Mensile Valori n. 119 2014

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 14 numero 119. Giugno 2014. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 NE/VR Contiene I.R.

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Futuro umanoide La rivoluzione tecnologica è in atto. Noi umani serviremo ancora a qualcosa? Finanza > L’agenda per i nuovi vertici Ue. Cara Commissione, ecco le riforme che vorremmo Economia solidale > Brasile 2014: iniziano i mondiali. Stadi ecologici, ma che fine faranno? ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Dalla nostra inviata a São Luís. I disastri alla Ilva|non sono solo in Puglia


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Quando lo Stato guarda al futuro di Mariana Mazzucato

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L’AUTORE Mariana Mazzucato Sul suo sito internet (marianamazzucato.com) si definisce “un’economista interessata alle politiche economiche che assicurino che la crescita economica non sia solo brillante, ma anche inclusiva e sostenibile”. È docente di Economia all’Università del Sussex, in Gran Bretagna, presso il centro di ricerca sull’innovazione Scienze Policy Research Unit. Il suo ultimo libro Lo Stato Innovatore è stato inserito dal Financial Times nell’elenco dei migliori libri del 2013 (nell’edizione italiana è uscito nel 2014). | 2 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

a teoria economica corrente giustifica l’intervento pubblico quando i benefici di un investimento per la società sono maggiori dei benefici privati (e dunque è improbabile che un privato sia disposto a investire): dalle bonifiche ambientali (un’esternalità negativa non inclusa nei costi delle aziende) al finanziamento della ricerca di base (un bene pubblico di cui è difficile appropriarsi). Eppure meno di un quarto degli investimenti in ricerca e sviluppo realizzati negli Stati Uniti appartiene a questa tipologia. Per tradurre in realtà grandi progetti visionari, come mandare “l’uomo sulla Luna”, o creare la visione da cui è scaturita internet, è servito ben più di un semplice calcolo del rapporto benefici sociali e benefici privati. Per affrontare sfide di tale portata c’è bisogno di una capacità di visione, di una missione e, soprattutto, di fiducia da parte dello Stato riguardo alla propria economia. Come argomentò con eloquenza Keynes in La fine del laissez-faire, «la cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Per assolvere a un compito del genere c’è bisogno di capacità e visione e volontà di tradurre la visione in realtà all’interno di spazi specifici: non soltanto capacità burocratiche, quindi (anche se queste competenze sono fondamentali, come evidenziato da Max Weber), ma competenze specifiche reali in ordine alla tecnologia e al settore in questione. Solo una visione esaltante del ruolo dello Stato può consentire di mettere insieme queste competenze e progettare lo scenario nello spazio rilevante. Un elemento chiave del successo della Darpa è stata la capacità di attirare talenti e creare un clima di entusiasmo intorno a missioni specifiche. Lo Stato, quando è organizzato con efficacia, ha la mano ferma, ma non pesante, fornisce la visione e la spinta dinamica per tradurre in realtà obiettivi che altrimenti sarebbero rimasti irrealizzati. Iniziative simili puntano ad accrescere il coraggio delle imprese private: lo Stato non deve essere visto soltanto come qualcosa che si intromette, né come qualcosa che si limita a “facilitare” la crescita economica. Lo Stato è un partner fondamentale del settore privato, spesso più audace, disposto a prendere rischi che le imprese non prendono. Comprendere la natura specifica del settore pubblico – non semplicemente una versione “sociale” e inefficiente del settore privato – condiziona la natura delle collaborazioni pubblico-privato, oltre ai “ricavi” che lo Stato si sente giustificato a raccogliere. Trattare lo Stato come un “corpaccione” inefficiente, buono soltanto a rimediare ai “fallimenti del mercato”, è una profezia che si autorealizza. Sostenere l’importanza di uno Stato imprenditoriale non è proporre una politica industriale “nuova”, perché di fatto è quello che è successo in passato. Esistono dati in abbondanza sul ruolo chiave giocato dallo Stato nella storia del settore informatico, di internet, dell’industria farmaceutica e biotech, delle nanotecnologie e dell’emergente settore delle tecnologie verdi. In questi casi lo Stato ha osato pensare – contro ogni previsione – all’impossibile: creare una nuova opportunità tecnologica, effettuare i grandi investimenti iniziali necessari, mettere una rete decentralizzata di operatori nelle condizioni di portare avanti ricerche rischiose e favorire in modo dinamico il processo di sviluppo e commercializzazione. (Estratto dal libro Lo Stato Innovatore, Mariana Mazzucato, Laterza 2014) | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 3 |


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fotoracconto 02/04

fotoracconto 01/04

COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / U.S. NAVY PHOTO BY PETTY OFFICER 2ND CLASS JOHN L. BEEMAN

giugno 2014 mensile www.valori.it anno 14 numero 119 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Marcelo Cruz; Flickr.com/cruzmarcelo; Daniela Patrucco; FCarbonara, Sue Gardner; Orlando Myxx; U.S. Navy photo by Petty Officer 2nd Class John L. Beeman, Alex Proimos, Projekt Ana, WL (commons.wikimedia.org); en.Wikipedia.org; Wikipedia.org distribuzione Press Di - Segrate (Milano)

L’innovazione è una rivoluzione in atto, tecnologica e digitale, dalle conseguenze positive e negative, come raccontiamo nel dossier di copertina di questo numero di Valori. Ma il termine innovazione può avere una serie di significati diversi. Innovazione è internet, è commercio on line, è automazione industriale. Ha applicazioni in ogni ambito, dalla medicina all’aeronautica. Innovazione è anche robotica. A questo tema abbiamo dedicato il fotoracconto. Dai robot da giardino a quelli che aiutano i disabili, fino agli utilizzi peggiori in ambito militare, come nella foto che pubblichiamo in questa pagina. Questa è la robotica che non vogliamo.

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Lo scorso dicembre, Google ha annunciato di aver rilevato un ventaglio di società specializzate in robotica e intelligenza artificiale. Tra queste ne figuravano alcune, come la Boston Dynamics e la Shaft, intimamente legate all’agenzia militare statunitense DARPA. A fine marzo è arrivata una buona notizia: Google ha annunciato che non intende ricevere un solo centesimo di finanziamento dall’agenzia americana. E che i suoi futuri robot antropomorfi avranno uno scopo prettamente commerciale o civile.

Una mano robotica bioispirata, progettata in modo da riflettere la struttura e il funzionamento dell’organo umano. Un progetto del Laboratorio di Robotica e Intelligenza artificiale del Politecnico di Milano.

globalvision dossier Futuro umanoide

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Il secolo del capitale umano La rivoluzione arriva in rete La guerra delle macchine Se il robot è di casa L’economia della conoscenza sulle spalle dei robot

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finanzaetica

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

Ue, Tobin e riforme: si può dare di più 346.000.000.000 sfumature di green Wall Street: la lotta contro il tempo

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numeridellaterra economiasolidale

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Brasile 2014: il Mondiale delle cattedrali nel deserto Sorpresa: la Tav non servirà a trasportare le merci Latte. L’oro bianco che non conosce la crisi Il mercato italiano parla francese L’unione fa la forza non l’energia

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socialinnovation internazionale

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Il ferro dell’Amazzonia da Piquià de Baixo a Taranto Carajás 30 años La rivoluzione industriosa Usa pazzi per Piketty: dietro le quinte di un successo La disuguaglianza fa male all’economia

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altrevoci bancor

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Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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| globalvision |

Il progetto per l’Europa

Una strada alternativa un dato di fatto che l’Unione monetaria realizzata al fine di spingere le economie europee alla convergenza non sia stata in grado di rispondere efficacemente alla Grande Crisi. Al contrario “i sacerdoti del rigore” sostenitori del culto, o meglio sarebbe dire, della favola dell’“austerità espansiva” hanno condotto l’Europa a una recessione double-dip (ossia a

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una ricaduta dopo quella del 2009) che nei Paesi più deboli si è trasformata in una devastante depressione. È ormai comunemente accettato, infatti, che i moltiplicatori della politica fiscale, che misurano gli effetti dei tagli di bilancio della crescita, sono stati decisamente sottostimati. I lievi miglioramenti fatti registrare dall’odierna congiuntura economica non devono dare l’illusione che si possa uscire da questa crisi per inerzia, l’inerzia spontanea del mercato, senza una precisa volontà politica di affrontare gli effetti sociali di una recessione nei fatti (si pensi al livello della disoccupazione) ancora in atto. Sul tema “Europa e crisi” è da poco uscito il testo di Claus Offe, L’Europa è in trappola, un breve saggio edito dal Mulino. La “trappola” consiste nel fatto che ciò che è urgentemente necessario fare per superare la crisi europea è anche estremamente impopolare e, perciò, potenzialmente impossibile da ottenere in maniera democratica. I Paesi più solidi, a cominciare dalla Germania, dovrebbero accettare di “mettere insieme” il debito dell’intera Ue. Contemporaneamente le autorità degli Stati “periferici”, Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, dovrebbero imporre misure severe per aumentare la compe-

Gli squilibri all’interno dell’Europa dipendono da scontri tra ceti sociali. Serve una politica economica basata sulla solidarietà titività del sistema economico. Ma, come detto, sia la “mutualizzazione” del debito pubblico che la riduzione del costo del lavoro (in relazione alla produttività media europea), sembrano politicamente impraticabili. Dunque, rimanendo all’interno dei canoni liberisti a cui si è affidata la politica economica europea, non si può che scegliere tra la fine del progetto di integrazione europea o il proseguimento della terapia errata dell’austerità. Insomma che non esista alternativa, come sosteneva la Signora Thatcher (TINA: There is no alternative) a riguardo delle politiche economiche neo-liberiste degli anni ’80.

di Alberto Berrini

In realtà, secondo Offe, la risposta esiste purché si cambi paradigma con cui affrontare la “questione Europa”. La verità è che, ripercorrendo i dati sugli squilibri strutturali all’interno della Ue (disavanzi commerciali e dei bilanci pubblici), si scopre che lo scontro non è tra le nazioni, ma tra i ceti sociali. Ciò significa che l’unica soluzione possibile è spingere il processo europeo attraverso una politica economica che abbia nella solidarietà il suo asse portante. Solidarietà che, in senso proprio, non significa fare ciò che è bene per qualcun altro, ma ciò che è bene per tutti noi (Tocqueville), noi europei. Conclude Offe: «Lo slogan TINA (non ci sono alternative) è solo una scusa per arrendersi ai rapporti di potere che difendono lo status quo della libera circolazione dei capitali finanziari. L’alternativa è ottenere una redistribuzione su larga scala tra popoli e classi sociali».  | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 7 |


dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Di Stefano, Corrado Fontana ed Emanuele Isonio

Un passaggio della linea di produzione del Gruppo Neumann. La società opera sul mercato globale dell’automazione industriale da oltre 50 anni e con una sua divisione in Italia dal 2012. Dal 2005 ha aperto la divisione consumer Neumann Robotics e progetta, costruisce, assembla e commercializza direttamente robot rasaerba e attrezzature a basso impatto ambientale per la cura del verde. Gli addetti a questa specifica attività sono circa 200 e in costante crescita.

Futuro umanoide fotoracconto 03/04

È in corso una vera rivoluzione: la robotica, internet, l’innovazione industriale stanno cambiando la società e il mondo del lavoro

Il secolo del capitale umano > 10 La rivoluzione arriva in rete > 12 La guerra delle macchine > 14 Se il robot è di casa > 16 L’economia della conoscenza sulle spalle dei robot > 18

Interi settori verranno cancellati, ma nasceranno anche nuove professioni. Un passaggio all’economia della conoscenza

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dossier

| futuro umanoide |

| dossier | futuro umanoide |

Il secolo del capitale umano

Distillare la tecnologia di Paola Baiocchi

Far uscire dai laboratori la ricerca e trasferirla nella produzione è un procedimento complesso di distillazione delle idee che si scontra con resistenze strutturali e culturali. Il Polo tecnologico di Navacchio, nell’area di una ex distilleria, lavora a questo scopo. Ne abbiamo parlato con il direttore generale Alessandro Giari

di Paola Baiocchi

Q

uindici anni in più di aspettativa di vita. Il dato, che rende nel modo più efficace quali vantaggi (ma anche quali diseguaglianze) possano nascere da un’economia innovativa rispetto a quella di un’area depressa, è espresso dall’economista italiano trapiantato negli States, Enrico Moretti, nel suo libro La nuova geografia del lavoro: «La popolazione maschile delle contee con aspettativa di vita più alta – Fairfax, in Virginia, Marin e Santa Clara (che comprende la maggior parte della Silicon Valley) in California e Montgomery nel Maryland – vive in media fino a 81 anni circa. Quella delle contee con l’aspettativa di vita più bassa, invece, non supera in media i 66 anni». Cioè il maschio medio che vive nell’“ecosistema” che si aggrega intorno a un grande hub dell’innovazione vive 15 anni in più rispetto al suo simile di Baltimore, centro non interessato dalla rivoluzione digitale, che dista appena 100 chilometri.

Rispetto ad altri Paesi (Italia, Canada, Gran Bretagna o Giappone), spiega l’autore, «la discrepanza economica tra le diverse comunità è molto più estesa che altrove» e disegna un’America a due velocità, con il 10% di ambiti più fortunati, perché ospitano poli di produzione innovativa, e ambiti che per condizioni di vita si collocano a livelli inferiori di Paesi in via di sviluppo, come Iran o Paraguay. Nonostante l’enorme vantaggio tecnologico derivante dal numero di brevetti che producono ogni anno, gli Usa condividono con l’Italia il problema di rendere uniforme la diffusione dell’innovazione attraverso la mano pubblica, nei settori strategici del digitale, della farmaceutica, delle bioscienze, della robotica, delle ecotecnologie, delle nanotecnologie ecc. E condividono anche la necessità di rivitalizzare zone con un glorioso passato legato alla manifattura, per non finire trascinati in una spirale di conflitti sociali deflagranti.

La quarta rivoluzione industriale Se vi eravate fermati alla terza rivoluzione industriale, descritta da Tourai| 10 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

L’economia della conoscenza è in grado di generare produzioni con maggior valore aggiunto. Chi riesce a cavalcare questa realtà può assicurarsi uno sviluppo economico duraturo. Un fattore chiave è la capacità di innovare e partecipare agli scambi internazionali ne e Bell come società postindustriale, il tessuto produttivo italiano, invece, ragiona sulla quarta rivoluzione, convocando convegni sullo “scenario evolutivo del manifatturiero italiano”. Alle proiezioni positive si contrappongono scenari meno ottimistici, che fanno i conti con i problemi strutturali dell’imprenditoria italiana: principalmente le dimensioni, l’inefficacia degli investimenti diretti a settori con poco valore aggiunto che ci mettono in diretta concorrenza con Paesi in via di sviluppo, e la mancanza di programmazione a lungo termine.

LIBRI Sergio Ferrari

Società ed economia della conoscenza Mnamon Editore

Enrico Moretti

La nuova geografia del lavoro Mondadori, 2013

Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee

The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies

Pisa ha l’invidiabile primato italiano di essere il territorio con il maggior numero di ricercatori per metro quadro: ospita un sistema universitario statale d’eccellenza (che comprende il Sant’Anna e la Normale) e ha dato vita a numerosi dipartimenti di ricerca con specializzazioni differenti, dall’agroalimentare del Centro Avanzi, alla biorobotica del Centro Piaggio. È anche sede del Cnr e del quartier generale della ricerca Enel. Grazie a questa caratterizzazione la tenuta alla crisi è stata maggiore rispetto ad aree vicine, più legate alla manifattura, ma resta il problema di trasferire l’innovazione al territorio, di farla uscire dai laboratori e immetterla nella produzione. Un procedimento complesso di distillazione delle idee, a cui contribuisce il Polo tecnologico di Navacchio nel Comune di Cascina, alle porte di Pisa. Insediato negli edifici di una ex distilleria, il Polo nasce alla soglia del 2000 dalla visione di Carlo Cacciamano, giovane sindaco di Cascina che, assieme alla Provincia di Pisa, nel quadro di un accordo di programma con la Regione, recupera l’area industriale con l’obiettivo di favorire l’insediamento di imprese hi-tech. Abbiamo chiesto di saperne di più ad Alessandro Giari, direttore generale del Polo e presidente dell’Associazione dei Parchi scientifici e tecnologici italiani (Apsti).

W.W. Norton & Company, 2014

Sergio Ferrari, già vice direttore generale dell’Enea e autore di Società ed economia della conoscenza, elenca questi difetti, sottolineando: «Stiamo ancora pagando le conseguenze dello slogan “piccolo è bello”, dell’industria italiana delle origini, mentre sembra non esserci nessuno in grado di mettersi intorno a un tavolo per risolvere il problema del declino italiano. Eppure ormai ci sono delle precondizioni uniche: per la prima volta sembra disinnescata la “bomba demografica” perché siamo avviati verso

Che specializzazione ha Navacchio? Il Polo di Navacchio è un parco multisettoriale che aggrega più di cinquanta imprese che fanno sistema tra loro, in attività che si implementano: lavorano sulla robotica che, quindi, ha bisogno della Ict, che a sua volta utilizza la sensoristica, che ha bisogno della microelettronica. Tra poco, poi, saremo incubatore certificato. Il nostro contributo lo diamo nell’originalità dell’impianto organizzativo: Navacchio è uno dei primi e più evidenti casi di integrazione di imprese. Il Polo ha avuto la capacità di aver facilitato la collaborazione tra di loro, un dato che in imprese tecnologiche molto verticalizzate è un valore aggiunto. A livello dei territori servono dei soggetti che sollecitano, facilitano e sostengono il processo di crescita innovativa. Questo è il mestiere che sta facendo il Polo e stanno facendo i parchi, una realtà formata da 500/600 soggetti in Europa.

Nonostante la presenza diffusa di centri di ricerca le ricadute innovative sul territorio non sono evidenti: ci si aspetterebbe di notarla anche nelle piccole cose, come l’illuminazione, la mobilità o l’asfaltatura delle strade... È la riprova che non basta avere la disponibilità del know how tecnologico perché questo si traduca in carattere organizzativoproduttivo. Se accanto alla produzione del sapere ci fossero meccanismi automatici che portano a un tessuto molto competitivo, probabilmente il territorio sarebbe completamente diverso. Cosa bisogna fare? Non partire più dall’offerta di tecnologia ma dalla domanda, che spesso è inespressa. Dalla consapevolezza che per far crescere il tessuto produttivo bisogna sporcarsi le mani e dedicarsi a questo lavoro preparatorio di sollecitazione che noi cerchiamo di portare avanti. Per intercettare la domanda servono rapporti fiduciari, bisogna essere riconosciuti dal soggetto imprenditoriale come affidabile, purtroppo la storia del sostegno all’innovazione è piena di insuccessi, che hanno consumato risorse pubbliche. Molto spesso le aziende pensano che bisogna andare con molta cautela verso questo tipo di rapporto. Quali difficoltà incontrate? Il problema dell’Italia è di essere fatta per il 95% di imprese micro, sotto i dieci addetti. Poi, non abbiamo un sufficiente livello di capitale di rischio, anche se a volte servono più le idee che i soldi: il provvedimento per il sostegno e la nascita delle start up innovative è costato pochissimo e ha stimolato la nascita di centinaia di imprese, attraverso la defiscalizzazione del capitale privato investito. Spesso non c’è convergenza tra le associazioni di categoria del mondo imprenditoriale e le strutture che facilitano l’innovazione. Ci sono resistenze anche di carattere culturale, unito alla tradizionale difficoltà del mondo delle università e della ricerca di avere un rapporto diretto con il tessuto produttivo. Anche perché non ci sono elementi oggettivi che lo stimolano: la carriera universitaria non si fa perché abbiamo aiutato le imprese a crescere in termini competitivi, ma se facciamo tante pubblicazioni. La ricerca applicata non è un punto di forza del nostro mondo accademico.

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un assestamento della popolazione mondiale. Allo stesso tempo siamo in condizione di programmare l’innovazione e assistiamo alla crescita costante della produttività. Purtroppo – conclude Ferrari – ci perdiamo dietro falsi problemi come il costo del lavoro che, anche il Fmi è stato recentemente costretto ad ammettere, è importante, ma non quanto la capacità di innovare e partecipare agli scambi internazionali».

L’innovazione sconvolgente Le stampanti in 3d stanno rivoluzionando la produzione: con loro produrre costa meno perché utilizzano al meglio le materie prime e riducono la quantità di scarti prodotta, contribuendo al minor sfruttamento delle risorse naturali; accorciano di molto i tempi di lavorazione, perché generano prodotti che non hanno bisogno di saldature e quindi anche il consumo di energia si abbatte. Permetteranno pure di rivoluzionare il modo di edificare le case, perché costruiranno in modo da “colmare i vuoti”. Sono impareggiabili nella creazione di prototipi e di pezzi di ricambio ormai fuori produzione. Qual è il loro neo? Al momento creano meno occupazione di quanta ne distruggono. Il problema si accentuerà, ipotizzano Eric Brynjilfsson e Andrew McAfee nel libro The Second Machine Age, perché sarà impossibile seguire il ritmo della rivoluzione tecnologica in corso, nella quale le innovazioni si moltiplicano in media ogni uno o due anni e non ogni sei/sette decenni come nella rivoluzione industriale. Gli autori prevedono che la pro-

La rivoluzione arriva in rete di Andrea Di Stefano

Per McKinsey internet contribuisce per il 21% alla crescita del Pil mondiale, ha contribuito a creare 2,6 milioni di nuovi posti di lavoro. Ma non è una trasformazione indolore. Ha fatto scomparire interi settori economici ltre due miliardi di persone. Circa il 3,4% del Pil delle tredici principali economie al mondo. Oltre 8 trilioni di dollari scambiati ogni anno nel commercio elettronico. Il ruolo potenziale della Rete nella crescita del Pil è salito al 21% negli ultimi cinque anni. Sono alcuni dei numeri presentati da McKinsey all’ultima riunione del G8 dedicata alla rivoluzione digitale. Anche sul fronte dell’occupazione, secondo la società di consulenza, che negli ultimi decenni ha assunto un ruolo chiave nell’indirizzare i decisori pubblici, internet avrebbe stimolato la creazione di 2,6 milioni di nuovi posti di lavoro. Ma McKinsey non dice che questa trasformazione non è, ovviamente, indolore. Come tutte le tecnologie disruptive, destinate cioè a distruggere e ricreare interi paradigmi, l’esplosione della Rete (con tutti i fenomeni e le innovazioni connesse) ha fatto scomparire (o quasi) interi settori economici in una vera e propria

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duttività crescerà più dell’occupazione e del reddito medio. Quindi propongono il reddito minimo. Noi pensiamo che il reddito minimo sia uno strumento che possa essere utilizzato come sostegno a necessità particolari, come permettere a un lavoratore o a un inoccupato di finanziarsi gli studi per migliorare la propria condizione. Questo sostitutivo del reddito da lavoro

CINEMA VISIONARIO? Tra fantascienza pura e attualissima denuncia sociale, nel 2013 usciva Elysium, film con Matt Damon che racconta di un pianeta Terra inquinato e abitato da poveri e classi sociali popolari in città fatiscenti. Sulla Terra si producono in fabbrica i robot soldato che garantiscono sicurezza e lussuoso benessere alla comunità dei ricchi e potenti che vive in orbita, nella florida stazione spaziale Elysium, dove una tecnologia avanzatissima guarisce da ogni malattia in pochi secondi. Grazie al controllo dei dati e delle armi Elysium annienta senza pietà ogni tentativo d’immigrazione clandestina, ma giustizia alla fine trionfa. Nel film.

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dovrebbe, tra l’altro, permettere di acquisire beni e servizi in quantità tale da consentire una vita soddisfacente, cosa che sembra lontana nella situazione attuale di tagli, che limitano persino l’accesso universale alla sanità pubblica. Ma perché costringere all’inattività soggetti che potrebbero continuare a dare il loro contributo lavorativo, solo perché un procedimento tecnologico ha aumentato la produttività? Meglio piuttosto rivolgere questo aumento del benessere al servizio della qualità della produzione, invece che della quantità, riducendo l’orario di lavoro – come preconizzava anche Keynes – mantenendo salari e stipendi inalterati. Anche perché nessun lavoro, nemmeno quello più creativo, è al riparo dalla concorrenza e in futuro le macchine saranno sempre meno complementari e sempre più alternative alla manodopera. 

rivoluzione (battezzata come digitale) che è destinata a proseguire in modo molto rapido anche nei prossimi anni.

La società della Rete Ovviamente il bilancio può essere considerato positivo, soprattutto se si considera che la Rete ha permesso la diffusione della conoscenza e la creazione di quel “villaggio globale” preconizzato (in tutti i suoi aspetti, anche quelli altamente critici) dallo studioso canadese dei media Marshall McLuhan. In un suo libro del 1964 illustrava la prossima affermazione di un’epoca elettrica che si sostituiva alla passata epoca meccanica e tracciava un accurato ritratto di un uomo nuovo, un abitante del villaggio globale, ancora sospeso tra le due tecnologie, due modi diversi di agire e pensare. Un uomo alla ricerca dei suoi valori, della sua integrità con un ritorno al passato per poi congiungerlo al futuro; un uomo che pretende di comprendere fino in fondo la propria indole, consapevole dell’agire, ma bisognoso di chiarezza nel caos delle informazioni. Quest’uomo vive in un’unica realtà, il “mondo intero” ed è attore e spettatore e deve lavorare per costruire le proprie re-

sponsabilità perché davanti a lui si presenta una realtà «ricca di scambi, influenze, confronti tra tutte le sue parti improvvisamente collegate l’una con l’altra da un afflusso continuo di dati». Un’interconnessione che lo costringe ad essere vigile per prevenire la «distruzione di una qualsiasi parte dell’organismo che può risultare fatale per il tutto». La descrizione di questa epoca è significativa: «La velocità elettrica mescola le culture della preistoria con i sedimenti delle civiltà industriali, l’analfabeta con il semianalfabeta e con il post-alfabeta». Nell’era elettrica «abbiamo come pelle l’intera umanità. La prospettiva immediata dell’occidentale alfabeta e frammentato che si scontra con l’implosione elettrica all’interno della sua stessa cultura è la sua trasformazione rapida e continua in una persona complessa e strutturata in profondità che si rende emotivamente conto dei suoi rapporti di interdipendenza con il resto della società umana».

Tra ricerca e commerciale Analisi filosofica che aiuta, però, a comprendere un fenomeno che ha dispiegato tutto il suo potenziale “rivoluzionario”

vent’anni dopo le previsioni di McLuhan quando, grazie agli enormi investimenti del Darpa (Defense Department’s Advanced Research Projects Agency, Agenzia del ministero della Difesa americano per la ricerca avanzata), la Rete è diventata un servizio commerciale. Secondo un’analisi di Richard Langlois e Mowery le risorse pubbliche investite nello sviluppo dei sistemi anticipatori di internet (Arpanet e svariati protocolli per il trasferimento dei dati tra i quali il TCP/IP che diventerà il linguaggio della Rete) che hanno permesso la nascita di diversi spin off universitari come la Sun (che ha poi sviluppato il linguaggio Java oltre a molto opensource) ammonterebbero a circa 1 miliardo di dollari (del 1987). D’altra parte anche l’altro grande pilastro che ha permesso l’esplosione di internet come lo conosciamo oggi, il linguaggio Html, è stato sviluppato in un centro di ricerche come il Cern di Ginevra da Tim Berners-Lee che ha messo a disposizione la sua innovazione gratuitamente, senza rivendicare alcun diritto di proprietà e permettendo la nascita di Netscape (il primo browser dell’era moderna) che fu anche la prima start-up quotata al Nasdaq. 

SE LA MIA CASA RISPONDE AL TELEFONO

Oggi le connessioni mobili sono 6,6 miliardi e riguardano soprattutto telefoni. Tra il 2016 e il 2017, secondo Hans Vesteberg, amministratore delegato di Ericsson, le connessioni saranno più numerose degli abitanti della Terra e nel 2019 raggiungeranno la cifra stratosferica di 9,3 miliardi. Cosa comporterà avere in connessione più “macchine” che umani? Molti più servizi e una richiesta di banda larga e larghissima che dovrebbe garantire almeno 8 miliardi di connessioni. I grandi fornitori di internet si stanno già ponendo il problema di una rete “preferenziale” a pagamento e a più alta efficienza per le imprese, che manderebbe in cantina l’ideale fondante del web gratuito.

Ma non solo: le guerre (commerciali o geopolitiche) più attuali si combattono con i virus. Stuxnet è il sofisticato malware, che Edward Snowden dice fabbricato dalla Nsa con gli israeliani, individuato nel 2010 dopo aver fatto impazzire le centrifughe del programma nucleare iraniano. E dopo aver causato danni fino in Cina. Le case intelligenti sono prese di mira dai cyber attacchi e bloccare le porte d’accesso, oppure surriscaldare le camere, pare sia un gioco da ragazzi per la cyber delinquenza. E in prospettiva potrebbe essere un formidabile aiuto per killer professionisti. All’Economic Forum di Davos è stato presentato un report in collaborazione con McKinsey, che vede negli attacchi informatici uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile della società automatizzata e traccia alcune linee guida sulla cyber resilienza, con la quale trasformare le incertezze in occasioni di innovazione. Pa.Bai. www.mckinsey.com/insights/business_technology/risk_and_respons ibility_in_a_hyperconnected_world_implications_for_enterprises?p=1

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La guerra delle macchine di Corrado Fontana

Prima robot giardinieri e aspirapolvere, presto automobili senza conducente e guerre senza soldati. Le macchine che sostituiscono l’uomo faranno male ai lavoratori? Alcuni dati e l’esperienza Toyota mostrano un’altra prospettiva obot capaci di togliere la polvere, rasare il prato o pulire la piscina, venduti a prezzi piuttosto accessibili, ne incontriamo ormai spesso in negozio o da qualche amico. Ma le macchine – parrebbe – si stanno facendo più ambiziose. Praticamente su tutti i giornali è finito il video della sperimentazione della

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self-driving car (letteralmente “automobile che si guida da sola”) di Google mentre percorre le strade nei dintorni del Googleplex, e ad esso sarebbe legato un accordo firmato dal sindaco Bill De Blasio con il colosso californiano per introdurre ben 5mila taxi automatizzati a New York. Ma se la notizia della firma di

SITOGRAFIA www.airlab.elet.polimi.it - Laboratorio di intelligenza artificiale e robotica del Politecnico di Milano www.iit.it - Istituto italiano di tecnologia di Genova http://spectrum.ieee.org/blog/automaton - blog internazionale di robotica Automaton www.ifr.org - International federation of robotics

De Blasio, dopo aver gettato nel panico molti tassisti, si è rivelata una bufala del 1° aprile, il video esiste e lo scherzo potrebbe trasformarsi in realtà assai presto. La vera “bomba” lanciata nella guerra tra umani e robot è però giunta dall’Army Aviation Symposium di Arlington, qualche mese prima: il 15 gennaio il generale Robert Cone, responsabile del settore Formazione e dottrina di comando dell’esercito più potente del mondo, dichiarava che gli americani, nell’ambito di un taglio generale di truppe dalle attuali 540mila a meno di 450mila entro il 2020, stanno valutando di ridurre il numero di soldati che compongono le squadre di combattimento da 4mila a 3mila, pensando di sostituire gli uomini risparmiati con robot e veicoli telecomandati. Uno scenario da fantascienza, insomma. E qualcuno comincia a chiedersi se invece che dell’idraulico venuto dall’Est per “rubarci il lavoro” non dovremmo preoccuparci di qualche – sempre meno costoso – ammasso di sensori e circuiti stampati. Tanto per fare un esempio che interesserà i giardinieri, il mercato dei tagliaerba robotizzati nell’ultimo anno in Europa (fonte Neumann Italia) sarebbe cresciuto del 23%, raddoppiando le unità vendute dal 2010 al 2013: l’anno scorso ne sono stati venduti circa 130mila in Europa, contro i 105mila del 2012, e per l’anno in corso le previsioni sono di un’ulteriore crescita del

Ma senza leggi il settore non decollerà di Emanuele Isonio

Entro fine mese un pool di esperti europei guidati dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa presenterà alla Commissione europea alcune “Linee guida per la regolamentazione della robotica” Non è solo questione di viti, bulloni, software e localizzatori GPS. Per svilupparsi nel futuro, la robotica non dovrà superare solo ostacoli tecnologici. Anzi, il tema forse più complesso esula dai campi più affini per ingegneri e matematici. Introdurre l’uso di robot su ampia scala impone ineludibili problemi legali. Gli esempi possibili sono migliaia: chi paga se un’auto con guidatore

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automatico fa un incidente, magari con morti e feriti? O se un robot chirurgico “sbaglia” l’operazione? Domande cruciali che, se non troveranno risposta, nel medio periodo rischiano di bloccare lo sviluppo del settore. Non a caso, la Commissione Ue ha finanziato la realizzazione di alcune “Linee guida per la regolamentazione della robotica”, che verranno consegnate, entro fine mese, da un pool di tecnici di una quindicina di esperti di varie materie: ingegneri, filosofi, giuristi (il testo integrale sarà poi pubblicato sul sito robolaw.eu). Nel progetto c’è molta Italia. Italiana è l’università di riferimento (la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa). Italiana è la coordinatrice (Erica Palmerini, docente di diritto privato), unica connazionale a vincere l’anno scorso il World Technology Award.

30%, con l’Italia che rappresenta poco meno del 10% del settore europeo.

Occupazione hi-tech «In realtà – ci dice il professor Andrea Bonarini, membro del Progetto di Intelligenza Artificiale e Robotica del Politecnico di Milano dal 1984 – assistiamo a uno spostamento delle tipologie di lavoro che si rendono necessarie, e quindi anche in fabbrica il lavoratore svolge compiti meno onerosi sia per la salute che per la fatica fisica grazie al robot. [...] D’altra parte nel momento in cui invento una nuova macchina si genera un indotto che sta dietro il suo utilizzo, che va dalla vendita alla manutenzione e assistenza, alla produzione dei pezzi». Sono in arrivo anche nuovi posti di lavoro, quindi, e sarebbero milioni nel mondo, stando ai dati pubblicati nel 2013 dalla

International Federation of Robotics col rapporto Positive Impact of Industrial Robots on Employment. Il documento, elaborato dall’agenzia Metra Martech, sostiene che l’occupazione diretta causata dalla robotica a livello globale ha prodotto tra 4 e 6 milioni di posti di lavoro fino al 2011, cioè da 3 a 5 per ogni robot in uso; l’occupazione indiretta si attesterebbe addirittura tra 8 e 10 milioni di occupati. Mentre la previsione è che i robot genereranno tra il 2013 e il 2020 da un minimo di quasi 2 milioni a un massimo di 3,5 milioni di posti di lavoro. Certo non tutti i Paesi, settori e mercati potranno beneficiare di questo processo virtuoso, né c’è una strategia globalmente condivisa in merito. Ad esempio il maggior produttore globale di automobili, cioè Toyota, sta introducendo diverse linee di produzione ad alta presenza di lavoratori in carne e ossa,

«Il mondo della robotica – spiega la Palmerini – è ampio e complesso. Ci siamo quindi dovuti concentrare su casi specifici per circoscrivere il campo d’intervento». Quattro, per la precisione: protesi robotiche, robot chirurgici, robot per l’assistenza di anziani e disabili, veicoli autonomi terrestri. «Le soluzioni individuate in tali settori potrebbero poi funzionare da battistrada per gli altri». Non è scontato il primo risultato della ricerca: «Ci siamo resi conto – prosegue Palmerini – che la legislazione europea, attraverso la direttiva macchine, quella sui prodotti medici, sui prodotti difettosi e sulla privacy già fornisce risposte a molti possibili problemi. Sugli altri abbiamo sottolineato l’esigenza di avere un’unica norma di riferimento per tutta l’Europa». Solo in questo modo infatti sarebbe possibile garantire lo sviluppo di un mercato che già oggi travalica il confine dei singoli Stati. I vuoti normativi più rilevanti sono stati individuati dal team di esperti soprattutto sul fronte delle responsabilità per incidenti

con l’obiettivo di recuperare l’intuizione costruttiva degli operai, che partecipano in modo più attivo alla realizzazione delle vetture. E un primo risultato è stato già ottenuto nello stabilimento di Honsha, supervisionato direttamente da Mitsuru Kawai, dirigente ispiratore di questa parziale marcia indietro: si sono ridotti i livelli degli scarti ed è stata accorciata la lunghezza della linea di produzione del 96% in tre anni. 

GLOSSARIO Robòt(oròbot) s. m. [nel sign. 1, der., attrav. il fr. robot, dal cèco Robot ‹ròbot›, nome proprio, der. a sua volta di robota «lavoro», con cui lo scrittore cèco Karel Cˇapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R. del 1920; nel sign. 2, der. direttamente dal cèco robota nel senso di “lavoro servile; servizio della gleba”].

connessi a eventuali mal funzionamenti delle tecnologie robotiche. Chi si deve incolpare se un robot chirurgico risponde male ai comandi del medico? «Al momento – spiega Palmerini – i dati delle operazioni sono a disposizione solo dell’azienda produttrice. È evidente che quei dati devono poter essere liberamente consultati in caso di controversie per escludere la colpa del medico». Analoghe le preoccupazioni per i veicoli autonomi: «In questo caso, servirà una revisione del codice della strada e noi suggeriamo l’installazione di “scatole nere” simili a quelle degli aerei». C’è poi la questione del pagamento per eventuali incidenti: «Per bloccare la ricerca e lo sviluppo del settore, è molto utile prevedere assicurazioni obbligatorie e fondi da destinare alle vittime che siano finanziati con una percentuale delle vendite dei prodotti». Spunti cruciali per evitare problemi nella futura interazione tra uomo e tecnologie robotiche. Sarà ora compito della Commissione che uscirà dalle elezioni appena concluse trasformare le linee guida in atti normativi vincolanti.

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FONTE: WWW.TRECCANI.IT

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in corrispondenza con la flessione della produzione. Ma il resto è robotica che apre nuovi mercati, introducendo prodotti che non c’erano e favorendo anche lo sviluppo dell’occupazione. Il mercato, anzi, va piuttosto a rilento: l’aspirapolvere è arrivato alla vendita di massa dopo anni, quando si è trovato un compromesso tra prezzi accettabili e prestazioni soddisfacenti. Di fatto oggi assistiamo a una caccia all’applicazione che abbia futuro commerciale: dai robot giocattolo a quelli per le teleoperazioni chirurgiche.

Se il robot è di casa di Corrado Fontana

Da nove anni ci sono più robot fuori dalle fabbriche che dentro, per un settore in crescita con prospettive di applicazione potenzialmente infinite. E l’Italia non sfigura, sia nella ricerca – pur con poche risorse – che nell’automazione produttiva

Andrea Bonarini, docente responsabile del Laboratorio di robotica e intelligenza artificiale del Politecnico di Milano

l 2005 è stato un anno di svolta nel mondo, perché i robot fuori dalle fabbriche hanno superato sia per numero di elementi che per valore quelli dentro le fabbriche». Fino ad allora «sono stati considerati sostanzialmente un supporto alla produzione dell’industria», utilizzati in fasi come verniciatura, montaggio, spostamento di parti meccaniche. Questa la fotografia scattata dal docente responsabile del Laboratorio di robotica e intelligenza artificiale (AI & Robotics Lab) del Politecnico di Milano, Andrea Bonarini, che prosegue descrivendo un’Italia in linea con i Paesi più progrediti: «Abbiamo diverse catene produttive robotizzate (a Mirafiori qualsiasi componente pesi più di 4 chili, mi pare, viene spostato o manipolato direttamen-

«I

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te o con l’ausilio di robot sulla catena di montaggio). Ci sono società come Comau, costruita a supporto di Fiat, che sviluppano e vendono robot industriali, ed è fortissimo anche il comparto dell’automazione della produzione in generale, cioè robot che svolgono operazioni di impacchettamento, imbottigliamento...». E poi, meno di 10 anni fa, il sorpasso... Il contributo maggiore alla svolta rispetto al valore economico è dato naturalmente dai robot per le esplorazioni spaziali e per le attività militari. Per quanto riguarda invece il mercato end-user (robot piccoli e di basso costo) anche l’Italia contribuisce alla crescita, specialmente grazie alla diffusione di quelli aspirapolvere (sino a pochi anni fa il nostro Paese era al secondo posto nel mondo per diffusione, dopo gli USA), seppure la produzione sia tipicamente americana, coreana, asiatica... Anche quello dei tagliaerba è un settore interessante, con importanti operatori nostrani, ed è in salita il campo dei giochi, identificato dal presidente di Apple a settembre 2013 come la via principale per portare la robotica all’interno delle case. Cosa fate nell’AI & Robotics Lab? Perlopiù sviluppiamo robot “di servizio”, che aiutano nella vita di tutti i giorni, destinati ad esempio ai disabili: interessanti per la ricerca, diffusi e studiati, ma che faticano a trovare mercato e produzione industriale. Abbiamo ad esempio una carrozzina automatica che può essere controllata in vario modo e trasportare il proprio utente dove indicato (autonomia condivisa), ma non c’è nessuno che

intende produrla: mancano i finanziamenti e, se anche ci fossero, non si sa ancora come potrebbero esserne certificate l’efficacia e la sicurezza. Procediamo tuttavia nello sviluppo grazie ai finanziamenti europei... Stiamo anche realizzando un carrello che sarà in grado di scaricare in automatico un camion, e poi un veicolo autonomo. Del resto è almeno un ventennio che le aziende (e l’Ue) stanno finanziando progetti, e l’automobile senza conducente è una prospettiva realistica del prossimo decennio. Tutti i grandi costruttori di auto hanno annunciato che avremo entro il 2020 vetture con un buon grado di autonomia. Naturalmente c’è il problema delle certificazioni: bisognerà avere prodotti affidabili e si dovrà stabilire chi sia responsabile in caso di malfunzionamenti e incidenti. Internet, WiFi e cloud computing aprono prospettive, abbattendo i costi. È vero? Molte operazioni che, svolte a bordo del robot, sarebbero ancora costose o proibitive, diventano possibili se il robot può connettersi alla rete: ad esempio l’interpretazione del linguaggio naturale umano, la comprensione da parte della macchina è senz’altro più facile se ci si può connettere ai server di Google, acquisendo a bordo una maggiore potenza di calcolo senza caricare i calcolatori e le batterie necessarie per la loro alimentazione. Le prevista crescita dei ricavi della robotica entro il 2016 si sta verificando? Le proiezioni sono state abbastanza azzeccate: la crisi ha inciso sostanzialmente solo sull’incremento – peraltro limitato e quasi lineare – della robotica industriale,

Esiste una politica italiana o europea condivisa sullo sviluppo del settore? A livello europeo ci sono grossi investimenti (oggi con il progetto Horizon 2020), da un lato orientati a sviluppare prodotti che le aziende possano commercializzare, dall’altro verso robot di supporto, magari per l’assistenza ad anziani o disabili, o robot di servizio, impiegati nella sicurezza e nell’ispezione di luoghi complicati da esaminare, ad esempio serbatoi oppure cavi della luce. Robotica industriale e robotica autonoma o di servizio sono infatti mondi pressoché separati. Sui robot autonomi l’Italia è seconda in Europa dopo la Germania per numero di centri di ricerca, e ha un ruolo significati-

vo nell’acquisizione dei finanziamenti europei e internazionali. Abbiamo una decina di siti importanti, soprattutto laboratori universitari, oltre all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (“il MIT italiano”), all’Enea e al Cnr. L’Italia rimane carente sulla parte della produzione

Il professor Bonarini con i ricercatori del laboratorio di Robotica e Intelligenza artificiale del Politecnico di Milano e alcune delle loro “creazioni”.

industriale [...] E se nazioni come Francia e Inghilterra danno un forte supporto nazionale al settore, in Italia questo è praticamente assente. 

AMORE E LAVORO AI TEMPI DELLE APP Negli anni ’40 lo scrittore russo di fantascienza, Isaac Asimov, ha immaginato le tre leggi fondamentali della robotica. La prima dice: «Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno». Non possiamo dire che le cose stiano in questi termini, conoscendo il sempre maggiore utilizzo di robot da guerra come i droni, che fanno sembrare un bisticcio tra innamorati il contrasto tra il superintelligente computer di bordo, HAL 9000, nel film di Stanley Kubrik 2001 Odissea nello spazio. HAL, un nome ottenuto con le lettere precedenti e successive di IBM, cerca di sterminare l’equipaggio, senza riuscirvi completamente, per far fronte al “senso di colpa” nato da un comando che viola la prima legge della robotica. Dalla fantascienza al reale: proprio nell’epoca in cui il capitale

umano dovrebbe essere centrale, forse ancora nessuno si è innamorato di una App come nel film Lei (Her), ma c’è già chi vede il proprio posto di lavoro minacciato dalle App. Una di queste applicazioni informatiche che estendono le possibilità di uso dei dispositivi mobili come smartphone o tablet, si chiama Uber e ha messo in agitazione i tassisti di tutta Europa, perché rischia di far sparire il servizio così come lo conosciamo. Uber, infatti, è una società partecipata di Google, di cui sono note sia le dimensioni monopolistiche, che l’interesse per le auto senza guidatore. Evolv, una società californiana specializzata in quantified workplace movement, ha elaborato App che misurano la produttività individuale monitorando quante volte ci allontaniamo dalla postazione di lavoro. Sociometric Solutions è un’altra società che permette di controllare gli spostamenti dei dipendenti. Pa.Bai.

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di Emanuele Isonio

La rivoluzione robotica ridurrà le mansioni di basso livello, ma le sostituirà con nuove professioni. Ogni posto in high tech potrebbe generare cinque posti nell’indotto. Ma serve un ripensamento dei sistemi educativi. E la capacità di fare sistema investendo sui progetti migliori ambiano epoche e tecnologie, non lo scontro tra apocalittici e integrati. E, nella battaglia degli opposti estremismi, la robotica ha ampiamente preso il posto dei mass media (oggetto dello storico libro di Umberto Eco, esattamente mezzo secolo fa). Le analisi più pacate, sul rapporto rischi/benefici connessi con l’avan-

C

zare della robotica, arrivano (paradossalmente?) proprio da quanti, con hardware, software e algoritmi sono a stretto contatto tutti i giorni. Concordi nell’allertare sui possibili problemi, ma altrettanto convinti delle grandi opportunità da non lasciarsi sfuggire. Per l’occupazione, l’innovazione industriale e la qualità di vita.

High tech moltiplicatore di posti «Predire il saldo tra posti di lavoro persi e nuovi posti creati è un terno a lotto», ammette Basilio Bona, ordinario di Robotica al Politecnico di Torino. «Certamente saranno sostituite le mansioni di più basso livello e più ripetitive. Mentre c’è un’elevata probabilità che altrove i robot potranno lavorare insieme al personale umano, aumentando la produttività aziendale. In questo senso è probabile che ritorni in Europa ciò che fu delocalizzato anni fa nel Sud del mondo». Il vero rischio è che, per ogni posto perso, se ne crei un altro nello stesso momento. «Questo gap temporale – osserva

Anche i dubbi etici si adeguano all’era dei robot di Emanuele Isonio

Anche nel campo della robotica è necessario porsi il problema etico e costruire una serie di principi condivisi Il termine preciso è “roboetica”. Con esso si confrontano ormai scienziati e ricercatori di tutto il mondo. Ma l’invenzione è merito di un italiano, Gianmarco Veruggio, capo dell’Istituto di Elettronica e Ingegneria dell’Informazione del Cnr. Che dieci anni fa ha organizzato a Sanremo il primo Simposio internazionale sulla roboetica. Da quel momento è ufficialmente inziato un percorso di riflessioni e dibattiti tra chi realizza macchinari robotici. Obiettivo: individuare limiti e strumenti per incardinare lo sviluppo della robotica verso il benessere individuale e collettivo. Una testimonianza di come le preoccupazioni per i possibili lati negativi di questa nuova tecnologia non siano

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solo frutto di paure immotivate di chi non conosce a fondo la materia. «Praticamente tutti i ricercatori si pongono dubbi etici», spiega Veruggio. «Ma come avviene per altri settori (come bioetica e Ogm) le posizioni in campo sono molto diverse. La grande sfida è riuscire a costruire una serie di principi etici universalmente condivisi». Compito non semplice perché l’approccio all’uso dei robot non è lo stesso in tutti i Paesi del mondo. «E quindi una medesima tecnologia suscita reazioni diverse tra un continente e l’altro. Un problema in più, che potrebbe portare a posizioni differenti». In realtà, almeno per le questioni più spinose, i timori degli scienziati sono tutto sommato universali. E ricalcano gli stessi dubbi che già erano emersi in passato con precedenti tecnologie. «La robotica – prosegue Veruggio – fa riemergere temi etici già sollevati, ma li aggiorna e ne aumenta il livello di complessità».

Sistema formativo da ripensare «Più che dannarci l’anima perché si perderanno occupati in mansioni pericolose e dannose, dovremmo impegnarci per sfruttare al massimo i vantaggi connessi con la rivoluzione robotica, che agevolerà il passaggio definitivo all’econo-

Gli esempi sono disparati: il problema della dipendenza dalle macchine, gli effetti sull’ambiente, il digital divide, le conseguenze sulla distribuzione globale della ricchezza, le possibili violazioni della privacy e la disumanizzazione dei rapporti sociali. Tutti temi che attraversano i campi d’applicazione della robotica in modo trasversale. E che crescono d’importanza quando i robot vengono usati in settori delicati come quello militare o medico. Molte domande naturalmente ancora in cerca di risposte. Ma con una consapevolezza: «Se vogliamo costruire robot etici dobbiamo avere esseri umani etici, che sentano il bisogno di usare la tecnologia in modo responsabile». Se non ci si riuscirà, la colpa non sarà certo di un mucchio di ferraglia assemblata insieme.

COLLEGA ROBOT HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / PROJEKT ANA

L’economia della conoscenza sulle spalle dei robot

Bona – è il problema cruciale da arginare, per dar modo alla domanda di nuove professioni di svilupparsi a pieno». Ma a quel punto non è folle immaginare che gli occupati totali possano anche aumentare. Tanto più che il settore dell’alta tecnologia ha già dimostrato di saper essere uno straordinario moltiplicatore di posti di lavoro. «L’Università di Berkeley ha calcolato che un posto di lavoro creato nell’high tech è in grado di generarne altri cinque in settori connessi», rivela Paolo Traverso, ingegnere e amministratore delegato di Trento Rise, istituto ideato dall’università e dalla Provincia di Trento per attirare nel territorio investimenti e giovani cervelli da tutto il mondo. «Ecco perché le preoccupazioni su una disoccupazione causata dalle nuove tecnologie sono comprensibili, ma non condivisibili».

Giappone e Corea presentano il maggior tasso di robot per numero di dipendenti impiegati nell’industria manifatturiera, oltre 300 ogni 10mila lavoratori; segue la Germania con oltre 250. Gli Stati Uniti hanno meno della metà dei robot rispetto a Giappone e Repubblica di Corea. Il tasso di adozione dei robot si è rivelato in aumento tra il 2008 e il 2011: +40% in Brasile, +210% in Cina, +11% in Germania, +57% nella Repubblica di Corea, +41% negli Stati Uniti.

mia della conoscenza e arginerà la perdita di posizioni dell’Italia sulla scena industriale mondiale», commenta Alfonso Molina, direttore della Fondazione Mondo Digitale. «In settori come la robotica educativa, medica, ambientale e dei servizi i potenziali d’espansione sono enormi». I numeri europei sono già oggi emblematici: le aziende Ue coprono un terzo della produzione mondiale di robot, per un fatturato annuo di 3,5 miliardi e tassi di crescita del 7%. L’Italia riesce a fare la propria parte, con marchi di robotica industriale (come la Comau del gruppo Fiat) e importanti realtà accademiche di ricerca: alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, all’Istituto italiano di Tecnologia e all’Università di Genova, al Politecnico di Torino o alla Fondazione Bruno Kessler di Trento. Ma per essere sicuri di intercettare una fetta consistente dei flussi di denaro che la robotica sarà in grado di generare servirà ben altro. Soprattutto, servirà la capacità di adeguare l’approccio formativo. «Questo sforzo deve coinvolgere tutti i livelli educativi. Dalle elementari fino all’università» ammonisce Molina, che ricorda come oggi «purtroppo l’azione è lasciata alla sensibilità di docenti e presidi che comprendono il potenziale di queste tecnologie e le inseriscono nei loro corsi di studi». «A livello italiano non ci sono iniziative che stimolino progetti nella robotica» conferma Bona. «I fondi con cui lavorano le università proven-

Molina: «Bisogna sfruttare i vantaggi della rivoluzione robotica, che porterà verso l’economia della conoscenza» gono tutti dalla Ue. Quelli nazionali sono praticamente a zero». Un’inerzia che, una volta di più, rende l’Italia un Paese a macchia di leopardo. Dove accanto a centri d’eccellenza ci sono ritardi decennali. «Servirebbero invece indicazioni precise da parte del governo nazionale per introdurre metodi d’insegnamento che abituino ad affrontare i problemi in modo multidisciplinare». E, accanto ad esse, la capacità di fare sistema. Scuole, atenei, aziende e istituzioni pubbliche: «Bisogna avere il coraggio – osserva Traverso – di investire nei centri di ricerca più meritevoli. All’estero funziona così. Sanno selezionare i progetti migliori e su di essi concentrano le forze». 

LIBRI

Lorenzo Pinna

Uomini e macchine. La sfida dell'automazione Bollati Boringhieri, 2014

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FONTE: INTERNATIONAL FEDERATION OF ROBOTICS SU DATI POSITIVE IMPACT OF INDUSTRIAL ROBOTS ON EMPLOYMENT, FEBBRAIO 2013

dossier


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finanzaetica 346.000.000.000 sfumature di green > 24

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Wall Street: la lotta contro il tempo > 26

Ue, Tobin e riforme Si può dare di più di Matteo Cavallito

Sessioni plenarie al Parlamento europeo di Bruxelles.

n progetto poco ambizioso e, come se non bastasse, nemmeno troppo definito. È questa, in estrema sintesi, la definizione che gli attivisti di ZeroZeroCinque, l’iniziativa che opera in collaborazione con le altre campagne internazionali, hanno dato della Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) europea approvata a maggio dall’Ecofin. Un accordo, quello raggiunto alla vigilia delle elezioni che coinvolge per ora gli undici Paesi della Cooperazione rafforzata – Germania, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Grecia, Belgio, Estonia, Slovenia e Slovacchia – e che si appresta, da qui al 2016, data prevista per l’effettiva entrata in vigore, ad affrontare gli attacchi del fronte del “no”, che vede in prima fila il Regno Unito. Ma anche, e soprattutto, un’intesa che sembra più un punto di partenza che

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Quello relativo alla Tassa sulle transazioni finanziarie è solo l’ultimo accordo (parziale) raggiunto dall’Europa in merito alle riforme. È un punto di partenza, spiegano gli attivisti. Ma servono altri interventi

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di arrivo, non diversamente dagli altri capitoli alla voce “riforma della finanza” su cui l’Europa si sta impegnando con risultati solo parziali. Lo sottolineano gli stessi attivisti che sui temi chiave propongono soluzioni decisamente più radicali (vedi i post-it in queste pagine). Vale per il ruolo delle banche, l’high frequency trading, i derivati e le agenzie di rating. E vale, ovviamente, anche per la Tassa sulle transazioni finanziarie. L’ultimo tema, in ordine di tempo, discusso in sede Ue.

Il fronte esterno (e interno) Nel dettaglio, l’intesa raggiunta prevede l’applicazione di un’aliquota pari allo 0,1% sugli scambi dei titoli finanziari e dello 0,01% sulle operazioni in derivati. L’introduzione della tassa resta però graduale con i titoli azionari subito nel

Il fronte del “sì” alla Ttf resta diviso su alcuni punti: le eccezioni e il gettito. Sul fronte del “no” Polonia, Olanda e Repubbliche baltiche potrebbero cedere

mirino e i derivati colpiti solo parzialmente con l’esclusione di alcune categorie. Nell’occasione gli Undici hanno assicurato di voler tenere conto in futuro «anche delle perplessità espresse dagli Stati che non partecipano alla Cooperazione rafforzata». Un invito al compromesso con Londra? Non proprio, spiegano a Valori fonti vicine alla questione, perché la frase andrebbe letta piuttosto come un assist ai Paesi più attendisti. Il fronte del “sì”, in altre parole, sarebbe consapevole che Regno Unito, Svezia e Malta non sono disposte a cedere di un millimetro, ma altri Paesi come Polonia, Olanda e le Repubbliche baltiche, al contrario, potrebbero aderire all’iniziativa purché fossero rispettate certe condizioni. L’Olanda, in particolare, chiede l’esenzione delle operazioni condotte dai fon-

Le riforme: Valori suggerisce l’agenda per la nuova Commissione europea IL 25 MAGGIO SONO STATI ELETTI I NUOVI MEMBRI DEL PARLAMENTO EUROPEO. VOGLIAMO DARE IL NOSTRO CONTRIBUTO ALLA LORO AGENDA SCRIVENDO I TEMI CHE, SECONDO VALORI, DOVRANNO AFFRONTARE CON URGENZA.

BANCHE La situazione La recente riforma continentale prevede la possibilità di salvataggio di una banca da parte della Ue, unitamente, però, all’imposizione delle perdite sugli azionisti, i detentori di obbligazioni e i correntisti con depositi superiori a 100 mila euro (vedi il caso Cipro, su Valori 113 di ottobre 2013). Alcuni Stati nazionali hanno proposto soluzioni per separare le attività retail da quelle di investment banking stabilendo soglie massime di attività destinate al trading. Tali proposte non tengono però conto del ricorso al prestito di capitali (leva), una pratica in grado di moltiplicare i profitti ma, in caso di insuccesso, anche le perdite. In presenza di una leva di 33 (32 euro in prestito per ogni singolo euro investito, ndr), ricorda ZeroZeroCinque, basta una perdita del 15-16% sul portafoglio per bruciare l’intero capitale di proprietà della banca. Le proposte Limitare il ricorso alla leva; vietare il proprietary trading, ovvero l’investimento dei risparmi dei correntisti nelle operazioni più rischiose e separare in modo efficace le attività retail (conti di deposito, prestiti alla clientela) da quelle puramente finanziarie (investimento). Un obiettivo, quest’ultimo, che si è rivelato finora piuttosto complesso. «I Paesi che hanno approvato la divisione tra attività commerciali e di investimento, come dimostrano i casi di Usa, Regno Unito, Francia e Germania, fanno i conti con la lentezza del processo di approvazione dei regolamenti attuativi su cui pesa l’attività di lobbismo delle banche», ricorda Leonardo Becchetti, ordinario di Economia Politica dell’Università di Roma Tor Vergata e portavoce della campagna ZeroZeroCinque. «Anche per questo crediamo che il problema vero consista nella limitazione del potere delle lobby, una vera e propria premessa a qualsiasi riforma».

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di pensione che, da sempre, gestiscono una liquidità enorme. Ma quelli con i nuovi potenziali sostenitori non sono gli unici compromessi all’orizzonte. E qui veniamo al problema più importante: quel dibattito tra gli Undici che, a quanto pare, è tutt’altro che sopito. La sensazione, infatti, è che l’accordo sulla versione soft presentata a maggio sia la logica conseguenza di contrasti irrisolti all’interno del fronte del Sì. A dividere, ovviamente, è il lunghissimo capitolo delle eccezioni sul quale ognuno sembra avere idee diverse, a cominciare dai derivati – che la Germania vorrebbe colpire e la Francia invece no – e proseguendo con i titoli sovrani che la Spagna, si dice, sarebbe disposta a tassare e che l’Italia, al contrario, vorrebbe escludere dalla base imponibile dell’imposta. Una posizione compren-

sibile, ovviamente, per un Paese che fa i conti con un’enorme massa debitoria da rifinanziare con nuove emissioni che l’applicazione della tassa, si teme, potrebbe rendere meno attraenti agli occhi degli investitori. Ma il problema resta comunque aperto se è vero, come precisano le fonti, che al momento non esisterebbero studi di impatto in grado di quantificare l’eventuale danno che una Tobin tax europea (espressione ormai parte della cronaca sebbene impropria viste le differenze con l’ipotesi elaborata da James Tobin negli anni ’60) produrrebbe su Btp e affini in termini di incremento di spread e interessi.

Il nodo del gettito Tra i motivi di insoddisfazione degli attivisti, inoltre, c’è soprattutto il “capitolo finale”, ovvero il dibattito sul gettito. Che

HIGH FREQUENCY TRADING La situazione La nuova Mifid ha “colpito” anche il trading algoritmico ad alta frequenz a introducendo la possibilità per i regolatori di testare i programmi prima di autorizzarli. Le società di trading saranno inoltre obbligate a conservare le informazioni sugli scambi per i quali, infine, viene imposto un intervallo minimo di mezzo secondo tra ogni singolo ordine di compravendita. Le proposte Disincentivare l’high frequency trading mediante una tassa sulle transazio ni finanziarie. L’imposta, per sua natura, penalizzerebbe proprio il ricorso a un elevato numero di transazioni in uno spazio temporale ridotto.

PARADISI FISCALI La situazione Il 24 marzo 2014 il Consiglio Europeo ha modificato la direttiva sul risparmio (Savings Income Taxation Directive) introducendo lo scambio automatico di informazioni tra le autorità fiscali dei Paesi membri (le legislazioni nazionali dovranno adeguarsi entro il 1° gennaio 2016). La soluzione rischia di essere inefficace anche a fronte delle diffuse e pratiche di elusione che consentono alle grandi corporation di trasferir li. favorevo più fiscali ioni giurisdiz nelle i profitti alle controllate residenti Le proposte Introdurre il cosiddetto Country by Country Reporting, ovvero l’obbligo per le corporation di indicare i profitti realizzati in ogni singolo Paese (ad oggi vengono diffusi al contrario solo dati aggregati per macro aree) con l’obiettivo di bloccare l’elusione; rafforzare la lotta al riciclaggio approvando senza annacquamenti la quarta direttiva comunitaria e in materia (4th Anti Money Laundering Directive) che impone la creazion ari benefici sui zato centraliz in ogni Stato Ue di un registro pubblico di ogni disposizione e accordo tra imprese, fondazioni, holding e trust; promuovere una “tassazione unitaria” delle multinazionali a livello internazionale.

DARK POOLS E DERIVATI La situazione L’aggiornamento della direttiva Mifid (Markets in Financial Instruments Directive) approvato a inizio anno impone nuove norme per chi opera nelle dark pools, le Borse alternative dove si possono negoziare i titoli senza comunicare i prezzi intermedi delle contrattazioni. Introdotte le organised trading facilities (OTF), le piattaforme di scambio su cui passeranno (e dove saranno monitorati) i titoli derivati. Vengono istituite le clearing houses, ovvero le intermediarie che garantiscono le transazioni in caso di default di una delle parti. La nuova normativa consentirà alle authorities di imporre limiti alle posizioni detenute dagli operatori che sottoscrivono derivati (futures e forward in particolare) che hanno come sottostanti le materie prime. Le proposte Disincentivare mediante l’approvazione di una tassa sulle transazioni finanziarie l’uso speculativo dei derivati che, a differenza dell’utilizzo a scopo di copertura (hedging), si caratterizza per l’alto numero di operazioni. In assenza di questo disincentivo «il rischio sistemico resta – afferma il professor Becchetti – perché la dimensione delle operazioni in derivati è pur sempre enorme ed è difficile pensare che in caso di crisi le clearing houses possano continuare a funzionare».

fare, in altre parole, del ricavato della tassazione? «I governi non stanno certo dando rassicurazioni alle fasce di popolazione più povere in Europa e nel mondo» nota la ZeroZeroCinque sottolineando come al momento non siano ancora state indicate le destinazioni del gettito. Da sempre gli attivisti spingono per un afflusso dei ricavi verso la cooperazione (lotta alla povertà, Obiettivi del millennio) e le politiche di contrasto al cambiamento climatico ma non è detto che a prevalere, nell’agenda dei governi, non sia piuttosto il rifinanziamento delle martoriate casse pubbliche. Molto, forse, dipenderà dall’ammontare del gettito stesso le cui stime, al momento, restano però difficili da elaborare vista l’assenza di un quadro certo in merito all’architettura della tassa. Il solito problema irrisolto. 

FINANZA ETICA La situazione Nella sua petizione online Febea (la Federazione della banche etiche europee) chiede all’Europa un riconoscimento specifico (anche all’interno di Basilea III) del ruolo delle banche che incentrano «la propria strategia d’investimento sul finanziam ento di progetti che comportano una plusvalenza di natura sociale, culturale o ambientale». In Italia, il governo ha avviato la consultazione sul terzo settore nella quale potrebbe rientrare anche il tema della finanza etica. Le proposte Il dibattito resta aperto. «La finanza etica non ha bisogno di agevolazioni perché è già di per sé competitiva sul mercato come dimostrano i dati di bilancio e le performance dei suoi fondi, anche se la società trarrebbe grande giovamento da una finanza etica ancora più forte perché agevolata», rileva Leonardo Becchetti. «Occorre un riconosc imento, certo, ma a livello a culturale più che economico. Anche per questo è opportun o che il governo crei spazi di informazione per spiegare al pubblico che cosa sia la finanza etica».

AGENZIE DI RATING La situazione Nel giugno scorso è entrato in vigore il regolamento europeo sulla riforma delle agenzie di rating. Il documento impone la pubblicazione dei rating sovrani non richiesti in date prestabilite, il divieto di dichiarazioni che preannuncino la revisione di un giudizio su uno Stato, la semplificazione di un eventuale ricorso legale contro un’agenzia, una stretta sui conflitti di interesse e, tra le altre cose, l’ipotesi di nascita di un’agenzia di rating europea. Quest’ultimo obiettivo è comunque rimandato, come minimo, al 2016. Le proposte «L’apertura di un’agenzia europea garantirebbe un maggiore pluralismo di mercato spezzando in parte l’attuale oligopolio Moody’s, Fitch, S&P’s», sostiene Leonardo Becchetti. «Ma la vera necessità consiste nel depotenziare i giudizi di rating abolendone, per così dire, il “valore legale”. Come? Eliminando quelle regole che impongono a certi fondi di acquistare solo titoli a tripla A per una certa quota del loro portafoglio, ad esempio».

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| finanzaetica | bond ecosostenibili |

| finanzaetica |

346.000.000.000 sfumature di green di Matteo Cavallito

Il mercato delle obbligazioni verdi conosce una crescita senza precedenti. Ma la definizione degli investimenti resta un problema aperto Economist la definisce “aria di primavera” e, cifre alla mano, si ha la sensazione di un evento dirompente. È il fenomeno obbligazioni “verdi” (green bonds), i prodotti di credito per le iniziative dedicate all’ambiente, ovvero al contrasto al cambiamento climatico. In principio, nota il settimanale britannico, si trattava di un fenomeno marginale. Poche decine di milioni di dollari di emissioni ad opera della World Bank. Oggi, invece, si parla di miliardi, con il coinvolgimento di un crescente numero di investitori. Qualche mese fa, il colosso francese dell’energia EDF ha immesso sul mercato obbligazioni “verdi” 1,4 miliardi di euro di. Di recente, la casa automobilistica FONTE: BANKTRACK, NOVEMBRE 2013. DATI IN MILIARDI DI EURO, TRA PARENTESI LA POSIZIONE NELLA CLASSIFICA MONDIALE

L’

giapponese Toyota ha raccolto 1,75 miliardi di dollari dagli investitori per il finanziamento dei programmi di acquisto di auto ibride ed elettriche da parte della sua clientela. A finanziare le operazioni, nota ancora l’Economist, ci sono ovviamente i fondi pensione, tradizionali operatori del settore, ma anche alcune new entry. Tra questi, in particolare, il gigante assicurativo Zurich che, alla fine dell’anno passato, ha preannunciato un investimento da 1 miliardo di dollari, affidandone la gestione a un altro peso massimo della finanza globale: la banca statunitense BlackRock. Nel 2012, ha ricordato Climate Bonds Initiative (CBI), un’organizzazione non profit di base a Londra, le emissioni totali erano state pari a 2 miliardi di dollari. Nel 2013 i nuovi collocamenti sono saliti a 11 miliardi, portando il controvalore dei titoli circolanti nel mercato (nuove e vecchie emissioni non ancora scadute) a quota 15 miliardi. Nei primi tre mesi del 2014, ha ricordato il data provider Dealogic citato dal Wall Street Journal, i nuovi

I PRIMI 13 FIRMATARI E I FINANZIAMENTI ALLE MINIERE DI CARBONE 2005-13 Morgan Stanley Bank of America Merrill Lynch Citigroup JPMorgan Deutsche Bank BNP Paribas HSBC [Valore] (15°) Crédit Agricole [Valore] (19°) Goldman Sachs [Valore] (20°) Mizuho [Valore] (28°) Rabobank [Valore] (50°) Seb [Valore] (56°) Daiwa [Valore] (NC) 0,0

1,0

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2,0

[Valore] (1°) [Valore] (2°) [Valore] (3°) [Valore] (4°) [Valore] (5°) [Valore] (10°)

3,0

4,0

5,0

6,0

7,0

8,0

collocamenti sono stati pari a 7,4 miliardi, circa 2/3 del totale dell’intero anno passato.

Un mercato enorme… Ma il fenomeno, in ogni caso, appare un po’ più complesso. «Sebbene siano collocate ormai da decenni – ha spiegato CBI – di rado le obbligazioni per il finanziamento di infrastrutture a basse emissioni sono state classificate formalmente come green o climate». Accanto al mercato delle emissioni certificate come “verdi”, in altre parole, si manifesta in continuazione un mercato parallelo di prodotti finanziari a sostegno di progetti nei comparti di trasporti, energia, agricoltura, finanza e smaltimento rifiuti associabile, in qualche modo, alle iniziative di contrasto al cambiamento climatico. L’ammontare totale delle obbligazioni “parallele” tuttora sul mercato vale 346 miliardi di dollari contro i 174 registrati nel 2012. La Cina, 127 miliardi (quasi tutti nel settore trasporti), è l’indiscusso leader davanti a Regno Unito, Francia e Stati Uniti. Le potenzialità del settore, insomma, sono evidenti. Ma la domanda, inevitabilmente, sorge spontanea: quante di queste obbligazioni possono o potranno essere certificate in futuro come autenticamente “verdi”? La questione è decisiva, soprattutto per contrastare il rischio di un abuso dell’etichetta ambientale per ragioni di immagine, il fenomeno noto come green washing.

tification Scheme, qualcosa di simile, spiegano i promotori, al celebre marchio Fairtrade del commercio equo. Ma ad affrontare il tema, in qualche modo, sono state anche le banche. All’inizio di quest’anno 13 istituti (oggi sono 25) hanno annunciato il proprio sostegno ai cosiddetti Green Bond Principles, un progetto avviato da quattro capofila – Bank of America Merrill Lynch, Citigroup, Crédit Agricole e JP Morgan – che mira a fornire alcune linee guida per promuovere la trasparenza sul mercato, garantendo in particolare «la disponibilità delle informazioni necessarie per valutare l’impatto ambientale degli investimenti verdi». Le banche non hanno voluto entrare nel merito della definizione di “investimento verde”, una scelta che divide. CBI, spiega a Valori il suo Ceo Sean Kidney (vedi intervista), approva la decisione, ma qualcun altro la pensa diversamente. È il caso del network di attivisti BankTrack, di base a Nijmegen, in Olanda, che ha giudicato l’iniziativa troppo debole. «Definire cosa sia davvero “verde” o meno non è facile – spiega a Valori il ricercatore di BankTrack Ryan Brightwell – ma lasciare completamente quest’onere all’interpretazione delle banche è un grosso rischio». Secondo i principi delle banche, aggiunge, «qualsiasi cosa oggi potrebbe essere giudicata potenzialmente “green”, dai progetti di costruzioni caratterizzati dagli standard di efficienza energetica meno ambiziosi fino ai piani di sviluppo dello shale gas che molti operatori dell’industria insistono a considerare come la risorsa del futuro piuttosto che come una nuova fonte di emissioni di CO2». Come se non bastasse, nota BankTrack, ben dieci delle prime tredici banche firmatarie rientrano nella Top 20 globale dei finanziamenti alle miniere di carbone. Un’attività, quest’ultima, che dal 2005, l’anno dell’approvazione del Protocollo di Kyoto, al 2012 è cresciuta del 397%. 

…ancora da definire

IN RETE

Anche per questa ragione CBI ha elaborato un progetto denominato Climate Bond International Standards and Cer-

Climate Bond Initiative www.climatebonds.net/standards

«Investimenti verdi: sta emergendo una visione comune» di Matteo Cavallito

CBI promuove il lavoro delle banche: “Green Bond Principles fondamentali per il mercato”. E sui criteri green, ipotizza il suo Ceo, le opinioni starebbero convergendo «L’iniziativa dei Green Bond Principles è significativa e importante, ci complimentiamo con le banche». Parola di Sean Kidney, Ceo di Climate Bonds Initiative (CBI), interpellato sull’argomento da Valori. Qual è l’importanza dei Green Bond Principles? I principi svolgono due azioni fondamentali nel mercato: primo, stabiliscono che i green bonds riguardano gli assets e non le società. Ovvero, non conta il giudizio positivo in un indice di sostenibilità, ma che il denaro investito arrivi, per esempio, a un impianto eolico. Un aspetto assolutamente necessario. In secondo luogo, i principi stabiliscono alcune regole in materia di reporting. Regole che potrebbero essere più severe, d’accordo, ma promuovono comunque la necessaria trasparenza per gli investitori. Alcuni osservatori, tra cui BankTrack, hanno sottolineato che questo schema appare però ancora troppo debole e che al tempo stesso non risolve il problema della definizione di “investimento verde”. Ovviamente i principi non risolvono il problema e per altro non ci provano nemmeno. Ma non credo che sia compito delle banche commerciali definire cosa sia o non sia verde. Secondo gli istituti, tocca agli investitori. Sono d’accordo con loro. E di solito lo sono anche gli investitori. Esistono definizioni, anche solo parziali, di investimento verde che siano attualmente riconosciute come standard globali dalle organizzazioni internazionali, dai governi e dagli investitori? Gli standard che stiamo sviluppando lo sono certamente in quanto disponibili e fruibili nei vari Paesi. Così come i criteri per gli investimenti verdi elaborati dall’International Finance Corporation della Banca Mondiale. Certo, i diversi enti hanno standard diversi ma le differenze non sono sostanziali e il loro approccio cooperativo plasma a vicenda i vari punti di vista. Credo stia ormai emergendo una visione comune sulla definizione di investimento “verde”. Negli ultimi due anni il mercato ha sperimentato una forte crescita degli investimenti nel comparto verde. Tra i fattori di sviluppo può esserci anche il green washing? No, non è un fattore di crescita, semmai è una sua conseguenza. Il green washing costituisce comunque un grosso rischio per l’integrità dei bond verdi, motivo per il quale gli standard sono così importanti. Stiamo lavorando proprio per questo. 

BankTrack www.banktrack.org

Green Bond Principles www.ceres.org/resources/reports/green-bond-principles2014-voluntary-process-guidelines-for-issuing-green-bonds

| ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 25 |


| finanzaetica | letteratura finanziaria |

| finanzaetica |

se stesse), i trader riescono a ottenere informazioni privilegiate con qualche preziosissimo millisecondo di anticipo rispetto a tutti gli altri. Il che significa che un sistema nato per dare a tutti le stesse opportunità finisce per creare un divario tra un ristretto gruppo di insider, con le loro informazioni esclusive, e tutti gli altri, condannati a restare indietro. A febbraio Warren Buffett, il patron della Berkshire Hathaway, ha detto basta, negando ai trader ad alta frequenza l’accesso diretto a Business Wire, il sistema che aggrega e distribuisce notizie del mondo finanziario. Ma la sua, per ora, è una mossa isolata. Tanto che Lewis si spinge a dire che l’intero mercato azionario statunitense, un mercato che vale 22 trilioni di dollari, sia manipolato.

Wall Street: la lotta contro il tempo di Valentina Neri

S

Miliardi in un battito di ciglia Quello dipinto da Lewis è un universo in cui i miliardi si muovono ben più veloci di un battito di ciglia: le unità di misura sono millisecondi e microsecondi (rispettivamente, un millesimo e un milionesimo di secondo). Questo è il tempo necessario alla macchina per vedere un operatore che fa partire un ordine, batterlo in velocità acquistando proprio il titolo a cui stava puntando, farne salire | 26 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

il prezzo e infine rivenderglielo in prima persona, intascando la differenza. Operazioni ripetute migliaia e migliaia di volte, accumulando i margini di profitto uno dopo l’altro. Con il meccanismo del best price, per giunta, per comprare una determinata quantità di azioni ci si deve rivolgere prima alla piattaforma dove il prezzo è più basso, per poi integrare la quantità mancante nelle altre. Per i trader ad alta frequenza, così, è an-

Lewis descrive un mondo dove si spostano miliardi in un battito di ciglia, basta un click. Baranes: «Questo non ha nulla a che fare con l’economia reale, è il fallimento della finanza»

Questione di tecnologia… e di logistica

Il fallimento della finanza

È un mondo in cui, dunque, a decidere chi vince e chi perde non è certo la perizia dell’analista finanziario che intuisce quali sono i titoli più validi. Al contrario, a dettare legge sono gli algoritmi che programmano gli scambi e la capacità della fibra ottica che collega i propri server a quelli della Borsa. Si spiega così il tunnel scavato sotto i monti Allegheny, in Pennsylvania, per posare un cavo di fibra ottica in grado di ridurre di tre millisecondi il tempo di comunicazione tra Chicago e la Borsa di New York. Fino ad arrivare alla co-location: vale a dire all’affitto (a caro prezzo) degli spazi più vicini possibili ai centri operativi, se non nello stesso edificio. In questo modo, sfruttando le proprie tecnologie (spesso – denuncia Lewis – addirittura più avanzate di quelle delle Bor-

Cos’ha a che fare tutto questo con l’economia reale, fatta dei beni e servizi prodotti dalle stesse società sulle quali si specula? Assolutamente nulla, stando ad Andrea Baranes, che nel suo ultimo libro non è tenero fin dal titolo (Dobbiamo restituire fiducia ai mercati. Falso!). «L’high

FATTI IN ITALIA L’eccellenza italiana sotto la lente di Valori

LIBRI Michael Lewis Flash boys. A Wall Street Revolt W. W. Norton & Company I edizione 31 marzo 2014 [in inglese]

Andrea Baranes “Dobbiano restituire fiducia ai mercati” Falso! Laterza (collana Idòla) Marzo 2014

pio precauzionale: prima si mette in commercio un prodotto e solo in un secondo momento si verifica se può avere conseguenze disastrose», commenta Andrea Baranes. La linea dura, a sorpresa, potrebbe arrivare dal Vecchio Continente, dove i legislatori stanno vagliando normative che sarebbero fra le più severe in assoluto (vedi ARTICOLO a pag. 21). 

’eccellenza italiana sotto la lente di Valori V lori Va FATTI F FA ATTI ITA T LIA L’L’eccellenza TA T IN ITALIA

chermi pieni di grafici, uomini in giacca e cravatta che parlano animatamente al telefono. Probabilmente è questa la prima immagine che viene in mente alla maggior parte di noi quando sentiamo nominare la Borsa. Ma, almeno dal 2007, la finanza è tutt’altro. Perché le macchine hanno soppiantato l’uomo con le sue imperfezioni. Certo, le persone esistono ancora, ma hanno un ruolo molto più marginale. E, se ne conoscessero veramente i meccanismi, ci penserebbero due volte prima di premere il tasto buy. Piace stupire al giornalista Michael Lewis, che inizia così il suo Flash boys: A Wall Street Revolt. Uscito ad aprile negli Stati Uniti, ha subito scatenato un polverone: 130 mila copie vendute in una settimana e, forse, un film in arrivo. Risultati inaspettati per un’opera che, pur con un ritmo da romanzo, indaga i complicati meccanismi di una materia tecnica come il trading ad alta frequenza.

cora più facile capire dove si indirizzeranno le richieste per un determinato titolo: basta monitorare costantemente le quotazioni.

HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / ALEX PROIMOS

L’high frequency trading diventa un romanzo. Le fatidiche contrattazioni finanziarie ad alta velocità effettuate da computer sono lo scenario dell’ultimo libro del giornalista Michael Lewis

frequency trading è l’esempio emblematico di una finanza che ha fallito su tutti i fronti. Ha fallito perché un mercato nasce per far incontrare domanda e offerta, ma accade tutto il contrario: da un lato abbiamo un’enorme offerta di denaro maneggiato alla disperata ricerca di profitto e, dall’altro, non abbiamo fondi per finanziare scuola, sanità, stipendi». In altre parole, quelle scritte da Paul Krugman in un recente editoriale per il New York Times, le risorse vanno ad attività «profittevoli per i privati ma improduttive per la società». A difendere la società dovrebbe essere la politica. Ma i suoi tempi, al confronto, sembrano millenari. Mentre scriviamo questo numero di Valori si mormora che il procuratore generale di New York Eric Schneiderman abbia convocato colossi bancari del calibro di Barclays e Credit Suisse per ottenere informazioni per un’indagine sulle dark pools, borse alternative e senza regole a cui possono partecipare soltanto i grandi operatori. Certo è che «sembra il gioco del gatto e del topo. Questo perché la finanza è l’unico settore in cui non esiste un princi-

È USCITO IL NUOVO LIBRO DI VALORI DEDICATO ALL’ITALIA CREATIVA E CAPACE FATTI IN ITALIA Isonio Emanuele to tta Tramon ed Elisabe prefazione i cc ala Ermete Re

a L’eccellenz italiana nte sotto la le di Valori

Puoi acquistarlo on line su www.valori.it anche come e-book


LATTE TRATTATO

Fratelli di latte

| il mondo a colazione |

FATTURATO

mln tonnellate

mld dollari [comprende anche i prodotti non caseari]

21,6

16,0 FONTERRA Nuova Zelanda

0,1

5,2

30,2

6,6

16,2

15,9

17,2

62,0

1,5

2,5

1,4

8,7

26,2

52,6

0,5

7,4

102,9

DAIRY FARMERS OF AMERICA

11,2

2,6

12,1

0,5

0,6

8,4

12,1

77,0

17,1

Usa

CANADA

REGNO UNITO

15,0

FRANCIA

UE

RUSSIA

18,0

LACTALIS - PARMALAT Francia / Italia

1,7

2,1

0,2

13,3

0,1 41,1

0,5

3,1

CINA

GIAPPONE

MESSICO

ARLA FOODS

3,5

5,3

8,8

24,3

12,0

42,7

O

53,3

Danimarca / Svezia

GERMANIA

10,1

13,5

6,2

23,7

Usa

0,5

1,6

DEAN FOODS 9,4

EGITTO

FRIESLANDCAMPINA

0,2

0,2

19,4

5,0

8,2

1,5

Olanda

23,1

SUDAFRICA

DANONE Francia

7,8

5,7

Consumo latte [litri pro capite/anno]

ARGENTINA

BRASILE

5,7

Export latte/latticini [mln tonnellate]

INDIA

AUSTRALIA

18,4

0,1

20,5

6,7

65,2

3,3

0,6

9,0

11,8

105,9

Import latte/latticini [mln tonnellate]

6,9

0,1

Produzione latte/latticini [mln tonnellate]

40,0

Usa

0,1

0,9

34,4

3,6

57,2

0,1

10,8

41,1

11,2

2,5

KRAFT FOODS

1,2

Consumo formaggio [kg pro capite/anno]

144,9

ltre 6 miliardi di persone. Più dell’85% della popolazione globale. Sono i consumatori di latte e latticini nel mondo, soddisfatti da una produzione totale che nel corso del 2014, ipotizza la Fao, dovrebbe crescere del 2,1% toccando quota 783 milioni di tonnellate. Un mercato in crescita, trainato, manco a dirlo, dalla domanda dei mercati emergenti e in via di sviluppo i cui consumi sono aumentati di quasi due volte dall’inizio degli anni ’60. «Dovrebbe essere ancora l’Asia il principale polo dell’incremento della domanda mondiale – nota la Fao – con previsioni di crescita sugli acquisti da parte di Cina, Iran, Indonesia e Filippine». Ma a confermare il trend saranno anche i mercati consolidati come Usa e Ue. L’import/export coinvolge meno del 10% del latte prodotto nel mondo. Nel 2012 nelle mani delle prime dieci multinazionali del settore è passato esattamente 1/6 del latte prodotto su scala globale (125,6 milioni di tonnellate su un totale di 762,3). 

ITALIA

10,8

7,5

12,0

30,6

0,2

3,0

3,1

11,1

34,8

di Matteo Cavallito

4,3

Svizzera

USA

20,9

52,7

NESTLÉ MONDO

15,4

65,5

30,1

69,1

783,2

20,4

10,7

15,2

93,6

74,0

1,4

108,2

14,9

NUOVA ZELANDA

DMK | 28 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

Germania

| ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 29 |

FONTI: CANADIAN DAIRY INFORMATION CENTRE (CDIC), 2013; DAIRYCO UK, 2013; CLAL.IT, 2014; FAO, FOOD OUTLOOK: GLOBAL MARKET ANALYSIS, NOVEMBRE 2013. OECD-FAO AGRICULTURAL OUTLOOK, 2014; NOSTRE ELABORAZIONI. ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

| numeridellaterra |


| sprechi mondiali |

economiasolidale Sorpresa: la Tav non servirà a trasportare le merci > 34

HTTP://EN.WIKIPEDIA.ORG

Latte. L’oro bianco che non conosce la crisi > 35

Brasile 2014 Il Mondiale delle cattedrali nel deserto

Stadio Maracanã a Rio de Janeiro. | 30 | valori | ANNO 13 N. 112 | SETTEMBRE 2013 |

Il Maracanà, storico stadio di Rio, è un gioiello ecologico. Come quello di Brasilia e gli altri che quest’anno ospitano il campionato del mondo. Peccato che, finite le partite, resteranno inutilizzati. La popolazione denuncia le spese considerate inutili

di Andrea Barolini

li sforzi effettuati dal Sudafrica non sono sufficienti. E la Fifa (la Federazione internazionale del football, ndr) deve prendere questo monito in seria considerazione». Era il mese di ottobre del 2012, quando il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente sottolineava le sue critiche all’organizzazione del Mondiale del 2010 e a un mondo del calcio che non era abbastanza ecologico. In particolare, occorreva costruire infrastrutture più compatibili con l’ambiente circostante. Stadi eco-sostenibili e all’avanguardia, insomma. Ineccepibile. Con un dubbio: a cosa serve uno stadio ambientalmente perfetto se in futuro sarà (quasi) completamente inutilizzato, rivelandosi una cattedrale nel deserto?

«G

| ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 31 |


| economiasolidale |

Facciamo un passo indietro e concentriamoci sulla Coppa del Mondo che si svolge in questi giorni (dal 12 giugno al 13 luglio) in Brasile. Il fatto che le autorità del Paese latinoamericano abbiano ascoltato le indicazioni dell’Onu appare indiscutibile. Basta dare una rapida occhiata agli stadi che sono stati ristrutturati o edificati ex novo per l’evento.

| economiasolidale |

permette di non rinunciare all’efficienza ma di abbattere decisamente i consumi. Il campo di gioco, poi, è annaffiato con acqua piovana, che viene recuperata grazie a un sistema di canalizzazioni e di stoccaggio. E non è tutto: l’intera struttura è anche dotata di una membrana “fotocatalitica”, che permette di captare le particelle inquinanti nell’aria e di migliorare in tal modo la qualità di quest’ultima.

Stadi super-ecologici Le città di Rio de Janeiro, Brasilia, Fortaleza, Belo Horizonte, Sao Paulo, Porto Alegre, Salvador de Bahia, Recife, Cuiaba, Manaus, Natal e Curitiba ne ospitano dodici in tutto. Partiamo dal tempio del calcio mondiale: il Maracanà, lo stadio storico di Rio, conosciuto in tutto il mondo anche da chi di calcio non si interessa. Fu costruito per il Mondiale del 1950 e, 64 anni dopo, si presenta come un gioiello ecologico. Il tetto è stato ricoperto da 1.500 pannelli fotovoltaici, che assicurano la completa autonomia energetica. A Belo Horizonte, l’arena che sarà teatro delle partite delle nazionali ha fatto anche di più, tanto da arrivare a meritarsi la certificazione americana LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), concessa agli edifici più efficienti da un punto di vista ambientale. Ma il fiore all’occhiello degli organizzatori è senza dubbio lo stadio di Brasilia. Completamente rinnovato, è stato concepito per essere il primo 100% ecologico al mondo. Grazie alle energie rinnovabili, produce non soltanto tutta l’energia di cui ha bisogno, ma anche quella utile per alimentare le case di circa mille famiglie nel quartiere circostante. Le luci sono esclusivamente a “led”, tecnologia che | 32 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

Cattedrali nel deserto Eppure, parecchie di queste “meraviglie ambientali” rischiano di risultare completamente inutili quando l’arbitro fischierà la fine dell’ultimo match della Coppa. Per un semplice motivo: esse sono state costruite in luoghi nei quali non ci sono squadre di calcio all’altezza di tali impianti. Non a caso, un recente sondaggio della Confederazione nazionale dei trasporti ha indicato che la stragrande maggioranza dei cittadini brasiliani (ben il 75%) considera “inutili” le spese colossali che sono state imposte dal governo per organizzare il Mondiale. «Tenuto conto della nostra esperienza in Brasile – spiega Gert-Peter Bruch, presidente dell’associazione Planète Amazone, che da anni si batte per i diritti dei popoli autoctoni nel Paese latino-americano – possiamo dire che quella del governo non è altro che una strategia di marketing. È evidente». L’opinione dei brasiliani, in effetti, è suffragata dai fatti. Prendiamo lo stadio di Manaus, l’Arena de Amazonia, da 40mila posti. È costato 205 milioni di euro: la Fifa ha spiegato che, dopo la Coppa, essa ospiterà ristoranti, parcheggi e accessi per bus. Ma sarà davvero molto difficile vedere dei giocatori sul campo,

visto che la migliore squadra locale, il Nacional, milita in serie D! Situazione identica a Cuiabà, nella regione occidentale del Paese: lo stadio per i Mondiali ha una capienza da 43mila posti, e le squadrette locali giocano in serie C e D. Nella capitale Brasilia, l’impianto intitolato al campione Mané Garrincha, da 71mila posti, ospiterà i match di due compagini minori, il Gama e la Brasiliense. Mentre a Natal (costa atlantica) l’Arena des Dunas, da 42mila posti, è costata 125 milioni e potrà servire unicamente a due semi-sconosciute squadre di serie B: l’ABC e l’America RN.

Un modello di sviluppo controverso «L’Arena des Dunas sarà utilizzato per concerti, esposizioni commerciali, eventi importanti», ha dichiarato il presidente Dilma Rousseff in occasione dell’inaugurazione. Ma è difficile immaginare che ciò basti a placare l’ira della popolazione: «L’attuale presidente era ministro dell’Energia del governo Lula. È lei che ha sviluppato il piano di accelerazione economica del Paese, comprese ad esempio le grandi dighe devastatrici dell’ambiente. Il Mondiale e i Giochi Olimpici di Rio del 2016 costituiscono il pretesto per accelerare i lavori di questi progetti, i cui cantieri, infatti, sono ormai aperti 24 ore su 24. Il Brasile vuole rivaleggiare con le grandi potenze economiche, e per questo vuole magnificare il proprio modello di sviluppo, anche quando si rivela nocivo per l’ambiente e irrispettoso dei diritti umani», continua Bruch. Il riferimento è soprattutto al progetto di Belo Monte, in Amazzonia, che è considerato dagli ambientali-

sti un eco-mostro, edificato nel bel mezzo del “polmone verde” del Pianeta. Occorre, infatti, ricordare che il Brasile è un Paese che ha migliorato inequivocabilmente la propria situazione economica negli anni di Lula. Eppure oggi i problemi legati alla povertà, all’istruzione, ai trasporti e alla sanità rimangono al primo posto tra le preoccupazioni della popolazione. Numerose manifestazioni di protesta, sfociate in alcuni casi anche in episodi violenti, sono state organizzate in questi anni. L’ultima a Copacabana alla fine di aprile, che ha visto contrapposti alcuni giovani abitanti delle favelas alle forze dell’ordine. «Numerosi movimenti ormai denunciano la Coppa del Mondo – aggiunge il presidente di Planète Amazone – perché costituisce la vetrina di un modello economico che rifiutano. Non comprendono perché i capitali non vengano destinati a programmi sociali: in Brasile le condizioni della sanità, dell’ambiente e dell’educazione sono ancora catastrofiche».

Costi alle stelle: chi ci guadagna? Di fronte a problemi ben più pressanti, il “prezzo” dell’organizzazione del Mondiale viene visto da molti come una provo-

cazione. Mentre il tasso di povertà resta infatti attorno al 20%, la Coppa è costata al governo brasiliano circa 13 miliardi di dollari. Un’analisi della rivista Limes, tuttavia, ha parlato di stime indipendenti che indicavano cifre ben più alte: fino a 33 miliardi di dollari. Ma ammettiamo che i dati ufficiali siano veritieri. Rimaniamo comunque ben al di là di quanto speso dal Sudafrica, 4 miliardi: un costo che fu giudicato scandaloso. La risposta ufficiale della Fifa è arrivata per bocca del presidente Joseph Blatter: «Il calcio è più forte dell’insoddisfazione della gente». Benzina sul fuoco delle proteste. La posizione del governo è invece la solita che giustifica i mega-eventi in giro per il mondo: l’impatto positivo sul Pil sarà pari allo 0,4% all’anno, fino al 2019, e verranno creati circa 600mila posti di lavoro (di cui la metà, però, temporanei). A rendere così entusiasta Blatter, tuttavia, è probabile che siano i guadagni che la Fifa è sicura di centrare grazie al Mondiale. L’evento quadriennale garantisce infatti il 90% degli introiti della federazione. In Sudafrica, quest’ultima ha totalizzato 4,2 miliardi di dollari, di cui 2,4 arrivati soltanto dalla cessione dei diritti televisivi.

In alto da sinistra: Arena Amazônia a Manaus; Dunas Arena a Natal; Itaipava Arena Fonte Nova a Salvador; Arena da Baixada a Curitiba; Mineirão a Belo Horizonte. In basso da sinistra: Estádio Nacional Mané Garrincha a Brasilia; Arena Pantanal a Cuiabá; Itaipava Arena Pernambuco a São Lourenço da Mata.

Ma anche una serie di imprese, come è facile immaginare, hanno forti interessi legati alla manifestazione sportiva. È il caso, ricorda il quotidiano economico Les Echos in un recente articolo, della francese GL Events, che si occupa della gestione di parte dell’evento e che «prevede di ottenere un vero e proprio balzo nel proprio giro d’affari, a 200 milioni di euro, contro i 65 del 2012». Ancora, la tedesca Siemens «ha installato i sistemi di informazione, quelli legati al suono e alla sicurezza degli stadi», il che le concederà una vetrina pubblicitaria gigantesca. La stessa azienda ha anche «fornito materiali per l’alimentazione energetica dell’aeroporto Guarulhos di San Paolo», nonché «installato il sistema di controllo della metropolitana locale». Senza parlare di Adidas, che «grazie alla Coppa raggiungerà un fatturato da 2 miliardi di euro»: commercializzerà circa 5mila articoli, tra cui il pallone ufficiale “Brazuca”. 

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Sorpresa: la Tav non servirà a trasportare le merci di Andrea Barolini

L’alta velocità Torino-Lione era stata “spacciata” come una soluzione (anche) per trasportare merci in Europa. Invece non sarà così. Lo ha dichiarato Jan Brinkhorst, il coordinatore del progetto per conto della Commissione europea si è concentrata sul ruolo della linea storica (quella esistente, che passa per il traforo del Frejus): «I partecipanti hanno riconosciuto – scrive Brinkhorst – la necessità di riattivare la linea esistente e renderla il principale asse ferroviario per il trasporto di merci tra la Francia e l’Italia, convenendo sull’infattibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza fare tutto il possibile affinché quella esistente torni a essere la principale arteria di trasporto in seguito ai lavori di ampliamento nel traforo ferroviario del Frejus/Moncenisio». In pratica, i 26,1 miliardi di euro che dovrebbe costare la Tav potrebbero servire soltanto a trasportare i passeggeri, e non le merci, contrariamente a quanto affermato da tutti i promotori negli anni scorsi. I movimenti No Tav italiano e francese hanno organizzato alla metà di maggio una conferenza stampa per rendere nota la clamorosa novità.

ietrofront: le merci non passeranno più per la nuova linea ad alta velocità Torino-Lione. Ad affermarlo è il coordinatore europeo del progetto per conto della Commissione europea, Jan Brinkhorst, nel Rapporto annuale di attività 2012-2013 per il Progetto Prioritario 6, ovvero l’immenso asse ferroviario che dovrebbe portare da Lione alla frontiera ucraina, passando per Torino, Trieste, Capodistria, Lubiana e Budapest.

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Nel documento, infatti, il coordinatore rivela l’esistenza (sconosciuta ai più) di una Piattaforma del corridoio Torino-Lione (CPLT), composta dalla Commissione europea, dalle autorità nazionali, regionali e locali di Italia e Francia, dai gestori dell’infrastruttura e dagli operatori ferroviari, dall’attuale promotore LTF, dall’Osservatorio, nonché dalle organizzazioni che rappresentano gli interessi dell’industria e dei futuri utenti. Il suo obiettivo, afferma l’ex politico olandese nel testo, è quello di «riunire tutte le parti interessate coinvolte nella pianificazione e nella gestione di questa importante infrastruttura di trasporto allo scopo di pianificare, coordinare ed esercitare la dovuta vigilanza sulle azioni che dovranno essere intraprese nei prossimi anni sul corridoio Torino-Lione». Ebbene, questo organismo si è riunito tre volte: la prima a Bruxelles nel 2011, la seconda a Chambéry nel 2012, la terza il 22 gennaio 2013 ancora nella capitale belga. In quest’ultima occasione, la CPLT | 34 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

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Una Piattaforma sconosciuta

Protesta dei No Tav alla stazione di Torino Porta Susa, 10 maggio 2014.

Costosi ritardi Ma non è tutto: l’Unione europea minaccia anche di non pagare quanto stanziato, se non saranno rispettate le tempistiche. Cosa che appare estremamente probabile, se si considera che la mega “talpa” che è stata portata in Val di Susa per scavare la galleria di Chiomonte è riuscita finora ad avanzare per 641 metri, sui 7.451 totali. Il che significa 2,5 metri al giorno, anziché i 10 previsti. Ora, aggiungono gli attivisti, «tenuto conto del fatto che la scadenza per la conclusione dovrebbe essere il 31 dicembre 2015, a tale ritmo per quella data risulterà scavata solo metà galleria». Non a caso, il pessimismo serpeggia sempre più anche tra i promotori. A marzo 2013 l’Ue ha tagliato del 41% i fondi destinati agli studi sulla Tav (da 671,8 milioni di euro a 395,3 milioni). Ma, soprattutto, il coordinatore Brinkhorst conclude il suo rapporto con queste parole, che non hanno bisogno di essere commentate: «Gli eventi registrati nel periodo oggetto della relazione dimostrano ancora una volta le notevoli difficoltà che le tratte transfrontaliere presentano per i governi degli Stati membri interessati. Queste tratte comportano un onere finanziario elevato, ma in genere hanno una priorità politica inferiore rispetto ai progetti interamente nazionali; inoltre, richiedono la cooperazione di due Paesi che spesso hanno priorità divergenti e non possono avvalersi di strutture predefinite per la cooperazione». 

Latte. L’oro bianco che non conosce la crisi di Matteo Cavallito

Nel mondo la diffusione di latte e derivati continua ad aumentare. Il marketing contribuisce ad alimentare la domanda. E a spingere al rialzo i ritmi di produzione milioni di nuclei familiari. È la misura, per quanto approssimativa, dei soggetti coinvolti nella produzione di latte su scala mondiale. Il dato lo ha fornito di recente la Fao, evidenziando le caratteristiche principali di un fenomeno in cui si intrecciano attività economiche a livello micro e macro, sicurezza alimentare e business globale. E sì, perché quello del latte resta un settore capace di offrire garanzie uniche, a cominciare dal peso della domanda. Nel mondo, il consumo di latte o latticini interessa 6 persone su 7, che oggi, in valore assoluto, fa 6 seguito da nove zeri. Ma il dato più importante, in realtà, è che i consumi stessi sono aumentati in modo impressionante negli ultimi decenni. La produzione globale di latte su base annuale si avvicina ormai verso quota 800 milioni di tonnellate (vedi

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MAPPA a pag. 28). Tre decenni or sono non si arrivava a 500.

Un mercato in espansione Il settore, insomma, non sembra conoscere crisi, tanto nel “lunghissimo”, per così dire, quanto nel “medio” periodo. Nei cinque anni post crisi (2009-13), segnala l’ultimo rapporto del Packaging Machinery Manufacturers Institute (PMMI), l’associazione statunitense degli operatori dell’imballaggio, il tasso di crescita registrato dal settore nel Pianeta è stato pari, su base annuale, al 4,1%. Un ritmo di espansione superiore a quello registrato nello stesso periodo dall’economia mondiale. Nel 2015, si stima, il fatturato delle vendite di latte e latticini dovrebbe sfiorare i 500 miliardi di dollari – una cifra, per rendere l’idea, equivalente a mezzo Pil dell’Australia – con gli Usa, da soli, responsabili di un quarto del fatturato globale. Il fatto è che i consumatori asiatici ne vogliono sempre di più. Cina, Iran, Indonesia e Filippine, in particolare, rappresenteranno un traino decisivo nel mercato, nota la Fao, alimentando una domanda che, rileva ancora il PMMI, sarebbe favorita anche dalla diffusione del modello di dieta occidentale che implica

un maggior impiego di latticini nonché dalla crescita della popolarità, della varietà e dell’appeal dei prodotti. Tradotto: significativi investimenti sul fronte del marketing. Una strategia, quest’ultima, che il settore ha iniziato a sviluppare moltissimi anni fa. Ne è consapevole, su tutti, il pubblico americano che a partire dal 1907 ha associato spesso il prodotto a uno slogan di successo: milk from contented cows, ovvero “il latte dalle mucche felici”, secondo il concetto “animali soddisfatti uguale latte migliore”. L’invenzione spetta a un’impresa americana, la Carnation Milk Products Company, la stessa che contribuì a diffondere il latte condensato nel mercato statunitense e che, dal 1917, ha addirittura ribattezzato con il proprio nome la sua città d’origine: Tolt, nello Stato di Washington. Ma l’azienda passa anche alla storia per aver promosso in America la selezione genetica degli animali, pratica nata in Inghilterra nel XVIII secolo per la produzione di carne e riproposta dall’azienda Usa sul fronte dei bovini da latte. Ciò che la Carnation fece, in altre parole, fu creare la “frisona americana”, ovvero, come spiega il bioeconomista Alberto Berton (vedi ARTICOLO | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 35 |


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Il nodo qualità/prezzo La conseguenze sono evidenti anche dal punto di vista del consumatore. L’alimentazione degli animali compensa oggi «almeno il 70% dei costi di produzione», spiega Roberto Rubino, presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo (Anfosc) che dal 1995 tutela la produzione realizzata esclusivamente con il latte di animali allevati al pascolo. «Non è un caso – aggiunge – che negli ultimi anni si sia progressivamente abbassata la qualità del latte nel tentativo di abbassarne i costi». «Negli allevamenti intensivi gli animali vengono alimentati prevalentemente con gli insilati di mais, una scelta dannosa dal punto di vista della salute animale e della qualità dei suoi prodotti», gli fa eco Berton. «Gli insilati – aggiunge – creano, infatti, un ambiente acido nel rumine e favoriscono lo sviluppo di batteri gasogeni in grado, ad esempio, di gonfiare le forme di formaggio durante la stagionatura. I produttori di Grana Padano cercano di ovviare al problema introducendo lisozima, un conservante, anche se in passato era stata utilizzata anche la formaldeide». Diverso il discorso per il Parmigiano Reggiano per il quale è vietato l’uso dei conservanti, ma non quello dei mangimi concentrati a base di mais e soia, gli stessi, precisa Berton, «che favoriscono l’aumento della produzione di latte innalzandone contemporaneamente il contenuto proteico».

di Matteo Cavallito

In Italia vincono in due: Lactalis e la grande distribuzione. Per piccoli e medi i margini si riducono. E c’è un problema di qualità l problema è che il latte offre margini molto bassi. In questo contesto o lavori su grandi volumi o finisci per essere schiacciato. Per questo motivo l’aumento della concentrazione è inevitabile». Alberto Berton, esperto di bioeconomia e specialista in biologico e sfuso, sintetizza così la situazione del comparto lattiero. In Italia, spiega, il comparto è concentrato a tutti i livelli e da qualche anno, in particolare, parla sempre più francese. Berton, che in passato ha tenuto corsi presso la SDA Bocconi e la Facoltà di Agraria di Milano e dal 2003 è titolare di Bioeco, azienda che si dedica alle soluzioni di vendita per il biologico sfuso, cita soprattutto il caso Lactalis, il colosso d’Oltralpe che prima «si è mangiato la Valsassina, la culla dell’industria casearia italiana» con i suoi marchi storici come Galbani, Locatelli, Invernizzi e Vallelata, e in seguito si è preso anche la Parmalat, scalata fino all’83% delle quote nel luglio del 2011. Ma i riferimenti non si esauriscono qui, perché francese è anche una parte significativa di quella grande distribuzione – Auchan e Carrefour ovviamente – che da tempo si conferma come l’elemento più forte del mercato. Quello, per intenderci, in grado di fare il prezzo.

«I

La rivoluzione in pianura Per capirlo occorre fare un passo indietro. Per circa settemila anni i bovini sono stati utilizzati come animali da lavoro con le razze “lattifere” confinate prevalentemente nelle aree alpine (con l’eccezione dell’Olanda). L’arrivo delle vacche da carne e latte in pianura è un fenomeno relativamente recente. La frisona, ad esempio, si diffonde nella Pianura Padana soltanto a partire dagli anni ’50, sfruttando una caratteristica chiave di quella zona: l’idoneità alla produzione di mais, ovvero del suo mangime. «Oggi – ricorda Berton – l’85% del mais coltivato in Lombardia è destinato all’alimentazione animale». Il problema è che negli ultimi anni il mercato mondiale ha conosciuto un’impennata dei prezzi dei cereali che ha fatto crescere i costi di produzione ai primi livelli della catena. Ma i prezzi riconosciuti agli allevatori e ai produttori non sono aumentati di conseguenza. Il risultato è stato che i margini già di per sé bassi del segmento si sono ridotti ulteriormente e la grande distribuzione ha potuto continuare a praticare prezzi competitivi: dal 1996 a oggi l’indice dei prezzi dei latticini misurato dall’Istat al

LATTE, IL NODO ALIMENTAZIONE Le scelte nutrizionali che coinvolgono gli animali producono effetti diretti sulla qualità dell’alimentazione umana, a cominciare, ad esempio, dalla disponibilità di coniugati dell’acido linoleico (CLA), sostanze in grado di fornire un significativo apporto alla nostra salute. È il principio chiave alla base delle scelte di allevamento. «Nel latte proveniente da animali allevati al pascolo la presenza di acidi grassi insaturi CLA può aumentare fino a 20 volte», ricorda il presidente di Anfosc Roberto Rubino. Ma le conseguenze non si limitano all’uomo. Negli allevamenti intensivi, spiega Rubino, la vita media delle mucche da latte si è ridotta ormai «a 3 o 4 anni» contro i 15 o 20 registrati in passato. «La causa principale – spiega – risiede nella bassa qualità dell’alimentazione che indebolisce l’animale abbassando dopo poco tempo la quantità di latte che questo è in grado di produrre. A quel punto, incapace di reggere il ritmo di produzione imposto, l’animale viene mandato al macello». Per essere sostituito, spesso, con animali importati dall’estero.

La pressione sul prezzo coinvolge anche la stagionatura, un altro comparto in cui prevale la concentrazione. I piccoli produttori faticano a gestirne i vincoli finanziari (il latte acquistato viene pagato a 30 giorni, il profitto sul prodotto finito si realizza nel caso dopo un anno) e tendono a vendere ai grandi stagionatori, che hanno la possibilità di acquistare dai caseifici grandi quantità di prodotti “fuori sale”, mettendo subito sul tavolo i soldi necessari. Pochi, maledetti e subito, come si dice in questi casi. La spinta al ribasso, insomma, si evidenzia un po’ ovunque e l’unica via d’uscita, oggi, è data dai mercati di nicchia, una realtà ben nota ai produttori biologici che da tempo hanno iniziato a rivolgersi ai mercati internazionali («per alcune eccellenze il mercato estero

FORMAGGI E LATTICINI. PREZZI RETAIL 1996-2014 110

+36,6%

compensa anche l’80% delle vendite complessive», rileva Berton) oppure a bypassare i grandi distributori. «Abbiamo iniziato a mappare i produttori di qualità creando così un modello di produzione per il latte di livello superiore», spiega il presidente di Anfosc Roberto Rubino. I produttori di “latte nobile”, come viene definito nel progetto dell’Anfosc quello munto da animali alla stalla o al pascolo che si nutrono prevalentemente di erba o fieno e soprattutto di erbe diverse, almeno sei, vendono «alle gastronomie, ai Gas (gruppi di acquisto solidale), ad alcune gelaterie, bar e piccoli negozi». Il prezzo minimo garantito all’allevatore è pari a 60 centesimi per litro, fino al 50% in più rispetto al prezzo pagato dall’industria. 

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L’innovazione aprì la strada allo sviluppo del settore, ma, come ricorda Berton, non senza effetti. «Nell’ultimo secolo l’unico criterio di selezione è stata la conformazione della mammella», rileva. «Un’operazione che ha avuto conseguenze dirette sul ciclo di vita degli animali. Un tempo una vacca poteva durare anche 14 anni, oggi dopo 3 o al massimo 4 anni il suo scheletro non regge più e la sua “carriera” produttiva può dirsi finita. E il risultato è che questi animali, in media, finiscono al macello senza avere avuto il tempo di andare incontro a un secondo parto». Il risultato è un comparto in cui si spinge sempre al massimo, aprendo così le porte alla concentrazione. «Gli allevatori producono sempre più latte da ogni singola mucca mentre i produttori di latticini vedono il loro output crescere e i loro costi operativi ridursi», rileva ancora il rapporto PMMI. Nel 2012 il 57% del latte prodotto negli Usa proveniva da aziende con almeno 500 animali (ma vi sono impianti dove si raggiungono le 30 mila unità), un segnale del peso crescente assunto dalla tecnologia e dalle economie di scala che tendono a escludere dal mercato le aziende più piccole. Dal 1992 ad oggi il numero delle aziende casearie usa è calato del 61%. Il trend si conferma ovviamente anche su scala mondiale. A Riyadh, in Arabia Saudita, la Al Safi Dairy gestisce la più grande fattoria integrata del mondo dove 37mila mucche producono latte per il colosso francese Danone, ottava azienda globale del settore con 8,2 milioni di tonnellate processate ogni anno. La neozelandese Fonterra, leader mondiale, ne gestisce addirittura 21,4, contro le 17,1 della Dairy Farmers of America e le 15 circa della francese Lactalis e della svizzera Nestlé (che nel 1985 ha acquisito la Carnation). Da sole le prime dieci multinazionali del comparto gestiscono il 16,7% di tutto il latte prodotto nel mondo. Il loro fatturato complessivo (latte e altre attività) supera i 140 miliardi di dollari. 

Il mercato italiano parla francese

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Spingere al massimo

banco del supermercato è andato incontro ad un aumento inferiore al tasso di inflazione: +36,6% contro il +45,7% registrato dall’indice generale, tabacchi esclusi.

FONTE: ISTAT, MAGGIO 2014. INDICE GENERALE ESCLUSI I TABACCHI

accanto), «trasformare la frisona olandese in un’autentica macchina da latte perfettamente adatta ai nuovi sistemi intensivi di allevamento e di mungitura».

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L’unione fa la forza non l’energia di Corrado Fontana

Avevano aderito 7mila famiglie del Trentino-Alto Adige al Gruppo d’acquisto per l’energia, ma la gara aperta ai gestori di servizi è andata (quasi) deserta. Altrove, in Italia e non, ha funzionato decisamente meglio. Perché? areva un’ottima idea, e in altri casi lo è stata. Ma il Gae, Gruppo d’Acquisto Energia, organizzato l’autunno scorso dal Centro Tutela Consumatori Utenti (CTCU) di Bolzano, non è riuscito a smuovere il mercato locale. A gennaio 2014, alla chiusura del bando che metteva all’asta la fornitura di 3,7 milioni di metri cubi di gas e 21 milioni di kilowattora di elettricità per 7mila famiglie del Trentino-Alto Adige, non si sono presentati i 70 fornitori di servizi energetici attivi sul mercato regionale. E nessuno si è mostrato abbastanza interessato al “piatto” da avanzare un’offerta dedicata, tranne SEL SPA - Società elettrica altoatesina, la quale si è però limitata a presentare le proprie tariffe standard, che il Gae non ha accolto. L’obiettivo di stimolare la concorrenza fra le cosiddette utilities, spuntando prezzi migliori grazie all’opportunità per le aziende di acquisire in un colpo solo un ricco portafoglio clienti, è stato mancato.

FONTE: COMUNICATO STAMPA CTCU DEL 28/3/2014

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Un deluso Walther Andreaus, direttore del CTCU, ha bollato così la vicenda: «Il risultato insegna che, nei fatti, non esiste un “mercato” dell’energia e del gas».

L’erba del vicino… Un flop, insomma, nonostante l’esperienza di Bolzano si sia alimentata guardando al modello vincente del vicino, seppur straniero: in Austria l’Associazione per l’informazione dei consumatori (Verein für Konsumenteninformation - VKI) aveva da poco celebrato il successo di una si-

SITOGRAFIA www.autorita.energia.it Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico www.sel.bz.it SEL SPA - Società elettrica altoatesina www.centroconsumatori.it Centro Tutela Consumatori Utenti (CTCU) www.altroconsumo.it Altroconsumo

ENERGIA, QUANTO CI COSTI Un chilowattora (kWh) di energia da idroelettrico costa alla produzione intorno a 1,6 centesimi di euro. I clienti domestici finali, con una potenza servita di 3 kW e un consumo annuo di 3.300 kWh pagano quello stesso chilowattora quasi 22 centesimi di euro; quelli con allacci da 4,5 kW (in Alto Adige sono parecchi) addirittura quasi 29 centesimi! L’incremento di valore di un chilowattora lungo la filiera, dalla produzione alla presa domestica, è quindi di ben il 1.275% per i 3 kW, addirittura del 1.712% per i 4,5 kW. In Austria e in Germania la limitazione della potenza a 3 kW risulta sconosciuta: in Germania, ad esempio, le famiglie possono disporre di una potenza fornita fino a ben 13 kW.

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mile iniziativa, con oltre 260mila partecipanti registrati e un risparmio medio di 131 euro all’anno per l’energia elettrica. Ugualmente benaugurante la storia di “Abbassa la bolletta”, Gruppo d’acquisto organizzato dall’associazione Altroconsumo nel 2013: con 170mila partecipanti iniziali, cui se ne sono aggiunti altri 25mila in un secondo momento. Con un’asta – durata 3 ore e animata da 32 rilanci – che ha visto in competizione ben 12 fornitori di luce e gas, preselezionati su criteri di trasparenza e qualità del servizio. Con quasi 40mila consumatori che hanno attivato 66mila contratti di luce e gas presso le tre aziende vincitrici, risparmiando mediamente 220 euro sulle bollette di un anno.

Le ipotesi di un flop Perché al CTCU non è andata altrettanto bene? Mentre il giudizio affidato alle note stampa dal direttore Andreaus individua le cause del fallimento del bando di Bolzano sostanzialmente in una mancanza di concorrenza – per cui evoca la necessità di una maggiore vigilanza da parte della Provincia – e in un “mercato libero” tutt’altro che tale, noi abbiamo chiesto un parere sull’episodio anche a Sibylle Überbacher, presidente di SEL SPA - Società elettrica altoatesina, e Giuseppe Giannoni di Altroconsumo. La prima sottolinea che, se da un lato non tutti gli operatori potenziali erano forse pronti a rispondere ad alcuni vincoli di certificazione e tecnici imposti dalla gara, d’altra parte il bando non avrebbe garantito comunque al vincitore l’adesione delle famiglie partecipanti (come dire: quante di quelle 7mila alla fine avrebbero davvero sottoscritto una nuova fornitura?, ndr). Mentre nel campo della telefonia mobile, prosegue Überbacher, «anche i ragazzini conoscono le tariffe; c’è la cultura di fare i paragoni tra le offerte ed è facile cambiare. Nel nostro settore esiste la stessa facilità di cambiare (ritardi burocratici a parte, ndr), ma forse manca quella cultura». Giannoni ricorda innanzitutto le tante analoghe iniziative riuscite in Olanda, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Spagna, ipotizzando semmai qualche possibile limite di appetibilità nel “portafoglio clienti” a disposizione per gli operatori: non così ricco e molto localizzato. 

Viaggio in Brasile

Dietro la coppa l Brasile si appresta a ospitare i prossimi campionati mondiali di calcio e mostra al mondo le sue contraddizioni. Mentre più di 70 milioni di abitanti hanno accesso a internet e possiedono uno smartphone, 16 milioni vivono ancora in condizioni di estrema povertà. È al 17° posto nella classifica mondiale in termini di disuguaglianza sociale (coefficiente di Gini). Il tessuto

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di Andrea Vecci

sociale è molto motivato e creativo rispetto al benessere diffuso: anche l’innovazione sociale brasiliana è in piena espansione e alcuni progetti sembrano molto caratteristici, capaci di integrare problemi locali con una cultura sudamericana complessa. Il Palmas, la moneta sociale brasiliana ideata dal Banco Palmas, una società di microcredito a sud di Fortaleza, è una valuta alternativa scambiabile 1:1 con materie prime provenienti da alcuni produttori agricoli. Anche i consumatori possono utilizzare le Palmas all’interno del quartiere Conjunto Palmeiras e se lo fanno ricevono uno sconto dal 2% al 15% sul prezzo normale. Attraverso questa valuta sociale si gestisce un trasferimento certo per l’economia locale e si aumenta l’ingaggio dei consumatori al servizio della comunità. Meu Rio è una piattaforma collaborativa per la mobilitazione civica per aumentare il coinvolgimento degli abitanti di Rio de Janeiro rispetto alle principali decisioni sulle politiche pubbliche. La comunità è riuscita a fermare la demolizione della scuola comunale Friedenreich che doveva fare spazio all’allargamento dello stadio Maracanã. Sempre a Rio de Janeiro è nata la piattaforma Benfeitora Rio che si occupa di design dei servizi per quelle so-

La Banca Centrale Brasiliana ha lanciato un progetto per trasformare le banconote in compost organico nello Stato di Pará. Questa iniziativa è il risultato di molte ricerche sullo smaltimento delle banconote fuori corso. Imagina na Copa è una rete di organizzazioni nate durante le proteste della scorsa estate contro la Coppa del Mondo. L’organizzazione presenta e promuove ogni settimana le iniziative di giovani che vogliono cambiare il proprio Paese in meglio, un Paese di cui essere orgogliosi di mostrare durante e dopo la Coppa del Mondo. Come in altri luoghi del mondo anche in Brasile è nato il Centro per l’Innovazione Sociale, CAIS, uno spazio di co-working aperto solo agli imprenditori sociali in cui servizi di consulenza, sale riunioni e biblioteche sono accessibili per chiunque abbia un progetto con impatto sociale. Artemisia è la più grande rete di accademici interfacoltà impegnati nella diffusione del modello delle imprese sociali, dell’impatto sociale e della sostenibilità. Organizza intensi programmi di formazione, networking e fornisce gli strumenti per lo sviluppo di nuovi progetti.  Maggiori approfondimenti sul blog Social Innovation di valori.it

Un Paese innovativo si mostra agli occhi dei visitatori internazionali appassionati di progresso sociale luzioni innovative trovate da e per i cittadini. Riunisce in un unico contest aziende, governi, studiosi e cittadini che inviano idee creative al servizio della città. Un gruppo di esperti ne prende in considerazione gli aspetti di vitalità e di legalità. Al termine delle votazioni la Prefettura di Rio adotta le idee vincitrici come policy da realizzare. Nós.vc è la più grande piattaforma di crowd-learning in Brasile, quello che negli anni ’90 si chiamava Banca del Tempo. È specializzata nella sfera educativa alternativa: chiunque sia appassionato di una materia di insegnamento può organizzare gruppi-classe, workshop o dibattiti, sia egli un docente o un allievo.

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FOTO MARCELO CRUZ, AÇAILÂNDIA /BRASIL

La disuguaglianza fa male all’economia > 49

Il ferro dell’Amazzonia da Piquià de Baixo a Taranto Dalle miniere del Carajás il ferro arriva fino all’Ilva di Taranto. Due luoghi accomunati da un unico destino, fatto di inquinamento, contaminazione delle acque, un attentato alla vita degli abitanti

Il villaggio di Piquià con il fiume, le siderurgiche e il viadotto

di Daniela Patrucco (da São Luís)

n inglese basta una parola, land grabbing. Si traduce in sottrazione delle terre, delocalizzazione delle popolazioni, sfruttamento intensivo delle risorse, devastazione degli ecosistemi. Processi di cui conosciamo bene nomi e significato si materializzano e si snodano sotto lo sguardo di chi percorre i circa 900 chilometri che collegano il porto di São Luís alle miniere di ferro del Carajás (in Brasile). Al suo arrivo a São Luís il minerale è scaricato dalla ferrovia, stoccato in enormi campi e infine imbarcato su grandi navi che lo trasporteranno nei Paesi consumatori. In Brasile è tutto immenso. Viste dal mare, le navi attraccate ai pontili e ormeggiate al largo sembrano gigantesche sanguisughe che in maniera compulsiva e senza soluzione di continuità succhiano

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FOTO DANIELA PATRUCCO

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l’enorme quantità di energia disponibile nelle viscere di questo territorio sterminato. Ottocento navi provenienti da questo porto attraccano ogni anno a Taranto, destinate all’Ilva. Siamo nel Maranhão, lo stato del Brasile più ricco di risorse. Lo stato del Brasile con la popolazione più povera.

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Carajás 30 años di Daniela Patrucco (da São Luís)

Il quartiere del ferro dei porci

re. Potenti gruppi industriali, patrocinati e finanziati da un’iniziativa del governo federale brasiliano, vi si sono installati trent’anni fa e hanno rapidamente contaminato ambiente, stili di vita, presente e futuro delle oltre trecento famiglie che ancora vivono qui. Un muro sottile separa i cortili di diverse abitazioni da uno dei cinque stabilimenti siderurgici presenti, cui si somma una centrale termoelettrica alimentata a carbone, che ricevono parte del minerale di ferro che alimenta gli altiforni. Inutile a dirsi, qui si produce ferro-ghisa, che in

Da sinistra: il volto di una donna di Piquià; il paesaggio nei pressi delle miniere di ferro e il quartiere, contaminato, di Açailândia.

inglese si chiama pig-iron, il ferro dei porci: la produzione più inquinante e a minor valore aggiunto dell’intera filiera del ferro e dell’acciaio.

Vite in gioco Gli impatti sono enormi. Contaminazione dalle polveri di ferro e carbone, emissioni tossiche dalle ciminiere e polveri sottili dagli impianti di trasformazione

Insieme al quartiere Tamburi di Taranto e a quello di Santa Cruz di Rio de Janeiro, Piquià è protagonista del documentario “Polmoni d’acciaio”. Lanciato il 28 aprile scorso in Brasile e in Italia, il documentario è nato da un’idea dei missionari comboniani che animano la rete Justiça nos Trilhos. Frutto di un lavoro collettivo che ha coinvolto diversi attori della società civile brasiliana e italiana e ricco di testimonianze delle popolazioni locali, il documentario segue la sottile linea rossa che lega le tre realtà: la polvere del minerale, che ricopre ogni cosa e ogni casa dei quartieri limitrofi alle infrastrutture della filiera del ferro. Le emissioni di Ilva, Vale, ThyssenKrupp, che a Taranto, Açailândia, Rio de Janeiro si insinuano nei polmoni degli abitanti e nella catena alimentare: diossine e metalli pesanti che infine causano gravi patologie e alterazioni del DNA dei neonati. A conferma dell’importanza anche simbolica della devastazione del quartiere di Piquià, in Italia si susseguono iniziative di divulgazione, sensibilizzazione e ricerca scientifica. L’8 maggio, in contemporanea con il Seminario di São Luís “Carajas 30 anos”, nell’aula magna dell’Istituto dei Tumori di Milano è stato presentato il “Progetto Piquià”, un’indagine sulla salute degli abitanti realizzata a Piquià dai tecnici dell’Istituto nel luglio dell’anno scorso. All’evento hanno partecipato il Presidente e il Direttore Generale della Fondazione IRCCS dell’Istituto, medici oncologi e pneumologi, giornalisti, tecnici e volontari. Paolo Bossi – medico oncologo dell’Istituto

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TESTIMONIANZE: POLMONI D’ACCIAIO E IL PREZZO DEL FERRO

che collabora al progetto – ci dice che dai dati provvisori dell’indagine spirometrica (valutazione dell’attività respiratoria di popolazione 28-54 anni, età media 41) si rileva il 28% di spirometrie patologiche. Nel 35% dei casi si è rilevato un deficit ostruttivo che, se pur lieve, secondo gli pneumologi dell’Istituto rappresenta tuttavia un primo effetto di un’esposizione che nel lungo periodo può portare a patologie più gravi. Dalle prime verifiche, l’incidenza delle patologie respiratorie nella popolazione di Piquià è superiore alla media della popolazione brasiliana. I tecnici dell’Istituto stanno valutando l’opportunità di corredare l’indagine sanitaria con rilevazioni ambientali per caratterizzare il livello e la tipologia dell’inquinamento. “Il Prezzo del Ferro”, la mostra con cui il giovane fotografo brasiliano Marcelo Cruz propone volti e storie della sua gente, è stata ospite dell’Istituto durante l’intero mese di maggio. La lotta contro il dolore, la malattia, l’ingiustizia ambientale passa anche attraverso questa speciale solidarietà internazionale.

dei residui siderurgici; scarichi dell’acqua di lavaggio e raffreddamento dei forni, non depurati, direttamente nel fiume; rumore permanente e frastornante delle industrie e della ferrovia; costante pericolo dalle centinaia di camion che quotidianamente percorrono la strada che attraversa la comunità; scarti incandescenti delle siderurgiche, depositati a fianco delle case con estremo pericolo per i bambini, le persone e gli animali. Sebbene da diversi anni la popolazione locale si sia ribellata allo strapotere delle industrie siderurgiche e della Vale, il sodalizio tra imprenditori e politici influenti ha finora impedito che si realizzino controlli rigorosi sulle emissioni e la mitigazione degli impatti. Nel 2008 il 90% della popolazione consultata con un referendum aveva scelto di essere spostata altrove. Lontana dall’idea di una fuga silenziosa, gli abitanti hanno rivendicato il diritto a un processo partecipato per la costruzione di un nuovo quartiere. Pulito, dignitoso, libero dall’impatto della filiera del ferro. Il processo di ricollocazione procede lentamente, ma non si è mai interrotto, grazie alla determinazione e al coordinamento popolare che mantiene costantemente sotto pressione le imprese e il governo perché garantiscano a tutti il diritto alla casa, alla salute, alla vita. Oltre a combattere per il reinsediamento delle famiglie colpite, la popolazione di Piquià sostiene la lotta dei lavoratori dell’acciaio per migliori salari e condizioni di lavoro. 

Per la prima volta un seminario internazionale sulla produzione di ferro in Brasile. Ha riunito ricercatori, università, Ong, popolazioni dell’Amazzonia on abbiamo una comprensione esatta di ciò che questo seminario potrà rappresentare per la storia politica e sociale dei popoli dell’Amazzonia orientale. Abbiamo bisogno di tempo per misurarne l’impatto e l’efficacia, ma l’impressione che abbiamo è che ci sorprenderà, soprattutto perché rappresenta una pietra miliare nella lotta di queste popolazioni». È il commento di Padre Dario Bossi, coordinatore generale del Seminario Internazionale Carajás 30 años, al termine del secondo giorno dell’evento che ha riunito ricercatori, università, Ong, rappresentanti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia e istituzioni. Undici i Paesi rappresentati, con il coinvolgimento di 50 istituti, oltre 70 relatori e circa 1.500 partecipanti, riuniti a São Luís, presso l’Università Federale dello Stato del Maranhão dal 5 al 9 maggio scorso. A conclusione dell’evento una marcia di tre ore ha virtualmente collegato la conoscenza scientifica (l’università) al centro del potere (il palazzo del governo dello Stato del Maranhão), grazie al sapere e alla lotta dei movimenti popolari. Se non è ancora chiaro quali saranno gli esiti di questo seminario, un fatto è certo: nulla di simile è mai accaduto nella colta e progredita Europa. Nel corso di quattro seminari preparatori (a ottobre 2013 e marzo 2014) tenutisi in altrettante località degli stati brasiliani del Maranhão e del Parà, la riflessione aveva riguardato lo sviluppo delle attività nel settore minerario e della produzione del ferro in Brasile. «Un’iniziativa che i movimenti sociali, le comunità coinvolte nel ciclo dell’estrazione mineraria e della siderurgia e l’università stavano preparando da più di un anno perché – spiega Padre Dario – l’opportunità di trent’anni di storia del più grande complesso minerario in Brasile permette una riflessione profonda sugli effetti di questo modello di sviluppo, imposto alle popolazioni locali senza che esse abbiano potuto in nessun momento interagire con esso».

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Una questione mondiale

ON LINE Il video “Polmoni d’acciaio”: www.youtube.com/watch?v=lKPRmUpKMSg La rete dei missionari comboniani: www.justicanostrilhos.org

Con il seminario di São Luís la discussione sì è estesa al livello internazionale: settanta lavori scientifici, tavole rotonde e forum tematici animati da comitati e sindacati, ricercatori e intellettuali da undici Paesi del mondo: «Una riflessione sul passato per aprire gli occhi riguardo al futuro». Secondo Padre Dario «la denuncia che questo modello economico di ri-primarizzazione dell’economia, con l’investimento | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 43 |

FOTO DANIELA PATRUCCO

Açailândia è una delle oltre cento comunità della regione impattate dall’attività siderurgica. Il quartiere di Piquià de Baixo è nato circa quarant’anni fa sulla riva di un fiume che, allargandosi, creava un lago circondato da açaí, una palma tipica dell’Amazzonia. Nel giro di pochi anni è stato travolto e stravolto, insieme al fiume. Situato a circa metà del percorso del ferro dalle miniere al porto, è attraversato dalla linea ferroviaria di proprietà della Vale, la multinazionale che gestisce l’estrazione e il trasporto di tutto il minerale di ferro del Carajás. Qui, a ogni ora di ogni giorno, i vagoni scoperti e pieni di minerale transitano su un viadotto che sovrasta il quartie-


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ON LINE www.seminariocarajas30anos.org atingidospelavale.wordpress.com

esclusivo sulle commodities minerali, è insostenibile a lungo termine, oltre che estremamente violento nel presente della vita e dei territori». Insieme a Mozambico, Colombia, Canada, Brasile, Argentina e Perù, la delegazione italiana di Peacelink ha presentato tre lavori sul caso di Taranto. La realtà dello stabilimento Ilva e del quartiere Tamburi, la determinazione dei comitati tarantini nel denunciare la situazione sanitaria e ambientale, la ricerca delle prove della contaminazione da diossina e l’elevato tasso di ambiguità della politica, dell’impresa e degli enti di controllo, hanno fatto emergere l’eccezionalità della situazione italiana, che pare non avere eguali nel panorama dei cosiddetti “Paesi sviluppati”. Al contrario, ben si accorda alla realtà dell’America Latina.

Il “Coordinamento Internazionale delle Vittime della Vale” Nato nel 2009 in occasione del Forum Sociale Mondiale di Belém, nel nord del Brasile, il “Coordinamento Internazionale delle Vittime della Vale” aggrega le comunità colpite dalle diverse infrastrutture produttive e di trasporto della Vale, la multinazionale seconda al mondo nell’estrazione e trasporto del minerale di ferro. Comitati e associazioni, che sentivano la necessità di organizzarsi, confrontare strategie di resistenza e cogliere elementi comuni nel denunciare le violazioni subite, negli anni hanno diversificato l’attività della rete. La pubblicazione di un dettagliato “rapporto ombra” ha dato rilievo internazionale a quanto l’impresa omette nel suo rapporto annuale di sostenibilità. Il Coordinamento s’incontra annualmente per fare il punto della situazione delle comunità e dei movimenti che si oppongono alla multinazionale. Rappresentanti della rete partecipano all’Assemblea Generale degli Azionisti della Vale, criticando severamente le scelte dell’impresa con la | 44 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

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INGIUSTIZIA AMBIENTALE: LA MAPPA DEI CONFLITTI Il Brasile possiede il 9,8% delle riserve mondiali di ferro, quinto al mondo dopo Ucraina (20%), Russia (16,5%), Cina (13,5%) e Australia (13,2%). Nel 2008 la produzione del minerale nel Paese era gestita da 36 imprese che operavano in 53 miniere a cielo aperto. Il mercato brasiliano del ferro è piuttosto concentrato: Vale, Mineracoes Brasileiras Reunidas (MBR) e Samarco detengono il controllo dell’84% della produzione nazionale, che negli anni Duemila ha subìto una grande espansione, principalmente per rispondere alla domanda cinese. Tra il 2000 e il 2009 le esportazioni del Paese sono passate da 157 a 266 milioni di tonnellate. Nello stesso periodo l’esportazione verso la Cina è cresciuta da 15 a 166 milioni di tonnellate. Anche se in misura minore rispetto al ferro, il Brasile si distingue anche nella fornitura mondiale di ferro-ghisa: nel 2008 era quinto produttore mondiale, con il 4% della produzione, e secondo maggiore esportatore. Negli ultimi anni l’industria globale ha distribuito la sua capacità produttiva in modo da riservare la “fase calda” del processo siderurgico – che include la produzione di ferro-ghisa e i prodotti semilavorati – nei Paesi “periferici”, mantenendo la “fase fredda” – meno inquinante, con minor consumo energetico e con prodotti a maggior valore aggiunto – nei mercati consumatori dei Paesi “centrali”. Injustiça Ambiental e Saudé no Brasil. O mapa de conflitos (Editora Fiocruz) è il libro che Marcelo Firpo, uno degli autori e curatori, ha presentato nel corso del Seminario di São Luís. Esito di un progetto sviluppato congiuntamente dalla Fondazione Osvaldo Cruz (Fiocruz) con il sostegno del Dipartimento della Salute Ambientale e della Salute dei Lavoratori del Ministero della Sanità del Brasile, il volume è ricco di preziose informazioni ed è corredato dalla mappatura dei conflitti riguardanti l’ingiustizia ambientale e sanitaria in Brasile. «Suo principale obiettivo – spiega Firpo – è il sostegno alla lotta di molte persone e gruppi interessati nei loro territori da progetti e politiche basate su una visione di sviluppo considerata, da loro e dai movimenti sociali e ambientali che li sostengono, insostenibile e dannosa per la salute di queste popolazioni». www.conflitoambiental.icict.fiocruz.br/index.php

denuncia puntuale delle violazioni compiute nei territori. In concomitanza con il Forum Economico Mondiale di Davos,

in Svizzera, nel 2012 la Vale ha ottenuto il “Public Eye Award 2012” configurandosi come la peggior impresa del globo. 

La rivoluzione industriosa di Paola Baiocchi

sulla strada delle riforme Alcune delle conquiste sociali ed economiche più significative nella storia della Repubblica popolare cinese 1° ottobre 1949 Mao Zedong proclama la fondazione della Repubblica popolare cinese 1950 per legge la terra dei grandi proprietari va a contadini piccoli e medi 1952 nazionalizzazione delle banche e del commercio

I successi della nazione più popolosa al mondo, dove sventola ancora la bandiera rossa, portano gli economisti a confrontarsi su quale sia il modello economico della Cina: comunismo, socialismo di mercato, capitalismo o altro? a Repubblica popolare cinese il 1° ottobre compirà 65 anni. Guardando la sua età anagrafica con occhi occidentali, siamo portati a considerarla l’ultima arrivata tra le grandi potenze, dimenticando gli straordinari successi sociali ed economici, che l’hanno portata quest’anno a sorpassare gli Usa (secondo l’International Comparison Program, della Banca Mondiale, che ha misurato la ricchezza a parità di potere d’acquisto). Attraverso la rivoluzione e il comunismo la Cina si è risollevata dall’estrema povertà, che alla sua nascita la poneva tra gli ultimi al mondo, più rapidamente di economie simili, garantendo cibo (attraverso un sistema misto di razionamento di Stato e di autoassicurazione collettiva, spiega la Banca mondiale), lavoro, istruzione e assistenza medica di base. Con la bandiera rossa che sventola su un territorio poco più piccolo di quello degli Usa, ma con una popolazione quattro volte superiore, la domanda ricorrente è: come definire l’assetto economico della Cina? Comunismo, capitalismo di Stato, socialismo di mercato o semplicemente capitalismo? A questa domanda (che ne sottende molte altre, per esempio: “Sarà pacifica la Cina o vorrà seguire l’esempio dell’imperialismo americano?”) risponde il libro appena pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, Come la Cina è diventata un paese capitalista, di Ronald Coase l’economista scomparso di recente, scritto con un altro economista Ning Wang.

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Il gradualismo cinese Coase e Wang ripercorrono le galoppanti trasformazioni della Cina, le sue “rivoluzioni marginali” come l’autonomia delle municipalità rurali, la politica del “doppio binario” (la coesistenza della pianificazione e del mercato nel coordinare la produzione nel settore pubblico), le riforme di Deng Xiaping, l’introduzione dell’economia individuale (geti jingji), arrivando alla conclusione che “La Cina divenne capitalista cercando di modernizzare il socialismo”. Come? Con il gradualismo: “Nel tempo, però, la relazione fra socialismo e Cina attraversò un processo di sottile metamorfosi. Il socialismo venne gradualmente trasformato da strumento politico a obiettivo avvincente, il cui raggiungimento giustificava il sacrificio del popolo. In nome della protezione e dell’espansione del socialismo, il popolo cinese divenne una semplice pedina da muovere verso una meta”. Per Coase e Wang la Cina è più confuciana che marxista-leninista: “Tuttavia, nonostante i molti limiti, non è possibile né auspicabile, per il capitalismo in stile cinese, liberarsi di ciò che lo contraddistingue”, perché “la Cina porta con sé la promessa dello sviluppo di una forma diversa di capitalismo, costruita sulle proprie tradizioni culturali ricche e diversificate che si rapporta apertamente con l’Occidente e con il resto del mondo”. Per gli autori, la Cina “aggiunge diversità culturale al capitalismo”, emergendo “come l’unico caso in cui il Partito comuni-

20 settembre 1954: prima Costituzione della Repubblica popolare cinese 1958 Secondo Piano quinquennale e grande balzo avanti, prevede una rapida industrializzazione. Vengono istituite le Comuni popolari con funzioni economiche, fiscali e militari. L’88% circa delle aziende statali già affiliate ai ministeri e dipartimenti del governo centrale viene trasferito sotto il controllo delle autorità locali 1966/69 Rivoluzione culturale: ideata da Mao come rimedio all’involuzione autoritaria e burocratica della rivoluzione, viene criticata dalla comunità internazionale e determina l’isolamento della Cina 23 novembre 1971 la Cina entra nell’Onu 1972 visita di Richard Nixon in Cina 1° aprile 1973 la Cina entra nella Fao 13-17 gennaio 1975: viene approvata la seconda Costituzione 9 settembre 1976 morte di Mao 5 marzo 1978 viene approvata la terza Costituzione. Nel 1982 viene varata un’altra Costituzione che subisce quattro revisioni, nel 1988, nel 1993, nel 1999 e nel 2004 giugno 1978 la Cina apre all’utilizzo dei capitali esteri tra il 1978 e il 1983 viene introdotta la responsabilizzazione familiare, che attribuisce il controllo del sovrappiù agricolo alle famiglie, favorendo la nascita delle imprese di municipalità e di villaggio tra il 1° luglio 1979 e il 25 giugno 1988 la Cina approva centinaia di leggi e principi generali di diritto civile e commerciale, che regolamentano dalle joint venture azionarie sino-estere, fino alle attività industriali di proprietà del popolo | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 45 |


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Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino Feltrinelli, 2008

Ronald Coase Ning Wang Come la Cina è diventata un paese capitalista Ibl libri, 2014

sta e l’economia di mercato sembrano in grado di prosperare insieme. Questa partnership sconcertante fra liberalizzazione economica e continuità del predominio comunista è ampiamente percepita come la chiave per capire lo straordinario risultato della trasformazione di mercato della Cina». I due autori auspicano che «Lo sviluppo di un mercato delle idee farà in modo che siano conoscenza e innovazione a guidare la crescita dell’economia cinese. La Cina, allora, non sarà solamente il centro manifatturiero del mondo, ma anche una vivace fonte di creatività e innovazione».

Adam Smith a Pechino Giovanni Arrighi nel libro Adam Smith a Pechino, scritto nel 2008 poco prima di morire, afferma invece che «bisogna spazzare il terreno dal mito che l’ascesa cinese

possa essere attribuita a una presunta conversione al credo neoliberale», perché «si possono aggiungere capitalisti a volontà a una economia di mercato, ma se lo Stato non è subordinato al loro interesse di classe, quell’economia di mercato mantiene il suo carattere non capitalistico». Arrighi analizza cosa contraddistingue il sistema economico cinese e che si pone come un Beijing Consensus in contrapposizione con il Washington Consensus: l’accumulazione primitiva del capitale non è passata attraverso la spoliazione delle classi subalterne, in particolare i contadini, ma anzi «le misure redistributive della riforma agraria sono sfociate in una rapida e delocalizzata accumulazione industriale senza perdita della terra». Tanto che: «fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e di villaggio hanno creato un numero di posti di lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città dalle imprese statali o collettive». Nel 1990, poi, la proprietà di queste imprese è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Questo gradualismo nel ristrutturare, procedendo di pari passo alla creazione di nuovi posti di lavoro che garantiscano «il riutilizzo operoso delle risorse», è un’altra peculiarità del modello cinese che, dice Arrighi, prende le distanze dagli shock economici della scuola di Chicago. La chiave dei processi di privatizzazione e deregulation, secondo Arrighi, è stata l’aver messo in concorrenza le imprese statali tra di loro e con le compagnie straniere, ma soprattutto di aver creato «un variegato schieramento in cui si contano nuove aziende private,

se la fabbrica del mondo incrocia le braccia L’aumento dei prezzi delle case e le differenti condizioni tra le fabbriche nelle zone interne del Paese e quelle che producono per l’esportazione, come nella zona di Shangai, dove le retribuzioni sono arrivate ormai a 800/1.000 dollari al mese, sono il detonatore per l’ondata di vertenze che si stanno svolgendo in Cina. Queste rivendicazioni stanno rivelando da una parte la presenza di una ”nuova” classe operaia e di un movimento, formato per lo più dai giovani emigranti occupati nelle fabbriche che producono per l’esportazione e da lavoratori urbani del settore dei servizi. Dall’altra puntano il dito «sui costi al metro quadro delle abitazioni nelle grandi città, che possono arrivare tranquillamente a 2.000 dollari al mq», ci spiega un imprenditore italiano che lavora nella filiera dell’abbigliamento in Cina. Per il gruppo dirigente del Partito comunista queste proteste di massa nelle aree urbane e rurali rappresentano una sfida del tutto nuova, che ha dato il via a una serie di riforme nella legislazione del lavoro. Pa.Bai. | 46 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

15 luglio 1979 vengono approvate le prime due Zone economiche speciali

Usa pazzi per Piketty: dietro le quinte di un successo

29 settembre 1979 il capo di Stato Ye Jianying chiede il riconoscimento dell’“economia individuale” Negli anni ’80/90 la pianificazione centralizzata adotta sia un “piano economico obbligatorio” che un “piano economico raccomandato”. Si sottolinea l’appoggio del governo alle imprese di distretto e di villaggio e alle imprese private istituite dalle famiglie nelle campagne. La proprietà delle imprese di municipalità e di villaggio viene conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato

di Emanuele Isonio

Il “Capitale nel XXI secolo” ha assicurato all’economista francese il record di vendite oltreoceano, come mai era capitato a suoi connazionali. Merito solo dei contenuti? O il suo saggio sta diventando l’occasione per ricollocare le politiche economiche a stelle e strisce?

Nel 1992 il governo cinese avvia la riforma dei prezzi che porta alla fine del doppio binario per imprese private e statali 11 dicembre 2001 la Cina entra nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto 1° gennaio 2010 accordo di libero scambio con l’Asean-Associazione delle nazioni del Sudest asiatico

nuove aziende a partecipazione privata e imprese di proprietà delle comunità». Ci sono due differenze sostanziali per Arrighi tra la Cina e l’Europa: «Il sistema degli stati nazionali dell’Oriente asiatico si distingue per la pratica assenza sia di scontri militari interni al sistema stesso che di espansione geografica esterna». La seconda è «l’assenza fra gli stati dell’Oriente asiatico di ogni tendenza alla costruzione, in concorrenza fra loro, di imperi oltremare nonché di una corsa agli armamenti anche lontanamente paragonabile a quella che caratterizzava gli Stati europei». Queste caratteristiche per Arrighi da una parte configurano la possibilità che la Cina possa contribuire «all’emergere di un commonwealth delle civiltà veramente rispettoso delle differenze» che spiega la presenza di Adam Smith nel titolo del libro. Allo stesso tempo non la mettono al riparo dal rischio potenziale di «trasformarsi in un nuovo epicentro di caos politico e sociale, facilitando così i tentativi del Nord di ristabilire il proprio distruttivo dominio». 

nche un economista può gustare il sottile piacere di diventare una rockstar. Certo, il fenomeno è così raro che, quando avviene, è il caso di porsi qualche domanda. Soprattutto se quel successo è collegato con un saggio di economia che sfiora (nella versione originale) le mille pagine, contiene un’analisi che parte dall’anno Mille ed è scritto da un francese che miete tifosi negli Stati Uniti. Un mix quantomeno inusuale del quale si può fregiare

A

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libri

| un caso editoriale | internazionale |

Thomas Piketty grazie a Le Capital au 21e siècle. Numeri da bestseller i suoi: l’edizione inglese, realizzata con parecchi mesi d’anticipo rispetto al programma originario proprio per le numerosissime richieste, è da 70 giorni nella Top 100 di Amazon (mentre scriviamo è secondo assoluto e primo per distacco nella sezione Economia, nonostante le copie siano al momento esaurite). E poi un tour fra le maggiori città Usa e nelle principali università del Paese. Oltre a un lungo elenco di economisti a tesserne le lodi.

Un humus adatto per la sua analisi I contenuti nel libro di certo non mancano. A partire da un accento sulle cause

Per Paul Krugman è un libro di cui avevamo bisogno. Per smontare le tesi delle élite finanziarie per assolversi

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della disuguaglianza (vedi BOX ) spesso sottovalutato nel dibattito economico. Ma da soli – concordano analisti di diversa estrazione – i contenuti non bastano a spiegare tanto successo. «Personalmente non credo che Piketty sia il nuovo Rawls, cioè un autore in grado di plasmare il corso della riflessione per una generazione», spiega Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank di chiara impostazione liberista. «Il segreto del suo successo non sta nei dati che fornisce, piuttosto nell’esporre una tesi che ha già avuto fortuna in passato: l’idea che il capitale sia essenzialmente parassitario. E la tesi viene presentata in un momento propizio, “preparata” da anni di polemiche sui bonus dei banchieri e sullo stipendio dei calciatori. A dimostrazione che le ideologie saranno anche morte, ma la gente ne sente l’esigenza». Cruciale sarebbe anche il pubblico di lettori ai quali si rivolgerebbe: «L’ambiente della sinistra americana che, negli ultimi anni, si è andata radicalizzando per iniziativa di alcuni pensatori. Primo fra tutti Paul Krugman, probabilmente il più efficace intellettuale pubblico al mondo. È il suo endorsement a fare la fortuna di Piketty». Che le tesi dell’economista francese siano una risposta a un’esigenza diffusa almeno in una parte degli studiosi d’Oltreoceano è confermato dallo stesso Krugman. Che più volte si è speso in pubbliche (quanto appassionate) lodi del nuovo “Capitale”. L’ultima in ordine di tempo, quella alla City University of New York: «Se il libro ci colpisce con tanta forza è perché ne avevamo bisogno. Le élite finanziarie hanno avuto la capacità di diffondere | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 47 |


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struzione, ma anche per via dell’instabilità politica (e della conseguente riduzione degli investimenti) che le stesse diseguaglianze possono generare. «Studi recenti – scrivono Ostry e Berg in un articolo pubblicato sul sito internet del Fmi – dimostrano come l’eccessiva disomogeneità abbia intensificato il ciclo dell’indebitamento, ma anche come l’esistenza di concentrazioni eccessive di ricchezza abbia permesso le storture finanziarie che si sono moltiplicate prima della

L’

Ridurre le diseguaglianze aiuta a superare le crisi. Fondamentale il ruolo della politica, soprattutto fiscale

L'IMPENNATA DEI RICCHI. QUOTE DEI DETENTORI DEI REDDITI PIÙ ALTI (1%) 20%

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10%

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1981

Olanda

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Svezia

Nuova Zelanda

Finlandia

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Italia

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Portogallo

0% Irlanda

Ma a contribuire a quel calore ci sono anche analisti a lui critici. Che vedono nelle proposte pikettiane un possibile stimolo ai settori conservatori per uscire dall’angolo degli attacchi sterili e produrre controproposte efficaci, «che – osserva David Brooks, columnist del New York Times – premino la crescita, i risparmi e gli investimenti invece di punirli come vorrebbe Piketty. Sostengano le imposte progressive sul consumo anziché una tassa sul capitale. Sottolineino che il modo storicamente dimostrato per ridurre la disuguaglianza è l’elevazione delle persone attraverso il capitale umano e non scaraventando in basso chi sta più in alto». Perché è forse proprio questo il grande merito dell’ex consigliere economico di Ségolène Royal (tutt’altro che apprezzato dall’attuale inquilino dell’Eliseo, Hollande). Riuscire a innovare teorie e ricette senza strappare con il pensiero convenzionale. «Il “Capitale” di Piketty è diventato un best seller – commenta Giuseppe Di Taranto, docente di Economia politica alla Luiss di Roma – proprio perché sa rimanere nell’ambito del maistream neoclassico, affrontando il tema, tradizionalmente sottovalutato, della redistribuzione della ricchezza. E così facendo risponde a esigenze che soprattutto negli Usa sono diffuse, in modo bipartisan». 

Svizzera

nell’analisi e nella valutazione di quei numeri. La sua tesi centrale si riassume in un’equazione: r > g. Ovvero: il tasso di rendimento del capitale (r) è sistematicamente superiore al tasso di crescita dell’economia (g). Secondo Piketty quindi chi possiede il capitale ha sempre visto il proprio “tesoro” crescere più velocemente del resto della società (in media, nell’ordine del 4-5% rispetto all’1-1,5 generale). E questo ha prodotto una progressiva (e inarrestabile) concentrazione della ricchezza nelle mani della cerchia dei rentier. Tanto da far paragonare l’attuale momento a quello ottocentesco in cui qualunque carriera non potrà mai eguagliare i vantaggi di un buon matrimonio. Roba da romanzi di Jane Austen e Honoré de Balzac (che infatti vengono citati nel “Capitale”). Unica eccezione: il periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Ottanta del Novecento: «non a caso – ricorda Giuseppe Di Taranto, economista della Luiss di Roma – proprio dopo il 1929 e nella fase della ricostruzione furono applicate le proposte keynesiane che hanno assicurato una redistribuzione efficace». Piketty lo sa bene: il suo “Capitale” diventa manifesto politico quando propone un sistema di tassazione globale fortemente progressivo in grado di riequilibrare i meccanismi economici per evitare che l’eccesso di disuguaglianze provochi tensioni sociali che potrebbero sfociare in violenza aperta. Ed è proprio su questo punto che i critici neoliberisti si sono scagliati. Con accenti diversi: dalle accuse di marxismo e pauperismo a quella di proposta utopica e irrealizzabile. In Italia l’uscita del “Capitale nel XXI secolo” è prevista entro fine mese (ed. Bompiani). Cadute le barriere linguistiche, tradizionalmente molto ostiche da superare per le classi dirigenti del nostro Paese, sarà interessante capire se e da quali settori la sua analisi riscuoterà consensi.

aumento delle diseguaglianze in termini di reddito è un rischio cruciale, non soltanto per i sistemi politici e sociali, ma anche per l’economia, perché differenze troppo grandi possono pesare direttamente sulla crescita. A dimostrarlo non è un gruppo di Ong che lotta per i diritti dei meno abbienti, ma tre ricercatori del Fondo monetario internazionale (Fmi): Jonathan D. Ostry, Andrew Berg e Charalambos G. Tsangarides. In un rapporto pubblicato a febbraio scorso, gli esperti dell’istituto di Washington hanno dimostrato l’esistenza di un impatto delle disuguaglianze sul Prodotto interno lordo (Pil), ad esempio a causa della riduzione dell’accesso alle prestazioni sanitarie e all’i-

Differenze di reddito troppo elevate penalizzano la crescita economica di un Paese. A causa del minore accesso alle prestazioni sanitarie e all’instabilità politica. Lo sostengono tre ricercatori del Fondo monetario internazionale

Canada

Un gran numero di grafici, tabelle, modelli matematici e una imponente ricostruzione storica plurisecolare. Oltre a una ricchissima appendice consultabile direttamente via internet. Su questo, il “Capitale” di Thomas Piketty mette d’accordo sostenitori e detrattori: il suo è un lavoro completo e molto ben documentato. Le divergenze semmai iniziano quando l’autore entra

Anche (alcuni) conservatori si rallegrano

di Andrea Barolini

Germania

R > G. L’EQUAZIONE CHE FA TREMARE I NEOLIBERISTI

La disuguaglianza fa male all’economia

Regno Unito

ereditario, con una mobilità sociale inferiore persino a quella di alcuni Stati europei». Analisi impietosa che però sta facendo breccia anche nei palazzi del Potere (Piketty è stato invitato a parlare anche dal Center for America Progress, l’istituto di ricercatori democratici più vicino all’amministrazione Obama) tanto da creare l’humus perfetto per il

trionfo. «La fonte del successo del libro andrebbe ricercata nello Zeitgeist, lo spirito del tempo», osserva Dani Rodrik, professore di Scienze sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton, in New Jersey. «Dieci o persino cinque anni fa, all’indomani della crisi finanziaria globale, non avrebbe avuto lo stesso impatto, anche se le prove addotte sarebbero state identiche. Negli Usa aleggia oggi un senso di disagio per la crescente disuguaglianza. Sembra che ora negli Stati Uniti sia possibile ammettere che la disuguaglianza è il principale problema da affrontare. Ecco perché Piketty è stato accolto con più calore qui che nel suo Paese natale».

Usa

Il libro è arrivato al momento giusto: negli Usa si è arrivati a pensare che la diseguaglianza è il principale problema da risolvere

FONTE: WWW.OECD.ORG/ELS/SOC/ OECD2014-FOCUSONTOPINCOMES.PDF

un’ideologia a giustificazione dei loro privilegi: ci hanno spiegato che le disuguaglianze erano conseguenza dei diversi livelli d’istruzione mentre le performance individuali non hanno più alcun collegamento con i guadagni dei top manager». Una riflessione che lo accomuna a Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001: «Piketty – ha osservato nello stesso incontro – dimostra che le disuguaglianze non sono l’esito di forze economiche inevitabili, ma un prodotto delle politiche. Qui negli Stati Uniti pensiamo di essere nella società meritocratica per eccellenza e invece stiamo diventando una società di tipo

| parola dell’fmi | internazionale |

crisi». I due ricercatori si concentrano poi sul ruolo della politica rispetto a tale problema: «Se diamo retta alla convinzione comune, dobbiamo pensare che la redistribuzione sia nociva per la crescita. Eppure non abbiamo trovato dati che dimostrino tale teoria». Al contrario, secondo l’analisi, riducendo le diseguaglianze si può contribuire in modo determinante a incrementare il Pil e superare le fasi di crisi.

La spinta alla crescita Lo studio – che prende spunto da un altro rapporto degli stessi autori, del 2011, nel quale erano stati analizzati su base empirica gli andamenti degli indici di Gini (vedi GLOSSARIO ) di 150 Paesi, in un periodo di tempo di 50 anni – ha portato i ricercatori a tre conclusioni. La prima riguarda gli attori politici, il cui ruolo è determinante nel modificare i valori in campo: in Europa, ad esempio, senza un intervento di governi e parlamenti, il livello delle diseguaglianze sarebbe superiore perfino rispetto a quello degli Stati Uniti (Paese noto per non combattere troppo le distanze tra i più ricchi e i più poveri). In altri termini, è grazie alla redistribuzione ottenuta attraverso politiche fiscali, meccanismi perequativi e allocazioni sociali che si riescono a rendere meno squilibrate le società del Vecchio Continente. In secondo luogo, oltre a confermare che le ineguaglianze costituiscono una zavorra, Ostry e Berg sono riusciti a dimostrare che è anche vero l’esatto contrario: ovvero che quando esiste un ragionevole livello di distribuzione dei redditi, la crescita associata risulta più | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 | valori | 49 |


| internazionale |

fotoracconto 04/04 GLOSSARIO L’INDICE DI GINI Misura lo scarto tra la distribuzione reale dei redditi tra gli individui o le famiglie di un determinato Paese, rispetto a un’ipotetica condizione di uguaglianza perfetta. In particolare, consiste in un raffronto tra la “curva di Lorenz” (strumento molto utilizzato per rappresentare e studiare la concentrazione del reddito) e una linea che invece segue la distribuzione più equa possibile. La differenza tra le due curve costituisce il coefficiente di Gini, che può variare da un valore minimo pari a 0 (uguaglianza perfetta), fino a un massimo di 100 (disuguaglianza assoluta).

robusta e più stabile nel tempo. Infine, anche i casi di redistribuzione “massiccia” – bollati da molti economisti come recessivi – non sembrano avere alcun impatto sulla crescita (anche se, ovviamente, non tutti i metodi utilizzati per garantire maggiore equilibrio tra le classi sociali sono efficaci allo stesso modo).

Un mondo diseguale C’è da dire, inoltre, che – lungi dal parlare di rischi di redistribuzione “eccessiva” – l’allocazione attuale delle risorse è sempre più sperequata nel mondo, con i redditi che risultano concentrati in modo

crescente nelle mani di poche élite. Secondo un’indagine dell’Ocse pubblicata di recente, in Italia nel 1981 l’1% dei redditi più alti si accaparrava il 6,9% del totale distribuito nel Paese. Nel 2012, trent’anni dopo, la percentuale era salita al 9,4%. Negli Stati Uniti il dato è ancor più eclatante: l’1% dei più fortunati intasca il 20% dei redditi totali. Ma soprattutto, se si avvicina la lente d’ingrandimento allo 0,1% dei cittadini, si scopre che in 30 anni la loro “quota” di redditi è passata dal 2 all’8%.

Al contrario, situazioni un po’ meno sperequate si possono osservare in Danimarca e Olanda, dove il centesimo più ricco della popolazione si spartisce il 7% dei redditi totali. Ma ciò che allarma di più è il trend, dal quale si evince che nel trentennio di riferimento l’aumento delle diseguaglianze ha toccato tutti i Paesi del mondo. E, se si escludono i casi di Spagna, Francia e Paesi Bassi, lo ha fatto anche in modo molto marcato. L’ennesima stortura generata dal modello di sviluppo economico liberista. 

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Usa, l’ecologia risorge alle elezioni di mid-term > 46 Mozambico, nuova terra di conquista > 49

Peso speculativo Il cibo è un business in mano a pochi colossi. I produttori sono schiacciati Finanza > Allarme immobiliare: le banche italiane ed europee ne hanno le tasche piene Economia solidale > Transition town: il futuro è sostenibile se scritto dal basso | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Fratelli di inflazione: Argentina e Venezuela sulla stessa barca

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LAND GRABBING: E SE CI RUBASSERO IL COLOSSEO?

APPUNTAMENTO A LUGLIO PER RISCOPRIRE IL LAVORO NEI CAMPI C’è la russulidda, un grano tenero che si distingue per la sua grande spiga di colore giallo-rosso. Oppure la ianculidda, da cui si ricava una farina bianchissima, ottima per i dolci. Sono le varietà di grano dimenticate nel corso dei decenni e recuperati dalla Pro Loco di Caselle in Pittari, in provincia di Salerno, che da dieci anni a luglio organizza il Palio del grano, una gara di mietitura a mano tra gli otto rioni e otto paesi gemellati. Dal 2012 le attività propedeutiche al Palio del grano vengono affidate a 25-30 ragazzi di tutt’Italia, che si mettono alla prova col #Campdigrano: una settimana di “alfabetizzazione rurale e innovazione sociale”, che prevede la mietitura a mano delle varietà antiche, la pesatura del grano, la trebbiatura con i buoi e la panificazione, come ci racconta Antonio Torre, uno degli organizzatori. Le serate sono dedicate a diversi workshop, che di volta in volta riguardano i temi dell’innovazione sociale, case history di giovani imprese e altro ancora. Se qualcuno dei nostri lettori ha voglia di partecipare, questo è il momento giusto: on line ci sono tutte le istruzioni per l’edizione di quest’estate. www.paliodelgrano.it

CREDIT: ORLANDO MYXX

Immagina di viverlo sulla tua terra. Immagina che le ruspe invadano il parco del tuo quartiere oppure, come in quest’immagine-shock, un simbolo come il Colosseo. ActionAid sceglie una provocazione per spiegare cos’è il land grabbing e perché, anche se non assisteremo mai a una scena del genere, è impossibile liquidarlo come se fosse un tema che non ci riguarda. La Ong punta infatti il dito contro politiche internazionali come la Nuova alleanza per la sicurezza alimentare e la nutrizione del G8. Politiche che partono dall’intento di incoraggiare gli investimenti ma finiscono per spianare la strada alle multinazionali nei Paesi in via di sviluppo. Tra di loro, per giunta, non mancano i nomi italiani. Fra i casi analizzati c’è anche quello della Tampieri Financial Group Spa di Ravenna, che produce olio ed energia da biomasse e, tramite la propria controllata Senhuile SA, ha avviato un investimento agricolo su 20mila ettari nella riserva naturale dello Ndiael, in Senegal. Finora l’azienda non ha cambiato idea di fronte alle proteste dei 9mila abitanti dei 37 villaggi che hanno bisogno di quei terreni perché vivono di pastorizia, agricoltura e allevamento. Ma la petizione in loro sostegno, che ha già raccolto oltre 50mila firme, è ancora aperta. Le informazioni e il rapporto sono al sito www.actionaid.it/campaign/land-grabbing [V.N.]

FONDAZIONI ITALIANE POCO TRASPARENTI ONLINE PARITÀ DI GENERE BANCA ETICA FA ANCHE DI PIÙ Che sia una garanzia di qualità non possiamo dirlo, ma di certo è una notizia. E il segno evidente di una ricerca di equità e di parità di genere. Anche troppo, potrebbe dire qualcuno, dal momento che il nuovo Comitato Etico di Banca Etica è per l’85% composto da donne, 6 membri su 7. L’elezione si è svolta lo scorso 24 maggio, all’assemblea annuale dei soci della banca, che quest’anno è stata organizzata a Napoli. 300 i soci e le socie presenti fisicamente, 1.663 i voti in tutto, grazie alle deleghe. Tra i punti all’ordine del giorno c’era anche la nomina dei membri del Comitato Etico. Sono stati eletti (in ordine alfabetico): Cristina De La Cruz Ayuso, spagnola, ricercatrice e professoressa di filosofia morale e politica; Francesco Di Giano, della Fondazione antiusura “Interesse Uomo” - Libera; Marina Galati, già membro del Comitato Etico, direttrice della Comunità Progetto Sud; Catia Mastantuono, esperta di progettazione europea e di sviluppo territoriale; Simona Lanzoni, vicepresidente e direttrice dei Progetti della Fondazione Pangea Onlus; Alessandra Smerilli, docente di Economia presso le Università Milano-Bicocca, Cattolica di Roma e Salesiana; Soana Tortora, responsabile pace, sviluppo, immigrazione per le Acli e fondatrice di Solidarius Italia. È stato anche approvato il bilancio 2013: 1,3 milioni di euro di utili; 888 milioni di raccolta (+12%); 2% di sofferenze, in leggero rialzo, ma molto al di sotto rispetto alla media del sistema bancario. Per vedere il bilancio di Banca Etica, integrato e 2.0: bilanciosociale.bancaetica.it [E.T.] | 52 | valori | ANNO 14 N. 119 | GIUGNO 2014 |

Quanto a trasparenza nei processi decisionali, dei criteri di erogazione, e della gestione patrimoniale esiste un settore in Italia, nato anche dalla finanza, che mostra alcune criticità: le fondazioni. Le fondazioni contribuiscono al benessere delle loro comunità, erogano risorse aggiuntive per promuovere il cambiamento sociale e l’innovazione pubblica. Tuttavia, a causa della loro struttura e governance privata, una delle questioni più complesse è comunicarne la responsabilità sociale. Il numero di fondazioni private, familiari, d’impresa, bancarie e comunitarie è aumentato negli ultimi anni. L’ultimo censimento Istat ha registrato una notevole crescita delle organizzazioni non profit rispetto al decennio precedente, le fondazioni hanno visto una crescita impressionante, triplicando la loro presenza in alcune regioni come la Lombardia. È stato presentato a Perugia durante il Colloquio Scientifico sull’Impresa Sociale, organizzato da Iris Network, una ricerca di Elisa Ricciuti e Francesca Calò del Cergas - Bocconi sullo stato di trasparenza online delle fondazioni italiane. Mentre le fondazioni crescono in tutto il mondo, diverse voci della letteratura internazionale sono critiche sui modelli di governance e sul grado di responsabilità sociale a loro attribuito. La ricerca mostra che il 54% delle 97 fondazioni usate come campione, non comunica la portata delle proprie azioni erogative, la valutazione di efficacia nella risposta ai bisogni sociali né l’impatto sugli stakeholder. [A.V.]

THE ECONOMIST: L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE BANCHE OMBRA Vincoli di capitalizzazione più forti e stretta creditizia ancora presente. Sono gli elementi chiave alla base della crescita dello shadow banking, il sistema finanziario esterno agli istituti di credito tradizionali, che tende sempre di più a riempire i vuoti lasciati da questi ultimi nel sistema economico. A occuparsene, nelle scorse settimane, uno speciale dell’Economist che ha fornito alcune cifre significative sul fenomeno. Secondo il Financial Stability Board, uno dei principali monitor globali del fenomeno, i prestiti del settore bancario ombra nelle 20 principali economie del mondo sono passati dai 26 mila miliardi di dollari del 2002 ai 71 mila del 2012. Nel corso dell’ultimo anno, nota L’Economist, i fondi di direct lending, un comparto prestiti che rientra a pieno titolo nella categoria shadow, hanno rastrellato quasi 100 miliardi di dollari. Secondo la Sec, un altro comparto della categoria, quello delle cosiddette business development companies, è cresciuto in America di dieci volte tra il 2003 e il 2013. Numeri chiave che evidenziano una parziale ritirata delle banche sottoposte, tra le altre cose, alla concorrenza di nuovi soggetti nei comparti dei sistemi di pagamento (vedi il fenomeno bitcoin), del trasferimento di denaro e del finanziamento del business (che si affida sempre di più all’emissione obbligazionaria). Tutto questo, nota ancora il settimanale britannico, «non significa che le banche stiano scomparendo, ma solo che il loro peso nel sistema sta diminuendo di fronte al crescere e al proliferare di altre istituzioni finanziarie». [M.CAV.]

UNO SCATTO GREEN CON IL MAESTRO E MARGHERITA

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UN REGALO GREEN AI NUOVI NATI

Anche la fotografia può essere sostenibile. Lo dimostra il team de Il Maestro e Margherita, uno studio di Pavia che prende a prestito il titolo del capolavoro di Bulgakov per promuovere una fotografia diversa in tanti piccoli aspetti. A partire dal materiale d’ufficio riciclato, passando per un sito internet a impatto zero e per l’addio ai supporti fisici, in favore del cloud. Le foto sono stampate soltanto su carta riciclata o certificata FSC®, con inchiostro a base vegetale: «Spesso molte persone si sorprendono perché la qualità è comunque ottima», precisa Margherita. E quando le stampanti (alimentate a energie rinnovabili) non funzionano più, basta smontarle per poter ri-assemblare le componenti ancora valide. «Lavoriamo con i matrimoni – ci ha raccontato Margherita a Fa’ la cosa giusta! – ma anche per servizi di moda e fotografie d’interni. Abbiamo anche un filone di fotografia sociale e reportage. Il 10% degli introiti dei servizi matrimoniali viene devoluto a un’associazione scelta dalla coppia: è una buona occasione per sensibilizzare gli invitati, che di norma reagiscono con grande interesse». www.ilmaestroemargherita.it

Da uno studio di product design nel centro di Milano a Faviano Superiore, un piccolissimo borgo sulle colline di Parma: è l’avventura di Valerio Vinaccia e della sua famiglia, che si sono reinventati con Woodly, un’azienda che produce mobili ecologici, soprattutto per bambini, e biciclette. Ecologici perché sono tutti in legno certificato, con finiture in gommalacca e cera, costruiti in un laboratorio alimentato da energie rinnovabili e scarti di lavorazione. Ecologici perché chi compra una culla, grazie alla star tup fiorentina Treedom, vedrà piantare il proprio albero con il nome del bambino e potrà seguirne la crescita sul web. E perché, come ama dire Valerio, i mobili di Woodly «non sono riciclabili ma ereditabili: il mobile non va buttato e riciclato, ma al contrario dev’essere fatto bene, in modo da durare per decenni». Tutti i prodotti di Woodly si possono comprare via Internet, ma proprio a partire da queste settimane si potrà andare a conoscere la famiglia Vinaccia di persona, soggiornando nella nuova locanda. www.woodly.it

L’arrivo di un figlio è una rivoluzione: saperla affrontare con uno sguardo attento all’ambiente è un passo in più. La provincia di Venezia ha affidato questo prezioso compito di sensibilizzazione all’associazione mestrina Abitare la Terra, che dal 2006 intraprende numerose iniziative per promuovere il consumo di prodotti biologici e naturali, l’uso di fonti rinnovabili, la mobilità sostenibile e molto altro. Questa realtà si è dunque occupata di realizzare un fascicolo di 60 pagine, stampato in 4mila copie, che nell’arco dei prossimi mesi andrà in regalo a tutte le famiglie che si apprestano a registrare un nuovo nato all’Anagrafe. Dall’igiene personale ai vestitini, dall’acquisto di prodotti sfusi alle caratteristiche della cameretta, fino al calcolo della propria impronta ecologica: questi e altri i temi affrontati nel libretto, che per la parte grafica si avvale della collaborazione dei ragazzi dell’Istituto penale Minorile di Treviso, che da tempo stanno frequentando un corso specifico. www.abitarelaterra.com

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| bancor |

L’ultima chance

Evitiamo un finale alla Belle Époque eggerete Thomas Piketty, se ne avrete voglia e pazienza, ma sarà come leggere Claude Saint-Simon, David Ricardo o Carlo Marx, solo qualche secolo più tardi. L’unica sostanziale differenza è che “Il Capitale nel XXI secolo” del giovane economista di Clichy non ha l’intento del manifesto ideologico né i tratti del disegno utopico per un mondo migliore. Nella

L

dal cuore della City Luca Martino

sua lunga ricerca (quasi 700 pagine), Piketty, coadiuvato da un nutrito gruppo di matematici, raccoglie e analizza, con assoluto rigore scientifico, duecento anni di dati per misurare del capitalismo quello che in fondo è il segno di ogni modello economico-sociale, ovvero la distribuzione della ricchezza e il carattere delle diseguaglianze. E ce ne rende conto con un testo che, parola di Paul Krugman, passerà alla storia per aver cambiato per sempre il metodo stesso dell’analisi dei sistemi economici. Anche se il richiamo alla tradizione classica è forte, non solo nel titolo, ovviamente, ma anche negli straordinari (per un economista soprattutto) rimandi a Jane Austen e Balzac, perché non vi è oggi niente di più attuale, purtroppo, del consiglio del cinico Vautrin al giovane Rastignac in “Papà Goriot” di sposare una ricca ereditiera piuttosto che sudarsi una brillante carriera per imporsi nella società. Ed è proprio un finale da nuova Belle Époque quello che Piketty intende aiutarci a scongiurare: allora il più ricco 1% della popolazione possedeva l’80% della ricchezza e ci volle poco perché decenni di straordinario progresso (scientifico, medico, artistico) fossero spazzati via dai nazionalismi e dai due tragici conflitti mondiali. Piketty peraltro non

so di qualche ettaro di terra tra Belgravia e Knightsbridge pagando in tasse poco o nulla rispetto a quanto ciascuno di noi paga sul proprio stipendio e i propri risparmi. Che fare allora? Suffragata dai dati e detta da un non comunista (il sostegno a Ségolène Royal prima e poi a François Hollande lo hanno sì etichettato ma “salvano” Piketty dall’accusa di neo-giacobinismo), la soluzione appare ancor più rivoluzionaria: una tassa progressiva sulla ricchezza netta e la successione dei capitali per favorire la crescita dell’economia reale. I sacerdoti del liberismo hanno subito raccolto la sfida criticando l’analisi di Piketty sia nel metodo («quei dati non tengono conto dei programmi sociali e di welfare di cui si avvantaggiano le classi meno abbienti») che nel merito («l’ineguaglianza è in fondo la ragione stessa del capitalismo») rispolverando l’asserto thatcheriano secondo il quale vale più l’aspirare dei tanti alla ricchezza dei pochi piuttosto che la concentrazione stessa dei patrimoni. Ma se così è, se davvero è giusto, o irrinunciabile, che pochi si spartiscano quasi tutto, che senso ha parlare di democrazia, di uguaglianza dei diritti o di “finalità sociali per l’iniziativa economica” come fa ad esempio la nostra bellissima Costituzione retodebate@gmail.com pubblicana? 

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Dopo quello di Marx, un nuovo Capitale. Per Paul Krugman passerà alla storia si limita a esaminare le dinamiche del reddito disponibile e del “salario da impiego”, che pur ci dicono molto su quanta disparità ci sia oggi tra le varie classi sociali, ma va dritto al centro della questione e si concentra sui patrimoni e su quanto “capitale” venga effettivamente redistribuito alla comunità tramite la fiscalità sulle rendite e sulle successioni, anche qui rifacendosi agli economisti e ai romanzieri dell’Ottocento, per i quali il tema dell’eredità era quasi un’ossessione. E se pensate che la nostra società sia molto diversa da quella di metà ’800, sappiate, ad esempio, che tra i più ricchi oggi nel Regno Unito non troverete gestori di hedge funds o pionieri di internet ma, come sempre, il Duca di Westminster e il Conte di Cadogan, che da secoli godono del posses-

È TEMPO DI MUTARE

la nuova grafica dal prossimo numero



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