazione di Riso Scotti come azienda coinvolta è fuorviante e scorretta: è vero che è certificata Fairtrade ma non vende prodotti Fairtrade a proprio marchio (produce per private label)”.

L’

sotto la lente di Valori

Indubbiamente la direzione e la redazione hanno erroneamente omesso un’immediata richiesta di commento da parte di Fairtrade Italia. Volentieri ospiteremo il suo contributo in un dibattito sul commercio equo sul prossimo numero di Valori. ✱

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FATTI IN ITALIA L’eccellenza italiana

Questa la precisazione di Fairtrade Italia. Nell’articolo il marchio “riso Scotti” era citato come una delle aziende che vendono prodotti del commercio equo, ma insieme ad altri non equosolidali. Non ci sembra, quindi, che la citazione sia scorretta, ma volentieri ospitiamo la precisazione di Fairtrade Italia. > “Nella tabella Vendita al dettaglio stimata per Paese ci sono dati vecchi, quelli aggiornati sono nel report di Fairtrade International (non di Fairtrade Foundation) Global change, local leadership http://annualreport.fairtrade.net/en/”. Ringraziamo della segnalazione, dati più aggiornati sarebbero certamente stati preferibili.

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bancor

Dopo “Critica Marxista”

Padoan tra i lupi di Wall Street WWW.FLICKR.COM / OECD

dal cuore della City Luca Martino

a giovani si esagera, si sa. D’altra parte negli anni ’70 anche ai piani alti delle università, dove si discuteva di inflazione e di domanda aggregata, arrivava l’eco degli scontri di piazza. E Padoan era tra gli economisti più accalorati nella contestazione all’ordine capitalistico, scriveva di Keynes come di un piccolo borghese. Oggi fa il ministro del governo Renzi, quello di “È il mercato, bellezza!”. Certo, sono passati 40 anni e il mondo è cambiato, e anche l’attuale ministro, prima di approdare alla scrivania che fu di Quintino Sella, ha fatto la sua carriera in facoltà e istituti importanti come il Fondo Monetario e l’OCSE. Eppure fa un certo effetto che un ex/post marxista rispolveri dal dimenticatoio le Collateralized Debt Obbligation, le cartolarizzazioni che, con i derivati annessi e connessi, causarono il credit crunch e il fallimento di molte grandi banche. Vero è che, causa anche il colpevole ritardo con il quale l’Italia ha finalmente passato al setaccio i bilanci dei suoi istituti di credito, il problema di assicurare la solidità e la capacità delle banche di fare il proprio mestiere non era certamente di poco conto; e che la Bce ha sì rafforzato il suo quantitative easing, ma anche imposto nuove

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54

regole sugli aiuti di Stato e sul bail-in che impedivano interventi diretti simili a quelli che, pur in forme diverse, hanno adottato in passato Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Germania. Tuttavia, la mossa di Padoan di mettere una garanzia pubblica su 200 miliardi di euro di crediti in sofferenza pare davvero molto arrischiata, e un unicum nel settore. Il ministro assicura che verranno prese tutte le cautele del caso, essenzialmente legate ai livelli minimi di rating per la concessione delle coperture, e che l’operazione sarà addirittura lucrativa per lo Stato grazie ai premi assicurativi, vincolati a un paniere di Credit Default Swap assunto come rappresentativo, e al recupero stesso dei crediti, previsto positivo nonostante le deboli prospettive, per esempio, del mercato immobiliare. Sarà, ma sarebbe utile sapere se e come i tecnici del Tesoro abbiano misurato i tanti rischi di questa operazione. E se, per esempio, i rating di quelle obbligazioni (per molti, anche tra gli esperti, ancora una black box) si rivelassero sovrastimati come in passato e venissero rivisti al ribasso? E se il recupero dei collaterali, tipicamente ipoteche e fideiussioni su immobili, non andasse come previsto o superasse i tempi stimati? E, ancora, quanto varrà nel bilancio dello Stato quella garanzia in caso di rialzo dei tassi o di aggiornamento del paniere? Infine, siamo così sicuri che sia meglio per le banche pagare una costosa garanzia su pochi attivi verosimilmente recuperabili (lo sconto al 20% del “salva-banche” potrebbe non bastare per un rating minimo di “A-” che sbloccherebbe i finanziamenti della Bce), svendere o tenersi in bilancio tutto il resto (con effetti sul capitale e sul conto economico a quel punto inevitabili) e affidarsi, per legge, a un amministratore esterno piuttosto che adottare il modello generalmente più efficiente della bad bank interna? Tremonti, che, più per convenienza che per convinzione in realtà, parlava dei derivati come di dèmoni citando addirittura la Bibbia, diceva anche che le nostre banche erano solide perché non parlavano l’inglese, ovvero facevano poca finanza. Oggi, mezzo secolo dopo i suoi affondi su “Critica Marxista”, Padoan si siede al tavolo più rischioso tra i lupi di Wall Street e della City: speriamo solo che negli anni, oltre a ripensare le sue idee, abbia anche migliorato il suo già buon inglese! ✱ todebate@gmail.com valori / ANNO 16 N. 136 / MARZO 2016


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