Mensile Valori n. 117 2014

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 14 numero 117. Aprile 2014. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

BEATRICE DE BLASI

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Peso speculativo Il cibo è un business in mano a pochi colossi. I produttori sono schiacciati Finanza > Allarme immobiliare: le banche italiane ed europee ne hanno le tasche piene Economia solidale > Transition town: il futuro è sostenibile se scritto dal basso | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Fratelli di inflazione: Argentina e Venezuela sulla stessa barca


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| editoriale |

La nuova fame di Andrea Di Stefano

“N

utrire Milano, nutrire il Pianeta. Energie per la vita”: è l’impegnativo tema di Expo 2015, l’evento universale che dovrebbe analizzare le dinamiche di un sistema che, invece di mettere al centro la sovranità alimentare delle comunità umane, è fortemente condizionato da dinamiche incontrollate e sempre più rischiose. Valori, a partire da questo numero, vuole offrire il proprio contributo, analizzando ogni mese alcune delle dinamiche, forse conosciute agli addetti ai lavori, ma per lo più ignote anche ai decisori pubblici. Negli ultimi vent’anni, grazie alla globalizzazione di alcuni modelli, il panorama a livello mondiale è cambiato profondamente. Sino all’inizio degli anni Ottanta l’attenzione internazionale era focalizzata sull’emergenza fame, che, anche secondo i dati della Fao, si è considerevolmente ridotta in termini numerici. Oggi le persone a rischio di fame sono 842,3 milioni, pari al 12% della popolazione mondiale, in calo rispetto agli 878 del biennio 2008-10 e soprattutto rispetto al miliardo (1.015 milioni) del 1990, il 18,9% della popolazione globale all’epoca. La situazione è e rimane gravissima, soprattutto perché dal 1992 la percentuale delle crisi alimentari causate dall’uomo, di breve o lunga durata, secondo la Fao, è più che raddoppiata, passando dal 15 al 35% e molto spesso sono i conflitti ad esserne la causa scatenante. Dall’Asia all’Africa all’America Latina, le guerre costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case causando tra le peggiori emergenze alimentari globali. Dal 2004 oltre un milione di persone ha lasciato le proprie abitazioni a causa del conflitto nel Darfur (in Sudan), provocando una grave crisi alimentare, in un territorio dove solitamente non mancavano piogge e buoni raccolti. Poi ci sono i cambiamenti climatici: la siccità è la causa più comune della mancanza di cibo nel mondo. «Nel 2006 siccità ricorrenti hanno causato il fallimento dei raccolti e la perdita di ingenti quantità di bestiame in zone dell’Etiopia, della Somalia e del Kenia. In molti Paesi il cambiamento climatico sta esacerbando le già sfavorevoli condizioni naturali – si legge nel rapporto Fao sulla insicurezza alimentare – ad esempio, gli agricoltori poveri in Etiopia o Guatemala, in assenza di piogge, tendono generalmente a vendere il bestiame per coprire le perdite e acquistare cibo. Anni consecutivi di siccità, sempre più frequenti nel Corno d’Africa e nel Centro America, stanno mettendo a dura prova le loro risorse». La drammaticità del sistema alimentare mondiale (che analizziamo nel dossier di questo numero) porta al fatto che oggi le persone sovrappeso nel mondo sono quasi il doppio di quelle affamate: oltre 1,6 miliardi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, contro i 500 milioni di obesi acclarati. E non si tratta solo di uno squilibrio causato da cattive abitudini alimentari. Larga parte di questo fenomeno, che affligge ormai quasi metà della popolazione mondiale (tra affamati e sovrappeso), è riconducibile agli obiettivi industriali e commerciali dei grandi player dell’industria agroalimentare. Basta un esempio (che trovate nel dettaglio a pagina 11 di questo numero di Valori): in Messico dal momento dell’attuazione del Nafta (l’accordo per il libero commercio in Nord America) l’esportazione di fruttosio dagli Stati Uniti è cresciuta del 1.200% e la percentuale degli obesi tra gli adulti è salita al 32,8%. Così, mentre nelle piazze del 2008 si scatenavano rivolte per le tortillas (il prezzo del mais era andato alle stelle per la speculazione), ci si poteva sfamare gonfiandosi con BigMac e Coca Cola.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 3 |


fotoracconto 02/06

Il dossier di questo numero di Valori affronta il tema della speculazione sul cibo e descrive le conseguenze per i produttori, del Nord come del Sud del mondo, e per noi consumatori. Nel fotoracconto abbiamo deciso di mostrare le facce di chi il cibo lo fa e da queste dinamiche rischia di rimanere schiacciato. I volti di produttori del Sud del mondo, inseriti (per fortuna) nel circuito del commercio equo e solidale, che cerca di preservare la dignità del loro lavoro. Sono fotografie dei fornitori di Altromercato-Chico Mendes e Fairtrade Italia. Beatrice De Blasi è l’autrice della foto di copertina e di altre all’interno del fotoracconto. Lavora per Altromercato, nella cooperativa Mandacarù di Trento. Dalle sue foto traspare una passione che va ben al di là della sua professione.

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La foto in alto, come altre due nel giornale, appartiene invece all’archivio di Fairtrade: è una lavoratrice della cooperativa di coltivatori Volta River, in Ghana, mentre trasporta una cesta di ananas appena raccolti.

ARCHIVIO FAIRTRADE ITALIA


BEATRICE DE BLASI

| sommario |

aprile 2014 mensile www.valori.it anno 14 numero 117 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Beatrice De Blasi; archivio Fairtrade Italia; Böhringer friedrich, Fabio Rodrigues Pozzebom/ABr, Presidencia de la N. Argentina, Rjcastillo (http://commons.wikimedia.org); Transition Town Totnes

fotoracconto 01/06 In una risaia indiana una donna col suo enorme carico. India, terra di riso dove Navdanya, organizzazione fondata dal premio nobel Vandana Shiva, promuove agricoltura sostenibile, biodiversità, tutela della sovranità alimentare e difesa dei diritti dei piccoli agricoltori. [foto di Beatrice De Blasi di Mandacarù - Altromercato]

dossier Cibo per speculare L’alfabeto del cibo globale La cattiva lezione del benessere La scommessa nel piatto in cui mangi Usa ed Europa. La lunga strada verso la regolamentazione

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

globalvision finanzaetica

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Immobiliare alla resa dei conti. Tra crediti e svalutazioni Eco-mutui tra ambizione francese e ritardo italiano Mt.Gox & Bitcoin. The day after La voglia di banca (etica) contagia la Spagna

19 22 24 26

numeridellaterra economiasolidale

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Yes, we can. La transizione parte dal basso Sviluppo sostenibile: siamo parte di una rete La lunga corsa del riciclo: il settore vale più di vino e tessuti

31 34 36

socialinnovation internazionale

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Hermanos de inflación. Argentina e Venezuela in caduta libera Usa, l’ecologia risorge alle elezioni di mid-term Mozambico, nuova terra di conquista

43 46 49

consumiditerritorio altrevoci bancor

51 52 54

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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dossier

a cura di Matteo Cavallito e Corrado Fontana

fotoracconto 03/06 L’alfabeto del cibo globale > 8 La cattiva lezione del benessere > 10 La scommessa nel piatto in cui mangi > 12 La lunga strada verso la regolamentazione > 14


BEATRICE DE BLASI

Etiopia, due uomini al tavolo di essiccazione del caffè affondano la mani tra i chicchi per rimescolarli e valutare lo stato del processo. [foto Beatrice De Blasi di Mandacarù, cooperativa del circuito equosolidale Altromercato]

Cibo per speculare Il cibo è sempre più un mero business. Un mercato in mano a pochi colossi che schiacciano i piccoli produttori La speculazione sulle materie prime fa il resto: i prezzi dipendono dalle Borse internazionali non dal lavoro nel campo

???


dossier

| cibo per speculare |

L’alfabeto del cibo globale di Corrado Fontana

A,

B, C, D. Iniziamo dalle prime lettere dell’alfabeto per continuare a parlare di cibo e di sistema agroalimentare mondiale (vedi anche Valori 115, di dicembre 2013/gennaio 2014). Sono anche le iniziali del nome di quattro multinazionali che da sole controllano il 75% del mercato di soia e cereali e circa il 90% di quello del grano, ovvero le materie prime di base dell’alimentazione della maggioranza delle persone sul Pianeta. Sono le americane Archer Daniels Midland Company (ADM), Bunge Limited (nata però in Olanda) e Cargill, oltre alla francese Dreyfus (soprattutto la sua emanazione, con sede nei Paesi Bassi, Louis Dreyfus Commodities), corporations gigantesche, che, tutte insieme, raggiungono un fatturato che supera il Pil di moltissimi Paesi sviluppati al mondo: nel 2013 ADM ha dichiarato ricavi per 89,8 miliardi di dollari, Cargill addirittura 136,7; nel 2012 Bunge ha avuto ricavi per 61,3 miliardi di dollari mentre LD Commodities per 57,1.

In un mercato del cibo sempre più globalizzato, tra spoliazioni di terra e speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari, emergono quattro colossi multinazionali e i piccoli soffrono, se non percorrono le vie meno battute

Dal potere del prezzo... E in un mercato globale del cibo in cui sempre di più conta l’elemento finanziario di fissazione dei prezzi (lo vedremo meglio più avanti), e sempre meno il valore del lavoro nel campo o in stalla, il ruolo di queste compagnie si sta espandendo. Un ruolo che deriva naturalmente da un peso economico enorme: la FAO (Food Agricultural Orgnization) stima che dalle importazioni di materie prime alimentari (le cosiddette commodities) si

sono ricavati 1,09 trilioni di dollari (un trilione vale mille miliardi di dollari) nel 2013. Ma non solo. Perché il peso di queste compagnie condiziona tutte le fasi della filiera, in diversi modi. Se è vero che l’85% di tutti gli alimenti è consumato vicino a dove viene prodotto, i pochi soggetti in grado di trattare volumi elevati di materie prime per trasformarle ed esportarle dominano il commercio globale con una sproporzionata influenza sui prezzi cui i produttori si devono piegare. Tanto più che gli stessi lotti di soia, grano, mais, ecc. possono essere fatti oggetto di più transazioni sul mercato azionario, variando ulteriormente di prezzo. Secondo uno studio della Ong Oxfam del 2012, il potere di condizionamento di ABCD (le chiameremo così per brevità) si esprime perciò con gli agricoltori, con i quali contrattano direttamente, ma anche con i grandi impianti di stoccaggio e trasformazione (spesso di proprietà delle stesse ABCD), cui gli agricoltori, inseriti in un sistema di produzione industrializzato, consegnano i prodotti: «In definiti-

Quattro assi pigliatutto ARCHER DANIELS MIDLAND COMPANY (ADM)

BUNGE LIMITED

Opera su oltre 270 siti produttivi con circa 27mila dipendenti in più di 60 Paesi. È specializzata nel commercio di grano e semi oleosi trattati per diventare materie intermedie destinate all’industria alimentare, delle bevande e dei mangimi per animali. È uno dei maggiori produttori di farina di soia, di olio di soia e di palma, sciroppo di fruttosio. Nel 2012 era il secondo più grande produttore di etanolo degli Stati Uniti, e un grande fornitore di biodiesel per l’Unione europea.

È il maggior commerciante di soia del mondo, ma tratta anche cereali e fertilizzanti. Recentemente, ricorda EcoNexus nel rapporto Agropoly del 2013, è diventato il più grande acquirente di canna da zucchero e produttore di etanolo in Brasile. In alcuni Paesi come il Vietnam è l’unico trasformatore di soia. Ha circa 35mila dipendenti e opera in 40 nazioni del mondo.

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| dossier | cibo per speculare |

Alessandro Banterle, professore di Economia e politica alimentare presso l’Università̀ degli studi di Milano.

va ABCD dominano il mercato interno e l’esportazione dei principali Paesi esportatori, soprattutto nelle Americhe», scrive Oxfam. E stanno espandendo la loro presenza «in Paesi in cui erano predominanti le imprese statali, tra cui Australia, Russia e Cina». Una situazione che, stando alle parole del professor Alessandro Banterle, docente di Economia e politica alimentare all’Università statale di Milano, rischia di riguardarci sempre più: «Fino a 15 o 20 anni fa l’Europa era un mercato molto protetto, grazie ad una politica agricola comunitaria che, per tutelare il settore, ha sempre condotto una strategia di sostegno dei prezzi: questi, all’interno della Comunità europea, erano fissati dalle istituzioni e rimanevano abbastanza indipendenti dalle oscillazioni internazionali. Tale meccanismo è stato progressivamente abolito, riportando il prezzo comunitario a livello di quello internazionale, basato sul mercato delle commodities agricole».

Ma cresce in maniera inquietante se la disponibilità della terra sfugge a chi la abita e la coltiva (Bunge, multinazionale con sede nel paradiso fiscale delle Bermuda, da sola controllerebbe 280 mila ettari) e se tali soggetti arrivano a dirigere l’attività e la vita dei coltivatori. Oxfam riporta il coinvolgimento di ABCD nell’offerta di programmi sanitari per i produttori americani, di mutui mirati agli agricoltori per comprare case mobili, e collaborazioni con altre aziende del cosiddetto “agribusiness” per promuovere particolari pacchetti tecnologici (Cargill con Monsanto; ADM con Novartis e Syngenta). Cargill offre servizi di consulenza e guida per i contadini, e il rischio che ciò si possa trasformare nella spinta a coltivare ciò che serve al mercato globale (e quindi alla società) è alto: «Bisogna intervenire sugli incentivi che provocano distorsioni – ricorda Stefano Masini, responsabile ambiente di Coldiretti –, penso ad esempio a quelli sulla produzione di biocarburanti che, sotto forma di un aiuto per contrastare il cambiamento climatico, hanno determinato un mutamento nell’utilizzo del terreno, tanto che negli

Stati Uniti circa un terzo della coltivazione di mais è destinata a questo fine. E poi bisogna intervenire in tema di tecnologie, con particolare attenzione all’introduzione degli organismi geneticamente modificati, che determinano una distorsione del mercato: abbiamo società internazionali quotate in Borsa che scommettono sugli Ogm per creare la dipendenza dei Paesi più poveri desiderosi di fare reddito sui mercati esportando mangimi e materie prime, ma depredando il territorio e continuando a sacrificare i bisogni di cibo delle comunità locali». Certo il sistema agroalimentare in generale non è fatto solo da ABCD e si compone, come precisa il professor Banterle, di agricoltura, industria alimentare, distribuzione e ristorazione. Ma data la dimensione e l’influenza di queste corporations (che producono un vero oligopolio su alcuni settori), l’allerta rimane sul diffondersi di logiche di riduzione dei costi tipiche dell’economia di scala espressa dalle multinazionali: «Per ridurre i costi – sottolinea Masini – si fa presto: non si pagano i lavoratori, si inquina l’ambiente e si avviano iniziative commerciali poco corrette». 

... al potere sulle persone Quello di ABCD e di molti altri protagonisti del sistema globale del cibo, si configura insomma come una sorta di strapotere economico-finanziario e commerciale.

CARGILL

LOUIS DREYFUS

È il maggiore dei quattro per dimensioni, leader del mercato di grano, di cui controlla gran parte delle esportazioni da Nord e Sud America. Opera in 67 Paesi con 142mila dipendenti. Ha interessi nei mangimi per animali e nella trasformazione e nel commercio di materie prime alimentari, ma anche nel settore energetico e dei trasporti, sul mercato dei crediti di carbonio e nell’industria farmaceutica, e perfino nella produzione di sale chimico per la manutenzione invernale delle strade. Non è quotata in Borsa.

Compagnia di origine alsaziana, grazie alla sua emanazione specializzata in commodities è leader del commercio mondiale di cotone e riso, secondo nella negoziazione e lavorazione di zucchero e biocarburanti, terzo al mondo nel commercio di grano, mais, zucchero, e succo d’arancia, quinto nel campo dei semi oleosi. Ma non è da meno nel commercio di metalli, gas naturale e carbone; mantenendo interessi nel campo dei prodotti finanziari, della petrolchimica, dell’energia, e in campo immobiliare. Opera in 90 Paesi con oltre 30mila dipendenti. Non è quotata in Borsa.

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dossier

| cibo per speculare |

La cattiva lezione del benessere di Corrado Fontana

Molte pessime abitudini alimentari dell’Occidente ricco contagiano i Paesi in via di sviluppo, terra di conquista per le multinazionali del food and beverage ipercalorico. E così al dramma della fame si aggiunge l’obesità killer lobesity è una formula giornalistica, ma sintetizza con efficacia la relazione tra globalizzazione delle transazioni finanziarie e commerciali sul cibo e diffusione dell’obesità che ne deriva. Perché l’obesità oggi ispira

G

campagne internazionali di contrasto, riuscendo drammaticamente a convivere, spesso nello stesso Paese, con fame e malnutrizione. Dall’obesità deriva un innalzamento dei tassi di diabete, e soprattutto il rischio di malattie cardiache e ictus (13 milioni di morti l’anno), primo nemico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). E intanto, mentre gli Stati Uniti – terra d’origine dei fast food e sede di gran parte delle dieci corporations leader nella produzione di cibi e bevande ipercaloriche (PepsiCo vende più di 10 miliardi di dollari di patatine fritte l’anno) – hanno visto dal 2009 al 2012 una tendenza alla stabilizzazione dei tassi di obesità, altrove il fenomeno è in espansione.

PERCENTUALE DI POPOLAZIONE ADULTA OBESA NEL MONDO

6

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FONTE: WORLD OBESITY FEDERATION

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%

Stati Uniti oversize A guardare i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDCP) – organismi di controllo e prevenzione sanitaria – il quadro americano descrive una crescita della percentuale di bambini obesi tra 6 e 11 anni, passata dal 7% del 1980 a quasi il 18% nel 2012; e quella dei ragazzi (12-19 anni) dal 5% a quasi il 21%. In pratica nel 2012 più di un terzo dei bambini e degli adolescenti americani era in sovrappeso o obeso, circa il doppio del 1995. Ben il 31,8% degli adulti statunitensi è ormai considerato clinicamente obeso, cioè oltre la soglia dell’indice di massa corporea fissata dall’Oms a 30 (un indice medio corretto è intorno al 21,5), e la questione non riguarda solo la salute: all’aumento dell’obesità corrisponde meno produttività e costi superiori di assicurazione sanitaria, calcolati a livello mondiale (FAO 2013) in 3.500 miliardi di dollari l’anno (circa il 5% del Pil globale). Ecco quindi il perché delle campagne in cui la first lady Michelle Obama promuove l’attività fisica tra i giovani, e i motivi per cui l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg pose un divieto di vendita ai formati troppo grandi di bibite, o l’amministrazione di San Francisco fece guerra all’Happy Meal di McDonald. Iniziative limitate, che però hanno contribuito a orientare diversamente l’opinione pubblica. Di contro la corazzata dei ristoranti fast food americani, secondo il rapporto Fast Food Facts 2013, ha speso ancora 4,6 miliardi di dollari in pubblicità rivolta ai minori nel 2012 (+54% di pasti per bambini tra il 2010 e il 2013). Eppure qualche lieve rallentamento dei profitto in patria comincia a vedersi. Da qui la volontà di caccia a nuovi – e magari meno informati – consumatori, che si mostra con un allargamento del mercato sul piano globale, reso evidente da alcuni dati dello US Census Bureau: l’America ha esportato 1,47 milioni di tonnellate di fruttosio nel 2012 (+1450% rispetto al 1995), sostanza base per gran parte del cosid-


| dossier | cibo per speculare |

detto junk food o cibo-spazzatura, meno costosa dello zucchero e capace di dare minor senso di sazietà.

OXFAM DÀ I VOTI ALLE 10 SORELLE

Export di cattive abitudini E così tra le prime vittime dell’obesità c’è oggi, ad esempio, il vicino Messico – candidato da molti a un futuro di crescita luminosa –, con addirittura il 32,8% di adulti obesi. Un dato attuale la cui origine sarebbe legata per alcuni analisti al 1996, con l’entrata in vigore del famoso NAFTA (l’accordo nordamericano per il libero scambio stretto con USA e Canada), che portò all’aumento di oltre il 1200% delle importazioni di fruttosio (high-fructose corn syrup) dagli USA. Un boom cui il Messico ha cercato di porre il freno tassando le bevande ad alto contenuto calorico, ma l’appello dei raffinatori americani di mais (da cui si ricava il fruttosio) all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) avrebbe bloccato l’iniziativa. Il dito puntato dei Paesi che “ingrassano” è perciò sempre più diretto verso bibite gassate, dolci, snack e “i luoghi di spaccio” per antonomasia di molti di questi alimenti: i fast food. Per senso comune, naturalmente, ma anche perché uno studio dell’University of East Anglia (UEA) e del Centre for Diet and Activity Research (CEDAR) ci dice che i bambini che vivono in aree circondate da ristoranti del genere hanno più probabilità di essere in sovrappeso o obesi. Nel mondo il numero di adulti obesi o in sovrappeso è salito a 1,5 miliardi, la grande maggioranza dei quali si trova nei Paesi in via di sviluppo. La Cina si sta accorgendo del problema solo di recente: se nel 2003 il 27,8% dei bambini superava le linee guida dell’Oms per gli standard di peso, oggi sarebbe oltre il 10% della popolazione cinese a risultare obeso; in India un quarto delle donne che abitano nelle città sono in sovrappeso o obese, rispetto a meno di una su 10 tra quelle che stanno nelle zone rurali. E per concludere coi bambini, nel 2010 quelli stimati in sovrappeso e obesi nei Paesi in via di sviluppo erano 35 milioni; circa 8 milioni quelli nei cosiddetti “Paesi ricchi”; mentre in Africa ad avere questo problema è già l’8,5% dei più piccoli, contro una media mondiale intorno al 6,7%. 

I concorrenti di ADM, Bunge, Cargill e Dreyfus stanno crescendo: nuovi trader globali (cioè società di intermediazione e dedite alle transazioni commerciali) o soggetti che puntano solo ora alle materie alimentari. Come Glencore, la multinazionale anglo-svizzera che sta affiancando le commodities agricole ai minerali, o le asiatiche Olam (con sede a Singapore) e Charoen Pokphand Group (Hong Kong), o compagnie di più recente costituzione (Gavilon, 2008; Libero, 2010; United Grain Company, 2009). Ma oltre ai trader, il mercato del cibo ha tra i suoi protagonisti assoluti anche le cosiddette “10 sorelle”, multinazionali con decine di sottomarchi che identificano gran parte del cibo trasformato e confezionato che acquistiamo e consumiamo: Associated British Foods (ABF), Coca-Cola, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Mondelez International (ex Kraft Foods), Nestlé, PepsiCo e Unilever. Le 10 sorelle, al centro della campagna della ong Oxfam Scopri il marchio, «generano collettivamente entrate superiori a 1,1 miliardi di dollari al giorno e impiegano, direttamente e indirettamente, milioni di persone. Fanno parte di un settore il cui giro d’affari è stimato intorno ai 7.000 miliardi di dollari». E Oxfam le ha valutate, sulla base di 7 parametri (trasparenza aziendale; trattamento delle lavoratrici nella filiera produttiva; rispetto dei diritti dei braccianti agricoli; trattamento economico e commerciale dei piccoli produttori agricoli; rispetto dei diritti d’accesso alla terra e all’acqua, e loro uso sostenibile; attenzione alla lotta al cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra e un sostegno agli agricoltori) e ne ha tratto una pagella. I voti più bassi a Danone (per il poco rispetto dei diritti d’accesso alla terra e il trattamento delle lavoratrici nella filiera produttiva) e Kellog’s (per lo scarso rispetto dei diritti dei produttori agricoli). Le pagelle sul sito www.behindthebrands.org LE REGINE DEL FAST FOOD Ristoranti 2012

TOTALE

USA

CINA

ITALIA

NUMERO PAESI

Mc Donald’s

35.692

>14.000

>1.700

456

118

Burger King

11.531

>7.000

86

91

73

Yum! Brands (Kfc, Pizza Hut, Taco Bell...)

39.014

>18.000

>5.700

-

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| cibo per speculare |

ARCHIVIO FAIR TRADE

dossier

La scommessa nel piatto in cui mangi di Matteo Cavallito

Alla base delle scommesse finanziarie ci sono i contratti futures . Saliti alla ribalta nel XVII secolo con i tulipani olandesi, sono utilizzati ancora oggi. Quelli sulle materie prime hanno un giro d’affari da 1.900 miliardi di dollari inizio della storia ha una data convenzionale: il 1636. Lo sfondo è l’Olanda del tempo e l’oggetto del desiderio è il fiore che di quel Paese è tuttora il simbolo più conosciuto: il tulipano. Sul finire di quell’anno, dicono gli

L’

storici, la domanda dei suoi bulbi conobbe una crescita improvvisa e incontrollata provocando l’impennata del prezzo. Il commercio, per chi operava nel settore, poteva essere molto redditizio, ma i rischi, ovviamente, erano enormi (la bolla, non a

caso, si sarebbe sgonfiata qualche mese più tardi). Come difendersi, ci si chiedeva, dalla volatilità di un fiore che oggi valeva dieci e che domani avrebbe potuto essere venduto o acquistato a 20? La risposta la offrirono i contratti differiti di acquisto. Chi li sottoscriveva si impegnava ad acquistare il bulbo a un prezzo definito a una certa data così da cautelarsi in caso di eccessivi rialzi. Ma il problema era che i contratti future o forward, come li chia-

DALLA BORSA AL CAMPO «L’intermediazione speculativa dei mercati finanziari globali ha un impatto a livello locale: fa prigioniero l’agricoltore in una gabbia di prezzo, che lo porta a produrre in modo marginale», spiega Stefano Masini, responsabile Ambiente di Coldiretti. «Se le operazioni speculative impongono il prezzo di una commodity – e già si vede nel linguaggio la distanza con l’agricoltore – questi beni destinati all’alimentazione perdono distintività, qualità, utilità e funzionalità per diventare generi su cui investire risorse e ottenere speculazioni di Borsa: in questo contesto il produttore è costretto a vendere sulla base di un prezzo internazionale, con ripercussioni tanto

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sui contadini e allevatori del Nord del mondo quanto su quelli del Sud del mondo. Nel Sud, dove non ci sono margini, affama le persone, mentre nel Nord, in cui l’agricoltura è più attrezzata, comporta una contrazione dei redditi. Molte delle rivolte di massa che si sono verificate degli ultimi anni sono state dovute all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, e gli agricoltori ne sono stati vittima, perché non più in grado di produrre in modo utile rispetto alla formazione di un reddito equo. Ci sono delle scelte semplici da fare. La cosa più immediata – che però al momento non viene fatta – è quella di vietare la speculazione sulle materie prime alimentari». C.F.


meremmo oggi, erano a loro volta beni commerciabili. Con i tulipani a 10, per dirne una, un contratto che fissava un prezzo di 15 a distanza di una settimana avrebbe offerto al suo possessore un grande vantaggio qualora, nello spazio di quei sette giorni, il valore di mercato del tulipano (oggi lo chiameremmo sottostante) avesse raggiunto quota 20 oppure 25 o magari 30. E se per superare quota 15 il bulbo di tulipano non avesse impiegato una settimana intera ma solo uno o due giorni? La cessione del contratto, diceva la logica, avrebbe garantito un profitto sicuro e immediato. Il principio di base è essenzialmente questo. Perché le opportunità non mancano mai e, in definitiva, si sa, scambiare pezzi di carta (oggi lo faremmo con un click su una tastiera) è più semplice e meno costoso che acquistare materialmente una massa di bulbi da trasportare e conservare in una serra.

Derivati e speculazione La speculazione finanziaria sulle commodities, incluse quelle alimentari, funziona oggi nello stesso modo scontando però l’esplosione incontrollata dei contratti derivati. Dieci anni fa, dicono i dati della Banca dei regolamenti internazionali, i futures sulle materie prime (oro escluso) valevano 952 miliardi di dollari. All’ultimo aggiornamento, giugno 2013, il controvalore sfiorava quota 1,9 trilioni. La proliferazione dei titoli esalta ovviamente la volatilità dei prezzo dei sottostanti, perché i derivati, ovviamente, servono in primo luogo a piazzare scommesse. Che, per le materie prime alimentari, negli ultimi anni, sono state orientate decisamente al rialzo. Lo evidenzia il Food Price Index della FAO, un paniere che misura il costo delle materie prime alimentari. Negli ultimi 15 anni l’incremento evidenziato dall’indice (vedi GRAFICO in questa pagina) è stato clamoroso: nel corso del 2008, il dato ha registrato il primo picco storico oltre quota 200 punti (+121% rispetto al valore del 2000) per poi andare incontro a un calo e a una successiva risalita fino all’aggiornamento del primato nel 2011 (229,9 punti, +156% rispetto al dato di inizio millennio). Oggi siamo oltre i 208 punti, uno dei valori più alti di sempre. Sull’esplosione dei

FONTE: FAO, FOOD PRICE INDEX MARZO 2014, WWW.FAO.ORG

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I PREZZI DELLE COMMODITIES AGRICOLE 2000-2014 500 450 400 350 300 250 200 150 100 50 0

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LA DIVERSITÀ EUROPEA «L’industria alimentare a livello europeo è alquanto frammentata, con la presenza di molte micro e piccole imprese», spiega Alessandro Banterle, professore ordinario di Economia e politica alimentare presso l’Università di Milano. «Rispetto ad altri settori, in quello dell’industria alimentare in Europa la fascia delle grandi imprese, pur essendo rilevante, non determina una struttura oligopolistica, in quanto anche le piccole imprese giocano un ruolo di estrema importanza. La situazione, che caratterizza tutta l’Europa, appare ancora più accentuata in Italia, dove è presente un altissimo numero di imprese con addetti inferiori a 10 o a 50. In Italia manca, piuttosto, la fascia di imprese di dimensione intermedia, determinando, quindi, una situazione di bipolarismo strutturale. [...] Un aspetto nuovo nel settore agro-industriale è quello dello sviluppo delle agro-energie, per cui una parte consistente di aree agricole viene destinata a questa produzione, con una crescente importanza anche in Europa, sul modello di quanto avviene negli Stati Uniti. Le produzioni energetiche sottraggono superficie alla produzione agro-alimentare, che diminuisce la propria disponibilità, e influenzano i prezzi dei prodotti agricoli. Va tuttavia detto che la destinazione agro-energetica dei terreni regge solo in presenza di contributi pubblici: in Europa e anche in Italia è sovvenzionato chi produce biocombustibili e, in particolare, biogas. [...] I piccoli produttori sono quelli che risentono di più delle oscillazioni di questi prezzi, soprattutto se si considerano quei produttori che trattano merci standardizzate sul mercato internazionale (le commodities, ndr), e che, quindi, percepiscono maggiormente la competizione globale, facendo più fatica a rimanere sul mercato. Viceversa, i piccoli produttori che riescono a diversificare la propria produzione, magari puntando sulla filiera corta o sulla cosiddetta quarta gamma (ad esempio le insalate confezionate, ndr), o sull’agriturismo, sono in grado di reagire meglio alle oscillazioni dei prezzi sul mercato». C.F.

prezzi pesano fattori “tipici” di domanda, come la crescita delle economie emergenti all’inizio del XXI secolo o lo sviluppo dei biocarburanti. Ma il fattore derivati ha comunque accelerato i movimenti. Nel giugno del 2008, nell’anno del primo storico

picco delle food commodities e del petrolio, l’ammontare dei contratti futures sulle materie prime (metalli preziosi esclusi) aveva raggiunto, secondo l’analisi della Federal Reserve Bank of St. Louis, i 2,13 trilioni di dollari.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 13 |


dossier

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Usa ed Europa La lunga strada verso la regolamentazione di Matteo Cavallito

Limitare l’uso speculativo dei derivati sulle commodities . L’Europa ci prova con la nuova Mifid, gli Usa con il Dodd-Frank. Segnali incoraggianti, ma manca l’approvazione definitiva l problema si chiama “limite di posizione”, vale a dire l’esposizione massima che un soggetto, tipicamente una società finanziaria, può detenere sul fronte dei contratti derivati che hanno come sottostante le materie prime. Tradotto: il livello di speculazione legalmente consentita. I contratti futures e forward nascono in origine come strumenti assicurativi contro l’oscillazione dei prezzi. Gli operatori li acquistano per cautelarsi e coprirsi dal rischio. Una strategia che nel mercato è nota come hedging. Ma il problema è che allo stato attuale della regolamentazione, l’accesso a questi contratti è sostanzialmente libero. Come a dire che chiunque, anche una banca d’affari che opera solo marginalmente nel mercato “fisico” (o non vi opera per nulla), ha la possibilità di acquistare derivati a scopo puramente speculativo. Il fatto è che una forte concentrazione favorisce inevitabilmente la capacità di pochi soggetti di influenzare i prezzi di mercato. Secondo quanto dichiarato al Congresso dall’hedge fund manager Michael Masters (fondatore della società Masters Capital Management LLC, di Atlanta, Georgia, un quarto di miliardo di dollari in asset gestiti), nell’aprile del 2008, in corrispondenza con i picchi dei prezzi, i fondi di investimento americani attivi nel settore avevano assunto il controllo del 35% di tutti i contratti futures sul mais presenti nel mercato. Per la soia e il frumento, ricorda un rapporto della Ong britannica World Development

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Movement (WDM) citando la testimonianza di Masters, le percentuali salivano rispettivamente al 42 e al 64%. Il tutto, ovviamente, senza considerare i contratti over-the-counter, ovvero quelli scambiati nelle piazze finanziarie non regolamentate. Tra il 2010 e il 2012, ha sostenuto il WDM, le speculazioni di questo tipo avrebbero garantito ad appena cinque banche – Goldman Sachs, Barclays, Deutsche Bank, JP Morgan e Morgan Stanley – guadagni totali per 2,2 miliardi di sterline (al cambio attuale 3,6 miliardi di dollari). Un motivo sufficiente per intervenire e cambiare le regole del gioco.

La nuova Mifid europea L’Europa ci ha provato di recente. A gennaio, dopo tre anni e mezzo di discussione e trattativa, l’Ue ha infatti trovato l’accordo sulla riforma della direttiva Mifid (Markets in Financial Instruments Directive) realizzando, almeno sulla carta, quella che il Financial Times ha definito «la più grande riforma dei mercati finanziari dal 2008». Nel piano rientra un

I futures nascevano come assicurazioni contro l’oscillazione dei prezzi. Il problema è che chiunque può comprarli per speculare po’ di tutto, dall’high frequency trading alle dark pools, comprese le operazioni sulle commodities. Nel dettaglio, i regolatori dovrebbero avere la facoltà di fissare limiti alle posizioni detenute dagli operatori impendendo a questi ultimi un ricorso illimitato ai titoli derivati. L’intesa è ora al vaglio dell’Esma (European Securities and Markets Authority) e deve essere ancora convertita in legge. Ma la sensazione è che il processo avviato sia ormai irreversibile. «Possiamo essere sicuri che non ci saranno colpi di mano dell’ultimo minuto» spiega a Valori Sven Giegold, eurodeputato tedesco e portavoce dei Verdi al Parlamento europeo per i temi finanziari, anche se, ammette, «occorrerà stare attenti a come la normativa sarà applicata a livello di regolamenti dall’Esma e a come


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Il problema è aperto anche perché il nodo principale resta, almeno parzialmente, irrisolto. Gli Stati Uniti hanno introdotto il principio di limitazione delle posizioni nel Dodd-Frank Act, la maxi legge di riforma regolamentare dei mercati finanziari. Il provvedimento è stato firmato dalla Casa Bianca nel 2010 ma da allora non è ancora entrato pienamente in vigore visto che non tutte le sue norme attuative sono state approvate. Nel 2012, per altro, una sentenza di una corte federale ha bloccato la norma sui limiti accogliendo la richiesta avanzata da due associazioni di categoria: l’International Swaps and Derivatives Association e la Securities Industry and Financial Markets Association. Da allora la Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che dovrebbe scrivere le norme definitive in proposito, non ha ancora concluso i suoi lavori. In questo contesto, ovviamente, prolifera il lobbismo. A febbraio, in particolare, il Commodity Markets Council (CMC), un’associazione di Washington, ha inviato una lettera proprio alla CFTC invitandola a «riconsiderare e rivedere» la propria proposta ed «evitare l’intera ridefinizione dell’attuale regime». Tra i soggetti rappresentati dalla CMC ci sono anche i signori delle materie prime agricole Archer Daniels Midland, Cargill e Louis Dreyfus Commodities. 

Il clamoroso boom delle materie prime alimentari ha prodotto negli 46 +416% +396% anni enormi ricadute sul mercato 41 36 e con esse una lista di grandi 31 beneficiari. Tra questi ci sono 26 ovviamente loro, i grandi operatori del 21 16 settore con i loro azionisti e manager 11 (due categorie che, inevitabilmente, 6 spesso si sovrappongono), per i quali il rialzo dei prezzi ha rappresentato una clamorosa occasione di guadagno. Per capirlo basta BUNGE LIMITED (BG) - NYSE guardare all’esempio offerto dalle 136 +554% società quotate a cominciare dalla 116 Archer Daniels, le cui azioni sono 96 +330% scambiate dal 1983 alla Borsa di New 76 York. Negli ultimi 15 anni il valore 56 del suo titolo è schizzato alle stelle, 36 16 evidenziando un primo picco nel dicembre del 2007 quando, nel pieno del boom delle commodities, il valore medio delle sue azioni ha superato S&P 500 (^GSPC) - SNP i 40 dollari registrando un incredibile 2.100 +396% rispetto alla quotazione del +32% 1.900 gennaio 2000. A partire dal 2008 1.700 +11% il titolo è andato incontro a una forte 1.500 discesa, in linea con il maxi calo degli 1.300 indici sperimentato con lo scoppio 1.100 900 della crisi finanziaria. Una sorta 700 di “effetto Lehman” che ha sconvolto in pratica tutti i mercati, commodities comprese. La ripresa delle piazze finanziarie e la risalita dei prezzi delle DOW JONES INDUSTRIAL AVERAGE (^DJI) - DJI materie prime hanno contribuito 19.000 al successivo rilancio. +47% 17.000 Molto simile l’andamento del titolo 15.000 +27% Bunge, scambiato a Wall Street 13.000 dall’agosto del 2001. Nel gennaio 11.000 2008, il valore medio dell’azione 9.000 ha toccato i 117 dollari con 7.000 un incremento del 554% rispetto alla prima media mensile registrata all’esordio. Un prezzo mai più toccato FONTE: YAHOO FINANCE, FINANCE.YAHOO.COM. MARZO 2014, MEDIE MENSILI negli anni seguenti. Sorprendente il confronto con l’andamento medio del mercato. In corrispondenza del primo picco delle commodities, lo S&P 500 e il Dow Jones, due dei principali indici del mondo, avevano registrato un incremento dell’11% e del 27% circa rispetto ai valori di inizio 2000. Rispetto alle prime sedute del millennio, i due indici hanno guadagnato oggi il 32% e il 47%. Nello stesso periodo la performance di Bunge Limited ha fatto segnare un grandioso +330%. Archer Daniels ha fatto ancora meglio facendo registrare un +416% tra il valore del gennaio 2000 e quello di inizio marzo 2014. M.Cav. ARCHER DANIELS MIDLAND COMPANY (ADM) - NYSE

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Usa e Dodd-Frank

WALL STREET, IL TRIONFO DELLE FOOD COMMODITIES

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questi regolamenti saranno poi rispettati nelle Borse». Ma quel che è certo, aggiunge, è che «per quanto riguarda l’Europa questa normativa ha in sé tutte le caratteristiche per limitare la speculazione sulle materie prime agricole» anche se, ovviamente, sarà necessario «approvare norme simili anche a livello mondiale».

Ha collaborato Mauro Meggiolaro | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 15 |


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Contro il capitalismo globalizzato

Serve un vero progetto europeo gni giorno emergono nuovi dati che confermano l’aumento inarrestabile della disuguaglianza, ossia l’aumento della concentrazione della ricchezza e della disparità di reddito nelle odierne economie. L’Institute for Policy Studies, per citare solo l’ultimo esempio, sottolinea che il totale dei bonus dei 165mila impiegati di Wall Street valeva nel 2013 247 miliardi di dollari.

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Con tale cifra si potrebbe raddoppiare la paga a tutti coloro che oggi negli Stati Uniti lavorano con il salario minimo (7.25 dollari orari). Al contrario sono rari i tentativi di comprendere tali fenomeni, soprattutto se si è alla ricerca di spiegazioni esaurienti e complessive. In questo senso il testo di Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century, rappresenta una notevole eccezione. Secondo l’economista francese il problema è che, a differenza di quanto avveniva nel secondo dopoguerra e fino ai primi anni ’80, il tasso di rendimento del capitale, ossia della ricchezza, supera decisamente il tasso di crescita del reddito (4% contro il 2%). Stando così le cose è inevitabile che la quota dei redditi da capitale sul reddito complessivo di un Paese non può che aumentare esponenzialmente. Detto in altro modo e usando le parole di Piketty in una recente intervista: «In queste condizioni è quasi inevitabile che i patrimoni ereditati prevalgano ampiamente su quelli costituiti nel corso di una vita di lavoro e che la concentrazione dei capitali raggiunga livelli estremamente elevati e potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che sono alla base delle società democratiche moderne». E, quel che è peggio, è che | 16 | valori | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 |

Disuguaglianza globale: i 247 md $ di bonus degli impiegati di Wall Street avrebbero permesso di raddoppiare la paga di chi percepisce il salario minimo negli Usa non si vedono forze spontanee, ossia interne al capitalismo stesso, in grado di contrastare tali tendenze. Non ci resta che rifondare il capitalismo dalle fondamenta. Secondo Piketty il progresso e la diffusione della conoscenza e dell’istruzione continuano a essere importanti forze di redistribuzione e di convergenza della ricchezza attraverso il lavoro. Ma la vera soluzione è rappresentata da una tassazione progressiva del capitale.

di Alberto Berrini

Più in generale serve un’iniziativa politica e sociale in grado di contrastare le spontanee tendenze economiche del mercato. In altre parole un progetto politico adatto (ossia che abbia le dimensioni) a un capitalismo globalizzato. E proprio l’Europa, che contribuisce per un quarto al Pil mondiale, rappresenta quell’area economica e finanziaria della grandezza sufficiente ad affrontare, o quantomeno contrastare, il capitalismo mondiale attuale. Altro che uscire dall’euro… 

Nella foto: Thomas Piketty, economista francese e autore di Capital in the Twenty-First Century.


fotoracconto 04/06

ARCHIVIO FAIRTRADE ITALIA

Il lavoro di selezione e raccolta delle preziose foglie di tè vietnamita nella provincia di Thai Nguyen. Una donna della cooperativa Thien Hoang Organic Tea Club al lavoro nel campo con il copricapo tradizionale. | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 17 |



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finanzaetica Eco-mutui. Tra ambizione francese e ritardo italiano > 22 Mt.Gox & Bitcoin. The day after > 24 La voglia di banca (etica) contagia la Spagna > 26

Immobiliare alla resa dei conti Tra crediti e svalutazioni di Matteo Cavallito

ultima cifra certificata risale al 2012, ma la sensazione, confermava un analista di mercato nelle scorse settimane, è che da allora non sia cambiato quasi nulla. Le banche italiane, riferiva alla fine di quell’anno un rapporto di Morgan Stanley, risulterebbero esposte sul settore immobiliare commerciale (non residenziale) per 99 miliardi di euro. Gli istituti della Penisola, in altri termini, conserverebbero nei loro bilanci un ammontare di crediti e garanzie nei confronti del settore che sfiora la soglia delle tre cifre. E il vero dramma è che si tratta di un problema largamente irrisolto. Il sistema funziona più o meno così: l’operatore chiede un prestito per costruire o acquistare un immobile e utilizza quest’ultimo come garanzia. La banca colloca il prestito nei libri contabili alla voce degli attivi – è

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Dopo un’attesa forzata le banche italiane ed europee devono disfarsi della problematica esposizione sul real estate (stimata in quasi 100 miliardi di euro). Andando incontro a una sicura perdita

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pur sempre un credito – ma lo fa attribuendo a quest’ultimo un valore ipotetico. Ovvero il valore del prestito con gli interessi, ponderato per il rischio, oppure, di fronte alla prospettiva del pignoramento, il prezzo di mercato dell’immobile. Se i prezzi salgono o restano stabili il problema non si pone, ma se questi calano sensibilmente i bilanci ne risentono. A meno che, s’intende, le banche non scelgano di tenere tutto fermo in attesa di tempi migliori. Esattamente quello che è accaduto in Italia e nel resto d’Europa negli ultimi sei anni.

Lo spettro dei bilanci Il vero problema è che lo schema sta per saltare e, a conti fatti, c’è davvero da avere paura. L’Europa la chiama asset quality review, ovvero la revisione dei bilanci. Gli asset dubbi vanno iscritti a bilancio a valori più attendibili e il modo più semplice per farlo, ovviamente, consiste nel liquidarli. Ma la loro cessione, ed è questo il punto, comporta una svalutazione. Perché in quella massa di prestiti e garanzie ci sono essenzialmente crediti irrecuperabili e immobili svalutati per un controvalore tuttora sconosciuto, ma di certo assai inferiore a quei famosi 99 miliardi originari.

Problema: le banche devono aggiornare il valore dei finanziamenti immobiliari. Cedendoli. Ma l’incasso sarà di certo inferiore alla cifra scritta a bilancio A formare questa massa di credito ci hanno pensato in Italia soprattutto i grandi debitori. Avventurieri storici come Luigi Zunino, Danilo Coppola o Salvatore Ligresti e i loro emuli di alto livello il

LA BOLLA ITALIANA Tra il 1998 e il 2007, dicono i dati dell’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili), gli investimenti in costruzioni in Europa sono aumentati mediamente del 25,3% con picchi clamorosi in tre aree particolarmente critiche: Grecia (+69,9%), Spagna (+73,4%) e Irlanda (+82,2%). In Italia la crescita è stata più contenuta (+29,4%), ma ha comunque evidenziato la peculiarità dell’immobiliare rispetto agli altri settori. Tra il 1999 e il 2007, per capirci, l’incremento del valore aggiunto nell’industria italiana è stato pari al 2,8% contro il +9,7% dei servizi e il -6,5 dell’agricoltura. Quello registrato nel settore delle costruzioni, rilevano le cifre raccolte dal Cresme (Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio), è stato pari al 24%, un risultato ancora più lusinghiero di quello ottenuto dalle intermediazioni finanziarie (+20,2%). Tra il 1995 e il 2010 gli immobili residenziali italiani hanno offerto un rendimento compreso tra l’8,1% annuo nelle città di medie dimensioni e il 9,3% delle aree metropolitane, garantendo margini di profitto ben superiori a quelli offerti dal mercato azionario (+2,8%) e dai titoli di Stato (Bot e Btp, 4,4%). L’inversione di tendenza è arrivata già nello scorso decennio: tra il 2006 e 2010 le compravendite sono calate di oltre un quarto, i prezzi sono scesi del 17,2%. Il trend si conferma ancora oggi. Nel corso del 2013, dicono gli ultimi dati dell’analisi condotta dall’Osservatorio sul Mercato Immobiliare residenziale italiano di Immobiliare.it, il prezzo medio degli appartamenti è calato del 6,6%.

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cui tempo, confermava recentemente un analista, agli occhi del mercato “è ormai concluso”. La scorsa estate un rapporto di Unimpresa stimava che appena 39 debitori fossero responsabili di 15 miliardi di sofferenze bancarie. Alle cifre attuali significherebbe il 10% del totale. Per anni le grandi operazioni hanno gonfiato la bolla spingendo al rialzo un comparto capace di sovraperformare tutti gli altri settori chiave dell’economia (vedi BOX ). Oggi, con gli immobiliaristi italiani ormai ai margini, il gioco è in mano agli stranieri. Nel 2013, sostiene un rapporto della società statunitense CBRE, una delle principali al mondo per servizi sul real estate, il 72% del capitale investito nell’immobiliare commerciale italiano è venuto dall’estero. Nello stesso periodo, rileva invece uno studio di Cushman & Wakefield, le cessioni di crediti e garanzie sono state pari ad appena 220 milioni di euro. Molto poco se paragonato al resto d’Europa.

Outlet Europa Le banche europee, precisa ancora il rapporto, nel 2013 hanno ceduto 30,3 miliardi di euro di esposizione, vale a dire il 35% in più rispetto all’anno precedente. Nei primi due mesi del 2014, si legge ancora nello studio, le operazioni già avviate valgono da sole oltre 45 miliardi. Di che si tratta? Essenzialmente di loans e Reo’s, ovvero di crediti (problematici) e di immobili invenduti, ovvero di assets in ga-


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I FONDI USA SI PRENDONO CREDITI PER 1 TRILIONE DI DOLLARI

ranzia che una volta pignorati sono stati messi all’asta senza successo. A vendere sono soprattutto gli operatori di quattro Paesi: Regno Unito, Irlanda, Spagna e Germania, che insieme hanno ospitato quasi il 90% degli scambi nel 2013. A comprare sono i grandi fondi hedge e le società di private equity Usa come Lone Star, Cerberus, Apollo o Wells Fargo, già attive, per altro sul ricco mercato locale (vedi BOX ). Alcune operazioni hanno coinvolto cifre a nove zeri (vedi TABELLA ). Secondo gli analisti di Cushman & Wakefield, nel corso del 2014 gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente anche su Olanda e Italia. I margini di manovra, in ogni caso, restano enormi visto che l’esposizione del settore si mantiene piuttosto elevata. All’inizio dell’anno, CBRE valutava l’insieme dei debiti pendenti del settore immobiliare nei confronti delle banche in 926 miliardi di euro. Appena l’11% in meno rispetto al 2008 quando, allo scoppio della crisi, si era toccato il picco massimo di 1.027 miliardi. A preoccupare, però, è anche un altro aspetto: soltanto 143 degli oltre 900 miliardi odierni di esposizione sono rappresentati da prestiti erogati dalla fine del 2008 a oggi. Del totale originario accumulato prima della crisi, in altre parole, restano ancora in piedi quasi 800 miliardi di vecchi prestiti. Quale sia il loro valore, al momento, è impossibile stabilirlo. Ma la sensazione, a conti fatti, è che la stagione dei saldi sia solo all’inizio. 

Rilevare una montagna di debito a prezzo di saldo e portare a casa un profitto piazzando la scommessa più ovvia e rischiosa al tempo stesso: quella sul rialzo dei prezzi. È l’obiettivo di un numero crescente di fondi di investimento americani, operatori di mercato come Axonic Capital, LibreMax e Saba Capital Management, sempre più attivi ultimamente in un gioco potenzialmente pericoloso, ma remunerativo. Negli Stati Uniti, ha segnalato nelle scorse settimane Bloomberg, l’ammontare totale del debito in scadenza da qui a tre anni nel settore del commercial real estate (immobiliare non residenziale) supererebbe ormai i 1.000 miliardi di dollari. Dal punto di vista delle banche sono crediti da liquidare. Nella prospettiva dei fondi, invece, si tratta di un’occasione clamorosa. Perché, per quanto rischiosi, tanto i crediti quanto i relativi prodotti della cartolarizzazione (le celebri mortgage-backed securities all’origine della crisi) potrebbero contare ancora in futuro sulla rivalutazione delle loro garanzie che, ovviamente, sono costituite dagli immobili stessi. Dopo il crollo dei prezzi degli immobili del biennio orribile 2008-09, il settore dell’immobiliare commerciale ha visto i suoi valori di mercato recuperare circa il 75% del valore originario. La scommessa, ovviamente, è la conferma del trend rialzista con annesso apprezzamento di crediti, asset e garanzie. Un gioco molto remunerativo, ma anche rischioso. Di fronte a un debito a 12 zeri.

DISMISSIONI 2013. LA TOP 10 DELLE OPERAZIONI IN EUROPA Data

Venditore

Asset

Tipologia

Paese

Aquirente

Hypothekenbank Frankfurt Deutsche Postbank Hypothekenbank Frankfurt

Performing loan book

CRE Loans UK

Wells Fargo

3.375

Project Tower

CRE Loans UK

GE Capital

1.750

Non-performing loan book

CRE Loans UK

Lone Star

1.625 1.050

1

Luglio

2

Settembre

3

Luglio

4

Luglio

Morgan Stanley

Project Vermeer

CRE Loans Olanda

Fortress

5

Gennaio

LBG

Project Chamonix

CRE Loans Germania

Marathon AM

6

Aprile

NAMA

Project Aspen

CRE Loans Irlanda

7

Marzo

RBS

8

Novembre

LBG

9

Maggio

LBG

10

Novembre

LBG

Novembre

UBS

Project Hampton CRE Loans Scandinavia Bravo Resi loan portfolio CRE Loans Spagna

Dicembre

Aviva

Project Moon

Pegasus REOs Portfolio Project Hampton Loans Charlie Project Thames

Germania FranciaGermania

CRE Loans UK

REOs

UK

Valore

Starwood Capital Axa Real Estate

850 810 784

Cerberus

750

Cerberus

659

Cerberus

500

Centerbridge

500

Apollo

500

FONTE: CUSHMAN & WAKEFIELD, EUROPEAN REAL ESTATE LOAN SALES MARKET, FEBBRAIO 2014, NOSTRE ELABORAZIONI. DATI IN MILIONI DI EURO

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| finanzaetica | efficienza energetica |

Eco-mutui tra ambizione francese e ritardo italiano di Matteo Cavallito

Favorire l’accesso al credito per la ristrutturazione energetica degli edifici. La Francia ci prova da anni, con risultati inferiori alle attese. In Italia, a parte qualche eccezione, si inizia appena adesso l dato lo segnalano gli attivisti della campagna Renovate Europe. Quasi il 40% dell’energia utilizzata nel Vecchio Continente è attribuibile al consumo degli edifici. Ovvero di quegli energivori silenziosi e spesso sottovalutati, responsabili, ad oggi, di un terzo delle emissioni totali di CO2. I programmi di ristrutturazione energetica sono tuttora in atto e qualcuno ha già pensato di associarne lo sviluppo a un’altra, pressante, esigenza: il rilancio del credito. È il caso della Francia, da anni, in questo senso, uno dei Paesi più ambiziosi.

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Il piano francese La paternità “politica” spetta probabilmente all’ex titolare del dicastero dell’Ambiente Alain Jupé, il ministro che nel | 22 | valori | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 |

lontano 2007 convocò il fondamentale Grenelle de l’Environnement, il tavolo di discussione dedicato ad ambiente, energia e sviluppo sostenibile, da cui sarebbe scaturito il Plan Bâtiment Durable, il progetto pensato per il rilancio dell’efficienza energetica degli immobili. Il fatto, nota oggi l’ultimo report sull’attività del Plan, è che in Francia gli edifici pesano sulla domanda di energia più di qualsiasi altra cosa. Il settore immobiliare residenziale e commerciale consuma il 43% dell’energia utilizzata nel Paese, in assoluto la quota maggioritaria (contro il 32% dei trasporti, il 23% dell’industria e appena il 2% consumato dall’agricoltura). Da qui l’esigenza di ottimizzare i consumi, investendo proprio nella riqualificazione degli immobili. Attraverso il credito, ovviamente.

Tre gli elementi chiave: l’istituzione del Fondo per il finanziamento della riqualificazione energetica delle case popolari (vedi BOX ), avviato a partire dal 2009 per la ristrutturazione di 800mila alloggi entro il 2020; l’introduzione del credito d’imposta e, soprattutto, il prestito a tasso zero, caratterizzato da mutui fino a 30mila euro con una durata massima di 15 anni. L’ambizione non manca, ma gli esiti sono contrastanti. «Il processo di rinnovamento energetico è tuttora rallentato dalla complessità del meccanismo di funzionamento dell’eco-prestito a tasso zero», ha evidenziato l’ultimo rapporto del Plan. Nel 2013, dicono le cifre, il numero dei prestiti concessi è stato pari a 30mila contro gli oltre 80mila del precedente. Nel 2012, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati completi, il consumo energetico del settore residenziale è ancora aumentato sebbene solo dello 0,3%. Il rallentamento rispetto al 2011, quando l’aumento era stato pari all’1,2%, è evidente ma il trend di crescita è


BÖHRINGER FRIEDRICH / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

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stato confermato. Nel settore terziario si assiste invece a un calo (-0,1% contro il +1,9% del 2011). Il costo totale dell’energia consumata in Francia è salito in un anno da 61,4 a 69 miliardi di euro. Le emissioni gassose, al tempo stesso, sono diminuite del 7% nel ventennio 1990-2010.

Il quadro italiano La fotografia dell’Italia l’ha offerta invece a marzo Legambiente nel suo rapporto “Tutti in Classe A”, che ha preso in esame 500 edifici delineando uno scenario profondamente negativo. «In troppe regioni regole inadeguate e nessun controllo sulle certificazioni», segnala il rapporto. Promosse solo Trento, Bolzano, Piemonte e Lombardia. «In 13 regioni – ha evidenziato il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini – non esiste alcun tipo di controllo sui certificati di prestazione energetica degli edifici». L’Europa ha iniziato a legiferare in materia nel 2002 con la prima direttiva sull’obbligo di certificazione. Il 30 aprile di quest’anno, inoltre, scadono i termini per la presentazione da parte del Governo della “strategia di lungo termine” per la ristrutturazione degli edifici commerciali e residenziali, un appuntamento a cui l’Italia rischia di arrivare del tutto impreparata. Sul fronte creditizio il primo piano coordinato a livello nazionale è partito ufficialmente soltanto a marzo con l’avvio delle operazioni del cosiddetto Plafond Casa. Il programma, lanciato dall’Abi e dalla Cassa Depositi e Prestiti, prevede lo sblocco di 2 miliardi di euro per il «finanziamento, tramite mutui garantiti da ipoteca, dell’acquisto di immobili residenziali» di classe energetica A, B o C e degli «interventi di ristrutturazione e accrescimento dell’efficienza energetica». La valutazione delle richieste e la gestione dei prestiti sono affidate in ogni caso alle banche aderenti all’iniziativa. A metà marzo se ne contavano 17: Unicredit, Banca Sella, Credito Valtellinese, Cassa di Risparmio di Ravenna e altre tredici banche di credito cooperativo. Al piano non ha aderito Banca Etica che, però, opera su questo fronte già da diversi anni nell’ambito del cosiddetto

Progetto Energia (bancaetica.it/progetto-energia), un programma che comprende anche gli ecomutui per il settore residenziale. «Il progetto – spiega Marco Bianchi, dell’area Innovazione di Banca Etica – è partito nel 2006 e prevede la concessione di un mutuo a tasso agevolato per l’acquisto di un immobile caratterizzato da consumi per riscaldamento inferiori ai 50 kWh/mq anno e che corrispondono solitamente alla classe “B”. Per quanto riguarda la ristrutturazione vengono finanziati quegli interventi che sono soggetti ad agevolazioni fiscali per il risparmio energetico con l’appli-

EFFICIENZA ENERGETICA, TOCCA A “PADOVA FIT!” Riqualificare almeno 200 condomini residenziali della città, migliorandone l’efficienza energetica. È l’obiettivo di “Padova FIT!”, il progetto lanciato dal Comune veneto nell’ambito del suo Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (Paes). L’iniziativa, co-finanziata dall’Unione europea, mobilita un consorzio formato dal comune stesso (nel ruolo di coordinatore) e da quattro soggetti privati: la Fondazione ITS RED (facilitatore per ottenere l’adesione all’iniziativa da parte dei proprietari di immobili), InnESCO S.p.a. (ingegneria finanziaria e tecnica preliminare), Banca Popolare Etica (ingegneria finanziaria e schema finanziario) e Sogesca (progettazione tecnica preliminare e gestione di un database per il monitoraggio). L’operazione, che prevede investimenti totali da 15,8 milioni di euro, è attualmente in corso. Entro il 2015 sono previste sia l’assegnazione sia l’esecuzione dei lavori. Per ulteriori informazioni: padovafit@comune.padova.it cazione di interessi più bassi rispetto a quelli che caratterizzano i finanziamenti per l’acquisto. L’obiettivo è quello di dare maggiore impulso al miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici esistenti». 

FRANCIA, UN MAXI PIANO PER LE CASE POPOLARI Completare la ristrutturazione energetica di 800mila appartamenti entro il 2020. È l’obiettivo del cosiddetto éco-prêt logement social, il fondo lanciato da Parigi nel 2009 per la riqualificazione energetica delle case popolari. Nello schema iniziale, lo Stato, in collaborazione con la Caisse des Dépôts et Consignations (CDC), mette a disposizione un prestito di importo variabile, da 9 a 16mila euro per alloggio, a tassi particolarmente favorevoli: dall’1,9% per i mutui a 15 anni fino al 2,35% per i ventennali. Nel giugno del 2011 l’ammontare totale dei prestiti già erogati aveva raggiunto quota 1,2 miliardi di euro. Alla fine di quell’anno è scattata la Fase 2. Lo Stato ha concesso nuovi prestiti con l’obiettivo di finanziare altri 70mila lavori di ristrutturazione. La durata massima dei mutui è stata estesa a 25 anni e il tasso applicato è diventato variabile seguendo lo schema più classico: l’aggancio a un tasso di riferimento, in questo caso il classico taux du livret A (il tasso dei conti di risparmio), aumentato di uno spread fisso per i prestiti di durata superiore ai 15 anni (15 punti base, ovvero 0,15%, per i mutui da 16 a 20 anni, 0,25% per quelli a 21-25 anni). Nel corso del 2013 un’ulteriore modifica del piano ha ridotto i tassi con sconti compresi tra gli 0,25 e gli 0,75 punti percentuali. L’obiettivo finale è il raggiungimento di un ritmo di crescita pari a 120mila ristrutturazioni all’anno entro il 2017.

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| finanzaetica | moneta virtuale |

Mt.Gox & Bitcoin The day after di Matteo Cavallito

Il crack della piattaforma nipponica segna il passo. Al mercato del bitcoin servono regole condivise. Ad oggi assenti lla fine di febbraio Mt.Gox, la più celebre piattaforma di scambio dei bitcoin, ha chiuso i battenti, vittima di un furto destinato a fare storia. Colpita da anonimi hackers, la piazza virtuale ha visto svanire nel nulla gli 850mila bitcoin conservati sul server. Per i cybercriminali si è trattato presumibilmente del colpo della vita. Per la piattaforma di base in Giappone, che ne possedeva 100mila, e per i suoi utenti, che ne detenevano la parte restante, è stato un crack micidiale. Che, a fronte del valore di mercato della criptovaluta, protagonista nell’ultimo anno di un’impennata senza precedenti (vedi grafico), è stato quantificato in quasi mezzo miliardo di dollari.

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Terremoto virtuale

L’ASCESA DEL BITCOIN, IL VALORE DAL 2012 AD OGGI

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FONTE: BLOCKCHAIN.INFO, MARZO 2013. DATI IN DOLLARI USA BLOCKCHAIN.INFO/IT/CHARTS/MARKET-PRICE?TIMESPAN=2YEAR&DAYSA VERAGESTRING=7&SCALE=1&ADDRESS=

Mt.Gox, che nell’ultimo anno fiscale aveva chiuso i conti con un ricavo da 1,3 milioni

di dollari, non ha potuto far fronte al debito da 2,7 miliardi di yen (circa 26 milioni di dollari) e si è vista costretta a presentare istanza di fallimento a una corte distrettuale di Tokyo. Un paio di settimane più tardi, la società ha ribadito la richiesta a un tribunale di Dallas con l’obiettivo di cautelarsi il più possibile di fronte alla class action presentata da un gruppo di utenti presso la corte federale di Chicago. Una lunga battaglia legale, a questo punto, è più che probabile. La comunità del bitcoin, da parte sua, ha difeso la criptovaluta e il suo progetto puntando il dito contro Mt.Gox. La Bitcoin Foundation, in particolare, ha accolto con favore le dimissioni dal suo board di Mark Karpeles, il Ceo della piattaforma nipponica. Il governo giapponese, nel frattempo, ha optato per il giro di vite, diffidando le banche dall’offrire bitcoin

ai propri clienti. In un documento ufficiale, Tokyo ha equiparato la moneta digitale a un prodotto finanziario generico dichiarando di essere pronto a tassarlo ma ammettendo, al tempo stesso, di non avere un piano per regolamentarne gli scambi.

Regole condivise Posta di fronte alla questione, la neopresidente della Fed statunitense Janet Yellen ha ammesso che la banca centrale Usa non ha alcuna autorità per monitorare una “moneta” che non è una vera e propria moneta. Una dichiarazione che ha spinto il New York Times a suggerire la soluzione dell’arcano: l’introduzione di una legislazione in materia da parte del Congresso. «Il bitcoin è un bene giuridico non vietabile e quindi meritevole di tutela, perché soddisfa interessi economici ben individuati», spiega Giulia Arangüena, avvocato del Foro di Roma ed esperta di diritto delle nuove tecnologie. «Negli Usa è giudicato strumento di pagamento sog-


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Bitcoin, esci da questo blog! di Matteo Cavallito

Giulia Arangüena, esperta legale: «Sbagliato criticare la criptovaluta, ma servono regole per il mercato»

Un tema chiave, quest’ultimo. Basti pensare al collasso di Mt.Gox Certo. Per questo credo che la stessa comunità bitcoin dovrebbe investire di più sul fronte reputazionale, creare una vera associazione di categoria puntando più sulla rappresentatività che sull’acquisto di una partecipazione, e formulare codici etici più stringenti.

«Stati Uniti e Germania si contendono oggi il primato della regolamentazione, Bankitalia sceglie di non esprimersi, mentre altri Paesi sono ancora molto indietro». Giulia Arangüena, avvocato, esperta A spiegarlo a Valori è Giulia Arangüena, di diritto delle nuove avvocato, esperta di diritto delle nuove tecnologie. tecnologie e co-autrice di Bitcoin. L’altra faccia della moneta, il più recente testo italiano sull’argomento.

Dopo il default di Mt.Gox il bitcoin è stato molto criticato Sì, ma questo è un errore. Non è colpa del bitcoin se Mt.Gox ha chiuso, la responsabilità è legata alla mancanza di controllo e regolamentazione. Imponiamo delle regole, ma non perdiamo di vista le opportunità della criptovaluta, come il suo essere una social machine, ovvero un vero e proprio ecosistema che crea valore sociale, o la sua capacità di ridurre i costi delle transazioni elettroniche che genera potenzialità enormi.

Si parla molto di regolamentazione dei bitcoin, ma la sensazione è che ci sia ancora molto da fare… Manca l’approccio sistemico e uniforme. Ad oggi si stanno muovendo le singole authority ma nessun legislatore statale si è preso la responsabilità di dire chiaramente cosa sia il bitcoin.

Per l’e-commerce e la gestione delle rimesse ad esempio? Esattamente. Prendiamo il caso dei money transfer, che come noto caricano commissioni ingenti, oppure un sistema di pagamento come Paypal, che impone un costo del 3% sulle operazioni. Bitpay, il suo concorrente in bitcoin, si limita all’1% perché non ha barriere all’ingresso né altri vincoli di regolamentazione. Ma su questo occorrono dei cambiamenti, è inevitabile.

Già, ma che cos’è? È tante cose insieme. Tecnicamente si tratta di una catena di firme digitali, e giuridicamente potrebbe essere definito come un documento informatico che autentica una titolarità a vendere, comprare, trasferire, o ottenere beni e servizi a un certo valore. Però è anche una criptovaluta che sta diventando moneta e inoltre può essere considerata prodotto finanziario. Dipende dall’uso che se ne fa e dall’attività economica che si compie. Come andrebbe regolamentato quindi? Personalmente condivido l’approccio pragmatico delle authority; credo che si debba far rientrare il bitcoin nei diversi schemi di regolamentazione a seconda della forma che assume di volta in volta. Detto questo, è chiaro che ci vorrebbe un approccio uniforme, ma questo potrà avvenire solo quando il suo sistema di generazione decentralizzato, ovvero la peculiare assenza di una sua banca centrale, sarà pienamente metabolizzato e quando, ovviamente, si risolveranno i problemi legati alla sicurezza.

getto alle autorizzazioni del Tesoro, mentre in Germania è considerato strumento finanziario e come tale rientra nel testo unico bancario». Proprio in Germania un accordo tra l’istituto Fidor Bank e Bitcoin Deutschland permette alla banca tedesca on line, precisa Giulia Arangüena, di «garantire le operazioni di trading in bit-

LIBRI

Giulia Arangüena, Simone Caroli, Luca Nicoli, Massimiliano Rizzati, Francesco Chiari Bitcoin. L’altra faccia della moneta e-book, Goware editore www.goware-apps.com

coin che avvengono attraverso la piattaforma bitcoin.de». Un passo in avanti nella complessa gestione di un sistema che sconta la peculiare assenza di una banca centrale attraverso un sistema decentralizzato di creazione e messa in circolazione (vedi Valori n. 110, giugno 2013). Ma i progressi in termini regolamentari

Che tipo di cambiamenti, in particolare? Io credo che il mondo bitcoin debba fare lo sforzo, per così dire, di uscire dall’universo dei blog, ovvero di superare quella tendenza ai toni teologici della rivoluzione digitale. Molti utenti e operatori guardano con scetticismo alla regolamentazione, sembrano voler dire “siamo nati liberi, non vogliamo regole”. Ma proprio l’assenza di regole crea volatilità favorendo gli speculatori che hanno guardato al bitcoin come a un nuovo giocattolo nella finanza casinò, tradendone quindi le funzionalità e le enormi potenzialità e piegando i meccanismi finanziari alla legge del più forte. 

non sono ancora sufficienti. Perché la vera svolta, è ormai chiaro, potrà avvenire solo con un intervento di quelle diverse legislazioni nazionali che per ora, tuttavia, sembrano esprimersi il meno possibile lasciando gran parte del compito alle varie autorità di controllo. Con risultati inevitabilmente limitati.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 25 |


| finanzaetica | nuova filiale a bilbao |

La voglia di banca (etica) contagia la Spagna di Elisabetta Tramonto

Aprirà i battenti a settembre la nuova filiale di Banca Etica in Spagna, a Bilbao. Un progetto di integrazione con la cooperativa iberica Fiare che dura da oltre un anno. vere voglia di creare una banca. Oggi, dopo oltre cinque anni dallo scoppio della crisi, disincantati dalle “malefatte” compiute da molti istituti di credito, consapevoli che nel mondo della finanza è rimasto praticamente tutto immutato, è possibile aver voglia di costruire una banca? Pare di sì, anzi, forse proprio per tutti questi motivi. Però una banca che creda nella trasparenza, che finanzi l’economia reale (soprattutto il terzo settore, ma non solo), che coinvolga i soci nelle proprie decisioni. Con questi ideali è nata Banca Etica, quindici anni fa. Con gli stessi obiettivi (e lo stesso entusiasmo) oggi i soci della cooperativa spagnola Fiare stanno creando la loro “banca etica”. In realtà non si tratta di un istituto autonomo (troppo difficile oggi aprirne uno), bensì di un’integrazione con l’italiana Banca Etica, che a settembre aprirà una filiale in Spagna, a Bilbao. Contemporaneamente i soci di Fiare potranno diventare (possono già farlo) soci dell’istituto italiano. Per loro non è solo l’apertura di una filiale, ha un valore maggiore, significa dare risposta al bisogno di finanza etica.

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Un lungo avvicinamento

Una banca del territorio

«In Spagna, e non solo, si è persa fiducia verso il settore finanziario. C’è bisogno di una realtà diversa che pensi davvero al bene dei suoi clienti», spiega Juan Garibi, futuro direttore della filiale di Banca Etica a Bilbao. «È stato un percorso lungo 10 anni quello che ci ha portato all’integrazione con l’istituto italiano, con cui condividiamo valori e obiettivi. Per i soci di Fiare l’apertura della filiale a Bilbao è l’ultimo tassello di un progetto di concretizzazione di finanza etica. Significa essere parte di una cooperativa democratica e partecipativa che pone il denaro al servizio del bene comune. Ed esserlo a livello europeo è un risultato magnifico».

La struttura di Fiare sul territorio è simile a quella di Banca Etica: i 4.856 soci (a gennaio 2014) sono organizzati in 20 raggruppamenti territoriali (Git). Già da più di un anno la cooperativa spagnola colloca alcuni prodotti di Banca Etica e molti soci della cooperativa sono diventati anche soci dell’istituto italiano. Non solo, il presidente di Fiare, Pedro Manuel Sasia Santos [nella foto in basso], l’anno scorso è stato eletto nel Cda di Banca Etica. «Abbiamo da sempre avuto una vocazione internazionale, a patire dalle origini dal mondo del commercio equo e delle Ong», spiega Mario Crosta, direttore generale di Banca Etica. «Siamo quasi pronti ad aprire la nuova filiale – continua –, abbiamo ottenuto tutte le autorizzazioni, redatto il business plan, iniziato i lavori di ristrutturazione, deciso il direttore e assunto il personale, otto persone che lavoravano per Fiare, oltre ad alcuni “sviluppatori” che copriranno le zone di Madrid e Barcellona». E allora si parte, mucha suerte!  www.proyectofiare.com


fotoracconto 05/06

ARCHIVIO FAIRTRADE ITALIA

Una fase della raccolta del riso in India. Un lavoratore di Kohinoor Food, produttore certificato del commercio equosolidale, trasporta un grosso cespo di piantine ancora da sgranare. | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 27 |


| numeridellaterra |

Bitcoin questo sconosciuto

ISLANDA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: OSTILE Il trading dei bitcoin è sottoposto alle restrizioni sul movimento dei capitali imposte in Islanda dopo il default del sistema bancario nel 2008. Secondo la legge locale è quindi legale possedere e vendere bitcoin ma non è permesso convertirli in valuta locale.

USA Status riconosciuto: VALUTA VIRTUALE Orientamento: PERMISSIVO Nell’agosto del 2013 una corte distrettuale del Texas ha definito il bitcoin «una valuta o comunque una qualche forma di denaro». Il Financial Crimes Enforcement Network (FinCen) ha parlato di «moneta virtuale» specificando però di non poterla riconoscere come valuta effettiva in quanto priva di corso legale.

di Matteo Cavallito

aluta digitale o bene virtuale. Voucher, bene commerciabile o, perché no, denaro privato. Il bitcoin è ormai diffuso in tutto il mondo, ma i governi non sembrano avere le idee chiare sulla sua definizione. In assenza di leggi vere e proprie, ci si affida agli interventi delle singole agenzie di controllo o alle prese di posizione ufficiali dei governi. Ne derivano orientamenti estremamente variabili. Gli stessi che hanno iniziato a mappare gli americani Zachary Taylor, web designer, e Marc Nickel, avvocato della Silicon Valley, i gestori di Bitlegal.net. Da questo sito, lanciato quest’anno, abbiamo tratto la maggior parte delle informazioni qui riportate, verificando le fonti citate e limitandoci a 15 casi tra i molti analizzati dal portale. Nella definizione dell’orientamento governativo abbiamo mantenuto il giudizio espresso da BitLegal (“permissivo”, “controverso”, “ostile”) aggiungendo una nostra valutazione sull’Unione Europea. Nessun Paese, ad oggi, ha espresso un divieto assoluto sulle transazioni in bitcoin. 

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REGNO UNITO Status riconosciuto: VOUCHER Orientamento: PERMISSIVO La HM Revenue and Customs (HMRC), l’agenzia delle entrate del Regno Unito, ha classificato il bitcoin come voucher. All’inizio di marzo, la stessa HMRC ha però annunciato di voler eliminare l’applicazione dell’Iva locale sul trading dei bitcoin. Di fatto, ha notato il Financial Times, una quasi legittimazione dello status di valuta. GERMANIA Status riconosciuto: DENARO PRIVATO Orientamento: PERMISSIVO Il Ministero delle Finanze di Berlino ha definito il bitcoin come “denaro privato”. L’autorità di vigilanza, la Bafin, ha imposto alle società che operano nel mercato dei bitcoin di registrarsi come operatori bancari o di servizi finanziari. La cosiddetta Geldwäschegesetzt, la legge antiriciclaggio, si applica anche per le transazioni in criptovaluta. FRANCIA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: PERMISSIVO Le operazioni in bitcoin sono legali ma la Banca centrale francese non si è mai espressa ufficialmente. L’Autorité de Contrôle Prudentiel (ACPR) ha espresso le proprie perplessità avvertendo i cittadini dei pericoli associati alle transazioni nella criptovaluta.

Permissivo Controverso Ostile Sconosciuto


| moneta globale |

UE Status riconosciuto: VARIABILE Orientamento: PERMISSIVO

RUSSIA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: CONTROVERSO

L’obiettivo della Direttiva europea del 16 settembre 2009 è quello di regolamentare l’uso delle valute elettroniche. Ulteriori studi sugli aspetti legali della questione sono contenuti nel rapporto “Virtual Currency Schemes” pubblicato dalla Bce il 29 ottobre 2012. Ad oggi, tuttavia, il bitcoin non rientra nell’insieme degli strumenti finanziari soggetti alla Markets in Financial Instruments Directive (Mifid), la principale normativa Ue sui mercati.

Secondo quanto riferito a febbraio dall’agenzia ITAR-TASS l’uso dei bitcoin in Russia è sostanzialmente proibito al pari di quello delle altre valute virtuali. Successivamente, sollecitata sull’argomento, la Banca centrale avrebbe però smentito il divieto in una lettera di risposta pubblicata dal blog Bitnovosti, nella quale si nega la messa al bando definitiva della criptovaluta lasciando intendere la necessità di ulteriori discussioni.

FINLANDIA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: PERMISSIVO

ESTONIA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: PERMISSIVO

A gennaio il capo della supervisione alla banca centrale Paeivi Heikkinen ha dichiarato a Bloomberg che il bitcoin non sarebbe né una valuta ufficiale né uno strumento di pagamento, perché priva di un emittente formale. «A questo stadio – ha dichiarato – è paragonabile più che altro a una commodity». Quella di Heikkinen non è comunque una posizione ufficiale.

Quello del bitcoin è «un sistema problematico», in cui «ad assumersi tutti i rischi è l’utente, che non ha nessuno a cui rivolgersi se ha bisogno di aiuto». Lo ha dichiarato a Bloomberg il dirigente della Banca centrale estone Mihkel Nommela. Nessuna banca nordica riconosce il bitcoin come valuta.

A dicembre la Banca centrale cinese aveva ordinato alle piattaforme di scambio di cessare le operazioni sui bitcoin. Alla fine di gennaio, tuttavia, l’istituto centrale è tornato sui suoi passi e BTC China, la principale piazza di scambio del Paese, ha annunciato la ripresa delle attività. Le autorità cinesi considerano il bitcoin un generico “bene virtuale”.

ITALIA Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: PERMISSIVO Con il Decreto legislativo n. 45 del 16 aprile 2012 l’Italia ha introdotto la Direttiva Ue del 2009 sull’uso delle valute elettroniche. Al momento, tuttavia, non vi sono pronunciamenti ufficiali né sullo status né sul trattamento fiscale né tantomeno sulla vigilanza delle operazioni in bitcoin.

GIAPPONE Status riconosciuto: BENE COMMERCIABILE Orientamento: PERMISSIVO È permesso comprare, vendere e ovviamente detenere i bitcoin. All’inizio di marzo, con una nota ufficiale, il governo giapponese ha negato al bitcoin lo status di valuta specificando però che le sue transazioni saranno tassate.

VIETNAM Status riconosciuto: NESSUNO Orientamento: OSTILE Secondo quanto riferito a febbraio dall’Authority of Foreign Information Service, il governo vietnamita «non riconosce e non permette le operazioni in bitcoin e non si ritiene responsabile nella risoluzione legale di contenziosi che potessero sorgere nelle transazioni» della valuta virtuale. A quanto si intuisce, tuttavia, la messa al bando vale solo per le istituzioni finanziarie.

CINA Status riconosciuto: BENE VIRTUALE Orientamento: CONTROVERSO

SINGAPORE Status riconosciuto: SERVIZIO TASSABILE Orientamento: PERMISSIVO L’autorità monetaria locale ha definito il bitcoin una valuta virtuale ma non ha ancora preso una posizione definitiva. L’agenzia delle entrate, la Inland Revenue Authority of Singapore, ha chiarito alcune linee guida sulla tassazione della criptovaluta. A breve, ha dichiarato al Wall Street Journal l’imprenditore del settore Zann Kwan, la città-Stato potrebbe ospitare i primi bancomat per bitcoin dell’Asia.

AUSTRALIA Status riconosciuto: VALUTA DIGITALE Orientamento: PERMISSIVO A febbraio l’Australian Taxation Office (ATO), l’agenzia delle entrate locale, ha annunciato di essere al lavoro per realizzare un piano di tassazione delle operazioni in bitcoin. L’ATO ha definito genericamente il bitcoin come “valuta digitale”.

FONTE: FINCEN, FINANCIAL CRIMES ENFORCEMENT NETWORK, 18 MARZO 2013; BAFIN, FEDERAL FINANCIAL SUPERVISORY AUTHORITY, 17 FEBBRAIO 2014; FINANCIAL TIMES, 2 MARZO 2014; EURACTIV, 10 MARZO 2014; EUROPEAN CENTRAL BANK, OTTOBRE 2012; VIETNAM AUTHORITY OF FOREIGN INFORMATION SERVICE, 14 FEBBRAIO 2012; ITAR TASS, 6 FEBBRAIO 2014; BITNOVOSTI, 4 MARZO 2014; CNBC, 31 GENNAIO 2014; THE AUSTRALIAN FINANCIAL REVIEW, 9 FEBBRAIO 2014, COINREPUBLIC;COM, 8 GENNAIO 2014; THE MONETARY AUTHORITY OF SINGAPORE, 21 FEBBRAIO 2014 CITATI IN BITLEGAL, HTTP://BITLEGAL.NET/, MARZO 2014. BLOOMBERG, 20 GENNAIO 2014 E 31 GENNAIO 2014, THE WALL STREET JOURNAL, 7 FEBBRAIO 2014. ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

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| 30 | valori | ANNO 13 N. 112 | SETTEMBRE 2013 |


| comunità sostenibili |

economiasolidale Sviluppo sostenibile: siamo parte di una rete > 34

TRANSITION TOWN TOTNES

La lunga corsa del riciclo: il settore vale più di vino e tessuti > 36

Yes, we can La transizione parte dal basso Nato a Totnes, una cittadina del sud del Regno Unito, in meno di dieci anni il Transition network ha coinvolto circa duemila comunità in tutto il mondo. Una proposta di cambiamento che parte dal basso, verso un’economia sostenibile e inclusiva. Abbiamo incontrato e intervistato il fondatore del movimento, Rob Hopkins [Le foto in queste pagine descrivono momenti di vita a Totnes].

di Elisabetta Tramonto

a risposta non può che partire dal basso, perché dall’alto non sta arrivando. E perché a livello locale si può fare ciò che su scala nazionale è difficile realizzare. Poi, una volta concretizzato nel piccolo, si possono contagiare anche le politiche statali. Lo stiamo dimostrando». Rob Hopkins descrive così la filosofia alla base delle transition town, le “città in transizione”: comunità locali che hanno deciso di concretizzare un cambiamento dal basso, o, come la chiamano i protagonisti del movimento, una “transizione” verso un modello sociale ed economico sostenibile, come risposta concreta alle crisi economica, ambientale ed energetica. Tutto è iniziato alla metà degli anni Duemila, a Totnes, una cittadina di otto-

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| economiasolidale |

mila abitanti nel Devon, nel sud-ovest del Regno Unito, che ha dato i natali a Rob Hopkins, uno dei fondatori del movimento Transition town (il quotidiano The Indipendent lo ha inserito nella classifica delle 100 personalità inglesi che più si sono distinte in campo ambientale). È stata la prima “città in transizione”. Da allora c’è stato un vero e proprio contagio: oggi il movimento conta circa duemila realtà in 44 Paesi nel mondo (la mappa su: tran sitionnetwork.org/initiatives/map), Italia compresa [vedi alla pagina seguente]. La spinta iniziale era di tipo ambientale ed energetico: realizzare un’alternativa all’uso dei combustibili fossili, che permettesse anche di ridurre le emissioni di anidride carbonica. Oggi si è andati ben oltre, proponendo un modello socio-economico alternativo, che mette insieme ingredienti che i lettori di Valori conoscono bene: mobilità sostenibile, efficienza energetica, produzione domestica di energia da fonti rinnovabili, autoprodu-

LIBRI Rob Hopkins Manuale pratico della transizione. Dalla dipendenza dal petrolio alla forza delle comunità locali Il filo verde di Arianna, 2012

David Holmgren Permacultura

zione di cibo, attivazione di circuiti economici e monetari territoriali. Il tutto creato e gestito a livello locale, con la partecipazione attiva della comunità. La “transizione” che viene proposta, insomma, parte dall’idea che siano i cittadini a mettersi in gioco, a decidere, a costruire su scala locale, attraverso il loro comportamento quotidiano, un cambiamento anche economico. Il mese scorso Rob Hopkins era a Milano: il 13 marzo al Centro Congressi della Fondazione Cariplo ha tenuto un convegno proprio sul tema della transizione. Prima che parlasse alla vasta platea ha dedicato a Valori un’intervista esclusiva. Perché un cambiamento dal basso? E com’è possibile, poi, tentare di modificare le politiche a livello nazionale? Abbiamo bisogno di una risposta all’attuale crisi economica, energetica, ambientale e sociale così urgentemente e disperatamente che non possiamo aspettare che arrivi da chi ci governa. La dimensione locale ci permette di essere rapidi, flessibili, creativi. Possiamo concederci di essere coraggiosi e sperimentare senza chiedere il permesso a nessuno. Possia-

Uno dei concetti alla base della transizione è la “resilienza”: che cosa significa? È la capacità di reagire a uno chock e di adattarvisi, ma in modo costruttivo: progettando cambiamenti. Le comunità resilienti sono una forma di sviluppo economico, il modo migliore per stimolare l’economia del territorio. Ed è una risposta alla crisi? Assolutamente sì. Non è l’unica strada, ma è un modo per cambiare rotta. Il nostro approccio alla “localizzazione” porta a creare economie locali resilienti, capaci di soddisfare i bisogni delle comunità, che non sono autosufficienti, TRANSITION TOWN TOTNES

Il filo verde di Arianna, 2013

Rob Hopkins, fondatore del movimento Transition town a Totnes (Uk), durante l’intervista a Valori il 13 marzo scorso.

mo fare cose che i governi non farebbero (e forse non potrebbero fare). Non voglio dire che agire su scala locale sia sufficiente, ma nel piccolo si sprigiona un’energia e una creatività tali da avere un impatto anche sulle politiche pubbliche. Faccio l’esempio del Regno Unito: da noi il governo non ha mai fatto nulla di concreto per supportare progetti locali di produzione di energia. Le comunità locali, le transition town, hanno sviluppato autonomamente i propri progetti, senza aiuti pubblici. Ma, dal momento che ne sono nati tantissimi, diffusi sul territorio, recentemente il governo ha introdotto una strategia energetica, che Transition network ha aiutato a scrivere e che trae esempio dalle nostre comunità. Questo per me è un esempio concreto di come le iniziative dal basso inizino ad avere un impatto sulle politiche governative.

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Ma come si concretizza la transizione per una comunità locale? La mia città, Totnes, ha iniziato la transizione oltre sette anni fa. Oggi ha circa quaranta progetti attivi, tra cui la produzione di cibo (coltivando orti urbani e piantanto centinaia di alberi da frutto), l’autocostruzione, la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’efficienza energetica (abbiamo aiutato 700 proprietari di casa a ridurre le emissioni di anidride carbonica di circa 1,5 tonnellate, risparmiando circa 800 euro all’anno a testa), una moneta locale (i totnes pound), una fabbrica di birra, progetti di coworking per accompagnare la nascita di nuove imprese. Ma ogni realtà ha le sue esigenze e le sue priorità. Noi aiutiamo chi voglia avviare progetti di transizione in tutto il mondo. Pensavamo che la transizione fosse un concetto valido per l’Occidente, per le economie avanzate, invece stanno nascendo esperienze in Paesi con economie in via di sviluppo, come il Brasile: nelle favelas di San Paolo c’è un grande progetto di Transition town. E come vi rapportate alle amministrazioni pubbliche? Spesso c’è grande collaborazione. Il consiglio comunale di Totnes ha deciso di essere un transition council e supporta le nostre attività. Recentemente abbiamo realizzato un piano economico per la

L’ITALIA IN TRANSIZIONE

Ecovillaggio La Nuova Terra Carimate Lomazzo

Sovico Cittadella

Torino Campagnola Emilia Scandiano Vernio (Valbisenxion) Vaiano (Valbisenzio) Schignano (Valbisenzio)

Bagnoli della Rosandra Portogruaro Ferrara Granarolo

Lucca

Urbania

Bazzano Budrio Calderara di Reno

Lame Pianoro Monteveglio San Lazzaro

Macerata Tortoreto L’Aquila

Lecce Città ufficialmente riconosciute dal network internazionale Città che hanno attivato una iniziativa di transizione ma non sono ancora riconosciute

Modica

SUL SITO DI VALORI IL VIDEO DELL’INTERVISTA

città basato sui principi della transizione. Lo abbiamo redatto insieme al consiglio comunale, a quello distrettuale e alla camera di commercio. Hanno collaborato tutti e tre. In parte è merito del fatto che il movimento Transition non è schierato politicamente, non è di destra o di sinistra, per la crescita o la decrescita. Noi semplicemente cerchiamo di realizzare comunità che siano inclusive. Per esempio non ci ritroviamo nelle idee del movimento della decrescita, lo considero molto ideologico e poco concreto. Il Transition network non ritiene che la crescita sia una cosa negativa,

ma che sia inappropriata. È un’idea del ventesimo secolo. Nel ventunesimo secolo non ha più senso, perché le sfide sono diverse. Se hai come obiettivo quello di tagliare le emissioni di CO 2, non puoi porre la crescita come obiettivo. Oggi serve un modello economico più adatto ai nostri tempi e alle nostre necessità. 

IN RETE www.transitiontowntotnes.org www.transitionnetwork.org transitionitalia.wordpress.com

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FONTE: ISPRA, 2013

ma sono in grado di far circolare localmente il denaro. È un modo concreto per rispondere alla crisi invece di continuare sulla strada di prima.


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Sviluppo sostenibile: siamo parte di una rete di Elisabetta Tramonto

In anteprima per Valori un’intervista a Fritjof Capra sul suo nuovo libro in uscita negli Stati Uniti questo mese, in Italia entro la fine del 2014: The Systems View of Life. A Unifying Vision. L’economia va progettata come un ecosistema rendere spunto dalla natura per progettare la nostra vita, l’economia e la società: un approccio sistemico ai problemi, una crescita qualitativa, un modello di sviluppo che comprenda le dimensioni sociale, ecologica, culturale ed etica e che consideri che siamo all’interno di una rete. Sono le fondamenta per costruire un futuro sostenibile, indicate da Fritjof Capra nel suo nuovo libro, The Systems View of Life. A Unifying Vision, che il fisico austriaco, direttore del Center for Ecoliteracy a Berkeley, reso famoso dal suo Il Tao della fisica (pubblicato nel 1975), ha scritto insieme a un italiano, il professor Pier Luigi Luisi, dell’Università di Roma Tre. Uscirà negli Stati Uniti questo mese e in Italia, con il titolo “Vita e natura: una visione sistemica” (editore Aboca), nell’arco del 2014. Su Valori avevamo già incontrato Fritjof Capra, aveva scritto un bell’editoriale nel numero di novembre 2011. Ora ci concede un’intervista in anteprima, proprio sul suo nuovo libro.

P

Nel suo nuovo libro parla di “comunità sostenibili”. Che cosa intende? È un concetto fondamentale oggi, perché costruire e “coltivare” comunità sostenibili è la vera sfida del nostro tempo. La definizione classica di comunità sostenibile è “un luogo dove possiamo soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza ridurre le opportunità per le future generazioni”. È un’importante esortazione morale, ma non ci dice niente sul | 34 | valori | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 |

Fritjof Capra, fisico austriaco, diventato famoso per il libro “Il Tao della fisica”.

Lo sviluppo non può comprendere solo la dimensione economica, ma anche quella sociale, etica, ecologica e culturale “come” concretizzarla. Abbiamo bisogno di una definizione operativa di “sostenibilità”. Possiamo cominciare domandandoci: cos’è sostenuto in una comunità sostenibile? Non la crescita economia o i profitti, bensì l’intera rete della vita dalla quale dipende la nostra sopravvivenza di lungo periodo. In altre parole una comunità sostenibile deve essere progettata allo stesso modo in cui è “costruita” la vita stessa: gli affari, l’economia, le strutture fisiche e tecnologiche non devono interferire con l’intrinseca capacità della natura di portare avanti la vita. Questa definizione è operativa perché ci spiega che il primo passo di questa impresa deve essere comprendere come la natura sostiene la vita. In altre parole dobbiamo capire i principi organizzativi che l’ecosistema della Terra ha sviluppato per sostenere la rete della vita per miliardi di

anni. È quella che io chiamo “alfabetizzazione ecologica”. Il secondo passo è usare la nostra conoscenza ecologica per riprogettare le istituzioni sociali per coprire il vuoto che separa le attività umane da un sistema naturale sostenibile. È il “progetto ecologico”. Lei descrive come fondamentale la rete di relazioni. Perché? È uno dei fattori chiave di un approccio sistemico alla vita: riconoscere che la rete è l’elemento centrale nell’organizzazione di tutti i sistemi della vita. Gli ecosistemi sono reti di organismi; gli organismi reti di cellule, organi e sistemi di organi; le cellule sono reti di molecole; eccetera. Le reti sociali sono reti di comunicazione. La rete insomma è uno strumento comune a tutta la vita. Ovunque vediamo vita, vediamo reti. Andando al cuore del cambio di paradigma, passando da un approccio alla vita meccanicistico a uno sistemico, troviamo una fondamentale modifica di metafora: da vedere il mondo come una macchina, a considerarlo una rete. Che cos’è per lei lo sviluppo? Negli ultimi 30 anni la scienza ha molto studiato le reti nei sistemi naturali. Si è scoperto che sono auto-organizzate e auto-generate. Questo vale per i sistemi biologici come per quelli sociali. Un sistema sociale crea la sua propria cultura: un corpo condiviso di conoscenza, valori, convinzioni che formano lo stile di vita


TRANSITION TOWN TOTNES

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LIBRI

Fritjof Capra, Pier Luigi Luisi The Systems View of Life. A Unifying Vision Cambridge University Press

di quella specifica cultura. Questo implica un approccio sistemico allo sviluppo, ben diverso da quello usato dalla maggior parte degli economisti e dei politici, che riducono il concetto di sviluppo a una singola dimensione economica, di solito misurata in termini di Pil pro capite. L’enorme diversità dell’esistenza umana viene così compressa in questo concetto lineare e quantitativo convertito in un coefficiente monetario. Da una prospettiva sistemica invece lo sviluppo non è solo un processo economico, ma comprende anche le dimensioni sociale, ecologica, culturale ed etica. È un processo multidimensionale che è parte integrale delle comunità auto-organizzate. È basato sulla consapevolezza che siamo una parte inseparabile della rete della vita, delle comunità umane e non umane. E che rafforzare la dignità e la sostenibilità di ognuno migliora quella di tutti. Qual è la causa profonda della crisi globale e quale la via d’uscita? La caratteristica più impressionante della crisi globale è che nessuno dei principali problemi del nostro secolo può essere compreso se considerato isolato. Sono tutti problemi sistemici, interconnessi e interdipendenti gli uni dagli altri. Di conseguenza necessitano soluzioni sistemiche, che non affrontino semplicemente un aspetto, ma che risolvano più problemi allo stesso tempo. Nel nuovo libro, io e il mio coautore, Pier Luigi Luisi, proponiamo numerose soluzioni sistemiche

IN RETE www.fritjofcapra.net

applicabili oggi. Evidenziano che abbiamo la conoscenza e le possibilità tecniche di costruire un futuro sostenibile. Quello che manca è una decisione politica e una leadership. La causa profonda dei nostri problemi secondo la mia analisi è la persistente illusione, coltivata da economisti e politici, che sia possibile una crescita senza limiti in un Pianeta limitato. È un’ossessione che ha portato a un consumo eccessivo, a un’economia basata su un uso intensivo dell’energia e delle risorse, che ha provocato l’attuale inquinamento e l’erosione delle risorse naturali della Terra.

Fritjof Capra Il Tao della fisica Adelphi

Fritjof Capra La rete della vita Rizzoli

Fritjof Capra Il punto di svolta Feltrinelli Edizioni

Ritiene che la crescita quindi sia sbagliata di per sé? O pensa a una diversa crescita? La sfida che abbiamo davanti consiste nel passare da un’economia basata sul concetto di crescita illimitata a una che sia, contemporaneamente, ecologicamente sostenibile e socialmente giusta. No growth, la “decrescita”, come la chiamate in Italia, non è la risposta. La crescita è una caratteristica fondamentale della vita intera: una società o un’economia che non crescono prima o poi moriranno. La crescita fa parte della natura, ma non è lineare né illimitata. Mentre alcune parti di un organismo, o di un ecosistema, crescono, altre deperiscono, e diventano risorse per una nuova crescita. Questo genere di crescita, equilibrata e multisfaccettata, è nota a biologi ed ecologisti. Propongo di chiamarla “crescita qualitativa”, per differenziarla rispetto al concetto di “crescita quantitativa” usato oggi dagli economisti. La nostra sfida quindi è passare da una crescita quantitativa a una qualitativa, che migliori la qualità della vita.

Nel libro lei propone delle strategie per un’economia senza combustibili fossili? Proponiamo una revisione della strategia proposta da Amory Lovins e dal suo team del Rocky Mountain Institute (RMI) in Colorado in un lavoro dal titolo evocativo: Reinventing Fire (reinventare il fuoco, ndr), che fornisce un programma dettagliato per l’economia americana per arrivare nel 2050 a eliminare ogni fonte energetica a base di petrolio, carbone o nucleare e a ridurre di un terzo l’uso del gas naturale. Lovins stima che la transizione a un’economia fossil-fuelfree porterebbe a un risparmio di 5 mila miliardi di dollari; ridurrebbe le emissioni di anidride carbonica tra l’82 e l’86%; rafforzerebbe notevolmente la sicurezza nazionale; creerebbe piena occupazione e migliorerebbe la salute pubblica: insomma una soluzione sistemica per eccellenza.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 35 |


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La lunga corsa del riciclo: il settore vale più di vino e tessuti di Emanuele Isonio

Per chi recupera e trasforma rifiuti e imballaggi la crisi non è ancora iniziata. Il fatturato è superiore a quello di comparti storici del Made in Italy. Determinante il ruolo dei consorzi. Problemi per il futuro: Sud in ritardo nella differenziata e imprese spesso troppo piccole iù che una filiera, un insieme di comparti diversi, ma complementari. Uniti da un medesimo obiettivo: fare fatturato, utili e occupazione trasformando i materiali comunemente noti come rifiuti in risorsa da recuperare e reimmettere nel ciclo produttivo. Un’apparente panacea per un Paese in cui le discariche sembrano un male inestirpabile. Il settore ha dimostrato negli ultimi anni di reggere straordinariamente bene alla crisi economica, nonostante problemi e ostacoli (come sempre) non manchino.

P

Un settore sottovalutato

RACCOLTA DIFFERENZIATA DELLE PRINCIPALI FRAZIONI MERCEOLOGICHE, 2011 (%) 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0

12,0

5,9

1,7 4,1

1,3 1,2

2,1

2,6

0,8

1,2

0,8

10,2 2,3 38,0

100%

FONTE: ISPRA, 2013

Probabilmente l’opinione pubblica tende a sottostimare il peso del riciclo rispetto ad altri comparti del Made in Italy. Eppure i confronti macroeconomi-

ci dicono tutt’altro: con un fatturato 2012 di 9,5 miliardi di euro (+8% rispetto al 2010, quadruplicato in un decennio), ha ormai superato settori cardine dell’industria tricolore: più del tessile (7,9 miliardi nel 2012), più del vino (8,9). E superiore anche ad altri anelli della green economy: il fotovoltaico e le biotecnologie si sono fermati a 7,1 miliardi ciascuno. «Tra l’altro – osserva Alessandro Marangoni, economista dell’Università Bocconi e amministratore delegato della società di ricerca Althesys – l’industria del riciclo è meno volatile di altri comparti tecnologici e più solida dei settori manifatturieri tradizionali». Tanto da proseguire la crescita mentre quasi ovunque, altrove, i conti sono in rosso e il valore della produzione industriale nel 2012 è sceso del 7,5%.

15,7

Performance invidiabili, che hanno coinvolto migliaia di imprese, divise per tipo di materiale riciclato (vedi SCHEDE ): 3.085 secondo i dati Istat le aziende (erano 2.183 nel 2000, circa un terzo in meno) e oltre 36mila gli occupati (dei quali 21mila nella sola filiera del riciclo imballaggi). «Non si deve però considerarlo un settore anticiclico», avverte Anselmo Calò, presidente di Unire (Unione nazionale imprese di recupero). «La nostra filiera, infatti, recupera i materiali con cui sono realizzati i prodotti di altri comparti. Ma se i consumi privati sono fermi al palo, la produzione industriale cala e con essa anche la richiesta di materie prime seconde (derivanti cioè dal recupero e dal riciclo dei rifiuti, ndr)». Non è quindi un caso che i tassi di crescita stiano rallentando, facendo sudare freddo più di qualche imprenditore. Anche perché il settore non è privo di strozzature. Da un lato, le enormi oscillazioni regionali nella raccolta differenziata (40% la media nazionale, 62% le punte massime in Trentino e Veneto, 13% i dati minimi in Calabria e Sicilia). «Inevitabile che questo dato penalizzi il futuro delle imprese del Sud, che hanno meno materiali da trattare e un bacino d’utenza minore», osserva Marangoni. Dall’altro, c’è poi un problema strettamente connesso con le tipologie di imprese della filiera e già riscontrato in molti altri comparti produttivi.

«Nanismo imprenditoriale» Frazione organica

Carta

Raccolta differenziata

Vetro

Plastica

di cui imballaggi

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Legno

Metallo

RAEE

Ingombranti misti a recupero

Tessili

Altro

Il commento più crudo è contenuto in un recente rapporto della Cassa Depositi e Prestiti: «Con riferimento all’assetto gestionale, il comparto dei rifiuti


| economiasolidale |

PERCENTUALI DI RACCOLTA DIFFERENZIATA DEI RIFIUTI URBANI PER REGIONE, 2012 [%]

NON SOLO TERRA DEI FUOCHI: DAI TRAFFICI CRIMINALI UN DANNO PER LE AZIENDE LEGALI

57,5 51,5

62,6

53,3 30,9

50,7 40,0

50,8 42,0 37,9 22,1

18,4 41,5 21,9 18,3

49,7

> 50 41-50 31-40 21-30 <_ 20

13,3

FONTE: ISPRA, 2013

13,8

in Italia si caratterizza per un diffuso “nanismo imprenditoriale”. Questo elemento non può non influire sull’efficienza generale, visto che le imprese più grandi e integrate sono anche quelle che si caratterizzano per le migliori performance e per una maggiore capacità di realizzare investimenti, con qualità spesso più elevata, oltre a essere più attrattive per il sistema finanziario». L’analisi trova consensi quasi unanimi: «Poche aziende producono la maggior parte del fatturato», spiega Emmanuela Pettinao, analista della Fondazione Sviluppo sostenibile. «Tante microimprese hanno enormi difficoltà ad andare avanti e a coprire i costi di produzione». «La tendenza alla frammentazione – aggiunge Calò – fa parte del sistema imprenditoriale italiano: siamo individualisti. Ma così le imprese faticano a sfruttare le economie di scala». E alla fine la percentuale di aziende che può contare più di 60 dipendenti non arriva a doppia cifra.

Consorzi, cuscinetto anticrisi Un grande contributo per ammortizzare i rischi di recessione, impedendo il fallimento di molte aziende, arriva dai consorzi. Sei quelli principali (acciaio,

Immaginate 82mila Tir incolonnati sulla A1. Uno dopo l’altro, coprirebbero la distanza tra Roma e Milano, in entrambi i sensi di marcia. All’interno potrebbero essere stivati i rifiuti sequestrati da Polizia e Carabinieri in un solo anno (due milioni di tonnellate). Una fotografia efficace di quale sia la dimensione del traffico illegale in Italia. Una piaga sociale e sanitaria (Terra dei fuochi docet) che, per le aziende della filiera, si trasforma in un danno reale da un concorrente sleale. 3,1 miliardi di euro il business illecito dei soli rifiuti speciali, calcola la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) su dati Legambiente. Il 13% del giro di affari legale registrato nel 2012. Seimila le persone denunciate, cinquemila le infrazioni, duemila i sequestri. Un reato su due è avvenuto nelle Regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia). «Ma le rotte dei traffici illegali hanno ormai assunto dimensioni nazionali diffondendosi capillarmente in tutto il territorio», ammonisce la Cdp. Comprensibile che le associazioni di categoria chiedano alle istituzioni un impegno maggiore per arginare il fenomeno. Per questo dal 2010 la competenza sui reati di traffico illecito dei rifiuti è passata dalle procure ordinarie alle direzioni distrettuali antimafia. Duplice l’obiettivo raggiunto: dotare l’Antimafia di preziose informazioni su persone e aziende coinvolte. E raddoppiare i termini di prescrizione, INFRAZIONI ACCERTATE NEL CICLO DEI RIFIUTI, 2012 [%] riducendo il rischio di vedere andare in fumo molti procedimenti. 1,8 Ma gli inquirenti da tempo ormai 2,1 0,5 5,8 avvertono che gli interventi nel solo 3,4 4,7 territorio nazionale non sono sufficienti: 3,2 3,1 il fenomeno ha ormai assunto connotazioni transnazionali e i rifiuti 5,6 vengono esportati nei Paesi in via 2,8 3,6 di sviluppo sfruttando la loro deregulation. 4,0 Non è un caso che nell’ultimo decennio 5,5 1,2 si siano svolte 31 inchieste internazionali che hanno coinvolto 22 Paesi esteri. Nel 15,1 2,3 10,4 2012 sono state sequestrate in dogana 5,9 14mila tonnellate di rifiuti: esattamente il doppio rispetto all’anno precedente. 12,1 Gomme e pneumatici il settore > 10,1 maggiormente colpito dalle spedizioni 5,1 - 10,0 7,4 illecite (57%), seguito dai metalli 2,1 - 5,0 <_ 2,0 e dalla plastica (16% ciascuno). FONTE: LEGAMBIENTE, 2013

62,3 44,8

alluminio, carta, vetro, plastica, legno) riuniti all’interno del Conai. «Nei primi tre anni di recessione – osserva Pettinao – hanno avuto una funzione anticiclica perché, nonostante il mercato in flessione, hanno continuato a ritirare i rifiuti dalle aziende della filiera e così facendo hanno assorbito i picchi negativi». Ma ovviamente, se la stagnazione economica non finirà, potrebbero non poter proseguire tale compito in modo ugualmente efficace. L’unica vera spe-

ranza è nell’aumento della quantità di materiali avviata al riciclo («per molti settori ci sono margini importanti», secondo Marangoni) e nell’introduzione di meccanismi che incentivino l’uso nel ciclo produttivo di materiali riciclati piuttosto che di materie prime. Ma per questo le imprese non possono che attendere gli interventi del legislatore e del governo. Nella speranza che finalmente, anche in Italia, si torni a fare politica industriale.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 37 |


| economiasolidale |

Quei 13 miliardi guadagnati aiutando l’ambiente RICICLAGGIO DEGLI IMBALLAGGI (KTON E %) - 2010/2012 4.000

Le “sette sorelle” riciclone

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0

Acciaio

Alluminio

tico dei rifiuti – rivela il rapporto Obiettivo discarica zero di Cassa Depositi e Prestiti – si stima che negli ultimi dieci anni la distruzione di ricchezza in discarica sia stata di 11 miliardi di euro, pari

Legno

Plastica

1.568 (71%)

1.570 (69%)

1.471 (68%)

754 (37%)

716 (35%)

749 (36%)

1.257 (55%)

1.338 (59%)

Carta

1-272 (55%)

40,7 (59,4%)

40,8 (59,5%)

46,5 (72,4%)

500

332 (75%)

1.500

3.594 (84%)

3.416 (79%)

2.500 2.000

353 (73%)

C

2012

3.000

1.000

ontinuare a percorrere la strada (maleodorante) delle discariche non è solo un cattivo affare per il territorio. È un folle spreco di denaro. Ormai non c’è esperto di rifiuti che non sottolinei il cruciale valore – economico e sociale, oltre che ambientale – dell’espansione delle attività di riciclo. «Tenendo conto del solo contenuto energe-

2011

3.526 (80%)

2010 3.500

358 (71%)

A tanto ammontano i benefici netti ottenuti dal 1998 riciclando rifiuti anziché destinarli in discarica. Ma molti altri soldi vanno in fumo: 11 miliardi di euro (0,7% del Pil) secondo un’analisi della Cassa Depositi e Prestiti

Vetro

allo 0,7% del Pil». Più dei soldi necessari per la copertura economica del taglio al cuneo fiscale ideato dal governo Renzi. Dato in linea con un’altra analisi, quella del centro di ricerca Althesys, che si è

ACCIAIO (RICREA)

ALLUMINIO (CIAL)

CARTA (COMIECO)

Quantità imballaggi riciclata: 332 kton (+4% su 2011)

Quantità imballaggi riciclata: 40,7 kton (-0,1%)

Quantità imballaggi riciclata: 3.594 kton (+6%)

Del Consorzio Nazionale Riciclo e Recupero Imballaggi fanno parte 263 aziende che, nel 2012, hanno permesso di avviare a riciclo il 75% degli imballaggi di acciaio immessi al consumo in Italia. Dal 2002 è stata superata la soglia del 50% imposta dalle normative europee. Gli imballaggi in acciaio immessi al consumo nel 2012 (440mila tonnellate) sono pari al peso di 61 Tour Eiffel.

La quantità di alluminio riciclata è pari al 59% di quella immessa al consumo. La raccolta è cresciuta del 30% dal 2010. Stabili le quantità esportate verso l’estero (103mila tonnellate). Destinazione principale: i Paesi asiatici. Per il futuro, si punta ad aumentare la raccolta selezionando l’alluminio presente nei rifiuti indifferenziati e nelle scorie post-combustione.

9 imballaggi su 10 recuperati, riciclo a quota 84,5% e 270 discariche evitate dal 1999 (22 nel solo 2012) grazie alla raccolta differenziata, stabile a 6,2 milioni di tonnellate. In calo il consumo nazionale (-8% a 4,6 Mton). Buone notizie dall’export che, con 1,3 Mton, è in aumento rispetto al 2011 dell’11%. Uno sbocco essenziale per andare oltre le capacità d’assorbimento dei maceri da parte dell’industria cartaria nazionale.

FONTE: ELABORAZIONE FONDAZIONE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE SU DATI CONAI

di Emanuele Isonio


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DALLA FRANCIA, IL RICICLO DI PROSSIMITÀ. UN’ARMA IN PIÙ PER IL SETTORE. A DOPPIO TAGLIO Oltralpe, si sa, non hanno paura di usare l’interesse nazionale quando può servire a sostenere le industrie considerate rilevanti per il futuro del Paese. Un approccio pragmatico applicato anche per rafforzare il settore rifiuti. Tecnicamente la soluzione scelta è nota come “riciclo di prossimità”. Un’idea per incentivare il consumo di carta riciclata dalla filiera interna attraverso una riduzione dei costi dell’energia elettrica fornita alle cartiere. Non solo: l’Agenzia per i rifiuti domestici che serve Parigi e altri 84 Comuni limitrofi ha inserito una clausola nel contratto di vendita di carta e cartone recuperati, che impone all’assegnatario di far effettuare il riciclo del materiale all’interno della Francia o nei Paesi europei confinanti. L’obiettivo dichiarato è contrastare il dumping di alcuni Stati asiatici, che realizzano il servizio a prezzi molto più bassi sfruttando il minor costo di energia e manodopera. La soluzione francese, mutuata anche in Spagna,

concentrata sul solo 2012, collegando i mancati introiti con il tasso di differenziata delle singole Regioni: 1,17 i miliardi persi in totale. Primo per perdita economica il Lazio (186 milioni), seguito da Sicilia (184 milioni) e Puglia (174). Ma se, invece di calcolare i soldi persi, ci si concentra sul bicchiere mezzo pieno, il risultato non cambia. Un’altra ricerca, realizzata sempre da Althesys, ha calcolato i benefici netti effettivamente ottenuti, solo dal sistema dei con-

ha ovviamente ottenuto il consenso delle associazioni del settore in Italia: «Un’impresa che lavora sul territorio dà un contributo sotto il profilo sociale e ambientale duraturo» commenta Massimo Medugno, direttore generale di Assocarta. Ma gli analisti invitano a qualche riflessione in più, per evitare che lo strumento si traduca in un boomerang. «La logica dal punto di vista ambientale è ineccepibile» osserva Alessandro Marangoni, economista dell’Università Bocconi. Che però profetizza uno stop della Commissione europea all’iniziativa: «Le clausole di prossimità potrebbero violare il principio di libera circolazione delle merci e il divieto di aiuti di Stato». C’è poi un altro aspetto da tenere sott’occhio, di natura strettamente economica: «Uno strumento come quello può funzionare in fase di espansione del mercato interno. Ma se fra i confini nazionali la richiesta di carta riciclata è inferiore alla raccolta, si rischia di affondare la scialuppa di salvataggio garantita in questi anni dall’export».

sorzi Conai, tra il 1998 e il 2012. «In questo caso – spiega l’amministratore delegato di Althesys, Alessandro Marangoni – oltre agli effetti economici abbiamo monetizzato anche quelli ambientali e sociali, dando un valore alle emissioni di CO2 evitate e ai posti di lavoro creati nel settore del riciclo». A fronte di 4,5 miliardi di costi in più legati all’aumento della raccolta differenziata, dell’energia utilizzata, dei trasporti e delle attività di riciclo, i benefici generati superano quo-

ta 17 miliardi, per un vantaggio netto di 12,7 miliardi. Risultati di grande rilievo, ottenuti anche assicurando notevoli vantaggi all’ambiente: grazie alla filiera del riciclo si è evitata l’emissione in atmosfera di 82 milioni di tonnellate di CO2. Al tempo stesso non sono stati inviati a smaltimento 60 milioni di tonnellate di imballaggi. In questo modo, la costruzione di 507 nuove discariche è rimasta solo sulla carta. 

LEGNO (RILEGNO)

PLASTICA (COREPLA)

VETRO (COREVE)

Quantità imballaggi riciclata: 1.257 kton (-1%)

Quantità imballaggi riciclata: 754 kton (+2%)

Quantità imballaggi riciclata: 1.568 (+2%)

Nonostante la quantità di rifiuti legnosi avviati al riciclo sia sostanzialmente stabile, la raccolta differenziata è scesa del 6%. Un calo connesso con la contrazione dell’avvio a riciclo da parte dei privati. Un effetto della crisi e del calo dei consumi che si riverbera anche sulla quantità di imballaggi utilizzati.

Nel 2012 la filiera della plastica è stata influenzata dallo scenario economico negativo: in deciso calo la domanda di materie plastiche e imballaggi (2 milioni di tonnellate l’immesso al consumo, in calo dell’1%). Nel 2012 e nei primi mesi 2013, decresce il trend dell’export e dell’import di materiale plastico. Segno della stagnazione del mercato globale.

Calano le quantità immesse al consumo (2,2 milioni di tonnellate pari al 2,4%). Ma è cresciuta la percentuale di avvio al riciclo che ormai rappresenta il 71% di quanto immesso al consumo. Nel settore vetro, l’industria nazionale è in grado di assorbire tutti i flussi di raccolta: il 75% delle lavorazioni in vetro dell’industria vetraria sono fatte con rottami.

RIFIUTI ELETTRONICI (REMEDIA) Quantità imballaggi riciclata: 42 kton (+2,9% su 2012) È uno dei settori del riciclo con maggiori margini di crescita per il futuro. Nel 2012 il consorzio, che riunisce oltre mille aziende del settore dell’elettronica, ha avviato a riciclo quasi 35mila tonnellate di RAEE domestici, 2.500 tonnellate di RAEE prodotti da imprese ed enti pubblici e 4.260 tonnellate di pile e accumulatori. Tra le regioni più virtuose, in testa la Lombardia (21% della raccolta totale) seguita da Emilia Romagna e Veneto.

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| socialinnovation |

Creatività dagli scarti dell’olio

Don’t cry for me glicerina n Argentina vige l’obbligo di smaltimento degli oli alimentari esausti solo per gli esercizi commerciali, mentre per le utenze domestiche non esistono sistemi di raccolta degli oli di semi e di oliva usati principalmente per le fritture. Reciclando Aceite è una piccola società di Buenos Aires, creata per prevenire e ridurre l’inquinamento dallo scarto di olio vegetale per uso casalingo.

I

di Andrea Vecci

La ricetta è semplice: attraverso la raccolta porta a porta di bottiglie di olio da frittura, vengono prodotti, in modo artigianale, sapone ecologico e biocarburante. In sette giorni la glicerina estratta dall’olio è pronta e la saponetta ecologica viene lasciata riposare per altri 40 prima di effettuare il test del Ph, essere confezionata e venduta. L’attività occupa prevalentemente donne e coinvolge molti volontari nella raccolta delle bottiglie di olio: gli smaltitori ricevono in cambio una saponetta per ogni litro di olio consegnato. La confezione di diverse linee aromatiche ed essenziali si assesta attorno ai 50 chili di sapone al giorno. Oltre a prevenire l’inquinamento delle acque, Reciclando Aceite promuove corsi di formazione e tutorial per l’autoproduzione, eventi affollatissimi per aziende, enti pubblici, centri sociali e gruppi informali di cittadini, che contribuiscono a migliorare la responsabilità del tessuto sociale e produttivo. L’esempio citato può essere analizzato da diversi punti di vista: la green economy, la share economy e la social innovation, temi più volte trattati dalle colonne di Valori. Queste tre declinazioni della sostenibilità necessitano di un nuovo paradigma economico che collochi le soluzioni artigianali di Reciclando Aceite all’interno di un quadro di “inno-

ambientale della gestione dei rifiuti e nella massimizzazione della “materia prima seconda”, sintetizzato nel baratto soap for oil. Molte sono le domande che suscita questo approccio: come potranno gli enti pubblici, le aziende private, i professionisti trovare il modo di interagire significativamente con imprese sociali e persone vocate alla coproduzione? Quali caratteristiche distinguono i cittadini co-produttori dai singoli consumatori passivi? Oltre alla crisi economica e all’austerity, che cosa spinge i cittadini a impegnarsi nella coproduzione di valore sociale? Il rapporto tra innovazione sociale e processo produttivo, in moltissimi scenari di co-produzione, pone il problema di quali saranno i nuovi soggetti di produzione industriale e come (e se) “brevettare” l’innovazione sociale. Il modello dello sviluppo economico, basato sulla competitività dell’innovazione, ha generato attese finanziarie per gli investitori che non è detto abbiano un ruolo nello sviluppo sociale non competitivo, condiviso. La co-produzione influenza l’efficienza produttiva, ma il peso più rilevante sarà sulla democratizzazione, la reattività e la responsabilità di un sistema di fornitura di beni e servizi partecipati.  Info sul blog Social Innovation di valori.it

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Reciclando Aceite recupera olio di scarto dalle case di Buenos Aires e produce sapone e biocarburante vazione superiore”. La conoscenza e il know how racchiusi in questa innovazione possono essere assimilati nei processi di altri settori produttivi. Sempre più spesso, infatti, le declinazioni di impatto ambientale e sociale vengono considerate come requisiti del design di processo o di prodotto, compresa la coproduzione. Il nuovo ruolo dell’asset holder – lo smaltitore che non è più fornitore, il volontario che non è più distributore – crea una nuova supply chain in cui gli attori sono contemporaneamente produttori e distributori di valore, dove nella parola “valore” si tengono connessi la moneta, il servizio, i legami e i significati. Questo è il caso della collaborazione alla diminuzione dell’impatto


fotoracconto 06/06

BEATRICE DE BLASI

Un anziano contadino mostra con soddisfazione alcuni rametti con chicchi di pepe. Dallo Sri Lanka provengono, oltre a questo pepe, molti tesori di uso comune: curcuma, zenzero, noce moscata, vaniglia, chiodi di garofano. [foto Beatrice De Blasi di Mandacar첫, cooperativa del circuito equosolidale Altromercato] | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 41 |



| america latina |

internazionale Usa, l’ecologia risorge alle elezioni di mid-term > 46 FABIO RODRIGUES POZZEBOM/ABR / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

PRESIDENCIA DE LA N. ARGENTINA / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

Mozambico, nuova terra di conquista > 49

Hermanos de inflación Argentina e Venezuela in caduta libera Prezzi alle stelle e consenso politico ai minimi. Sul crollo delle valute pesa la svolta monetaria statunitense. Ma non è solo colpa degli speculatori

di Matteo Cavallito

ristina Kirchner tuona contro gli speculatori. Nicolás Maduro contro i “fascisti”. La prima si prepara con calma a uscire di scena. Il secondo non ne ha nessuna intenzione. Entrambi fronteggiano il malcontento, entrambi fanno i conti con l’aggravarsi della crisi. Ed entrambi, soprattutto, sono sempre più a corto di dollari. Che in questi casi non è mai un buon segno. All’inizio del 2014 Argentina e Venezuela sembrano sempre più due Paesi “fratelli” (hermanos), ma questa volta la retorica de la hermandad che accompagna tipicamente ogni singolo vertice del Subcontinente c’entra molto poco. Perché a suggerire la parentela è soprattutto un primato per nulla invidiabile: quello dei tassi d’inflazione più alti di tutta l’America Latina.

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| internazionale |

RJCASTILLO / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

VENEZUELA: IL DECLINO DELL’INDUSTRIA PETROLIFERA Nel 1999, l’anno della prima vittoria elettorale di Hugo Chávez, l’industria petrolifera venezuelana fatturava 7.580 miliardi di bolivares. Alla fine del 2012 il dato era sceso a quota 6.680 (nei primi nove mesi del 2013 siamo a circa 5mila miliardi, più o meno lo stesso livello raggiunto al terzo trimestre 2012). Nello stesso periodo, il Pil del Paese è passato da 39,6 a 61,4 trilioni (mila miliardi). Il calcolo, pubblicato dalla Banca centrale, è fatto a prezzi costanti a partire dal 1997, in pratica un sistema per escludere dalla misurazione gli effetti distorsivi dell’inflazione. La conversione in dollari resta ovviamente opinabile (per via dell’instabilità della moneta e del divario tra il cambio ufficiale e quello reale del mercato nero), ma, prendendo per buono il dato del consueto annuario della Cia, se ne deduce che quei 61 trilioni e spiccioli constant price equivarrebbero, a parità di potere d’acquisto, a circa 400 miliardi di dollari americani. Seguendo lo stesso ragionamento, il Pil petrolifero venezuelano del 2012 varrebbe circa 44 miliardi di biglietti verdi. Detto in altri termini, durante la gestione Chávez, la ricchezza complessiva prodotta in Venezuela è aumentata – inflazione esclusa – di oltre il 50%. Il fatturato del petrolio, nello stesso periodo, è calato circa del 12%. Secondo il quotidiano canadese Globe and Mail l’industria petrolifera venezuelana viaggerebbe attualmente sui livelli di produttività più bassi dal 1940. Nel 2004 il Venezuela importava ogni giorno dagli Stati Uniti circa 6.600 barili di benzina. All’inizio del 2013 il livello era salito a 85mila (vedi Valori n. 108, aprile 2013).

Di tutti gli indicatori macroeconomici, l’indice dei prezzi al consumo è, per così dire, il più passionale di tutti. Perché è il primo a essere percepito e il più incline a riempire le piazze. Le stesse piazze che a Caracas si sono infiammate per settimane, lasciando sul campo decine di morti. A metà febbraio, con un gesto plateale e largamente documentato, il leader della protesta Leopoldo López si è consegnato alla polizia. Il governo lo accusa di terrorismo, lui, ovviamente, ribalta ogni addebito sull’esecutivo. 42 anni, studi ad Harvard e un’esperienza come sindaco di Chacao (un distretto della capitale) dal 2000 al 2008, il più acceso leader dell’opposizione porta nel curriculum un’accusa di sottrazione di fondi pubblici, ma anche un’assoluzione in merito dalla Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo. La BBC lo definisce un political maverick, come dire una via di mezzo tra l’outsider e la scheggia impazzita. Di certo è il volto della corrente di pensiero più massimalista dell’opposizione. Nonché il sintomo più evidente, | 44 | valori | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 |

a fronte della sua stessa ascesa, dell’ormai conclamata radicalizzazione del conflitto.

L’inflazione e l’effetto Fed A marzo il tasso di inflazione su base annuale è arrivato in Venezuela al 57,3%, il doppio del target governativo, con i prezzi medi del solo comparto alimentare aumentati addirittura del 75%. Il problema è in parte endemico (vedi GRAFICO ), ma adesso siamo all’escalation conclamata e alle sue ovvie conseguenze come la crescita del mercato nero dei cambi e dei prodotti di largo consumo. A gennaio l’indice che misura la scarsità di questi ultimi è salito a quota 28%, aggiornando nuovamente il record. Il problema è familiare anche in Argentina. A febbraio Buenos Aires ha annunciato l’introduzione di un nuovo indice che dovrebbe condurre a una stima del tasso d’inflazione pari al 22%, il doppio del dato ufficiale 2013 (10,9%). In pratica è l’ammissione attesa dal 2007, l’anno del contestato rinnovo del personale dell’agenzia di sta-

tistica nazionale, che ha coinciso con la diffusione sistematica di dati inattendibili, provocando la censura del Fmi. L’ultima stima di Bloomberg parla di un’inflazione annuale del 28,4%. A pesare, ovviamente, c’è anche la svolta monetaria degli Usa. La Fed, come ormai ampiamente noto, riduce l’offerta di liquidità e gli investitori fuggono dai mercati emergenti. La conseguenza è la speculazione al ribasso sulle valute, che colpisce Paesi come India, Brasile, Russia e Turchia. Ma anche, ovviamente, Argentina e Venezuela. Per acquistare un dollaro americano, dice il cambio ufficiale, servono oggi 8 pesos, praticamente il tasso del 2002, ma nel mercato nero si sale tranquillamente a 13. Il governo di Caracas, invece, impone un cambio di 6,3 bolivares per dollaro contro il rapporto 12 a 1 registrato nel mercato parallelo. Le riserve di valuta estera, l’arma principale di contrasto all’inflazione, stanno ovviamente crollando. Alla fine del 2013 nei forzieri di Caracas ce n’erano appena per 20 miliardi di dollari, circa il 50% in


FONTE: BANCO CENTRAL DE VENEZUELA, FEBBRAIO 2014. (WWW.BCV.ORG.VE)

| internazionale |

VENEZUELA: L’ESPLOSIONE DELL’INFLAZIONE [indice dei prezzi al consumo - variazione annuale] 100

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30,9 20

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2011

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mar. 14

VENEZUELA: IL PIL DEL SETTORE PETROLIFERO 1999-2013 8.000.000 7.500.000 7.000.000 6.500.000 6.000.000 5.500.000 5.000.000 4.500.000 4.000.000

A metà marzo l’inflazione in Venezuela ha toccato il 57%, in Argentina il 22% (il 28% per Bloomberg). Pesano problemi come il petrolio, per Caracas, e il debito, per Buenos Aires. E la politica monetaria della Fed meno rispetto a dodici mesi prima. A Buenos Aires si è scesi invece a quota 28,2 miliardi, un terzo in meno su base annuale.

Debito e petrolio Il problema, per l’Argentina, è che le riserve non servono soltanto a sostenere la valuta, visto che il governo le usa anche per pagare l’enorme debito estero. Una questione irrisolta che, speculazione a parte, evidenzia le responsabilità stesse del governo (vedi Valori n. 106, febbraio 2013). E se in Argentina il punto debole si chiama debito, il tallone d’Achille del Venezuela coincide da anni

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

con quello che, al contrario, dovrebbe essere il suo punto di forza: il petrolio. Petróleos de Venezuela SA, la compagnia di Stato, ha debiti per 80 miliardi di dollari ed è, manco a dirlo, la prima vittima della crisi valutaria. I dollari incassati con le esportazioni sono convertiti in patria al tasso ufficiale, i bolivares con i quali si pagano le importazioni sono invece trattati al valore di mercato reale (che è molto più basso). Un saldo negativo esasperato dall’inflazione, ma anche dallo storico declino dell’industria di Stato (vedi BOX ). Con i fornitori vanamente in attesa di pagamenti che tardano ormai da mesi, intanto, i partner stranieri progettano la fuga: a settembre, la compagnia malese Petronas ha chiuso l’attività nel giacimento di Orinoco, mentre l’azienda russa Lukoil ha annunciato di voler cedere in futuro la sua partecipazione.

Il futuro Per Venezuela e Argentina le scadenze elettorali previste non sono imminenti,

2011

2012

2013 (9 mesi)

ma la crisi di consenso è già un problema. Nei mesi scorsi Cristina Fernández de Kirchner ha annunciato l’intenzione di non ricandidarsi alle presidenziali del 2015. Nicolás Maduro, da parte sua, difende una posizione conquistata per un soffio l’anno scorso, quando il leader dell’opposizione Henrique Capriles aveva sfiorato l’impresa portandosi a casa il 49,12% dei consensi. Pur ai ferri corti, i due rivali avevano cercato da allora un po’ di distensione, arrivando persino a concedersi una stretta di mano a favore di fotografi lo scorso gennaio. Ma quando Leopoldo López ha preso, di fatto, il controllo della piazza, Capriles si è schierato con l’ala radicale, certificando quello che il quotidiano uruguayano El Observador ha definito «un matrimonio di convenienza». Un po’ per la condivisione di un nemico comune, un po’, verrebbe da aggiungere, per marcarsi stretti a vicenda nella lotta per la leadership dell’opposizione. Che in futuro, chissà, potrebbe coincidere con quella del Paese.  | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 45 |

FONTE: BANCO CENTRAL DE VENEZUELA, FEBBRAIO 2014. DATI IN MILIONI DI BOLIVARES A PREZZI COSTANTI. (WWW.BCV.ORG.VE)

56,2 60


| internazionale | climate change al voto |

Usa, l’ecologia risorge alle elezioni di mid-term di Andrea Barolini

Gli Stati Uniti si preparano per le elezioni di metà mandato che si terranno a novembre. Democratici e repubblicani potrebbero affrontarsi anche sul tema della lotta al cambiamento climatico. L’esito è ancora totalmente aperto

a battaglia per le elezioni di midterm negli Stati Uniti potrebbe “resuscitare” la questione del riscaldamento globale e dell’ambiente nell’agenda politica americana. Negli ultimi mesi, infatti, alcuni parlamentari democratici hanno lamentato a gran voce un sostanziale accantonamento del problema ecologico dal dibattito politico. I tempi del green new deal, promesso e poi in gran parte abbandonato da Barack Obama, sono sembrati lontanissimi. E la frustrazione dei deputati e senatori più sensibili alla questione ambientale è andata aumentando. Ma facciamo un passo indietro. O, meglio, di lato: a far nutrire speranze all’ala ecologista dei democrats è infatti, udite udite, la strategia elettorale dei repubblicani. Alt: guai a pensare a un asse tra i due partiti. Soprattutto su un tema

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come quello dell’ambiente, che di certo divide piuttosto che unire. Tuttavia, i conservatori potrebbero rinunciare a contrastare in modo troppo deciso la rimonta ambientalista. E per una ragione squisitamente politica.

Una spalla dai repubblicani Il precedente potrebbe essere rintracciabile nella decisione del 12 febbraio scorso di “cedere” sulla questione del tetto al debito pubblico. Dopo mesi e mesi di battaglia senza quartiere contro la spesa pubblica, indicata come la cartina di tornasole del “socialismo” obamiano, il GOP (Grand Old Party, così chiamano negli Usa il Partito repubblicano) ha, infatti, improvvisamente gettato la spugna, per paura di ripetere l’errore strategico del 2010. All’epoca, alle legislative Usa il Partito repubblicano pagò le ripetute incursioni estre-

miste dell’ultradestra interna, il Tea Party. Per cui, stavolta, la parola d’ordine è “mostrarsi ragionevoli”. Anche perché i sondaggi insistono nel dare la popolarità del presidente ai minimi: 39% secondo l’istituto Gallup, 42% secondo RealClearPolitics. Per la Camera bassa «ci saranno duelli interessanti, ma sul risultato d’insieme non c’è praticamente alcun dubbio», ha dichiarato a tal proposito il politologo Larry Sabato, dell’Università della Virginia. Va detto che al Senato l’esito è più incerto, ma in ogni caso, si sono detti nei caucus conservatori, perché mai rischiare con un simile vantaggio? Meglio cedere sul tetto al debito (la spesa pubblica sarà priva di limiti fino al 15 marzo 2015) per evitare di essere additati come irresponsabili. E, a questo punto, meglio ammorbidire le posizioni anche sul global warming.

Ecologisti all’attacco Anche per questo, alla metà di gennaio, il leader democratico del Senato, Harry Reid, ha deciso di lanciare, insieme ai colleghi Barbara Boxer (presidente della commissione per l’Ambiente e i Lavori pubblici) e Sheldon Whitehouse, una nuova task force che si prefigge l’obiettivo esplicito di “sdoganare” l’agenda “climatica” di Obama. Per lunghi mesi, infatti, la Casa Bianca ha dovuto delegare alle agenzie governative le politiche ecologiste, al fine di evitare troppi passaggi tra le forche caudine del Congresso. Un ruolo preponderante, in questo senso, è stato giocato dalla Environmental Protection Agency, diretta da Gina McCarthy. Ma l’iniziativa dell’ala più ecologista del partito non si limita ai lavori parla-


| internazionale |

mentari. I democratici hanno puntato il dito anche contro le televisioni, ree di aver cancellato la questione ambientale dai Sunday talking show, i popolari dibattiti politici della domenica. Un gruppo di senatori, tra i quali Bernie Sanders e Brian Schatz, hanno indirizzato una lettera alle emittenti: «Va al di là delle mie capacità di comprensione il fatto che nelle reti ABC, CBS, NBC e Fox si sia discusso di cambiamento climatico, in tutto il 2012, per otto minuti», ha constatato Sanders, citando un’analisi del centro liberal Media Matters for America. «I dibattiti domenicali sono importanti – ha aggiunto il senatore – perché entrano nelle case di milioni di persone. Facendo così, il messaggio che i network danno è che il problema ambientale non è importante, mentre la comunità scientifica continua a ripeterci che quella ecologica è la crisi più importante che sta fronteggiando il Pianeta». «Siamo politici realisti. È evidente – gli ha fatto eco Boxer – che oggi è molto difficile par passare al Congresso le nostre istanze. Ma non ci arrendiamo, e puntiamo a restituire visibilità al tema». D’altra parte il terreno non è affatto arido negli States: perfino un sondaggio commissionato dalla Lega degli elettori conservatori degli Usa ha confermato che il 74% dei votanti indipendenti (nonché il 53% della “popolazione repubblicana”) ritiene che chi nega il cambiamento climatico non sia altro che «un pazzo». Nei prossimi mesi si vedrà se gli sforzi della task force democratica avranno prodotto i loro frutti. Certo è che i parlamentari dovranno guardarsi le spalle anche all’interno del loro partito: la stessa Boxer ha spiegato che una mezza dozzina di democratici, provenienti da Stati produttori di petrolio e carbone, non appoggeranno leggi che impongano limiti più stringenti alle emissioni nocive. 

UNA NOTTE AL CONGRESSO PER FAR RIFLETTERE SUL CLIMA Alcune decine di senatori americani hanno passato una notte intera, lo scorso 10 marzo, all’interno del Congresso. L’obiettivo è stato quello di riaccendere i riflettori sul problema del cambiamento climatico, e «spingere Washington ad agire». All’iniziativa ha partecipato anche il leader democratico Harry Reid. Il senatore Sheldon Whitehouse ha dichiarato in un comunicato che «il massaggio è chiaro: il parlamento deve risvegliarsi e impegnarsi su questo fronte». L’accusa è rivolta in particolare al Partito repubblicano, che detiene la maggioranza alla Camera, e i cui rappresentanti si sono più volte mostrati “sensibili” alle richieste dei colossi del gas e del petrolio. Ovvero evitare di imporre nuovi limiti alle emissioni per scongiurare un’ipotetica perdita di posti di lavoro. Ma c’è anche chi si spinge oltre, arrivando a mettere in dubbio perfino la responsabilità delle attività antropiche per quanto riguarda il riscaldamento globale. «Il cambiamento climatico, invece, esiste – ha sottolineato il senatore democratico Brian Schatz – ed è causato dall’uomo. Per questo il Congresso deve agire, e farlo subito».

Clima, guerra tra le lobby americane di Andrea Barolini

La guerra per il cambiamento climatico si combatte a suon di miliardi: i repubblicani schierano i fratelli Koch, che cercano di far dimenticare il climate change . I democratici si difendono con i capitali di Tom Steyer he la questione ambientale possa tornare a costituire un terreno di scontro frontale negli Stati Uniti è dimostrato dagli sforzi finanziari che i lobbisti di ambo le parti hanno profuso negli ultimi tempi. Il caso più eclatante è senza dubbio è quello dei fratelli David e Charles Koch, petrolieri miliardari che – secondo le informazioni raccolte da Greenpeace e confermate dalla stampa americana – hanno concesso qualcosa come 67 milioni di dollari a gruppi impegnati nel ritardare le politiche finalizzate a mitigare il cambiamento climatico.

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La campagna dei fratelli Koch La maggior parte delle strutture che hanno ricevuto il maxi-regalo da parte dei Koch fa parte dello State Policy Network, una sorta di associazione di vari think tank che si è prodigata contro le (peraltro timide) politiche ambientali del governo americano, organizzando conferenze e diffondendo – accusa ancora Greenpeace – rapporti non scientifici al fine di mettere in dubbio i risultati delle analisi ufficiali. Uno sforzo che ha prodotto i suoi frutti: l’associazione ambientalista ammette, infatti, che l’impegno dei due miliardari «ha portato ad una crescente resistenza da parte dei cittadini e delle organizzazioni in tutto il territorio nazionale». I Koch, infatti, hanno puntato soprattutto a convincere la popolazione, lanciando una vasta campagna di spot televisivi (studiati anche in vista delle legislative di novembre), gestiti dal gruppo lobbista Americans for Prosperity. Quest’ultimo dapprima si è scagliato contro la riforma sanitaria voluta da Obama, e successivamente ha cominciato a battere anche su altri temi, compreso quello del cambiamento climatico. Greenpeace, inoltre, ha accusato i due miliardari di aver «cooptato il Tea Party», l’ala estremista del Grand Old Party (GOP, così è chiamato il Partito repubblicano): tra di loro esisterebbe un legame ormai «ampiamente documentato». | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 47 |


| internazionale |

Obiettivo: negazione del cambiamento climatico Un comportamento che ha suscitato la reazione del leader della maggioranza democratica al Senato, il mormone Harry Reid. Tanto più che la lobby anti-ecologista non annovera di certo soltanto i Koch: uno studio condotto dall’Università di Drexel ha rivelato che a spingere per la negazione del cambiamento climatico ci sono numerosi “donatori”. E ben organizzati. «Il movimento ha avuto un impatto reale, dal punto di vista ecologico e politico: sono riusciti ad impedire al mondo un’azione contro il riscaldamento globale», ha dichiarato l’autore dell’analisi, il sociologo Robert J. Brulle. La ricerca ha individuato 140 organizzazioni che si sono prodigate nel minimizzare il cambiamento climatico, effettuando complessivamente 5.299 donazioni, per un totale di 558 milioni di dollari. Tra queste, oltre ai Koch, figura la ExxonMobil, così come fondazioni conservatrici, tutte estremamente ricche. «Quello che si pone – ha concluso Brulle – è innanzitutto un problema di democrazia. Il denaro amplifica alcune voci rispetto ad altre, garantendo

un megafono rivolto verso l’opinione pubblica». Senza che quest’ultima sappia chi c’è dietro tali sforzi.

Un miliardario anche per i democratici Da parte loro, però, i democratici non sono stati a guardare. E anche loro hanno un miliardario dalla loro parte: si tratta di Tom Steyer, fondatore dell’hedge fund Farallon Capital, che ha annunciato il 20 febbraio un contributo

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da 100 milioni di dollari per rafforzare la campagna per la lotta al climate change. Cinquanta milioni li metterà il magnate, di tasca propria; l’altra metà conta di raccoglierla da altri donatori. Cambiamento climatico e limiti alle emissioni nocive saranno i cavalli di battaglia dell’iniziativa, ma non mancheranno temi specifici, come ad esempio quello legato al mega-oleodotto Keystone XL, che dovrebbe portare il greggio estratto nella provincia canadese di Alberta verso le raffinerie texane di fronte al Golfo del Messico, attraversando quasi per intero il territorio degli Usa (il tragitto previsto è di 2.700 chilometri). Un progetto nei cui confronti si sono già scagliate numerose associazioni ambientaliste americane. Assieme a Steyer, anche il senatore democratico dell’Alaska Mark Begich ha lanciato una campagna pubblicitaria in risposta a quella targata fratelli Koch. L’obiettivo è soprattutto quello di colpire i due miliardari che hanno sovvenzionato gli spot di Americans for Prosperity, smontando una a una le loro argomentazioni. 


| internazionale | tesoro energia |

Mozambico, nuova terra di conquista di Valentina Neri

Ricco di risorse naturali e collocato in una posizione interessante per le economie asiatiche in crescita, il Paese africano è una preda ambita per i colossi dell’energia. La popolazione locale patisce e la tensione sta salendo a terra lasciata al suo destino – e alla guerra civile che l’ha dilaniata per un decennio – è diventato il centro delle mire di potentissime multinazionali straniere, pronte ad accaparrarsi le sue risorse. E a pagarne il prezzo ora rischia di essere la popolazione, spodestata dal proprio territorio ed esposta al rischio di nuovi disordini. È la storia del Mozambico, esempio da manuale di un neocolonialismo ancora duro a morire.

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Le mani delle multinazionali Ma facciamo un passo indietro. Al momento dell’indipendenza agli occhi stranieri il Mozambico sembrava tutt’altro che appetibile. Al contrario, un Paese “gemello” come l’Angola, anch’esso di colonizzazione portoghese, si trovava teatro di uno scontro senza esclusione di colpi che vedeva contrapposti, da un lato, Unione Sovietica e Cuba e, dall’altro, Stati Uniti e Sudafrica. Divisi da motivi politici, ma anche e soprattutto dalla volontà di mettere le mani su petrolio e diamanti. A vent’anni dalla pace, però, sono cambiate le carte in tavola. E «il Mozambico si scopre essere un Paese che ha moltissime risorse naturali, che per di più sono collocate in modo favorevole: essendo sulla costa dell’Oceano Indiano, sono a portata di mano per le economie asiatiche in crescita», racconta Raffaele Masto, giornalista che all’Africa ha dedicato il suo blog (www.buongiorno africa.it) e diversi libri (vedi BOX a pag. 50). Di fronte a queste prospettive, le multinazionali dell’energia non si fanno certo

attendere. Stando ai dati ufficiali, aggiornati a ottobre del 2012, nella sola provincia di Tete il governo ha già accordato 245 concessioni minerarie, che coprono il 34% dell’area. Una percentuale che sale

fino al 60% se si prendono in considerazione anche tutte le richieste ancora in attesa del via libera dalle autorità. Ad aggiudicarsi la più grande miniera di carbone a cielo aperto è la brasiliana Vale, vin-

UN PO’ DI STORIA Con l’indipendenza dal Portogallo, conquistata nel 1975 dopo un decennio di guerriglia, per il Mozambico i problemi non sono certo archiviati. A guidare il Paese è Samora Machel, leader del Frelimo, il Fronte di Liberazione del Mozambico, che è stato protagonista della lotta per l’indipendenza. Si tratta di un movimento di stampo socialista che costituisce un regime monopartitico, alleato politicamente con l’Unione Sovietica e altri movimenti indipendentisti come l’African National Congress, in prima linea contro l’apartheid in Sudafrica. Si guadagna così l’opposizione del governo statunitense e dei vicini Sudafrica e Rhodesia che finanziano la fondazione del Renamo, un movimento armato anticomunista. Il contrasto tra Frelimo e Renamo sfocia in una sanguinosa guerra civile che dura per tutti gli anni Ottanta e porta al bilancio tragico di circa un milione di caduti e cinque milioni di dispersi. Senza contare la piaga delle mine antiuomo, che ancora oggi incombe sulla popolazione. La pacificazione viene finalmente raggiunta nel 1992 e, non a caso, per siglare il trattato si sceglie la città di Roma. Fondamentale è, infatti, la mediazione della Comunità di Sant’Egidio, sostenuta dalle Nazioni Unite. Da quel momento in poi, in Mozambico formalmente vigono le elezioni libere, nelle quali tuttavia il Frelimo mantiene un dominio incontrastato che dura fino a oggi.

IL PAESE IN CIFRE Nome: Mozambico Capitale: Maputo Governo: Repubblica Indipendenza (dal Portogallo): 1975 Popolazione: 24,096,669 ab. (2013) Pil pro capite: 1200 $ (2013) Tasso di crescita 2013: 7% Tasso d’inflazione: 4.4% (2013) Disoccupazione: 17% (2007) Alfabetizzazione: 44,4% (2011) Popolazione sotto la soglia di povertà: 54% (stima 2008) Mortalità infantile: 74/1.000 nati Speranza di vita: 52,29 anni (2013)

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| internazionale | CABO DELGADO

GIACIMENTI IN MOZAMBICO

NIASSA

NAMPULA

OFFSHORE Complesso di Mamba: Gas naturale, ENI (Italia) Coral: Gas naturale, ENI (Italia) Rovuma Basin: Gas naturale, Anadarko (USA) Golfinho/Atum: Gas naturale, Anadarko (USA)

ad Armando Guebuza, si conosce già: è l’attuale ministro della Difesa Filipe Nyussi, scelto a marzo dal Congresso del Frelimo, il partito che mantiene il potere da oltre vent’anni (vedi BOX a pag 49).

ZAMBEZIA

TEMANE Temane: Gas naturale, Sasol (Sudafrica) PROVINCIA DI TETE Chirodzi: Carbone, Jindal Steel and Power Limited (India) Muturara: Carbone, Mozambi Coal (Australia) Songo: Carbone, Mozambi Coal (Australia) Tete Ovest: Carbone, Mozambi Coal (Australia) Moatize Basin quattro miniere: Zambeze, Tete East, Benga, Zululand: Carbone, Rio Tinto (UK - Australia) Moatize: Carbone, Vale (Brasile) Moatize: Carbone, Beacon Hill Resources (Regno Unito) Pande: Gas naturale, Sasol (Sudafrica)

SOFALA

MANICA

GAZA

MAPUTO

INHAMBANE Provincia di Inhambane: Petrolio, Sasol (Sudafrica)

citrice nel 2012 del ben poco ambito Public Eye Award, il riconoscimento “in negativo” per il pesantissimo impatto sociale e ambientale delle sue attività. Ma ci sono anche Rio Tinto, che nel 2011 ha acquisito le operazioni avviate dall’australiana Riversdale, l’indiana Jindal e la britannica Beacon Hill Resources. Eni, invece, punta sull’estrazione di gas naturale offshore e sceglie come partner i cinesi di Petrochina Company, a cui a marzo dello scorso anno ha venduto il 20% della sua riserva nell’area 4. Un’operazione che ha fatto incassare ben 4,2 miliardi di dollari all’azienda del cane a sei zampe. Di gas naturale, d’altronde, il Mozambico è ricchissimo: stando alla compagnia di Stato Enh, le riserve raggiungono i 250 triliardi di piedi cubici. Da gennaio di quest’anno la sudafricana Sasol ha avviato anche le estrazioni di petrolio, in un giacimento nella provincia di Inhambane, nel Sud, che produrrà all’incirca duemila barili al giorno. Una quantità che in termini commerciali è piuttosto ridotta ma può risultare strategica per diversificare la produzione (vedi MAPPA in questa pagina).

Comunità sradicate E quando gli insediamenti delle comunità locali (costituite principalmente da | 50 | valori | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 |

agricoltori di sussistenza) rischiano di ostacolare l’attività delle multinazionali dell’energia la soluzione si chiama reasentamiento: vale a dire spostare interi villaggi e ricostruirli a chilometri di distanza. La prima a intraprendere questa strada – riporta Human Rights Watch – è stata Vale, che tra il 2009 e il 2010 ha costruito ex novo il villaggio di Cateme per 1.365 famiglie, che già tre anni dopo bloccavano la ferrovia per protesta perché alle prime piogge le loro nuove case avevano iniziato a mostrare crepe. Hanno seguito l’esempio anche Rio Tinto (un migliaio di persone trasferite a Mwaladzi dalla miniera di Benga) e Jindal, che nell’arco dei prossimi due anni ha intenzione di spostare 484 famiglie. Ma – denuncia Oxfam, che ha visitato Mwaladzi e Cateme – «i terreni non sono fertili e le famiglie non sono in grado di coltivare le loro colture tradizionali come sorgo, mais, canna da zucchero, arachidi e ortaggi». L’approvvigionamento idrico è «irregolare e inadeguato» e le popolazioni si trovano obbligate a fare affidamento su «donazioni alimentari e limitate opportunità economiche». Di fronte alle difficoltà della popolazione, la politica sembra tacere. Le prossime elezioni presidenziali sono previste per il 15 ottobre, ma il vincitore, che succederà

Riemergono le tensioni Ma qualcosa sembra muoversi. Lo testimonia Streng Cerise, che ha lavorato in Mozambico per l’associazione Lvia: «L’accentramento del potere e l’alto tasso di corruzione fanno sì che la popolazione non riesca a beneficiare dei proventi delle attività estrattive. Ma sta emergendo una società civile più strutturata, che inizia a farsi sentire: l’anno scorso per esempio l’intero corpo medico del Paese, per la prima volta, ha scioperato per una settimana. In zone come quella di Maputo si vive un clima di instabilità e insicurezza crescente». Un’instabilità che rischia di manifestarsi attraverso nuove turbolenze. La Renamo ha interrotto l’accordo di pace lo scorso 21 ottobre, quando l’esercito ha occupato la base a Gorongosa in cui è rifugiato il suo leader Afonso Dhlakama. E i momenti di tensione, in questi mesi, iniziano a farsi frequenti. «È evidente che questa conflittualità risorta dalle ceneri è figlia del fatto che sono state trovate risorse strategiche», spiega Raffaele Masto. «Possiamo ipotizzare che ci siano contrasti interni sul modo in cui il governo gestisce concessioni e diritti di sfruttamento, oppure che a non essere d’accordo sia qualche potenza straniera». 

LIBRI Raffaele Masto In Africa Sperling & Kupfer, 2003

Raffaele Masto L’Africa del tesoro Sperling & Kupfer, 2006

Raffaele Masto Buongiorno Africa. Tra capitali cinesi e nuova società civile Bruno Mondadori, 2011


| consumiditerritorio |

CryptoKids

Lezioni di spionaggio per bambini nternet è un grande spazio aperto [...] ma ci sono persone là fuori che non hanno a cuore il vostro bene, riflettete bene prima di condividere informazioni private, soprattutto sui siti dei social network». Come non sottoscrivere questo sensato consiglio ai bambini su come approcciarsi al mondo on line? Possiamo stare certi che arriva da chi conosce

«I

di Paola Baiocchi

direttamente quali sono i rischi, ma anche le risorse, che possono nascere dalla raccolta di informazioni personali, perché a parlare è la National Security Agency/Central Security Service (Nsa), la segretissima agenzia statunitense sulla quale il suo ex collaboratore con contratto a termine, Edward Snowden, ha ultimamente raccontato molto. Su CryptoKids, il sito della Nsa dedicato ai bambini dalle elementari in su, si possono trovare raccomandazioni banali, come «Tieni la tua password segreta!», ma è possibile anche farsi l’idea che spiare sia utile, bello e non sia mai troppo presto per cominciare. Il sito non è nuovo, è nato da una direttiva del presidente Bill Cinton alle agenzie federali perché queste sviluppassero strumenti di «divulgazione delle attività di governo per i bambini». Alcuni giornali l’hanno riscoperto e ne hanno parlato con toni più folkloristici che di denuncia, dopo le rivelazioni di Snowden sulle imponenti attività di spionaggio illegale della Nsa su comuni cittadini, società o capi di governo. Il format di CryptoKids è semplice: c’è una serie di personaggi guida, animali disegnati come super eroi dei fumetti, di cui si possono conoscere abitudini e biografie. Ci sono: «Crypto Cat, Decipher Dog, Rosetta Stone, Ardesia,

Uniti per il loro amore per il lavoro infantile e, anzi, li stiamo seguendo, almeno a giudicare dall’abbondanza di trasmissioni con cantanti in età scolare. D’altronde con il boom di dodicenni e tredicenni che inventano algoritmi e applicazioni che generano profitti milionari, alla Nsa si saranno detti che non è più il caso di aspettare l’età del college per reclutare talenti. Sperando inoltre che, le spie formate fin da piccole, restino fedeli alla “ditta” senza le crisi di coscienza degli adulti. Periodicamente vengono alla luce rivelazioni sconvolgenti sulle attività della Nsa: nel 1996 il Parlamento europeo ha pubblicato un rapporto su Echelon, la rete globale messa in piedi dalle intelligence dei Paesi anglosassoni, in grado di spiare qualsiasi tipo di comunicazione commerciale o privata, telefonica, via fax o telegramma. In nome della lotta al terrorismo sono stati bloccati tutti i tentativi di contenimento di queste ingerenze. Secondo Snowden la Nsa e il governo statunitense avrebbero fatto pressioni perché le leggi dei vari Paesi meno gradite a Washington venissero modificate. Una cosa è certa: se vengono reclutati anche i bambini è in corso una vera e propria guerra. 

Super eroi insegnano ai bambini a fare le spie. E si può anche trovare un lavoro Joule, T.Top, CyberTwins (i cyber gemelli Cy e Cyndi) e, naturalmente, il nostro leader CSS Sam». Rosetta è una volpe analista esperta in decifrazione e arti marziali orientali. T.Top invece è una tartaruga che ha imparato i segreti del computer dallo zio Mack (!). Tra istruzioni su codici e cifre e attività per imparare a criptare i propri messaggi, i giovanissimi che scoprono di essere bravi in questi giochi possono decidere di trasformare la passione in un lavoro, cliccando sull’immagine “Come posso lavorare per la Nsa?”. Se una simile operazione di coscrizione precoce fosse targata Russia o Cina, si leverebbero alte le accuse di indottrinamento dittatoriale e di becera propaganda. Ma da Shirley Temple in poi abbiamo smesso di criticare gli Stati

www.nsa.gov/kids | ANNO 14 N. 117 | APRILE 2014 | valori | 51 |


| LASTNEWS |

altrevoci EFFETTO FED, SUONA L’ALLARME PER LE OBBLIGAZIONI SPAZZATURA

Dopo aver messo in crisi i mercati emergenti, la svolta nella politica monetaria effettuata dalla Federal Reserve Usa potrebbe fare presto o tardi un’altra vittima: il mercato dei junk bonds, le “obbligazioni spazzatura”. Lo ha lasciato intendere, a colloquio con Bloomberg, Jeffrey Gundlach, numero uno della società finanziaria DoubleLine Capital, impegnato ultimamente a disinvestire dal comparto. Per anni, ricorda Bloomberg, la Fed ha inondato il mercato di liquidità a basso costo inducendo gli investitori a cercare rendimenti più elevati. Parte di questo denaro è finito nei mercati emergenti, ma un ammontare non indifferente ha gonfiato anche il comparto dei junk bonds che, per sua natura (si tratta di titoli rischiosi con un basso livello di rating), offre rendimenti particolarmente appetibili. Dalla fine del 2008 ad oggi, ricorda Bloomberg, i junk bonds hanno reso complessivamente il 148%. Secondo Bank of America Merrill Lynch, il controvalore del comparto ammonta oggi a 1.970 miliardi d dollari, contro i mille scarsi del 2009. Per anni molti investitori hanno preferito i junk bonds ai treasuries, i titoli di Stato Usa, a fronte dei rendimenti troppo bassi offerti da questi ultimi. Ma l’aumento dei profitti sperimentato ultimamente dai treasuries stessi potrebbe indurre gli investitori ad abbandonare l’alternativa junk. Non senza conseguenze. [M.CAV.]

USA, IN ARRIVO I DERIVATI SUI BITCOIN

UN CIOCCOLATINO MOLTO PIÙ BUONO

ZUCCHERO E DIRITTI SPAVENTANO IL REGIME

Costruire e scambiare titoli finanziari derivati che abbiano come sottostanti i bitcoin. È l’ipotesi allo studio di diverse società interessate ad avviare le operazioni e attualmente impegnate a valutarne gli aspetti regolamentari. Lo ha riferito a metà marzo la Reuters segnalando come le richieste di informazioni siano già state avanzate alla Commodity Futures Trading Commission (CFCT), l’ente regolamentare che dovrebbe occuparsi del controllo del comparto. Bart Chilton, membro della CFTC, ha confermato che, in caso di diffusione di derivati sulla valuta virtuale, l’onere della vigilanza e della regolamentazione toccherebbe proprio alla sua agenzia. La notizia confermerebbe l’idea sempre più diffusa dell’affermazione dei bitcoin come prodotto finanziario vero e proprio, un asset problematico, magari, ma di fatto sempre più integrato nei mercati tradizionali. L’aspetto paradossale in ogni caso non mancherebbe. Dal momento che i legislatori non hanno ancora raggiunto una definizione ultima e condivisa sul bitcoin, la diffusione di prodotti strutturati costruiti su di esso metterebbe gli enti di controllo in una situazione per lo meno curiosa: la CFTC avrebbe l’autorità di vigilare sui derivati ma nessuno, nemmeno la Sec o la Federal Reserve, avrebbe la possibilità legale di intervenire sui loro sottostanti. Ovvero sui bitcoin stessi. [M.CAV.]

La notizia è che un colosso (italiano) da 8,1 miliardi di euro di fatturato (2013) investe nel commercio equo e solidale. Ferrero ha infatti annunciato la sua partnership con Fairtrade per acquistare, nell’arco dei prossimi tre anni, 20mila tonnellate di cacao certificato equosolidale, proveniente innanzitutto da cooperative della Costa d’Avorio, a loro volta certificate. Una vittoria importante e di prospettiva, se pensiamo che un portavoce di Ferrero ha affermato che entro il 2020 l’azienda «acquisterà cacao sostenibile certificato al 100% per i prodotti dolciari»; ma anche un successo immediato per i coltivatori, poiché l’accordo assicura loro maggiori vendite a condizioni più eque, e allo stesso tempo il margine di guadagno aggiuntivo che deriva dal marchio Fairtrade, certificazione etica in grado di assicurare un premium di 200 dollari (USD) a tonnellata di cacao, cifra corrisposta direttamente alle organizzazioni di produttori per avviare progetti di autosviluppo. E non può che gioire, infine, il direttore di Fairtrade Italia, Paolo Pastore: «L’accordo internazionale tra Ferrero e Fairtrade è un’ottima notizia per le organizzazioni di produttori e rafforza il nostro impegno nella costruzione di filiere etiche per aziende che vogliono fare della sostenibilità una chiave del loro business. Siamo convinti che sempre più aziende intraprenderanno questo percorso». [C.F.]

Un altro omicidio, il centottantesimo da luglio 2010 tra attivisti per la difesa dei diritti umani, sindacalisti, giornalisti, ambientalisti, insegnanti e leader di organizzazioni contadine, nelle Filippine del presidente Benigno Aqino III. Romeo Robles Capalla, presidente di PFTC (Panay Fair Trade Center), è stato ucciso il 15 marzo sull’isola di Panay, di fronte alla suocera anziana, a pochi metri dal municipio e dalla stazione di polizia della cittadina di Oton, a sette chilometri da Iloilo, capoluogo dell’isola. È il settimo bersaglio del 2014 di un’esecuzione compiuta “in perfetto stile militare”, secondo i testimoni. Poche ore dopo è stato bruciato il mulino di Kamada, cuore di un progetto di sviluppo e cooperazione finanziato anche dall’Italia, tramite la Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige, grazie al quale veniva lavorato da PFTC lo zucchero di canna “Mascobado”, destinato all’importazione di Altromercato nel circuito del commercio equo e solidale. Valori chiede verità e giustizia per questo delitto e molti altri simili senza colpevole. Assassinii, intimidazioni, persecuzioni giudiziarie come quelle che trattammo in passato: ad esempio la morte in un’imboscata di Jordan, figlio 11enne di Lucenio Manda, capo tribù impegnato in una campagna contro l’attività estrattiva e la distruzione delle foreste; o le pretestuose accuse di terrorismo e i processi – ancora in corso – istruiti contro Ruth Salditos, attivista per i diritti civili. www.altromercato.it [C.F.]

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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

MOLTO PIÙ DI UN SAPONE Stare puliti e profumati, partecipando a un progetto di cooperazione internazionale. Questo succede a chi acquista un Equokit, ecologico dal materiale usato per la promozione fino a confezione e contenuto: due flaconi di shampoo doccia al mandarino verde e una crema corpo prodotti con ingredienti naturali a km 0, liguri e provenienti dal commercio equo, oltre a un sapone artistico creato nel laboratorio di formazione professionale di Maison de l’Esperance, nella missione di Cotonou in Benin, dove le suore salesiane cercano di offrire riparo dalla strada e alternative di vita alle ragazze vittima di violenza. L’Equokit sostiene i corsi del laboratorio di saponeria e rappresenta un viaggio di solidarietà tra Genova, sede della cosm-Etica naturale di Naturaequa, e l’Africa. Un viaggio che fa tappa a Milano, per la presentazione del progetto a “Fa’ la cosa giusta!”, il 30 marzo alle 15, con Alessandra Ferri, per anni operatrice nella missione di Cotonou, e il nostro direttore Andrea Di Stefano: un’occasione per ascoltare un resoconto dei risultati dell’iniziativa e acquistare a 10 euro gli ultimi Equokit disponibili. www.naturaequa.com/equa/equokit

IL MATRIMONIO FIORISCE FIN DALLE PARTECIPAZIONI Se mi ami mi pianti: non è un paradosso, ma una soluzione originale per dare un tocco green al proprio matrimonio, con una partecipazione in carta riciclata arricchita da semi di fiori selvatici. Dopo la cerimonia, l’invito si può piantare e annaffiare: con un po’ di pazienza si vedranno germogliare dei fiori di campo. L’idea è della cooperativa Ingresso Libero di Torino – che da quindici anni si occupa di legatoria, restauro e cartotecnica – in collaborazione con la società di grafica Mirabilia. «Un paio d’anni fa abbiamo avuto un momento di grande difficoltà – racconta l’amministratore Vito Cappa – ma abbiamo scelto di non piangerci addosso e buttarci in un nuovo progetto. Le proposte tradizionali per il matrimonio erano già innumerevoli, quindi abbiamo scelto di puntare sui nostri rapporti, coltivati da tempo, col mondo dell’equo e solidale». Anche Bianco Sposi è stata tra le realtà che hanno pensato e animato la sezione Eco Wedding, una delle novità dell’edizione di “Fa’ la cosa giusta!” di quest’anno: un’unica area dove trovare bomboniere, viaggi di nozze, fedi, abiti da sposa e molto altro. Tutto all’insegna della sostenibilità. www.biancosposi.net

SI RICOMINCIA DALLA CERAMICA Vasi, ciondoli, vassoi, mattonelle, bomboniere. Tutti in ceramica e tutti realizzati da ragazzi che vengono da una storia difficile e, imparando a “sporcarsi le mani”, cercano di costruire la propria strada per la vita adulta. Merito della Fondazione Il Meglio di Te, nata nel 2005, che a partire dal 2007 ha iniziato a operare all’interno dell’Istituto penale per i minori di Nisida, in provincia di Napoli. Un carcere che ospita una quarantina di ragazzi che – grazie a una serie di associazioni – si mettono alla prova non solo con la ceramica, ma anche con pasticceria, falegnameria, scrittura creativa. Una volta scontata la pena, a gestire il delicato periodo di transizione ci pensano i corsi di formazione professionale organizzati dalla Fondazione insieme alla Multicenter School. È sempre la Fondazione, in seguito, a cercare «artigiani, commercianti e imprenditori che assumano i ragazzi con stage che vanno dai sei ai diciotto mesi, inizialmente finanziati da noi», spiega la presidente Flavia Russo. Che, però, ammette: «La cosa più difficile è trovare i datori di lavoro interessati, perché bisogna ancora scontare troppi pregiudizi». www.ilmegliodite.it

NASCE IL PRIMO GAS PER LE AUTO ECOLOGICHE Luca, formatore di Varese, vuole comprare un’auto ibrida. Cercando informazioni sui forum, conosce Gianalfredo, socio della cooperativa milanese BotteGas. Da qui, nel giro di pochi mesi, nasce il Gruppo Acquisto Ibrido (Gai), che per la prima volta in Italia replica il meccanismo dei Gas per incentivare l’acquisto di auto ibride, raggiungendo la “massa critica” necessaria ad abbassare il prezzo. Il Gai, che a ottobre si è costituito in associazione culturale, ha già concluso tre transazioni: la prima ha coinvolto 16 persone, la seconda 40, la terza 60. E un’altra si sta chiudendo in queste settimane. Per unirsi al Gai basta compilare, senza impegno, un modulo sul sito e andare a provare il modello scelto dal gruppo. Raccolte le adesioni, Luca e Gianalfredo si incaricano di contattare un concessionario e portare avanti la trattativa: «Di solito otteniamo uno sconto sul prezzo finale ma anche qualche agevolazione su gomme da neve, tagliando o antifurto», spiega Gianalfredo. Solo alla fine la persona paga la quota simbolica per iscriversi all’associazione e conclude personalmente l’acquisto. Dopo la partecipazione a “Fa’ la cosa giusta!”, il 13 aprile i membri del Gai si incontreranno nel primo #GaiPride, un giro del Lago Maggiore con vetture ibride: a vincere non sarà l’equipaggio più veloce, ma quello che consuma meno. www.gruppoacquistoibrido.it

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| bancor |

La globalizzazione dietro la crisi

I destini dell’euro li architetti della moneta unica europea sottovalutarono due dei temi forse più rilevanti per il sistema economico globale del quale l’euro doveva essere un motore importante: la globalizzazione e la crescita della Cina. Non ne parla il Rapporto Delors (1989), né tantomeno la prima proposta formale per un’unione monetaria in Europa, il Piano Werner del 1970.

G

dal cuore della City Luca Martino

Col senno di poi, una mancanza tanto grave quanto incomprensibile. È sotto gli occhi di tutti quanto la globalizzazione abbia rappresentato per l’Eurozona quello che in economia si definisce uno straordinario “shock asimmetrico”: qualcosa che induce situazioni di crisi diverse in settori o mercati, sì diversi, ma connessi tra loro per via di qualche variabile macroeconomica, in questo caso un’unione monetaria. Prendiamo ad esempio l’indice di complementarità del commercio della Banca Mondiale: la metà dell’export tedesco risulta compatibile con gli usi e i costumi cinesi, un valore che si dimezza se si considerano i prodotti e i servizi esportati sui mercati esteri da Paesi come Irlanda o Polonia. Si pensi ancora al settore tessile, qualche anno fa industria fiorente in molti Paesi del sud Europa e oggi praticamente azzerato dai prodotti e dalla manodopera a basso costo provenienti dalla Cina. Un confronto tra Italia e Germania ci indica poi un’altra misura sugli effetti “asimmetrici” della globalizzazione: la nostra economia è oggi in termini reali più o meno la stessa di 15 anni fa, quando l’euro entrò in circolazione, mentre quella tedesca è cresciuta di quasi il 20%. In situazioni normali la flessibilità dei tassi di cambio tra le valute di Paesi

Ciò ha originato il secondo problema dell’Eurozona, l’indebitamento pubblico: un eccessivo regime di spesa, in rapporto a crescite inferiori alle attese, ha creato quei deficit che si sono tradotti in debiti insostenibili. La globalizzazione è stata, probabilmente, il fattore più determinante dietro la crisi dell’euro. D’altra parte fu la globalizzazione a salvare la moneta unica dal disastro che si prospettava nell’estate del 2011 quando infuriava la tempesta della speculazione. La composizione del portafoglio di attività e investimenti del governo cinese è una sorta di segreto di Stato, ma il suo totale no: quasi 4mila miliardi di dollari, due volte il nostro debito pubblico, di cui il 40% concentrato in Europa. L’antica ostilità di Pechino verso il dollaro, in attesa che il renminbi diventi la prima o la seconda valuta mondiale, sta salvando l’euro dal fallimento. Non siamo ovviamente al riparo da ogni rischio: molto dipenderà anche dalle prossime elezioni europee. Per quanto ancora i Paesi del Nord Europa, principalmente i tedeschi, sosterranno i Paesi del Sud del continente? E per quanto ancora Grecia, Italia, Spagna, e per molti versi anche la Francia, delegheranno la propria sovranità nazionale ai vincoli di Maastricht e Frantodebate@gmail.com coforte? 

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La globalizzazione ha avuto effetti asimmetrici: l’Italia ha subito una bassa crescita e un alto debito pubblico coinvolti in simili dinamiche della bilancia commerciale e dei rispettivi tessuti industriali rappresenta un cuscinetto efficace, quantomeno per le crisi più significative. Ciò ovviamente non vale nell’ambito di unioni monetarie tipo quella europea: l’unica soluzione resta la cosiddetta “svalutazione interna”, un processo di sostegno alle esportazioni tramite la contrazione di prezzi e salari sul mercato interno. È quanto sta avvenendo da qualche anno in gran parte d’Europa, non solo in Italia. Risultato: nel 1998 l’Europa Occidentale valeva un terzo dell’economia mondiale, oggi si prevede che entro dieci anni scenda a meno del 15%.


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