Mensile Valori n. 111 2013

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 111. Luglio/Agosto 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

PUBLISTAMPA / LARA LEONARDELLI

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità BABY S in co ITTER mune

co-w orkin i t g ti s e r o p n u a uno

gruppi di acquisto

car g sharin

GIORNALI

PARTECIPATI

condominio

CONDIVISO

Futuro condiviso Parola d’ordine: sharing economy. Per risparmiare, ma non solo Finanza > Abenomics, il Giappone passa alle maniere forti: scatena una tempesta monetaria Economia solidale > Crisi immobiliare e sfratti. L’Andalusia sperimenta una soluzione | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Se responsabilità significa rispetto dei diritti umani. Lungo tutta la catena


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| editoriale |

Innovazione sì, ma responsabile di David Avra Lane

B

L’AUTORE David Avra Lane Professore di Economia all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha insegnato anche all’Università del Minnesota ed è stato membro della faculty esterna dell’Istituto di Santa Fe, il primo centro di ricerca al mondo sulla teoria della complessità. Attualmente dirige due progetti della Commissione europea dedicati a “Innovazione, sostenibilità e Ict” ed “Emergence by design”, per costruire una teoria che colleghi progettazione ed emergenza nell’innovazione e usarla per evitare le conseguenze negative del progresso tecnico.

isogna fondare una società che non soffra dell’egemonia dell’economia, ma abbia al centro i valori sociali e morali, al plurale, piuttosto che il valore economico, al singolare. Per me sharing significa che dobbiamo istruire processi in base ai quali le persone agiscano, direttamente o indirettamente, attraverso forme di empatia con quelli che chiamo gli artefatti, cioè gli oggetti: tutte le interazioni tra gli esseri umani sono mediate da artefatti e si svolgono attorno ad essi. Ma non dobbiamo adottare un atteggiamento esclusivamente economico verso la loro produzione e il loro consumo. Empatia significa che dobbiamo avere sempre in mente le interazioni sociali, i valori di tutte le persone coinvolte nei processi di produzione, transazione e uso degli artefatti. Ad esempio negli anni ’50 ci fu il grande boom della plastica. Ma i proprietari delle imprese che hanno prodotto oggetti in plastica non hanno pensato abbastanza alle relazioni sociali con i lavoratori (che subirono danni alla salute a causa degli agenti chimici utilizzati); né a come le applicazioni della plastica abbiano creato, non solo un tipo di consumo, ma anche un tipo di produzione fortemente inquinante; né ai costi ambientali degli odierni processi di riciclo, che oggi ricadono su tutti i cittadini. Questo ha a che fare con il modo in cui organizziamo i processi di innovazione, per cui coloro i quali innovano hanno tutti i diritti dei profitti che sono in grado di attrarre dai loro prodotti innovativi, ma poche responsabilità sugli effetti sociali. È un problema di organizzazione sociale, e riguarda ovviamente gli addetti della sharing economy. C’è una tendenza in atto – con cui sono in disaccordo – a pensare che, grazie agli attuali mezzi di comunicazione, e alle reti sociali che si possono costruire con essi, si arriverà necessariamente alla creazione di un nuovo mondo, in cui l’interazione tra gli esseri umani sarà migliore e rifletterà i valori sociali di tutti i partecipanti a questo tipo di scambi (di opinioni, servizi e oggetti fisici). Eppure questa non è una conseguenza automatica. I mezzi di comunicazione possono essere usati in molti modi e il modo che probabilmente prevarrà rifletterà i valori dominanti della società in cui si svilupperà. Secondo me la rete come nuovo artefatto di comunicazione va perlopiù nella direzione opposta, per rendere più solida l’egemonia economica. A ciò si aggiunge che la maggior parte di chi crede nell’economia e nell’innovazione sociale le concepisce come parti di questa economia egemonica, senza lanciare una sfida fondamentale a livello sistemico alla società attuale. Il problema è, invece, come può essere subordinata l’economia ai valori sociali morali e culturali, dal momento che le persone devono pur vivere, usufruire degli artefatti e avere cibo, vestiti, una casa. E la sharing economy non dà sempre la possibilità di far crescere la conoscenza dei valori sociali degli altri, i punti di vista degli altri e gli effetti che sugli altri hanno le nostre azioni. Bisogna perciò puntare sulla cultura e sui processi d’interazione sociale, in cui questi valori diversi possono diventare espliciti, e su processi secondo cui le persone siano davvero in grado di capire chi sia l’altro con cui si interagisce. Non deve essere un’interazione sociale che strumentalizza gli altri solo per far crescere la nostra felicità.  * L’editoriale è frutto di un’intervista condotta da Corrado Fontana a David Avra Lane | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 3 |


Avviso ai lettori: foliazione ridotta

Cari lettori, da questo numero Valori diventa più leggero: 64 pagine, invece di 76, e una copertina più leggera. E a settembre si scende a 56 pagine. Una scelta che si è resa necessaria per continuare a fornirvi informazione di alta qualità. La crisi di cui Valori scrive su ogni numero, colpisce un po’ anche noi. Cooperativa Editoriale Etica

Cari lettori, Valori sta attraversando un momento difficile. La riduzione della foliazione per i prossimi numeri è stata decisa dalla Società Cooperativa Editoriale Etica, in accordo con la redazione, al fine di garantire ai lettori la continuità della pubblicazione e di scongiurare in parte il taglio delle risorse per la redazione. Da parte nostra continueremo a lavorare con l’impegno e l’entusiasmo di sempre, per darvi il migliore prodotto possibile, augurandoci che si tratti di una scelta temporanea e certi che l’editore farà di tutto per ridare ai lettori la rivista a cui sono affezionati e per tutelare pienamente le condizioni lavorative dei giornalisti. La Redazione

Per commenti, suggerimenti, partecipazione scriveteci: redazione@valori.it, segreteria@valori.it, direttore@valori.it


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| sommario |

luglio/agosto 2013 mensile www.valori.it anno 13 numero 111 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni ABColombia; A. Gandolfi (Parallelozero); Melissa Favaron; Tomaso Marcolla; Barcex, Lamiot, Henry Mühlpfordt (http://commons.wikimedia.org)

BABY S in co ITTER mune

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gruppi di acquisto

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GIORNALI

PARTECIPATI

condominio

CONDIVISO

Nella sharing economy si può condividere qualsiasi cosa: da una macchina a un appartamento, da una badante a una bicicletta. I benefici? Economici ma anche relazionali.

fotonotizie dossier Futuro condiviso

10 12 14 16 18 20 20

Quello che è mio è (un po’) nostro Sei pronto a condividere il tagliaerba? Se la sharing economy ti entra in casa Spostarsi in comunità Di casa in casa. Affitto o scambio Condivisione 2.0

finanzaetica

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 26 giugno 2013 in posta: 1 luglio 2013

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

Big in Japan. Così Tokyo ha scatenato la tempesta monetaria Liquidità e stagnazione. Il vicolo cieco delle banche centrali Abenomics e speculazione. Non è tutto euro quel che luccica Banca Etica: conti sotto esame Fiba-Cisl propone un tetto alle remunerazioni dei top manager

22 26 27 28 30

globalvision numeridellaterra lostintransaction economiasolidale

31

Adiòs sfratti! Così l’Andalusia combatte la crisi immobiliare Il cantiere della crisi Le mani dei Big sull’eolico italiano

36 40 44

valorifiscali internazionale

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Scava, scava Responsabili fin dal principio Land grabbing, la razzia continua

48 52 53

socialinnovation altrevoci bancor resistenze

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ABBONAMENTI 2013

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Lettere, contributi, informazioni, promozione, amministrazione e pubblicità Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano - tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it / segreteria@valori.it - www.valori.it

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| fotonotizie |

Piazza Taksim occupata e scontri tra polizia e giovani manifestanti. Le immagini da Istanbul, rimbalzate sulle tv di tutto il mondo, hanno raccontato non solo l’opposizione a un piano urbanistico controverso, ma la strenua difesa di Gezi Park come spazio pubblico di espressione, contro l’estendersi di un processo di islamizzazione strisciante. Così è per molti commentatori, per cui la lotta di strada alla politica del primo ministro Tayyip Erdog˘an chiamerebbe in causa visioni in competizione per il futuro del Paese: «Una ancorata alla nascita della Turchia moderna, sbilanciata verso l’Occidente, che idolatra il padre della patria Ataturk, e l’altra proiettata verso la ricostituzione dello splendore ottomano», secondo Davide Piccardo, coordinatore delle associazioni islamiche di Milano, su Huffington Post. Di certo si è trattato di una lotta amplificata dall’eccezionale potenza simbolica degli alberi e dal coraggio dei ragazzi contro gli idranti urticanti della polizia. «In quei giorni in piazza Taksim si percepivano emozioni molto contrastanti tra loro. La ragazza elegante sulla macchina distrutta, che ho fotografato, può rappresentare una buona sintesi dell’atmosfera che si respirava. Con la sua maschera rivolta verso il cielo, sembra voler dimostrare che la piazza andrà avanti sempre a testa alta, a qualsiasi costo», racconta Melissa Favaron, da poco rientrata da Istanbul, autrice dello scatto in queste pagine. E continua: «C’era un fiume quasi continuo di persone che popolava la piazza in assoluta libertà. Ho iniziato a percepire un po’ di tensione solo il giorno prima dello sgombero, prima era gioia pura. La situazione è sicuramente molto complessa e articolata. Ho visto una parte di Istanbul in rivolta, scesa in piazza per gridare la sua libertà, ma anche una parte della città che ha continuato la sua vita come se nulla stesse accadendo». In gioco non c’erano “solo” alberi, ma l’idea di sviluppo economico e sociale di un Paese dove l’economia capitalista sta facendo ottimi affari, se è vero che in 8 anni le esportazioni turche sono passate da 38 a 87 miliardi di euro. C.F. [Un’elegante ragazza turca è sdraiata su una macchina rovesciata e distrutta. Ha partecipato alle manifestazioni di Istanbul].

MELISSA FAVARON

Oltre le chiome degli alberi

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| fotonotizie |

«Si tratta di aree rurali dove l’accesso all’energia è praticamente assente: il sud dell’Etiopia, ad esempio, una zona arida dedita alla pastorizia, dove non c’è interesse, né dei privati né dello Stato, a portare energia». Così Licia Casamassima della Ong Coopi, recentemente premiata col Good Energy Award 2013, sui progetti di energy facility (infrastrutture per fornire energia) in Etiopia e Malawi. Parole chiare, le sue, per evidenziare come una Ong sappia arrivare dove il mercato non ritenga (ancora?) conveniente investire. Una stortura cui in parte mettono riparo i bandi Ue e l’impegno diretto (tramite fornitura di competenze, materiali e risorse) di alcune imprese private, ma che non possono nascondere alcune cifre: 1,3 miliardi di persone al mondo non hanno accesso all’energia e 585 milioni di queste vivono nell’Africa Subsahariana; 1 milione e 450mila persone muoiono ogni anno a causa dell’inquinamento domestico causato da stufe inefficienti. Da qui l’enorme importanza di iniziative di coprogettazione, partecipate dalla popolazione e dalle istituzioni locali, accompagnate da formazione imprenditoriale e alla manutenzione. Come quelle di Coopi, che portano in Etiopia energia pulita (tramite impianti solari fotovoltaici) per 70mila individui e 2mila famiglie, alimentando l’attività di 4 scuole elementari, 4 ospedali di primo soccorso, 4 centri veterinari, 3 cooperative agricole, oltre a 25 microimprese commerciali (dal cinema collettivo al negozio per ricaricare i cellulari) e 6 autorità distrettuali; e in Malawi puntano su impianti ibridi eolico-fotovoltaici e sulla coltivazione dell’erba Jatropha, per l’estrazione di biocarburante in zone non coltivate. In una lotta al disboscamento selvaggio e alle numerosissime morti da affumicamento, condotta grazie alla distribuzione di stufe migliorate in terracotta, realizzate da cooperative create localmente. C.F.

[Un impianto fotovoltaico realizzato all’interno di un progetto di Energy Facility di Coopi in Etiopia].

A. GANDOLFI / PARALLELOZERO

Un premio alla buona energia

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dossier

Quello che è mio è (un po’) nostro > 12 Sei pronto a condividere il tagliaerba? > 14 Se la sharing economy ti entra in casa > 16 Spostarsi in comunità > 18 Condivisione 2.0 > 20

a cura di Paola Baiocchi, Corrado Fontana, Valentina Neri ed Elisabetta Tramonto


Futuro condiviso Scambiarsi casa, oggetti, servizi. Condividere spazi comuni, la baby sitter, la macchina, il lavoro Il futuro è la sharing economy. Per risparmiare, ma non solo. E la tecnologia rende tutto possibile ???


dossier

| futuro condiviso |

Quello che è mio è (un po’) nostro di Corrado Fontana

isposta alla crisi o sottoprodotto dell’era digitale, l’offerta di beni e servizi da domani non sarà più la stessa. Di ciò sono convinti i guru della sharing economy, ma il loro pensiero, creato dall’osservazione di migliaia di esperienze nate perlopiù dal basso e amplificate a dismisura dalle nuove tecnologie, da internet e dai social media, ha già fatto breccia nei posti di comando, anche grazie all’attenzione dei media internazionali.

R

Scambiare case o posti letto con un clic del mouse grazie a una piattaforma web che organizza l’offerta, condividere l’uso dell’auto (car-pooling, ride-sharing) o affittarla a qualcuno che arriva dall’altra parte del mondo, prestarsi danaro peer-to-peer (cioè da persona a persona, senza l’intermediazione delle banche) grazie al social lending; ma anche accedere a servizi di trasporto pubblico comunitari e ambientalmente sostenibili (car-sharing e bike-sharing), risparmiare e socializzare condividendo l’uso di piccoli oggetti (il trapano, la tavola da surf) o l’utilità di alcuni servizi (la badante, la tata, la spesa giornaliera), fino alla scelta di finanziare in comunità un’inchiesta giornalistica o un documentario, se non addirittura condividere la proprietà del giornale locale che non interessa più mantenere ai grandi editori. Tutto ciò e molto altro rientra in una generica etichetta di sharing economy. Ed è in piena esplosione.

Opportunità economica condivisa A marzo scorso il più famoso settimanale economico del mondo, il britannico The Economist, ha dedicato all’argomento la copertina e numerosi articoli, ma senza poter delineare cifre capaci di fotografarne le dimensioni finanziarie, i costi e i fatturati. Tuttavia non può passare inosservato che GM Ventures, il braccio | 12 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

Economia della condivisione o sharing economy, weconomy o consumo collaborativo, tante etichette per un fenomeno planetario frammentato, a cavallo tra reale e digitale, dove il valore d’uso di beni e servizi viene prima di tutto

Filippo Addarii, direttore esecutivo di Euclid Network

operativo d’investimento del più grande costruttore automobilistico americano, abbia investito 13 milioni di dollari nel 2011 in RelayRides, portale che sostiene si possano guadagnare 7mila dollari l’anno dal noleggio peer-to-peer della propria auto; o che l’anno seguente una società di noleggio auto convenzionale come ZipCar, acquisita da Avis per 491 milioni di dollari nel 2013, ne abbia investiti 14 in Wheelz, compagnia specializzata nel noleggio di vetture tra persone.

Il web brulica di siti dedicati allo sharing come Airbnb, TaskRabbit, Kitchit, Etsy o Desk e si moltiplicano le buone prassi di economia condivisa. Secondo l’australiana Rachel Botsman, autrice di uno dei primi bestseller sull’argomento (What’s Mine Is Yours: The Rise of Collaborative Consumption), solo il mercato degli affitti peer-to-peer varrebbe 26 miliardi di dollari. E se il tema piace a The Economist, che dire di Collaborative cities, ambizioso progetto a cavallo tra reportage e social networking, in cui si assiste a un cortocircuito virtuoso tra oggetto del racconto giornalistico e strumenti con cui questo si realizza? Maxime Leroy, 23enne parigino, ha chiesto proprio a KissKissBankBank, una piattaforma di raccolta fondi condivisa (il crowdfunding), le risorse necessarie a finanziare un documentario che raccontasse le migliori esperienze mondiali di sharing economy: la sua idea è da poco diventata un sito ricco di interviste compiute tra New York, Detroit, Toronto, Portland, San Francisco, Parigi, Londra e Helsinki (aspettando Berlino, Barcellona, Milano, Roma), condivise attraverso i social media, ma soprattutto realizzate grazie alla fiducia di 149 internauti sconosciuti che gli hanno donato oltre 14mila euro (ne aveva chiesti 12.800).

Tra social e individual Qualcosa sta succedendo, insomma. Ma chi saprà approfittare di questo processo di disintermediazione generalizzato è forse presto per saperlo. A detta di Filippo Addarii – italiano che vive a Londra, giovane direttore esecutivo di Euclid Network – l’avanzata di questo “nuovo mondo” accelererà, in un’ottica socio-eco-


| dossier | futuro condiviso |

Tra bon ton digitale e corsa al ribasso di Corrado Fontana

La sharing economy sarà volano di progresso in tema di diritti? Difficile imporre regole alla rete, ma gli spazi d’illegalità potrebbero allargarsi «Ciò che serve è educare le persone all’uso delle nuove tecnologie e al nuovo tipo di società che si sta creando. A mio parere perderanno capacità di controllo le politiche istituzionali dall’alto e diventerà molto più forte l’approccio comunitario, acquisendo importanza la cosiddetta peer-to-peer view. Succederà come succede nell’albo dei medici: quando un medico non rispetta le regole viene cacciato via e non lavora più da nessun’altra parte»: così la pensa Filippo Addarii di Euclid Network, secondo cui le buone reti si autodisciplinano, mettendo l’accento sul tema delle norme interne e di quelle imposte dalla società come competenza essenziale della weconomy. Il tema, al centro di accese discussioni, nasce innanzitutto dalla necessità dei governi di intercettare risorse economiche che in molte transazioni peer-to-peer sfuggono al fisco o alle leggi vigenti, scavalcando il controllo di corpi intermedi come il sindacato o eludendo la concorrenza dell’economia convenzionale

nomica fortemente liberale, processi di mobilità sociale e conseguenti contraccolpi, anche politici. E, soprattutto, sarà inevitabile: «Non siamo più in grado di rispondere alle sfide contemporanee con i modelli che abbiamo ereditato: i fenomeni anomali – diciamo così – si moltiplicano, in tale quantità e diffusione che risulta difficile considerarli ancora tali e non la rappresentazione di un modello emergente. Bisogna però stare attenti – e mi rivolgo in particolare al terzo settore nazionale – che ciò non si traduce automaticamente nella vittoria della economia sociale». Un monito da ricordare, e che contrasta, ad esempio, con l’idea di Claudio Bossi,

SITI INTERNET collaborative-cities.com confabitare.it lacordata.it euclidnetwork.eu arduino.cc massimobanzi.com ethicalconsumer.org

(ad Amsterdam i funzionari pubblici vanno a caccia di alberghi senza licenza vagliando gli elenchi della piattaforma digitale Airbnb; in alcune città americane i servizi di taxi peer-to-peer sono stati banditi dopo pressioni dalle lobby dei tassisti convenzionali). Non solo. Alla polverizzazione in rete di un’offerta e richiesta individuale di prestazioni d’opera – accade tramite siti come TaskRabbit –, senza quindi intermediazioni e controlli di carattere pubblico, imprenditoriale e sindacale, il rispetto delle norme in tema di sicurezza e assicurazione, di salari minimi e discriminazioni di genere o razziali, rischia un decremento significativo. Come pure si può allargare ulteriormente lo spazio dell’economia al nero. Elementi di tale preoccupazione che i più critici accomunano l’avvento della sharing economy all’economia informale che si fa largo nelle situazioni di estrema povertà o in tempi di guerra, quando anche le sigarette si vendono singolarmente. La speranza è perciò che la rete sappia autoregolarsi meglio di quanto sappia fare il mercato, ma la discussione in merito è ancora al principio. Di ciò, ma anche del consumo collaborativo come via per risparmiare risorse e contrastare l’idolatria consumista, si è parlato alla prima Conferenza sull’economia della condivisione di Berlino, a maggio scorso. Per entrare, manco a dirlo, potevate condividere il biglietto.

presidente dell’impresa sociale milanese La Cordata, che si augura «ci sia anche una dimensione sottotraccia – e in qualche modo inespressa – della sharing economy, che non mira solo all’abbassamento del prezzo, ma riguarda l’opportunità di rispondere a un alto bisogno di relazioni significative tra le persone». E proprio nel delicato equilibrio tra dimensione economica e individuale da un lato e dimensione comunitaria dall’altro si giocherà infatti il potenziale progressivo e realmente redistributivo di queste esperienze: «Ovviamente – prosegue Addarii – uno degli ambiti di maggior prospettiva è tutto quello che riguarda il capitale, come socializzare il capitale che l’economia moderna ha invece concentrato: sicuramente attraverso queste nuove forme di sharing economy il capitale si disperde. Devi per forza mettere insieme tante persone, ognuna porta un contributo diverso e la grande capacità è saperle tenere unite. Tornerà quindi in auge il ruolo della politica nel senso nobile. Non una politica istituzionale, ma una politica di comunità». 

Rachel Botsman Roo Rogers What’s Mine Is Yours: The Rise of Collaborative Consumption HarperCollins e-books

In basso alcune riprese dell’interno

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dossier

| futuro condiviso |

Sei pronto a condividere il tagliaerba? di Paola Baiocchi

Per abitare insieme servono alcune regole condivise e degli spazi in cui svolgere attività in comune. Semplice, no? Ma perché le case non si progettano sempre così? Un viaggio nel mondo del cohousing ohousing vuol dire abitare in contesti in cui si condividono alcuni spazi e servizi. Il termine è molto più conosciuto nei Paesi scandinavi, dove nasce come modello abitativo negli anni Sessanta, ma sta vivendo un piccolo boom anche in Italia. I numeri lo dimostrano: quando nel 2005 il dipartimento Indaco del Politecnico di Milano per l’innovazio-

C

IL CONDOMINIO CONDIVISO, PASSO DOPO PASSO 1) Il gruppo si forma in internet 2) Dopo qualche mese c’è il primo incontro per conoscersi 3) Seguono altre riunioni per decidere cosa condividere 4) Si prepara una “carta costituzionale” con le attività negli spazi comuni 5) Si versa la caparra e inizia la progettazione

ne e la sostenibilità ha effettuato uno studio intervistando tremila persone sulla loro disponibilità a questo tipo di abitare, il 50% ha risposto di sì. Cohousing.it, la community che ha raccolto i risultati del lavoro del Politecnico e nel 2006 in due mesi ha aggregato con un questionario internet i primi 3.500 interessati, conta oggi 16mila adesioni e la sua crescita è costante, alimentata dal passaparola di chi ha cominciato ad abitare questi condomini particolari, dove il rapporto con i vicini non si limita a imbarazzati incontri in ascensore o a litigi in cui l’amministratore fa da mediatore.

Progettazione condivisa Il primo progetto realizzato è a Milano, nel quartiere Bovisa: Urban Village, una ex fabbrica di barattoli recuperata e abi-

tata dal 2009 da 32 nuclei famigliari, ognuno con una sua residenza privata da 50 a 140 mq e oltre 300 mq di spazi condivisi, organizzati in un giardino su cui si affacciano tutti gli appartamenti, un salone comune, una lavanderia con zona stiro, la stanza degli hobby, il rimessaggio delle biciclette e perfino una piscina scoperta. Ma come si diventa cohouser? «Il primo passo è iscriversi alla community», spiega Nadia Simionato, che segue il marketing e la comunicazione di NewCoh srl, la società che ha creato e gestisce cohousing.it. «Quando abbiamo un progetto abbastanza definito – continua Nadia Simionato – lanciamo la sollecitazione in internet. Dalle moltissime risposte iniziali, si arriva alla fine al numero che serve per far partire il cantiere. Abbiamo nuovi progetti in preparazione in Lombardia, a Roma, Padova, Genova». I tempi per arrivare alla casa dei sogni non sono eterni: da uno a due anni, avvalendosi delle edificazioni in legno che permettono di costruire una nuova casa in sei mesi, e considerando il percorso di formazione del gruppo che le abiterà e la progettazione partecipata.

Non solo acquisti Si può vivere in cohousing anche in affitto: è il caso di Cosycoh, in zona Ripamonti a Milano, otto appartamenti nuovi da 60 a 100 mq, con una terrazza, una sala comune polifunzionale e la lavanderia nell’interrato. Si tratta di appartamenti dove si potrà anche esercitare un’opzione di acquisto, in cui al termine di 4/8 anni gli af-

Gas: acquisti condivisi e non solo di Valentina Neri

I Gas sono un tipico esempio di condivisione: di acquisti, di decisioni, di esperienze. In Italia spaziano da quelli interessati solo agli acquisti a veri e propri movimenti Condividere e collaborare negli acquisti di tutti i giorni. È lo scopo dei Gruppi di acquisto solidale. Sulle pagine di Valori ne parliamo spesso, da anni, e in questo dossier sulla sharing economy non potevano mancare. Una realtà tutt’altro che marginale, se è vero che, come

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dimostra la ricerca dell’osservatorio Cores dell’Università di Bergamo, nella sola Lombardia se ne contano 450 (vedi Valori 109). Rinunciare alla comodità un po’ spersonalizzante del supermercato per mettersi in rete e sostenere i piccoli produttori locali è una scelta spinta da diversi obiettivi e che porta svariati vantaggi. «In Italia i Gas di prima generazione, nati a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno fatto un grande lavoro sui principi e sull’ideologia: sono quindi diventati soggetti molto più aperti non solo all’acquisto del cibo, ma anche ad altre pratiche solidali», spiega Andrea Calori, specializzato in Pianificazione territoriale e ambientale, attivo


| dossier | futuro condiviso |

DIRITTO ALLA CASA, OCCUPAZIONI E UNA NUOVA IDEA DI CITTÀ

In alto i ragazzi di Cosycoh e sopra uno spazio comune di TerraCielo

fitti versati verranno riconosciuti come parte del prezzo finale. Già, il prezzo finale com’è? Tenendo conto poi che si tratta di edifici costruiti con una scelta attenta dei materiali e usando le tecniche più avanzate per il risparmio energetico? «Leggermente inferiore ai prezzi di mercato – riprende Nadia Simionato – e poi, avendo degli spazi comuni (che consegniamo già arredati), avrò bisogno di una casa meno grande. E avrò meno spese, perché con una stanza per gli hobby a disposizione non si dovrà comprare un trapano o un tagliaerba a famiglia, ma ci sarà quello della comunità». 

Nelle città si moltiplicano gli striscioni attaccati alle finestre a segnare che lì c’è un’occupazione. Sono luoghi di resistenze di diverso tipo: i teatri occupati – il Valle e il Volturno a Roma, il Teatro Rossi riaperto a Pisa, il Teatro Pinelli a Messina solo per citarne alcuni – rivendicano che la cultura deve essere parte integrante delle città, perché è un diritto costituzionale, è fonte di formazione alla critica e una grande risorsa economica, come dimostrano i fatturati delle grandi istituzioni culturali internazionali. Dentro i teatri occupati le lezioni e gli spettacoli si alternano ai dibattiti sui temi delle riforme istituzionali: al Teatro Valle ha preso il via la fase redigente della Costituente dei beni comuni, presieduta da Stefano Rodotà, che ora sta facendo il giro d’Italia. Molte occupazioni, invece, nascono dalla richiesta di fermare la cementificazione delle città, come gli scontri a Istanbul hanno dimostrato non essere solo un problema italiano. Gruppi di cittadini o collettivi studenteschi si organizzano per difendere fazzoletti di terra tra un palazzo e l’altro, da conservare come spazi collettivi. A volte si oppongono a progetti di demolizione di edifici pubblici, che dovrebbero essere riempiti da migliaia di metri cubi di nuove edificazioni speculative. È il caso del Fronte del Porto, una ex caserma dell’aeronautica in via del Porto Fluviale nel quartiere Ostiense di Roma, dismessa e occupata dal 2003 da circa 200 persone. Gli affitti ormai non proporzionali ai redditi, i prezzi esorbitanti per l’acquisto di questo bene primario e il numero ridottissimo di abitazioni a canone sociale, sono i motivi per le occupazioni abitative nelle città. Lo scorso dicembre a Roma, dove ci sono almeno 250mila immobili vuoti, tredici palazzi di proprietà della Provincia, del costruttore Caltagirone o di banche, sono stati riempiti. Non solo da giovani o da stranieri, denunciano i Movimenti di lotta per la casa, ma da famiglie italiane toccate dalla crisi. Questi modelli di condivisione “fuori dagli schemi”, si oppongono a un modello di città che esclude, distruggendo allo stesso tempo la bellezza e la socialità. Dimostrano l’inutilità delle nuove edificazioni in un Paese con la natalità tra le più basse d’Europa e dove ogni bambino che nasce, dice lo storico dell’arte Salvatore Settis, ha già a sua disposizione 38 vani vuoti. Pa.Bai. Nel film Good buy Roma, di Gaetano Crivaro e Margherita Pisano, si raccontano le storie degli abitanti di Fronte del Porto, Via del porto Fluviale 2, quartiere Ostiense Roma http://goodbuyroma.wordpress.com/about/

da anni nel mondo dell’altra economia. Si spiegano così iniziative come il salvataggio del caseificio Tomasoni in provincia di Brescia, finanziato da Mag 2 Finance e dai Gas che hanno pagato i prodotti in anticipo. Un esempio – racconta Vincenzo Vasciaveo, coordinatore del Distretto rurale di economia solidale del Parco agricolo sud Milano – replicato anche per aiutare Cascina Lassi di Cerro al Lambro. Si può citare anche il progetto “La casa dei pesci” della rete Intergas, che, oltre a comprare pesce, porta avanti un’azione di contrasto alla pesca illegale a strascico. «I Gas italiani su questo aspetto sono molto diversi dai loro omologhi francesi, tedeschi o inglesi, che – continua Calori – nascono e si sviluppano con un focus specifico sull’agricoltura, senza acquisire quella componente di “movimento” dei nostri Gruppi di acquisto». Lo conferma Mauro Fumagalli, della rete

milanese Intergas: «Tutto nasce dalle relazioni, all’interno del gruppo e con i produttori, che danno vita a un’apertura culturale che ci porta ad affrontare tematiche legate all’agricoltura, all’ambiente, alla cooperazione sociale, ai diritti. L’aspetto economico resta fondamentale, perché il piccolo produttore biologico che lavora con i Gas deve essere in grado di sostenere la propria famiglia e la propria attività. Ma noi vogliamo avere il giusto a un prezzo che rispetti chi lo produce con fatica. Purtroppo in questi anni si vedono nascere anche tanti gruppi d’acquisto che hanno come scopo avere tanto e pagare poco». Sono quei gruppi ai quali, spiega Andrea Calori, manca quella “S” che sta per “Solidale” e che significa molto, ad esempio spendere tempo e risorse per incontrare di persona i produttori e scegliere quelli che si impegnano a rispettare il proprio territorio.

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dossier

| futuro condiviso |

Se la sharing economy ti entra in casa di Corrado Fontana

Non solo internet. L’economia della condivisione entra nella vita delle persone, rispondendo a bisogni diversi e aiutando a risparmiare. Dal co-working a servizi in comune nel condominio come badanti, tate e infermiere e la crisi preme e la rivoluzione digitale offre tante nuove opportunità, il successo di un progetto come quello messo in campo da Confabitare – associazione di proprietari d’immobili bolognese – dice che l’economia reale può trarre spunti positivi da questa situazione: nel 2012 è partita la proposta di un servizio condominiale di condivisione della badante e i gruppi di acquisto

S

condominiali per fare la spesa in comune. Poi sono arrivate l’infermiera e la tata di condominio. E ora il successo di queste iniziative è, in certa misura, scoppiato tra le mani di Confabitare: «Solo a Bologna – ci dice il presidente Alberto Zanni – la badante di condominio è attiva in 53 condomini, ma da un paio di mesi stiamo cercando di esportare tali iniziative nelle altre città d’Italia, da Milano a Reggio Calabria a Messina. Abbiamo 55 sedi operative provinciali, con una media di una decina di condomini interessati da questi servizi per ognuna, il che significa che siamo già ben oltre i 500 condomini in Italia». Le finalità di questi progetti – passi intermedi per arrivare alla Banca del Tempo di condominio, in cui ciascun inquilino scambierà coi vicini strumenti, competen-

Alberto Zanni, presidente di Confabitare

ze e disponibilità – sono favorire il risparmio e la coesione tra famiglie. Tant’è che Confabitare dichiara che chi aderisce al Gruppo d’acquisto condominiale può spendere fino al 50% in meno sul costo della spesa, mentre per quanto riguarda la badante c’è una grande differenza tra averne una a disposizione in esclusiva tutto il giorno (1.200-1.300 euro al mese più contributi) e usufruirne solo per le ore ne-

Benefici economici e sociali BEN OLTRE IL RISPARMIO. VANTAGGI ANCHE RELAZIONALI «Se penso al fenomeno della badante condivisa, il tema non è solo quello del risparmio, ma la badante diventa anche lo strumento che connette me con il mio vicino di casa, il tramite attraverso il quale faccio precipitare il mio bisogno di relazione», commenta Claudio Bossi presidente Claudio Bossi, dell’impresa sociale La Cordata. «È la risposta presidente dell’impresa inattesa, ma ricercata, che la sharing economy sociale La Cordata può dare. Il discorso vale anche per il co-working : che non serve solo per abbattere il costo della locazione di un ufficio ma, rispetto ad esempio ad avere una scrivania a casa propria che funge da ufficio, permette di condividere uno spazio di lavoro con altri accedendo a una socialità del lavoro, che diventa un elemento fondamentale. La relazione è il bene più prezioso che negli ultimi 20 anni abbiamo perso».

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SINDACATO IN RITARDO SUI PROCESSI CONDIVISI, MA RESTANO ASPETTI CRITICI «Devo fare obiettivamente autocritica, evidenziando un limite: negli ultimi anni, pressati dall’urgenza della crisi economica e anche per il fatto che il sindacato è stato formato sulla base di una cultura industrialista, abbiamo fatto fatica a metabolizzare questi nuovi processi che si stanno sviluppando», ammette Maurizio Beschi, responsabile economico della Cgil. «Dobbiamo uscire da una cultura ed entrare in un’altra. D’altra parte condividiamo con la sharing economy un punto di passaggio, che si inserisce nella nostra analisi della crisi, considerata di tipo strutturale. Va superata costruendo un nuovo modello di sviluppo, dove acquista importanza il valore d’uso rispetto al valore di scambio. In comune c’è anche l’obiettivo di ridare spazio e spinta alla partecipazione comunitaria a partire dal basso». E continua «D’altra parte, persistono i problemi di trasparenza e mancanza di controllo e quelli legati all’evasione fiscale. Si tratta di prassi da accompagnare perciò con politiche pubbliche di incentivazione e di vigilanza, affinché si eviti il rischio che questi meccanismi diventino peggiorativi. Bisogna insomma capire qual è la finalità della sharing economy : se sia un nuovo business fine a se stesso oppure un elemento che può far crescere una diversa sensibilità sociale e una diversa modalità di affrontare i temi della crisi e dell’economia. Se vogliamo poi che vi sia un’efficace ricaduta in termini economici e sociali, non c’è dubbio che si debba consentire alla generalità della popolazione di avere le conoscenze e le competenze necessarie per interagire con la rete, e anche una formazione specifica sulle condizioni e le regole che sovrintendono tali meccanismi».


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GLOSSARIO CO-WORKING Condivisione di uno spazio di lavoro, generalmente tipo ufficio o studio, in cui vengono affittate a ore le postazioni, incluse di alcuni servizi (connessione internet, stampante, fax...), da professionisti che svolgono differenti occupazioni. CO-HOUSING Condivisione di spazi abitativi comuni (cucina, sale ricreative, spazi per bambini...) da parte di diversi nuclei familiari che vivono in alloggi indipendenti, generalmente non di grandi dimensioni, in una stessa struttura. CAR-SHARING/BIKE-SHARING Servizi in abbonamento che consentono l’utilizzo a richiesta di auto o biciclette. Al costo di abbonamento si aggiunge quello che dipende dall’utilizzo. CAR-POOLING Prassi di condivisione dell’automobile tra più persone. Spesso adottato da gruppi che percorrono lo stesso tragitto giornaliero alternando l’uso della macchina dei partecipanti.

cessarie (si può arrivare a pagare sui 300350 euro al mese). La chiave del successo della badante di condominio, sottolinea però Zanni – che vale in parte anche per gli altri progetti – è che «la persona incaricata rimane tutto il giorno all’interno dello stesso stabile, senza tempi morti per gli spostamenti: la badante è così garantita da uno stipendio pieno. Il vantaggio per i condomini è che, al di là delle ore di servizio presso una famiglia, la badante rimane sostanzialmente a disposizione per la giornata in caso di necessità, emergenze o per piccole attività estemporanee». E se la badante è assunta dalle famiglie con un contratto regolare stipulato pro quota da ciascun utente, Confabitare, a titolo gratuito, avvia la partenza del servizio, ne coordina le attività giornaliere e svolge una funzione di controllo leggero, occupandosi delle pratiche amministrative. 

Dai Gruppi di acquisto alla baby sitter, alla badante in comune tra le famiglie. I servizi in condivisione all’interno dei condomini portano molti vantaggi, economici e non solo

Lavoro diviso, lavoro condiviso di Corrado Fontana

Si può condividere anche il posto di lavoro. Luxottica lo propone a membri della stessa famiglia. E dall’Europa l’esempio di Euclid Network Per l’economia della condivisione è job sharing, ma in Italia l’istituto del lavoro ripartito nasce ben prima del boom della weconomy e viene regolamentato addirittura nel 1998 e poi nel 2003 (D.Lgs. 276/2003): la sostanza dice che laddove c’era un posto di lavoro ne vengono creati due mezzi, fortemente interconnessi (tanto che in caso di fine rapporto anticipato per uno lo stop arriva anche per l’altro). Sebbene non molto praticato in Italia, soprattutto per la rigidità che lo caratterizza, alla multinazionale Luxottica, in accordo coi sindacati, ne hanno accolto l’impiego nella forma del job sharing familiare: un contratto triennale a disposizione degli ottomila dipendenti degli stabilimenti di Agordo, Cencenighe, Sedico, Pederobba, Rovereto e Lauriano. Un’opportunità per chi, già dipendente, vuole condividere oneri e introiti con un componente del nucleo familiare che sia disoccupato. Ma se il job sharing di casa nostra mostra segni di innovazione forse solo nell’etichetta, un bell’esempio di condivisione applicata al mondo del lavoro viene da Euclid Network, rete formata a Londra nel 2007 da 300 professionisti di 31 Paesi con base a Londra, finanziata dalla Commissione Europea e orientata a promuovere l’innovazione nell’imprenditoria sociale. In diverse edizioni dei suoi progetti Erasmus per giovani imprenditori, infatti, i professionisti di Euclid Network hanno attuato scambi internazionali condividendo lo stesso posto di lavoro in compresenza, alternandosi nel ruolo di ospiti nei rispettivi Paesi di provenienza, permettendo in tal modo un passaggio di esperienza e competenze apprese sul campo, che poi ciascuno avrebbe potuto mettere a frutto nella propria realtà lavorativa.

FAI DA TE DIGITALE Si chiama Arduino ed è una creatura tutta italiana, nata a Ivrea nel 2005 e diffusa in decine di migliaia di esemplari nel mondo, presentata a maggio nella sua ultima versione. Una piattaforma open source: un piccolo computer di base che ciascuno può acquistare e ha diritto di implementare ed elaborare, perché le informazioni sulla sua progettazione e sui componenti sono liberamente condivise. Massimo Banzi, nato a Monza e oggi residente a Lugano, è uno dei suoi padri creatori, ma i membri della comunità di Arduino hanno già sviluppato programmi per connettere questo hardware più o meno a qualsiasi oggetto elettronico. Grazie ad Arduino, Banzi è chiamato in tutto il Pianeta per tenere lezioni e conferenze, e annoverato tra i guru della sharing economy, testimonial perfetto del cosiddetto movimento dei makers, che punta a rilanciare i mestieri artigianali attraverso il digitale. Arduino diffonde infatti, attraverso l’enorme platea offerta dal web, un modello di business che parte dal lavoro fatto con le mani, magari assemblando in garage circuiti elettronici di risulta, per creare nuovi strumenti le cui utilità sono messe a disposizione di tutti. Secondo The Economist i makers avrebbero sconfitto Marx, mettendo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori.

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Spostarsi in comunità

Paese, per 603 auto che nel 2012 hanno percorso poco meno di 8 milioni di km in circa 2 milioni di ore. E queste cifre riguardano solo Iniziativa Car Sharing, la struttura promossa dal ministero dell’Ambiente che unisce undici operatori in diverse città, comprese Milano e Torino, i casi di eccellenza a livello nazionale. Nel capoluogo lombardo a dare il via al car sharing è stata proprio Legambiente. Dalle tre auto di 12 anni fa, ora gli utenti ne hanno a disposizione più di 130 e il servizio è gestito dalla società di trasporto pubblico Atm.

Non solo car sharing

di Valentina Neri

Ventiseimila abbonati al car sharing . L’Italia a metà classifica in Europa. Ma non bastano le auto in condivisione, servono servizi pubblici efficienti per arrivare ovunque, in modo rapido, facile ed economico er fare un viaggio in treno si compra il locomotore? Allora perché per andare in auto bisogna per forza averne una?». La battuta è di Andrea Poggio, vicediret-

«P

tore di Legambiente e autore di Le città sostenibili. Il car sharing, soprattutto nelle grandi città, non ha bisogno di presentazioni. Sono più di 26mila gli abbonati del nostro

In confronto ai nostri vicini di casa del Vecchio Continente, l’Italia si pone a metà classifica: se, spiega il direttore di ICS Marco Mastretta, «rispetto a Francia e Spagna probabilmente siamo più avanti, a Zurigo o Berlino il tasso di penetrazione del car sharing sulla popolazione urbana è all’1,5%, il doppio di quello italiano». Ma il car sharing non può camminare da solo. Perché le persone abbandonino l’auto, usandola in condivisione solo quando serve davvero, occorre che i mezzi pubblici coprano in modo agevole, economico e veloce gli spostamenti quotidiani. Lo conferma Andrea Poggio: «Il problema non è solo quello di sostituire la proprietà con la condivisione. Bisogna trovare nuove risposte, sostenibili a livello ambientale e

SMARTIKA, IL CREDITO PEER-TO-PEER CHE SCAVALCA LE BANCHE La condivisione, soprattutto in tempo di crisi, non può non toccare anche il mondo della finanza. Così lo sviluppo del credito peer-to-peer, ovvero tra privati, senza più l’intermediazione di una banca, continua a crescere e si candida a diventare in futuro un concorrente importante per il sistema creditizio tradizionale. In Italia opera ad esempio la società d’intermediazione Smartika, tornata nel 2011 all’operatività dopo aver superato alcuni rilievi mossi da Bankitalia alla precedente esperienza chiamata Zopa. La banca centrale ha infatti concesso l’introduzione nel nuovo albo degli istituti di pagamento, rilanciando così un’esperienza che era stata in grado, fino al 2009, di attirare 40 mila utenti e raccogliere più di 7,2 milioni di euro di prestiti. Il meccanismo è semplice: Smartika si impegna a verificare la storia creditizia delle parti (prestatore e beneficiario del finanziamento), ma – a differenza della maggior parte degli istituti di credito – valuta anche le ragioni della richiesta

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(ad esempio la bontà di un progetto). Gli utenti chiedono denaro per acquistare un mezzo di trasporto, per sostenere le spese di un matrimonio, per ristrutturare una casa, per studiare o per pagare cure mediche. Ma anche, non di rado, per consolidare debiti pregressi. «I prestatori – spiega Carlo Vitali, responsabile marketing dell’azienda – possono offrire fino a un massimo di 50mila euro, mentre i richiedenti possono ottenere da mille a 15mila euro. In media vengono erogati 6mila euro (il che implica la presenza di circa 200 prestatori), che vengono restituiti in rate da 24 a 48 mesi, ad un tasso medio attorno al 9%, costruito in ragione dell’offerta di denaro in arrivo dai prestatori. La nostra società trattiene l’1% del tasso interesse e circa il 2% del finanziamento». Un dato, in particolare, sottolinea la bontà del sistema: a fine maggio Smartika avrebbe dovuto incassare 4.005 rate, e ne ha ricevute 3.987. Un livello ben più alto rispetto agli operatori tradizionali. A.B.


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Oltre l’autostop Nel frattempo si riscopre l’autostop tramite piattaforme di car pooling come BlaBlaCar e Bring-Me, che permettono di condividere il viaggio con chi ha a disposizione un posto, partecipando alle spese. Un’opportunità che in Italia è ancora da scoprire, invece, è quella del car sharing peer-to-peer: una sorta di noleggio tra privati: si presta la propria auto per brevi periodi, a fronte di una tariffa oraria. Shelby Clark nell’estate 2010 ha lanciato

GLOSSARIO PEER-TO-PEER Formula abbreviata in P2P che significa “da pari a pari” ed è mutuata dal gergo informatico. Indica convenzionalmente gli scambi tra due individui. SOCIAL LENDING Letteralmente “prestito sociale”. È anche sinonimo di peer-to-peer lending e indica un prestito di danaro che intercorre tra due individui, senza intermediazione bancaria. PIATTAFORMA DIGITALE Generalmente un sito internet che offre e organizza determinate funzioni per chi vi accede, come ad esempio domanda e offerta di beni e servizi tra persone.

QUARTO POTERE Giornali locali di proprietà di lettori o dipendenti e informazione pagata da chi ne usufruisce. In queste due formule – che in parte richiamano realtà nostrane come quelle del quotidiano Il manifesto o della milanese Radio Popolare – è la sintesi di nuove esperienze di sharing economy realizzate dal basso, in cui condivisione fa quasi rima con cooperazione. Perché se è opinione diffusa nel Regno Unito che la stampa locale sia perlopiù condannata a cedere il passo, Co-operatives UK – l’associazione delle cooperative britanniche che riunisce 13,5 milioni di soci – e fondazione Carnegie Trust stanno organizzando una serie di incontri (Make Your Local News Work) in tutto il Paese per dimostrare che la proprietà condivisa dei mezzi d’informazione può essere la via giusta per salvarli. Col dito puntato su azionisti affamati di dividendi che i media tradizionali non possono più garantire, in questi workshop si esaltano i successi del West Highland Free Press di Skye e di Ethical Consumer. L’uno è il primo giornale locale britannico di proprietà dei dipendenti: fondato nel 1972 con la missione esplicita di raccontare la realtà della vita di Highland e le sue disuguaglianze sociali, venne messo in vendita nel 2009 e acquistato con fatica dai suoi 13 dipendenti per salvare sia il posto di lavoro che la linea editoriale. L’aspetto interessante è che il giornale regge, accontentandosi di margini di profitto del 2%, inaccettabili per banche e grandi gruppi imprenditoriali. Diversa ma altrettanto interessante l’esperienza di Ethical Consumer: sito web e rivista analoga al nostro Altroconsumo ma più militante, realizza rapporti e inchieste suggerite dai lettori, sostiene campagne di promozione sociale e di boicottaggio. La sua proprietà è in mano a una comunità di lettori che hanno investito 200mila sterline nella testata e ricevono in cambio il 4% di tasso di interesse sulle somme versate. C.F.

RelayRides, che da Boston si è diffusa a San Francisco e, grazie all’investimento di General Motors e Google Ventures, in tutti gli Usa. L’iniziativa nasceva sulla scia di Zipcar, che permette agli abbonati di cercare sul web l’auto disponibile più vicina. Per il peer-to-peer in Italia però restano alcuni problemi, assicurativi e fiscali:

non è stato definito uno status normativo. E si rischia di far fronte a pesanti resistenze. Lo dimostra il caso di Uber, l’app per prenotare auto con conducente. Arrivata a marzo a Milano e a maggio a Roma, è stata accolta da un vespaio di polemiche sollevate dalle associazioni di categoria dei taxi e del noleggio.  FONTE: ELABORAZIONE SU DATI ICS - INIZIATIVA CAR SHARING, GUIDAMI SRL - PADOVA * AVVIO SETTEMBRE 2011

sociale, ai nuovi bisogni di mobilità. L’attuale modello di trasporti è insostenibile, lo dimostra il fatto che negli ultimi anni è aumentata la popolazione immobile, le fasce più deboli: pensionati e disoccupati». E si accentua il divario tra le aree urbane più servite e quelle periferiche, in cui si usa l’auto privata perché non c’è alternativa. In una fase critica le nuove idee si moltiplicano. Il car sharing diventa aziendale grazie a Micro Green Logistic, un progetto della Camera nazionale dell’artigianato di Macerata e dell’Università di Camerino. Le aziende indicano su una piattaforma on line il numero di colli da spedire, le tempistiche e la destinazione. Il software raggruppa gli ordini che devono fare lo stesso viaggio e invia la richiesta a una ditta specializzata in logistica. In tre mesi di sperimentazione, le merci di quaranta piccole e medie imprese calzaturiere hanno viaggiato per 9mila km a fronte dei 20mila dello stesso periodo dell’anno precedente. Risultato: -42% di emissioni di CO2, 562 litri di carburante in meno e un risparmio fra i 9 e i 15mila euro per azienda.

CAR SHARING: RAPPORTO AUTO/POPOLAZIONE Venezia

1,63

Torino

1,39

Genova

1,28

Bologna

1,10

Milano

0,99 0,91

Parma Firenze

0,59

Palermo

0,55 0,47 0,38

Padova Roma Brescia 0,00

0,31 0,20

0,40

0,60

0,80

1,00

1,20

1,40

1,60

1,80

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dossier

| futuro condiviso |

Di casa in casa Affitto o scambio di Valentina Neri ed Elisabetta Tramonto

Una piattaforma on line per condividere annunci di affitto tra privati. O siti per offrire il divano di casa propria. Per viaggiare low-cost n’enorme bacheca dove chiunque può proporre la propria casa in affitto o cercarne una per passare qualche giorno in vacanza, in tutto il mondo. E, per scegliere, si hanno tutti gli strumenti: dalle foto della casa alla

U

mappa del quartiere, da un’attenta descrizione scritta dal proprietario a (molto più utile) le recensioni di chi ci è stato. È Air BnB, una piattaforma dove si possono affittare camere o intere case tra privati, senza passare da un’agenzia. Nata nel 2007 a San Francisco dall’idea di due ragazzi, Brian Chesky e Joe Gebbia, che per recuperare le spese dell’affitto decidono di mettere a disposizione di ospiti paganti una parte del loro loft. In sei anni è stato un vero boom: 10 milioni

Condivisione 2.0 di Valentina Neri

Internet è uno strumento fondamentale per la condivisione. Per fare e non solo comunicare n queste pagine raccontiamo tante esperienze basate sul principio della condivisione. Ma come sarebbero possibili senza Internet? La risposta di Luca Conti (blogger, giornalista freelance e consulente in social media marketing) è netta: «Non potrebbero esistere

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perché, senza il web, domanda e offerta non riuscirebbero a incontrarsi. Non per niente, Internet in alcuni casi ha aiutato attività preesistenti, ma molto più spesso le ha fatte nascere dal nulla». Nel 2013 comunicare su scala globale, nell’immediato e a un costo prossimo allo zero, è la quotidianità. Per diversi anni il cosiddetto web 1.0 ci ha permesso solo di accedere a pagine pubblicate da altri. Già in quell’epoca nascono i primi servizi collaborativi: risale al 1995 la fondazione di eBay e Craiglist, il sito di annunci più gran-

di notti prenotate, 300mila annunci, in 34mila città, in 192 Stati. The Economist di marzo scorso era dedicato alla sharing economy e ha aperto il servizio descrivendo proprio questa realtà. Un’alternativa low-cost agli alberghi, ma anche un servizio che ha cambiato il modo di viaggiare per migliaia di persone: si vive in una casa vera, si condividono storie e si entra in contatto con gli abitanti. Se Airbnb è un servizio di affitti, che prevede una tariffa giornaliera e una commissione (dal 6 al 15%) per il servizio, la sharing economy offre anche soluzioni che permettono di viaggiare a costo zero, o quasi. È il caso del CouchSurfing, letteralmente “saltare da un divano all’altro”, una community nata da dieci anni in cui gli iscritti mettono a disposizione gratuitamente il divano di casa. Chi è in zona per visitare la città o seguire un evento invia una richiesta specificando la data di arrivo e raccontando qualcosa di sé. Il padrone di casa è libero di accettare o meno a seconda delle proprie pos-

de al mondo. A lungo però restano casi isolati perché bisogna attendere la diffusione dei social media che permettono a chiunque di proporre i propri contenuti. Ma – spiega Marta Mainieri, giornalista ed esperta in media digitali, nel suo libro Collaboriamo! – Facebook e Twitter sono pensati per comunicare. Con le nuove piattaforme di sharing si passa al fare: servono a lavorare, viaggiare, spostarsi. Il tutto nel mondo fisico: cosa che manda in pensione l’opposizione tra reale e virtuale. Anzi – azzarda Marta Mainieri – il web può addirittura rendere queste esperienze molto più “umane”. Condividere un appartamento con degli sconosciuti, ad esempio, non ha gli stessi confort di un weekend in hotel. Ma aiuta a ottimizzare le risorse e vivere il viaggio in modo meno spersonalizzante. E a fornire i mezzi e la mentalità per questo cambiamento è il web: se abbiamo i mezzi per cercare autonomamente informazioni e opinioni su un prodotto, siamo sempre meno disposti a pagare un intermediario che lo faccia per noi. E passiamo allo scambio diretto.


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sibilità. A gennaio di quest’anno i partecipanti erano 5,5 milioni in 97mila città: circa il 20% degli utenti viene dagli Stati Uniti e l’età media è di soli 28 anni. CouchSurfing è il servizio più famoso di scambio gratuito di ospitalità, ma non è l’unico. L’Hospitality Club, ad esempio, si augura che «un giorno ognuno potrà andare in un qualsiasi Paese straniero sapendo che ci sarà qualcuno ad accoglierlo a braccia aperte». Da una sua costola nel 2007 è nata la piattaforma BeWelcome, gestita unicamente da volontari, che ha da poco superato i 40mila membri che possono offrire un alloggio, ma anche una cena o un tour guidato. E chi vuole passare qualche settimana a contatto con la natura, al posto di una vacanza tradizionale, può rivolgersi al WWOOF (Opportunità globali nelle fattorie biologiche) e stabilirsi in un’azienda agricola bio o in un agriturismo offrendo in cambio la propria manodopera per lavorare nei campi, produrre il formaggio o il vino. 

Italia un po’ in ritardo Per ora i servizi collaborativi si basano soprattutto sulla Rete. Ma già si sperimentano soluzioni più avanzate, come le tecnologie wireless per aprire la portiera dell’auto noleggiata con RelayRides o i servizi come Uber, disponibili solo su smartphone. Ma il Belpaese in molti casi sconta un certo ritardo. Colpa di una sorta di resistenza culturale? Secondo Luca Conti il motivo va cercato nel «ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie e nella familiarità nel loro uso. Le piattaforme di sharing in alcuni casi in Italia non hanno ancora raggiunto la massa critica che le renderebbe un’alternativa ai modelli tradizionali». Può aiutare lo sviluppo del mobile, visto che il nostro è il Paese europeo con la più alta concentrazione di cellulari e un italiano su tre, stando ai dati Audiweb, possiede uno smartphone. Ma – avverte Conti – acquistare un dispositivo di ultima generazione non significa necessariamente saperne sfruttare tutte le potenzialità. 

Se qualcosa va storto di Valentina Neri

Lo spirito della sharing economy si basa sull’assenza di intermediari, di barriere e di controlli. Uno scenario che può aprirsi a possibili truffe. Ma nelle community la fiducia va conquistata, con controlli incrociati Una donna di San Francisco, in viaggio d’affari, affitta la propria casa su Airbnb. Al ritorno la brutta sorpresa: l’ospite aveva bucato con un trapano l’anta dell’armadio per rubarle soldi, documenti, carta di credito, gioielli, computer portatile. L’episodio, che risale al 2011, trascina nella bufera la community. Airbnb copre le spese e decide di fornire una copertura assicurativa sugli appartamenti, che grazie alla compagnia Lloyd’s di Londra arriva a un milione di dollari. La scelta di assumere l’onere dell’assicurazione, adottata anche dai servizi di car sharing peer-to-peer, rassicura gli utenti. Ma la riflessione è più ampia. Quali sono i margini di controllo su servizi il cui successo si basa sulla natura virale e sull’assenza, o quasi, di barriere all’accesso? Lo scoglio principale, per chi si avvicina all’economia della condivisione, è quello della fiducia. Proprio per questo, diverse piattaforme di sharing assomigliano a piccoli social network. Ne è un esempio CouchSurfing, in cui non ci si limita a offrire e chiedere ospitalità, ma si compila un profilo indicando età, provenienza, interessi. Praticamente tutte le piattaforme prevedono un meccanismo per “dare il voto” all’esperienza, in modo che gli utenti possano basarsi sulle recensioni altrui. La stragrande maggioranza di noi, soprattutto fra i più giovani, è già abituata a disseminare tracce di sé sul web tramite Facebook e Twitter. L’ideale, a cui mirano gli entusiasti dello sharing, è ricostruire tramite l’incrocio degli spazi social la rete di relazioni e interessi di una persona, in modo da sapere se potersi fidare. È il principio – spiega Marta Mainieri – di Klout, un aggregatore che, dato un nome, raggruppa tutte le occorrenze sul web e dà la misura della rilevanza di quella persona su Internet. Ma il fatto di doversi fidare di un estraneo prima di affidargli le chiavi di casa o dell’auto non è l’unico problema. Il settore dei taxi e quello alberghiero, ad esempio, sono regolati da norme specifiche per licenze, assicurazioni, imposizioni fiscali. E i servizi di sharing, se vogliono realmente porsi come un’alternativa al sistema convenzionale, dovranno riuscire a ritagliarsi un proprio spazio anche a livello legale. Altrimenti rischiano di porsi solo come concorrenti che hanno la possibilità di abbassare i prezzi perché non devono far fronte a determinati obblighi. Poche settimane fa a New York un utente di Airbnb è stato multato per 2.400 dollari perché l’affitto di parte del suo appartamento per tre giorni è stato considerato come una violazione della legge locale che regola il settore alberghiero. Ma oltreoceano si discute anche di Sidecar e Lyft, che forniscono una sorta di servizio di taxi rintracciando persone disposte a dare un passaggio. Non è prevista una tariffa standard, ma è usanza lasciare un’offerta che formalmente è volontaria, ma di fatto è indispensabile per ottenere un buon “voto” e quindi essere accreditati di fronte agli altri membri. Fino a che punto dunque si può parlare di offerta? Non per niente, riporta l’Economist, lo scorso novembre Lyft, Sidecar e Uber sono stati multati dalle autorità californiane per aver operato come servizi di trasporto per passeggeri senza provvedere alle necessarie tutele. Tutte le società hanno sporto appello e per ora continuano a operare, in attesa di evoluzioni, che dovranno essere rapide, ma anche in grado di capire la natura e la portata del cambiamento in atto. Altrimenti il rischio è quello di trovarsi imbrigliati in una serie di divieti e smentite che difficilmente potranno fare del bene tanto alla sharing economy, quanto al sistema tradizionale.

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HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

finanzaetica

Co

LiquiditĂ e stagnazione. Il vicolo cieco delle banche centrali > 26 Banca Etica: conti sotto esame > 28 Fiba: un tetto alle remunerazioni dei top manager > 30 | 22 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |


| politiche anti-crisi |

Un’illustrazione di Utagawa Kuniyoshi, “I lottatori di sumo”, 1830-1840. Shiranui Dakuemon (a sinistra) e Tsurugizan Taniemon (a destra).

Big in Japan

Il Giappone promuove il più ambizioso piano di alleggerimento quantitativo del Pianeta. I primi dati sono incoraggianti. Ma i timori non mancano di certo

sì Tokyo ha sca scatenato la tempesta monetaria N di Matteo Cavallito

on bastassero le persistenti incertezze sui debiti sovrani, i rischi della recessione europea e la timidezza dei segnali di ripresa statunitensi, analisti e regolatori finanziari di tutto il mondo potrebbero aver trovato da tempo un nuovo, insospettabile, motivo di preoccupazione: la politica dei prezzi delle massaggiatrici giapponesi. La temuta notizia l’ha riferita nelle scorse settimane il signor Akira Ikoma, l’editore della rivista settoriale Ore no Tabi (“Il mio viaggio”), interpellato sul tema dal prestigioso The Economist. Di recente, ha spiegato, il prezzo di un trattamento nel quartiere di Sopurando, uno dei più noti red light districts di Tokyo, è | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 23 |


| finanzaetica |

aumentato improvvisamente trascinando al rialzo le tariffe, in alcuni casi, fino a quota 60mila yen, circa 600 dollari. La notizia passerebbe quasi inosservata se non fosse per un piccolo, clamoroso, particolare: prima del recente adeguamento, i prezzi praticati nel distretto della capitale erano rimasti invariati per 23 anni. A motivare l’ondata inflazionistica sperimentata dai clienti, ha quindi precisato Ikoma, sarebbe stato un unico e decisivo fattore di mercato: la rinnovata vitalità del Nikkei, l’indice di riferimento della Borsa di Tokyo.

Tsunami monetario Il 22 maggio scorso il principale indice azionario nipponico ha raggiunto l’incredibile picco di 15.627 punti, registrando così un aumento del 46% dall’inizio dell’anno, cui ha fatto seguito una correzione negativa e una conseguente manifestazione di volatilità (vedi GRAFICO ). La frenesia degli operatori, insomma, è ormai palese e a conti fatti non potrebbe essere altrimenti. A gennaio il premier Shinzo Abe aveva annunciato una prima operazione di stimolo fiscale da 10.300 miliardi di yen, circa 100 miliardi di dollari. Quattro mesi più tardi, in collaborazione con Haruhiko Kuroda, governatore della Bank of Japan, l’istituto centrale nipponico, lo stesso Abe ha avviato un maxi programma di iniezione di liquidità con l’obiettivo di raddoppiare la base monetaria nazionale da qui al 2014. Se i piani dovessero essere rispettati, il valore di quest’ultima dovrebbe raggiungere nei tempi previsti l’astronomica cifra di 270 trilioni di yen (2,7 trilioni di dollari), pari al 60% del Pil. Il piano è ormai conosciuto come Abenomics (vedi BOX ) e si pone un obiettivo a dir poco ambizioso: frenare la persistente deflazione economica che in Giappone dura ormai da almeno 15 anni. La deflazione, come noto, non altro è che la caduta generale dei prezzi, un fenomeno relativamente insolito, caratterizzato da un pessimo vizio: quello di autoalimentarsi. Il principio è semplice: quando una recessione diviene prolungata, come accaduto in Giappone dopo lo scoppio della bolla azionaria e immobiliare di fi| 24 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

La copertina di The Economist dedicata al Giappone

Dopo la prima maxi-iniezione di liquidità di gennaio scorso il governo ha avviato un programma per raddoppiare la base monetaria nazionale entro il prossimo anno ne anni ’80, i consumatori possono iniziare a prevedere che i prezzi dei beni e servizi tenderanno ad abbassarsi in futuro. Acquistare questi ultimi nell’immediato diviene quindi apparentemente sconveniente e così, invece di spendere, scelgono di risparmiare. La domanda smette di crescere e l’economia si blocca. Ma l’aspetto peggiore è legato al comportamento della valuta. Prezzi in discesa significano, infatti, aumento del potere d’acquisto futuro, ovvero apprezzamento della moneta. E una moneta forte, ovviamente, finisce per penalizzare progressivamente le esportazioni, alimentando la recessione (o nella migliore delle ipotesi la stagnazione) e danneggiando la bilancia commerciale. Il rimedio, dice la teoria, consiste nell’abbassamento dei tassi di interesse, lo strumento standard per la creazione di inflazione. Solo che nel caso

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giapponese l’intervento monetario classico non ha funzionato e i tassi nominali viaggiano da anni a livello zero senza riuscire ad abbassare il valore dello yen. Non stupisce, dunque, che di fronte al fallimento dei metodi abituali, il governo di Tokyo abbia scelto l’extrema ratio di una maxi manovra senza precedenti innescando una pioggia di liquidità di proporzioni apocalittiche. I risultati non si sono fatti attendere. Quando, alla fine del 2012, si sono diffuse le prime voci sulle reali intenzioni della coppia Abe-Kuroda l’economia giapponese ha iniziato la sua inversione di tendenza. Tra gennaio e marzo il Pil è cresciuto dello 0,9% (+3,5% su base annuale) e le esportazioni hanno segnato il primo rialzo da un anno (+3,8%). I numeri, insomma, certificano il successo. Ma le perplessità non mancano.

Il fattore debito Il primo problema si chiama spesa pubblica, vero e proprio tallone d’Achille di Tokyo. Lo scorso anno, ha ricordato l’analista di Morgan Stanley Robert Feldman, citato dall’Economist, il Giappone ha speso 124,5 trilioni di yen, ovvero oltre un quarto del proprio Pil, per garantire pensioni, sanità, assistenza neonatale e sussidi familiari. Al tempo stesso i suoi ricavi sono stati pari a poco meno di 60 trilioni (mila miliardi). E a coprire la differenza, come capita ormai da 20 anni a questa parte, ci ha pensato l’indebitamento. Nel 1990 il debito pubblico giapponese valeva circa il 60% del Pil. Oggi siamo oltre quota 230%, il rapporto più alto del Pianeta (vedi GRAFICO ). A scongiurare il rischio default sono stati essenzialmente due fattori: la presenza pressoché esclusiva di creditori giapponesi (quasi tutti i titoli di Stato sono in mano a banche e risparmiatori nipponici), che impedisce ogni velleità di speculazione internazionale, e la possibilità di offrire rendimenti minimi (garantita dalla deflazione stessa). Solo che adesso le condizioni sono cambiate. E di fronte alle opportunità del rally borsistico gli investitori iniziano a chiedere rendimenti sempre più elevati. A metà maggio, i tassi sui bond decennali di Tokyo hanno


TOKYO: ESPLOSIONE E VOLATILITÀ DELL’INDICE AZIONARIO

[aprile-giugno 2013]

16.000 15.500 15.000 14.500 14.000 13.500 13.000 12.500 12.000

30 mag 13

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11.500 11.000

GIAPPONE: L’IMPENNATA DEL DEBITO PUBBLICO

[1990 - giugno]

255

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1991

L’altro problema è essenzialmente geopolitico. Tra novembre e maggio, lo yen ha perso circa il 30% sul dollaro, ma con le monete dei concorrenti asiatici la svalutazione è stata ancora più evidente. Il deprezzamento dello yen rispetto alla valuta cinese ha spinto al rialzo l’export di Tokyo verso Pechino a spese ovviamente della bilancia commerciale di quest’ultima. A Seul il ministro delle finanze Hyun Oh-seok ha definito la svalutazione della moneta nipponica rispetto al won locale una questione ancor più significativa di un ipotetico lancio di un missile nucleare da parte della Corea del Nord. «Una ripresa giapponese basata sulla svalutazione non può durare e la principale ragione è geopolitica», ha scritto di recente il Financial Times. «Reazioni forti in termini di politica economica da parte dei vicini del Giappone sono pressoché inevitabili». La guerra valutaria, insomma, è appena cominciata. 

1990

Il fattore cino-coreano

LE TRE FRECCE DELL’ABENOMICS Una freccia, si sa, può essere spezzata facilmente. Ma tre frecce strette insieme, è altrettanto noto, resistono in pieno a ogni sollecitazione. Lo sanno bene i fans del compianto regista Akira Kurosawa che ancora ricordano la scena iniziale del film Ran (1985), in cui l’anziano monarca Hidetora tenta (senza successo) di insegnare il valore dell’unità agli eredi del suo regno. Ma lo sa bene, ovviamente, anche il premier nipponico Abe, promotore di una strategia composta di tre elementi capaci di sostenersi a vicenda diventando così imprescindibili gli uni per gli altri. Nel dettaglio: la prima freccia si chiama “stimolo fiscale”, ovvero un aumento di spesa per infrastrutture pari a 10,3 trilioni di yen (circa 100 miliardi di dollari), successivamente compensata dall’innalzamento dell’Iva (dal 5 all’8% nel 2014 e dall’8 al 10% nel 2015) per stabilizzare il rapporto debito/Pil. Il secondo dardo è rappresentato dalla politica monetaria

Una scena del film “Ran” di Akira Kurosawa

Shinzo Abe

espansiva, vale a dire un processo di iniezione di liquidità pari a 270 trilioni di yen entro la fine del 2014 (obiettivo inflazione al 2%). Terza e ultima strategia è lo stimolo alla crescita attraverso incentivi fiscali per gli investimenti esteri e la riforma del mercato del lavoro. Obiettivo: un tasso di crescita nominale del 3% annuo.

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FONTE: TRADING ECONOMICS, WWW.TRADINGECONOMICS.COM; IL SOLE 24 ORE (15/1/2013), WWW.ILSOLE24ORE.COM

toccato quota 0,85%, il livello più alto da nove mesi, con una crescita di quasi tre volte rispetto al minimo di aprile (0,31%). Secondo il ministro dell’Economia, Akira Amari, un rialzo di appena due punti percentuali sui rendimenti dei decennali imporrebbe il pagamento di interessi aggiuntivi pari a 8mila miliardi yen nei prossimi tre anni.

FONTE: YAHOO FINANCE, NIKKEI DATI STORICI, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM

| finanzaetica |


| finanzaetica | quantitative easing |

Liquidità e stagnazione Il vicolo cieco delle banche centrali di Matteo Cavallito

mercati finanziari sono “suggestionati dall’allentamento monetario”. È questo l’avvertimento ufficiale lanciato a giugno dalla solitamente cauta Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) in occasione della sua consueta relazione trimestrale. Dallo scoppio della crisi a oggi le principali banche centrali hanno immesso nel sistema migliaia di miliardi di dollari sotto forma di prestiti a tassi ridotti o di operazioni di acquisto dei titoli di Stato in mano alle banche. La liquidità si è riversata nelle Borse, dove i titoli, svalutati dalla recessione, erano particolarmente appetibili. All’inizio del 2009 Londra e Wall Street avevano toccato il picco negativo. Nella primavera di quest’anno gli indici principali sono tornati oltre i livelli pre crisi (vedi GRAFICO ). La svolta monetaria giapponese, dal canto suo, ha rivitalizzato il Nikkei

Banche in trappola Ad aprile, ha riferito l’Ocse, l’indice dei prezzi al consumo misurato in 34 Paesi membri è cresciuto su base annuale di appena l’1,3%. Il tasso più esiguo dall’ottobre del 2009. In sintesi: la recessione genera

CONFRONTO LONDRA - WALL STREET (2007-2013)

CONFRONTO NIKKEI - DOW JONES (2007-2013)

8.000

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19.000

16.500

7.000

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17.000

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4.000

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8.500 9.000

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02 gen 13

03 gen 12

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Dow Jones 04 gen 10

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Nikkei

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Wall Street 02 gen 09

2.000

02 gen 08

London

02 gen 07

6.500

3.000

02 gen 07

FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM

I

producendo nel corso dell’ultimo semestre rialzi mai visti (vedi GRAFICO ). È interessante notare che ad accompagnare l’ascesa delle Borse è stato, negli ultimi mesi, un ridimensionamento delle prospettive di crescita globale. «C’è un divario crescente tra la crescita dei prezzi degli asset e quella dell’economia reale», ha sostenuto il guru dei mercati Nouriel Roubini ipotizzando per le Borse un limite di crescita di due anni. Le politiche espansive, ha aggiunto, sono «oggi dominanti, ma non potranno prevalere a lungo sui fondamentali dell’economia».

bassi consumi e i consumi ridotti frenano l’inflazione. Le banche centrali sono così chiamate ancora a stimolare la crescita. Ma la liquidità, come si è visto, finisce essenzialmente in Borsa, la cui crescita rischia di generare una bolla. I regolatori sembrano esserne consapevoli, ma sanno anche di aver imboccato ormai una strada senza uscita. «Diversi governatori – ha ricordato il Financial Times – hanno espresso perplessità sull’ottimismo sperimentato nei mercati finanziari dall’inizio dell’anno». In particolare, «sia il presidente della Fed, Ben Bernanke, sia il governatore di Bank of England, Mervin King, hanno parlato pubblicamente del rischio che le loro politiche possano gonfiare bolle speculative sui prezzi degli asset». Ma «al tempo stesso – prosegue il quotidiano della City – un giro di vite prematuro potrebbe far ripiombare l’economia in recessione. È il dilemma dei banchieri centrali, impegnati da un lato a guidare la ripresa e, dall’altro, a evitare il ripetersi della crisi». Auguri. 

4.500

FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM

Gli stimoli monetari finiscono tutti in Borsa. Gli indici salgono, ma il gap con l’economia reale cresce. Creando tutte le condizioni della bolla perfetta


| finanzaetica | guerre monetarie |

Abenomics e speculazione Non è tutto euro quel che luccica di Matteo Cavallito

Il crack dell’oro è il primo segnale della guerra allo yen. Ma la vera vittima potrebbe essere la moneta del Vecchio Continente

OSCILLAZIONE ORO / DECENNALE ITALIANO: APRILE - GIUGNO 2013 1.600

Oro

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I

1.350 1.300

01/04/13

l tracollo del prezzo dell’oro sperimentato nel mese di aprile non sarebbe stato il semplice punto d’arrivo dell’ennesima bolla di mercato, quanto, piuttosto, il calcolato danno collaterale di un’operazione speculativa sull’euro innescata, volente o nolente, dalla stessa Bank of Japan e dalla sua maxi iniezione di liquidità. Lo ha sostenuto Marcello Minenna, docente di Finanza matematica presso l’Università Bocconi, in occasione della presentazione del suo libro “La moneta incompiuta” lo scorso 11 giugno a Roma. Partiamo dal metallo. Nella giornata di lunedì 15 aprile, il prezzo dell’oro cala in un colpo solo dell’8% registrando così il massimo ribasso giornaliero degli ultimi trent’anni. È il punto d’arrivo di una parabola discendente in atto da un paio di settimane con il metallo giallo che, dopo aver perso 100 dollari di valore unitario nei tre mesi precedenti, brucia oltre 200 dollari per oncia nella sola prima metà di aprile. I trader vanno nel panico, ma qualcuno, forse, ha già visto un nesso evidente: il contemporaneo apprezzamento dei titoli di Stato delle periferie europee, ovvero il calo dei loro rendimenti (l’aumento del valore di un’obbligazione corrisponde infatti a un minor premio per il rischio). Alla fine di maggio, il prezzo dell’oncia aurea è calato del 12,75%. Quello del Btp italiano a 10 anni, osservato speciale del-

4.800

3.600

FONTI: BLOOMBERG (HTTP://WWW.BLOOMBERG.COM/QUOTE/GBTPGR10:IND/CHART), WORLD GOLD COUNCIL (HTTP://WWW.GOLD.ORG/DOWNLOAD/VALUE/STATS/STATISTICS/XLS/GOLD_PRICES.XLS), NOSTRE ELABORAZIONI. DATI IN DOLLARI USA PER ONCIA D’ORO, RENDIMENTI % LORDI SUL BTP ITALIANO A 10 ANNI

l’eurocrisi, è aumentato (ovvero ha sperimentato un calo dei rendimenti) del 12,72% (vedi GRAFICO ). Un trend speculare.

Una scommessa sicura «La verità – spiega Marcello Minenna a margine della presentazione – è che i grandi operatori, specialmente le banche americane, hanno puntato forte sul rialzo dell’euro senza agire direttamente sul mercato valutario, ma giocando, indirettamente, sulla curva dei tassi euro/yen attraverso l’acquisto dei titoli governativi. Semplificando: hanno deciso di comprare bonos e btp e, dato che per acquistarli avevano bisogno di liquidità, hanno fatto cassa vendendo oro». Per questo il prezzo del metallo prezioso si è abbassato mentre l’Europa ha sperimentato un calo degli spread. Ma il punto, purtroppo, è che non si tratterebbe necessariamente di una buona notizia. «La politica espansiva giapponese è un terreno di scontro tra banche centrali di tutto il mondo», prosegue Minenna,

«dal momento che queste ultime, ovviamente, puntano a stabilizzare i cambi e difendere le rispettive bilance commerciali». Se il Giappone si impegna a svalutare lo yen per sostenere il proprio export, in altre parole, ci si attende che gli altri istituti centrali prendano le opportune contromisure. Ma il punto è che le probabili future iniziative condotte da Pechino e Seul, dalla Fed e da Bank of England per contrastare l’eccessivo apprezzamento di yuan, won, dollari e sterline nei confronti dello yen non saranno imitate dalla Bce. Che, da statuto, non può agire da prestatore di ultima istanza. «Sappiamo così in anticipo che l’euro si apprezzerà – conclude Minenna –. È una scommessa sicura». Il rischio è duplice. Da un lato, l’Europa potrebbe restare vittima di una guerra valutaria nella quale non può intervenire. Dall’altro, i suoi titoli di Stato potrebbero diventare oggetto di speculazione. Perché il trend oggi è al rialzo ma, in futuro, forse, cambierà di segno. Quando Wall Street deciderà di vendere.  | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 27 |


| finanzaetica | nelle pagine dei giornali |

Banca Etica Conti sotto esame di Elisabetta Tramonto

Da un lato gli elogi dell’Economist , dall’altro le critiche, contenute in un esposto anonimo e pubblicate da alcuni giornali italiani (senza concedere repliche alla banca). Valori entra nel merito delle questioni sollevate, chiedendo risposte direttamente a Banca Etica, al suo presidente Ugo Biggeri anca Etica prende sul serio il suo nome». Si leggeva così sull’Economist a giugno. Per la prima volta il settimanale economico britannico ha dedicato un articolo all’istituto italiano, raccontando la sua “diversità”: come si opponga «alla finanza casinò, ai paradisi fiscali e alla speculazione nelle materie prime»; come non investa in «pornografia, petrolio e armi»; come i manager abbiano uno stipendio che non supera di oltre sei volte la paga più bassa erogata. Il settimanale definisce l’istituto piccolo, ma «tra le migliori banche italiane». Solo un paio di settimane prima, invece, erano stati alcuni giornali economici italiani a dedicare attenzione a Banca Etica, con toni un po’ diversi. In particolare Il Sole 24 Ore ha pubblicato due articoli il 17 e il 18 maggio (il giorno dell’assemblea degli azionisti della banca e il precedente), in cui avanzava una serie di critiche sulla gestione dell’istituto. Critiche estratte da un esposto anonimo («quindi inattendibile», dichiara Banca Etica), inviato alla Banca d’Italia e alla Consob, che il quotidiano economico attribuiva (erroneamente) ad alcuni soci (senza poi dare alla banca possibilità di replica riguardo agli appunti sollevati). Critiche come: «una redditività sempre più bassa»; «il deterioramento progressivo della qualità del credito»; «un disequilibrio tra la durata media degli impieghi (alta: 9 anni) e quella della raccolta (bassa: 2,8 anni)»;

«B

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«partecipazioni e controllate in preoccupanti situazioni finanziarie». Critiche analoghe sono arrivate (ma con toni un po’ meno “aggressivi”) anche da Milano Finanza. Proviamo anche noi a entrare nel merito delle questioni evidenziate, ma chiedendo spiegazioni, punto su punto, al presidente della banca, Ugo Biggeri (appena nominato per il secondo mandato).

Ricavi deboli Partiamo dalla redditività, descritta dal Sole 24 Ore come «bassa e debole». Per Milano Finanza «nel bilancio 2012 su 30,1 milioni di interessi attivi, quasi 9 milioni sono imputabili a investimenti finanziari e differenziali di strumenti di copertura. La redditività di Banca Etica si basa non poco su elementi aleatori di natura finanziaria, che potrebbero venire a mancare nei prossimi esercizi». «Sicuramente Banca Etica,

lo diciamo noi stessi, ha bisogno di portare la redditività a livelli più alti – spiega Ugo Biggeri – ma bisogna anche considerare cos’è successo negli ultimi mesi, anni, intorno a noi. Banche delle nostre dimensioni sono tutte in difficoltà. Banca Etica è solida: ha sofferenze basse e una capitalizzazione buona». Per quanto riguarda invece la struttura dei ricavi il presidente aggiunge: «Credo che nessuna banca oggi generi utili attraverso la sola intermediazione creditizia. È la nostra attività principale, ma non possiamo tenere la liquidità sotto il materasso, dobbiamo generare altri ricavi, per avere utili e concedere più prestiti. Senza considerare che per Banca Etica “attività finanziaria” significa titoli di Stato e attività reali, non speculative». Un’altra critica mossa all’istituto è di aver fatto ricorso ai prestiti della Banca centrale europea. «Lo abbiamo sempre affermato, che vi avremmo fatto ricorso, di per sé non c’è nulla di male. Bisogna vedere cosa si fa con quei soldi. Noi stessi critichiamo chi prende fondi dalla Bce e non li usa per concedere prestiti, ma per investire magari in titoli di Stato. Nel nostro


| finanzaetica |

caso avevamo l’intento di mantenere una buona situazione di liquidità e di crescere sugli impieghi del 14%».

Troppi prestiti e troppo lunghi «Nel 2012 gli impieghi sono cresciuti del 12,05% contro il +8% della raccolta diretta, una dinamica che nel 2011 era stata ancora più accentuata con un +24,14% degli impieghi e un +11,3% della raccolta diretta». Così scriveva Milano Finanza, evidenziando l’eccessivo aumento dei crediti concessi. «È una critica che proprio non capisco. L’obiettivo di una banca è raccogliere denaro per fare prestiti. Le operazioni finanziarie fanno parte dell’attività di un istituto di credito senza però esserne la principale. E bisogna anche considerare che abbiamo finito la fase di start up nel 2012. L’anno scorso, per la prima volta, per ogni euro di raccolta c’è stato un euro di finanziamento accordato. Abbiamo raggiunto un equilibrio nella crescita che naturalmente cambierà nei prossimi anni». Desta preoccupazione anche, per i media italiani, lo sbilanciamento delle scadenze: brevi per la raccolta, lunghe per gli impieghi. «La raccolta di Banca Etica è per lo più a breve, mentre gli impieghi hanno una duration maggiore, trattandosi per lo più di mutui e sovvenzioni». «Chiunque abbia fatto un po’ di tecnica bancaria – replica Biggeri – sa che tipicamente i rispar-

si occupa di microcredito nel Sud del mondo. «Innanzitutto, prendendo atto del piano industriale del consorzio e alla luce delle consuete valutazioni utilizzate nella concessione del credito, abbiamo ridotto l’esposizione, riducendo il rischio. Ma bisogna anche considerare che cosa fa Etimos: microcredito nel Sud del mondo. Anche se a rischio, siamo orgogliosi di questo investimento. Stiamo compiendo scelte per ampliare tale attività». Criticato anche il finanziamento al Comune di Napoli che vanta seri problemi di bilancio. «Sicuramente – precisa il presidente di Banca Etica – se non si finanzia nessuna cooperativa sociale, nessun anticipo di fattura di convenzioni da comuni, nessuna innovazione in campo energetico, non si prendono rischi, ma non si fa neanche la banca. Perché il comune di Napoli? Perché ha enormi bisogni sociali. A chi spetta finanziarli se non Banca Etica? Naturale poi che, una volta che si scopre che il comune ha problemi seri di bilancio, non si fanno più finanziamenti». 

Credito di qualità Un’altra critica avanzata è il “deterioramento della qualità del credito”. «Forse non ci si è accorti – risponde Biggeri – di come stanno andando le cose in Italia. Innanzitutto rimane il dato ottimo sulle sofferenze, che, se confrontate a quelle medie del sistema bancario nazionale, sono molto più basse, sei volte in meno (1,4% contro il 7,20% della media del sistema bancario per le sofferenze lorde). Ma l’economia va peggio, questo è un dato di fatto. E, quindi, le sofferenze sono aumentate per tutti. Fino a qualche anno fa avevamo sofferenze lorde sullo 0,9%, oggi sono all’1,1%. E intanto Banca Etica continua a erogare prestiti. Sarebbe molto peggio se, per ridurre le sofferenze, non prestasse più». Un’altra categoria di critiche riguarda la partecipazione di Banca Etica in alcune società con una situazione economica critica, una fra tutte Etimos, il consorzio che LA QUALITÀ DEL CREDITO MEGLIO DEL SISTEMA BANCARIO

Sofferenze Lorde/Impieghi Sofferenze Nette/Impieghi Netti Crediti Deteriorati /Impieghi

31/12/2010

31/12/2011

Var.

31/12/2012

Var.

Sistema bancario (31/12/2012)

0,9%

0,9%

6%

1,4%

49%

7,2%

0,39%

0,44%

13%

0,43%

-2%

3,63%

3,22%

-11%

4,89%

52%

13,4%

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 29 |

FONTE: BANCA D’ITALIA - RAPPORTO SULLA STABILITÀ FINANZIARIA - N° 5 APRILE 2013

Il Bilancio Sociale di Banca Etica, per la prima volta sul web. Tra i pochi casi al mondo, l’istituto ha reso disponibili i dati di bilancio, interamente navigabili on line in modo accessibile e di facile comprensione.

miatori vorrebbero soldi a vista. Chi li prende in prestito invece chiede tempi lunghi. Si chiama equilibrio finanziario, è un problema di tutti gli istituti di credito. Banca Etica ha uno sbilanciamento che si discosta solo del 10-15% dalla media del sistema bancario. Dipende dalle peculiarità della banca: il terzo settore, con cui l’istituto lavora, ha per sua natura necessità di impieghi a lungo termine».


| finanzaetica | salari e bonus |

Fiba-Cisl propone un tetto alle remunerazioni dei top manager di Andrea Barolini

FONTE: FIBA-CISL

L

RETRIBUZIONE GIORNALIERA DI DIRETTORI E AMMINISTRATORI DELEGATI DELLE BANCHE ITALIANE IN RAPPORTO ALLA MEDIA CONTRATTUALE ABI 2012 Rapporto Remunerazione rispetto a Nome Banca giornaliera media Abi CUCCHIANI Enrico

Intesa Sanpaolo

10.786

108

GHIZZONI Federico

Unicredit

8.211

82

CHIESA Enzo

BPM

8.000

80

MESSINA Carlo

Intesa Sanpaolo

5.907

59

MICCICHÈ Gaetano

Intesa Sanpaolo

5.742

57

| 30 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

importo legata a premi e bonus (che però andrebbero corrisposti «solo in presenza di risultati estremamente positivi ed è correlata all’entità del patrimonio aziendale sia in volume di affari gestiti che in numero di lavoratori dipendenti»). La proposta di legge targata Fiba-Cisl, inoltre, impone un pronunciamento dell’Assemblea generale dei soci sui piani annuali che determinano i bonus, comprensivi di incentivi, stock option e compensi equity. La normativa, dunque, oltre a scongiurare la concessione di remunerazioni eccessive, modificherebbe anche i rapporti all’interno degli istituti di credito, imponendo per legge un controllo “dal basso” da parte dei soci. Una scelta che, d’altra parte, è in linea con lo spirito della stessa regolamentazione attuale di Bankitalia e Consob, nella quale si sottolinea come l’obiettivo debba essere quello di «pervenire – nell’interesse di tutti gli stakeholders – a sistemi di remunerazione, in linea con le strategie e gli obiettivi aziendali di lungo periodo, collegati con i risultati aziendali, opportunamente corretti per tener conto di tutti i rischi, coerenti con i livelli di capitale e di liquidità necessari a fronteggiare le attività intraprese». 

I SUPERMANAGER BANCARI, PER RAGGIUNGERE LO STIPENDIO MEDIO DI UN IMPIEGATO, IMPIEGANO 3 giorni

Amministratore delegato Intesa San Paolo: 3.937.000 € [2012] Amministratore delegato Generali: 3.478.000 € [2012]

4 giorni

Amministratore delegato Unicredit: 2.997.000 € [2012] e 4.093.000 € [2011]

5 giorni

Amministratore delegato Unipol: 2.153.000 € [2012] Amministratore delegato Cattolica Assicurazioni: 2.148.000 € [2012]

8 giorni

Amministratore delegato Banco Popolare: 1.709.000 € [2012] e 2.321.000 € [2011]

9 giorni

Amministratore delegato MPS: 1.596.000 € [2012] e 1.752.000 € [2011] Amministratore delegato UBI Banca: 1.506.000 € [2012] Amministratore delegato Credito Valtellinese: 1.425.000 € [2012]

FONTE: FIBA-CISL

a distanza tra gli stipendi degli impiegati e dei dirigenti delle banche e delle compagnie d’assicurazione italiane è enorme. Per raggiungere il salario di un “normale” dipendente, direttori e amministratori delegati di Intesa Sanpaolo, Generali, Unicredit e Unipol – che percepiscono cifre comprese tra i 2,1 e i 3,9 milioni di euro – impiegano non più di cinque giorni lavorativi all’anno (vedi TABELLA ). I dirigenti hanno, infatti, intascato remunerazioni 42 volte più alte rispetto a quanto previsto in media nei rispettivi contratti (con punte di 123 volte). A denunciarlo è uno studio di FibaCisl, che, per rendere note le cifre e mobilitare il settore, ha lanciato una raccolta di firme. L’obiettivo è presentare una proposta di legge che imponga un tetto massimo alle retribuzioni e ai bonus del “top management” delle società quotate in Borsa. Ciò, spiega la sigla sindacale, «allo scopo di evitare che la finanza, che

ha generato la crisi mondiale, prenda il sopravvento sull’economia reale». «Finora abbiamo ricevuto reazioni decisamente favorevoli da parte dei lavoratori. Sul fronte degli altri sindacati abbiamo registrato l’appoggio pieno della Fabi, mentre non possiamo dire altrettanto per Fisac e Uilca. Quanto ai manager, il dissenso è netto, e basato su argomentazioni francamente incomprensibili. C’è chi ha obiettato che con 600mila euro annui non si troverebbero persone disposte a fare gli amministratori delegati. Altri hanno paventato fughe dei business all’estero: mi domando perché un investitore straniero dovrebbe rinunciare a investire in Italia in ragione dello stipendio dei dirigenti bancari». «Le remunerazioni in misura fissa e i bonus e incentivi dei top manager – si legge nel testo del progetto legislativo – non possono essere così elevati da incoraggiare l’assunzione di rischi eccessivi a danno delle Società di capitali». Per questo il limite massimo ipotizzato per gli alti dirigenti è di 588mila euro all’anno, costituiti da una quota fissa massima di 294 mila euro – in linea con quelle dei pari ruolo nel pubblico impiego – e un’altra dello stesso

RETRIBUZIONI 2012 E 2011

Il sindacato ha lanciato una proposta di legge per allineare stipendi e bonus dei banchieri a quanto percepito dai supermanager pubblici


| globalvision |

Scelte sbagliate

La critica (e autocritica) dell’Fmi di Alberto Berrini

vremmo dovuto rinegoziare il debito della Grecia fin da subito per concederle un po’ di respiro e farla uscire dalla crisi più facilmente». Così ha dichiarato Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), a una radio francese (France Inter) l’8 giugno scorso. In questa frase è ben sintetizzato il contenuto

del Country Report sulla Grecia pubblicato il 6 giugno 2013 dall’Fmi. È la seconda volta che tale organismo mette in discussione le politiche economiche di austerità europee o, quanto meno, le modalità con cui sono state attuate. Si tratta ovviamente anche di un’autocritica, poiché tali politiche sono il frutto di decisioni concordate con la Commissione Ue e la Bce (la cosiddetta “troika”). Un primo errore era stato di valutazione. Ossia si erano notevolmente sottovalutati gli effetti recessivi delle misure di austerità prescritte e dunque abbinate al piano di salvataggio concesso alla Grecia nel 2010. Più precisamente le previsioni avevano sottostimato in modo significativo l’aumento della disoccupazione e la flessione dei consumi e degli investimenti associati al consolidamento fiscale. Nel Report sopra citato è, invece, messa in discussione la decisione di non aver tentato, fin dall’inizio della crisi greca, una ristrutturazione del debito (si intende una procedura che prevede un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito – in questo caso si tratta dei titoli emessi a finanziamento del debito pubblico greco, dunque tassi di interesse e scadenza – vengono modificate per alleggerire l’o-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

«A

L’organismo internazionale ha ammesso gli eccessi delle politiche di austerity che hanno aggravato la crisi nere del debitore). Tale ristrutturazione è stata attuata solo nel maggio 2012, dunque ben due anni dopo il primo “salvataggio” costato 110 miliardi di euro ai contribuenti europei. Tale decisione, voluta all’interno della “troika” soprattutto dalla Commissione europea, era dettata dalla paura di “un effetto contagio”. Ancora oggi, nonostante l’attuale ripensamento, l’Fmi sostiene che il salvagente lanciato nel 2010 ad Atene «ha dato più tempo all’area euro per costruire una cortina di protezione a beneficio di altri Paesi membri vulnerabili, evitando effetti potenziali gravi per l’economia globale».

In realtà dietro quella decisione, ancora una volta, come spesso è avvenuto in molte politiche di risanamento, c’è la scelta di tutelare i creditori. Il ritardo nel default (maggio 2012) ha permesso, infatti, a gran parte dei creditori privati di “scappare”, senza subire perdite. In questo modo “la troika” ha imposto tutto il peso dell’aggiustamento fiscale ai Paesi debitori, con i drammatici effetti sociali di cui siamo stati spettatori e protagonisti in negativo negli ultimi anni. Al contrario la responsabilità del debito dovrebbe essere ripartita in modo paritario tra debitori e creditori. Il debito non è, infatti, stato imposto ai creditori, che piuttosto hanno spesso alimentato e in alcuni casi agevolato l’indebitamento per lucrare sui prestiti. È paradossale oggi ricordare che nel 1944, quando a Bretton Woods si progettava l’istituzione dell’Fmi, Keynes proponeva un meccanismo finanziario internazionale che stabiliva l’onere del risanamento anche ai creditori. Ma allora il peso politico ed economico di questi ultimi era assai minore. Oggi li chiamiamo “mercati finanziari” e spesso la politica è sottomessa alle loro regole. Non a caso sono stati i soggetti economici che hanno provocato la crisi e sono stati i primi a uscirne.  | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 31 |


| numeridellaterra |

Maxi-bolla monetaria

16.000 14.000 12.000 10.000 8.000 6.000

DOW JONES - WALL STREET 2.000 1.800 1.600 1.400 1.200 1.000 800 600 400

ORO

3.000 2.500 2.000 1.500

NASQAD - WALL STREET (US Dollars per Troy Ounce)

45.000 40.000 35.000 30.000 25.000 20.000 14

IPC / CITTÀ DEL MESSICO

12 10

di Matteo Cavallito

8 6

a Fed immette ogni mese 85 miliardi di dollari di liquidità con il terzo programma di quantitative easing. I primi due (2009-12) valevano 2,7 trilioni di dollari, quasi quanto il nuovo programma giapponese (270 trilioni di yen entro il 2014). La Bank of England ha iniettato 375 miliardi di sterline (585 miliardi di dollari). Per capire dove sia finita questa massa di denaro basta guardare gli indici finanziari. Le principali Borse occidentali viaggiano ai livelli pre crisi, quelle degli emergenti fanno anche meglio. Il Nikkei resta indietro, ma negli ultimi mesi ha evidenziato clamorosi rialzi. Oro, gas e petrolio sono lontani dai rispettivi picchi, ma si mantengono su livelli elevati. Gli alimentari sono in prossimità dei due record storici. La ripresa dell’economia reale tuttavia appare lenta e non giustifica l’entusiasmo dei mercati. Il rischio bolla, insomma, appare sempre più concreto. 

4

L

| 32 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

2

GAS / USA (Natural Gas spot price, US$ per Million Metric British Thermal Unit) 80.000 70.000 60.000 50.000 40.000 30.000

IBOVESPA / SÃO PAULO

3.500 3.000 2.500 2.000 1.500 1.000

MERVAL / BUENOS AIRES

Borse nel mondo Indici delle materie prime [dati dal 2007 al 2013]


18 16 14 12 10 8 6 4

20.000 18.000 16.000 14.000 12.000 10.000 8.000

GAS / EUROPA

NIKKEI / TOKYO

FONTI: INDICI DI BORSA: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM; COMMODITIES ENERGETICHE (PETROLIO, GAS): FMI, HTTP://WWW.IMF.ORG/EXTERNAL/NP/RES/COMMOD/INDEX.ASPX; ORO: WORLD GOLD COUNCIL, HTTP://WWW.GOLD.ORG/INVESTMENT/STATISTICS/GOLD_PRICE_CHART - ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

| su e giù di borse e materie prime |

(Natural Gas, Russian Natural Gas border price in Germany, US$ per Million Metric British Thermal Unit)

9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000

DAX / FRANCOFORTE

6.000 5.000 4.000 3.000 2.000

SSE / SHANGAI

7.000 6.000 5.000 4.000 3.000

FTSE 100 / LONDON

160

30.000

140

25.000

120

20.000

100

15.000

80 10.000 60 40

HANG SENG / HONG KONG

20

PETROLIO UK BRENT 160 140 120 100 80

200

60

150

40 20

100

PETROLIO USA WEST TEXAS INTERMEDIATE

FOOD PRICE INDEX | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 33 |



| lostintransaction |

Una bolla annunciata

Facebook e Wall Street: un’amicizia mai condivisa ell’estate del 2013, affermano gli analisti della Cia, la Libia dovrebbe registrare il tasso di crescita demografica annuale più elevato del mondo, +4,85%, superando così la soglia dei 6 milioni di abitanti. Nello stesso periodo, Cina e India, i due Paesi più popolosi del globo, toccheranno quota 1,35 e 1,22 miliardi, evidenziando un’espansione pari rispettivamente allo

di Matteo Cavallito

0,46 e all’1,28%. Nel marzo di quest’anno, riferiscono invece da Menlo Park, California, il numero degli utenti Facebook ha raggiunto quota 1,11 miliardi contro i 900 milioni registrati dodici mesi prima. Vale a dire un tasso di crescita del 23%. Se i trend dovessero mantenersi costanti, la creatura di Zuckerberg si trasformerebbe nello spazio di un anno o poco più nella prima “nazione”, seppur virtuale, del Pianeta. Ad impressionare particolarmente, tuttavia, è soprattutto un altro dato. Nell’agosto del 2012 i contenuti condivisi ogni giorno sulla piattaforma erano 2,45 miliardi. Oggi siamo saliti a 4,75, quasi il doppio. Nate Blecharczyk, uno dei fondatori di Airbnb (vedi pag. 22), sostiene che dieci anni fa la sua società non avrebbe mai potuto esistere perché «prima di Facebook – ha spiegato all’Economist – la gente non era veramente inserita nella condivisione». Come a dire che, senza quella massa infinita di pensieri, parole e immagini che attraversa ogni giorno il social network, non sarebbe possibile fondare le stesse basi culturali della sharing economy. Ma tra potenzialità, valore immateriale e valore effettivo possono esserci in definitiva differenze enormi. E il mercato, che ama concentrarsi sugli indicatori oggettivi, se ne accorge spesso.

dopo una lenta risalita, siamo sotto i 24 dollari, quasi il 40% in meno rispetto all’esordio. Nonostante la congiuntura favorevole (nello stesso periodo il Nasdaq è salito del 23%) l’avventura borsistica del social network è stata dunque un mezzo disastro. I critici alla Ernst Malmsten o alla Michael Birch, reduci della Dotcom bubble poco inclini all’entusiasmo di fronte al binomio Facebook/Wall Street, hanno visto confermate molte delle loro perplessità. Le stesse di cui aveva riferito all’epoca Valori dedicando la sua copertina (maggio 2012) alle numerose zone d’ombra che circondavano il grande evento, ovvero quella “offerta pubblica iniziale del decennio” (Ipo) trasformatasi nel solito affare per pochi intimi. Quote azionarie alla mano, Mark Zuckerberg ha ottenuto dall’Ipo quasi 25 miliardi di dollari, il cofondatore Dustin Moscowitz più di 6 e mezzo, l’azionista di minoranza (0,19% delle quote) ed ex guru di Netscape Marc Andreessen 166 milioni. Morgan Stanley, principale collocatore, ha intascato una commissione dell’1,1%, ma nelle prime due settimane di contrattazioni ha fatto fuori oltre un terzo dei titoli acquistati all’esordio. Gli investitori retail, nel frattempo, hanno “condiviso” soltanto una cosa: le perdite. 

N

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 99. Maggio 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

CHRISTIAN SINIBALDI / EYEVINE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Social business Amicizie a peso d’oro. Facebook in Borsa varrà 100 volte i suoi profitti Finanza > Gli scandali dei fornitori cinesi non scalfiscono Apple. La corsa continua Economia solidale > La Tav come un bancomat. E nella montagna spunta l’uranio | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > La partita delle elezioni Usa si gioca sul campo della finanza

L’avventura in Borsa della creatura di Zuckerberg è stata disastrosa. Valori lo aveva previsto un anno fa, alla vigilia della quotazione Il 18 maggio 2012, giorno del suo debutto in Borsa, Facebook aveva un valore stimato pari a 103 miliardi di dollari, circa 100 volte il livello dei suoi profitti netti e 27 volte quello dei suoi ricavi. Google, per intenderci, era valutata all’epoca “appena” il doppio eppure fatturava già 10 volte tanto. Nel primo giorno di contrattazione, gli operatori movimentarono 573 milioni di azioni (un volume mai più registrato) e il titolo, inizialmente offerto a 42, chiuse poco sopra i 38 dollari. Tre mesi e mezzo più tardi Facebook aveva toccato il minimo storico di 17 dollari. A metà giugno 2013,

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 35 |


BARCEX / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

economiasolidale

Ad

co

Bankia, la speculazione senza fine > 39 Il cantiere della crisi > 40 Le mani dei Big sull’eolico italiano > 44 | 36 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |


| immobiliare |

Una manifestazione contro gli sfratti a Madrid, lo scorso 16 febbraio.

iós sfratti!

Stop temporaneo ai pignoramenti e usufrutto (a pagamento) per tre anni. Dall’Andalusia via libera a un provvedimento storico per un Paese tuttora in preda agli effetti della bolla immobiliare

Così l’Andalusia mbatte la crisi «S immobiliare di Matteo Cavallito

ono felice, sono soddisfatta, ma soprattutto sono piena di speranza». Maria del Carmen Andujar, raccontano le cronache, non riesce a smettere di sorridere. In tutta la sua vita, con ogni probabilità, non aveva mai parlato con i giornalisti. Ma ormai, di questi tempi, inizia a farci l’abitudine. Nel 2004, in un’epoca di forte espansione economica, lei e suo marito avevano contratto un mutuo da 78mila euro per acquistare un appartamento da 86 metri quadri in calle Alonso de Ercilla presso Huelva, Andalusia, una cittadina da 150mila anime nel Sud Ovest della Spagna. Nove anni più tardi la crisi sembrava aver distrutto il sogno. Suo marito, cuoco di professione, ha perso il lavoro, al pari di uno spagnolo su quattro. Maria lavora come “donna delle pulizie” e porta a casa un salario mensile di 400 euro che, sommato al sostentamento di un assegno familiare più o meno equivalente, serve a mantenere ben quattro figli. L’impossibilità di versare i 500 euro mensili delle rate del mutuo richieste dalla finanziaria Credifimo aveva dato origine al provvedimento di sfratto che avrebbe dovuto diventare esecutivo lo scorso 14 maggio. E invece, all’ultimo momento, la | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 37 |


BARCEX / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

| economiasolidale |

famiglia Andujar ha ricevuto la notizia più bella: il provvedimento è stato annullato e da qui ai prossimi tre anni i sei componenti potranno continuare a occupare l’appartamento.

Emergenza locale…

BARCEX / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

L’attenzione dei media spagnoli (tra cui La Voz Digital e Inversión & Finanzas, cui dobbiamo queste informazioni) è più che comprensibile. Maria e la sua famiglia sono, infatti, i primi beneficiari in ordine di tempo dello storico provvedimento assunto a maggio dalla giunta regionale dell’Andalusia che concede al governo lo-

cale il potere di esproprio temporaneo delle abitazioni soggette a sfratto e la concessione per tre anni del loro usufrutto ai proprietari che hanno subito il decreto di sfratto di fronte all’impossibilità di continuare a pagare il mutuo. Per accedere al programma le famiglie dovranno dimostrare di avere un reddito complessivo inferiore a una soglia minima. La possibilità di restare nelle proprie case sarà garantita per un massimo di tre anni durante i quali gli inquilini dovranno versare il 25% dei loro redditi al governo andaluso. Il piano prevede inoltre la creazione di un registro delle abitazioni sfitte in mano a banche e società private con la conseguente introduzione di un sistema di incentivi e sanzioni allo scopo di favorire l’ingresso degli appartamenti sul mercato degli affitti non diversamente da quanto annunciato dal governo della Catalogna. L’amministrazione regionale, che intende promuovere il progetto di legge a livello nazionale (l’unico provvedimen-

In alto: la manifestazione del 16 febbraio a Madrid. A sinistra: L’ingresso del Banco di Spagna “decorato” da simboliche chiavi di casa.

to di questo genere per il momento è stato annunciato dal governo locale delle isole Canarie), stima che il numero di appartamenti vuoti in Andalusia oscilli tra le 700mila e il milione di unità. Banche e società immobiliari ne controllerebbero al momento fino a 500mila.

…e nazionale Numeri impressionanti che si accompagnano alle altre cifre dell’emergenza. Secondo l’assessore allo Sviluppo e alle Abitazioni Elena Cortés Jiménez, ogni giorno in Andalusia si eseguirebbero 45 sfratti, un ritmo che, dal 2007 ad oggi, ha portato il numero complessivo attorno a quota 86mila. Nel 2012, secondo i dati diffusi dalla Banca di Spagna a marzo, la capitale Madrid ha registrato in media uno sfratto ogni quarto d’ora per un totale di 40mila pignoramenti. Tra il 2008 e il 2012, gli sfratti per morosità hanno interessato 400mila famiglie spagnole. La rabbia, manco a dirlo, si concentra sulle banche. Protagonisti dei mutui “facili” e responsabili del rigonfiamento della bolla grazie alla loro intensa attività di cartolarizzazione (vedi Valori n. 110, giugno 2013), gli istituti di credito sono oggi attivi nell’operazione di recupero degli immobili.

IL DOCUMENTO IN RETE Decreto-Ley 6/2013, de 9 de abril, de medidas para asegurar el cumplimiento de la Función Social de la Vivienda http://ep00.epimg.net/descargables/2013/04/11/8b2ed3747caf5b93f9d5a1590f3a54a4.pdf

| 38 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |


IL COLLASSO DI BANKIA ALLA BORSA DI MADRID 350.000.000

0 1.398.800 1.601.700 759.400 792.300 424.000 446.300 378.000 603.500 501.500 613.400 703.300 553.400 3.949.500 2.166.900 4.641.500 50.984.900 38.854.600 35.025.100 297.198.600 158.139.600 107.666.900 322.835.700 213.108.000 102.302.100 55.255.600 38.576.200 39.156.500

300.000.000

Volumi scambiati [dati a sinistra] La quotazione del titolo in Borsa [dati a destra]

6,50 €

7 6

4,65 €

200.000.000 150.000.000 100.000.000 50.000.000 0

Nella classifica stilata lo scorso anno dall’associazione Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Piattaforma delle vittime dell’ipoteca, PAH), il 12% degli sfratti sarebbe stato ordinato da Bbva, contro il 10% di Banco Santander e l’8% di Caixa Bank. In testa alla classifica, stilata su un campione di seimila ordini di esecuzione, svetterebbe con il 16% del totale la contestatissima Bankia, l’istituto simbolo del maxi piano di salvataggio bancario (cui la Bce contribuisce a livello nazionale con un esborso da 100 miliardi di euro). Nata dalla fusione di sette istituti particolarmente esposti sul fronte dei titoli tossici, Bankia si è quotata in Borsa nel 2011 con l’obiettivo di reperire finanziamenti sul mercato. Il 23 maggio scorso, il suo titolo ha perso in una sola seduta il 50% del valore in circostanze ancora tutte da chiarire (vedi BOX ). Ma, per quanto oggetto di critiche a non finire, le banche scontano comunque i loro problemi. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, il prezzo medio delle abitazioni spagnole è calato del 30% dal 2007 a oggi, costringendo le banche a disfarsi dei loro asset immobiliari a prezzi di saldo (fino al 50% del prezzo originale secondo l’analisi del quotidiano economico francese Les Echos). Un vero affare per gli acquirenti stranieri. L’11,5% degli immobili svenduti dalle banche sarebbe attualmente in mano ai soli investitori russi. 

3,60 €

01 mag 13 02 mag 13 03 mag 13 06 mag 13 07 mag 13 08 mag 13 09 mag 13 10 mag 13 13 mag 13 14 mag 13 15 mag 13 16 mag 13 17 mag 13 20 mag 13 21 mag 13 22 mag 13 23 mag 13 24 mag 13 27 mag 13 28 mag 13 29 mag 13 30 mag 13 31 mag 13 03 giu 13 04 giu 13 05 giu 13 06 giu 13 07 giu 13

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BANKIA, LA SPECULAZIONE SENZA FINE La finanza speculativa ha dimostrato di non avere scrupoli, mettendo in ginocchio economie e popolazioni intere, incurante delle conseguenze sociali dei propri comportamenti. Partendo dall’esperienza nefasta degli ultimi anni, perciò, non può stupire più di tanto ciò che è accaduto recentemente all’istituto di credito spagnolo Bankia. L’autorità di controllo sulla Borsa di Madrid, la CNMV, ha deciso di aprire un’inchiesta sulla seduta dello scorso 23 maggio, durante la quale il titolo dell’istituto bancario ha perso oltre il 50%. Un crollo anomalo non soltanto per la sua ampiezza, ma anche per la modalità con la quale si è manifestato. Che valga la pena di far luce sull’accaduto è risultato evidente infatti anche solo osservando i giganteschi volumi di scambio: qualcosa come 49,39 milioni di pezzi, a fronte di un capitale di soli 19,93 milioni. Un crollo arrivato inoltre in un momento particolarmente delicato, dal momento che la banca si apprestava a lanciare due aumenti di capitale per un totale di 15,54 miliardi di euro. Sembra chiara dunque l’operazione speculativa al ribasso sulla banca. Ma guardando agli ultimi anni si può parlare di un vero e proprio accanimento, visto che Bankia è nata relativamente di recente dall’unione di sette casse di risparmio fortemente esposte nei confronti di titoli tossici legati al settore immobiliare. Una fusione dettata dal perverso intreccio fatto di crisi, trame speculative, pressione sul settore bancario e comportamenti scellerati dei big della finanza. Successivamente, la situazione – nonostante l’unione delle sette cajas – è progressivamente peggiorata, costringendo il governo di Madrid ad annunciare (nel giugno del 2012) un piano di salvataggio straordinario, che ha portato alla nazionalizzazione dell’istituto. A pagare le conseguenze di tutto ciò, come di consueto, sono stati soprattutto i piccoli risparmiatori. In particolare 300mila persone che avevano investito in titoli preferenziali di Caja Madrid (una delle casse diventate poi Bankia). In occasione del salvataggio della banca, infatti, il loro valore è stato svalutato drasticamente, e in un anno e mezzo il prezzo unitario di introduzione in Borsa (3,75 euro) ha perso l’80%. Anche per questo l’istituto è al centro di inchieste giudiziarie da parte dei magistrati spagnoli, che indagano proprio in merito alla quotazione del luglio del 2011: si sospettano attività illecite da parte di ben 33 responsabili della banca. A.B.

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 39 |

FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM/Q?S=BKIA.MC

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| economiasolidale | edilizia |

Il cantiere della crisi di Paola Baiocchi

L’edilizia deve compiere una grande trasformazione passando dalla quantità alla qualità. I materiali innovativi esistono e uniscono semplicità d’uso ad alte prestazioni. Mancano, invece, regole certe, l’unificazione delle certificazioni, gli stimoli a “fare sistema” i dove viene che comunemente si dice che “l’Italia affina i cervelli?”, si chiedeva nei Dialoghi historici del 1665 Gregorio Leti [...]. La domanda contiene in sé la risposta: a quella data si era già diffusa tra gli europei più colti l’idea che la mescolanza di bellezze naturali e d’arte offerta dall’Italia non abbia pari; perciò nessuna educazione del cuore e della mente era completa se non comprendeva anche il Grand Tour, specialmente in FONTE: L’INDUSTRIA IMMOBILIARE ITALIANA 2013, FEDERIMMOBILIARE

«D

LO STOCK EDILIZIO ITALIANO Nel nostro Paese le unità immobiliari censite al Catasto sono 59,1 milioni: una dimensione ingente, costituita per la massima parte da abitazioni (56%) e dalle loro pertinenze (36% tra cantine, locali uso deposito, box e posti auto). Gli immobili rappresentano inoltre la principale componente della ricchezza familiare: secondo Bankitalia la ricchezza in abitazioni è pari a circa 4.800 milioni di euro, ossia 200 mila euro in media per famiglia. Una ricchezza che rischia tuttavia di perdere valore nel tempo: la maggior parte del patrimonio è stato realizzato infatti negli anni della ricostruzione e poi del boom edilizio, con disegni urbanistici poveri e caratteristiche architettoniche e costruttive di scarsa qualità. Un patrimonio vecchio che spreca energia. In particolare sono 10 milioni le abitazioni realizzate tra il 1946 e il 1971: il 36,8% del totale, che arriva a oltre il 50% nelle principali città. La quota di edifici con più di 40 anni, soglia temporale entro la quale si rendono indispensabili interventi di manutenzione, sta crescendo progressivamente. Il 65% degli edifici, inoltre, è stato realizzato prima del 1976, data che ha visto l’entrata in vigore dei primi provvedimenti sull’efficienza energetica. Per questo il patrimonio edilizio italiano risulta particolarmente “energivoro”: basti pensare che nel 2009 oltre il 35% dell’energia impiegata in Italia è stata consumata dagli edifici (riscaldamento, luce, acqua calda, ecc.), un volume equivalente a 46,9 milioni di tonnellate di petrolio. Ma non solo: oggi un’abitazione con trent’anni di età consuma in media 180-200 Kwh/mq/anno mentre un edificio nuovo realizzato in classe C (che oggi è lo standard minimo nelle nuove costruzioni) consuma in media tra 30 e 50 Kwh/mq/anno.

| 40 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

Italia». Il brano riportato è tratto da Paesaggio, Costituzione, cemento di Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, impegnato nella difesa del paesaggio italiano dal degrado che lo sta devastando e che, per l’autore, è la rappresentazione del declino complessivo della nostra società, determinato dal cambiamento in senso antidemocratico della Costituzione. Di quella spettacolare bellezza – che faceva dire nel 1776 al letterato britannico Samuel Johnson: «Chi non è stato in Italia è sempre consapevole della propria inferiorità: non ha visto quello che tutti devono vedere» – resta un patrimonio storico-artistico sterminato da conservare e valorizzare amorevolmente, perché parte della nostra identità e della nostra ricchezza, considerando anche che la parte conosciuta della nostra “eredità storica” emerge in piccolissima parte – come la punta di un iceberg – mentre restano sommersi “giacimenti” culturali immensi, quasi sempre considerati un peso rispetto all’avanzata della cementificazione e alle esigenze effimere della produzione capitalista.

Gli Etruschi in camper A titolo di esempio ricordiamo che, per non bloccare l’allargamento della fabbrica di camper Laika, a San Casciano Val di Pesa (Fi) si sono trapiantati un po’ più in là dei reperti di epoca etrusco-romana («spostati di un centinaio di metri e ricollocati nella posizione originaria», ha scritto Il Sole 24 Ore, senza fare dell’umorismo. Mentre gli archeologi hanno etichettato più incisivamente l’operazione come “archeopatacca”).


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Accanto a quanto abbiamo di antico e di pregiato, c’è un costruito “vecchio” che ha urgente bisogno di essere riqualificato dal punto di vista energetico, antisismico e, dove possibile, anche estetico. Nei casi in cui, invece, non fosse possibile nessun tipo di trasformazione, si dovrebbe trovare il coraggio di abbattere, investendo in progetti di vera utilità pubblica. Il 60% del residenziale nazionale è stato costruito tra il 1946 e il 1981, congiungendo in uno skyline continuo di gru le necessità impellenti della ricostruzione del dopoguerra, al boom economico italiano, che ha segnato la fortuna dei “palazzinari” e l’esplosione delle periferie (vedi BOX “Lo stock edilizio italiano”).

Qualità contro quantità Il boom ora è fermo e la crisi nell’edilizia è prepotente: l’Ires, istituto di ricerca della Cgil, nello studio L’innovazione nelle costruzioni come driver di trasformazione del lavoro, del cantiere e della contrattazione (maggio 2012) riporta che dal 2008 al 2012 il settore delle costruzioni ha visto una riduzione degli investimenti di oltre 24 punti percentuali, tornando ai livelli di 15 anni fa. Lo stesso rapporto stima in quasi 400mila i posti persi a partire dal 2008. Mentre sottolinea che resiste e cresce chi fa innovazione spostando più risorse sulla fase della progettazione che rende più brevi, sicuri ed economici i cantieri. Una riqualificazione necessaria in un settore costituito per la maggior parte di piccolissime imprese, con tanto lavoro nero e poca specializzazione, dove le morti bianche restano all’ordine del giorno. Il costruito invenduto nel 2012 è di 120 mila appartamenti, secondo l’Indagine conoscitiva condotta dall’VIII Commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati. Per la maggior parte complessi costruiti nelle fasce più periferiche delle grandi città, dove nessuno vuole andare perché sono zone senza urbanizzazioni, né servizi. Quartieri edificati nel deserto che consumano campagna, restituendo scarsa qualità della vita. La qualità nelle costruzioni è diventata, a questo punto, la chiave di volta per uscire da questa crisi di sovrapproduzione. Federcostruzioni, la più grande tra le

ECO-BONUS AL 65% ED EDIFICI A ENERGIA “QUASI ZERO”. LE NOVITÀ DEL DECRETO LEGGE DEL 31 MAGGIO Il Consiglio dei ministri ha approvato lo scorso 31 maggio un provvedimento che recepisce la direttiva 2010/31 dell’Unione europea, che mira a favorire la riqualificazione e l’efficienza energetica del patrimonio immobiliare italiano. Le finalità del decreto legge sono di promuovere il miglioramento della prestazione energetica degli edifici; favorire lo sviluppo, la valorizzazione e l’integrazione delle fonti rinnovabili negli edifici; sostenere la diversificazione energetica; promuovere la competitività dell’industria nazionale attraverso lo sviluppo tecnologico; conseguire gli obiettivi nazionali in materia energetica e ambientale. Per il cittadino nell’immediato vuol dire che l’attuale regime di detrazioni fiscali del 55%, scaduto il 30 giugno, si innalza al 65% e si rinnova a partire dal 1° luglio 2013 fino al 31 dicembre 2013, oppure fino al 31 dicembre 2014 in caso di spese sostenute per le ristrutturazioni importanti dell’intero edificio. La detrazione dell’imposta lorda pari al 65%, verrà ripartita in 10 quote annuali di pari importo. Un’altra novità del decreto è la definizione di “edifici a energia quasi zero”, per i quali si stabilisce un Piano nazionale con l’obiettivo intermedio del 2015 per il miglioramento della prestazione energetica degli edifici di nuova costruzione. Mentre gli edifici di nuova costruzione occupati dalle Amministrazioni pubbliche e di loro proprietà dovranno rispettare gli stessi criteri a partire dal 31 dicembre 2018. Entro il 31 dicembre 2020, invece, tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a “energia quasi zero”. Pa.Bai.

Dal 2008 al 2012 il settore delle costruzioni ha subito un calo degli investimenti del 24%: ai livelli di 15 anni fa federazioni confindustriali, che riunisce tutte le associazioni della filiera e da sola rappresenta il 10% del Pil italiano, chiede regole certe, un piano nazionale industriale delle costruzioni e l’unificazione delle procedure di certificazione, per far ripartire il settore. «La competizione fino a poco tempo fa, soprattutto nelle opere pubbliche, che sono molto rappresentative sia per i volumi percentuali sia come indirizzo, è stata giocata sui ribassi. Questo meccanismo non premia la qualità e non spinge gli imprenditori a puntare sull’innovazione», spiega Gian Marco Revel, curatore del Primo rapporto sullo stato dell’innovazione nel settore delle costruzioni, pubblicato da Federcostruzioni nel 2011, e docente all’Università Politecnica delle Marche. «Sul fronte degli appalti c’è moltissimo da fare – riprende Revel – per superare la logica gestione clientelare, rimettendo al centro questioni come l’onestà. La Pubblica amministrazione sta

prendendo coscienza di questo, sulla spinta di sollecitazioni che arrivano in molta parte dall’Unione europea. Si sta passando a una gestione complessiva dell’edificio, con contratti che ne garantiscono le prestazioni, la sua gestione e il suo mantenimento per un certo numeri di anni. Questo approccio – conclude Revel – può permettere di arrivare a “fare sistema”». «Il decreto legge del 31 maggio, che innalza lo sgravio fiscale al 65% (vedi BOX ), con l’estensione dell’agevolazione ai condomini fino al 30 giugno 2014 e la previsione di standard energetici che impongono interventi più strutturali, sono tutti aspetti positivi, ma si tratta solo di un primo passo», secondo l’Ance, l’Associazione nazionale costruttori edili, che sottolinea come «per ottenere effetti solidi su crescita e occupazione sarebbe importante stabilizzare nel tempo questi incentivi almeno per gli interventi più strutturali, che richiedono costi più alti e tempi lunghi. Il governo ha annunciato la volontà di stabilizzarne a fine anno almeno una parte, e questo ci fa ben sperare, ma per rilanciare un settore ormai allo stremo come quello edile è necessario più coraggio sul fronte delle coperture».  | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 41 |


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Costruire sostenibile è possibile

a cura di Paola Baiocchi

CASACLIMA R: RISANARE CON QUALITÀ

LAMIOT / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

CasaClima è una modalità di certificazione energetica degli edifici, nata nel 2002 da un’idea di Norbert Lantschner, dirigente del dipartimento di Urbanistica della Provincia di Bolzano. L’obiettivo di costruire case che sommino bellezza, solidità e risparmio energetico è stato codificato in una certificazione molto chiara e con modalità burocratiche da seguire tanto semplici quanto rigorose. Alle case costruite con questi standard, l’Agenzia CasaClima, nata nel maggio 2006 e oggi al 100% di proprietà della Provincia autonoma di Bolzano, assegna una classe di consumo energetico, con un’etichetta che ricorda quella per i consumi degli elettrodomestici. La novità di quest’anno è la certificazione CasaClima R – dove R sta per risanamento – e rappresenta un protocollo più flessibile rispetto a quello per il nuovo, ma che in grado di rispondere all’esigenza di rispetto della qualità architettonica del manufatto, ma migliorandone il comfort indoor e garantendo l’elevata qualità delle opere realizzate. Il protocollo CasaClima R è stato pensato per la certificazione di interi edifici e anche di singole unità abitative, per chi vuole riqualificare la propria unità immobiliare senza poter intervenire sull’intero involucro dell’edificio per gli ostacoli posti dagli altri condomini. Novità rispetto agli altri protocolli CasaClima è l’introduzione dell’obbligatorietà di un Consulente energetico CasaClima come referente per la pratica, nel caso

di Lucia Corti ed Elena Rigano CasaClima R. Edifici storici ad alta efficienza energetica

di richiesta di certificazione CasaClima R per appartamenti. CasaClima R avrà un banco di prova importante nella zona Sud-Ovest del Comune di Bolzano, dove verranno Overview editore, 2013 risanati otto isolati, circa 36.500 mq di edifici pubblici, grazie anche a un contributo di 8 milioni di euro della Commissione europea. Gli edifici avranno infissi di ultima generazione per minimizzare le dispersioni termiche, impianti fotovoltaici integrati in facciata per la produzione di energia elettrica e saranno teleriscaldati tramite una rete intelligente che regolerà il carico di energia da erogare a seconda delle esigenze. Nel quartiere, inoltre, verranno installati sensori per il rilevamento della qualità dell’aria e isole di ricarica per le auto elettriche. www.agenziacasaclima.it

SVILUPPO SOCIALE E RISPETTO AMBIENTALE: IL QUARTIERE EVA-LANXMEER IN OLANDA

L’Olanda è un’antesignana nella bioarchitettura e nella riqualificazione integrata di aree cittadine, in Europa. Ci sono progetti, poi, considerati molto avanzati anche rispetto agli standard olandesi del costruire sostenibile: come il quartiere EVA-Lanxmeer realizzato tra il 1994 e il 2007, nella zona Sud-Ovest di Culemborg, cittadina olandese di 27mila abitanti. La progettazione del lotto che occupa 24 ettari è stata fin dall’inizio condivisa con gli abitanti che hanno potuto intervenire durante tutto il percorso progettuale delle case, aggregate a corte. Il percorso partecipativo adottato è diventato

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il punto di riferimento in tutto il mondo di pianificazione urbanistica sostenibile, coniugata con sviluppo sociale. I 250 edifici di EVA-Lanxmeer sono costruiti utilizzando materiali ecologici e, grazie a tecniche costruttive a risparmio energetico e pannelli fotovoltaici, producono tutti più energia di quanta ne consumano. Il quartiere integra diverse funzioni: abitazioni, uffici, scuole, una fattoria urbana che assicura cibo biologico, una centrale a biogas, un centro informazioni, un centro benessere, bar, ristoranti e un albergo. È stata dedicata un’attenzione particolare al ciclo dell’acqua, perché il quartiere sorge su un terreno agricolo che circonda un bacino di acqua potabile, e normalmente non viene permesso di costruire attorno a tali zone. Le acque grigie delle vie trafficate davanti ai palazzi amministrativi e l’acqua piovana vengono incanalate e purificate in ampi bacini di raccolta. L’acqua piovana è utilizzata per i Wc e le lavatrici: questi reflui, assieme a quelli delle cucine, sono raccolti in un altro sistema di fognatura; i liquami sono trasformati in energia nella centrale a biogas. www.eva-lanxmeer.nl


HENRY MÜHLPFORDT / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

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AD AMBURGO PASSATO E FUTURO SI GUARDANO SULL’ELBA La città sull’Elba, importante porto fluviale completamente distrutto durante la seconda guerra mondiale, sta completando la trasformazione urbana più importante d’Europa all’insegna dell’innovazione. Un nuovo quartiere sta sorgendo ora nell’area di Hafen, tra il centro storico, il quartiere di Speicherstadt e il fiume Elba. Il progetto di Hafencity è articolato in 13 quartieri, alcuni iniziati nel 2007 e già ultimati, con lavori che si prevede dureranno fino al 2020/2025, aumentando di 10 chilometri il water front sull’Elba e del 40% i volumi della città. La diversità è il cardine del progetto, che prevede abitazioni, scuole, uffici, negozi (non centri commerciali), spazi per la cultura – la sede della nuova Filarmonica – tutti di un’altezza contenuta tra i sette e gli otto piani, come la parte più antica di Amburgo, con ampie zone verdi e ricreative che serviranno tutta la città e interesseranno anche il turismo. Si presume che il solo Überseequartier attirerà 10 milioni di visitatori l’anno dalla Germania e dall’estero. Per evitare lo spopolamento tipico delle aree solo commerciali o destinate solo al terziario, Hafencity sarà così ripartita: 52% sarà servizi, il 30% residenziale, 10% aree per il tempo libero, 4% per le imprese, 4% per commercio e ristorazione.

Tutti gli edifici hanno alti standard di ecosostenibilità, garantita al 90%, tanto che è stato istituito un Ecolabel. La circolazione all’interno di Hafencity è pensata per pedoni e ciclisti; mentre è utilizzato il teleriscaldamento che permette risparmi di scala. Il punto debole del progetto è ora la centrale per il teleriscaldamento alimentata a carbone, ma che si prevede di integrare, a breve, con il calore di scarto delle industrie, con fonti geotermiche e solari. www.hafencity.com/en/home.html

EDILIZIA SOCIALE IN LEGNO IN TOSCANA

HTTP://WWW.GONEWS.IT

Le costruzioni in legno stanno avendo successo anche in Italia perché dalla loro hanno una serie di pregi: riescono a unire caratteristiche antisismiche con quelle del risparmio, oltre ad essere edificabili più rapidamente, contenendo quindi il loro costo finale. Caratteristiche ancora più importanti in un settore come quello dell’edilizia sociale, dove si devono dare risposte in tempi rapidi a esigenze abitative e, allo stesso tempo, fare i conti con casse sempre più esangui. È stato così che

a Montaione, un piccolo Comune in provincia di Firenze, è stato costruito il primo condominio della Toscana a canone sociale, in legno e in classe energetica CasaClima A+. I dieci appartamenti sono stati assegnati e le prime famiglie sono entrate a giugno nell’edificio realizzato da Publicasa SpA, il gestore dell’edilizia sociale del Circondario empolese-Valdelsa, con i Comuni di Catelfiorentino e Montaione, con il contributo finanziario della Regione Toscana. Il condominio è stato realizzato in poco più di anno e darà una risposta all’esigenza di una fascia di soggetti che non ha redditi così bassi per entrare nelle graduatorie per le case popolari. Ma nemmeno redditi sufficienti per gli affitti a canone libero. Con le case di Montaione non si taglia solo il canone, ma anche le spese di gestione, grazie alla combinazione di un edificio ben coibentato per contenere il dispendio energetico, con la generazione di elettricità grazie all’impianto fotovoltaico sul tetto.

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| economiasolidale | energie rinnovabili |

Il vento all’asta Le mani dei Big sull’eolico italiano di Emanuele Isonio e Mauro Meggiolaro

A sei mesi dal loro avvio e dopo due tentativi, il nuovo meccanismo di incentivazione divide sempre più favorevoli e contrari. Due le certezze: i criteri d’accesso favoriscono i grandi gruppi industriali. E nei prossimi anni la potenza installata tornerà ai livelli di un decennio fa grafici di crescita del settore mostrano una curva più ripida di molte mitiche salite del Giro d’Italia. Un’immagine che fa apparire folli le preoccupazioni degli operatori dell’eolico in Italia. Eppure anche molti analisti indipendenti lanciano l’allarme: nei prossimi anni le nuove installazioni torneranno ai livelli di dieci anni fa.

I

Sul banco degli imputati, le aste al ribasso, il nuovo meccanismo di incentivazione per gli impianti sopra i 5 MW (partito nel 2012 in sostituzione dei certificati verdi), che rischia di far felici solo i grandi gruppi. E il settore, eccezion fatta per il minieolico, potrebbe ben presto essere concentrato in poche mani.

Troppi ostacoli per partecipare Quando era stato approvato nel 2011 (governo Berlusconi, ministro Romani), il decreto legislativo aveva già sollevato dubbi. Sia tra i piccoli e medi produttori, sia tra le forze politiche: «Ricordo perfettamente che in commissione Ambiente tutti i membri, compresi quelli Pdl, si sono di-

Eolico offshore: in Italia è ancora un miraggio A gennaio, una sola offerta da 30 MW sui 650 disponibili. Probabile un nuovo flop nella seconda asta. Alti costi e fondali inadatti rendono antieconomici gli investimenti All’asta per l’eolico offshore dello scorso dicembre erano in palio 650 MW di potenza incentivabile. Si è presentata solo la Belenergia Srl di Taranto (che è controllata da quattro investitori francesi) con un progetto per 30 MW. All’asta del

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10 giugno 2013, secondo gli operatori del settore, è molto probabile che non si sia presentato nessuno. Troppi gli ostacoli burocratici e troppo alti i costi per realizzare impianti eolici con le pale piantate nel mare in Italia. «In Italia le condizioni per l’eolico offshore sono proibitive», spiega Leonardo Perini, managing director di WPD Italia Offshore. «Dati gli elevati costi fissi, per essere redditizio un progetto deve comprendere in media circa 50 turbine, con una capacità totale di 200 MW.


UN DECENNIO DI CRESCITA IMPETUOSA L’ITALIA ORA È TERZA IN EUROPA 9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000 0

MA CON IL NUOVO SISTEMA DELLE ASTE IL FUTURO È INCERTO 1.400

MW di potenza installata

Nuova potenza installata annua e previsioni al 2015 in MW 1.200 1.000 800 600 400 200

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chiarati contrari al nuovo sistema», rivela Francesco Ferrante, senatore Pd nella passata legislatura. A destare preoccupazione c’era, non solo il fatto di voler fissare un tetto annuo ai nuovi impianti incentivabili (il cosiddetto “contingente”), ma anche i criteri da soddisfare per prender parte alle aste. «Siamo passati dai certificati verdi, che garantivano una remunerazione certa e generosa dell’energia prodotta, alla partecipazione ad aste competitive, nelle quali gli operatori offrono uno sconto minimo del 2% rispetto al prezzo fissato in asta e, nel caso riescano ad aggiudicarsi gli incentivi, si vincolano allo stesso prezzo per vent’anni», spiega Carlo Durante, managing partner di eLeMeNS, società di consulenza sui mercati delle rinnovabili. Il decreto ministeriale (varato nel 2012 dal governo Monti) fissa in 500 MW il contingente annuo incentivabile e richiede a chi presenta offerte in asta garanzie bancarie di 122.500 euro per ogni MW che si intende installare. Un ostacolo insormontabile per la maggior parte delle piccole e medie imprese dell’eolico. Se poi si verifi-

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cano ritardi nella realizzazione dei progetti – eventualità molto frequente in Italia a causa di ricorsi e intoppi burocratici – c’è il rischio che la tariffa incentivante venga progressivamente abbassata, rendendo molti progetti insostenibili dal punto di vista finanziario.

Asta flop Il sonoro flop ottenuto nella prima uscita del nuovo sistema, a dicembre scorso, ha confermato la fondatezza delle critiche: 18 domande per 442 MW di energia, inferiori anche al contingente tutt’altro che generoso di 500 MW, meno della metà della potenza installata nel 2012 (pari a 1.273 MW). Risultato negativo, ma nulla a confronto dell’eolico offshore, dove a fronte di un contingente di 650 MW è stata presentata una sola richiesta da Fonte rinnovabile

Eolico onshore Eolico offshore

Tipologia

Richieste (numero)

30 MW (vedi ARTICOLO in basso). Probabilmente l’effetto “prima volta” ha spinto molti operatori a una scelta attendista. Non è un caso che tutte le richieste per l’asta di dicembre (tranne una) siano state presentate negli ultimi tre giorni disponibili. E, infatti, tutti gli addetti ai lavori si aspettano un incremento del numero di domande nell’asta che si è chiusa il 10 giugno scorso (i risultati, al momento in cui questo numero di Valori è andato in stampa, non sono ancora stati ufficializzati). Ma rimane la sensazione che il sistema, per funzionare, imponga modifiche. «Se uno fissa un contingente massimo, è ridicolo porre barriere d’accesso così rigide. La logica di mercato vorrebbe infatti che il sistema incentivasse gli operatori a partecipare, per rendere più efficienti i progetti», commenta Simone ToPotenza (MW)

Percentuale contingente

Contingente (MW)

Registro

461

191,7

319,5%

60

Asta

18

442,0

88,4%

500

Registro Rifacimenti

-

-

-

150

Asta

1

30,0

4,6%

650*

* contingente riferito a 3 anni

I costi di investimento per l’eolico offshore sono di almeno 2,5 milioni di euro al MW, il doppio rispetto all’eolico a terra». Sul totale dei costi preventivati il Decreto del 2012 richiede il deposito di una cauzione del 10%. Per un impianto da 200 MW si tratta di 25 milioni di euro. «Una cifra troppo elevata, che scoraggia chiunque», continua Perini. «Una vera e propria barriera all’entrata che viene applicata solo in Italia». A far lievitare i costi dell’eolico in mare aperto ci sono sicuramente le spese per affittare le navi speciali che servono per il sondaggio dei fondali marini e l’installazione delle turbine. «Una nave da installazione eolica costa 150mila euro al giorno. La maggior

parte di queste navi sono nel Mare del Nord, per farle arrivare nel Mediterraneo servono anche due settimane di viaggio. Più di due milioni di euro solo per il viaggio», spiega Leonardo Perini. A rendere il quadro ancora più cupo ci sono anche le caratteristiche dei fondali mediterranei: acque molto profonde già a pochi metri dalla costa, che rendono molto difficili e costose le installazioni e le connessioni. E poi il vento, che ha una velocità media di 7 m/s contro i 9 m/s dei mari tedeschi e inglesi. Condizioni naturali poco favorevoli, alle quali si sono aggiunte procedure burocratiche e richieste di garanzie insostenibili. Per l’offshore italiano le aste sono già adesso sinonimo di fallimento.

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FONTE: POLITECNICO DI MILANO - RAPPORTO RINNOVABILI ELETTRICHE NON FOTOVOLTAICHE, MARZO 2013

| economiasolidale |


| economiasolidale |

smo delle aste ha invece mostrato come ci siano operatori pronti a investire con remunerazioni di 100 €/MWh. «Alla fine vince chi è organizzato meglio, chi sa giocarsi i progetti migliori lavorando di fino», spiega Carlo Durante di eLeMeNS. «Nella prima asta il timore di non accedere agli incentivi ha spinto gli operatori a dichiarare in molti casi i loro reali costi e le aspettative minime di remunerazione, procurando un risparmio per il sistema vicino ai 200 milioni di

euro in 20 anni rispetto a quanto si sarebbe speso con una tariffa fissa pari al valore base d’asta». Se il nuovo sistema – magari con opportune correzioni nei requisiti di ingresso – potrà stare in piedi lo scopriremo quando il GSE renderà pubblici i risultati dell’asta che si è chiusa il 10 giugno (il GSE ha tempo 60 giorni dalla chiusura dell’asta). Se, contrariamente alle attese, si verificherà un nuovo flop, per le aste potrebbe essere l’inizio della fine. 

I RISULTATI DELLA PRIMA ASTA (GENNAIO 2013) GRADUATORIA DEGLI IMPIANTI ISCRITTI IN POSIZIONE TALE DA RIENTRARE NEL CONTINGENTE DI POTENZA PREVISTO PER IMPIANTI EOLICI ONSHORE DI CUI AL BANDO DELL’8 SETTEMBRE 2012 Offerta di riduzione Numero Potenza Ragione sociale Provincia percentuale rispetto al valore posizione impianto (MW) posto a base d’asta 1 EDP RENEWABLES ITALIA SRL TARANTO 14,000 24,41% 2

EDP RENEWABLES ITALIA SRL

TARANTO

16,000

23,67%

3

GAMESA ENERGIA ITALIA SPA

COSENZA

16,000

14,81%

4

ELETTRO SANNIO WIND 2 SRL

CATANZARO

10,000

13,52%

Ma non tutto è da buttare

5

EDP RENEWABLES ITALIA SRL

POTENZA

10,000

12,42%

L’operazione di modifica dovrà però essere chirurgica per non perdere i vantaggi che le aste hanno comunque apportato al sistema: lo Stato ha, infatti, risparmiato sugli incentivi e gli operatori sono stati costretti a una maggiore efficienza, visto che hanno dovuto concentrarsi sui progetti a più alta redditività, calcolando in modo più accurato i costi e i benefici di ogni futuro impianto. Lo conferma anche il rapporto del Politecnico di Milano: negli ultimi anni la remunerazione minima per considerare un investimento eolico è sempre stata non inferiore ai 150 €/MWh, il meccani-

6

C&C OPPIDO LUCANO SRL

POTENZA

20,000

9,54%

7

LATERZA WIND 2 SRL

TARANTO

12,300

9,51%

8

PONTE ALBANITO SRL

FOGGIA

27,200

8,50%

9

BREATHE ENERGIA IN MOVIMENTO S.R.L. POTENZA

21,000

8,31%

10

E-VENTO CIRÒ SRL

CROTONE

30,000

7,55%

11

ALFA WIND SRL

POTENZA

30,000

6,46%

12

ANDALI ENERGIA

CATANZARO

36,000

5,80%

| 46 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

13

EOLSIPONTO SRL

FOGGIA

17,500

5,12%

14

FRI-EL SAN CANIO SRL

MATERA

24,000

4,30%

15

NUOVA ENERGIA SRL

BARI

72,000

4,20%

16

ENEL GREEN POWER SPA

BRINDISI

12,000

3,34%

17

SAVA ENERGIA SRL

TARANTO

10,000

2,51%

18

ERG EOLICA BASILICATA S.R.L.

POTENZA

34,000 Totale 442,000

2,50%

FONTE: GESTORE DEI SERVIZI ENERGETICI ‐ GSE S.P.A.

gni, presidente di Anev, associazione nazionale energia dal vento. Analisi condivisa anche dai ricercatori del Politecnico di Milano, che, nel recente Rapporto sulle Rinnovabili elettriche non fotovoltaiche, ammettono: «Le ingenti garanzie hanno senz’altro precluso la possibilità di iscriversi a numerosissimi soggetti». Tanto da prevedere, per i prossimi tre anni, una contrazione del settore: il valore dell’installato annuo tornerà ai livelli del 2005 (vedi GRAFICO ). «Sono necessari – si legge nel rapporto – meccanismi a correzione dello squilibrio tra domande ricevute e contingenti disponibili per riallocare, per le future aste/registri, i contingenti non richiesti (eolico offshore e grande idroelettrico) verso le tecnologie con maggior disponibilità di progetti (eolico onshore e piccolo idroelettrico)».


| valorifiscali |

Tasse utili

Imu e Iva, paradossi fiscali e governi paradossali a discussione sull’Imu e sull’Iva di queste settimane ha qualcosa di paradossale. Nel vociare scomposto e disarticolato della pubblica discussione, queste due imposte, tra loro diversissime per caratteristiche e per effetti, sono accomunate dal fatto di essere, appunto, delle tasse, e, in quanto tali, da biasimare come moltiplicatori della crisi. Come se il

L

di Alessandro Santoro

finanziamento della spesa pubblica che le imposte consentono non dovesse, proprio per la crisi, essere considerato di primaria importanza, visto che serve a pagare salari e pensioni e a fornire servizi. E, soprattutto, come se tutte le imposte fossero ugualmente odiose e dannose. Niente di più falso. L’Imu è un’imposta potenzialmente efficiente ed equa, ma che è stata disegnata in modo rozzo. Può essere efficiente perché incide sulla proprietà immobiliare, e quindi risparmia il lavoro e il reddito, e può essere equa perché la proprietà immobiliare tende a essere concentrata tra le famiglie più ricche. Ovviamente, perché queste caratteristiche emergano, l’imposta deve basarsi sui valori di mercato, e non sulle antiche rendite catastali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa è priva di alcun senso economico. Se si vuole ridurre il peso dell’imposta, e impedire che vi siano dei reali problemi nel pagarla per alcuni, basterebbe ridurre l’aliquota al 3 per mille e, contemporaneamente, parametrarla ai valori di mercato. Ciò consentirebbe comunque di aumentare le esenzioni. L’Iva, invece, è un’imposta la cui efficienza è solo teorica, ma che si scontra con il fatto di essere molto evasa e mal gestita. È molto evasa sia perché la

quando un bene viene venduto da un Paese Ue a un altro senza imposta e il soggetto “importatore” rivende internamente il bene senza versare l’Iva ottenuta, ma creando un credito a favore dell’acquirente. Si tratta di una frode che nasce dall’esistenza, da oltre 30 anni, di un regime provvisorio (!) in cui, pure in assenza di dogane, si continua a cercare di tassare i beni secondo le regole (e le aliquote) del Paese di destinazione. Sconcerta che l’Ue in 30 anni non sia riuscita a ideare un sistema migliore. Nell’attesa che ciò accada, e che l’amministrazione finanziaria prenda esempio dall’estero (ad esempio dalla Francia) per capire come gestire l’Iva, l’ultima cosa da fare è aumentare l’aliquota ordinaria, come già avvenuto, con effetti disastrosi, nel 2012. L’aumento di un punto, dal 20 al 21%, ha infatti generato una riduzione della base imponibile dichiarata molto superiore rispetto alla riduzione dei consumi, un sintomo chiaro di incremento dell’evasione. Dunque il buon senso consiglierebbe di fare interventi di ricalibratura dell’Imu, quasi a parità di gettito, e di evitare l’incremento dell’Iva. Accadrà, invece, con ogni probabilità, il contrario: un paradosso fiscale per un governo paradossale. 

L’abolizione dell’Imu sulla prima casa è priva di alcun senso economico struttura produttiva estremamente frammentata la rende difficilmente controllabile, sia perché quello che comunque si potrebbe fare per controllarne i flussi in Italia non viene fatto. Siamo l’unico Paese che consente agli evasori di inventarsi dei crediti Iva e di utilizzarli quasi senza vincoli, salvi i limiti alle compensazioni introdotti negli ultimi anni. Inoltre, siamo l’unico Paese, tra quelli di grande dimensione, che ha abolito del tutto le dichiarazioni periodiche infra-annuali, privandosi così di uno strumento di controllo di grande importanza. Un’altra ragione della grande evasione dell’Iva sta nella sua permeabilità alle frodi, prime fra tutte le cosiddette frodi carosello, che si realizzano

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 47 |


ABCOLOMBIA

internazionale

Responsabili fin dal principio > 52 Land grabbing. La razzia continua > 53 | 48 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |


| imprese irresponsabili |

L’attività di estrazione in una miniera in Colombia.

Scava, scava

Mentre il tema delle multinazionali che eludono il fisco infiamma il Regno Unito, un rapporto della Ong britannica ABColombia denuncia che le compagnie minerarie inglesi nel Paese sudamericano non si comportano meglio. E sulla Csr rischiano grosso

di Corrado Fontana el 2011 l’80% delle violazioni dei diritti umani in Colombia si è verificato nei comuni coinvolti dal settore estrattivo. Secondo un rapporto governativo vi è una relazione tra attività estrattive su larga scala, sfollamenti e povertà». Così Laura Ousley, responsabile comunicazione della Ong britannica ABColombia, che testimonia come la caccia sfrenata alle risorse del sottosuolo stia provocando enormi danni sociali e ambientali nel Paese latinoamericano, già martoriato da 50 anni di guerra civile. Una situazione documentata nel rapporto Giving It Away: The Consequences of an Unsustainable Mining Policy in Colombia, in cui ABColombia evidenzia appunto il conflitto – con un grave rischio reputazio-

«N

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 49 |


ABCOLOMBIA

| internazionale |

NESSI DI CAUSALITÀ Dalla pubblicazione del rapporto di ABColombia – che contiene raccomandazioni per le istituzioni europee e del Regno Unito, oltreché per le compagnie – qualcosa si è mosso. L’ambasciatore britannico ha firmato un accordo con la Contraloría General de la República per aumentare i finanziamenti e rafforzare la capacità di questa istituzione, e lo stesso governo britannico si è fatto forte sostenitore in Europa di un miglioramento della legge (in discussione a giugno 2013) sulla trasparenza dei pagamenti da parte delle compagnie petrolifere e del gas. Rappresentanti del governo inglese e delle compagnie hanno poi partecipato alle due conferenze sul tema organizzate da ABColombia a Londra e a Cartagena. Intanto, anche a seguito delle numerose proteste di piazza, degli scioperi e della crescente contestazione organizzata da parte delle popolazioni colombiane delle aree interessate alle attività minerarie, l’agenzia mineraria nazionale (ANM) della Colombia ha revocato 32 contratti minerari in varie parti del Paese e ha chiesto l’immediata cessazione delle attività di estrazione in quei siti. Motivo? Il mancato pagamento di tasse, canoni e multe. Inoltre, proprio la Contraloría General de la República ha annunciato di aver trovato 12 irregolarità fiscali nei conti della società mineraria AngloGold Ashanti, per 3,8 milioni di dollari, ma la multinazionale ha per ora respinto le richieste di pagamento.

nale – tra il rispetto dei dettami della Responsabilità sociale d’impresa (Rsi o, in inglese, Corporate social responsability Csr) preteso in Occidente e la condotta (fiscale e operativa) delle compagnie minerarie britanniche in Colombia. Non solo. A maggio scorso la Contraloría General de la República colombiana ha analizzato

i termini del problema in uno studio ufficiale (Minería en Colombia - Fundamentos para superar el modelo extractivista); e proprio mentre scriviamo, alle soglie del G8 d’Irlanda, lo stesso premier David Cameron entra nella polemica che accende il Regno Unito sui comportamenti fiscali delle multinazionali (Goo-

gle, Starbucks e Amazon), accusate di eludere il fisco di Sua Maestà.

Chi guadagna... Che dire allora delle grandi compagnie minerarie britanniche quotate in Borsa, come la AngloGold Ashanti? In Colombia pagano la stessa aliquota fiscale di chi gestisce miniere su piccola scala, sfruttando la legge (685/2001) che tassa l’attività in base alla superficie sottoposta a licenza e acquistando concessioni di sfruttamento per terreni sistematicamente frazionati in appezzamenti da meno di 2mila ettari. Una prassi quanto meno moralmente discutibile, sottolinea ABColombia. Tanto più in un Paese in difficoltà (la Colombia ha uno dei tassi di disuguaglianza più eleAngloAmerican PLC BHP Billiton PLC Xstrata PLC

AngloGold Ashanti Red Rock Resources PLC Cambridge Mineral Resources Touchstone Gold Ltd.

Glencore International PLC

AngloAmerican PLC

Emerald Energy PLC Glencore International PLC

Yamana Gold Inc.

Glencore International PLC Petrolatina PLC

Glencore International PLC

Greystar Resources Ltd

Rio Tinto PLC

Greystar Resources Ltd

AngloGold Ashanti

Greystar Resources Ltd

AngloGold Ashanti AngloGold Ashanti AngloGold Ashanti

LE COMPAGNIE CON SEDI NEL REGNO UNITO TITOLARI DI CONCESSIONI MINERARIE IN COLOMBIA

AngloGold Ashanti Emerald Energy PLC AngloGold Ashanti Amerisur Resources PLC Gulf ol International Group Zone di interesse

| 50 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

Emerald Energy PLC

FONTE: RAPPORTO “GIVING IT AWAY: THE CONSEQUENCES OF AN UNSUSTAINABLE MINING POLICY IN COLOMBIA” - ABCOLOMBIA - NOVEMBRE 2012


| internazionale |

vati nella regione e il terzo nel mondo), dove il settore estrattivo risulta una risorsa essenziale anche per la riscossione delle tasse sui diritti di concessione della terra, sui profitti societari e le royalties (diritti di estrazione), oltre al canone annuale di licenza per l’esplorazione e lo sfruttamento. Eppure tali introiti sicuri per lo Stato colombiano si sono progressivamente ridotti dopo l’avvio – su incoraggiamento della Banca Mondiale – di alcune riforme per abbassare dal 35,5 al 33% le imposte sugli utili delle corporations, cui si è combinato il sistema di esenzioni fiscali concesse al settore estrattivo. Risultato? Nel 2009 l’amministrazione del presidente Juan Manuel Santos Calderón avrebbe perso ben il 51% (comprese le esenzioni sugli idrocarburi) della sua possibilità di reddito su queste attività a causa delle esenzioni, circa 3,82 miliardi di pesos colombiani (2 mln $). Un importo che, sottolinea Laura Ousley, «supera di gran lunga ciò che il governo ha preventivato di spendere nel 2012 per le vittime del conflitto interno: 2,9 miliardi di pesos (1,5 mln $)». Escluse le riscossioni da idrocarburi (gas e petrolio), la decurtazione sarebbe passata addirittura dal 53% del 2007 al 90% del 2009, con una situazione quasi paradossale relativa al carbone: secondo l’economista Guillermo Rudas, consulente nel 2010 per il Colombian National Planning Council, il governo avrebbe pagato di fatto le aziende per arricchirsi, registrando un saldo negativo sfavorevole per lo Stato tra profitti societari e tasse pagate: -0,3 per il 2007 e -0,7 nel 2009.

...e chi paga Ma siccome per gli inglesi la Csr è una cosa seria (come dimostrano le proteste di gruppi quali il London Mining Network), ABColombia invita le multinazionali di Sua Maestà a cambiare rotta, paventando per loro un grave rischio reputazionale. Ricordando come la pluridecennale guerra civile in corso è strettamente intrecciata col tema della terra (vedi Valori settembre 2011) e che le mire del settore estrattivo e il suo intenso sviluppo esasperano ulteriormente lo scenario, in primo piano balzano le minacce verso gli ecosistemi naturali, non contrastate dal-

le norme vigenti: l’articolo 34 del codice minerario prevede che le autorità possano rimuovere la protezione ambientale assegnata alle riserve forestali nazionali a scopo di estrazione, mentre l’articolo 37 inibisce l’opposizione dei municipi su tali decisioni. Inoltre i rischi umanitari per un contesto sociale di estrema povertà appaiono in continuo aumento. Sono cresciute le condizioni di insicurezza per le popolazioni indigene (omicidi e arresti arbitrari di attivisti, spesso in connessione con una elevata presenza di uomini ar-

mati a guardia dei siti minerari), e specialmente i pericoli per la popolazione femminile nelle regioni estrattive (con una escalation di violenze sessuali, prostituzione e gravidanze giovanili), e la conseguente rottura del tessuto sociale di molte comunità. A ciò si aggiunge la perdita di molte aree destinate alle tradizionali pratiche agricole di sussistenza e una sempre maggiore contaminazione delle acque dei fiumi, con particolare impatto ancora sulla salute delle donne, spesso immerse a lungo nelle acque per le attività quotidiane. 

DOLOROSA CRESCITA Popolazione complessiva (stima 2013): 45,7 milioni Capitale: Santa Fe de Bogotà (10 milioni di abitanti) Moneta: Peso colombiano (COP); 1 COP=0,0005 USD Pil pro capite (stima 2012): 11000 USD (erano 9800 USD 2010) Da 50 anni in Colombia si consuma una guerra civile violenta tra Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejército del Pueblo, organizzazione guerrigliera comunista clandestina fondata nel 1964) ed esercito governativo. A ottobre 2012 il governo ha iniziato negoziati formali di pace finalizzati a un cessate il fuoco bilaterale definitivo. Il Paese registra anche circa 30mila casi (sottostimati) di sparizioni forzate negli ultimi quattro decenni, tra attivisti dei diritti umani, sindacalisti, afro-colombiani, indigeni e agricoltori in zone di conflitto rurali; 3,6 milioni sono gli sfollati interni dal 2000, secondo il governo, e circa 400mila i rifugiati colombiani nei Paesi dell’America Latina. Nonostante un +4% di Pil l’anno negli ultimi tre, la Colombia dipende fortemente dalle esportazioni di petrolio. È il terzo esportatore latinoamericano di petrolio verso gli Usa e il loro primo fornitore di carbone; ha attivato accordi di libero scambio con vari Paesi del mondo e gli investimenti diretti esteri – soprattutto in petrolio e gas – hanno toccato il record di quasi 16 miliardi di dollari nel 2012. Il tasso di natalità oggi supera appena il livello di sostituzione, grazie a maggiore alfabetizzazione, servizi di pianificazione familiare e urbanizzazione, ma il Paese sconta infrastrutture inadeguate (indebolite dalle recenti inondazioni), una disoccupazione al 10,3% nel 2012, grave disuguaglianza socioeconomica (almeno 1/3 della popolazione sotto la soglia di povertà) e la morsa del narcotraffico.

LE IMPRESE RAGIONANO SULLE LORO RESPONSABILITÀ Responsabilità sociale d’impresa (abbreviato Csr, dall’inglese Corporate Social Responsibility). Un concetto ampio e sfaccettato, spesso una bella etichetta che permette a molte imprese di “lavare” la propria immagine, uno dei tanti strumenti di marketing. Ma non è necessariamente così. Valori è molto critico a riguardo (proprio perché pensiamo che troppo spesso venga usato nel modo appena descritto), ma crediamo anche che ci possa essere un modo per essere davvero responsabili e che alcune aziende (poche) lo stiano già mettendo in pratica. Con Koinetica (che da oltre 10 anni si occupa di Csr) e Agema (che si dedica alla comunicazione a 360 gradi) abbiamo organizzato un ciclo di incontri rivolti alle imprese proprio per approfondire le varie declinazioni del tema “responsabilità d’impresa”. Hanno partecipato aziende come Holcim, Magneti Marelli, Pirelli, Eni, 3M, Sea Aeroporti, Ricoh Italia, Otsuka, Autogrill, Acco, Coop Lombardia, Unipol, Banca Etica, Fondazione Cariplo. Si è parlato di Csr e finanza, con Roberto Mazzotta (presidente di Mediocredito Italiano) e Alessandra Viscovi (Direttore generale Etica Sgr); di Csr e legalità, con Nando Dalla Chiesa e Don Virginio Colmegna; di Csr e competitività, con Francesco Perrini (dell’Università Bocconi) e Paolo D’Anselmi (esperto di Csr), e di Csr e comunicazione, con Toni Muzi Falconi (esperto in tema di comunicazione) e Dario Di Vico del Corriere della Sera.

| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 51 |


| internazionale |

Responsabili fin dal principio di Elisabetta Tramonto

«Non basta la qualità della produzione, i fornitori devono essere selezionati anche in base al rispetto dei diritti dei lavoratori». Per suor Ruth, che da anni dialoga con le imprese, la Csr deve esistere lungo tutta la catena di fornitura l 24 aprile a Dhaka, in Bangladesh, il crollo di un complesso di laboratori tessili ha provocato 1.127 vittime, lavoratori sottopagati e privati dei diritti più elementari che lavoravano per fornitori di grandi marchi occidentali. Immediato il ritorno di immagine (pessimo) per le aziende committenti, tra cui anche l’italiana Benetton, benché non si trattasse di fabbriche di proprietà di quelle aziende, ma di fornitori o sub-sub-fornitori. Quasi immediata la reazione: le principali multinazionali del tessile (non tutte) hanno sottoscritto un accordo per la sicurezza in Bangladesh (vedi Valori di marzo e giugno 2013). Sono moltissimi i casi di grandi aziende che subiscono danni (d’immagine, che si traducono in perdite economiche e in crolli del titolo in Borsa) per casi di violazione dei diritti umani in stabilimenti fuori dal loro Paese e spesso anche in fabbriche di fornitori o sub fornitori. Di responsabilità delle imprese per il rispetto dei diritti umani lungo tutta la catena di fornitura si è parlato in due convegni, organizzati da Etica Sgr (la società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica) a Milano e a Modena il 12 e 13 giugno scorsi, intitolati “Investire nel rispetto dei diritti umani”. Ospite d’onore Suor Ruth Rosenbaum, fondatrice ed Executive director di Crea, un’organizzazione religiosa statunitense, che si occupa di dialogo e azionariato attivo con le grandi imprese americane sul tema dei diritti umani e della catena di fornitura. L’ab-

I

| 52 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

Suor Ruth Rosenbaum, direttore esecutivo di Crea (Center for Reflection, Education and Action)

biamo incontrata a latere del convegno per cercare di capire come si possa “convincere” un’impresa a essere “socialmente responsabile” e a pretendere lo stesso comportamento da parte di tutti i fornitori e subfornitori. Come convincete le imprese a “comportarsi bene”? Perché dovrebbero ascoltarvi? Abbiamo sviluppato per anni relazioni con le aziende, all’inizio come azionisti critici, avanzando mozioni in assemblea. Ma abbiamo capito che è meglio dialogare con l’azienda, regolarmente. Se c’è una relazione non c’è bisogno di una mozione. Ci ascoltano perché gli conviene. Una cattiva pubblicità allontana clienti e rovina l’immagine di un’azienda anche irrimediabilmente. La reputazione è una questione delicata. Sui giornali alcune imprese appaiono terribili per quello che fanno, ma non sempre corrisponde alla realtà. Spesso compaiono perché si sono rese responsabili e stanno ascoltando gli stakeholder e cercando di risolvere i problemi. Ci sono

aziende che non fanno niente, ma non si parla di loro. Come potete monitorare il comportamento delle imprese lungo la catena di fornitura? Non possiamo. Ma una multinazionale deve conoscere ogni singola fabbrica dove produce e ogni singolo fornitore della supply chain; e renderne conto ai propri azionisti. Ma li conoscono eccome: per verificare la qualità dei prodotti, che sia giusto il colore del prodotto e il materiale usato. Devono conoscerli anche dal punto di vista del rispetto dei diritti dei lavoratori. Di solito sono i responsabili acquisti che selezionano e tengono i rapporti con i fornitori. Un buon programma di responsabilità sociale d’impresa lungo la catena di fornitura necessita di responsabili acquisti che siano esperti di diritti dei lavoratori. Devono essere i primi responsabili per quello che succede nelle fabbriche e presso i fornitori. E l’azienda deve organizzare dei social audit per verificare che tutto questo accada. Come vi comportate con le aziende i cui fornitori violano i diritti umani? Innanzitutto le spingiamo a migliorare la situazione, a pretendere dai fornitori un cambiamento. La prima scelta non è interrompere il rapporto perché così per il lavoratore non ci sarebbe alcun miglioramento. Solo se non ci dovesse essere alcuna volontà di cambiamento allora chiediamo di interrompere il rapporto con il fornitore. Avete ottenuto buoni risultati? Sì, ma richiede tempo. Aziende che all’inizio non conoscevano neanche i loro fornitori dopo qualche anno hanno un report di ogni singola fabbrica dove producono. Due casi esemplari sono Gap e Target. Oggi le loro fabbriche e quelle dei fornitori sono valutate non solo in base alla qualità dei prodotti che realizzano, ma anche in base alla rispetto dei diritti dei lavoratori. Entrambe oggi hanno eccellenti programmi di Csr. Sono perfette? Niente è perfetto, ma riguardo queste e molte altre aziende posso dire che fanno del loro meglio. 


| internazionale | terra rubata |

Land grabbing La razzia continua di Andrea Barolini

Le multinazionali dei Paesi ricchi del Pianeta continuano ad accaparrarsi enormi quantità di terreni nel Terzo mondo. Anche a meno di 1 euro per ettaro. In dieci anni, è stato acquisito un territorio vasto come otto volte il Regno Unito. Mentre mancano ancora le tutele per i coltivatori e le comunità locali onostante il clamore internazionale e le numerose iniziative di Ong, associazioni e di alcune istituzioni, il land grabbing – l’accaparramento di terre a prezzi stracciati da parte delle multinazionali dei Paesi ricchi – continua a costituire una minaccia per le popolazioni del Terzo mondo. Come raccontato in più occasioni da Valori, il fenomeno ha registrato negli ultimi anni una vera e propria impennata. In un recente studio Bruno Hellendorf, ricercatore del Gruppo di ricerca e di informazione sulla Pace e sulla Sicurezza (GRIP) di Bruxelles, citando dati della Banca Mondiale ha sottolineato come, nel solo 2010, non meno di 56 milioni di ettari sono stati oggetto di compravendite internazionali. Mentre soltanto

Rubare l’identità di un territorio Ciò che è chiaro è che siamo di fronte a una vera e propria rincorsa da parte di multinazionali, banche e fondi di investimento, che presenta importanti implica-

SUPERFICI OGGETTO DI ACQUISIZIONI INTERNAZIONALI TRA IL 2000 E IL 2010 800

Compravendite concluse

Compravendite in negoziazione/sospese

700 600 500 400 300 200

Sierra Leone

Senegal

Nigeria

Niger

Mauritania

Mali

Liberia

Guinea

Ghana

Gambia

0

Costa d’Avorio

100 Benin

FONTE: ACQUISITIONS DE TERRES EN AFRIQUE DE L’OUEST ÉTAT DES LIEUX, MOTEURS ET ENJEUX POUR LA SÉCURITE, GRIP, 2012

N

due anni prima, nel 2008, la cifra non superava i 4 milioni. Nel 70% dei casi le acquisizioni riguardano l’Africa. E il totale, tra il 2000 e il 2010, tocca i 203 milioni di ettari. Qualcosa come otto volte la superficie del Regno Unito. Ma, è bene sottolinearlo, risulta molto difficile reperire informazioni e statistiche certe sulle dimensioni del fenomeno, dal momento che spesso le compravendite non vengono rese pubbliche. I dati potrebbero perciò essere perfino sottostimati.

zioni non solo economiche, ma anche ambientali, politiche ed etiche (oggi, infatti, il Pianeta è giunto al paradosso che numerosi Paesi che presentano gravi problemi di malnutrizione sono esportatori netti di prodotti alimentari!). Dal punto di vista ecologico, ad esempio, la ricerca di massimizzazione dei profitti porta spesso a scegliere monocolture che esacerbano lo sfruttamento del suolo. L’agricoltura intensiva, poi, presenta enormi problemi di inquinamento ambientale e di sovra-consumo di risorse idriche. Senza considerare che l’acquisizione di terre da parte di grandi gruppi stranieri costituisce una minaccia – più o meno diretta – non soltanto per la sicurezza alimentare delle popolazioni locali, ma anche per la stabilità socio-economica e politica degli Stati. Secondo l’International Land Coalition, infatti, «praticamente nessuna attribuzione di terre su larga scala si può fare senza che le popolazioni locali siano costrette a spostarsi o siano comunque penalizzate». Basti pensare al problema dei popoli transumanti del Sahel: «Gli spazi dedicati alla transumanza attualmente non appartengono a nessuno. Possono essere perciò oggetto di acquisizioni da parte di investitori senza che gli allevatori abbiano alcuna voce in capitolo. Laddove un agricoltore può almeno tentare di far valere qualche diritto consuetudinario all’uso, un pastore non può nulla», ha spiegato Alhousseini Bretaudeau, segretario generale del Comitato permanente inter-Stati per la lotta alla siccità, in un documento dell’Ocse.

Terra in svendita Henk-Jan Brinkman e Cullen Hendrix, nel World Development Report 2011 del| ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 53 |


FONTE: ALTERNATIVES INTERNATIONALES

| internazionale |

NUMERO DI TRANSAZIONI TRA IL 2000 E IL 2010 800

Numero di transazioni

700 600 500 400

un dollaro all’anno (0,76 euro). Come se non bastasse, esentasse per 10 anni. Mentre nel 2012 in Sierra Leone il prezzo era di 2 dollari, e 6,75 in Etiopia. Contro, per avere un termine di paragone, i 5-6 mila del Brasile o dell’Argentina.

Obiettivo biocarburanti

300 200 100 0

Africa

Asia

la Banca Mondiale, spiegano che «il golpe in Madagascar del 2009 è risultato legato alle implicazioni del vecchio presidente nei negoziati per la concessione di leasing su larghe superfici di terre arabili a una grande impresa sud-coreana». Il tutto è poi “condito” da questioni economiche e finanziarie: la fiammata dei prezzi alimentari legata alla Primavera araba nel 2010-2011 ha costituito un effetto ca-

America

Europa/Oceania

talizzatore, che ha indotto ancor di più i grandi gruppi a gettarsi sul business. Ma non è tutto: il trimestrale Alternatives Internationales racconta che per ingolosire gli investitori, i governi propongono una vasta serie di agevolazioni: da quelle fiscali, ai contratti di affitto da 99 anni, insieme a notevoli semplificazioni amministrative. Così, nel 2009 in Camerun un ettaro si affittava alla cifra ridicola di

COME VENGONO USATE LE TERRE OGGETTO DI ACQUISIZIONI INTERNAZIONALI 13,0%

2,7% 2,5% 2,7% 0,6%

17,9%

1,9%

58,8%

Biocarburanti Produzione alimentare Sfruttamento forestale Altri prodotti agricoli non alimentari Bestiame Estrazione mineraria Impianti industriali Turismo

FONTE: ALTERNATIVES INTERNATIONALES

Ne discendono impressionanti prospettive di ritorno sugli investimenti: un ettaro coltivato a zucchero può apportare 18.500 dollari all’anno nello Zambia e 8mila in Kenia, contro i 3.750 del Brasile! Non a caso, sono da sempre i privati a fare la parte del leone: tra il 2004 e il 2009 sono loro ad aver affittato o comprato il 90% delle terre oggetto di land grabbing. E hanno scelto il business più vantaggioso: le colture per biocarburanti. Esse rappresentano il 40% del totale, contro il 25% delle aree destinate alla coltivazione di prodotti alimentari. D’altra parte, per comprendere quali siano le priorità delle grandi aziende basta considerare che anche negli Usa, ormai, il 40% delle colture di mais e il 14% di quelle di olio di soia sono destinate ai biofuels. Anche per questo, «il prezzo delle terre coltivabili ha registrato un boom che fa impallidire le bolle speculative delle Borse, dell’oro o dei beni immobiliari: +748% tra il 1991 e il 2011», osserva il ricercatore francese Gérard Chouquer nel rapporto Knowing to manage the territory, protect the environment, evaluate the cultural heritage. Non a caso, uno studio dell’Istituto internazionale per l’Ambiente e lo Sviluppo di Londra ha spiegato che «su scala mondiale sono già stati investiti 14 miliardi di dollari per l’acquisizione di terre». Una cifra che potrebbe raddoppiare, se non triplicare di qui al 2015. 

LA DISCIPLINA INTERNAZIONALE C’È. MA NON SEMPRE È APPLICATA Sul piano internazionale, poco più di un anno fa è stato siglato un accordo che si propone di disciplinare l’acquisizione di terre. A maggio 2012, infatti, i 124 Stati membri del Comitato per la Sicurezza alimentare mondiale hanno siglato un documento che prevede, tra le altre cose, consultazioni permanenti. Il problema è che tale testo non ha alcun valore vincolante: ciò significa che la sua applicazione dipende dalla sensibilità di ciascun governo. Finora, riferisce il trimestrale francese Alternatives Internationales, solamente alcuni Paesi hanno adottato riforme volte a tutelare

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i diritti degli agricoltori. È il caso, ad esempio, di Angola, Benin e Burkina Faso. Ancora, in Togo e Madagascar è stata introdotta la possibilità di registrare titoli di proprietà individuale, mentre il Ruanda è andato oltre, imponendo procedure vincolanti per le acquisizioni. Ma la questione è immensa, e lungi dall’essere risolta: occorrerebbe delimitare i territori e tutelare i diritti consuetudinari e quelli delle collettività locali. Nonché istituire arbitrati e procedure indipendenti e garantiste di risoluzione dei conflitti. A.B.


| socialinnovation |

Idee creative

Una striscia di terra nuova imprenditorialità sociale e l’impatto positivo che può avere sulla società attirano l’attenzione di giovani studenti delle scuole di Economia. E le università li assecondano creando programmi di social business applicati a problemi sociali globali. L’ateneo di Cape Town propone agli studenti MBA un impegno sul campo per lavorare su piani industriali, strate-

L’

gie e modelli finanziari delle imprese sociali sudafricane. Reel Gardening è una start-up che ha concepito nuovi prodotti agronomici, di facile utilizzo ed economici, che rendono più accessibile l’autoproduzione di cibo. Lanciata nel 2010, la società di Johannesburg produce strisce di carta biodegradabile contenente semi, sostanze nutrienti e fertilizzanti organici. Le bobine seminate, vendute a un dollaro al metro, possono essere piantate nel terreno o collocate in un giornale o in uno shopper con un po’ di terriccio in mancanza di terreno coltivabile. Servono solo luce del sole e acqua. Le strisce di carta usano l’80% di acqua in meno rispetto ai mezzi convenzionali, in quanto trattengono la maggior parte dell’acqua. Sono indicate in zone di difficile irrigazione. Semplici istruzioni, anche per chi non sa leggere, sono stampate sulla carta con inchiostri naturali. Ogni nastro ha un diverso colore: indica la profondità di semina, eliminando la necessità di comprendere aspetti più tecnici come la rotazione delle colture. Le bobine contengono diverse selezioni di semi a seconda della stagione e alternano ortaggi biologici e piante con fiori specifici per attirare gli impollinatori o scoraggiare i parassiti. Composizioni

Giovani, start-up e università: le sfide sociali creano nuove filiere e sviluppo comunitario. In Sudafrica di nastri possono essere utilizzate per attrezzare parcelle di 100 metri quadri, abbassando il rischio di non germinazione per cause naturali (vento o uccelli granivori). Reel Gardening e l’Università di Cape Town stanno lavorando a numerosi progetti comunitari nelle zone povere, con carenza di acqua e bassi livelli di istruzione. Oltre a coltivare il proprio cibo, le comunità possono aumentare il reddito con la vendita dei prodotti in eccesso. Un fenomeno sociale associato alla diffusione delle bobine di semi è il rapido sviluppo di

di Andrea Vecci

community gardens nelle township, gli ex distretti suburbani creati durante il periodo della segregazione razziale a Cape Town e Johannesburg, e di orti scolastici per invogliare le giovani generazioni a occuparsi della sovranità alimentare in zone in cui l’acqua scarseggia. Anche in Italia il terreno è fertile per l’innovazione sociale: le business school nostrane hanno coinvolto gli studenti sul tema dell’innovazione sociale concentrandosi sulle necessità di policy making, mentre l’iniziativa Social Innovation Agenda dell’ex ministro Profumo promuove l’innovazione sociale dal basso, tra i più giovani.  Maggiori approfondimenti sul blog Social Innovation di Valori.it | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 55 |


altrevoci VODAFONE METTE LE MANI SULLA STORIA A Roma si racconta di un turista americano che, sbucando dalla fermata della metropolitana Colosseo, e trovandosi davanti l’Anfiteatro Flavio, ha esclamato stupito: «Ma come hanno fatto a costruire il Coliseum così vicino alla metrò?!». La confusione storica d’ora in avanti è destinata ad aumentare, causa sponsor: a Madrid da giugno la fermata della metrò di Puerta del Sol è diventata Vodafone Sol e sarà così per tre anni, perché il gigante inglese della telefonia mobile ha acquistato il diritto allo sfruttamento del nome per tre milioni di euro. Ma la scusa economica non è bastata a soddisfare il disappunto nella capitale, anche se sui giornali spagnoli l’accaduto non ha avuto grande rilevanza e la notizia è stata lanciata dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung . Perché per i madrileni (e per il resto del mondo) Puerta del Sol non è solo una fermata centralissima di Madrid, incrocio di tre linee della sotterranea e nodo importante per il traffico ferroviario. Ma soprattutto è il luogo simbolo della contestazione del movimento degli “indignados” del 2011. Vodafone ora sta conducendo le trattative a Roma, per mettere il suo nome prima di quello di alcuni nodi centralissimi come la fermata della stazione Termini, di piazza di Spagna e di via Barberini. Insomma il furto storico continua: dai Barberini, che si dice abbiano spogliato Roma più dei Barbari, alla Vodafone. [PA.BAI.]

DISABILI AL LAVORO? NO GRAZIE Già sapere che solo il 16% (circa 300mila individui) degli italiani con disabilità tra 15 i 74 anni ha un’occupazione, contro il 49% della media totale della popolazione, non è una buona notizia. Ma leggendo che invece, secondo il World Report on Disability, gli occupati tra i disabili in Malawi sarebbero il 42,3% e in Zambia il 45,5%, ci pare lecito essere preoccupati. Le cifre – diffuse in occasione della presentazione di una ricerca realizzata da G.I.D.P. (Associazione Direttori Risorse Umane) e Reatech Italia, la rassegna italiana in programma dal 10 al 12 ottobre 2013 al Mico in Fieramilanocity dedicata al mondo della disabilità – fotografano la realtà dell’inserimento lavorativo delle cosiddette “categorie protette”. Dei quasi 4mila direttori di personale associati a G.I.D.P., il 66,7% ritiene che la normativa non sia completa e adeguata, sostenendo perciò la tendenza, per ragioni economiche, ad avvalersi dell’esonero parziale dall’assunzione obbligatoria, ovvero pagando 11.184 euro all’anno al Fondo Regionale per ogni lavoratore disabile “non assunto”. Una via preferita dalle imprese sotto i 250 dipendenti, per un mercato del lavoro arretrato in cui solo il 4,8% dei direttori del personale sfrutta il telelavoro per l’impiego dei disabili. Eppure l’offerta c’è eccome (oltre 750mila persone), e i vantaggi economici non mancano: secondo l’ILO, inserendo pienamente queste risorse si potrebbe recuperare dall’1% al 7% di Pil a livello globale. [C.F.] | 56 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

LA CRISI NON TOCCA LE ECOMAFIE

IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE ITALIANO CRESCE ANCORA

Famiglie e imprese italiane pagano in prima persona il prezzo della crisi. Le ecomafie, nel frattempo, continuano a prosperare. È questo il quadro che emerge dal rapporto di Legambiente Ecomafia 2013, presentato a Roma il 17 giugno. Le cifre, riferite al 2012, sono eloquenti. 34.120 reati, 28.132 persone denunciate, 161 ordinanze di custodia cautelare, 8.206 sequestri. Poco meno della metà degli illeciti ambientali è concentrato in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, ma non mancano le regioni del Nord: anzi, aumentano i reati in Veneto, Lazio, Liguria, Toscana e Umbria. Per un giro d’affari, in mano a 302 clan, che vale 16,7 miliardi di euro. Gli illeciti contro animali e fauna selvatica sono quasi 22 al giorno e non si fermano gli incendi boschivi, in crescita addirittura rispetto all’anno-record 2011. Per non parlare dell’abusivismo, che nel 2006 rappresentava il 9% del valore del mercato delle costruzioni, e nel 2013 sfiorerà il 17%. D’altronde, spiega il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza, l’economia delle ecomafie «conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi. Le pene per i reati ambientali, infatti, sono quasi solo di tipo contravvenzionale e l’abbattimento degli edifici è un’eventualità remota». Tra il 2000 e il 2011 sono state emesse 46.760 ordinanze di demolizione, ma ne è stata eseguita solo una su dieci. [V.N.]

In questi anni di crisi gli italiani si sono abituati alle rinunce – anche difficili – sui consumi e all’attenzione minuziosa ai prezzi e alle offerte, ma non dimenticano il valore del commercio equo e solidale. Lo dimostrano i dati del report annuale di Fairtrade, presentato a Milano il 19 giugno. La crescita è a due cifre, con un +13,7% rispetto all’anno precedente, e il fatturato nel nostro Paese ha superato i 65 milioni di euro, triplicando nell’arco di dieci anni. Sono 5mila i punti vendita su tutto il territorio nazionale che forniscono i 720 prodotti a marchio Fairtrade: è un settore che coinvolge 130 aziende di produzione e trasformazione. Ma senza dubbio per il commercio equo e solidale resta ancora un ampio margine di crescita. Potremmo ad esempio seguire la strada dei nostri “vicini di casa” svizzeri, che ogni anno in media spendono 35 euro a testa in prodotti certificati, contro i 3 euro italiani. [V.N.]


| LASTNEWS |

UE, IL NORD EUROPA DICHIARA GUERRA AGLI SMARTPHONE Chiamate impossibili, conversazioni a singhiozzo, connessioni interrotte. Colpa dei telefoni cellulari di ultima generazione che, sempre più spesso, irrompono sul mercato prima di aver completato i test necessari. Lo sostengono otto diverse autorità nazionali delle telecomunicazioni (quelle di Danimarca, Estonia, Finlandia, Islanda, Lettonia, Lituania, Norvegia e Svezia), che, in una lettera fatta recapitare al direttore generale del dipartimento per l’impresa e l’industria della Commissione Ue Daniel Calleja Crespo, chiedono a Bruxelles l’introduzione di un sistema di certificazione sulle performance di ricezione dei vari modelli. Un sistema che, si legge nella lettera, «sulla scorta di quanto già sperimentato in altri settori, a cominciare dal consumo energetico, potrebbe garantire trasparenza dando ai consumatori l’opportunità di comparare i singoli modelli di telefono» e facendo diventare gli stessi standard di qualità “un parametro per la concorrenza”. «Al crescere della competizione – sostiene la società di ricerca danese Strand Consult – molti telefoni approdano sul mercato prima di essere stati completati e testati e i produttori correggono gli errori attraverso gli aggiornamenti del software soltanto dopo che il cliente li ha acquistati». [M.CAV.]

PORSCHE-VW, LA SENTENZA CHE FA SPERARE GLI HEDGE

LE VALUTE ESTERE INVADONO LA COREA DEL NORD

NICARAGUA COAST TO COAST: I SANDINISTI SFIDANO PANAMA

L’ex direttore finanziario della casa automobilistica Porsche Holger Haerter dovrà pagare una multa da 630 mila euro per aver fornito informazioni fuorvianti alla banca francese Bnp in occasione di una richiesta di prestito all’inizio del 2009. Lo ha riferito la Reuters. Haerter – ha stabilito la corte di Stoccarda – avrebbe nascosto nell’occasione il valore reale dei derivati sulle azioni Volkswagen detenute dalla sua società all’epoca del tentativo di scalata alla casa di Wolfsburg. La sentenza potrebbe avere conseguenze sulle cause intentate dai fondi hedge “beffati” nell’occasione dalla stessa Porsche (vedi Valori n. 107, marzo 2013). I fondi avevano tentato a partire dal 2008 di speculare al ribasso sul titolo VW ignorando l’accumulo di opzioni azionarie da parte di Porsche. Alla scoperta della reale posizione di quest’ultima (che controllava tra azioni e opzioni d’acquisto il 74% delle quote VW), i fondi, che per chiudere le proprie operazioni speculative dovevano riacquistare le azioni che avevano preso di mira, avevano dovuto adeguarsi alla penuria di titoli disponibili sul mercato trovandosi quindi costretti ad acquistarli a peso d’oro proprio da Haerter e soci. [M.CAV.]

La presenza di dollari, yuan e valute straniere in generale in Corea del Nord avrebbe ormai raggiunto livelli record rimarcando implicitamente la sostanziale incapacità del regime di mantenere il controllo del proprio fragile sistema economico. Lo ha sostenuto la Reuters citando una pluralità di fonti raccolte tra esperti stranieri, rifugiati politici e commercianti cinesi attivi lungo il confine. Nel 2009, il governo impose la rivalutazione della moneta locale, il won, stampando nuove banconote e limitando l’ammontare del denaro fuori corso che poteva essere convertito nel nuovo conio. Da allora, ricorda la Reuters, il won ha perso il 99% del suo valore nei confronti del dollaro scambiato sul mercato nero. Il crescente utilizzo di valuta estera, un reato punibile con la morte, rafforzerebbe così l’ipotesi avanzata qualche tempo fa dall’Economist circa il crescente peso di un’economia privata formalmente illegale eppure tollerata se non addirittura incoraggiata dallo stesso regime di Pyongyang (vedi Valori n. 107, marzo 2013, pag. 68). Il Samsung Economic Research Institute stima che il controvalore di valuta straniera circolante possa essere pari a 2 miliardi di dollari. Quasi il 10% del Pil nordcoreano. [M.CAV.]

Un lungo canale artificiale capace di collegare le due coste del Nicaragua consentendo così al Paese di rivaleggiare con Panama nel mercato delle rotte commerciali via mare. È il progetto approvato a giugno dal parlamento di Managua e fortemente sostenuto dal presidente Daniel Ortega. L’operazione, con un costo stimato di 40 miliardi di dollari, sarebbe stata affidata a una compagnia di Hong Kong, la HK Nicaragua Canal Development Investment, anche se i dettagli dell’appalto non sono stati resi noti. Il progetto, riferisce l’Associated press, trova al momento l’opposizione dei gruppi ambientalisti, preoccupati dell’impatto che la maxi opera potrebbe avere sul Lago Nicaragua, principale riserva d’acqua dolce del Paese. Altri ancora temono che l’opera potrebbe rivelarsi economicamente non conveniente tanto per l’impietoso confronto con il celebre Canale di Panama (lungo appena 50 miglia, ovvero un terzo del futuro omologo nicaraguense) quanto per le variabili congiunturali (la riduzione del traffico navale) e concorrenziali (la progressiva riduzione dei costi di tratte alternative più lunghe). Dubbi per nulla condivisi dal deputato sandinista Jacinto Suárez che ha definito “antipatriottica” l’opposizione al progetto. [M.CAV.]

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| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

SPORCARSI LE MANI PER CAPIRE LA CRISI Alessandro Rizzi, Anita Reboldi “PUNTOaCAPO”

Ci si può sporcare le mani, anzi ci si deve sporcare le mani per capire la realtà. Il documentario “PUNTOaCAPO”, scaricabile da internet gratuitamente (http://sporcarsilemani.com), è stato realizzato grazie alla disponibilità di professori, attivisti, professionisti e cittadini intervistati (Marica Frangakis, Ada Colau, Albert Sales Campos, Luciano Gallino, Aris Chatzistefanou, Pavlos Tsimas, Mario Pianta, Miren Etxezarreta, Manuel Estapé, Carla Peracchi, Matìas Gonzàlz, Xavi Teis), che hanno messo a disposizione il loro sapere e le loro esperienze per fare chiarezza e riordinare un po’ la storia, piuttosto confusa quando si parla di crisi economica. Le voci provenienti dalla periferia europea tracciano un identikit molto dettagliato dei responsabili della situazione in cui versa una parte del Vecchio Continente. Ci sono i media che hanno diffuso panico e paura, c’è la famigerata volontà dei mercati, ci sono le politiche economiche necessarie. Tutto per giustificare l’amara medicina, ovvero l’austerità, che ha impoverito ancor di più Stati come Grecia e Italia, troppo spendaccioni secondo Bruxelles, ma che è stata paradossalmente applicata anche a chi non aveva un problema di debito pubblico, come la Spagna. «Con la scusa della crisi si sta facendo la guerra ai poveri e non alla povertà. Questa non è una crisi, è una truffa».

I LIMITI DELL’EURO E UNA VIA D’USCITA DALLA CRISI

CREDITO E INNOVAZIONE: LE SFIDE DELLA MICROFINANZA

LA CREATIVITÀ È NEL DNA DEGLI ARTIGIANI

Quali sono le relazioni tra finanza ed economia reale? Come funziona l’eurosistema? Qual è stato il suo impatto sull’economia italiana? Come ha influito la crisi sui meccanismi di trasferimento della ricchezza tra i diversi Paesi? Di questo e altro si occupa “La moneta incompiuta”, un viaggio attraverso le problematiche più attuali della valuta continentale, i suoi meccanismi e le possibili soluzioni al problema. Dalla definizione dei concetti chiave fino all’analisi dello scenario “estremo” (quali i costi della discussa uscita dall’euro?), Marcello Minenna, docente di Finanza quantitativa alla Bocconi di Milano, arriva così alla proposta concreta: una mutualizzazione parziale del debito a sostegno dei titoli a breve scadenza capace di calmierare gli spread e rivitalizzare i portafogli bancari. Ma è solo il primo passo di un cambio di rotta regolamentare (a partire dal ruolo chiave dell’analisi degli scenari di probabilità) e politico nel processo di integrazione europea. Una nuova idea di Europa, insomma, attraverso un rinnovato governo dell’economia e un più efficace controllo della finanza.

Approfondire le molteplici questioni sociali, economiche e culturali che la microfinanza e il microcredito affrontano nella difficile lotta alla povertà e alla riduzione permanente dell’esclusione sociale e finanziaria. È l’obiettivo del volume “Dizionario di microfinanza. Le voci del microcredito”, un lavoro di oltre 800 pagine frutto del lavoro di 96 autori tra cui esperti, studiosi e operatori del settore italiani e internazionali. Inserita a pieno titolo tra le grandi innovazioni sociali della nostra epoca, la microfinanza si è rivelata una risposta efficace e sostenibile nell’azione di contrasto alla povertà e all’esclusione pur operando, a livello internazionale, in contesti sociali e culturali molto diversi. Alla fine del 2011 le istituzioni microfinanziarie nel mondo erano 3.703 con circa 195 milioni di clienti, molti dei quali sotto la soglia di povertà assoluta. In Europa il settore è cresciuto del 25% tra il 2010 e il 2011. In Italia, nonostante gli ostacoli tuttora esistenti, si è assistito a importanti passi in avanti anche se si attendono ancora i decreti attuativi che consentano alle istituzioni specializzate di ricevere un’autorizzazione a operare.

Le idee sono la vera linfa delle imprese. E dietro le idee ci sono le persone con i loro sogni, le aspirazioni e le paure. Questo libro non è solo un viaggio nel mondo delle imprese artigiane, durato ben otto anni, ma è la chiave per entrare nella testa della moltitudine di micro e piccoli imprenditori che rendono ricco, in tutti i sensi, il Paese. Fotografare la miriade di capannoni, officine e laboratori che compongono come tessere di un puzzle la Città infinita che corre sull’asse pedemontano, non basta. Se vuoi raccontare il cuore pulsante di un sistema manifatturiero, straordinario per qualità e capacità di reazione alle richieste del mercato, devi partire dai pensieri degli artigiani, dai loro percorsi creativi e dalle loro soluzioni. Da queste 80 interviste, realizzate tra il 2005 e il 2013, scaturisce una forza reattiva che ben giustifica l’appellativo di “spina dorsale” dell’economia del Paese. Uno spirito che si coniuga alla capacità di generare bellezza e cambiamento.

Marcello Minenna La moneta incompiuta. Il futuro dell’euro e le soluzioni per uscire dalla grande crisi. Introduzione di Nicoletta Rocchi, prefazione di Susanna Camusso, postfazione di Agostino Megale Ediesse, 2013 | 58 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

Giampietro Pizzo, Giulio Tagliavini (a cura di) Dizionario di microfinanza. Le voci del microcredito Carocci editore, 2013

Davide Ielmini (a cura di) L’impresa delle meraviglie. Un viaggio nei luoghi del fare Confartigianato Imprese Varese, 2013


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

LA VACANZA È GREEN GRAZIE A LEGAMBIENTE E AIAB Fare una vacanza a impatto zero, o quasi, non è sempre facile. Siamo bombardati da messaggi pubblicitari che puntano sul low cost più che sulla sostenibilità e in certi casi è difficile capire quali siano le strutture ricettive davvero attente al territorio. Da quest’anno a fornire una bussola sono Aiab (l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica) e Legambiente, che hanno unito le forze, integrando i loro protocolli già esistenti: quello di Aiab è dedicato agli agriturismi mentre quello di Legambiente si estende anche a campeggi e ristoranti. Ristorazione con prodotti biologici, di filiera corta o presidi Slowfood, efficienza energetica, risparmio idrico: sono questi alcuni dei criteri che devono rispettare le strutture per essere segnalate nella white list delle due associazioni, che si sono impegnate a condurre controlli annuali. A quel punto la strada per il turismo consapevole è in discesa. Tanto più perché, spiega il presidente di Aiab Alessandro Triantaphyllidis, gli agriturismi biologici ad esempio «non vanno più cercati col lumicino ma sono diffusi in tutt’Italia. E spesso non si fermano all’agriturismo ma avviano anche attività di fattoria didattica, agricoltura sociale, vendita diretta: e quindi sono aziende che riescono meglio di altre a sostenere la crisi». www.bioagriturismi.it - www.legambienteturismo.it

L’ESTATE CINEFILA DI SAN VITO LO CAPO

MIELE E COOPERAZIONE NEL VERDE DELLA MAREMMA

MODA E INTEGRAZIONE, GOMITO A GOMITO

Dopo una giornata sulla spiaggia di San Vito Lo Capo, una serata al cinema è l’ideale. Dal 9 al 14 luglio a offrirla è la quinta edizione di Siciliambiente Film Festival, la kermesse nata nel 2009 e che quest’anno prevede tre sezioni: animazioni e cortometraggi d’autore, documentari e mobilità sostenibile, quest’ultima in collaborazione con la Federazione italiana amici della bicicletta. Ma ci sarà spazio anche per gli eventi con Amnesty International e Greenpeace e per la partnership con le Acli. «È una vera e propria festa dedicata all’ambiente», spiega il direttore artistico Antonio Bellia, regista e membro del comitato scientifico per lo sviluppo sostenibile della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. Una festa a cui, vista la consistente percentuale di turisti, sono chiamate a confrontarsi persone di provenienza molto diversa a livello geografico e culturale. La location , d’altronde, non è scelta a caso. Perché il comune di San Vito Lo Capo è stato premiato da tempo da Legambiente con le Cinque Vele, dedicate ai paesi balneari che si distinguono in termini di tutela del territorio. E perché, continua Bellia, «la scuola siciliana del documentario è una fucina di talenti: il territorio è una fonte di ispirazione immensa e non mancano le strutture che supportino i giovani autori, come la Sicilia Film Commission». www.festivalsiciliambiente.it

«Non siamo una realtà ricca e ci basiamo soprattutto sul volontariato». Lo chiarisce da subito Bruno Pasini, presidente della cooperativa sociale Aristotele. Ma, pur senza grossi capitali, i risultati si vedono. Nella sua sede immersa nel verde di Campagnatico, in provincia di Grosseto, la cooperativa si occupa ormai dal 2004 di apicoltura e produzione di pappa reale. A dare il via all’iniziativa è stato il Copait (Associazione dei produttori italiani di Pappa reale), in collaborazione con Inail e Anmil. Ora i soci sono 23, nove dei quali sono persone con disabilità. «Il mestiere di apicoltore non è molto conosciuto – spiega Bruno Pasini – quindi può dare un’opportunità in più alle persone disabili, che si trovano a insegnarlo agli altri». Ma a mettersi alla prova con gli alveari sono anche una ventina di ragazzi della comunità Mondo Nuovo di Tarquinia, in via di recupero dalla tossicodipendenza, che hanno in cantiere il progetto di mettersi in proprio. E i corsi di formazione della Cooperativa Aristotele continuano, perché, afferma Bruno, c’è ampio spazio per l’ingresso di nuovi produttori: «La produzione della pappa reale sembra un settore marginale ma non lo è assolutamente. Basti pensare che in Italia si produce solo il 6-7% di ciò che si consuma: il resto viene importato, soprattutto dalla Cina». www.cooparistotele.com

I nomi, spesso, dicono molte cose. Un nome come “Gomito a gomito” nasce perché in Via del Gomito, a Bologna, ha sede la casa circondariale Dozza, e si è scelto di ribattezzare così il laboratorio di sartoria gestito nella sezione femminile dalla cooperativa Siamo Qua. E all’inizio, racconta Francesca Soverini, la socia che segue l’attività passo dopo passo, «lo spazio era talmente piccolo che bisognava sgomitare!». I prodotti di punta sono le borse (che, non a caso, si appoggiano proprio al gomito), che in molti casi sono pezzi unici elaborati a partire dai campionari di tappezzeria che Siamo Qua si fa donare da aziende e negozi, in modo da tagliare i costi e destinare la somma più consistente possibile agli stipendi delle detenute. Le borse attualmente sono vendute soltanto nei mercati rionali, ma la cooperativa è alla ricerca di negozi e Gas interessati a distribuirle. Anche perché sembrano piacere: sia a chi le compra («A volte torniamo a casa a mani vuote perché abbiamo venduto tutto, fino all’ultimo pezzo», spiega Francesca), sia alle detenute, che «si trovano di fronte una possibilità creativa e vi si buttano anima e corpo». www.gomitoagomito.com

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| bancor |

Europei o non europei

L’eterno dilemma di un Paese diviso

N

dal cuore della City Luca Martino

Unione europea, dal concordato di Roma appunto fino a quello di Lisbona, passando per i trattati di Merger, Schengen, Maastricht, Amsterdam e Nizza. Le negoziazioni durarono quasi una quindicina d’anni, fino all’adesione ufficiale del gennaio 1973: c’era da superare antichi rancori ed erano forti i timori per una possibile eccessiva influenza da parte degli Stati Uniti (vedasi il veto iniziale del generale De Gaulle), nonché le diffidenze di molti tra i Paesi del Commonwealth. Per di più erano anni duri per tutti, ma in particolare per i sudditi della regina Elisabetta: il loro tenore di vita era di molto inferiore a quello della media europea e la crisi petrolifera, un’inflazione galoppante e le rivolte continue dei minatori di carbone avevano indotto l’allora governo conservatore alla misura estrema della settimana lavorativa di sole tre giornate. Entrare nel Mec, pur tra mille difficoltà, era inevitabile e i trattati vennero ratificati in parlamento: tuttavia proprio in quelle settimane i laburisti annunciavano a larga maggioranza un voto referendario in caso di successo alle vicine elezioni nazionali. E quel primo storico referendum venne, in effetti, indetto subito dopo il voto, anche se la vittoria dei laburisti fu risicata. Il quesito era diretto: “Pensate che il Regno Unito

un fittizio cambio di gestione utile solo alla supervisione di un sistema di potere, dominato da industriali e banchieri, che resterà immutato nel tempo pur nell’alternarsi di vari governi». Oggi, in un contesto socio-economico per certi versi simile, il piano politico pare ribaltato rispetto a quarant’anni fa, con i laburisti su posizioni più europeiste e i conservatori, alle prese con una diaspora interna, acuita dalle clamorose sconfitte elettorali a vantaggio degli indipendentisti di destra, su posizioni molto più scettiche. E il referendum promesso entro il 2017 dal premier Cameron, inizialmente scettico all’idea di un voto popolare su una materia così delicata per gli equilibri internazionali del Paese, sarà uno spartiacque decisivo: un autorevole istituto di sondaggi ha recentemente rilevato che il 51% dei potenziali elettori è contrario alla permanenza nell’Unione europea e che due cittadini su tre non sembrano propensi a cambiare opinione di qui ai prossimi quattro anni. Tra questi certamente il vecchio Benn, se riuscirà a superare i 90 anni ovviamente, impresa che non è riuscita alla sua coetanea Margaret, anche lei antieuropeista convinta nonostante quel “sì” di quando non era ancora la Lady di ferro. 

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on è certo un caso se il primo (dei pochissimi) referendum tenutosi nel Regno Unito – eravamo nel 1975 – riguardasse l’Europa. L’adesione di Gran Bretagna e Irlanda del Nord ai trattati di Roma, che istituivano la Comunità economica europea (Cee) e il Mercato europeo comune (Mec), fu tanto travagliata quanto il compimento stesso dell’odierna

Il premier inglese Cameron ha annunciato, entro il 2017, un referendum sull’Ue. I cui esiti sono molto incerti debba restare nella Comunità e nel Mercato europeo comune?”. I principali sostenitori del “sì’”, che prevalse con il 67% dei voti, furono il premier Wilson, sostenuto dalla minoranza interna del suo partito, e la giovane leader dell’opposizione, Margaret Thatcher. Tra i sostenitori del “no” il più combattivo fu invece Tony Benn, forse il politico laburista più amato della storia parlamentare inglese del dopoguerra. «L’Europa di oggi è puro centralismo burocratico soggiogato agli interessi della Germania», diceva. «Se perdessimo, perderemmo la sovranità dei nostri parlamentari e del popolo che li elegge: il nostro status di democrazia rappresentativa servirà a

todebate@gmail.com | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 | valori | 61 |


| resistenze |

Donne e uomini, imprese che si indignano, protestano, resistono alla crisi

Frontiere hi-tech

La nuova rivoluzione è quella dei produttori rmai viviamo on line. Se non chattiamo scriviamo una mail. Se non aggiorniamo il nostro profilo Facebook controlliamo i nuovi tweet delle persone che seguiamo, leggiamo un articolo o guardiamo un film in streaming. Controlliamo su Google per vedere se è vero che Richard Strauss è parente di Johann Strauss (non lo è, e Richard con il valzer ha ben poco a che fare). Siamo figli o nipoti della rivoluzione tecnologica, dell’avanzata dei bit, che hanno cambiato il nostro modo di pensare, vedere, leggere, muoverci, occupare gli spazi della nostra casa. In realtà, come scrive Chris Anderson – storico direttore di Wired – nel suo libro “Makers”, l’economia degli atomi, dei prodotti che si toccano con mano, è ancora molto più grande di quella dei bit. Per 5 dollari prodotti con l’economia degli atomi solo 1 viene prodotto dal mondo della rete. E difficilmente le proporzioni si invertiranno, perché per vivere abbiamo bisogno di prodotti fatti di materia e le nazioni vere continueranno a produrre cose vere. Ora però siamo alla soglia di una nuova era. Con le nuove stampanti 3D si possono concepire prodotti su un computer, condividerne le caratteristiche in rete, migliorarli con l’apporto di tutte le conoscenze degli utenti della rete in tutto il mondo e produrli semplicemente inviando il progetto a una stampante 3D. Il numero di pezzi prodotti dipende solo da quanto siamo disponibili a strisciare la nostra carta di credito. La rivoluzione digitale si prepara a sposarsi con la produzione per diventare manifattura digitale diffusa, artigianato digitale. È il meraviglioso mondo dei makers, pionieri di un sistema di produzione decentrato che, nei prossimi venti anni, potrebbe cambiare per sempre il modo in cui sono fatte le cose, rendendole meno costose e annullando la distanza tra produttori e consumatori. Un po’ come sta succedendo nel campo dell’energia, dove con i pannelli solari posso produrre l’energia che serve la mia casa e rivendere l’elettricità in eccesso alla rete. Nel mondo esistono già un migliaio di makerspace, impianti di produzione condivisi. Etsy, un mercato on line per i makers, ha superato i 22 milioni di utenti con un volume di vendite di quasi 900 milioni di dollari (www.etsy.com). I numeri stanno crescendo a ritmo esponenziale, ma siamo ancora poco oltre i garage e le cantine. Il mondo digitale ha però il potere di accelerare i fenomeni e le tendenze e tra pochi anni potremmo trovarci nel mezzo di una nuova rivoluzione industriale. Della quale, in qualche modo, potremmo essere tutti protagonisti. 

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| 62 | valori | ANNO 13 N. 111 | LUGLIO/AGOSTO 2013 |

di Mauro Meggiolaro

Makers • www.makerfairerome.eu L’idea Dal 3 al 6 ottobre si terrà a Roma la fiera europea dedicata all’inventiva e all’intraprendenza dei maker e dei creativi tecnologici. A Milano, dal 9 all’11 novembre si terrà la nuova fiera dei maker italiani (www.makersitaly.it). L’angolo italiano Il contributo essenziale dell’Italia al movimento dei maker è costituito da Arduino. È un framework open source che permette la prototipazione rapida e l’apprendimento veloce dei principi fondamentali dell’elettronica e della programmazione, composto da una piattaforma hardware per il physical computing sviluppata presso l’Interaction Design Institute, un istituto di formazione post-dottorale con sede a Ivrea, fondato da Olivetti e Telecom Italia. Il nome della scheda deriva da quello di un bar di Ivrea (che richiama a sua volta il nome di Arduino d’Ivrea, Re d’Italia nel 1002) frequentato da alcuni dei fondatori del progetto. www.arduino.cc

Il framework open source Arduino

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