Mensile Valori n. 114 2013

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 114. Novembre 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Rifiuti umani Ilva: inquinamento che uccide. La bonifica costa meno dei danni provocati Finanza > Il futuro di Mps nelle mani di Bruxelles. La nazionalizzazione è dietro l’angolo Economia solidale > I big dell’agro-industria all’attacco dei vertici Ue: chiedono carta bianca | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Vent’anni di errori. Gli economisti del Fmi fanno ammenda: cambiamo rotta


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| editoriale |

Ilva e non solo di Andrea Di Stefano

C’

è un filo rosso che lega due storie che Valori racconta in questo numero. Apparentemente così lontane, la vicenda delle bonifiche e quella dell’attacco al principio di precauzione, sono invece due poli dello stesso problema: i limiti di un sistema economico e sociale che, nonostante l’enorme mole di informazioni scientifiche, ritiene di non poter sopportare alcun confine in nome dell’innovazione. Le parole usate nella lettera degli amministratori delegati e capi d’azienda di Bayer, Basf, Dow Chemical, Corning e Agro, Henkel, Novartis, Solvay, Syngenta e Curis, appoggiati da multinazionali hi-tech del calibro di Ibm e Philips sono un vero e proprio manifesto: «L’innovazione è, per definizione, un attività che comporta dei rischi. Questi rischi devono essere riconosciuti, stimati e gestiti, ma non possono essere evitati, se la società vuole superare sfide importanti come quelle della sicurezza e della sostenibilità alimentare, idrica ed energetica. L’Europa ha stabilmente cercato un approccio bilanciato alla gestione del rischio tramite un rigoroso metodo su base scientifica e un attento bilanciamento dei principi di precauzione e proporzionalità nelle regolamentazioni di riferimento. Mentre il principio di precauzione richiede di evitare i rischi, il principio di proporzione permette che i benefici dell’assunzione di rischi siano messi a confronto con le possibili conseguenze, sulla base della migliore evidenza disponibile. Il nostro timore è che il necessario bilanciamento di precauzione e proporzionalità sia sempre più spesso sostituito dal mero affidamento al principio di precauzione e al tentativo di evitare il rischio tecnologico». Sarebbe interessante un’analisi reale sui costi che la collettività ha sopportato nell’ultimo secolo a causa di “innovazioni” che hanno lasciato, e lasciano, pesanti eredità, dirette e indirette, per la salute umana. Temiamo che nessun istituto di ricerca pubblico riceverà mai le risorse necessarie per effettuare questo studio. Proprio per questo crediamo che debba essere acceso un riflettore sui siti da bonificare. Decine di milioni di persone in tutta Europa stanno pagando e pagheranno costi umani e sociali altissimi per l’inquinamento di attività produttive che creano un danno ingentissimo. Sappiamo che le attività di bonifica sono il primo passo per tentare di mettere un argine alla voragine economica che il mancato intervento sta già producendo. Investendo 100 euro in attività di risanamento è possibile risparmiare da 15 a 40 volte i costi connessi all’insorgenza delle patologie più o meno gravi connesse ai fattori di inquinamento e da 10 a 14 volte i danni fondiari riconducibili al deprezzamento del valore di aree e immobili presenti nelle aree confinanti con quelle da risanare. Le bonifiche, che non sono quindi un costo, rappresentano il punto di partenza per testimoniare il valore del limite economico e sociale e, per questo, è indispensabile concretizzare al più presto le attività operative, utilizzando le risorse disponibili, a cominciare dai fondi strutturali comunitari. È venuto il tempo di rompere gli indugi per una rivoluzione economica che può avere importanti ricadute sui sistemi locali, non solo sul fronte prettamente del risanamento ambientale. 

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fotoracconto 02/05

Questo fotoracconto fa parte del lavoro che da anni PeaceLink porta avanti sull’Ilva (ringraziamo la redazione e il fotografo Luciano Manna per averci concesso di pubblicare le foto). L’associazione nel 2011 ha tagliato il traguardo dei due decenni di storia: ventidue anni, oggi, di campagne e denunce portate avanti esclusivamente su base volontaria, grazie alle donazioni dei lettori, e pubblicate su www.peacelink.it, con una serie di libri e, dallo scorso anno, una Web Tv. Tra i tanti temi esplorati da questi volontari dell’informazione, che spaziano dal pacifismo all’immigrazione, dal consumo critico al Sudamerica e alla Palestina, l’Ilva ha sempre avuto un ruolo di rilievo. Già nel 2001, molto prima che il tema conquistasse le prime pagine dei quotidiani nazionali, un articolo denunciava l’aumento vertiginoso di morti per neoplasie tra gli operatori dello stabilimento. | 4 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

È stato seguito da numerosi incontri pubblici, appelli alle istituzioni e un Dossier Mercurio che nel 2007 denunciava che a Taranto era concentrata la metà del mercurio presente in Italia. Affermazioni che sono costate agli ambientalisti una querela da parte di Emilio Riva, archiviata dal Gip a marzo del 2008 perché “infondata”. Lo stesso anno PeaceLink e il Fondo Antidiossina hanno iniziato a far analizzare a proprie spese i prodotti caseari della zona e in seguito i frutti di mare, dopo aver riscontrato la presenza di diossina. Poche settimane fa, il 18 ottobre, Antonia Battaglia è stata invitata in rappresentanza delle associazioni a riferirne al Parlamento europeo, dopo l’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia da parte della Commissione a causa dei danni ambientali e dei mancati controlli.

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L’Ilva vista dalla masseria Fornaro, dove sono stati abbattuti circa duemila capi bestiame, pecore e capre. I capi sono stati smaltiti come rifiuto tossico (vedi anche la denuncia di PeaceLink sulla diossina nel pecorino nel 2008). La masseria Fornaro attualmente ha convertito la propria attività, viveva di pastorizia e prodotti derivati dal 1859, oggi alleva cavalli utilizzati per l’ippoterapia.


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| sommario |

novembre 2013 mensile www.valori.it anno 13 numero 114 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop., Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Arianna Angeloni, Lucas Brunelle, A. Ferrillo (Bicycle Film Festival); Roger Anis, S. Behn, Dodudidochon (http://commons.wikimedia.org); www.marcocremascoli.it; www.firstfloorunder.com; © Deutscher Bundestag / Werner Schüring; Ilja Luciani

fotoracconto 01/05 Lo stabilimento dell’Ilva di Taranto. Quello che si vede è vapore acqueo delle torri di spegnimento delle batterie di cokeria. Molti pensavano che fosse innocuo, invece nell’infrazione notificata da Ispra a luglio 2013 anche il vapore acqueo risulta sforare i limiti consentiti per le sostanze nocive.

dossier Rifiuti umani

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Ambiente ostile Bonificare è meglio che curare Dove cercare le risorse Tumori infantili e inquinamento ambientale

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 29 ottobre 2013 in posta: 31 ottobre 2013

globalvision finanzaetica

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Montepaschi: sedotta e abbandonata nelle mani di Bruxelles Risparmio tradito. Scatta l’ora delle riforme Shutdown! Così vacilla il sogno americano

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valorifiscali numeridellaterra economiasolidale

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I giganti dell’agrochimica all’attacco dell’Europa “Lasciateci le mani libere!” Slow Food: «La scienza è ricerca, non mercato» La Valsusa in Toscana L’Italia della concia alla conquista del mondo Ambiente, tra sforzi e furbetti

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socialinnovation internazionale

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Fmi: venti anni di errori e di pentimenti GB: sale la protesta anti-shale gas Diseguali per legge

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avvistamenti altrevoci bancor

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Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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dossier fotoracconto

a cura di Corrado Fontana, Paola Baiocchi, Valentina Neri e Daniela Patrucco

03/05

Una veduta dal mare dello stabilimento Ilva di Taranto. L’impianto costituisce uno degli esempi più lampanti di come l’industria sia diventata sempre più insostenibile per l’ambiente e per la salute pubblica.

Ambiente ostile > 8 Bonificare è meglio che curare > 10 Dove cercare le risorse > 12 Tumori infantili e inquinamento ambientale > 14


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Rifiuti umani Sono 500 mila i siti inquinati in tutta Europa, 57 le aree in Italia che dovrebbero essere bonificate Risanarli costerebbe meno degli enormi danni ambientali e sanitari che provocano. Per ora non accade

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dossier

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Ambiente ostile di Corrado Fontana

hi inquina paga”. Semplice, lineare, ineccepibile. Questo è il principio stabilito dall’Unione europea e messo nero su bianco dalla direttiva 2004/35/CE. Una norma in vigore da nove anni, ma poco applicata, tanto che finora – e purtroppo per diversi decenni a venire – a caricarsi di tutte le conseguenze del danno ambientale sono stati i territori e la salute dei cittadini che abitano o lavorano nei circa 500 mila siti contaminati d’Europa. Aree da bonificare, i cui costi da contaminazione sono stati stimati dalla stessa Ue nel 2006 tra i 2,4 e i 17,3 miliardi di euro l’anno. Una cifra enorme, certo, che toccherebbe in gran parte a imprenditori locali e multinazionali responsabili del problema. Eppure il costo della bonifica dell’intero continente europeo risulta sostenibile se paragonato a quelli assai più spaventosi (sanitari, sociali, da mancata occupazione, per danni alla qualità e produttività agricola, per la perdita d’interesse turistico) che la presenza degli inquinanti genera quotidianamente e a lungo (o lunghissimo) termine.

“C

L’Unione europea ora è preoccupata di ciò, e legifera in merito, pubblica rapporti e studi, cerca di mettere in connessione e uniformare diverse banche dati sanitarie e ambientali per ampliare il monitoraggio. Ma il problema è vissuto anzitutto dai cittadini sulla propria pelle. In particolare da quelli italiani: circa 4,5 milioni abitano nei 187 comuni situati presso i 39 Sin (Siti d’interesse nazionale destinatari di bonifica) e quasi altrettanti vicino a quei 18 Sin “declassati” a competenza regionale nel marzo scorso. Un mese prima che genitori e bambini bresciani occupassero la scuola comunale “Grazia Deledda”, in protesta contro la mancata bonifica del suo terreno, intriso di policlorobifenili (Pcb) e diossine dall’ormai dismesso stabilimento chimico Caffaro; e cinque mesi prima che genitori e bambini di Taranto non potessero entrare nella loro scuola “Grazia Deledda”, sfollati perché l’edificio, troppo vicino al parco minerario e alla cokeria dell’Ilva, è in attesa della bonifica, già rimandata e ora prevista a inizio 2014. | 8 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

Centinaia di migliaia i siti contaminati in Europa, con danni all’ambiente e alla salute umana quasi incalcolabili. Bonificarli costa, ma potrebbe essere un affare per tutti, tranne per chi inquina Non è un teleromanzo Una battaglia per il diritto alla salute nei siti contaminati d’Italia, che spesso non trova difesa. A dimostrarlo chiaramente è “Sentieri”, ovvero lo “Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento”. Un lavoro imponente, coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss), che ha esaminato la mortalità per 63 gruppi di cause nel periodo 1995-2002 in 44 Sin (circa 6 milioni di persone in 298 comuni). Non solo l’indagine certifica un eccesso di mortalità significativo in quei territori, ma, seppure tra qualche caute-

UN BUON PRINCIPIO Così recita la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale: «La prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio chi inquina paga, quale stabilito nel trattato e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile. Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale». la, si spinge a mettere in relazione le emissioni di impianti specifici (raffinerie, poli petrolchimici e industrie metallurgiche) con le drammatiche risultanze sanitarie, laddove si possa escludere ragionevolmente un ruolo centrale delle esposizioni per motivi professionali. E allora afferma che, in tutti i Sin, tranne Emarese, riconosciuti come tali per la presenza esclusiva di amianto (o di fibre asbestiformi) – cioè Biancavilla, Balangero, Casale Monferrato, Broni e Bari-Fibronit – «si sono osservati incrementi della mortalità per tumore maligno della pleura e in quattro siti i dati sono coerenti in entrambi i generi (maschi e femmine, ndr)». Mentre per gli incrementi di mortalità da tumore polmonare e malattie respiratorie non tumorali a Gela e Porto Torres «è stato suggerito un ruolo delle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici; a Taranto e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese un ruolo delle emissioni degli stabilimenti metallurgici».

Conto salatissimo Responsabilità a parte, stiamo parlando di un tasso di “sovramortalità” osservata nei Sin che si traduce in 9.969 vittime (circa 1.200 persone l’anno) in 7 anni. Quasi 10 mila individui con un peso di infinite sofferenze, per sé e per i familiari. Per non dire dei costi che ciò comporta per gli Stati. Un’indagine condotta da Favo (Federazione italiana delle associazioni volontariato in oncologia) e Censis nel 2009 dice che l’Italia ha speso 8 miliardi e quasi 400


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PER APPROFONDIMENTI: • SENTIERI - Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità - 2011 • SIN ITALY - La bonifica dei siti d’interesse nazionale, a cura di Greenpeace - 2011 • Stato di salute della popolazione residente nelle aree a rischio ambientale e nei siti di interesse nazionale per le bonifiche della Sicilia, a cura del Dipartimento Attività Sanitarie e Osservatorio Epidemiologico - 2012 • Contaminated sites and health, a cura della World Healh Organization - 2012 • Soil Contamination: Impacts on Human Health, a cura della European Commission - 2013 • Policies to clean up toxic industrial contaminated sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis, a cura della London School of Hygiene and Tropical Medicine - 2011 MANNA / PEACELINK

milioni di euro in costi socio-economici per le patologie tumorali, cioè lo 0,58% del suo Pil (Germania 14,7 miliardi per uno 0,66%; Francia 9,9 miliardi per uno 0,59%; Regno Unito 6,3 miliardi per uno 0,38%). Certo non tutti i malati di cancro lo diventano per inquinamento ambientale, né l’inquinamento provoca solo tumori. Per rendere l’idea della convenienza di una bonifica fatta come si deve basterebbe però leggere uno studio effettuato nel 2009 da Carla Guerriero, cervello italiano in fuga alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, sulla situazione in Campania. Ai 143 milioni di euro preventivati da Stato e Regione per bonificare l’area del “Litorale Domizio e Agro Vesuviano”, dove si trovano la maggior parte dei siti di rifiuti pericolosi, si oppone il «valore stimato attuale del beneficio di ridurre il numero di decessi connessi alle scorie, pari a 11,6 miliardi di euro». Non c’è gara.  Di notte lo stabilimento Ilva di Taranto aumenta la produzione e di conseguenza le emissioni non controllate, dette non convogliate. Prassi non ufficiale, ma praticata da anni e documentata da PeaceLink.

I VELENI DELL’ILVA Il sito siderurgico di Taranto è produttivo dal 1960: la sua storia è quella del boom economico italiano, realizzato grazie al traino delle industrie di Stato e fermato dalle privatizzazioni. La cessione della siderurgia di Taranto è del 1995, quando il Gruppo Riva fa la sua offerta: il dominus dell’operazione è come sempre Romano Prodi. E come sempre resta opaca la cifra che i privati hanno effettivamente pagato. È invece chiaro che la fabbrica spande i suoi veleni per chilometri attorno a sé. Ecco come viene descritta la situazione nel Focus sulla città di Taranto del secondo studio del Progetto Sentieri, l’indagine epidemiologica nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: «Un’analisi geografica della mortalità tumorale nel periodo 2000-2004 [...] ha mostrato che nella città di Taranto e nel gruppo di comuni circostanti il polo industriale, è presente un eccesso per tutti i tumori tra il 10% e il 13% in entrambi i generi. Per il tumore del polmone l’eccesso varia dal 28% tra gli uomini al 33% tra le donne nella città di Taranto e dal 26% tra gli uomini al 32% tra le donne nei comuni circostanti il polo industriale. Per il tumore della pleura, nella città di Taranto e nei comuni adiacenti al polo industriale, gli eccessi sono del 350% tra gli uomini e oltre 200% tra le donne. Nella città

di Taranto la mortalità osservata è superiore all’attesa per i tumori del pancreas, della mammella e della vescica. Nei comuni più vicini all’area industriale viene misurato un eccesso per la maggior parte delle sedi tumorali analizzate». I periti nominati dalla Procura di Taranto hanno quantificato un totale di 11.550 morti nel giro di sette anni, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie e 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri all’anno, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari. I pericolosi inquinanti raggiungono i bambini ed entrano nel ciclo alimentare attraverso gli animali e i prodotti della terra. L’elenco delle sostanze che sparge nell’aria l’Ilva è lungo: ci sono diossine e amianto. Composti a base di ferro e ossidi di ferro, arsenico; tra i metalli le cui concentrazioni sono al di sopra della soglia ci sono molibdeno, nichel, piombo, rame, selenio, vanadio, zinco e platino. Ci sono poi ossidi di azoto, di carbonio e di zolfo. Ci sono gli idrocarburi aromatici policiclici (Ipa) e tra questi il benzo(a)pirene, che risulta tra i cancerogeni certi. Cancerogeno accertato è anche il benzene, che entra a far parte della micidiale miscela che il vento pensa poi a trasportare. Pa.Bai.

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dossier

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Bonificare è meglio che curare di Corrado Fontana

Numeri alla mano, il confronto tra costi di bonifica e benefici socio-economici condanna l’attendismo nei grandi siti contaminati siciliani di Gela e Priolo, in Sicilia. E il nesso tra inquinamento e gravi patologie in eccesso è quasi certo

Q

uanto sei disposto a pagare per ridurre il rischio di morire? Una domanda sgradevole a farsi, che però rappresenta in sintesi l’approccio utilizzato da molti ricercatori per attribuire un valore monetario a condizioni di salute sfavorevoli. In economia si definisce WTP (willingness to pay) ed è sta-

to utilizzato da uno studio (Policies to clean up toxic industrial contaminated sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis) pubblicato nel 2011 su Environmental Health e curato da un’équipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medici-

BRESCIA, UNA CITTÀ AVVELENATA IN SILENZIO Le istruzioni per l’uso delle aree verdi sono in italiano, inglese e francese. Si spiega che il Comune di Brescia ha emanato un’ordinanza a tutela della salute pubblica nel territorio a sud della Caffaro e spiega il comportamento da tenere nei parchi e nelle zone agricole. «Su indicazione di Arpa e Asl – si legge – abbiamo individuato tre diversi livelli di gravità Terreno interdetto ad ogni uso, perché di inquinamento del sottosuolo»: rosso, per inquinato da PCB e diossine. 5 parchi e giardini, dove è vietato l’accesso fino al completamento della bonifica; giallo per 7 spazi da bonificare, ma che possono essere utilizzati rispettando precisi divieti; azzurro per 5 aree comprese nel perimetro dell’ordinanza, ma dove la presenza di inquinanti nel sottosuolo è nei limiti di legge. Il progetto “Sentieri” spiega che gli inquinanti sono PCB (policlorobifenili), PCDD-PCDF (diossine e furani, ndr), arsenico e mercurio derivanti principalmente dalle attività pregresse dello stabilimento chimico Caffaro SpA, che ha prodotto il PCB dal 1930 al 1984, quando anche in Italia ne viene vietata la produzione. La fabbrica ora è chiusa, ma per quasi un secolo ha sversato senza controllo le sue acque di lavorazione. Gli inquinanti si sono diffusi capillarmente grazie ai canali di irrigazione. Il suolo è inquinato in 1.700.900 mq di aree agricole, residenziali, pubbliche. Riguardo alla contaminazione delle acque sotterranee gli studi al momento disponibili indicano un’area di 2.100 ettari. Lo studio “Sentieri” riporta che la mortalità da tumore è superiore ai numeri attesi, l’incremento dei linfomi non-Hodgkin a Brescia è stato messo in relazione con la contaminazione da PCB. Ma le stime sono imprecise, perché per anni il problema è stato taciuto dalle autorità sanitarie e politiche della città. Pa.Bai.

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ne, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa). Obiettivo: due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano. Pagare 127,4 milioni di euro per bonificare l’area di Gela e 774,5 milioni per Priolo (sono le cifre previste in un Memorandum d’intesa ufficiale) e avere un beneficio economico (su 50 anni) rispettivamente da 6 miliardi e 639 milioni e da 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.). Di fronte a una simile opzione non avremmo dubbi sulla necessità di agire subito. Tanto più se pensiamo alle 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, che eviteremmo ogni anno. A Priolo acido fluoridrico, cloro, acido solfidrico, mercurio nel suolo e nelle acque; e poi un’aria inquinata da diossido di zolfo e monossido di azoto; e l’ambiente arricchito da altri composti organici e metalli pesanti, non possono non lasciare tracce. Il rapporto “Sentieri” evidenzia «eccessi della mortalità generale e per tutti i tumori negli uomini, e per le malattie dell’apparato digerente nelle donne», precisando che, tranne che per queste ultime patologie femminili, «non può essere escluso un ruolo delle esposizioni ambientali derivanti da impianti petrolchimici e discariche». A Gela Sebiomag, uno studio di biomonitoraggio (la rilevazione degli agenti chimici nelle persone) rivela che circa il 20% della popolazione esaminata mostra


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COSA SONO I SIN? I Sin (Siti di interesse nazionale) sono alcune aree contaminate molto estese che, secondo lo Stato italiano, sono le più pericolose e hanno bisogno di interventi di bonifica del suolo, del sottosuolo o delle acque per scongiurare danni ambientali e sanitari. Si tratta soprattutto di aree industriali, porti, ex miniere, discariche abusive, zone contaminate da amianto oppure aree in cui si sono verificati incidenti con rilascio di inquinanti. In tutto coprono il 3% del territorio italiano: 5.500 km quadrati di terraferma e 1.800 di aree lacustri, lagunari e marine. La Regione sede del numero più alto di Sin è la Lombardia, ma è la Sardegna quella in cui la superficie contaminata è più estesa: raggiunge infatti i 445 mila ettari, seguita dalla Campania con 345 mila. Il primo a dare una definizione dei Sin è stato il decreto Ronchi del 1997, seguito dal decreto ministeriale 471/99 e dal decreto 152/2006. Qui raffiguriamo tutti i siti individuati finora dal ministero dell’Ambiente: sono 57 e uno su due è sulla fascia costiera. Lo scorso gennaio un decreto dell’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha declassato 18 di essi a Sir, Siti di interesse regionale. La responsabilità per il loro controllo e risanamento, dunque, è passata alle Regioni. 17

LA MAPPA DEI SIN Valle d’Aosta 1 EMARESE • Lavorazione amianto (fino anni Settanta) Piemonte 2 CASALE MONFERRATO • Stabilimento Eternit 3 BALANGERO • Miniera San Vittore: estrazione amianto di serpentino (fino al ’90) 4 PIEVE VERGONTE • Stabilimento Enichem, fino al ’97 ha prodotto DDT 5 BASSE DI STURA • Territorio inquinato da industria siderurgica 6 SERRAVALLE SCRIVIA • Ex-Gastaldi oli lubrificanti Piemonte / Liguria 7 CENGIO E SALICETO • Ex sito industriale chimico Acna Liguria 8 PITELLI • Discarica di rifiuti 9 COGOLETO - STOPPANI • Azienda chimica Stoppani: composti di cromo, soprattutto esavalente, per concia pellami Lombardia 10 SESTO SAN GIOVANNI • Industrie siderurgiche ex Falck 11 PIOLTELLO E RODANO • Ex Sisas (acetilene e derivati). 280 mila tonnellate di rifiuti industriali, 50 mila contaminati da mercurio 12 CERRO AL LAMBRO • Ex impianto chimica militare 13 MILANO BOVISA • Gasometri di carbon coke 14 BRESCIA - CAFFARO • Industria chimica Caffaro: ha riversato nelle acque PCB, diossina e altri agenti tossici 15 BRONI • Fibronit, materiali in fibra d’amianto 16 LAGHI DI MANTOVA E POLO CHIMICO • Polo chimico Eni, Mol e Exterran Trentino Alto Adige 17 BOLZANO • Impianto alluminio e magnesio 18 TRENTO NORD • Carbochimica Prada (fino all’84) produzione di piombo tetraetile (fino al ’78) Veneto 19 VENEZIA (PORTO MARGHERA) • Polo petrolchimico Montedison 20 MARDIMAGO - CEREGNANO • Smaltimento abusivo rifiuti industriali Friuli Venezia Giulia 21 TRIESTE • Ex raffineria Aquila (fio all’85) 22 LAGUNA DI GRADO E MARANO • Industria chimica Caffaro Emilia Romagna 23 FIDENZA • Cip (Compagnia italiana petroli): acido fosforico, fertilizzanti e piombo tetraedil 24 SASSUOLO - SCANDIANO • Piombo per produzione di ceramica Toscana 25 PIOMBINO • Stabilimento siderurgico 26 MASSA E CARRARA • Siderurgia e contaminazione da amianto 27 LIVORNO • Raffineria Eni 28 ORBETELLO • Fabbrica concimi chimici (fino al ’91) 29 LE STRILLAIE • Ex discarica Strillaie Marche 30 FALCONARA MARITTIMA • Raffineria Api 31 BASSO BACINO DEL FIUME CHIENTI • Falda contaminata per sostanze chimiche di aziende calzaturiere Umbria 32 TERNI - PAPIGNO • Discarica contaminata da amianto, metalli pesanti e idrocarburi, per ex stabilimento elettrochimico Lazio 33 FROSINONE • Discarica con 625 mila tonnellate di rifiuti 34 BACINO IDROGRAFICO DEL FIUME SACCO • Industria chimica: ex Bpd Abruzzo 35 FIUMI SALINE E ALENTO • Discariche abusive sui fiumi 36 BUSSI SUL TIRINO • Discarica rifiuti pericolosi vicini s Solvay Solexis Molise 37 CAMPOBASSO - GUGLIONESI II • Deposito di scarti industriali pericolosi (piombo, cromo e mercurio)

18

LEGENDA  < 100 ettari  100-1000 ettari  1.000-10.000 ettari  10.000-100.000 ettari  >100.000 ettari  nd

22

1 10 14 13 12 11

4 3

21 19

15 5

20

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6 23 24

2 7

9

 Declassato a SIR

8 26

30 31

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28 36 33

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43 38 41

55 Campania 38 NAPOLI ORIENTALE • Ex raffineria Mobil nel quartiere di Ponticelli 39 LITORALE DOMIZIO FLEGREO E AGRO AVERSANO Cimitero di rifiuti tossici della camorra 40 BAGNOLI - COROGLIO • Ex acciaieria Ilva-Italsider e stabilimento Eternit 41 AREE DEL LITORALE VESUVIANO • Contaminazione da amianto 42 BACINO IDROGRAFICO DEL FIUME SARNO • Il fiume è inquinato dai rifiuti velenosi delle concerie 43 PIANURA • Discarica con rifiuti sversati illegalmente per anni Basilicata 44 TITO • Fanghi industriali velenosi dell’ex Liquichimica 45 AREA INDUSTRIALE DELLA VAL BASENTO • Lavorazione di sostanze dannose (tra cui amianto) e sversamento di scorie nocive Puglia 46 MANFREDONIA • Polo chimico Enichem: fertilizzanti e caprolattame 47 BRINDISI • Stabilimento petrolchimico Montedison e due centrali a carbone: Enel e Edipower 48 TARANTO • Acciaieria Ilva e raffineria Eni 49 BARI - FIBRONIT • Fibronit per produzione di amianto Calabria 50 CROTONE - CASSANO - CERCHIARA • Ex Pertusola (zinco), ex Fosfotec (acido fosforico) e Syndial - ex Agricoltura (fertilizzanti complessi). Scarti di lavorazione usati per costruire strade

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Sicilia 51 GELA • Polo petrolchimico Eni 52 PRIOLO • Polo petrolchimico 53 BIANCAVILLA • Paese impregnato di fluoro-edenite (simile all’amianto), dalle cave del monte Calvario 54 MILAZZO • Raffineria Q8 Sardegna 55 SULCIS - IGLESIENTE - GUSPINESE• Polo di alluminio a Portovesme 56 AREE INDUSTRIALI DI PORTO TORRES• Polo petrolchimico della SIR (Società italiana resine), rilevato dall’Eni 57 MADDALENA • Base Usa con sommergibili atomici

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FONTE: ISPRA - ISTITUTO SUPERIORE PER LA PROTEZIONE E LA RICERCA AMBIENTALE, MINISTERO DELL'AMBIENTE

livelli anomali di sostanze tossiche nei fluidi corporei (policlorobifenili, polibromodifenil eteri, metalli pesanti come cadmio, mercurio, piombo) e, soprattutto, arsenico, elemento di provata pericolosità. E, «poiché l’arsenico viene espulso dal corpo umano in alcuni giorni e al massimo in alcuni mesi, l’indicazione è chiara e segnala una esposizione recente le cui fonti potrebbero essere individuate, da alimenti e acqua, o dall’aria», scriveva nel 2009 la dottoressa Liliana Cori su ARPA Rivista. 


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Dove cercare le risorse di Valentina Neri

“Chi inquina paga”, dice la direttiva europea sulla responsabilità ambientale, ma questo non accade perché spesso è difficile trovare i colpevoli. Intanto i fondi per i Sin sono svaniti. Potrebbe intervenire la Cassa depositi e prestiti onificare le troppe aree contaminate del nostro Paese è ormai un imperativo: l’abbiamo spiegato in queste pagine e, soprattutto, lo dicono le storie di migliaia di persone messe in ginocchio dall’inquinamento e dal suo impatto sulla salute. Ma, soprattutto in tempi di austerity, dove trovare le risorse per opere che si preannunciano come colossali? La direttiva europea sulla responsabilità ambientale, come abbiamo già ricordato, parla chiaro: chi inquina paga. Ma, «in Italia e non solo, è un principio di difficile applicazione perché spesso il sog-

B

getto inquinante non esiste più dal punto di vista giuridico», spiega Roberto Ferrigno, consulente per Greenpeace ed esperto di politiche ambientali a Bruxelles. Che continua: «È emblematico il caso della Caffaro a Brescia: l’azienda è fallita, non si sa chi subentrerà e non ci sono acquirenti per il sito. A questo punto è chiaro che ci debba essere un impegno pubblico».

La corsa a ostacoli degli stanziamenti E per l’intervento pubblico, spiega Greenpeace nel rapporto Sin Italy dell’ottobre

NEGLI USA CI PENSA IL SUPERFUND A dare il “la” alla legislazione statunitense sulle bonifiche sono episodi come il disastro del Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un sito in cui per un decennio sono state accumulate 21 mila tonnellate di rifiuti chimici, che hanno finito per contaminare l’acqua potabile costringendo all’evacuazione di 80 mila persone alla fine degli anni Settanta. Nel 1980 il Congresso interviene istituendo il Superfund, un fondo finanziato dalle industrie chimiche e petrolifere ed esteso nel 1986 a tutte le aziende che producono rifiuti pericolosi e superano un determinato fatturato. A gestire direttamente le risorse è la Environmental Protection Agency, che le usa per caratterizzare i siti inquinati individuando quelli prioritari, bonificare i “siti orfani” e realizzare gli interventi più urgenti, in attesa dei tempi necessari a ottenere il risarcimento degli inquinatori. Quando i siti industriali inquinanti sono ancora attivi, infatti, le spese per la bonifica non sono a carico dello Stato ma dei diretti responsabili. In Italia il contesto è molto diverso perché, di fatto, lo Stato è costretto a intervenire anche quando il sito inquinato è ancora operativo. E non esiste un’agenzia statale di funzioni paragonabili a quelle dell’EPA. Proprio per questo Legambiente, tra gli altri, da anni si fa sentire per chiedere a gran voce che si cambi rotta, adottando un sistema che segua almeno in parte la scia di quello americano. V.N.

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del 2011, era stata tracciata una strada già a marzo del 2008, con il Progetto Strategico Speciale presentato dal ministero dello Sviluppo economico a partire dalla delibera CIPE n. 166, che stabiliva il modo in cui usare i Fondi strutturali europei per il periodo 2007-2013. In totale venivano destinati alle bonifiche 3 miliardi di euro: 450 milioni al Centro Nord e il resto al Mezzogiorno. Ma a quel punto arriva la crisi economica. E – continua Greenpeace – a luglio del 2009 il governo dimezza il progetto, riservando poco meno di 1,7 miliardi per i 25 Sin ritenuti prioritari. A settembre, però, dei fondi per i Sin non c’è più traccia, nemmeno nella versione ridotta proposta solo due mesi prima. Sono stati infatti allocati nel “Fondo strategico per il Paese”, alla disponibilità della presidenza del Consiglio. A quel punto, in assenza di copertura finanziaria, si abbandonano i piani di risanamento. Lo stesso anno, una legge voluta dall’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo introduce la possibilità di risolvere per via stragiudiziale i contenziosi, concordando direttamente un risarcimento economico con le imprese responsabili dei danni. Una soluzione che dovrebbe servire a trovare i fondi evitando le lungaggini processuali. Ma che dall’altro lato, obietta Ferrigno, «è gestita solo dal ministero e svuota la partecipazione degli enti locali e dei cittadini». E che – denuncia Greenpeace – potrebbe essere sfruttata dai colossi inquinanti per chiudere in modo relativamente indolore le vicende che li coinvolgono. Non stupisce dunque che Eni proponga subito uno stanziamento straordinario di 1,1 miliardi di euro per il fondo rischi ambientali: ma i


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LE DIECI CITTÀ PIÙ INQUINATE NEL 2013

Discarica a cielo aperto di rifiuti pericolosi (DIOSSINA e FENOLI)

Industrie metallurgiche che hanno rilasciato oltre 2 milioni di SOSTANZE TOSSICHE

NORILSK

DZERŽINSK Miniere di URANIO

CHERNOBYL

MAILUU-SUU

Incidente NUCLEARE nel 1986 Vecchio impianto di smaltimento di batterie per auto: PIOMBO

BAJOS DE HAINA

RANIPET Industria CHIMICA, METALLURGICA e CONCIARIA (1 milione 500 mila tonnellate di rifiuti e acqua)

Attività estrattiva di RAME, ZINCO e PIOMBO (presente nel sangue del 99% dei bambini)

LA OROYA

LINFEN

SUMGAIT Industria petrolchimica che rilascia nell’ambiente rifiuti pericolosi: MERCURIO

Centinaia di miniere di CARBONE, RAFFINERIE e IMPIANTI SIDERURGICI

Giacimenti di ZINCO e PIOMBO

KABWE

FONTE: BLACKSMITH INSTITUTE SUL SITO WWW.VALORI.IT UN APPROFONDIMENTO CON LA MAPPA DELLE CITTÀ PIÙ CONTAMINATE IN TUTTO IL MONDO

siti da bonificare sono nove e solo per Porto Torres servirebbero 500 milioni.

Dalla Cdp all’Europa Ma è davvero così difficile trovare risorse per tutelare la salute e l’ambiente in quei siti che, per loro stessa definizione, dovrebbero essere di “interesse nazionale”? Stando a Walter Ganapini potrebbe occuparsene la Cassa depositi e prestiti, che «è l’unico soggetto che ha liquidità in questo Paese: dispone di circa 300 miliardi che possono montare una leva finanziaria di circa 10 volte tanto». La società che gestisce i risparmi postali degli italiani, insieme al fondo per le infrastrutture F2i, potrebbe «costituire un asset di finanziamento da 10-15 miliardi di euro per azioni di bonifica e manutenzione e per lo sviluppo di tecnologie innovative, al fine di dare sviluppo alle start up in settori come la chimica verde o le nanotecnologie». Ambiti in cui – conclude – l’Italia ha competenze e professionalità da spendere, nonostante i tagli alla ricerca. Secondo Roberto Ferrigno, invece, basterebbe attingere ai fondi per le poli-

tiche regionali di coesione, che per il nostro Paese, nel periodo compreso tra il 2007 e il 2013, hanno raggiunto una cifra vertiginosa: più di 99 miliardi di euro. Soldi gestiti dalle Regioni e che in gran parte vengono dall’Europa tramite il Fondo europeo per lo sviluppo e il Fondo sociale europeo. Circa un terzo invece è dato da risorse nazionali, ovvero dal Fondo per lo sviluppo e la coesione che sostituisce quello che prima era il Fondo per le aree sottosviluppate. Alla data del 30 giugno di quest’anno, stando ai dati ufficiali di www.opencoesione.gov.it, l’Italia ha effettivamente utilizzato 63,9 di questi quasi 100 miliardi. Una cifra che sarebbe abbondantemente bastata a coprire i 3 miliardi che erano stati previsti – e poi revocati – per la bonifica di 25 Sin. Tali risorse invece hanno finito per finanziare 679.393 progetti sparsi su tutto il territorio nazionale. Un progetto su dieci attuato dai privati, riporta Linkiesta, ha un costo rendicontabile inferiore ai 5 mila euro e uno su due non raggiunge i 50 mila. Nella provincia di Napoli, dove si respirano i veleni dei roghi di rifiu-

ti tossici, i fondi comunitari sono serviti a organizzare corsi di inglese e di informatica, festival culturali, addirittura a ristrutturare alcuni alberghi. Non è da meno la Lombardia che li ha spesi «per pulire i torrenti, rifare gli argini, costruire barriere antivalanghe. Per non parlare del ministro per la Coesione territoriale Carlo Triglia, che di recente ha proposto di usare i fondi strutturali per l’Expo, un evento che inizia e si conclude in sei mesi», continua Ferrigno. L’elenco potrebbe andare avanti ancora molto a lungo. Bisogna tener conto, poi, del fatto che molti di questi soldi non sono nemmeno stati usati: e ora si teme che, se non spenderà altri 27,9 miliardi entro il 2015, l’Italia in futuro possa vedersi tagliare gli stanziamenti. Secondo Ferrigno, la conclusione che se ne può trarre è solo una: «Non si trovano i soldi per un piano speciale per risanare i Sin perché non c’è la volontà di farlo. Evidentemente, nemmeno i 10 mila decessi certificati dal progetto “Sentieri” sono bastati a far sì che le bonifiche diventassero una priorità a livello politico».  | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 13 |


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Tumori infantili e inquinamento ambientale Un legame stretto di Daniela Patrucco

Prevenzione è: capire quali sostanze sono cancerogene e toglierle dalla circolazione. Una strategia che protegge tutti, ricchi e poveri

«Q

uando si parla di prevenzione del cancro tutti pensano alla cosiddetta diagnosi precoce, ma c’è una prevenzione che si può fare a monte, cercando non di limitare i danni della malattia diagnosticandola al più presto, quanto piuttosto di evitare l’insorgere del cancro, impedendo l’esposizione alle sostanze che lo

provocano». Lorenzo Tomatis – oncologo ed epidemiologo scomparso nel 2007, che per oltre dieci anni era stato direttore della IARC (International Agency for Reasearch on Cancer) – in un’intervista a La Stampa del 2005 confermava che «la prevenzione primaria consiste nel fare ricerca sulle sostanze naturali o sintetiche per capire quali sono cancerogene e, una volta individuate, suggerire alle autorità sanitarie delle misure di salute pubblica per toglierle dalla circolazione. Si tratta di una strategia che protegge tutti – diceva – il ricco come il povero, ma purtroppo è bistrattata da scienziati, politici e autorità sanitarie».

Il quadro di riferimento Il trend di crescita dei tumori registrato a livello mondiale nel corso del XX secolo ha riguardato anche i bambini (0-14). I dati emersi dallo studio ACCIS (http://ac cis.iarc.fr) realizzato da IARC descrivono un incremento massimo di tumori infantili. Si tratta di uno studio realizzato su un campione di grandi dimensioni (>130.000 casi) in 19 Paesi europei nel corso di 20 anni di osservazione. In Italia un milione di bambini vive a meno di due chilometri dalle aree inquinate e undici milioni risiedono in aree coperte dai Registri Tumori, strutture che raccolgono le informazioni sui nuovi

CURA: UN DIRITTO DISEGUALE La prevenzione primaria protegge tutti, il ricco come il povero, diceva Tomatis. Per la cura il discorso cambia. Nei Paesi ricchi il rapporto tra incidenza e mortalità è piuttosto elevato mentre in quelli a basso reddito la mortalità è molto più alta rispetto all’incidenza. Paolo Vineis – docente di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e direttore di un’Unità di Epidemiologia molecolare e genetica alla Fondazione HuGeF di Torino – spiega che dei 200mila casi all’anno di tumori infantili nel mondo, l’85% si verifica nei Paesi a basso reddito. Non è solo una questione demografica, ma attiene anche alla qualità della diagnosi, della registrazione, della disponibilità e accesso alle cure, alla rinuncia al trattamento, alla presenza dei Registri di Tumori e alla copertura della popolazione. La situazione dei Paesi studiati da Vineis conferma che la sopravvivenza ai tumori infantili è fortemente associata con il livello di spesa sanitaria (per gruppi omogenei di Paesi). Al crescere della spesa aumenta la sopravvivenza (a 5 anni). Il Bangladesh, a fronte di una situazione pessima per la sopravvivenza per tumori infantili, ha visto ridursi enormemente la mortalità infantile dopo aver investito

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nell’assistenza alle gravidanze e al parto e nei primi anni di vita. Nei Paesi a basso reddito le famiglie rinunciano al trattamento perché è troppo oneroso e non riescono a reggere le spese. In Messico, dove l’assistenza pubblica è stata estesa in anni precedenti, l’estensione e l’accreditamento di programmi e linee guida hanno portato alla riduzione dell’abbandono delle cure dal 35% al 4% a partire dal 2006. L’universalizzazione delle cure sanitarie porta con sé conseguenze positive molto importanti ma con costi crescenti all’aumentare delle patologie e dei soggetti che necessitano di cure. Vale la pena ricordare che se è vero che la durata della vita media è in aumento, Eurostat ci dice che in Italia, dal 2004 al 2009, in termini di speranza di vita sana alla nascita, le femmine hanno perso circa 9 anni e tutto il loro storico vantaggio rispetto ai maschi che, invece, hanno perso “solo” 4 anni. Nello stesso periodo, non più alla nascita ma all’età di 65 anni, le donne italiane potevano attendersi una vita in salute di circa 7 anni (8 per gli uomini), contro i quasi 15 anni stimati per i migliori Paesi europei (13.6 per gli uomini). I costi, per chi se li può permettere, aumentano al ridursi dell’aspettativa di vita in salute. D.P.


STIME NAZIONALI DEI TASSI DI INCIDENZA STANDARDIZZATI PER POPOLAZIONE. STANDARD MONDIALE ETÀ 0-14

piombo, mercurio, metalli pesanti e polveri sottili rilasciano queste sostanze al neonato o al feto attraverso il latte e il cordone ombelicale. Devono far riflettere i dati divulgati da Patrizia Gentilini, oncologa impegnata nella campagna di tutela dell’allattamento al seno. Il latte materno in Norvegia contiene 40 pg/Kg di diossine, a Milano 80, a Taranto 200 e a Brescia (zona Caffaro) 1200 pg/Kg.

Solo la punta dell’iceberg Se siamo tutti esposti, sin dalla nascita, diventa problematico anche provare correlazioni di causa ed effetto in specifici siti rispetto a nocività ambientali e patologie. Inoltre, come sostiene Fabrizio Bianchi (IFC-CNR, Pisa) che ha con-

102,7

Romania 101,8

Turchia

Polonia

119,1

115,6 106,5

Slovenia

Bulgaria

119,6

119,4

Regno Unito

Ungheria

Repubblica Ceca

Slovacchia

Irlanda

Svizzera

100

Italia

110

Jugoslavia

124,9

Estonia

121,0

127,7

126,2

Lituania

129,2

128,7

Islanda

Francia

Germania

135,6

Olanda

133,2 131,5

137,9

137,5

Spagna

139,5

139,4

Norvegia

Portogallo

148,7

146,9

Malta

154,3

120

149,7

Svezia

130

130,9

140

Danimarca

154,4 Bielorussia

158

154,7

150

Finlandia

160

Europa

casi di malati di cancro. Solo Piemonte e Lombardia hanno una struttura specifica per la registrazione dei tumori infantili e il recente rapporto AIRTUM 2012, dedicato ai tumori dei bambini e degli adolescenti, contiene dati aggiornati fino al 2008. I dati sono riferibili a una copertura media di registrazione sul territorio nazionale del 47% (57% nel Nord Ovest, 68% nel Nord Est, 35% nel Centro e Sud Italia). In questo quadro di sostanziale incompletezza e disomogeneità dei dati disponibili, la stabilizzazione del tasso di incidenza per tutti i tumori nella fascia 0-14 anni, che aveva registrato un aumento fino al 2000 e che in Europa continua a essere tra i più elevati, non si può considerare positivamente (vedi TABELLA ). Il Dipartimento ambiente e connessa prevenzione primaria (Ampp) dell’Istituto superiore di sanità (Iss) ha lanciato il progetto “Sentieri Kids” dopo che il progetto “Sentieri” aveva fatto emergere un incremento di mortalità del 5% nel primo anno di vita dei bambini residenti nelle aree Sin. «Proteggere i bambini dall’esposizione involontaria a inquinanti ambientali è una priorità di sanità pubblica», ha dichiarato Ivano Iavarone, che ha costituito un Gruppo di lavoro che dovrà individuare percorsi collaborativi multidisciplinari e multi-istituzionali per lo studio dei tumori infantili nei siti contaminati.

tribuito alla realizzazione del progetto “Sentieri”, «ci sono studi di popolazioni per le quali si sa già che ci sono esposizioni a rischio per inquinamenti e contaminazioni ambientali. Che richiedono interventi di prevenzione primaria prima ancora di dimostrare che vi siano eccessi per la salute». Infine, per Benedetto Terracini, past director di Epidemiologia e Prevenzione, «possibili fattori di rischio per i tumori infantili sono sicuri fattori di rischio per altre malattie dell’infanzia e l’evidenza di un rapporto causa-effetto per malattie non tumorali è talmente convincente che non pare sia il caso di aspettare o sollecitare una più forte evidenza scientifica per prendere delle misure di precauzione». 

Cosa ci dicono i tumori infantili? I tumori infantili sono un indicatore di una trasmissione transgenerazionale del danno. Secondo Ernesto Burgio, pediatra e membro del Comitato Scientifico di Isde Italia, lo studio sul genoma ci conferma che l’attività dei geni è determinata dall’ambiente. Se le catene alimentari e l’aria che respiriamo sono cambiate nella loro composizione molecolare negli ultimi vent’anni, l’esposizione diventa collettiva e transgenerazionale. Tutto quello che avviene nei nove mesi di gestazione rischia di essere più importante di quanto accadrà nel resto della vita perché le mamme esposte a Divieti all’uso anche ricreativo dei suoli contaminati (decine di ettari a sud della Caffaro). | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 15 |

FONTE: FMI, WWW.IMF.ORG, WORLD ECONOMIC OUTLOOK DATABASE, APRILE 2013. *PREVISIONI LUGLIO 2013. DATI IN PERCENTUALE

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Scelte incomprensibili

Un Nobel sotto il lampione sbagliato nota la barzelletta del tizio che di notte cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada. L’ha ricordata l’economista Jean-Paul Fitoussi nel suo ultimo libro, Il teorema del lampione, come metafora di una politica economica che non è stata in grado di affrontare con efficacia la crisi.

È

di Alberto Berrini

«Non sono stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale». Anzi, quando la teoria (liberista) non è stata in grado di spiegare la realtà (la crisi), si è riproposta la prima con ancor più forza affermando che non fosse stata applicata con la dovuta ortodossia. È solo in questo modo che si può comprendere e giustificare il premio Nobel a Eugene F. Fama, il teorico dei “mercati efficienti”. Tale teoria afferma che i mercati finanziari sono la miglior guida possibile per il valore dei beni economici e, quindi, per le decisioni in materia di investimenti e di produzione. L’ipotesi dei mercati efficienti dunque giustifica e, ancor più, esige la deregolamentazione finanziaria, nonché la rimozione dei controlli sui flussi internazionali di capitale e una massiccia espansione del settore finanziario. La crisi subprime è stata dunque la diretta conseguenza di tale errata dottrina. La verità è che tale teoria ipotizzava mercati composti da individui che massimizzano la loro utilità attesa mediante calcoli razionali. Nella realtà odierna i grandi investitori istituzionali condizionano pesantemente con il

prattutto tali intermediari non sono strettamente vincolati dalle risorse disponibili in quanto è prassi consueta ricorrere a un forte indebitamento. Il punto è che la teoria dei mercati efficienti, anche nelle versioni più recenti, trascura proprio i conflitti di interesse e riserva un ruolo secondario alle operazioni a leva effettuate dalla maggior parte degli operatori finanziari. La realtà è che i rischi di sistema non possono essere affrontati mediante l’autoregolamentazione dei mercati finanziari, ma richiedono una gestione pubblica. Il contrario di ciò che sostiene Fama, strenuo difensore dell’efficienza dei mercati. In proposito c’è una storiella che riguarda il neovincitore del Nobel per l’economia. Il professor Fama passeggia per il campus dell’Università di Chicago con un suo assistente. Quest’ultimo gli dice: «Guardi, c’è un biglietto da 100 dollari per terra». Fama risponde: «Lasci stare, è sicuramente falso. Altrimenti l’avrebbe già raccolto qualcun altro». Una storiella non certo esagerata se si pensa che Fama in un’intervista al The New Yorker nel 2010 ha affermato: «Non so che cosa significhi una bolla». Evidentemente il 15 settembre 2008, ma anche nei mesi successivi, il professore dormiva. 

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Eugene F. Fama è stato premiato per le teorie sui “mercati efficienti”, che puntano a una nuova ondata di deregulation: così il liberismo risponde alla crisi chiedendo altro liberismo loro flusso di ordini il segmento di mercato in cui essi stessi operano. Inoltre le scelte degli intermediari finanziari sono distorte dalla presenza di pervasivi conflitti di interesse. Ma so-


fotoracconto 04/05

MANNA / PEACELINK

Il quartiere Tamburi, a Taranto, e sullo sfondo lo stabilimento Ilva. Le case sono vicinissime alla fabbrica, c’è una distanza di soli 200 metri nei punti più prossimi ai primi edifici abitati. Di recente la Corte europea dei diritti umani ha giudicato, in via preliminare, ricevibile il ricorso presentato dai familiari di una presunta vittima della catastrofe ambientale provocata dallo stabilimento. Si tratta di Giuseppina Smaltini, morta di leucemia il 21 dicembre scorso. I familiari sostengono che la malattia della donna sia stata causata dalle emissioni prodotte dall’Ilva: per questo la Corte di Strasburgo chiede a Roma di dimostrare di aver fatto quanto necessario per accertare che non ci fosse alcun nesso tra le emissioni della fabbrica siderurgica e la malattia che ha ucciso la donna. I familiari di quest’ultima si erano già rivolti alla magistratura di Taranto, ma questa giudicò insufficienti le prove. Ora i giudici di Strasburgo vogliono sapere quali dati avesse a disposizione la procura quando esaminò la denuncia. | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 17 |



| ipotesi nazionalizzazione |

finanzaetica Risparmio tradito. Scatta l’ora delle riforme > 22 Shutdown! Così vacilla il sogno americano> 24

Montepaschi: sedotta e abbandonata nelle mani di Bruxelles di Mauro Meggiolaro ed Emanuele Isonio

onte dei Paschi di Siena, la terza e più antica banca italiana, è in corsa contro il tempo. Entro la fine del 2014 deve riuscire a raccogliere 2,5 miliardi di euro con un aumento di capitale. L’alternativa è la nazionalizzazione. L’aumento di capitale servirebbe, infatti, per rimborsare, almeno in parte, i 4 miliardi di euro prestati dal Tesoro italiano con la sottoscrizione, a febbraio, dei cosiddetti “Monti-bond”. In sostanza, se Montepaschi non inizia a restituire il prestito, lo Stato converte i bond in azioni e diventa il maggiore azionista della banca.

M

La terza banca italiana, “commissariata” dalla Commissione europea, è alla ricerca disperata di nuovi soci per scongiurare la nazionalizzazione. Intanto a Roma nessuno se ne vuole veramente occupare

Decide Almunia (senza grossi ostacoli) La facciata della sede di Monte dei Paschi di Siena.

Un percorso a marce forzate, anticipato a settembre a Cernobbio dal commissario europeo per gli Affari economici, | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 19 |


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Joaquín Almunia, mentre il ministro del Tesoro Saccomanni ascoltava in silenzio e l’amministratore delegato Fabrizio Viola – pure presente a Cernobbio – non era nemmeno stato invitato a intervenire alla conferenza stampa. Un segnale chiaro della dipendenza di Montepaschi dalle decisioni di Bruxelles. In effetti il piano di ristrutturazione della banca, reso noto il 7 ottobre, è stato in pratica dettato dalla Commissione europea. Oltre all’aumento di capitale, sono previsti 8 mila esuberi e la chiusura di 500 filiali. «Dopo l’accordo dello scorso anno, accompagnato da notevoli sacrifici, speravamo che non ci fossero imposte ulteriori condizioni», spiega a Valori Enrico Ghirlanda, rappresentante del sindacato Fiba-Cisl all’interno di Mps. «Con le ultime richieste di Almunia ci troviamo di nuovo in un clima di incertezza e crescente scontento, perché i tagli già decisi negli scorsi mesi non hanno risparmiato a Montepaschi un trattamento ancora più severo rispetto a quello che è stato riservato ad altre banche europee che hanno ricevuto aiuti dallo Stato». Il Tesoro ha alzato un po’ la voce alla fine di luglio per provare a ridimensionare le richieste di Bruxelles, ma senza successo. I margini di negoziazione si sono progressivamente ristretti e, alla fine, il management della banca e il governo si

Fabrizio Viola, amm. delegato di Mps.

Alessandro Profumo, presidente di Mps.

Il piano di ristrutturazione della banca è stato dettato da Bruxelles: aumento di capitale, 8mila esuberi e chiusura di 500 filiali. Il Tesoro italiano non ha avuto voce in capitolo sono trovati a discutere con la Commissione solo dei dettagli.

Russi, indiani o rilancio autonomo? Intanto il presidente di Mps, Alessandro Profumo, sta cercando in tutti i modi di convincere nuovi investitori che potrebbero aderire all’aumento di capitale. Nell’assemblea straordinaria del 18 luglio è stato abolito il tetto del 4% al possesso azionario nel capitale della banca senese, previsto per gli azionisti diversi dalla Fondazione Montepaschi, e ora i giochi

FONDAZIONE MPS: UN FUTURO DA GREGARIA Azionista di controllo di Mps, custode degli intrecci di potere senesi, toscani, nazionali, da quasi vent’anni la Fondazione Monte dei Paschi fa il bello e cattivo tempo a Rocca Salimbeni, sede della banca. Il suo ruolo però è destinato a ridimensionarsi. Tutto è iniziato il 18 luglio scorso, con l’abolizione del tetto del 4% al possesso azionario per gli azionisti diversi dalla Fondazione. Ma il primo campanello di allarme era suonato il 25 gennaio, quando l’assemblea straordinaria dei soci della banca aveva attribuito al CdA e al presidente Profumo tutte le deleghe per aumentare il capitale sociale, senza vincoli nell’individuazione di nuovi soci. Nel 2014 si procederà all’aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro imposto dall’Ue, ma la Fondazione non riuscirà a partecipare a causa dei debiti contratti con dodici banche e sarà costretta a cedere azioni sul mercato, diventando azionista di minoranza. Stando ai rumours di mercato, riportati a fine ottobre da Reuters, la Fondazione sarebbe pronta a vendere in blocco il 10% di Mps. Tra gli investitori interessati potrebbe esserci un non ben identificato “fondo sovrano arabo”. I rumours sono stati smentiti, ma la pressione delle banche creditrici continua a essere forte e l’uscita di scena della Fondazione potrebbe essere questione di tempo. M.M.

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sono più che mai aperti. In realtà la Fondazione è ancora ufficialmente l’azionista di controllo, con il 33,5%, ma la sua importanza è destinata a ridursi progressivamente, visto che sarà costretta a cedere le sue azioni per ripagare il debito residuo di 350 milioni di euro che ha con dodici banche (alle quali la Fondazione ha già dato in pegno le azioni). «La Fondazione Mps finirà per controllare solo il 4-5% della banca», spiega Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena e manager della banca. «Una partecipazione – continua – che non porterà dividendi, almeno fino al 2018, perché la banca non può distribuirli. A questo punto non ha molto senso che il destino della Fondazione rimanga legato a quello della banca: meglio saldare i debiti e gestire gli assets che rimangono (circa 600 milioni di euro, in gran parte immobili) con un team di amministratori preparati». Ma chi prenderà il posto della Fondazione? A questa domanda, per ora, nessuno è in grado di rispondere. Si parla di ipotetici soci stranieri, forse russi, addirittura indiani, che avrebbero incontrato il presidente Profumo, ma non sembra siano in corso trattative. Lo stesso presidente ha più volte smentito l’esistenza di offerte da parte di eventuali nuovi investitori, anche se «l’ipotesi più realistica resta il successo dell’aumento di capitale e del piano di rilancio in autonomia».

La politica è silente Per Fiba-Cisl l’ingresso di soci stranieri non sarebbe un problema, anzi, forse sarebbe addirittura preferibile. «In Italia ci sono casi che hanno funzionato molto bene, come Bnl, acquisita da BNP Paribas, o Cariparma (Crédit Agricole)», spiega Giulio Romani, segretario nazionale di Fiba. «Naturalmente preferiremmo che il nuovo azionista fosse un soggetto bancario, non un fondo di private equity o simile. Dipende molto dalla qualità degli azionisti e dal loro know-how». Il piano di ristrutturazione potrebbe essere l’occasione per introdurre nuovi modelli di governance. «Si potrebbero coinvolgere i dipendenti della banca nell’aumento di capitale. I lavoratori potrebbero diventare parte di un trust al


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FIBA-CISL: CAUSA CIVILE CONTRO LA BANCA SENESE Se sul futuro societario il buio è pressoché totale, anche sul fronte processuale di certezze se ne possono contare poche. Una di queste è la durata del processo. E non è una buona notizia: «Per la sentenza di primo grado serviranno probabilmente due o tre anni», spiega Maurilio D’Angelo, l’avvocato che segue il processo per la Fiba, il sindacato bancari della Cisl. «La lunghezza dipende da molti fattori. Dalle perizie che i giudici riterranno di dover chiedere. E dal numero di testimoni accettati». Il filone sulla ristrutturazione del derivato Alexandria sta entrando nella fase dibattimentale. Per vedere iniziare il processo principale, relativo all’acquisizione di Antonveneta da parte del gruppo senese, bisognerà invece aspettare almeno la fine dell’anno. In ogni caso, i vertici della Fiba-Cisl hanno deciso di avviare una causa civile autonoma sia contro gli ex vertici ora sotto processo sia contro l’intero gruppo Mps, «quantomeno negligente nel non aver controllato l’operato dei suoi top manager», osserva D’Angelo. Una decisione presa sia per tutelare l’immagine del sindacato, sia i propri iscritti «che come premi di produzione ricevono azioni che oggi valgono poco o nulla». L’idea di costituirsi parte civile nel processo penale, inizialmente presa in considerazione dal sindacato, è stata invece accantonata perché sarebbe stato difficile dimostrare il danno diretto. Em.Is.

quale viene attribuita una piccola percentuale del capitale. Il trust potrebbe poi avere una golden share sulle decisioni di Mps che riguardano direttamente i lavoratori. La presenza dei dipendenti nel capitale potrebbe controbilanciare il potere dell’investitore straniero». Secondo Romani sarebbe possibile anche una nazionalizzazione, ma a costo di «notevoli polemiche a livello politico, che farebbero aumentare il malcontento dell’opinione pubblica nei confronti della banca. A danno dei lavoratori».

A Roma, intanto, trovare idee chiare su un’eventuale nazionalizzazione, nel caso l’aumento di capitale si trasformasse in un flop, è quantomeno complicato. Si mormora di un accorpamento con BancoPosta, alcuni sognano un ruolo pubblico per Monte Paschi, che potrebbe diventare un ente simile alla Cassa Depositi e Prestiti. In realtà opzioni sul piatto non ce ne sono. E anche le persone disposte a parlare latitano: Matteo Colaninno, nuovo responsabile economico del PD, contattato da Valori, preferisce non fare dichiarazio-

Sul caso Mps il Pd tace. Gutgeld, consigliere economico di Renzi, chiede partner industriali seri ni, perché la situazione è troppo «delicata e ingarbugliata». A esporsi un po’ di più è Yoram Gutgeld, in passato direttore di McKinsey, una delle più famose società di consulenza al mondo, e ora considerato consigliere economico di Matteo Renzi: «A Mps non serve né una nazionalizzazione, anche fosse mascherata da un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, né capitani coraggiosi in stile Alitalia. Servono partner industriali seri. Senza porsi il falso problema dell’italianità». Certo, avere un governo debole, schiacciato dai vincoli europei sul budget e dall’agenda economica del Pdl, costretto a subire i diktat di Bruxelles su Mps, non aiuta. E in meno di un anno potrebbe dare il via libera a una nuova svendita. «Alla fine ci potremmo trovare davanti a uno scenario desolante», spiega una fonte vicina alla banca. «Con un socio straniero, magari la stessa Bnp, che si porta a casa Mps con poco più di un miliardo di euro». La terza banca italiana, saccheggiata dai partiti e dalle frodi di un gruppo di manager dissennati, metterebbe fine a quasi 550 anni di storia in pochi giorni. Senza che nessuno muova un dito per difenderla. 

Siena. Il monumento di Sallustio Bandini in Piazza Salimbeni, davanti alla sede di Monte dei Paschi di Siena. | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 21 |


| finanzaetica | le proposte del sindacato |

Risparmio tradito Scatta l’ora delle riforme di Matteo Cavallito

QUANDO LE BANCHE ETICHE BATTONO LE “TOO BIG TO FAIL” Le banche a orientamento sostenibile? Più forti di quelle sistemiche, tanto sul fronte patrimoniale quanto su quello del credito erogato e dei rendimenti offerti. Lo sostiene uno studio condotto dalla Global Alliance for Banking on Values (Gabv), una rete internazionale alla quale aderisce anche l’italiana Banca Etica, presentato a Washington lo scorso mese di ottobre. Le banche eticamente orientate, sostiene la ricerca, erogano circa il doppio del credito in proporzione agli attivi di bilancio rispetto alle banche di sistema (75,9% contro il 40,1%) e i loro bilanci si sostengono in misura maggiore sulla raccolta di risparmio dalla clientela (73,1% contro il 42,9%). Ma non è tutto. Le banche eticamente orientate, sostengono ancora i ricercatori attraverso il confronto dei dati finanziari, vantano un livello più elevato di capitalizzazione (con un rapporto tra capitale e attivi totali pari al 7,2% contro il 5,5% medio delle “Too big to fail”) e offrono una maggiore redditività sul capitale investito (0,53 % contro 0,37%) garantendo una minore volatilità. «È ormai chiaro che nel lungo termine le banche che mettono al centro i valori quali il rispetto delle persone e del pianeta, hanno dimostrato di essere più robuste e resistenti rispetto alle grandi banche di sistema» sostiene il direttore della Gabv, Peter Blom. «Abbiamo bisogno di un sistema bancario più forte ed equo a sostegno di un’economia sostenibile» ha dichiarato nell’occasione il presidente di Banca Etica, Ugo Biggeri, secondo il quale esiste oggi «un’opportunità senza precedenti per costruire un sistema bancario più diversificato, trasparente e sostenibile nell’interesse di tutti». M.Cav. Per leggere lo studio completo: www.gabv.org/wp-content/uploads/13-5923_GABV_report_Washington_06mvd.pdf

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Informazioni comprensibili, valutazioni uniformi e stop ai conflitti d’interesse. Dalla Fiba sei nuove proposte per la tutela del risparmio aranzia di informazioni lineari e complete, accurata valutazione dei profili di rischio attraverso un metodo uniforme e certificato, modifica del sistema degli incentivi per i promotori finanziari. Sono i temi principali delle sei proposte di riforma a tutela del risparmiatore presentate a ottobre dalla Fiba, la Federazione Italiana Bancari e Assicurativi della Cisl. Un’iniziativa, quella condotta a inizio ottobre a Firenze nel convegno “Banche non case da gioco. La tutela del risparmiatore”, che punta il dito su un tema sempre caldo, un evergreen finanziario, per così dire, che si trascina ormai da tanti, troppi anni.

G

Rischi non calcolati Sono gli anni del mercato che «da libero diventa anarchico e infine completa-


| finanzaetica |

I conflitti di interesse «sono alla base di tante scelte sbagliate in Italia e in Europa». La Ue ha già bocciato due volte alcune proposte di limitazione dei bonus e delle commissioni di vendita mente disordinato», come sintetizza Giulio Romani, segretario nazionale di Fiba Cisl. Ma anche gli anni, verrebbe da aggiungere, dell’interminabile filo rosso che collega i Tango bond con le obbligazioni Cirio e Parmalat, i titoli Lehman con le indecifrabili unit o index linked, il terrificante convertendo della Popolare di Milano con la carta straccia di Bank of Ireland. Lo schema si è ripetuto con imbarazzante continuità. Da un lato i prodotti tossici, dall’altro i risparmiatori sempre meno consapevoli. In mezzo le norme che disciplinano gli aspetti chiave come i profili di rischio e i prospetti informativi. E che, nonostante tutto, si sono rivelate troppo spesso inefficaci. Perché ad oggi, spiega ancora Romani, «manca un’informazione che sia sintetica e al tempo stesso comprensibile per gli utenti non esperti che fanno i conti con prospetti informativi molto dettagliati, eccessivamente lunghi e formulati ogni volta in modo diverso a seconda della sensibilità dell’azienda». Per questo, aggiunge, «servono prospetti standard per evitare fenomeni di investimento non consapevole. E servono, al tempo stesso, sistemi uniformi di valutazione del profilo di rischio che devono essere certificati dalla Consob».

Fallimenti europei A complicare il quadro c’è poi il tema delle commissioni e degli inevitabili conflitti di interesse, quelli che, ricorda Romani, «non hanno colore e sono alla base di tante scelte sbagliate in Italia così come in Europa». A occuparsene, in sede continentale, sono tra le altre due direttive: la MIFID, ovvero Markets in Financial Instruments Directive, che stabilisce regole uniformi su servizi, prodotti di investimento e mercati fi-

nanziari, e la UCITS, Undertakings for Collective Investment in Transferable Securities, che si propone invece di regolamentare il settore dei fondi comuni di investimento. Un mercato, quest’ultimo, che a livello continentale varrebbe secondo la Commissione europea circa 5 trilioni (mila miliardi) di euro in assets gestiti, come a dire due volte il Pil del Germania. Il 3 luglio il Parlamento europeo ha bocciato due emendamenti alla UCITS che avrebbero limitato i bonus versati ai gestori e tagliato le commissioni di performance che, abitualmente, vengono scaricate sui portafogli dei risparmiatori. In entrambi i casi lo stop si è materializzato grazie a maggioranze ridottissime (7 e 16 voti di scarto rispettivamente), grazie al fronte unitario dei Popolari con il risultato che le regole retributive dei manager dei fondi comuni sono state allineate a quelle in vigore per i gestori dei fondi di investimento alternativi, ovvero hedge e fondi speculativi in genere. L’anno scorso, nella discussione sulla MIFID, il copione era stato sostanzialmente identico. Alcuni parlamentari avevano presentato un emendamento per la restituzione delle provvigioni alla clientela, ovvero la sostanziale abolizione degli incentivi basati sulla vendita. In pratica si trattava di passare da un sistema di commissioni sul collocamento a un principio di remunerazione del risultato, una riforma radicale. Nel primo caso il promotore viene premiato a seconda della quantità di prodotti che riesce a piazzare, nel secondo in base al rendimento dei prodotti stessi. Inutile dire che una commissione sulla vendita può indurre il promotore a collocare qualsiasi cosa, anche i prodotti tossici, mentre un premio sul risultato obbliga il collocatore a valutare in modo obiettivo l’affidabilità di un prodotto senza l’ostacolo di un implicito conflitto d’interesse. La riforma, in quell’occasione, sembrò a molti cosa fatta. Poi, all’improvviso, il repentino cambio d’opinione dei socialdemocratici salvò le commissioni di vendita. Le banche, pare superfluo aggiungerlo, brindano ancora all’intesa bipartisan. 

LE PROPOSTE DELLA FIBA IN SINTESI

1

Accurata verifica delle procedure di informazione della clientela da parte degli intermediari assicurativi nella collocazione di prodotti complessi.

2

Valutazione del profilo del cliente («rilevazione della conoscenza e dell’esperienza in materia di investimenti… obiettivi di investimento» etc.) attraverso questionari standard.

3

Obbligo da parte degli intermediari di riferire alla Consob le modifiche al questionario e le variazioni dei profili dei clienti nei casi di maggiore propensione al rischio.

4

Obbligo di certificazione dei profili di rischio da parte della Consob.

5

Modifica della disciplina degli incentivi con il divieto di incorporazione del costo delle commissioni nel prezzo del prodotto e di introduzione di incentivi di terze parti.

6

Obbligo per gli intermediari finanziari di indicazione preliminare al cliente della struttura degli incentivi legata ai prodotti in vendita.

Leggi il documento integrale: www.fcre.it/attivita/informazione/areadownload/doc_download/77-banche-non-caseda-gioco-le-proposte-di-fiba-cisl | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 23 |


| finanzaetica | diseguaglianza |

Shutdown! Così vacilla il sogno americano

DOCUMENTARIO “Inequality for All” di Jacob Kornbluth con Robert Reich 72 Productions, 90 min. Usa, 2013

Vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance Film Festival

L’impasse Usa sul budget federale non è solo una battaglia politica. È il simbolo di una crisi di sistema che nasce dall’aumento della disuguaglianza. Il fattore chiave di ostacolo alla ripresa per la prima volta hanno trovato “chiuso”. E così, molto semplicemente, hanno deciso di aggirare le barriere, aiutati per l’occasione da alcuni membri del Congresso statunitense. Una soluzione di ripiego che non ha però cancellato il disappunto generale. «Tutto questo è deludente e disgustoso per il nostro Paese», ha dichiarato il 90enne Hunter al cronista del NY Daily. «Tutti noi meritiamo di meglio. Da qualche parte, in qualche modo, qualcuno deve aver fatto un casino».

r. Bob Hunter, di Gulfport, Mississippi, ha la fama di uno che non si arrende. Nel corso della sua vita, ha raccontato il quotidiano New York Daily News, ha accumulato avventure a dir poco romanzesche, come sopravvivere a uno schianto aereo o arrampicarsi sulla Tour Eiffel per piazzare una radio trasmittente nei giorni della liberazione della capitale dall’occupazione nazista. Tutte esperienze che rendono per lo meno testardi di fronte agli ostacoli. Il primo ottobre di quest’anno il signor Hunter e altre decine di veterani della seconda guerra mondiale si sono recati a Washington, presso la sede del loro memoriale, per compiere un rito che si ripete da sempre. Ma

M

La battaglia politica Il casino, in effetti, esiste eccome. E a combinarlo sono stati i deputati e i senatori statunitensi. Alla fine di settembre

IL TETTO DEL DEBITO DA REAGAN A OBAMA Tetto del debito, in mld di dollari

Rapporto debito/pil

20000

Reagan [rep.]

17500

Bush Sr [rep.]

Clinton [dem.]

Bush Jr [rep.]

Obama [dem.]

15000 12500 10000 7500 5000

| 24 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

27/01/2012

19/05/2013

21/09/2011

12/02/2010

02/08/2011

17/02/2009

28/12/2009

30/07/2008

03/10/2008

29/09/2007

19/11/2004

20/03/2006

27/05/2003

05/08/1997

28/06/2002

10/08/1993

29/03/1996

05/11/1990

06/04/1993

28/10/1990

08/11/1989

09/08/1990

07/08/1989

10/08/1987

29/09/1987

21/10/1986

15/05/1987

21/08/1986

14/11/1985

12/12/1985

13/10/1984

06/07/1984

21/11/1983

25/05/1984

26/05/1983

30/09/1982

30/09/1981

28/06/1982

07/02/1981

0

30/09/1981

2500

110% 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

FONTI: BEA (BUREAU OF ECONOMIC ANALYSIS), WHITE HOUSE, US TREASURY IN THE GUARDIAN (WWW.THEGUARDIAN.COM), 2012. TRADING ECONOMICS (WWW.TRADINGECONOMICS.COM), NOSTRA ELABORAZIONE

gli Usa hanno chiuso il bilancio, ma democratici e repubblicani non hanno trovato l’accordo sul budget 2014. Di fronte all’impasse il governo ha dovuto, quindi, sospendere l’erogazione dei servizi non essenziali, chiudendo parchi nazionali, musei, agenzie come la Nasa e uffici pubblici vari, lasciando a casa temporaneamente circa 80 mila lavoratori e bloccando l’accesso a luoghi e servizi a milioni di utenti. Tra cui il vecchio Bob, appunto. Lo “Shutdown”, come viene chiamata la chiusura forzata, è durato 16 giorni, il tempo necessario per l’innalzamento del cosiddetto “tetto del debito” (debt ceiling), quel limite di 16.700 miliardi di dollari che a partire dal 17 ottobre scorso il Tesoro è stato autorizzato a superare grazie all’intesa di Senato, controllato dai democrats, e Congresso, a maggioranza repubblicana. Il default tecnico è stato così scongiurato, ma i problemi non sono stati risolti. Al di là del danno economico (quasi un terzo di punto di Pil bruciato per ogni settimana di chiusura

di Matteo Cavallito


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Una società di diseguali La risposta appare decisiva, soprattutto per le sue implicazioni. Perché quella che si sta manifestando in queste settimane non è solo una crisi politica. Quanto piuttosto una crisi di sistema. A sostenerlo è stato implicitamente lo stesso Obama che, in un’intervista alla ABC, ha puntato il dito contro la politica dei tagli alla spesa: «Non c’è nessun economista serio là fuori capace di sostenere che, seguendo l’agenda repubblicana fatta di ulteriori tagli all’istruzione, alla ricerca e allo sviluppo e agli investimenti infrastrutturali, si otterrebbe un’inversione nei trend di disuguaglianza». Il riferimento appare chiarissimo e non potrebbe essere altrimenti. Per capirlo basta guardare alle cifre. Due anni fa l’ex Segretario al Lavoro e attuale docente di Berkeley Robert Reich aveva evidenziato alcuni dati storici sorprendenti. Tra il 1947 e il 1979, aveva spiegato, il 20% più povero dei cittadini Usa (il cosiddetto bottom fifth) aveva visto crescere il proprio reddito del 122%. Nello stesso periodo, il 20% più ricco (top fifth) aveva conosciuto un aumento del 99%, il più basso tra quello registrato da ogni singola fascia sociale. Tra il 1980 e il 2009 la ricchezza in mano al top fifth è aumentata del 55%, quella delle classi intermedie (4°3°-2° fifth) è cresciuta rispettivamente del 25, 15 e 7%. I più poveri, al contrario, sono diventati ancora più poveri: -4%. Alle argomentazioni di Reich, che hanno anche ispirato un documentario (vedi SCHEDA ), si sono aggiunte a settembre le tesi di Robert Saez,

altro docente della Berkeley, secondo cui a beneficiare della (timida) ripresa post Lehman sarebbe stato di fatto quasi solo l’1% più ricco degli americani (vedi BOX ). Quelle del 2009-2012, per la cronaca, sono le cifre peggiori degli ultimi 20 anni (vedi TABELLA ). Il premio Nobel Paul Krugman ha lanciato l’allarme: «Ci sono ragioni per credere che alti livelli di disuguaglianza rendano peggiore la società», ha dichiarato a maggio alla CBC, mentre il suo collega Joseph Stiglitz ha dedicato addirittura un libro allo stesso tema (vedi SCHEDA ), individuando nel tracollo della domanda aggregata (redditi più bassi implicano minori consumi) uno dei principali ostacoli alla ripresa. Una ripresa, è ovvio, che non potrà più passare attraverso le soluzioni del passato a cominciare dal credito tossico. Quasi vent’anni fa, quando il gap redditizio era già preoccupante e milioni di

LIBRO Joseph Stiglitz Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro Einaudi, 2013

americani si scoprivano privi di mezzi per acquistare un’abitazione, l’allora presidente Clinton si fece venire un’idea. E in un documento intitolato National Homeownership Strategy (1995) si rivolse apertamente alla «creatività e alle risorse dei settori pubblico e privato» per «affrontare gli ostacoli finanziari al possesso di una casa». In pratica la benedizione presidenziale ai mutui subprime. Il seguito della storia è ampiamente noto. 

CRESCITA DEL REDDITO PER GRUPPI SOCIALI NEGLI USA: 1993-2012 Crescita del Crescita media reddito per del reddito l’1% più ricco

Crescita del reddito per il restante 99%

Crescita (o perdita) intercettata dal Top 1%

Espansione era Clinton 1993-2000

31,5%

98,7%

20,3%

45%

Recessione 2000-02

-11,7%

-30,8%

-6,5%

-57%

Espansione era Bush 2002-07

16,1%

61,8%

6,8%

65%

Grande recessione 2007-09

-17,4%

-36,3%

-11,6%

-49%

Ripresa 2009-12

6%

31,4%

0,4%

95%

Totale 1993-2012

17,9%

86,1%

6,6%

68%

STATI UNITI: LA DISUGUAGLIANZA AI MASSIMI STORICI Nei quattro anni successivi al collasso della Lehman Brothers i redditi percepiti negli Usa sono cresciuti appena del 6%. Ma la distribuzione di questa crescita è stata clamorosamente iniqua: nel periodo in esame, infatti, l’1% più ricco della popolazione americana ha visto il proprio reddito aumentare del 31,4% contro lo 0,4% degli altri cittadini. In sintesi, l’America dei super ricchi si è accaparrata il 95% dei frutti della timida ripresa economica. È questo il dato più significativo che emerge dal report Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, pubblicato a settembre dall’economista e direttore del Center for Equitable Growth di Berkeley, Emmanuel Saez, con un aggiornamento rispetto alle ricerche precedenti realizzato grazie ai dati preliminari per il 2012, gli ultimi disponibili. «Nell’insieme – scrive Saez – questi risultati lasciano intendere che la Grande Recessione ha depresso solo temporaneamente le quote di reddito dei più ricchi senza incidere sul clamoroso aumento di queste ultime iniziato a partire dagli anni ’70». Ad oggi il 10% più ricco degli americani si appropria di oltre la metà del reddito prodotto nel Paese. È la quota più alta dal 1917, l’anno in cui sono cominciate le rilevazioni. Per leggere la ricerca originale: www.valori.it/moduli/saez-UStopincomes-2012.pdf M.Cav.

| ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 25 |

FONTE: EMMANUEL SAEZ, “STRIKING IT RICHER: THE EVOLUTION OF TOP INCOMES IN THE UNITED STATES”, UC BERKELEY. SETTEMBRE 2013

secondo Goldman Sachs), resta sul tavolo un pomo della discordia chiamato Patient Protection and Affordable Care Act (PPACA), meglio noto come Obamacare, il programma di assistenza sanitaria federale che costa in media 110 miliardi di dollari all’anno e che garantirà una copertura medica a milioni di americani oggi senza assicurazione. I repubblicani vorrebbero inserirlo nell’elenco delle iniziative soggette al maxi piano di taglio alla spesa pubblica (il celebre sequester), 1.200 miliardi in dieci anni, approvato in occasione del precedente rialzo al tetto debitorio, l’ultimo di una lunga serie (vedi GRAFICO ). Chi vincerà?


| valorifiscali |

Costo del lavoro

Il cuneo della discordia l governo sembrerebbe avviato verso un tentativo di riduzione del cosiddetto cuneo fiscale. Non è la prima volta che se ne parla e il governo Prodi del 2006 aveva affidato a una misura di questo tipo grandi speranze, risultate in buona parte disattese. Prima di tutto è necessario capire di cosa stiamo parlando. Il cuneo fiscale è la differenza tra, da un lato, il costo

I

del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e, dall’altro lato, la retribuzione netta percepita dal lavoratore. Questa differenza è alimentata da diverse componenti. Vi sono innanzitutto i contributi sociali e, in particolare, quelli previdenziali a carico del datore di lavoro. Sempre sul datore di lavoro grava, almeno in teoria, il carico Irap, che è commisurato al costo del lavoro (e alle altre componenti del valore aggiunto, gli utili e gli interessi netti). A questo punto si ottiene la retribuzione lorda del lavoratore, da cui vengono sottratte un’ulteriore quota di contributi sociali e le imposte sul reddito (Irpef). In effetti, secondo le teorie economiche, queste differenziazioni sono solo formali. In una contrattazione tra due parti, quello che conta sono le alternative che ciascuna ha a propria disposizione. Se un’impresa può scegliere fra molti lavoratori, ed è quindi in grado di rispondere a una richiesta di maggiore salario da parte di un lavoratore riducendo le ore da lui lavorate e rimpiazzandole con qualcun altro, allo stesso modo traslerà sul lavoratore, con una minore retribuzione lorda, l’effetto di un aumento dei contributi (seppure nella componente formalmente a suo carico) o dell’Irap. Ovviamente questo è tanto più possibile | 26 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

Un aumento di lieve entità delle retribuzioni nette, in un periodo di crisi come quello attuale, rischia di non essere neppure percepito dai lavoratori quanto più flessibili sono i rapporti di lavoro. Per le stesse ragioni se, come sembra dovrebbe accadere in questo caso, vengono ridotte le componenti del cuneo che gravano formalmente sul lavoratore, non è affatto detto che questo corrisponda in tutti i casi a un incremento della retribuzione netta, a parità di retribuzione lorda e quindi di costo del lavoro. Se questo avvenisse, la riduzione del cuneo potrebbe effettivamente generare un incremento dei

di Alessandro Santoro

redditi dei lavoratori, con le conseguenze positive auspicate sulla distribuzione dei redditi e, potenzialmente, anche sui consumi. D’altra parte l’aumento della retribuzione netta potrebbe creare maggiori incentivi all’offerta di lavoro sul mercato formale. Questi effetti positivi, tuttavia, sono strettamente legati alle dimensioni dell’intervento: un aumento di lieve entità della retribuzione netta, in un periodo di grande incertezza economica come quello attuale, rischia di passare del tutto inosservato e di non essere neppure percepito dai lavoratori. Sarà invece sicuramente percepito dal bilancio pubblico, in modo negativo, posto che il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil è ancora (purtroppo) vigente e non appare di facile conseguimento neppure nel 2014. 


fotoracconto

05/05

MANNA / PEACELINK

Lo stabilimento Ilva visto dal primo seno del Mar Piccolo. Si possono vedere i pali dell’allevamento di cozze, proprio quelli sequestrati e destinati al macero a causa dell’inquinamento. A riguardo PeaceLink ha realizzato un video, visibile sul canale youtube di Luciano Manna. I video inerenti all’Ilva sono quelli contenuti nel dossier inviato alla Commissione Ambiente del Parlamento europeo che il 26 settembre ha notificato una procedura di infrazione allo Stato italiano per mancati controlli sull’Ilva. | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 27 |


| numeridellaterra |

Un mondo sempre più diseguale

5,4

6,1 1

FINLANDIA +28,6% | 1995-2010

1

8,9

SVEZIA +48,8% | 1995-2010

6

5,3 1

CANADA +23,6% | 1995-2010

1

1

15,9 5,6

28,5

ISLANDA -5,4% | 2004-2010

NORVEGIA +11,1% | 1995-2010

1 10

BELGIO -1,8% | 2004-2010 1 9,1

USA +27,2% | 1995-2010

1

REGNO UNITO +12,4% | 1995-2010

di Matteo Cavallito

1 1

re anni fa i milionari di tutto il mondo possedevano quasi 70 mila miliardi (trilioni) di dollari: oltre un terzo della ricchezza globale nelle mani di meno di 25 milioni di persone, lo 0,5% della popolazione adulta. Oggi, riferisce l’ultimo rapporto di Credit Suisse, i detentori di una ricchezza superiore al milione di dollari sono saliti a 32,2 milioni per un patrimonio di 100 trilioni di biglietti verdi: il 41% del totale. Nello stesso periodo le persone con un reddito pro capite inferiore a 10 mila dollari sono salite da 3 a 3,2 miliardi, ma il valore dei loro assets è calato da 8,2 a 7,3 trilioni di dollari: dal 4,2 al 3% della ricchezza del mondo. Il trend di disuguaglianza ha radici profonde. Nel 1995 nei Paesi Ocse le entrate complessive (redditi e rendimenti) del 10% più ricco della popolazione superavano quelle del 10% più povero di 8,9 volte. Nel 2010, ultimo anno in cui sono disponibili dati, il rapporto medio è di 10-1. L’aumento è stato evidente ovunque, anche nei Paesi scandinavi, tradizionalmente più “equi”. Negli Usa il rapporto è di quasi 16 a 1. Record per Cile e Messico con 26,5 e 28,5 a 1. 

IRLANDA +24,7% | 2004-2009

MESSICO -14,9% | 1995-2010

T

| 28 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

7,2

6,7 1

FRANCIA +18,0% | 1996-2010

26,5

1

GERMANIA +11,7% | 1995-2010

13,1

9,3

1 1

SPAGNA +23,6% | 2004-2010

1

PORTOGALLO -21,2% | 2004-2010

CILE -9,9% | 2004-2010 Il rapporto tra il 10% più ricco e l’1% più povero Variazione Periodo in esame FONTE: OECD INCOME DISTRIBUTION DATABASE 2013. NOSTRA ELABORAZIONE


9,8

8,8 7,7 1

5,3

OCSE +10,1% | 1995-2010 1

1

DANIMARCA +32,5% | 1995-2010

1

ESTONIA -20,7% | 2004-2010

POLONIA -34,2% | 2004-2010

5,9

5,4

1

6

1

1

UNGHERIA -7,7% | 1995-2009

SLOVACCHIA -3,3% | 2004-2010

REP. CECA +5,9% | 1996-2010

6,9

10,7

5,6

1

1

LUSSEMBURGO +7,7% | 1996-2010

OLANDA +2,3% | 1995-2010

10,2

1

GIAPPONE +4,9% | 1995-2009

5,9

5,3 10,5 1

1

AUSTRIA +0,0% | 2004-2010

1

ITALIA -3,8% | 1995-2010

SLOVENIA -1,9% | 2004-2010

15,1

13,6

1

COREA DEL SUD +10,5% | 2006-2011

10,8

8,9

1

FONTE: CREDIT SUISSE, “GLOBAL WEALTH DATABOOK” (EDIZIONI 2010 E 2013). NOSTRA ELABORAZIONE. DATI IN DOLLARI USA

ISRAELE +58,1% | 1995-2010

1

1

GRECIA -0,9% | 1995-2010

TURCHIA -12,7% | 2004-2009

1

AUSTRALIA +15.6% | 1995-2010

LA DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL MONDO: 2010-2013 Livello di Numero di Ricchezza ricchezza individui* totale

% ricchezza mondiale

2010

2013

2010

2013

2010

2013

24,2 mln

32,2 mln

69,2 trn

98,7 trn

35,6%

41,0%

334 mln

361 mln

85,0 trn

101,8 trn

43,7%

42,3%

> 1 mln USD 100.000 1 mln USD 10.000 100.000 USD < 10.000 USD

1,045 mld

1,066 mld

32,1 trn

33,0 trn

16,5%

13,7%

3,038 mld

3,207 mld

8,2 trn

7,3 trn

4,2%

3,0%

TOTALE

4,441 mld

4,666 mld

194,5 trn

240,8 trn

8

1

NUOVA ZELANDA +10,1% | 1995-2009

* Totale degli individui adulti | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 29 |

ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

| ricchi e poveri |


| 30 | valori | ANNO 13 N. 112 | SETTEMBRE 2013 |


| indebite pressioni |

economiasolidale Slow Food: «La scienza è ricerca, non mercato» > 34 La Valsusa in Toscana > 35 L’Italia della concia alla conquista del mondo > 37

I giganti dell’agrochimica all’attacco dell’Europa Da Bayer a Basf, da Novartis a Syngenta. Ma anche Ibm e Philips. Una cordata di multinazionali invia una lettera ai vertici dell’Ue per chiedere di avere le mani libere e fare innovazione senza preoccuparsi del principio di precauzione, posto a salvaguardia di uomo e ambiente

di Corrado Fontana e Valentina Neri

na lettera, diffusa in anteprima da Valori.it il 16 ottobre scorso, è finita sulla scrivania dei massimi vertici degli organismi dell’Unione europea: il presidente dalla Commissione José Manuel Barroso, il presidente del Parlamento Martin Schulz e il presidente del Consiglio Herman Van Rompuy. A scriverla è stato l’European Risk Forum (ERF), un think tank di multinazionali di diversi settori (vedi BOX ). Per intuirne la portata basta dare uno sguardo all’elenco dei firmatari: gli amministratori delegati di Bayer, Basf, Dow Chemical, Corning e Agro, Henkel, Novartis, Solvay, Syngenta e Curis, appoggiati da multinazionali hi-tech del calibro di Ibm e Philips. I big dell’agrochimica mondiale hanno fatto sentire la propria voce per avanzare una richiesta chia-

U

| ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 31 |


| economiasolidale |

rissima alle istituzioni comunitarie: accantonare il principio di precauzione.

Tutela per l’uomo e l’ambiente o ostacolo all’innovazione? Un principio, sancito dall’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, non è altro che l’impegno a tutelare la salute umana e l’ambiente, ad esempio bloccando la distribuzione di un prodotto in caso non ci siano dati scientifici sufficienti a escludere che

possa rivelarsi pericoloso. «Non lo si può dunque liquidare soltanto come un lacciuolo legale», avverte il segretario generale della Firab (Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica) Luca Colombo, perché, allargando il campo, è «un modo in cui la società valuta l’adozione di nuove tecnologie». Ma, nelle parole della lettera, il principio di precauzione diventa qualcosa di molto diverso. Diventa un ostacolo all’innovazione, che, si legge, è «per definizio-

COS’È L’EUROPEAN RISK FORUM L’European Risk Forum (ERF) è un think tank nato nel 2007 e operativo a Bruxelles. I suoi membri sono poco più European Risk Forum di una quindicina di colossi del tabacco, della chimica, dell’agroindustria e dei beni di consumo. Tutti pagano una quota annuale per finanziarne le attività, arrivando a un bilancio complessivo che nel 2011 è stato pari a 120 mila euro. Fra gli aderenti ci sono anche Basf, Bayer, Dow Chemical e Syngenta, che figurano nell’elenco dei firmatari della lettera ai vertici dell’Ue. Le altre aziende «hanno aderito perché convinte della bontà e della necessità dell’iniziativa», ha spiegato Lorenzo Allio. Che ha negato che all’ERF siano arrivati contributi esterni per finanziare questo progetto. V.N.

ne l’assunzione di rischi». La stessa innovazione in nome della quale ogni anno queste aziende investono 21 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, garantendo – sottolineano, con toni che non lasciano spazio a interpretazioni – un importante numero di posti di lavoro. Alla missiva è allegato un vero e proprio manifesto in otto punti con cui si chiede di studiare un nuovo sistema normativo che lasci campo libero alle esigenze dell’industria. «Il principio di precauzione non è messo in discussione dall’European Risk Forum», ha voluto precisare, interpellato da Valori, il Senior Policy Analyst del think tank Lorenzo Allio, aggiungendo tuttavia che serve un “principio di innovazione” per «bilanciare una tendenza ad applicarlo in maniera troppo assoluta».

Se le multinazionali difendono i propri interessi Se queste imprese hanno scelto di prendere posizione in modo così forte, probabil-

“Lasciateci le mani libere!” Lettera aperta a: José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo 24 ottobre 2013 Egregi Presidenti, in qualità di principali investitori nell’innovazione europea, accogliamo l’attenzione dedicata all’innovazione da parte dei leader dell’Unione europea come la chiave per una ripresa economica sostenibile e per la futura prosperità dell’Europa. Le nostre aziende, insieme, investono ogni anno più di 21 miliardi di euro in ricerca, sviluppo e nell’implementazione di nuovi prodotti e servizi, attività che, nella maggior parte dei casi, sono portate avanti in Europa. Siamo fieri di tale nostro contributo all’occupazione e alla crescita europea e vorremmo che l’Europa continuasse a essere un leader nell’innovazione globale. Per questo motivo siamo profondamente preoccupati per l’impatto negativo sul contesto innovativo in Europa dei recenti sviluppi nella gestione del rischio e nella politica di regolamentazione. L’innovazione è, per definizione, un’attività che comporta dei rischi. Questi rischi devono essere riconosciuti, stimati e gestiti, ma non possono essere evitati, se la società vuole superare sfide importanti come quelle della

| 32 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

sicurezza e della sostenibilità alimentare, idrica ed energetica. L’Europa ha stabilmente cercato un approccio bilanciato alla gestione del rischio tramite un rigoroso approccio su base scientifica e un attento bilanciamento dei principi di precauzione e proporzionalità nelle regolamentazioni di riferimento. Mentre il principio di precauzione richiede di evitare i rischi, il principio di proporzione permette che i benefici dell’assunzione di rischi siano messi a confronto con le possibili conseguenze, sulla base della migliore evidenza disponibile. Il nostro timore è che il necessario bilanciamento di precauzione e proporzionalità sia sempre più spesso sostituito dal mero affidamento al principio di precauzione e al tentativo di evitare il rischio tecnologico. Riscontriamo numerosi esempi pratici relativi a una serie di tecnologie, dall’ingegneria alla chimica, dall’agricoltura alle scienze mediche. Il potenziale di tutte queste tecnologie in termini di benessere sociale ed economico è indiscusso, ma inizia a essere messo a repentaglio perché si predilige sempre più evitare il rischio e si sta perdendo il metodo scientifico dal processo di regolamentazione. Stiamo scrivendo in vista del Consiglio europeo sull’innovazione in programma a ottobre, per portare la vostra attenzione su questi motivi di preoccupazione e per proporre un passo avanti costruttivo. Con questo spirito, vorremmo proporre l’adozione formale di un Principio di Innovazione nelle procedure europee


| economiasolidale |

Le multinazionali firmatarie sottolineano: «Investiamo 21 miliardi di euro all’anno in Europa e creiamo crescita e posti di lavoro». Chi vuole intendere... mente, non è a caso. Si sono esposte proprio in occasione del Consiglio Europeo del 24-25 ottobre, che come primo punto all’ordine del giorno aveva il tema dell’economia digitale, dell’innovazione e dei servizi. E proprio dopo mesi in cui si sono susseguiti diversi segnali accolti con favore dalle Ong e dagli ambientalisti, ma non certo dai Cda delle multinazionali. Secondo Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura sostenibile di Greenpeace, tra di essi si può annoverare lo stop imposto dalla Commissione europea ai Neonicotinoidi e al Fipronil (vedi BOX ). Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente, sottolinea anche che «i fal-

AGROCHIMICA PUNTA DA UN’APE Il bando di due anni emanato dall’Ue sui neonicotinoidi e quello recente al Fipronil – sostanze usate nei pesticidi e capaci di provocare la moria di intere colonie di api – potrebbero essere tra le cause del pressing dei big dell’agrochimica sull’Europa. E, se già spaventa Coldiretti, che agita uno spauracchio da 17 miliardi di euro di potenziali perdite economiche per l’Europa in cinque anni e 50 mila posti di lavoro a rischio nelle zone rurali della Ue, a vantaggio di Paesi liberi da restrizioni, i big del biotech cavalcano l’onda, facendosi forti di quei 21 miliardi di dollari l’anno che investirebbero in ricerca. Peccato che nessuno di loro ricordi quanto valga il servizio di impollinazione volontaria e gratuita che gli insetti fanno per l’agricoltura e da cui in certa misura dipendiamo. «Alcune stime – spiega Federica Ferrario di Greenpeace – fanno valutare quest’opera a livello mondiale in circa 265 miliardi di euro, e senza di essa difficilmente potremo mantenere gli attuali livelli di produzione alimentare agricola. Per molte colture nordeuropee, ma anche del Nord America o dell’Asia orientale, il valore dell’impollinazione può arrivare fino a 1.200 euro per ettaro: chi se ne farà carico? Fino al 75% di ciò che noi produciamo subirebbe un calo in termini di produzione di cibo, senza contare inquinamento del suolo e dell’acqua. Il fatto che questi costi economici non vengano conteggiati è semmai una lacuna del principio di precauzione». Senza contare – ricorda Cinzia Scaffidi di Slow Food – che un metodo per evitare gli insetti infestanti, senza ricorrere agli insetticidi nocivi, c’è già: ed è la rotazione delle colture. Solo quando tale metodo non è stato applicato, aggiunge, sono state effettivamente riscontrate perdite di resa dovute allo stop ai neonicotinoidi: e in ogni caso «sono state minime». C.F e V.N.

necessità di una svolta. Il Principio di Innovazione può aiutare a ristabilire l’equilibrio delle politiche di regolamentazione europee in favore di un investimento continuativo nell’innovazione e ci aspettiamo riscontri positivi dal prossimo Consiglio europeo. Saremo ovviamente molto felici di mettere a disposizione la nostra competenza e la nostra esperienza nella forma che sarà più utile e appropriata per raggiungere questo obiettivo. Cordiali saluti, Yours sincerely

DR. MARIJN DEKKERS, Chairman of the Board of Management, Bayer AG KURT BOCK, Chairman of the Board of Executive Directors, BASF SE per la regolamentazione e la gestione del rischio. Il principio è semplice: ogni volta che si prende in considerazione il principio di precauzione, nel processo politico e legislativo bisogna anche prendere pienamente in considerazione l’impatto sull’innovazione. Per favorire l’avanzamento della discussione alleghiamo anche un breve documento di spiegazione e un elenco di sette raccomandazioni (pubblicate su www.valori.it, ndr). Le vediamo come proposte iniziali e la nostra intenzione è quella di supportare ulteriormente le numerose idee produttive già portate avanti dal High Level Group on Innovation Policy Management e da altri enti esperti. Le quote in gioco sono alte e riteniamo che ci sia urgente

DR. HLEGA RUBSAMEN, Chief Executive Officer, Curis GmbH ANDREW LIVERIS, President, Chairman and Chief Executive Officer, The Dow Chemical Company

ROBERT HANSEN, Chief Executive Officer, Dow Corning Corporation ANTONIO GALINDEZ, President and Chief Executive Officer, Dow AgroScience LLS

KASPER RORSTED, Chief Executive Officer, Henkel AG & Company HARRY VAN DORENMALEN, Chairman, IBM Europe JOSEPH JIMINEZ, Chief Executive Officer, Novartis AG FRANS VAN HOUTEN, President and Chief Executive, Royal Philips JEAN-PIERRE CLAMADIEU, Chief Executive Officer, Solvay S.A. MICHAEL MACK, Chief Executive Officer, Syngenta AG

| ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 33 |


| economiasolidale |

limenti scientifici collezionati in questi anni dalle multinazionali del biotech hanno dimostrato che gli Ogm rappresentano una falsa soluzione sia al problema della fame nel mondo che a quello della diminuzione dell’uso dei pesticidi chimici». Nonostante ciò, continua, con le loro parole questi colossi industriali dimostrano di voler fare di tutto per diffonderli anche «nei Paesi che legittimamente scelgono un tipo di agricoltura e alimentazione diverso, incentrato sulla qualità dei prodotti piuttosto che su politiche strettamente economiche». Luca Colombo della Firab, inoltre, ricorda che proprio di recente l’Unione ha promosso i Partenariati europei per l’innovazione (European Innovation Partnership) su una serie di aree di interesse, tra cui l’agricoltura, proprio per sostene-

re un’idea di innovazione circolare e condivisa. Ideale che questa missiva respinge seccamente.

Tutela minima Ma il principio di precauzione è davvero un impedimento alla crescita? Secondo Federica Ferrario, «semmai il problema è opposto: già oggi non è applicato in modo adeguato. Il numero di nuove sostanze usate nell’industria agrochimica è talmente alto che non siamo in grado di dare un quadro completo delle loro possibili reazioni. E, per renderci conto della portata di questo pericolo, basta ripensare alla storia dell’amianto. È l’ABC del buon senso: evitare che una sostanza, un Ogm o un pesticida venga brevettato senza sapere a che rischi si va incontro». Pretendere garanzie e sicurezza

Slow Food: «La scienza è ricerca, non mercato» di Corrado Fontana

Cinzia Scaffidi, del Centro studi di Slow Food: «Servono più finanziamenti alla ricerca pubblica, che non ha come obiettivo il mercato. La mission delle aziende invece è il profitto, non il bene complessivo» «Il senso della lettera è: “La tecnologia deve andare avanti, non metteteci i bastoni tra le ruote”. Così però qualsiasi presa di posizione ragionevole che metta in dubbio la possibilità della corsa verso il mercato diventa un segnale di antiscientificità. È un fenomeno pericoloso perché la scienza dovrebbe essere proprio qualcosa che ricerca e non è già convinta di avere la verità in tasca. Dovrebbe far venire dubbi e preoccupazioni sul bene comune». Ha reagito così Cinzia Scaffidi, direttore Centro Studio Slow Food, di fronte alla lettera ai vertici dell’Ue da parte dei big dell’agroindustria. Una lettera che mette in discussione il senso stesso di ricerca scientifica… D’altra parte, la mission delle aziende non è il bene complessivo, ma il profitto. Servirebbero più finanziamenti alla ricerca pubblica, che non ha come obiettivo il mercato, ma la ricerca in sé. Sembra una distinzione di lana caprina, ma è il punto chiave. Siccome, per fortuna, anche la ricerca privata deve confrontarsi con la politica, a quel punto partono lettere come questa.

| 34 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

– precisa – non significa voler ingabbiare la ricerca. Quest’ultima, al contrario, «sarà sempre più importante per il futuro, ma deve essere una ricerca veramente innovativa volta alla sostenibilità dei sistemi agricoli sul lungo periodo e alla resilienza in relazione agli impatti crescenti dei cambiamenti climatici». Ma questi obiettivi non hanno ancora la centralità che meritano: lo dimostrano le cifre. «Urs Niggli, il direttore dell’Istituto svizzero di ricerca sull’agricoltura biologica (FiBL) stima che, su un bilancio di circa 52 miliardi di dollari all’anno per la ricerca in agricoltura, meno dello 0,4% sia indirizzato alla ricerca sul biologico e su pratiche sostenibili», conclude. In sintesi, c’è ancora molta strada da fare: e l’offensiva delle agrochemicals sembra darne la conferma. 

L’assegnazione del World Food Prize alla Monsanto ha scatenato molte polemiche.

Almeno qui le cose emergono con chiarezza. Spesso invece tutto procede in modo più oscuro. Qual è il casus belli? C’è già stata una riunione europea sull’innovazione a cui abbiamo partecipato per dire che l’innovazione non può trattare la biodiversità come capitale da consumare. In agricoltura ha senso che, a prescindere dai reali bisogni, la scienza inventi delle cose e poi cerchi in mille modi di imporle? Non avrebbe più senso se la scienza si mettesse in ascolto dei bisogni di chi produce e consuma per trovare le soluzioni? Non mi risulta che il principale bisogno degli agricoltori europei sia quello di avere un mais Ogm sempre uguale, dalla Spagna all’Irlanda. La questione delle sementi non è separata da quella della chimica di sintesi perché il mercato è in mano agli stessi soggetti. I contadini, acquistando le sementi, diventano dei contoterzisti per aziende che forniscono anche il materiale da usare. Così perdono autonomia perché non devono fare altro che allinearsi. Il senso di assedio è giustificato. È il caso del World Food Prize, un grosso stanziamento economico, che quest’anno andrà alla Monsanto. Ma la fondazione World Food Prize è finanziata da diverse aziende, tra cui la Monsanto. Il cosiddetto “Nobel del Cibo” finisce per nobilitare le multinazionali, come se non bastasse la loro attività di marketing. C’è un attacco premeditato ai valori alla base della convivenza tra persone, ma anche tra persone e natura.


BAHNFREND / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

| economiasolidale | alta velocità|

La Valsusa in Toscana di Paola Baiocchi

Il Treno ad alta velocità è un modello di distrazione di fondi pubblici ormai dimostrato. Le indagini della Procura di Firenze sui cantieri Tav nel capoluogo toscano hanno fermato i lavori con ipotesi di reato gravissime. Rinunciare al progetto ci renderebbe più ricchi li italiani sono degli irresponsabili che non capiscono l’importanza delle grandi opere pubbliche? Oppure sono dei cittadini attenti a come si spende il denaro pubblico, che chiedono venga utilizzato in modo sensato? La questione è centrale, ma non è mai affrontata dai media quando raccontano le manifestazioni in Val di Susa o riportano la cronaca della gigantesca indagine della Procura di Firenze che ha bloccato i cantieri del Treno ad alta velocità (Tav) nel capoluogo toscano. Al momento in cui scriviamo (fine ottobre) la situazione è da disastro annunciato: i cantieri fiorentini sono sotto sequestro e la mastodontica fresa Monna Lisa, dipinta di viola in omaggio alla città, è stata da poco dissequestrata, ma resta ferma. L’inchiesta fiorentina ha diversi filoni: dai reati ambientali legati allo smalti-

G

mento delle terre di scavo, alla sicurezza sul lavoro, all’aumento dei costi dell’appalto. Le ipotesi di reato sono molte e tutte gravissime, tra queste: associazione a delinquere, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture, corruzione e traffico di rifiuti.

Sotto Firenze Facciamo un passo indietro: la Tav già passa e si ferma a Firenze ma, a partire dalla fine degli anni Novanta, si è dato il via a un progetto di sottoattraversamento della città con un tunnel di sette chilometri, dalla zona di Campo di Marte a Castello Rifredi. Per aggiungere grandiosità all’opera anche la stazione deve essere sotterranea e interamente dedicata all’alta velocità. Vuol dire passare sotto una città storica, con comprensibili rischi. In termini di tempo il risparmio

è minimo, ma il cantiere è gigantesco: quattro binari, un sottopasso, la stazione ferroviaria (progettata da lord Norman Foster) e uno scavalco ferroviario, che vengono messi a gara per 950 milioni. È il consorzio di imprese Nodavia che, con un ribasso del 23%, si aggiudica i lavori per 750 milioni di euro. «Una cifra improbabile», dice Sandro Targetti, di Rifondazione comunista e attivista del Comitato No tunnel Tav. «Già ora – spiega – i costi sono lievitati di 200 milioni di euro. Facendo una stima basata su quanto si è già realizzato come Tav, noi diciamo che il lavoro non può costare meno di 3,5 miliardi di euro». Solo con le

In alto: Un paio di “FS Elettro Treno Rapido 500 (ETR.500)” , treni ad alta velocità, a Firenze Santa Maria Novella. A sinistra il Treno ad alta velocità (Tav) e alla destra un treno classico. | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 35 |


| economiasolidale |

Reati ambientali, sicurezza sul lavoro, aumento dei costi dell’appalto nell’inchiesta sulla Tav di Firenze. Oltre ad autorizzazioni semplificate e prove “taroccate” discenderie costruite, lo scavo ha già provocato un effetto diga che fa salire l’acqua di falda in una parte della città e la fa abbassare dall’altra parte. Per risolvere questo problema si dovrà prevedere un sistema sperimentale di sifoni, che farà lievitare i costi. Parecchi edifici nella zona dei lavori mostrano lesioni, anche la Palazzina dell’Orologio, tutelata dai Beni culturali. Soluzioni alternative e meno impattanti sulla città esistono e sono molto meno costose: per Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, basterebbe adattare la stazione di Rifredi, spendendo intorno ai 200 milioni di euro.

Un lavoro di squadra Nodavia è controllata per il 70% da Coopsette, cooperativa emiliana con molte relazioni con il Partito democratico (Pd). E tra i 36 indagati per i cantieri Tav a Firenze c’è una figura di spicco del Pd, finita agli arresti domiciliari: Maria Rita Lorenzetti. Per due volte presidente della Regione Umbria, nominata nel 2010 presidente di Italferr, la società di ingegneria delle Ferrovie dello Stato che controlla e realizza le grandi infrastrutture ferroviarie. Per la Procura di Firenze la Lorenzetti «avrebbe messo a disposizione le proprie conoscenze personali e i propri contatti politici e una vasta rete di contatti a vantaggio delle società che lavoravano nel grande cantiere per la Tav di Firenze, da cui poi pretendeva favori per il marito nell’ambito della ricostruzione dell’Emilia del post terremoto». Un lavoro di squadra per rimuovere ostacoli burocratici o persone che in qualche modo potessero rappresentare un ostacolo ai cantieri. Un lavoro per cui la Lorenzetti muove tutte le sue conoscenze. Ne fa le spese anche Marco Zita, funzionario del| 36 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

Le terre di scavo declassate di Paola Baiocchi

Lo smarino, cioè i detriti provenienti dai lavori di scavo di gallerie o miniere, non è più un rifiuto speciale da conferire in discarica. Classificato come sottoprodotto nel decreto del ministro per l’Ambiente, Clini, può essere ora utilizzato nei recuperi ambientali destinati a parchi Con un “ritocchino” piccolo piccolo Corrado Clini, il ministro dell’Ambiente del governo Monti, ha cambiato le regole che disciplinavano lo smaltimento delle terre e delle rocce da scavo. Il risultato è l’abbattimento di uno dei costi dei cantieri della Tav e di tutte le grandi opere sottoposte a Valutazione di impatto ambientale (Via) o Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Ma con quali conseguenze sulla salute dei cittadini? Con il decreto 161 dell’11 agosto 2012 le terre da scavo provenienti da «trivellazioni, sbancamenti, opere infrastrutturali, come gallerie, dighe e strade», non sono più rifiuti speciali da avviare in discarica, ma «sottoprodotti» buoni per essere utilizzati in «reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, ripascimenti, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali». Entro alcuni limiti potranno anche contenere «calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro, vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato». Cioè tutti quei solventi e oli che le trivelle utilizzano durante le estrazioni si aggiungeranno a quanto proviene dal sottosuolo, che può contenere altri inquinanti oppure amianto o minerali radioattivi. I controlli dovranno essere eseguiti dall’Arpa, ma i campionamenti potranno avvenire sul luogo di destinazione. Questo lascia un ampio margine alla manipolazione dei dati, come ipotizzato nelle indagini per la Tav di Firenze. Per i cantieri fiorentini è un bel risparmio: 2.850.000 metri cubi di terre estratte (5,7 milioni di tonnellate) non dovranno più essere conferite in discarica, pagando, ma andranno a realizzare due colline nel progetto di recupero della ex cava di lignite di Santa Barbara, nel Comune di Cavriglia (Arezzo). L’area, di proprietà dell’Enel, dovrebbe diventare un parco attorno al lago artificiale di Castelnuovo dei Sabbioni, che restituirebbe all’uso dei cittadini una cava a cielo aperto esaurita. Tra Enel e Ferrovie c’è già un accordo per il ripristino della linea ferroviaria mineraria per il trasporto da Firenze a Cavriglia dei “sottoprodotti” che, una volta arrivati sul posto, dovranno essere solo essiccati.

la Regione Toscana rimosso dal suo incarico alle Valutazioni ambientali: in una sua relazione aveva espresso perplessità sul progetto di stoccare nell’ex cava di Santa Barbara a Cavriglia (Arezzo) i materiali prodotti dallo scavo, ritenendo che fossero da classificare come rifiuti speciali (vedi ARTICOLO sopra). Le intercettazioni raccolte durante l’indagine fanno venire i brividi: i conci di calcestruzzo che devono rivestire i tunnel non sono ignifughi e nelle telefonate emerge il proposito di “taroccare” i risultati delle prove di fuoco eseguite a Lipsia e definiti “devastanti” dal tecnico

della Seli, la società che ha ottenuto il subappalto per la trivellazione. La fresa invece non monta pezzi originali e quindi è pericolosa e inadatta a scavare. Il punto più delicato dei lavori è il passaggio sotto la Fortezza da Basso «interessata da imponenti consolidamenti cementizi per cui si cercherà di ottenere un’autorizzazione semplificata facendoli apparire come insignificanti». Cosa aggiungere ancora per dimostrare che l’Alta velocità è un clamoroso insuccesso dal punto di vista delle ricadute economiche per la società ed è solo un acceleratore del debito pubblico? 


| economiasolidale | made in Italy a rischio/puntata 7 |

L’Italia della concia alla conquista del mondo di Emanuele Isonio

Quasi cinque miliardi di fatturato diviso tra 1.200 imprese che coprono due terzi della produzione europea e il 17% di quella mondiale. Le concerie tricolore sfidano la crisi e mostrano l’importanza di associarsi per aprirsi ai nuovi mercati

“F

L’INDUSTRIA CONCIARIA ITALIANA [Dati per regione - 2012]

LOMBARDIA 2011/2012 Addetti: 1.025 -1,9% Imprese: 48 -2,0% Produzione: 265 mil. € -4,5% Export: 264,9 mil. € -6,1% % su valore produzione Italia: 5,5% % su valore produzione UE-27: 3,4% Ovicaprine per calzatura e pelletteria 2011/2012 VENETO Addetti: 8.220 -1,6% Imprese: 472 -2,1% Produzione: 2.484 mil. € +0,7% Export: 1.849,3 mil. € +2,5% % su valore produzione Italia: 51,5% % su valore produzione UE-27: 32,2%

TOSCANA 2011/2012 Addetti: 5.572 -0,8% Imprese: 549 -2,0% Produzione: 1.374 mil. € +1,3% Export: 933,7 mil. € +1,4% % su valore produzione Italia: 28,5% % su valore produzione UE-27: 17,8%

inalmente”: dovessimo commentare un intero settore industriale con una parola sola, la più adatta sarebbe questa. Finalmente una filiera che mostra uno stato di salute invidiabile, soprattutto se confrontato con le condizioni di altri comparti. Finalmente un fiore all’occhiello del Made in Italy che non rischia di soccombere sotto il giogo della concorrenza internazionale. Finalmente un caso in cui la Cina non è uno spauracchio, ma un nuovo mercato per i nostri prodotti d’eccellenza. Finalmente un esempio di quali risultati si possono ottenere con le giuste strategie e investendo sul gioco di squadra. L’indirizzo da digitare sul navigatore satellitare per scoprire la punta di diamante della conceria italiana è Santa Croce sull’Arno, tra Pontedera ed Empoli, lungo la direttrice che da Firenze porta a Pisa. Il distretto conciario toscano – primo in Italia per numero di aziende, secondo per fatturato e numero di addetti – sembra essere quello che meglio ha risposto alla crisi e più ha saputo sfruttare i vantaggi offerti dalle associazioni di categoria. Un caso da indagare a fondo. E probabilmente da esportare in altre realtà produttive.

Bovine per calzatura, arredamento e pelletteria

Bovine per calzatura e pelletteria

ALTRE REGIONI PIEMONTE, MARCHE, PUGLIA, EMILIA ROMAGNA, FRIULI VENEZIA GIULIA Addetti: 782 Imprese: 44 Produzione: 255 mil. € Export: 455,2 mil. € % su valore produzione Italia: 5,3% % su valore produzione UE-27: 3,3%

2011/2012 -11,7% = -9,7% -10,4%

Pelli per calzatura, pelletteria e arredamento

CAMPANIA 2011/2012 Addetti: 2.068 -1,4% Imprese: 169 -2,9% Produzione: 441 mil. € -7,5% Export: 189,0 mil. € -1,0% % su valore produzione Italia: 9,2% % su valore produzione UE-27: 5,7% Ovicaprine per calzatura, pelletteria e abbigliamento

FONTE: UNIC, ISTAT 2012, UNIONCAMERE, INAIL

Tre poli che puntano sulla qualità Qui operano oggi circa 550 imprese, che danno lavoro a oltre 5.500 addetti e realizzano prodotti per un valore di quasi 1,4 miliardi di euro. Quasi tutte imprese piccole e medie, una forte vocazione artigianale e le radici ben piantate nella tradizione di un mestiere antico. Oltre alla realtà toscana, la conceria italiana vanta due altri poli principali (vedi MAPPA ). Uno nel Veneto, ad Arzignano, e l’altro | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 37 |


QUOTE DESTINAZIONI D’USO 2012 Abbigliamento e guanti 5,2% Calzature 44,9%

Carrozzeria 8,0%

Altri 2,1% Arredamento 17,9%

Pelletteria 21,8%

FONTE: ISTAT - ELABORAZIONI UNIC

Altri 36,8%

Tunisia 3,4%

Stati Uniti d’America 4,1%

Area Cina 18,8%

Romania 9,6% Francia 6,6% Polonia 3,5% Germania 6,4% Spagna Portogallo 6,3% 4,5%

EXPORT, FATTURATO: PERIODO 2007-2011 EXPORT

QUOTA EXPORT

3.592

5.383

67%

2008

3.260

4.564

71%

2009

2.628

3.829

69%

2010

3.368

4.522

74%

2011

3.706

4.861

76%

in Campania, a Solofra (AV). Nel polo vicentino viene realizzata la metà della produzione nazionale, con ottomila addetti divisi in 472 imprese. Le 169 aziende del polo irpino danno invece lavoro a duemila persone. Un universo di migliaia di realtà che permette all’Italia di segnare un primato europeo e mondiale con pochi eguali in altri comparti industriali: la conceria tricolore, con un fatturato di 4,8 miliardi (e un export di 3,7 miliardi), copre il 62% della produzione europea e il 17% di quella mondiale. «Se siamo rimasti in piedi in questi anni, il merito è dei distretti», commenta Rino Mastrotto, presidente dell’Unic, l’associazione che riunisce i conciatori italiani. I distretti hanno, in effetti, giocato un ruolo cruciale per sfruttare i vantaggi che una rete di piccole aziende sa dare in termini di flessibilità e capacità di assecon-

POLO TECNOLOGICO CONCIARIO CREARE IN CASA GLI ESPERTI DEL FUTURO Un comparto che non sottovaluta i vantaggi dei legami associativi riesce a inventarsi anche un centro che, facendo ricerca, assicura l’avanguardia dei sistemi produttivi e, al tempo stesso, garantisce uno sbocco lavorativo certo ai giovani del territorio. Il Po.Te.Co. (Polo Tecnologico Conciario) di Castelfranco di Sotto (Pisa) è una struttura che da anni è al servizio delle aziende toscane. Diversi gli ambiti di intervento del centro, che viene finanziato dalle imprese conciarie di Santa Croce sull’Arno, di Ponte a Egola, e dal consorzio calzaturieri di Pisa: la sostenibilità ecologica, per mettere a punto processi che permettano di ridurre l’impatto ambientale del settore; l’attività di laboratorio e di sperimentazione che deve incrementare la competitività delle imprese e contribuire all’innovazione di prodotto; la formazione delle risorse umane. E in questo senso è cruciale la collaborazione sia con l’Istituto tecnico Cattaneo di San Miniato e con l’Università di Pisa. «L’Istituto Cattaneo – spiega Piero Maccanti, direttore di Assoconciatori – ha attivato un indirizzo specifico per conciatori. Ogni anno vengono create tre classi per circa sessanta alunni che alla fine vengono assorbiti dal nostro tessuto produttivo». Altrettanto proficuo il percorso universitario: l’ateneo pisano ha attivato i corsi di laurea in ingegneria conciaria e in chimica conciaria. Un canale che ogni anno fa laureare una decina di studenti, per i quali trovare lavoro in una delle realtà della zona è poco più che una formalità. Em.Is.

| 38 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

FATTURATO

2007

dare le richieste dei committenti, sopperendo però alle difficoltà di fare adeguati investimenti in ricerca e aprirsi a nuovi mercati. Accanto a questo c’è, però, una scommessa vinta: quella di aver abbandonato le produzioni a basso costo per puntare sulla qualità e intercettare le esigenze dei grandi marchi del lusso mondiale. E così a Vicenza le pelli economiche per i salotti di primo prezzo hanno lasciato spazio a quelle per calzature, pelletteria e arredamento di alto livello. Hermés, Prada, Gucci, Louis Vuitton. E accanto a loro, Ferrari, Lamborghini, Bentley, Maserati che, nella Valle del Chiampo, fanno realizzare gli interni delle loro auto. In Campania, le forniture low cost per le ditte cinesi che realizzavano prodotti per i colossi Usa sono state scalzate dalle pelli “top level” per borse e scarpe griffate, oltre a conservare la vocazione alla pelle morbida, che ha fatto di Napoli un centro internazionale del guanto.

I frutti positivi del modello toscano Ma è in Toscana che la collaborazione tra le centinaia di realtà del settore ha dato i migliori frutti. «Il distretto, nonostante la crisi, ha sempre mantenuto il segno positivo, con crescite a due cifre», spiega Piero Maccanti, direttore di Assoconciatori, che riunisce gli imprenditori conciari dell’Arno. Un risultato figlio di una ristrutturazione qualitativa: «Le aziende di fascia bassa sono state espunte dal mercato. Al contrario siamo riusciti a consolidare i rapporti con le grandi firme mondiali, che esigono garanzie di qualità sia per i materiali usati sia sul fronte ambientale e della responsabilità sociale». Non a caso, complice la calma piatta sul mercato interno, all’estero va oggi il 70% della produzione («Appena quattro anni fa era esattamente il contrario», rivela Maccanti). Per pene-

FONTE: UNIC

| economiasolidale |


| economiasolidale |

trare nei nuovi mercati, avere forme associative consolidate è un grande punto a proprio favore. E permette anche di ridurre il rischio di delocalizzare le produzioni. Tanto più che il costo del lavoro incide per il 12-13%, «una percentuale non sufficiente a rendere vantaggioso il trasferimento», osserva Maccanti. Marciare uniti si è rivelato un enorme vantaggio anche per condividere i costi ambientali e di ricerca. Due voci ineludibili, visto che quello conciario è uno dei settori industriali più impattanti sull’ambiente (alti consumi elettrici, grande necessità di acqua, ampio uso di sostanze chimiche). Sul fronte energetico Assoconciatori, su delega delle aziende associate, da ormai sei anni fa una gara unica per la fornitura di metano, spuntando prezzi altrimenti impossibili. «Quest’anno – spiega Maccanti – siamo riusciti a far risparmiare 1,2 milioni». Gli impatti ambientali sono stati ridotti attraverso la creazione di un depuratore unico a Santa Croce (vedi ARTICOLO ). «Noi avevamo un impianto centralizzato già nel 1974, prima ancora del varo della Legge Merli (che introduceva regole per gli scarichi di sostanze inquinanti nelle acque, ndr). Negli anni su questo sistema abbiamo investito circa 1,8 miliardi. Cifra impensabile per qualsiasi azienda». Gli investimenti in ricerca – che hanno reso possibile la creazione del Polo Tecnologico Conciario (vedi BOX ) – sono stati invece necessari sia per sviluppare nuovi prodotti sia per rendere più efficienti i processi produttivi.

La grande sfida delle materie prime Tanti anelli che contribuiscono a consolidare il senso di solidarietà tra gli associati («tutti pregano che nessun concorrente muoia perché concorre a pagare costi fissi e condivisi») e a mantenere il settore vivo, competitivo e attraente per i committenti esteri. Non è un caso che al distretto toscano abbiano fatto visita in momenti diversi sia il presidente cinese Hu Jintao, sia Wen Jabao, premier fino a marzo scorso, e sei ministri del suo governo. E non è un caso che, anche sul fronte del credito, le aziende non abbiano problemi a ottenere prestiti dalle banche (il tasso di rischiosità è sotto all’1%), a condizioni migliori che altrove. I rischi non sono ovviamente assenti. Su tutti, i costi delle materie prime, che incidono per oltre il 60% del totale e che sui mercati internazionali sono sottoposti a sbalzi impressionanti. «Anche del 300-400% in mezzo anno» rivela Maccanti. Frutto di speculazione ma anche degli acquisti di pellame effettuati in quantità sempre maggiori dalle imprese del Far East, che possono pagare di più perché hanno costi più bassi. Una sfida ineludibile per i conciatori italiani. Ancora una volta saper fare gioco di squadra può fare la differenza. 

GLOSSARIO Il termine “concia” riassume il processo, lungo e complesso, al quale vengono sottoposte le pelli per conservarle e lavorarle. Tre le fasi principali (concia, riconcia e rifinizione) che possono essere a loro volta suddivise in ulteriori sottopassaggi. Da quando, a cavallo tra Ottocento e Novecento, è stata scoperta la capacità conciante del cromo trivalente, questo tipo di concia, più semplice, rapido, economico e versatile, ha preso rapidamente il sopravvento sui metodi tradizionali e oggi viene usato per l’85-90% dei prodotti di cuoio conciati nel mondo.

Ambiente, tra sforzi e furbetti di Emanuele Isonio

Nell’ultimo decennio, risultati positivi nelle attività di trattamento delle acque. Ma i depuratori affidati solo ai privati sollevano dubbi sulla loro reale efficacia e immagini delle acque fetide del torrente Usciana rischiano di mettere una pietra tombale sugli sforzi che il settore conciario sta facendo per ridurre l’impatto ambientale delle sue attività. La vicenda risale a metà settembre quando la Guardia di Finanza ha accertato gravi irregolarità nello smaltimento delle acque reflue nell’impianto di depurazione di Ponte a Cappiano (comune di Fucecchio, Fi). Cinque milioni di metri cubi di liquami immessi nell’Usciana e, da lì, nell’Arno. Una “furbata” che avrebbe permesso in sette anni di risparmiare 1,35 milioni di costi di lavorazione, tre milioni di smaltimento fanghi e di percepire profitti ingiusti per 14 milioni. Sotto accusa, i vertici del depuratore di proprietà del Consorzio conciario di Fucecchio. Contro i quali si sono scagliati sia i sindaci della zona, preoccupati per il danno sanitario e ambientale, sia le imprese conciarie, che temono un danno d’immagine difficilmente recuperabile: «Per noi è stata una batosta enorme, soprattutto perché rischia di rompere l’equilibrio che c’è nel territorio, minando la fiducia reciproca con la cittadinanza e gli enti locali, che hanno accettato l’insediamento degli impianti di depurazione» denuncia Piero Maccanti, direttore dell’Associazione conciatori di Santa Croce.

L

Un clamoroso danno d’immagine In effetti, i risultati presentati dall’Unic (Unione nazionale industria conciaria) mostrano risultati quantomeno incoraggianti. Nel 2012 i livelli di inquinanti nelle acque in uscita sono stati in molti casi pressoché azzerati: 92,7% per l’azoto, 96% per l’ammoniaca, 98,8% per i solidi sospesi, oltre il 99% per cromo3 e solfuri. Indietro nel dato solo cloruri (21% di abbattimento) e solfati (28%). E anche sul fronte dell’acqua utilizzata per unità di prodotto, i consumi, nell’ultimo decennio, sono sensibilmente diminuiti: dai 136 litri/m2 del 2002 si è passati ai 107,8 dell’anno scorso. Un risultato che però non ha fatto risparmiare soldi alle aziende: i costi di gestione delle acque incidono infatti per il 3% del fatturato. Più o meno il doppio rispetto al 2002. | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 39 |


ACQUE: DATI DI SINTESI INDICATORE

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

Acqua consumata per unità di prodotto (l/m2)

136,0

121,7

109,9

121,8

113,3

108,6

117,3

118,4

104,0

108,9

107,8

Costi gestione acque/fatturato (%)

1,43%

1,58%

1,63%

1,71%

1,58%

1,54%

2,05%

1,97%

2,57%

2,96%

2,98%

Se pubblico e privato collaborano… Rimane il fatto che episodi come quello di Fucecchio sollevano dubbi sull’opportunità di affidare unicamente ai privati le attività di depurazione. Una possibile soluzione può però venire proprio dall’esperienza del depuratore Acquarno di Santa Croce sull’Arno, nel quale, tra l’altro, sono state convogliate le acque reflue prima trattate nell’impianto di Ponte a Cappiano. Il depuratore è infatti gestito da una società a capitale privato e finanziato dalle aziende conciarie associate (con una quota calcolata in funzione dell’acqua utilizzata dai propri impianti), ma è partecipato dai Comuni della zona, dalla Provincia di Pisa, dalla Regione Toscana e dall’Alto Basso Valdarno. Dei nove membri del CdA, quattro sono espressi dai privati e cinque, tra cui il presidente, dagli enti pubblici. «Questo

sistema – commenta Maccanti – da decenni rappresenta la soluzione ideale per garantire l’interesse collettivo attraverso il controllo di un impianto così delicato e cruciale sotto il profilo della tutela ambientale». Paradossalmente, la vicenda di Fucecchio ha accelerato i programmi futu-

ri del depuratore Acquarno, che diverrà l’unico della zona. «Entro il 2015 il progetto prevede che in esso vengano convogliate anche le acque dei 54 Comuni a monte del fiume e l’impianto di Ponte a Cappiano sarà infatti trasformato in un centro di raffinazione delle acque a uso conciario». 

CONCIARE AL VEGETALE LA SCELTA FA BENE A SALUTE, AMBIENTE E AFFARI Tra le migliaia di aziende del settore conciario, alcune hanno scelto di assicurarsi un futuro guardando al passato: tannini al posto del cromo. E un lento processo di lavorazione che in 40 giorni trasforma la pelle grezza in un materiale che racchiude in sé l’arte secolare dei maestri conciatori toscani. La concia al vegetale è un processo tramandato di padre in figlio che anziché ricorrere a prodotti chimici, ancora oggi lavora la pelle attraverso sostanze naturali derivanti da alberi, piante e frutti e radici. Il procedimento di trasformazione è più lungo e costoso. Ma il prodotto finale è di altissima qualità. Sia per il minore impatto sull’ambiente, sia perché la concia al vegetale garantisce dal rischio di dermatiti allergiche, sempre possibili quando la pelle viene a contatto in modo prolungato con abiti e calzature ottenute con trattamenti convenzionali.

| 40 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |

In Italia poche aziende ancora portano avanti questa scelta, ma i risultati, per loro, sono invidiabili. Tra l’arte e l’artigianato, i conciatori al vegetale attirano l’interesse di griffe e case d’alta moda. «I prodotti di questo tipo si rivolgono senza dubbio a nicchie del mercato di lusso ma sono quelle che meno hanno risentito della crisi e vengono premiate anche a livello internazionale» spiega Katiuscia Lippi, una delle responsabili del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, organismo che dal 1994 riunisce una ventina di concerie fiorentine e pisane e ne promuove i prodotti in giro per il mondo (www.pellealvegetale.it). Sedi prestigiose li hanno accolti di volta in volta: il Guggenheim Museum di New York, il Centre Pompidou di Parigi, il Natural History Museum di Londra, il Park Tower Hall di Tokyo. «Il Giappone – rivela Lippi – è forse il mercato più attento al nostro lavoro, tanto da ospitare periodicamente nostri seminari tecnici». Quando i pellettieri acquistano le pelli dalle imprese affiliate possono contemporaneamente comprare anche i cartellini di garanzia, rilasciati dal Consorzio, che tracciano tutti i passaggi del prodotto e permettono di risalire a tutti gli anelli della filiera. Em.Is.

FONTE: UNIC 2012

| economiasolidale |


| socialinnovation |

Social Enterprise World Forum 2013

Impresa sociale, ecosistemi a confronto a disuguaglianza cresce a passi da gigante in tutto il mondo (vedi la MAPPA a pag. 28), in alcuni luoghi a livelli che non si vedevano dai tempi della Grande Depressione: a una maggiore concentrazione della ricchezza non corrisponde un livello di benessere diffuso. Anche l’ecosistema sociale soffre gli effetti della diseguaglianza economica, mostrando la disgre-

L

di Andrea Vecci

gazione delle comunità, l’aumento dell’analfabetismo, la diffusione dei problemi di alimentazione infantile, l’insicurezza sociale o la povertà crescente anche nei Paesi sviluppati. Occorre individuare nuovi modelli economici, che affrontino le sfide sociali e ambientali. Il ripensamento sull’economia al servizio delle persone e del Pianeta, oltre che del profitto, passa anche da Calgary, in Canada. Il Social Enterprise World Forum è un evento internazionale in cui si discutono i temi dell’impresa sociale, del terzo settore e dell’innovazione sociale. L’ultima edizione si è tenuta all’inizio di ottobre e ha visto riunite 1.200 persone provenienti da 30 Paesi. Sono intervenuti 130 relatori in 45 workshop, condividendo strategie e soluzioni per incrementare l’impatto delle imprese sociali nei diversi contesti economici e legislativi: dalle metropoli nordamericane alle zone rurali dell’Africa. Il Canada ha sfruttato l’occasione per presentare la vivacità della propria impresa sociale e del movimento di social innovation. In particolare l’impresa sociale si mostra come la più radicata tra le comunità degli Aboriginals, i popoli nativi canadesi, che rappresentano il 5% della popolazione e comprendono la First Nation, gli Inuit e i Meticci (le de-

come una “vitamina” che regola e adatta il metabolismo di un individuo ai cambiamenti esterni, può essere assunta attraverso la nutrizione o autoprodotta dall’organismo. Così l’impresa sociale rivitalizza le comunità rurali indiane, ricucendone la frammentazione e garantendo loro quei beni comuni a cui lo Stato non riesce più a far fronte. Ma rivitalizza anche l’ecosistema giovanile di Cincinnati con il suo incubatore Fly Wheel che consente a gruppi di studenti di mettere al centro della loro carriera futura la risoluzione di problemi sociali. Dopo Calgary sarà la volta di Seul, nel 2014, e di Milano nel 2015 candidata proprio da Acra a ospitare il Forum. In concomitanza con Expo 2015, il Social Enterprise World Forum si terrà in Italia con un format rivisto: oltre mille delegati incontreranno gli imprenditori sociali italiani in un viaggio da Nord a Sud. Anche per l’Italia sarà l’occasione di mostrare al mondo la propria tradizione di economia civile, inclusiva delle fragilità e motore di coesione dei territori. Un’occasione per mettere a punto tutte le infrastrutture legislative, finanziarie e culturali necessarie a valorizzare l’enorme capitale umano che nel nostro Paese si è dedicato all’ecosistema impresa sociale. 

Dalla Silicon Valley alla Vitamin Valley: un modello di impresa che integra il valore sociale. A Milano il forum mondiale, nel 2015 scrizioni di indiani ed esquimesi sono state abolite perché considerati termini dispregiativi). Le partnership inter-culturali sono oggetto di studio anche per quei contesti non toccati da movimenti di autonomia locale o indipendentismo. Ad esempio la delegazione italiana di Acra ha dimostrato come sia possibile trasferire e adattare un modello di impresa sociale dal Paraguay alla Tanzania. I due contesti analizzati hanno molti tratti economici comuni ma soprattutto condividono gli stessi problemi sociali: disoccupazione giovanile, carenze nell’istruzione e nell’imprenditoria. Il Forum ha innalzato gli standard dell’impresa sociale considerandola come la forma che meglio si adatta alle culture e alle esigenze locali: proprio

| ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 41 |



| politica economica |

internazionale GB, sale la protesta anti-shale gas > 46 Diseguali per legge > 48

Fmi, venti anni di errori e di pentimenti

di Andrea Barolini

ttimisti di tutto il mondo, unitevi! Per trovare qualche aspetto positivo nella feroce crisi finanziaria ed economica che stiamo attraversando da anni ce ne vuole, certo. Tra disoccupazione alle stelle, recessioni ripetute e tenaci, ed economie reali stremate, si fatica a vedere il segno “più”. Ciò che si può fare, però, è sperare che il terremoto economico abbia almeno insegnato qualcosa. E che una visione, se non alternativa, per lo meno “diversa” della politica economica possa aver fatto breccia anche in istituti e organismi da tempo permeati di un apparente monolitismo ideologico. Apparente, già. Perché se ad esempio ripassiamo un po’ di storia recente del Fondo monetario internazionale, scopriamo facilmente che i germi del dubbio si sono instillati da tempo nelle stan-

O

Un denominatore comune sembra unire i capi economisti del Fondo monetario internazionale degli ultimi decenni: l’adesione alle tradizionali “regole” di politica economica. Salvo poi cambiare opinione e ammettere, più o meno apertamente, che un cambiamento di prospettiva sarebbe indispensabile

| ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 43 |


| internazionale |

1991 1992

Michael Mussa

ze e nei corridoi di uno dei centri nevralgici delle decisioni economiche e finanziarie dell’Occidente. Di recente Henri Gibier, direttore del quotidiano francese Les Echos, ha concentrato la propria attenzione proprio sugli scossoni (pentimenti?) che in questi decenni – non soltanto dunque a causa della crisi attuale – hanno attraversato i “capi economisti” dell’Fmi. Ne emerge un quadro molto più punteggiato di abiure, mea culpa e ritrattazioni di quanto si possa credere.

1993

L’Fmi per Mussa: trionfo e tragedia

1994

Partiamo dagli anni Novanta, quando a ricoprire la carica di capo economista dell’istituto c’era Michael Mussa, ex consigliere economico del presidente americano della deregulation e della cieca fiducia nel liberismo sfrenato, Ronald Reagan. A partire dalla crisi messicana del 1982 fino ad arrivare ai giorni nostri

1995 1996 1997 1998

le parole d’ordine ufficiali del Fondo monetario internazionale sono state sempre le stesse: rigida disciplina di bilancio, riduzione della spesa pubblica, svalutazione (quando possibile), privatizzazioni, liberalizzazioni. E fiducia incondizionata nel libero scambio, ovviamente. La ricetta, o forse dovremmo dire il prezzo, imposto in una ventina di “salvataggi” ai quali ha partecipato il Fondo, intervenendo con circa 650 miliardi di dollari. Per Mussa, il “bivio” fu segnato dal fallimento dell’Argentina. Così, un attimo dopo aver lasciato il proprio posto, l’economista redento pubblicò un libro dal titolo eloquente: L’Argentina e il Fondo: dal trionfo alla tragedia. Si narra poi che la vicenda personale di Mussa, negli anni successivi, abbia assunto contorni dominati da riflessioni ai limiti della trascendenza. Il New York Times riportò ad esempio un suo impeto di scetticismo e rassegnazione riassunto nella formula: «Il mio strumento di politica economica

1999

NEGOZIATI GRECIA-TROIKA IL MINISTRO: «SARÀ UN INFERNO»

2000

Usare il condizionale è d’obbligo, ma per Atene, dopo anni di rigore draconiano, potrebbe essere finalmente giunto il momento, se non addirittura di ribellarsi, per lo meno di opporsi. Benché, infatti, le condizioni imposte dai prestatori internazionali (ovvero l’ormai famosa “troika” composta da Fondo monetario internazionale, Banca europea e Commissione europea) possano risultare particolarmente dure, al termine del secondo piano di aiuti la Grecia rifiuterà un nuovo piano di prestiti che in cambio chieda soltanto misure di austerity, anziché «aggiustamenti strutturali». Almeno è questo l’intendimento reso noto, nella seconda metà di ottobre, da Yannis Stournaras, ministro delle Finanze di Atene, che ha aggiunto di sapere che i negoziati con la “troika” imporranno al suo Paese di un «inferno» di qui al giugno del prossimo anno. In un’intervista rilasciata al settimanale To Vima, il responsabile economico del governo ellenico ha spiegato di essere cosciente del fatto che ogni capitolo di spesa nel bilancio della penisola ellenica «sarà analizzato e valutato insieme ai nostri prestatori». Parlando al quotidiano Kathimerini ha poi aggiunto: «Non accetteremo un nuovo pacchetto di aiuti se esso sarà condizionato solamente a misure finanziarie». Come dire: non possiamo chiedere ai nostri cittadini ulteriori sforzi rispetto a quelli prodotti finora. Alle dichiarazioni del ministro è stato dato ampio risalto sulla stampa greca. Le prime pagine di domenica 20 ottobre non parlavano d’altro. Il governo, dunque, si è ormai esposto. Che lo abbia fatto per “mettere le mani avanti”? Il quotidiano di centro sinistra Ethnos, in effetti, ha già ipotizzato un «ricatto» da parte della troika. Del tipo: o fate ancora come diciamo noi, oppure vi scordate un nuovo prestito. Il braccio di ferro tra il governo ateniese, da un lato, e Fmi, Bce e Ue, dall’altro, potrebbe essere dunque particolarmente duro. Nel frattempo, il popolo greco, da anni in ginocchio, spera. A.Bar.

2001 2002

Kenneth Rogoff

2003 2004

Raghuram Rajan

2005 2006 2007 Simon Johnson Oliver 2009 Blanchard

2008

2010 2011 2012 2013 | 44 | valori | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 |


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preferito è la preghiera». Come dire: non ci resta altro che sperare nella Divina Provvidenza.

Errori Excel per Rogoff Il suo successore, dal 2001 al 2003, è Kenneth Saul Rogoff. “Ken”, docente di Economia alla Harvard University, è finito ad aprile di quest’anno nel ciclone dell’Excelgate. Insieme a Carmen Reinhart pubblicò, infatti, una ricerca intitolata Growth in a Time of Debt, conclusa proprio quando si stava per scatenare la crisi in Grecia. Rogoff sosteneva nel paper che se il debito pubblico di una nazione supera il 90% in rapporto al Pil, la crescita diventa impossibile. Era la prova scientifica della bontà delle tesi dell’Fmi. Angela Merkel ne ha fatto un mantra per mesi. Per la troika è stato uno slogan. La scienza economica dava loro ragione. Finché un giorno Thomas Herndon, sconosciuto studente della University of Massachussetts, lavorando alla propria tesi di dottorato ha deciso di tentare di replicare i risultati dei due guru di Harvard. Di far tornare i conti, però, non c’era proprio verso. Così Herndon, dopo mesi di lavoro, ha chiesto lumi agli stessi autori, che hanno collaborato, fornendo dati, calcoli e tabelle. Ma niente, al tenace studente mancava sempre qualcosa: il dilemma gli fu risolto quando si accorse di un grossolano errore nell’allineamento delle colonne di un foglio di calcolo di Excel. Reinhart e Rogoff si erano scordati i dati di Canada, Australia e Nuova Zelanda, Paesi in cui un debito pubblico alto non aveva affatto bloccato la crescita. Niente di più banale. Eppure nessuno se ne era mai accorto. Rogoff dovette ammettere l’errore: la sua teoria non aveva fondamento. E, a quel punto, ha perfino rincarato la dose, dichiarando in numerose interviste che «il Fmi è talmente dominato dagli europei che è stato molto lento nel prendere le necessarie misure anti-crisi». Il suo existituto era stato a suo avviso persino «più lento» delle agenzie di rating (quelle che fino a pochi giorni prima del crack di Lehman Brothers davano giudizi lusinghieri alla crollante banca d’affari).

LA “RIVOLTA” ANTI-RIGORE DI OLIVIER BLANCHARD Era il mese di luglio del 2012, quando le agenzie di stampa di tutto il mondo battevano le dichiarazioni di Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, che esprimeva senza mezzi termini il suo scetticismo in merito alle scelte economiche del Vecchio Continente. L’Ue, come noto, ha infatti basato la propria risposta alla crisi sulla dottrina del rigore, guidata in questo dalla Germania di Angela Merkel. Tagli alle spese pubbliche, ai servizi, alla scuola, alla cultura, alla ricerca, alla sanità. Il tutto in nome di una disciplina di bilancio che dovrebbe essere salvifica, ma che finora non ha fatto che affossarci ancor di più nella crisi. E più il “malato” era grave, più la “dose” è stata massiccia. Così che la Grecia si è ritrovata nel giro di pochi mesi a trascinare i brandelli della propria economia, del proprio Stato sociale e del proprio tessuto produttivo. I piani di riduzione dei deficit pubblici messi in opera in Europa hanno avuto un «considerevole impatto sulla crescita», ammise Blanchard in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica statunitense NPR. Il dirigente sottolineava come gli Usa, che non hanno adottato politiche di austerity così marcate, hanno potuto sostenere invece con maggiore successo e velocità il rilancio dell’economia. «Se si analizzano le condizioni Paese per Paese, si arriva alla conclusione che gli Stati che hanno adottato i piani di riduzione più drastici sono quelli che hanno la crescita meno sostenuta», ha aggiunto l’economista. In particolare il riferimento era proprio alla Grecia, nonché a Portogallo e Irlanda. Tutti Paesi che sono stati costretti al rigore estremo proprio dal Fondo monetario internazionale (insieme alla Commissione europea e alla Bce). Blanchard ha ammesso a chiare lettere che gli effetti sulla crescita erano stati sottostimati, in particolare nella penisola ellenica. Per Atene, il prezzo è stato un quinquennio di recessione. Dal quale ancora non si riesce a uscire. A.Bar.

Rajan contro i capitalisti, Blanchard anti-austerity Al Fondo monetario internazionale Rogoff fu poi sostituito da Raghuram Rajan, il più giovane capo economista della storia dell’organismo internazionale. In carica dal 2003 al 2007, non attese di lasciare per esprimere il suo punto di vista. Nel 2005, in un celebre discorso tenuto a Jackson Hole, alla riunione annuale dei

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banchieri centrali ripeté chiari e tondi i contenuti del suo libro intitolato Salvare il capitalismo dai capitalisti. Rajan “la Cassandra” fu, quindi, rimpiazzato da Simon Johnson, che, dopo l’esperienza al palazzo di Washington, ha pubblicato un blog specializzato nella denuncia dell’oligarchia bancaria. Infine è stata la volta di Olivier Blanchard – ad oggi capo economista al fianco di Christine Lagarde, ex ministro delle Finanze francese ai tempi della presidenza di Nicolas Sarkozy – che meno di un anno fa si è lanciato in una vera e propria invettiva anti-austerity (vedi BOX ). Uno «stiamo sbagliando tutto» che ha fatto sussultare i neo-keynesiani: che il Fondo monetario si sia davvero reso conto che le ricette a base di rigore draconiano non fanno che allontanare la ripresa? Che si stia davvero capendo che non si può rispondere alle crisi a colpi di accetta sui welfare state? È ancora presto per dirlo. Ma è anche vero che, per l’Fmi, non ci sarebbe bisogno di andare troppo lontano per capire cos’è che non va.  | ANNO 13 N. 114 | NOVEMBRE 2013 | valori | 45 |


| internazionale | energia insostenibile |

GB, sale la protesta anti-shale gas di Andrea Barolini

Nel Regno Unito la società incaricata di effettuare le esplorazioni, la Cuadrilla Resources, fronteggia una crescente opposizione da parte degli abitanti delle aree vicine alle trivellazioni. Nel Lancashire è arrivata una prima vittoria. Ma il governo di Cameron dichiara di non voler arretrare alcombe è un piccolo villaggio inglese che non raggiunge le duemila anime, nel West Sussex, una cinquantina di chilometri a Sud di Londra. Un mucchio di casette con giardino nel verde della campagna. Un posto tranquillo, che però dall’inizio dell’estate è al centro delle attenzioni dei media britannici. Proprio qui, infatti, la Cuadrilla Resources – unica società inglese a essere impegnata nelle esplorazioni nel sottosuolo alla ricerca di gas e petrolio da scisto – prevede di lanciarsi a partire dal prossimo anno in una vasta campagna di trivellazioni. La popolazione, però, non ci sta. E, appoggiata dai movimenti ecologisti, ha

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A Balcombe, villaggio del Sud, gli abitanti lottano contro il colosso dell’energia che ha ottenuto i permessi per esplorare il territorio. La stessa compagnia che, altrove, si è dovuta ritirare deciso di contrastare il progetto del governo.

Popolazione anti fracking La vicenda, si legge sul sito internet del movimento contrario alla “fratturazione idraulica” (il fracking, tecnica che preve-

de l’estrazione del gas e del petrolio intrappolati nelle rocce per mezzo di getti di acqua e prodotti chimici potenzialmente pericolosi per la natura e la salute), ha inizio nel 2008, quando la Cuadrilla riceve una licenza di esplorazione nella regione. Pochi anni dopo arriva un secondo permesso. In totale la compagnia ha diritto a trivellare in un’area di oltre 430 chilometri quadrati. Nel gennaio del 2010, in particolare, la società viene autorizzata a scavare un pozzo in un luogo dove un’altra azienda, la Conoco, nel 1986 aveva già cercato petrolio, invano. Ma all’epoca le esplorazioni erano “convenzionali”: non si utilizzava la controversa tecnica del fracking. «Ora si vuole industrializzare la campagna del Sussex con piattaforme, oleodotti, impianti di trattamento», si legge ancora nel sito, per il quale è stato scelto l’eloquente nome frack-off.org.uk

SPAGNA, SCIAME SISMICO INUSUALE: NEL MIRINO UNA RISERVA DI GAS SOTTOMARINA Stavolta non si tratta di shale, ma parliamo comunque di gas e del suo trattamento. Teatro di quello che potrebbe rivelarsi l’ennesimo scandalo nel settore dell’energia è la Spagna: di recente un importante sciame sismico – la cui scossa più forte, di magnitudo 4,2, è stata registrata all’inizio di ottobre – si è prodotta nella zona del delta dell’Ebro. I terremoti registrati dall’istituto geografico nazionale sono stati circa 300 nel corso del solo mese di settembre: un numero assolutamente inusuale per quella zona. Cosa potrebbe averli provocati? Il dito di numerosi amministratori e abitanti della zona è puntato contro un sistema di stoccaggio di gas sottomarino, situato nel Mediterraneo a 22 chilometri dalla costa, al largo di Valencia. Si tratta del progetto “Castor”, che ha permesso di trasformare

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un vecchio pozzo petrolifero a oltre 1.700 metri al di sotto del livello del mare – ormai esaurito – in una riserva di gas naturale grande abbastanza da contenere il fabbisogno di tre mesi dell’intera regione. La capacità del “buco” sottomarino è di 1.300 milioni di metri cubi (fino ad ora sono stati iniettati circa 100 milioni). Il sito è poi collegato a una piattaforma marina e, attraverso un gasdotto, alla rete di distribuzione spagnola. È doveroso precisare che, per ora, non esiste una prova del rapporto di causa-effetto tra lo sciame sismico e lo sfruttamento del deposito di gas. I sospetti, tuttavia, sono leciti. Tanto che un gruppo di sindaci della zona ha già chiesto al ministero dell’Industria di far luce sulla situazione e di mettere in sicurezza l’area. A.Bar.


| internazionale |

E, soprattutto, secondo quanto riportato, la popolazione non sarebbe stata informata dei pericoli: se ne è resa conto soltanto dopo i problemi incontrati dalla stessa Cuadrilla in un altro sito di esplorazione, nel Lancashire. Qui, infatti, nel marzo scorso la compagnia dovette sospendere le operazioni dopo che le trivellazioni avevano provocato scosse di terremoto anomale (all’inizio di ottobre la Cuadrilla ha annunciato lo stop definitivo, dal momento che le sue operazioni non avrebbero garantito l’impatto zero sugli uccelli migratori, elemento che il governo inglese aveva posto come condizione essenziale). Ormai coscienti dei rischi, i residenti di Balcombe hanno deciso così di occupare simbolicamente le strade del villaggio. La protesta è andata avanti tutta l’estate, tra manifesti e bandiere sparse per il paese, pic-nic “anti-fracking” di bambini e una notevole attenzione da parte dei media britannici.

Agevolazioni dal “governo più verde della storia” «Ciò nonostante, Cuadrilla vuole conti-

nuare a perforare il suolo nel nostro Paese. Esiste una notevole opposizione a livello locale, numerosi esperti che avvertono come lo shale gas non porterà a benefici economici per i consumatori. E anche gli scienziati mettono in guardia dai rischi dell’impatto dei combustibili fossili per il clima. Abbiamo bisogno di altre soluzioni per la Gran Bretagna», ha dichiarato al quotidiano Guardian Helen Rimmer, attivista dell’associazione Friends of the Earth. Il governo, invece, tira dritto per la sua strada. Il premier Cameron (lo stesso che nel 2010 aveva presentato il suo come «il governo più verde della storia»!) ha concesso condizioni economiche eccellenti alle compagnie che cercano shale gas. Il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha promesso senza mezzi termini «il regime più generoso al mondo», con una tassazione sui ricavi pari al 30% (contro il 62% degli idrocarburi tradizionali). Una scelta giustificata, secondo Londra, dal fatto che le ultime previsioni del British Geological Survey indicano

in 1.300 miliardi di metri cubi il gas che potrebbe essere presente nel sottosuolo inglese (il doppio rispetto alle precedenti stime). Tanto più che, come riportato ancora dal Guardian, da febbraio Cuadrilla ha già speso non meno di 100 milioni di sterline nel Regno Unito. A contrastare i promotori del gas da scisto, tuttavia, è arrivato un rapporto dell’Università di Harvard, pubblicato alla fine giugno. Secondo l’analisi, anche volendo ignorare i problemi ambientali, ci vorrebbe molto tempo prima di rendere lo shale gas effettivamente competitivo, dal momento che rispetto al Nord America, il resto del mondo è estremamente indietro nel suo sfruttamento. Secondo il ricercatore Leonardo Maugeri, autore del rapporto, «nel 2012 negli Usa sono stati completati 45.468 pozzi di gas e petrolio. Di questi, 28.354 sono entrati in funzione, contro i 3.921 del resto del mondo (Canada escluso)». Lo scontro è aperto, dunque. E la battaglia della società civile e del movimento ambientalista – a Balcombe come altrove – rischia di essere ancora lunga. 


| internazionale | pari opportunità |

Diseguali per legge

GLI INDICATORI

di Valentina Neri

Un rapporto della Banca Mondiale conferma che per le donne, in numerosi Paesi del mondo, è ancora difficile accedere al mercato del lavoro o al credito bancario. Ma perfino alle agevolazioni fiscali o alla proprietà dei beni vere una carta d’identità e un passaporto, scegliere un lavoro, aprire un conto in banca. Tutte attività quotidiane, addirittura banali. Ma che alle donne, in molte parti del Pianeta, sono ancora precluse. Ad accendere i riflettori sul tema è un rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale a settembre, dal titolo Le donne, gli affari e la legge: togliere i vincoli per rilanciare l’eguaglianza di genere. Per raggiungere la parità, infatti, servono volontà e cultura. Ma non bastano, se manca un sistema legislativo che equipari in tutto e per tutto le donne agli uomini, permettendo loro di farsi strada nel mondo del lavoro. I ricercatori della Banca mondiale, dunque, hanno raccolto dati su 143 Paesi nel periodo compreso tra aprile 2011 e aprile 2013. E hanno confrontato le disparità che incontrano le donne rispetto agli uomini (e quelle sposate rispetto a quelle non

A

PARITÀ SOLO IN 15 PAESI I Paesi in cui donne e uomini sono trattati allo stesso modo dalla legge sono quindici. L’Italia non è tra questi. Gli Stati virtuosi sono: Armenia, Canada, Repubblica Dominicana, Estonia, Ungheria, Kosovo, Messico, Namibia, Olanda, Nuova Zelanda, Perù, Porto Rico, Stati Uniti, Repubblica Slovacca, Sudafrica e Spagna.

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sposate) nel lavoro e nella proprietà dei beni, nelle agevolazioni fiscali e nell’accesso al credito, ma anche quando hanno a che fare con le istituzioni o si rivolgono a un tribunale (vedi BOX : Gli indicatori).

Un quadro cupo Ne emerge una fotografia della realtà che fa capire che, sul piano dei diritti, c’è ancora tanta strada da fare. Sui 143 Paesi coinvolti nell’analisi, sono solo quindici quelli in cui la legge tratta uomini e donne esattamente allo stesso modo. In altre parole, nove Paesi su dieci vedono almeno una restrizione legale alle opportunità economiche delle donne. E il numero di differenze sale a più di dieci in 28 Stati, per la stragrande maggioranza in Medio Oriente, Africa subsahariana e Nordafrica. Sono 29 gli Stati in cui l’uomo è ufficialmente il capofamiglia e, quindi, ha da solo il diritto di ottenere documenti ufficiali e decidere dove il nucleo familiare deve vivere. In quindici Paesi gli uomini possono vietare alla moglie di lavorare: fino al 1965 era così anche in Francia, fino al 1984 in Perù e fino al 1998 in Sudafrica. Ma anche al giorno d’oggi sono molte di più, circa 1,6 miliardi, le donne nel mondo che si vedono preclusi determinati tipi di lavoro. E c’è anche chi, invece di fare passi avanti, arretra. È il caso dello Yemen, che nella costituzione del 1994 non prevede una clausola di non discriminazione, e dell’Iran, che nel 1979 ha limitato le facoltà occupazionali delle donne. In

Il rapporto della Banca mondiale esamina, per ciascun Paese, le differenze che incontrano un uomo e una donna quando vogliono intraprendere queste azioni. Ognuno di questi 21 campi è esaminato due volte, prendendo in considerazione persone sposate e non. 1) Chiedere il passaporto 2) Spostarsi al di fuori della propria abitazione 3) Viaggiare al di fuori del proprio Stato 4) Trovare un lavoro o fare una transazione senza dover chiedere il permesso 5) Firmare un contratto 6) Registrare un’attività 7) Avere il ruolo di capofamiglia 8) Trasmettere la cittadinanza ai figli 9) Aprire un conto bancario 10) Scegliere il luogo in cui vivere 11) Ottenere una carta d’identità 12) Avere diritti di proprietà su un bene 13) Avere diritti ereditari su un bene 14) Lavorare nelle ore notturne 15) Fare lo stesso lavoro di una persona dell’altro sesso 16) Avere la stessa età obbligatoria per la pensione rispetto a una persona dell’altro sesso 17) Avere le stesse agevolazioni fiscali di una persona dell’altro sesso 18) La testimonianza in tribunale ha lo stesso valore di quella di una persona dell’altro sesso 19) Assenza di una frase nella costituzione sull’eguaglianza fra i generi 20) Validità del diritto consuetudinario se viola la costituzione 21) Validità della legge ordinaria se viola la costituzione. Questi campi invece si possono applicare solo a chi è sposato: 22) Essere legalmente obbligati a ubbidire al coniuge 23) Poter trasmettere la cittadinanza al coniuge 24) Amministrare le proprietà del coniuge 25) Avere un riconoscimento a livello legale per il contributo non monetario alle proprietà del coniuge 26) Avere diritti ereditari sulle proprietà del coniuge.


LAVORO FEMMINILE E DISEGUAGLIANZA NEI REDDITI 60

50 coefficiente di Gini

FONTE: WOMEN, BUSINESS AND THE LAW DATABASE; WORLD BANK WORLD DEVELOPMENT INDICATORS DATABASE; ALL THE GINIS DATASET, UPDATED OTOBER 2012, HTTP://ECON.WORLDBANK.ORG/PROJECTS/INEQUALITY; MILANOVIC 2005

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40

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Numero di incentivi

Nel 90% dei Paesi esaminati esistono discriminazioni legali. In 15 casi gli uomini possono perfino vietare alle donne di lavorare Congo e in Liberia una donna sposata deve addirittura chiedere l’approvazione del marito per rivolgersi a un tribunale, a meno che la causa non sia contro di lui.

L’equità? È rosa Non stupisce dunque il fatto che le quote rosa, di cui tanto si parla in Occidente,

8

Un coefficiente di Gini di 0 indica totale eguaglianza nei redditi: un valore di 100 invece segnala la perfetta diseguaglianza. Il grafico dimostra che, nei Paesi che prevedono maggiori incentivi all’occupazione femminile, tendenzialmente la diseguaglianza scende.

siano una realtà ancora marginale: solo sei Paesi le prevedono nelle società quotate in Borsa, guidati dalla Norvegia che ha fatto da pioniere fin dal 2002, e solo 12 le hanno imposte per il Parlamento. Eppure uno studio citato dai ricercatori, analizzando la spesa pubblica di diversi Stati nell’arco di 35 anni, ha dimostrato che la rappresentanza femminile può cambiare le cose: i Paesi che prevedono le quote rosa tendenzialmente riservano maggiori risorse al welfare e ai servizi sociali. E promuovere l’equità, in generale, conviene, perché migliora l’equilibrio sociale ed economico. L’hanno spiegato gli

analisti della Banca mondiale: gli Stati in cui le donne lavorano al pari degli uomini sono quelli in cui la diseguaglianza nei redditi, misurata tramite l’indice di Gini, è più bassa. Sembra che, almeno in parte, questo messaggio sia stato recepito, visto che negli ultimi cinquant’anni il mondo ha detto addio a circa la metà dei limiti imposti alle donne. Se in Asia centrale ed Europa dell’Est è stata l’influenza comunista ad appianare molte differenze, anche l’Africa subsahariana e l’America Latina hanno fatto passi avanti. In Brasile, ad esempio, fino a 25 anni fa l’uomo era l’unico a poter rappresentare la famiglia e amministrarne i beni, compresi quelli della moglie. Negli anni Duemila, invece, a distinguersi sono stati due Paesi islamici. In Marocco nel 1996 le donne sposate sono state autorizzate a condurre attività commerciali senza il permesso del marito e meno di dieci anni fa, nel 2004, sono stati parificati i diritti dei coniugi a prendere decisioni sulla vita della famiglia. Poco prima, nel 2001, la Turchia aveva modificato il proprio codice civile, introducendo la parità di genere nei diritti di proprietà e all’interno del matrimonio, e ampliando la gamma di lavori che le donne sono autorizzate a svolgere. 

AFRICA IN ROSA Dove cercare un esempio positivo di una recente ed efficace riforma dello status legale della donna? Secondo la Banca mondiale, in Kenya. Già dall’indipendenza nel 1963, infatti, lo Stato africano aveva impedito le discriminazioni di genere. Ma solo la nuova Costituzione, approvata nel 2010, ha fatto sì che tutte le leggi dovessero sottostare al principio costituzionale di eguaglianza. Fino ad allora ne era esente la legge consuetudinaria, vale a dire quell’insieme di norme che regolano ad esempio lo status familiare o i diritti di proprietà. Ed è ancora così in altri Stati del Continente, come Ciad, Ghana e Sierra Leone. Il governo keniota lo scorso anno ha fatto un ulteriore passo avanti, riconoscendo il contributo della moglie al mantenimento e alla produttività dei possedimenti terrieri del marito, anche qualora non sia ufficialmente registrata come proprietaria. La nuova Costituzione, all’articolo 27, prevede anche che non possano appartenere allo stesso genere più dei due terzi dei membri dei governi locali e degli enti legislativi e giudiziari. Perché la norma venga applicata alla Camera bisognerà

aspettare il 2015. Ma può stupire il fatto che, in media, i Parlamenti africani siano molto più “rosa” rispetto a quanto siamo abituati. Il primo Paese al mondo ad avere una Camera a maggioranza femminile, infatti, è il Ruanda. La spinta all’emancipazione nasce dalla ferita del genocidio del 1994, che ha lasciato un Paese in ginocchio e in cui sei persone su dieci erano donne. La difficile rinascita è dunque passata anche per l’abrogazione di leggi ancestrali come quelle che impedivano loro di svolgere anche i più banali lavori agricoli e le riparazioni domestiche, o di possedere case e terre. Ma il Ruanda è tutt’altro che un caso isolato. Lo seguono a ruota il Senegal col 43% di donne in Parlamento e il Sudafrica col 42%. In Mozambico le donne sono 106 su 205 deputati e il governo conta sette ministre in ruoli-chiave. Se l’Algeria si fa notare per aver portato dal 2 al 32% la rappresentanza parlamentare femminile dal 1990 ad ora, in Tanzania la percentuale è del 36%, in Uganda del 35%, e in Etiopia e Tunisia è rispettivamente al 28 e al 27%. Dati molto lontani da quello dell’Italia, ferma al 21%. V.N.

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| avvistamenti |

Il libro

Quarant’anni tra arte e impresa

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uarantanni è il titolo del denso volume di Massimo Minini edito da a+m bookstore. E tanti sono, infatti, gli anni che compie la galleria di proprietà dell’autore del libro. Una delle più importanti in Italia sulle cui pareti sono stati esposti tra gli altri i lavori di Jan Fabre, Bertrand Lavier, Anish Kapoor, Luigi Ontani, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Dan Graham,

di Angela Madesani

Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Daniel Buren, Tino Seghal. Il volume non è una semplice biografia, anzi direi che non è una biografia, è la ricostruzione della storia dell’arte dagli anni Settanta in poi, vista dalla parte del mercato e del collezionismo, non solo di opere, ma anche di documenti, fotografie, libri, oggetti. È la storia di una grande passione che diviene impresa. Minini apre il volume con la lettera di licenziamento ricevuta dalla rivista Flash Art proprio all’inizio di quegli avventurosi anni Settanta. Il momento è decisamente diverso da quello che stiamo vivendo e un licenziamento può diventare una buona occasione per dedicarsi ad altro. In realtà il giovane Minini, neppure trentenne, è già ammalato di passione artistica e decide di farne, a tutti gli effetti, la sua professione. Apre così, a Brescia, lo spazio espositivo Banco, che diventerà Galleria Minini: è il 1973. Durante gli anni di lavoro a Flash Art per cui procura la pubblicità, ha modo di conoscere gli artisti, i musei, le gallerie. La sua formazione imprenditoriale, in ben diverso ramo, lo aiuta a capire che la sola passione non basta. Le gallerie impostate solo sull’amore per l’arte e per gli artisti non riescono nel loro compito commerciale e propositivo.

Per riuscire a diventare una delle più importanti gallerie italiane, tra le poche riconosciute al di fuori dei confini del Belpaese, non basta amare il proprio lavoro, bisogna avere l’occhio lungo, capi-

re le cose per tempo, investire con intelligenza e metodo sul lavoro degli artisti, anche su quelli all’inizio del proprio cammino o su quelli scomparsi da riscoprire. Così per Maurizio Cattelan, che Minini incontra negli anni Ottanta, a una fiera, giovane e squattrinato, ma carico di speranze e genialità, o per Luigi Ghirri, che ha esposto parecchi anni dopo la sua morte, facendo un importante lavoro su di lui. Minini è un personaggio fuori dal comune, un uomo apparentemente tranquillo, con gli occhi vivaci e la voce sempre bassa, capace di emozionare i suoi collezionisti e chi lo frequenta con le opere della galleria, ma anche con le sue approfondite conoscenze sulla pittura bresciana del Rinascimento. A partire dal 18 novembre un’ampia mostra ospiterà la storia di Minini alla Triennale di Milano. 

Maurizio Cattelan, Hail Mary

Luigi Ghirri, Lido di Spina

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La copertina del libro di Massimo Minini “Quarantanni 1973-2013”.

MAX BRAUN / HTTP://IT.WIKIPEDIA.ORG

La vita imprenditoriale di Massimo Minini racchiusa in un volume che ricostruisce la storia dell’arte dagli anni Settanta a oggi. Dal 18 novembre, anche una mostra alla Triennale di Milano


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altrevoci FONDI HEDGE, LA SCONFITTA DEI COMPUTER

Il settore dei fondi speculativi (hedge funds) continua ad attrarre investimenti alla ricerca di nuove opportunità di profitto. Ma nell’ampio mercato hedge, un segmento in particolare sembra soffrire da tempo di un netto calo di popolarità: quello dei cosiddetti computer-driven, i fondi completamente automatizzati che alimentano da soli un giro d’affari da 330 miliardi di dollari. Nel corso degli anni molte società di trading si sono affidate ai fisici e ai matematici per elaborare modelli algoritmici in grado di condurre le operazioni dei loro fondi in modo automatico. Ma quest’anno, ha segnalato di recente la Reuters, i fondi gestiti esclusivamente dai computer registrano una perdita del 3,5% sugli investimenti evidenziando contemporaneamente una fuga degli investitori. Questi ultimi, segnalano infatti i dati forniti dalle società Newedge e BarclayHedge, hanno ritirato dal mercato 1,33 miliardi di dollari. Il primo calo degli investimenti dal 2008. Nel quadriennio seguente, i grandi operatori, a cominciare dai fondi pensione, avrebbero iniettato nel segmento qualcosa come 130 miliardi. A pesare sulla cattiva performance del settore, spiegano gli analisti, sarebbe stata la politica espansiva della Banca centrale Usa, un fattore, quest’ultimo, che avrebbe mandato in crisi i complessi algoritmi che governano i fondi. [M.CAV.]

IL GRUPPO BERETTA SOTTO INCHIESTA IN FINLANDIA La denuncia arriva dall’organizzazione non profit SaferGlobe Finland che ha preso in esame i controlli sulle esportazioni di armi leggere e munizioni della Finlandia. Nel rapporto la Beretta di Gardone Val Trompia è citata spesso: a quanto risulta 205 fucili modelli TRG-22 e TRG42 Sako (azienda finlandese che fa parte del Gruppo Beretta e produce fucili per sniper, cioè cecchini) sono stati consegnati al Bahrein nel gennaio 2011, poco prima dei disordini scoppiati nella capitale Manama in cui numerosi manifestanti sono stati uccisi da cecchini delle forze speciali governative. L’esportazione dei fucili è avvenuta con regolare licenza di tipo militare, ma per accessori come ottiche notturne e 20 tonnellate di munizioni, la Sako non ha richiesto l’autorizzazione militare. Per questo alcune organizzazioni non profit finlandesi hanno citato in giudizio la Sako e il governo finlandese. L’Opal, l’Osservatorio permanente per le armi leggere di Brescia, sottolinea il caso della Beretta, un’azienda multinazionale con molte sedi all’estero che tramite queste può aggirare le leggi italiane ed europee. Difficile poi considerare il fucile Sako – continua l’Opal – un’arma da vendere sul mercato civile, perché progettata per cecchini e già utilizzata in Afghanistan e in Iraq. Per questi motivi l’Opal rinnova la richiesta al Questore di Brescia, di rendere noti gli effettivi destinatari e utilizzatori finali e la compatibilità di queste esportazioni con la normativa nazionale e dell’Unione Europea. [PA.BAI.]

PROFITTI PRIVATI, RISCHI COLLETTIVI

ISLANDA, IL TRIONFO DELLA LETTERATURA

L’allarme è di Greenpeace e di altre Ong ambientaliste: la piattaforma di estrazione petrolifera Prirazlomnaya, di Gazprom, non è sicura. Prima istallazione privata a perforare i fondali del mare Artico, dove abitualmente si spostano enormi blocchi di ghiaccio, in caso provocasse un incidente paragonabile a quello della Deepwater Horizon di BP al largo della Louisiana, potrebbe generare un danno ecologico di proporzioni tali che la stessa Gazprom – avrebbe ammesso il gigante russo degli idrocarburi in una riunione con alcune Ong nel 2011, in occasione proprio del disastro BP – non sarebbe in grado di risarcire economicamente. Il numero uno di Gazprom, Neft Alexandr Dyukov, ha recentemente scritto al WWF per rassicurare gli ambientalisti, sostenendo che Prirazlomnaya soddisfa gli standard di sicurezza internazionali. Ma Greenpeace sottolinea alcune criticità nelle strutture usate per assemblarla, recuperate in parte da precedenti impianti smantellati e rimaste a lungo inoperose. E ricorda sia la lontananza delle attrezzature d’intervento rapido (a Murmansk, circa mille chilometri di distanza) che le strategie di pulizia tradizionali delle acque, programmate da Gazprom, che potrebbero essere inefficaci in un’area che rimane a -50 gradi per gran parte dell’anno. Mentre scriviamo 30 attivisti di Greenpeace – tra cui l’italiano Cristian D’Alessandro – sono ancora detenuti a Murmansk, dopo aver inscenato una dimostrazione di protesta pacifica, abbordando la piattaforma il 18 settembre scorso. [C.F.]

Navigatori, musicisti, lettori. Ma anche e soprattutto scrittori. Contagiati da una tradizione senza tempo e da una passione crescente per la letteratura. «L’Islanda sta sperimentando un boom letterario – ha raccontato nelle scorse settimane un reportage dell’emittente britannica Bbc –. Quest’isola, una nazione di poco più di 300 mila persone, ha più scrittori, più libri pubblicati e più libri letti per abitante di qualsiasi altro Paese del mondo». A partire dalle prime saghe epiche del 1200 fino alle opere di Halldor Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955, l’isola ha costruito una tradizione letteraria impressionante che oggi coinvolge un numero impressionante di autori. «C’è un detto – “ad ganga med bok I maganum” – che significa letteralmente “ciascuno ha un libro nel proprio stomaco”», racconta la Bbc. Prima o poi «un islandese su dieci ne pubblicherà uno». «Qui gli scrittori sono molto rispettati», spiega al corrispondente britannico Agla Magnusdottir, direttrice del Icelandic Literature Centre. «Vivono bene, alcuni ricevono anche uno stipendio» ma soprattutto scrivono. Di qualsiasi cosa. «Saghe moderne, poesie, libri per bambini, narrativa e letteratura erotica, ma il vero boom si registra nei gialli». [M.CAV.]

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| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE FA PAURA Knappenberger Brian Anonymous. L’esercito degli hacktivisti Feltrinelli, 2013

Nell’era della rete e dei social network l’opinione diventa un elemento che conta, in grado di orientare i consumi e la politica. L’umanità oggi ha una grande libertà di esprimersi e quindi un grande potere che spesso fa paura. Il problema sorge quando questa libertà va a incrociare gli interessi legati all’economia, ne sanno qualcosa gli hackers americani del movimento Anonymus, nei confronti dei quali si stanno pronunciando alcuni tribunali. Brian Knappenberger ne ripercorre le tappe fondamentali partendo dal fatidico 2008 quando il movimento balzò agli onori delle cronache per gli attacchi informatici a colossi del calibro DI Visa, Mastercard e Paypal diventando così il riferimento mondiale dell’attivismo nel web fino alle manifestazioni di piazza. Anonymous è stato il braccio tecnologico della primavera araba in Tunisia, ha aiutato gli egiziani a comunicare con Twitter quando il governo di Mubarak decise di chiudere totalmente la rete, è stato megafono e amplificatore per tutti gli Occupy degli ultimi due anni.

LA SCALATA SOCIALE IN ITALIA NON C’È

IL LAVORO CHE NON CRESCE

L’ALTRA FACCIA DELLA GRECIA DIMENTICATA DALL’EUROPA

I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, sembra uno slogan un po’ consumato. In realtà è la fotografia impietosa di un Paese dove le disuguaglianze si ereditano, così come le opportunità che non seguono quasi mai il merito ma piuttosto la “casta” di appartenenza. La crisi ha enfatizzato questa caratteristica tutta nostrana in grado di bloccare il cosiddetto ascensore sociale e quindi i sogni di milioni di giovani. Per ridare mobilità economica e sociale e per intraprendere una battaglia di modernizzazione, per fare in modo che le scalate tornino a essere possibili, occorre agire su quelle manifestazioni della disuguaglianza nei redditi e nelle ricchezze che oltre a essere inaccettabili sono ostacoli alla vera eguaglianza delle opportunità. Come è accaduto in altre epoche storiche, potrebbe essere che partendo dalla disuguaglianza si vada molto lontano. Forse più lontano di dove si può andare parlando in modo ossessivo e a ore alterne di austerità e di crescita.

I dati dell’Istat sono inequivocabili: la disoccupazione ha superato la quota del 12%, una tendenza che è andata sempre peggiorando dall’inizio della crisi. Un vero bollettino di guerra che diventa allarmante quando prende in considerazione i giovani. In questo quadro decadente l’Italia sembra ferma rispetto altri Paesi europei dove invece la crisi accelera la crescita dei lavoratori della conoscenza. Che cosa succederà quando la congiuntura tornerà ad essere positiva? Saremo ancora in tempo per intercettare la ripresa? Le risposte risentono di analisi vecchie che troppo spesso fanno leva su luoghi comuni e percezioni consolidate anche a livelli in cui la capacità di disegnare strategie dovrebbe essere meno banale. Si pensa che in Italia la disoccupazione sia inferiore alla media europea e che comunque il sistema manifatturiero (il secondo in Europa dopo quello tedesco) sia ancora in grado di assorbire i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, oppure che la conoscenza e la competenza non siano più necessarie per poter uscire dalla disoccupazione e che l’istruzione sia più un ostacolo che una carta da giocarsi per conquistarsi il proprio posto. Le cose, secondo gli autori, stanno diversamente.

«Questa è gente abituata alla precarietà come nessuno nel Vecchio Continente. A noi l’incertezza spaventa, loro ci convivono da duemila anni. Per questo in Grecia nessuno morirà per difendere l’euro». Il racconto di un viaggio unico: da Atene fino al monte Athos, quattromila chilometri nel cuore della Grecia, a bordo di pullman, treni, traghetti e anche a piedi. Questo libro mostra la Grecia che i giornali e la tv non raccontano più, un Paese distante anni luce dalle architetture finanziarie di Bruxelles e dai diktat dell’Europa. Personaggi e storie incredibili. Dai commercianti di Volos che usano il Tem, nuova moneta locale al posto dell’euro, fino alla culla della spiritualità ortodossa, il monte Athos, attraversando la Tracia orientale, verso Orestiada e Edirne, sul fiume Evros, estrema periferia d’Occidente al confine con Bulgaria e Turchia. I racconti degli eremiti, l’equilibrio perfetto tra fede e campagna, un modo nuovo di resistere alla crisi, la generosità di sconosciuti muftií, l’inganno della frontiera. Un viaggio per conoscere l’Europa dei popoli, non quella delle banche centrali.

Mauro Franzini Disuguaglianze inaccettabili Laterza, 2013

E. Reyneri, F. Pintaldi Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi Il Mulino, 2013

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Giuseppe Ciulla Un’estate in Grecia Chiarelettere, 2013


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

FA’ LA COSA GIUSTA! ARRIVA ANCHE IN SICILIA A Milano ormai è un’istituzione e negli anni è sbarcata anche a Trento e a Genova. Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, da venerdì 8 a domenica 10 novembre approderà anche a Palermo, ai Cantieri culturali alla Zisa, per la sua seconda edizione siciliana. «Il cammino – spiega la referente, Leontine Regine – nasce qualche anno fa, quando il comitato locale ha censito le realtà sostenibili presenti sul territorio in una guida uscita nel 2011. Questo lavoro ci ha aiutati a capire che in Sicilia le esperienze interessanti ci sono, ma mancano le reti. La fiera è proprio un’occasione per far sì che queste realtà, che guardano il mondo con la stessa intenzione di migliorare, riescano a coordinarsi e agire insieme». Non a caso, la prima edizione del 2012 ha visto la presenza di 120 espositori, oltre 10 mila visitatori e più di mille studenti. E quest’anno si replica con otto sezioni espositive (dal cibo ai viaggi, dalla cosmesi bio all’editoria), una ventina di laboratori per adulti e ragazzi e tanti incontri ad hoc. Ci sarà spazio, tra le altre cose, anche per Slot Mob, l’iniziativa nazionale di sensibilizzazione contro il gioco d’azzardo. www.falacosagiustasicilia.org

GRAFICA MADE IN CARCERE A NOVARA

NEL BOSCO DEI CENTO PASSI LA LEGALITÀ SA DI MIELE Cosa fare di un terreno di 14 ettari sequestrato nel 2007 a un clan mafioso? La risposta del comune di Gaggiano, a sudovest di Milano, è stata netta: restituirlo alla natura. Così sono stati ripiantati il sottobosco e gli alberi autoctoni, per poi ribattezzarlo come Bosco dei cento passi. «In un territorio che fatica a fare qualcosa di concreto per la biodiversità, il bosco è un presidio e un baluardo – racconta Maria Grazia Vantadori, assessore all’Ambiente di Gaggiano – e quindi abbiamo pensato a un progetto di sfruttamento economico che non lo snaturi e sia coerente con la sua storia». Nasce così la produzione di miele, in collaborazione con Libera, Slow Food e il Desr (distretto di economia solidale rurale) del vicino Parco Sud, che si è incaricato della commercializzazione. I primi ottocento vasetti sono stati presentati con un evento alla metà di settembre e il ricavato della loro vendita – spiega l’assessore – servirà ad allargare i confini del progetto. L’obiettivo è da un lato quello di insediare un frutteto per produrre marmellate, dall’altro quello di far diventare il bosco un centro di attività educative e sportive, che sia di riferimento per i ragazzi della zona.

Portare opportunità lavorative all’interno di un carcere non è facile. Lo è ancor meno se, come nel caso della Casa Circondariale di Novara, nasce come istituto di massima sicurezza e quindi, comprensibilmente, è soggetto a vincoli ancora maggiori. Ma nel 2011 l’amministrazione del carcere, la cooperativa sociale “La terra promessa” e la fondazione “Casa di carità arti e mestieri” hanno ripreso le redini di un laboratorio di tipografia che era già stato sperimentato all’inizio degli anni Novanta, ribattezzandolo come Quelli di via Sforzesca . Ora sono quattro i detenuti che, dopo aver frequentato un corso di grafica e stampa, si dedicano a produrre partecipazioni di nozze, brochure, cataloghi, locandine e manifesti. Operano sulla rete commerciale di Terra Promessa, che lavora da 25 anni sul territorio interagendo «tanto col cliente privato, quanto con la multinazionale», racconta il responsabile, Roberto Mandrino. Che aggiunge: «La crisi ha sconvolto il settore, facendo crollare il numero di tipografie attive nella zona. Ma, nonostante ciò, per ora il riscontro di Quelli di via Sforzesca sta addirittura superando le aspettative». www.quellidiviasforzesca.org

MINORI IN DIFFICOLTÀ, UN PORTALE PER CONFRONTARSI In latino si dice ubi maior, minor cessat . Ma è proprio chi ha a che fare con i ragazzi, soprattutto quelli in difficoltà, a dover dedicare tempo e attenzione per comprenderli. Nasce da questa riflessione Ubiminor.org, un portale di informazione e confronto dedicato a tutti coloro che lavorano con i minori: dagli operatori del sociale agli insegnanti. L’idea è della cooperativa sociale Arimo, nata dieci anni fa a Pavia. «Chiunque – assicura Paolo Tartaglione, responsabile della cooperativa per servizi territoriali, formazione e interventi con le famiglie – può inviare il proprio contributo, parlando di metodi educativi come di esperienze concrete. Prendiamo spunto dalla scienza medica che non si limita a somministrare una cura, ma ne segue il follow-up e ne condivide i risultati con la comunità scientifica. Allo stesso modo, vogliamo spiegare ciò che facciamo, alzando la testa dal quotidiano ed esplicitandone i principi, i metodi e gli esiti, anche a costo di essere messi in discussione. Solo così il sociale può completare il proprio percorso di maturità». In parallelo a Ubiminor.org nasce anche il portale Non ci sto dentro, grazie alla collaborazione col regista Antonio Bocola che ha messo a disposizione il prezioso database delle voci e delle testimonianze raccolte per l’omonimo documentario, ambientato all’interno dell’Istituto Penale Beccaria di Milano. www.ubiminor.org / www.noncistodentro.com www.arimo.org

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| bancor |

La “super-colomba” di Brooklyn

Chi guiderà la ripresa americana onostante manchi ancora la ratifica da parte del Senato, dopo il ritiro di Larry Summers e la designazione ufficiale da parte di Obama, non ci sono più dubbi: a gennaio, quando scadrà il mandato dell’attuale governatore Bernanke, Janet Yellen sarà il nuovo presidente della Federal Reserve Bank, prima donna nella storia ad assumerne l’incarico più importante.

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dal cuore della City Luca Martino

Larry Summers, nonostante un curriculum meno brillante, poteva contare su un rapporto di lontana amicizia e duratura collaborazione professionale con il presidente. Ma la sua candidatura, favorita in un primo tempo dallo stesso Obama, era malvista a molti nel partito, non tanto per le immense fortune messe da parte negli ultimi anni come consulente di hedge funds e banche d’affari, quanto per il suo ruolo nell’abolizione del Glass-Steagall Act, la normativa che dal 1933 regolava il sistema bancario americano imponendo una separazione netta tra banche commerciali e le cosiddette investment banks. Il cursus honorum della Yellen è, invece, tanto brillante quanto cristallino: nata a Brooklyn 67 anni fa da padre medico di religione ebraica, cresce con la madre, ex insegnante di fisica, è la migliore sia al liceo che all’università, dove colleziona una sfilza di premi e riconoscimenti; a 24 anni finisce il dottorato a Yale e, dopo poche settimane, inizia l’insegnamento ad Harvard. Nel 1977 il primo incarico alla FED e poi tutta una serie di altri incarichi nelle più prestigiose accademie americane, fino al ruolo di primo consigliere di Bill Clinton, la presidenza della FED nel distretto di San Francisco e l’attuale vicepresidenza della

pacità di sintesi e di costruzione del consenso. Ai tempi dell’università i suoi appunti delle lezioni di James Tobin, altro premio Nobel e sponsor della sua tesi di dottorato, sono stati usati per anni dagli studenti come dispense ufficiali del corso. Alla FED invece riuscì a mettere in minoranza il presidente Greenspan su alcuni aspetti delicati sul tema della trasparenza bancaria e significative rimangono le sue riflessioni sul rischio di credit crunch e di recessione fin dai primi mesi del 2007. È quindi lei la persona giusta per continuare la politica monetaria espansiva di Bernanke a supporto di quella ripresa economica che negli Stati Uniti si sta finalmente consolidando. E il fatto che sia una donna, la prima donna ad arrivare così in alto, la avvantaggerà. Le difficoltà alla Yellen non mancheranno di certo, dal fiscal cliff allo shutdown delle spese federali, dal rischio default al ruolo del dollaro, fino al difficile equilibrio tra controllo dell’inflazione e sostegno all’occupazione. Ma su questo non ci saranno sorprese: gli obiettivi della “super-colomba” di Brooklyn, come la definiscono in molti, sono la lotta alla disoccupazione e il sostegno dei salari, a costo di qualche decimale di inflazione in più. 

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Janet Yellen, il futuro presidente della Federal Reserve Bank

Accademica integerrima, capace di sintesi e di costruzione del consenso, Janet Yellen sostituirà quasi certamente Ben Bernanke alla guida della Banca centrale degli Stati Uniti Banca federale a Washington. Una vita insomma passata tra le aule universitarie e gli uffici della Banca centrale americana, che, dicono, conosca meglio di chiunque altro, persino degli usceri e degli addetti alla sicurezza. In mezzo, un matrimonio con George Akerlof, collega economista vincitore con Stiglitz del premio Nobel nel 2001, con il quale condivide anche una passione per la filatelia. Ma, oltre al quoziente intellettivo e all’esperienza, la Yellen ha sempre dimostrato anche un’impareggiabile ca-

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dossier

| rifiuti umani |

Bonificare è meglio che curare di Corrado Fontana

Numeri alla mano, il confronto tra costi di bonifica e benefici socio-economici condanna l’attendismo nei grandi siti contaminati siciliani di Gela e Priolo, in Sicilia. E il nesso tra inquinamento e gravi patologie in eccesso è quasi certo

Rifiuti umani Ilva: inquinamento che uccide. La bonifica costa meno dei danni provocati Finanza > Il futuro di Mps nelle mani di Bruxelles. La nazionalizzazione è dietro l’angolo Economia solidale > I big dell’agro-industria all’a!acco dei vertici Ue: chiedono carta bianca | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Vent’anni di errori. Gli economisti del Fmi fanno ammenda: cambiamo ro!a

Q

uanto sei disposto a pagare per ridurre il rischio di morire? Una domanda sgradevole a farsi, che però rappresenta in sintesi l’approccio utilizzato da molti ricercatori per attribuire un valore monetario a condizioni di salute sfavorevoli. In economia si definisce WTP (willingness to pay) ed è sta-

to utilizzato da uno studio (Policies to clean up toxic industrial contaminated sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis) pubblicato nel 2011 su Environmental Health e curato da un’équipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medici-

BRESCIA, UNA CITTÀ AVVELENATA IN SILENZIO Le istruzioni per l’uso delle aree verdi sono in italiano, inglese e francese. Si spiega che il Comune di Brescia ha emanato un’ordinanza a tutela della salute pubblica nel territorio a sud della Caffaro e spiega il comportamento da tenere nei parchi e nelle zone agricole. «

ne, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa). Obiettivo: due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano. Pagare 127,4 milioni di euro per bonificare l’area di Gela e 774,5 milioni per Priolo (sono le cifre previste in un Memorandum d’intesa ufficiale) e avere un beneficio economico (su 50 anni) rispettivamente da 6 miliardi e 639 milioni e da 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.). Di fronte a una simile opzione non avremmo dubbi sulla necessità di agire subito. Tanto più se pensiamo alle 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, c

ti ca vo pro ni lo an go id l’an nc| a de a tro biai | 1 ! no ro die rta lor me e è o ca ia| va mo 2 201

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