Mensile Valori n. 108 2013

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 108. Aprile 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

PUBLISTAMPA / LARA LEONARDELLI

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Nelle loro mani Poche grandi aziende reggono le fila dell’economia mondiale. E non solo Finanza > In Europa c’è chi inizia a introdurre qualche regola alla finanza. Non l’Italia Economia solidale > I giochi dei colossi del farmaco per guadagnare sempre di più | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna. L’austerity sta distruggendo i Pigs


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| editoriale |

Come se nulla fosse successo di Andrea Di Stefano

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entoquarantasette aziende controllano il 40% dei ricavi dell’azienda mondo. Mentre i Paesi occidentali e centinaia di milioni di persone fanno i conti con una crisi che non ha nulla da invidiare a quella del 1929, le grandi corporation continuano a macinare ricavi e profitti e, soprattutto, condizionano con le loro politiche le scelte dei decisori pubblici. Nelle prime cento entità economiche a livello globale 44 sono aziende che realizzano un giro d’affari complessivamente molto più grande di Paesi come la Norvegia. La parte del leone la fanno ancora i colossi finanziari, gli stessi che hanno originato e amplificato la crisi: Barclays, Ubs, Axa, Jp Morgan Chase, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Credit Suisse, Nomura. Per loro non è ancora cambiato nulla: incuranti delle nuove regole imposte in Usa, Europa e persino in Asia o delle campagne contro gli eccessivi compensi ai manager, i vertici di Credit Suisse o Deutsche Bank hanno deciso di incrementare ancora i bonus “per rimanere competitivi sul mercato”. Ma di quale mercato stanno parlando? Dello stesso salvato con oltre 30.000 miliardi di dollari dai governi e Fmi, quasi tutti destinati a evitare il crack di banche, assicurazioni e operatori finanziari? La crisi, globale e profonda, corre il rischio di trasformarsi in declino perché, nel frattempo, il sistema si sta ristrutturando con l’affermazione di un capitalismo di Stato con una forte programmazione nelle politiche e negli investimenti. La sfida lanciata dalla Cina non ha bisogno di ulteriori commenti: Pechino ha definito i settori strategici sui quali investire a livello globale, nella convinzione che si affermerà il modello di pochi gruppi in grado di controllare tra il 60 e il 90% della produzione mondiale. La Cina vuole esserci ed è pronta a mettere in campo tutti gli strumenti finanziari indispensabili per sostenere logiche di espansione, sia per via interna che esterna, cioè mediante acquisizioni. Gli Stati Uniti, e in misura diversa il Regno Unito, continuano sulla strada del controllo dei flussi dell’abnorme sistema finanziario virtuale che è ancora nelle mani di cinque società che detengono il 90% degli oltre 800.000 miliardi di derivati e prodotti connessi, senza dimenticare gli effetti di una politica energetica puntata sullo shale gas che sta assegnando agli Usa una nuova inedita centralità nel campo dell’energia. Per ora fuori dai giochi risulta essere l’Unione europea, schiacciata dalle politiche di austerity e dall’incapacità di trasformare alcune linee di programmazione in azioni concrete. Senza un’idea chiara di redistribuzione dei gravissimi squilibri all’interno dei Paesi più ricchi non sarà possibile alcuna prospettiva reale di arginare il declino: l’aumento delle disuguaglianze tra i redditi è anche l’esito inevitabile di comportamenti che hanno premiato la ricerca di una rendita piuttosto che l’investimento produttivo. Meno investimenti produttivi e più disuguaglianze nei redditi hanno minato profondamente le economie avanzate. Un combinato disposto assolutamente esplosivo: non solo risulta indebolita la domanda aggregata, ma tendono anche a indebolirsi i presupposti per la costituzione di una base produttiva ad alto potenziale di crescita, nella quale siano incorporati nuovi saperi e innovazione. In un contesto nel quale investire equivale ad andare alla ricerca della miglior posizione di rendita finanziaria, anche il sistema del credito risulta distorto venendo a mancare quella fondamentale attività di prestito alle imprese per la realizzazione di investimenti nel settore dei beni reali.  | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 3 |



| globalvision |

Record inutili

Il prezzo sociale della ripresa americana ecentemente, il 5 marzo scorso, il Dow Jones, il più vecchio indice di Wall Street, ha fatto registrare il nuovo record storico. Il precedente risale a ottobre 2007, poco prima che la crisi subprime, scoppiata nell’estate di quell’anno, dispiegasse i suoi devastanti effetti. Lo stesso giorno il Wall Street Journal, organo “ufficiale” dei mercati finanziari, segnalava

R

di Alberto Berrini

che a New York ben 50 mila individui (di cui 21 mila bambini!) dormono ogni notte nei centri di accoglienza. Molti di più di ciò che accadeva nel 2007 (+22% solo nell’ultimo anno). Dunque, da un lato, il mondo della finanza, che in pochi anni riesce a riassorbire le pesanti turbolenze che l’hanno caratterizzato (dopo la Grande Depressione del ’29, il Dow Jones dovette aspettare il 1954 per far registrare un nuovo record); dall’altro una devastazione sociale che non si arresta. Anzi simbolicamente appare così vicina geograficamente a quei centri finanziari che sono stati la prima e più importante causa dello scoppio della crisi. In definitiva i due dati, ossia i “numeri” della Borsa e quelli dei senza-tetto, dicono chiaramente chi ha superato o non superato la crisi, ma soprattutto come essa è stata affrontata. Dietro il miracolo del Dow Jones non c’è, infatti, un’economia reale in piena ripresa, ma la Fed (Banca centrale americana), che dal 2007 ha immesso oltre duemila miliardi di dollari nel sistema finanziario e che ancora oggi acquista titoli di Stato e bond immobiliari per 85 miliardi al mese. Si è così arrivati al paradosso di affrontare una crisi generata da un eccesso di liquidità predisponendo nuove iniezioni di liquidità, che hanno fi-

mangono negative o quanto meno incerte. Inoltre, anche laddove vi sono chiari segnali di ripresa, sono i profitti aziendali ad avvantaggiarsene, mentre poco o nulla va ai salari. È ciò che Paul Krugmann sul New York Times ha definito “il crescente scollamento tra produttività e salari”. «Non solo i lavoratori non riescono a condividere i frutti della propria produttività in aumento, ma centinaia di miliardi di dollari si stanno accumulando nelle casse delle imprese che, di fronte a una domanda debole dei consumatori, non vedono alcuna ragione per mettere quei dollari al lavoro». In altre parole i bilanci aziendali che straripano di denaro non conducono a nuovi investimenti, ma solo a maggiori dividendi per gli azionisti. In definitiva azioni che salgono di prezzo e ripresa che non c’è, o che quanto meno non è in grado né di riassorbire a sufficienza la disoccupazione creata dalla crisi, né a determinare incrementi salariali. Il peggiore dei mondi possibili per lavoratori e ceto medio in genere. Ma anche un gioco che non può durare a lungo e che condurrebbe inevitabilmente a una nuova pesante ricaduta nei mercati finanziari. Al contrario serve consolidare la ripresa ridistribuendo ricchezza e riportando la finanza al servizio dell’economia reale. 

Mentre il Dow Jones arriva ai massimi dal 2007, a New York 50 mila persone vivono nei centri di accoglienza nito per incoraggiare le propensioni speculative dei mercati finanziari. La crisi, almeno da questo punto di vista, non ha determinato alcun cambio di paradigma economico: è ancora la finanza, o meglio “la droga finanziaria”, il mezzo principale per tamponare le falle di un sistema economico che stenta a ripartire. A dimostrazione di ciò basta osservare che l’“effetto ricchezza” non c’è, ossia non sta avvenendo un incremento di consumi figlio dell’aumento del reddito dei consumatori, bensì dipeso dai guadagni di Borsa di questi ultimi. L’effetto ricchezza innalza, infatti, la propensione al consumo delle famiglie agendo sulle loro aspettative, che, attualmente, vista la condizione dell’economia reale, ri-

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PUBLISTAMPA / LARA LEONARDELLI

| sommario |

aprile 2013 mensile www.valori.it anno 13 numero 108 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Drenth/Hollandse Hoogte, John Harris (Contrasto); Arnd Wiegmann, Ben Job, Brendan McDermid, Vasily Fedosenko (Reuters)

Chi è il burattinaio che regge i fili del mondo? Relativamente poche grandi imprese, che, grazie a una vasta e solida rete di relazioni e a un giro d’affari superiore al Pil di molti Paesi, riescono a influenzare, non solo l’economia mondiale, ma anche la politica.

globalvision fotonotizie dossier Nelle loro mani

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La rete del controllo Le prime della classe Il socialismo di mercato della prima potenza mondiale Se la mia Patria si chiama Multinazionale Ricchezza o pericolo?

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 27 marzo 2013 in posta: 2 aprile 2013

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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Finanza senza regole. C’è chi dice “no” La Ttf non fa male alla Borsa Microcredito. Troppo micro e poco profit

28 33 34

megasocietà economiasolidale

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L’affaire Donepezil: guadagnare miliardi puntando sul 23 Frutta e verdura farmaci del futuro Per essere belli non servono gli animali Il divano tricolore si è fermato a Chinitaly Etica, design, ambiente: tre idee anticrisi A Piazza d’Arti, L’Aquila che resiste

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socialinnovation internazionale

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Europa, non si uccidono così anche i “maiali”? Panunzi: «La soluzione all’austerity passa dalla Germania» Venezuela, gli orfani di Chávez

56 60 63

equocommercio altrevoci bancor resistenze

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Lettere, contributi, informazioni, promozione, amministrazione e pubblicità Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano - tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it / segreteria@valori.it - www.valori.it

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| fotonotizie |

È stata inaugurata a marzo la più grande centrale solare a concentrazione del mondo. L’impianto – Shams 1 – sorge negli Emirati Arabi Uniti e darà energia a circa 20 mila famiglie. È stato costruito in tre anni da un consorzio composto dal gruppo Masdar di Abu Dhabi, dalla francese Total e dalla spagnola Abengoa (costo, circa 600 milioni di dollari). «La nostra regione deve far fronte a un bisogno crescente di energia, e deve sforzarsi di ridurre la propria impronta ecologica», ha spiegato Ahmed Al Jaber, presidente di Masdar. Il Medio Oriente, infatti, si è da sempre concentrato sullo sfruttamento delle energie fossili, anziché sulle rinnovabili: ora, l’obiettivo di Abu Dhabi è di raggiungere il 7% di produzione “verde” entro il 2020. Sempre nel mese di marzo Siemens Energy ha annunciato l’apertura in Danimarca di due importanti laboratori di ricerca e sviluppo nel settore eolico. Si tratta di un complesso che, per dimensioni e campi di applicazioni, si candida a diventare il più importante del mondo: le strutture permettono la realizzazione di test in scala reale anche per le pale più grandi in servizio (la cui lunghezza è di 75 metri). «Così – ha dichiarato il presidente della divisione dedicata all’eolico di Siemens Energy, Felix Ferlemann – ridurremo i rischi di problemi tecnici all’atto della realizzazione degli impianti». Le aziende sembrano dunque puntare sempre più sulle fonti rinnovabili. I dati economici, d’altra parte, dicono che i mercati legati ai biocarburanti e ad energie come solare ed eolico raddoppieranno quasi il loro valore nel prossimo decennio, passando dai circa 249 miliardi di dollari dello scorso anno ai 426 miliardi del 2020. Le cifre sono contenute in uno studio del centro di ricerca Clean Edge (USA) secondo il quale – nonostante un 2012 difficile – in tutto il mondo le potenze complessive di parchi eolici e fotovoltaici hanno continuato a crescere. [A.BAR.]

[L’inaugurazione dell’impianto Shams 1 ad Abu Dhabi, il 17 marzo 2013].

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REUTERS / BEN JOB

Il solare da record negli Emirati Arabi


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| fotonotizie |

I Gas sotto la lente

[I membri del Gasotto alle prese con un baratto di vestiti e oggetti vari in cascina. I Gruppi di acquisto solidale non si riuniscono solo per “fare la spesa” dai fornitori di frutta e verdura, ma spesso organizzano altre attività insieme: culturali o, come in questo caso, di recupero per ritrovare buone pratiche].

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ANDREA CALORI

Tre anni di lavoro capillare attraverso tutta la Lombardia, contattando 400 Gruppi d’acquisto solidale e analizzando i comportamenti di quasi la metà di loro, e le strategie d’acquisto e di consumo. Ma non solo. Il valore della ricerca – condotta dall’Osservatorio Cores, Gruppo di ricerca su consumi, reti e pratiche di economie sostenibili dell’Università di Bergamo, seguita in collaborazione stretta con il Tavolo nazionale delle Reti di economia solidale – sta innanzitutto nella metodologia, che ha permesso di coinvolgere fino al 30% dei componenti dei Gas (1.613 persone), e nei contenuti dei dati raccolti, che hanno riguardato anche i background di provenienza etico-politica dei “gasisti” e le loro motivazioni. Una ricerca approfondita e in via di conclusione mentre scriviamo ma che già offre dati su cui riflettere: il 93,7% dei gasisti ha fatto parte di altre associazioni e negli ultimi due anni è stato politicamente attivo in campagne di opinione (l’80% di loro partecipando a quella sull’acqua pubblica, il 64,1% a quelle contro il nucleare, il 51,7% sulla scuola pubblica, il 41,2% contro le mafie, il 35% sul lavoro e il 36,7% per i diritti degli immigrati). Ben il 62% dei gasisti organizza attività locali rivolte alla cittadinanza, con incontri sull’agricoltura sostenibile o per far conoscere i produttori. Francesca Forno, docente di sociologia dei consumi all’Università di Bergamo, ci anticipa come l’analisi del mondo Gas lombardo configuri esperienze che vanno ben oltre una scelta di acquisti responsabili, prefigurando in essi una sorta di “palestra di democrazia”. Una ipotesi che andrà dimostrata a fine dell’indagine, e messa al vaglio da una sua prossima replica in Sicilia e Friuli Venezia Giulia. [C.F.]


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| fotonotizie |

Asma, l’inquinamento è come il fumo passivo

[Bambini che attraversano la strada a Ipswich, nella contea di Suffork, in Gran Bretagna. Un volontario li aiuta, appena usciti da scuola, a evitare i pericoli delle macchine in arrivo. Ma esistono altri pericoli per la salute dei piccoli nascosti nel traffico cittadino: è l’inquinamento dei gas di scarico. Lo dimostra la ricerca citata in questa notizia].

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JOHN HARRIS / REPORT DIGITAL-REA / CONTRASTO

Negli ultimi anni si è fatto molto, giustamente, per vietare il fumo negli ambienti pubblici. Ma non basta. Per tutelare la salute, soprattutto quella dei più piccoli, bisognerebbe anche cercare di trasformare le nostre città in ambienti più sani, scoraggiando il traffico veicolare che compromette pesantemente l’aria che respiriamo. A suggerirlo è un rapporto pubblicato alla fine di marzo nell’ambito di Aphekom, un’iniziativa di durata triennale sull’inquinamento atmosferico, finanziata dal programma dell’Unione europea per la salute. La ricerca – pubblicata sullo European Respiratory Journal – analizza la qualità dell’aria in dieci città del Vecchio Continente. E per la prima volta stabilisce un legame di causa-effetto tra l’inquinamento atmosferico e l’insorgenza di asma cronica in età infantile (e non più, com’era stato fatto finora, soltanto alla comparsa di alcuni sintomi). Secondo la rilevazione di Aphekom, sui casi cronici influiscono specifici agenti tossici rinvenuti sulle strade intensamente trafficate dove si affacciano le case di buona parte dei cittadini dell’Unione. I dati dei ricercatori stimano che l’inquinamento sia alla base addirittura del 14% dei casi. Una percentuale simile a quella, compresa fra il 4 e il 18%, che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità si può imputare al fumo passivo. «Dovremmo tenere ben presenti questi dati per indirizzare al meglio le politiche ambientali e di pianificazione urbanistica», ha dichiarato Laura Perez, autrice dello studio e ricercatrice presso lo Swiss Tropical and Public Health Institute. [V.N.]


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dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Corrado Fontana, Valentina Neri

Come la tela di un ragno, le grandi imprese tessono relazioni, che danno loro potere, non solo economico.

La rete del controllo > 16 Le prime della classe > 17 La Cina e il socialismo di mercato > 20 Se la mia Patria si chiama Multinazionale > 22 Fondi sovrani. Ricchezza o pericolo? > 24


REUTERS / VASILY FEDOSENKO

Nelle loro mani

Poche decine di grandi imprese tirano le fila dell’economia mondiale. Grazie a solide reti e a una ricchezza superiore al Pil di molti Stati. Un’influenza che supera la dimensione economica


dossier

| nelle loro mani |

La rete del controllo di Valentina Neri

studio condotto alla fine del 2011 da Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston del Politecnico di Zurigo, dal titolo The Network of Global Corporate Control. Un lavoro scientifico che giunge a una conclusione: a governare il sistema è un gruppo estremamente ristretto di società dall’enorme potere.

Poche, potenti e interconnesse

Uno studio del Politecnico di Zurigo disegna la trama del potere: un ristretto gruppo di imprese, grazie a una rete di partecipazioni e relazioni, controlla l’economia mondiale. In questo modo ottengono una massa di potere enorme, che ha influenze anche in ambito politico l sistema economico globale altro non è che il mondo in cui viviamo. I colossi che dominano le piazze borsistiche sono gli stessi a cui affidiamo i nostri risparmi, o gli stessi che ci riempiono il carrello della spesa con i loro prodotti. Di questo mondo crediamo di

I

LE 50 AZIENDE CHE TIRANO LE FILA DEL MONDO Secondo lo studio del Politecnico di Zurigo queste sono le 50 aziende al centro della rete di interconnessioni che regge le fila dell’economia mondiale: 1. Barclays 2. Capital Group Companies 3. Fmr Corporation 4. Axa 5. State Street Corporation 6. JP Morgan Chase 7. Legal & General Group plc 8. Vanguard Group Inc 9. Ubs 10. Merrill Lynch 11. Wellington Management 12. Deutsche Bank 13. Franklin Resources 14. Credit Suisse 15. Walton Enterprises 16. Bank of New York Mellon 17. Natixis 18. Goldman Sachs Group 19. T Rowe Price Group 20. Legg Mason 21. Morgan Stanley 22. Mitsubishi * nel database del 2007 esisteva | 16 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

sapere tutto. E possiamo stupirci se realizziamo che, in realtà, sono tante le domande a cui è difficile rispondere. Quali soggetti tengono le redini del potere economico? Come sono collegati l’uno all’altro? Si può misurare il loro peso? Ha affrontato questi interrogativi uno 23. 24. 25. 26. 27. 28. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50.

Northern Trust Société Générale Bank of America Lloyds TSB Invesco Allianz Old Mutual Aviva Schroders Dodge & Cox Lehman Brothers Holdings* Sun Life Financial Standard Life Cnce Nomura The Depository Trust Company Massachusetts Mutual Life Insurance ING Brandes Investment Partners Unicredito Italiano Deposit Insurance Corporation of Japan Vereniging Aegon Bnp Paribas Affiliated Managers Group Inc Resona Holdings Inc Capital Group International Inc China Petrochemical Group Company

Partendo da un database di 37 milioni di aziende e investitori, gli autori dello studio hanno estratto 43 mila multinazionali e hanno individuato tutte le partecipazioni azionarie che le collegano. Hanno così ritagliato un nucleo di 1.318 aziende strettamente interconnesse che controllano circa metà di tutte le multinazionali. All’interno di questo nucleo ci sono 147 entità (soprattutto banche, assicurazioni e fondi d’investimento) che, a livello prettamente numerico, sarebbero solo una briciola del totale, ma, da sole, controllano il 40% dei ricavi operativi della rete. «Il nostro interesse è scientifico e non vogliamo dare una lettura ideologica», precisa Stefania Vitali. Ma sorgono molte questioni. Una fra tutte: se le aziende sono così dipendenti l’una dall’altra, cosa succede se una di loro fallisce? Si tratta di una lezione che avremmo dovuto imparare con la crisi finanziaria, che ha costretto i governi a intervenire di tasca propria per evitare che il tracollo di una cosiddetta too big to fail trascinasse con sé l’intero settore. E ha fatto ripetere ai regolatori di tutto il mondo (l’ultimo in ordine di tempo è stato il presidente della Fed di Dallas, Richard Fisher) che le grandi banche dovrebbero suddividersi in una serie di istituti più piccoli. A cinque anni di distanza le società finanziarie fanno la parte del leone nel nucleo delle 147 aziende che reggono il sistema. E sembrano tutt’altro che ridimensionate. Basti pensare che negli Stati Uniti – ha reso noto la Fed di Dallas – ci sono 5.600 banche commerciali, ma il 69% degli asset è in mano soltanto a 12 di loro. Stefano Battiston, in un altro studio pubblicato da Nature e promosso, come il primo, dal progetto europeo Forecasting Financial Crises, ha elaborato un


| dossier | nelle loro mani |

LE TOP 200 IN CIFRE 1996 Dipendenti

Fatturato (miliardi di $)

Profitti (miliardi di $)

18.051.710

2011 35.884.504

6.897,47

17.494,54

253,66

576,61

modello che spiega come le banche, oltre che troppo grandi, siano anche troppo interconnesse: ogni shock sul bilancio di un istituto è destinato a ripercuotersi sugli altri. Ma questo principio non vale solo per gli istituti di credito. In un sistema che vive di partecipazioni incrociate si può verificare molto più facilmente un effetto domino che fa sì che una crisi si diffonda a livello mondiale.

Le influenze sulla politica Per giunta, si può davvero parlare di concorrenza se il mercato è dominato da un pugno di colossi dai ricavi astronomici? E soprattutto se, come accade innumere-

VARIAZIONE TRA IL 1996 E IL 2011 DI DIPENDENTI, FATTURATO E PRODOTTI DELLE TOP 200 1996 Dipendenti

                  $$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$ $$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$

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★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ ★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ ★★★★★★★★

Fatturato

Profitti

2011

                                   

In molti casi le grandi imprese hanno una ricchezza superiore a quella di alcuni Paesi. Impossibile non pensare a un’influenza sulle regole stabilite dai governi voli volte, le aziende più importanti investono le une nelle altre e magari condividono alcuni membri del Cda? Se le maglie della rete sono così strette, continua Battiston, «possono nascere delle condivisioni di interessi. E un gruppo di soggetti di questo peso può avere una grande forza nell’affermare questi interessi di fronte ai legislatori».

Una forza sproporzionata rispetto, ad esempio, a quella dei lavoratori, o delle popolazioni locali. Basta guardare alle elezioni presidenziali statunitensi. Stando a Opensecrets.org, per quelle del 2012 che hanno visto la riconferma di Obama le donazioni dei soli colossi petroliferi hanno superato i 137 milioni di dollari. Quelle del mondo della finanza, delle assicurazioni e dell’immobiliare hanno raggiunto i 646 milioni. In entrambi i casi una netta maggioranza è andata ai repubblicani. «Abbiamo quindi un gruppo di attori rilevanti da un punto di vista economico perché, se si trovano in difficoltà, devono essere salvati tutti insieme. Lo sanno e quindi si

Le prime della classe Una carrellata delle prime multinazionali in termini di fatturato per ogni settore di attività ROYAL DUTCH SHELL

WALMART Posizione nella classifica generale: 1 Sede della holding: Usa Comparto: grande distribuzione Il colosso mondiale della vendita al dettaglio, con quasi 11 mila punti vendita in 27 Paesi, è anche primo della lista tra tutte le multinazionali per fatturato: 422 miliardi di dollari nel 2011, 16 miliardi di utili e 2 milioni di dipendenti. Nel suo consiglio di amministrazione c’è anche un ex presidente e Ceo di Coca-Cola, un ex presidente di Kpmg e l’attuale presidente e Ceo di Yahoo!, Marissa Mayer, nota per aver tolto recentemente ai propri impiegati la possibilità di svolgere il telelavoro. Walmart è stata spesso accusata di garantirsi il successo commerciale – e spese ridotte – attraverso l’impiego di operai non specializzati o part-time, l’opposizione all’ingresso dei sindacati tra i dipendenti, la vendita di merce prodotta a basso costo in Paesi dove è frequente lo sfruttamento dei lavoratori e la loro mancata tutela (vedi Valori di marzo sulle fabbriche tessili in Bangladesh e Pakistan), oltreché l’impiego di minori.

Posizione nella classifica generale: 2 Sede della holding: Olanda Comparto: petrolifero Presente in 90 Paesi del mondo, è una delle famose Sette sorelle e seconda assoluta per fatturato tra le multinazionali: 378 miliardi nel 2011, con 20 miliardi di utile e 97 mila dipendenti. Integra attività di upstream (esplorazione, estrazione e raffinazione di petrolio e gas naturale) e downstream (commercializzazione e distribuzione al dettaglio e industriale) e un comparto chimico (Shell Chemicals), che tratta i derivati dagli idrocarburi. Ha accantonato altri business (energia nucleare, carbone, metalli, generazione di energia), investendo invece ultimamente in solare, eolico e idrogeno. Controllata dalle holding Royal Dutch Petroleum Company dei Paesi Bassi (di cui è azionista la famiglia reale olandese) e The Shell Transport and Trading Company del Regno Unito, ha rinunciato solo di recente alle trivellazioni nell’Artico, ma rimane al centro delle critiche per lo sfruttamento e l’inquinamento del Delta del Niger e accusata in diverse parti del mondo di violazioni dei diritti umani e danni all’ambiente.

STATE GRID Posizione nella classifica generale: 7 Sede della holding: Cina Comparto: elettricità e infrastrutture Di proprietà della Repubblica Popolare di Cina, ha un fatturato che supera il bilancio pubblico di Corea del Sud, Austria e Turchia: 226 miliardi di dollari nel 2011, 4 miliardi di utili con un milione e mezzo di dipendenti. Opera in un settore in pieno sviluppo: la realizzazione di reti di trasmissione di energia e le telecomunicazioni, in cui, secondo uno studio del Worldwatch Institute, ha investito 3,2 miliardi dollari nel 2012 e nel 2013 potrebbe diventare il mercato più grande del mondo, superando gli Usa. Ha programmato investimenti per 601 miliardi dollari in infrastrutture di trasmissione elettrica da qui al 2020, di cui 101 miliardi saranno destinati alle tecnologie smart grid, reti elettriche “intelligenti”. State Grid oggi promuove i temi della responsabilità sociale d’impresa sostenendo il valore di sviluppo dell’infrastrutturazione elettrica massiccia delle campagne cinesi.

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comportano di conseguenza. Per ultimo, sono molto importanti a livello politico e quindi sono in grado di influenzare il processo di formazione delle regole del gioco», riassume Battiston.

Più ricchi degli Stati Le potenze globali, in sintesi, sono poche. E private. Nella graduatoria delle prime 100 economie del mondo, i primi nomi non riservano sorprese (Usa, Cina, Giappone, Germania, Francia, Uk, Brasile, Italia, ecc.), ma al 25° posto, fra Taiwan e Norvegia, si incontra un’impresa: Walmart. Al 28° e al 31°, Royal Dutch Shell ed ExxonMobil. Il Centro nuovo modello di sviluppo, nel rapporto Top 200 - La crescita del potere delle multinazionali, ha messo in fila le prime 100 potenze mondiali, tra Stati (in ordine di Prodotto interno lordo) e imprese (elencate per fatturato). Risultato: nelle prime cento posizioni le aziende sono 44 (vedi TABELLA nella pagina seguente e la MAPPA a pag. 38). In quest’elenco l’Africa è praticamente assente. Compaiono invece i colossi dell’energia e delle materie prime che vivono delle sue risorse. Ma come si può comportare uno Stato di fronte ad un’azienda che ha un fatturato superio-

MULTINAZIONALI MADE IN ITALY Nell’elenco delle prime 200 imprese nel mondo, per fatturato, stilato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, a fare la parte del leone sono gli Stati Uniti, che vantano 59 società; seguiti dal Giappone, a quota 24, e dalla Cina con 19 aziende. L’Italia compare nell’elenco con due colossi dell’energia e degli idrocarburi, come Eni ed Enel, rispettivamente al 23mo e al 56mo posto. Nel 2011 Eni ha fatturato 109,6 miliardi di euro, con un utile di 6,86 miliardi; mentre il volume d’affari di Enel ha raggiunto i 79 miliardi di euro. Le altre aziende italiane presenti nella lista fanno tutte parte, a vario titolo, del mondo della finanza. Alla 33ma posizione si incontrano le Assicurazioni Generali, precedute dalle concorrenti straniere Axa, Ing e Allianz. All’83mo posto invece c’è Exor Spa, la holding finanziaria controllata dalla famiglia Agnelli, che – accantonato il turismo con la cessione della quota di Alpitour – è azionista di maggioranza di Fiat e Juventus e detiene diverse partecipazioni internazionali tramite la holding lussemburghese omonima. Si trovano invece nella seconda metà della graduatoria le due più grandi banche della Penisola, Unicredit e Intesa San Paolo. V.N.

re al suo intero Prodotto interno lordo? Angelica Bonfanti, ricercatrice all’Università degli Studi di Milano, ha analizzato diversi scandali (di cui ci siamo occupati anche su Valori): uno fra tutti, quello di Shell nel Delta del Niger. «Una multinazionale ha la possibilità di contribuire enormemente alla crescita di un Paese in via di sviluppo – spiega – se rispetta tutti gli standard in termini di tutela del territorio e del lavoro. Ma perché le cose vadano bene deve esserci un’in-

tesa sinergica tra l’impresa e il Paese in cui opera. Ci sono dei casi invece in cui le multinazionali hanno la possibilità di fornire un grosso ritorno economico in breve tempo, ad esempio tramite le concessioni petrolifere. E dall’altra parte ci sono governi strutturalmente dipendenti dagli investimenti esteri che, pur di intascarne i proventi, magari sono disposti a chiudere gli occhi di fronte a gravi violazioni dei diritti umani o a pesanti danni all’ambiente». 

TOYOTA MOTORS

AXA

Posizione nella classifica generale: 8 Sede della holding: Giappone Comparto: automotive

Posizione nella classifica generale: 14 Sede della holding: Francia Comparto: assicurativo

Tornato gruppo automobilistico leader nel 2011, dopo un breve sorpasso di Volkswagen-Bmw, produce circa 9 milioni di vetture l’anno e prende il nome dal fondatore Toyoda e ha base nella cittadina di Nagoya. Nel 2011 ha raggiunto i 221 miliardi di fatturato, 4 di utili e 317 mila dipendenti. Dal 1998 utilizza bioplastiche per la realizzazione dei componenti interni dei suoi modelli e sta investendo da anni nel campo e in alcune imprese specializzate nelle biotecnologie. Fece scalpore nel 2010 il richiamo di milioni di automobili per difetti seri alla pedaliera, con un conseguente crollo in Borsa, acuito dalle accuse di aver nascosto documenti su incidenti con feriti a bordo, formulate dal presidente della commissione della Camera Usa incaricata di indagare sui maxi-richiami. A Toyota il merito di aver lanciato la prima auto ibrida di successo planetario (Prius) che combina l’azione propulsiva di un motore termico a benzina con un motore elettrico.

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JAPAN POST HOLDING Posizione nella classifica generale: 9 Sede della holding: Giappone Comparto: poste e trasporti, banche e assicurazioni Di proprietà pubblica (al 100% del ministero delle Finanze giapponese), è di fatto il maggiore istituto di risparmio del Giappone, avendo allargato nel tempo la sfera delle proprie attività dalla logistica e dal trasporto postale al campo delle assicurazioni e delle banche. 203 miliardi di fatturato nel 2011. A quanto riportato dal quotidiano locale Nikkei, a fine 2012 è stato congelato un piano di privatizzazione della holding che avrebbe dovuto vendere due terzi della compagnia (patrimonio complessivo 11 trilioni di yen, ovvero 114 miliardi di dollari) e quotarla in Borsa entro il 2015, portando 7 trilioni di yen (87 miliardi di dollari) nelle casse del governo; soldi che avrebbero dovuto finanziare la ricostruzione del dopo terremoto e del disastro nucleare di Fukushima del 2011.

Il gruppo assicurativo francese Axa è presente in 57 Paesi, principalmente in Europa occidentale, America settentrionale, Australia, India ed Estremo Oriente. 162 miliardi di fatturato nel 2011, 3 di utili e 103 mila dipendenti. I settori di specializzazione sono le assicurazioni sulla proprietà e gli infortuni, vita, previdenza, risparmio e gestione patrimoniale. Axa è un gruppo nato dalla fusione di molte compagnie di assicurazioni a partire dal 1871: la sua internazionalizzazione inizia nel 1955, con l’acquisto di una compagnia nel Quebec. Dal 2005 Axa adotta una politica di distribuzione di azioni tra i suoi dipendenti che detengono dal 4 al 6% del capitale, che non basta a metterli al riparo da ristrutturazioni e licenziamenti. Nel 2012 Axa è stata in testa alla classifica italiana per le sanzioni Isvap (l’autorità di controllo delle assicurazioni ora destinata a scomparire): oltre 2 milioni di euro per non aver rispettato le norme. Nel 2007 ha firmato un partenariato con il Monte dei Paschi, al momento vacillante.


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LE PRIME 100 ECONOMIE MONDIALI PER PIL E FATTURATI Posizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34

Nazione/Impresa USA Cina Giappone Germania Francia Regno Unito Brasile Italia India Canada Russia Spagna Australia Messico Corea del Sud Olanda Turchia Indonesia Svizzera Polonia Belgio Svezia Arabia Saudita Taiwan Walmart Store Norvegia Iran Royal Dutch Shell Austria Argentina ExxonMobile Thailandia Danimarca BP

Pil/Fatturato 14.526.550 5.878.257 5.548.797 3.286.451 2.562.742 2.250.209 2.090.742 2.055.114 1.631.970 1.557.040 1.479.825 1.409.946 1.237.363 1.034.308 1.014.482 780.668 735.487 706.752 527.920 469.401 467.779 458.725 448.362 429.845 421.849 412.990 407.382 378.152 377.382 369.992 354.674 318.908 309.866 308.928

Posizione 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68

Nazione/Impresa Grecia Arab Emirati Arabi Venezuela Sinopec Group China National Petroleum Finlandia Malesia Portogallo State Grid Hong Kong Singapore Toyota Motor Egitto Israele Irlanda Cile Japan Post Holdings Nigeria Filippine Chevron Repubblica Ceca Total ConocoPhilips Pachistan Volkswagen Group AXA Romania Algeria Fannie Mae Perù General Electric Kazakhstan ING Group Glencore International

Pil/Fatturato 304.415 302.039 293.268 273.422 240.192 239.177 237.959 229.154 226.294 224.459 222.699 221.760 218.465 217.445 206.985 203.299 203.958 202.576 199.591 196.337 192.030 186.055 184.966 176.870 168.041 162.236 161.629 157.759 153.825 153.802 151.628 148.047 147.052 144.978

Posizione 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 Paese

Nazione/Impresa Nuova Zelanda Ucraina Berkshire Hataway General Motors Bank of America Corp. Samsung Electronics Kuwait Eni Daimler Ford Motor BNP Paribas Allianz Qatar Hewlett-Packard E.ON AT&T Nippon Telegraph & Telephone Carrefour Assicurazioni Generali Petrobras Gazprom JP Morgan Chase & Co. McKesson GDF Suez Citigrup Hitachi Verizon Communications Bangladesh Nestlé American International Group Honda Vietnam

Pil/Fatturato 140.509 137.934 136.185 135.592 134.194 133.781 132.569 131.756 129.481 128.954 128.726 127.379 127.332 126.033 125.064 124.629 120.316 120.297 120.234 120.052 118.657 15.475 12.084 111.888 111.055 108.776 106.565 105.560 105.267 104.417 104.342 103.574

Azienda

GENERAL ELECTRIC

AT&T

Posizione nella classifica generale: 16 Sede della holding: Usa Comparto: manifatturiero

Posizione nella classifica generale: 30 Sede della holding: Usa Comparto: telecomunicazioni

Stando a Forbes è la terza azienda più grande al mondo dopo ExxonMobil e JP Morgan Chase. Fondata nel 1892, nel 2012 impiegava più di 300 mila persone, con un fatturato di 147,3 miliardi di dollari, profitti netti pari a 13,6 miliardi e una capitalizzazione di mercato di 213 miliardi. I suoi prodotti spaziano dall’elettricità ai motori aeronautici, dai software sanitari alle turbine eoliche, dall’illuminazione fino a tecnologie militari, reattori nucleari e finanza. Il suo Ceo, Jeffrey Immelt, nel 2012 ha intascato 20,6 milioni di dollari: un netto aumento rispetto agli 11,4 milioni del 2011. E le critiche non mancano. Nel 2012 General Electric ha lasciato all’estero 108 miliardi di dollari di ricavi. Una pratica sempre più comune, che molti additano come un modo per sfuggire alle tasse negli Usa. Secondo Tax Justice Network, fra il 2002 e il 2011, General Electric avrebbe corrisposto al fisco americano, in media, solo il 2,3% degli introiti.

GLENCORE Posizione nella classifica generale: 18 Sede della holding: Svizzera Comparto: materie prime, minerario Con un volume d’affari di 186 miliardi di dollari nel 2012, Glencore è il leader mondiale nello scambio di materie prime: nel 2010 controllava il 60% del mercato globale dello zinco, il 50% del rame e il 3% del petrolio. L’ultimo anno l’ha vista protagonista soprattutto per la difficile fusione con la compagnia mineraria Xstrata. Un’operazione da oltre 70 miliardi di dollari che deve ancora essere pienamente conclusa: Glencore possiede già il 34% delle azioni di Xstrata, ma sta ancora aspettando il via libera delle autorità cinesi, previsto per la metà di aprile. Ma alcune Ong lanciano l’allarme: nei Paesi in via di sviluppo le due imprese non tutelerebbero a sufficienza l’ambiente e le condizioni di lavoro. Temono inoltre che la fusione possa monopolizzare interi comparti, con pesanti conseguenze sulla fissazione dei prezzi delle materie prime.

È la più grande compagnia telefonica statunitense. Nel 2012 il volume d’affari ha toccato i 127 miliardi di dollari, il profitto netto 7,3 miliardi e ha più di 241 mila dipendenti. La rivista Fortune, nella sua ultima classifica annuale delle prime 500 società statunitensi, la colloca all’undicesimo posto. Un potere economico del genere le permette anche di farsi sentire a livello politico: stando ai dati forniti da Opensecrets.org, nel periodo compreso fra il 1989 e il 2012 AT&T ha speso in donazioni più di 50 milioni di dollari, divisi quasi equamente fra democratici (il 43%) e repubblicani (56%). L’azienda si è così piazzata al quarto posto nella graduatoria dei più importanti contributors del mondo politico a stelle e strisce.

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Il socialismo di mercato della prima potenza mondiale di Paola Baiocchi

La Cina cambia il suo paradigma produttivo: da primo esportatore mondiale ora intende concentrarsi sul mercato interno e su una crescita qualitativa l 12° piano quinquennale di programmazione economica cinese per il periodo 2011-2015, da quando è stato presentato, non ha smesso di far discutere gli osservatori del grande Paese. Perché segna lo spostamento dal paradigma “il Pil innanzitutto” verso la crescita qualitativa e il mercato interno, nel nome della sostenibilità ambientale, sociale, economica e politica. Il Paese, che è stato finora il maggiore esportatore mondiale in termini assoluti, rivolge l’attenzione al mercato in-

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terno dove si sta formando una classe media sospinta dagli aumenti salariali (mentre gli stipendi italiani sono fermi dagli anni ’90) e dai processi di urbanizzazione. La flessione nelle esportazioni, causata dalla crisi mondiale, viene declinata dalla “fabbrica del mondo” con un riposizionamento verso produzioni a maggior valore aggiunto, che richiedono una minore intensità di mano d’opera. Anche perché, a causa della politica del figlio unico, tra oggi e il 2025 la Cina prevede di avere 10 milioni di lavoratori in meno all’anno. La riconversione prevede ingenti investimenti in ricerca e sviluppo, che nel 2012 hanno raggiunto la quota record di

NESTLÉ Posizione nella classifica generale: 42 Sede della holding: Svizzera Comparto: alimentare Quando si sente parlare di Nestlé salta subito alla mente il boicottaggio lanciato nel 1977, e proseguito per decenni, per protesta contro le sue martellanti campagne di marketing per l’uso del latte in polvere nei Paesi in via di sviluppo. Paesi in cui l’acqua spesso è contaminata e il latte artificiale ha provocato il decesso di migliaia di bambini. In questi mesi sono emersi altri scandali: dal documentario Bottled Life, che punta il dito contro il mercato dell’acqua in bottiglia, alla carne equina in alcuni prodotti confezionati. Ma il colosso alimentare svizzero continua a prosperare nonostante i danni d’immagine e la crisi. Nel 2012 ha registrato un utile netto di circa 11 miliardi di dollari, il +11,6% rispetto all’anno precedente. Cresce anche il volume d’affari, che supera i 96 miliardi.

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CARDINAL HEALTH

ARCELORMITTAL

Posizione nella classifica generale: 53 Sede della holding: Usa Comparto: chimico e farmaceutico

Posizione nella classifica generale: 74 Sede della holding: Lussemburgo Comparto: metallurgico e minerali

Quarant’anni fa era una piccola azienda di distribuzione di prodotti alimentari. Nel 1979 Cardinal Foods ha acquisito alcune società distributrici di farmaci, assumendo il nome Cardinal Health. Da allora fornisce a farmacie e ospedali medicine, guanti, camici, ferri chirurgici, sistemi di gestione dei dati dei pazienti. Nel 1991 il suo volume d’affari ha superato il miliardo di dollari, dieci anni dopo si spartiva con AmerisourceBergena e McKesso il 90% della distribuzione farmaceutica all’ingrosso. Nel 2012 il fatturato è arrivato ai 107 miliardi di dollari, i profitti netti a 1 miliardo, i dipendenti erano 32.500 in dieci Paesi. Lo scorso anno Cardinal Health è finita nel mirino della Drug Enforcement Administration, che ha sospeso le licenze del suo centro in Florida, sospettato di aver permesso ad alcune farmacie di comprare quantità eccessive di farmaci soggetti a restrizioni, soprattutto a base di ossicodone.

Nasce nel 2006, con l’acquisizione della francolussemburghese Arcelor per 26,9 miliardi di euro da parte dell’indiana Mittal, il maggiore colosso mondiale dell’acciaio. Nel 2012 aveva un fatturato di 84,2 miliardi di dollari, per una produzione di acciaio grezzo di 88,2 milioni di tonnellate, il 6% dell’output mondiale. Lavorano per ArcelorMittal 260 mila persone, ma un enorme potere è in mano a un uomo solo: il presidente e A.d. Lakshmi Mittal. Forbes lo colloca al 41° posto fra i miliardari più ricchi del mondo. Ma il suo patrimonio, oggi pari a 16,5 miliardi di dollari, negli ultimi due anni si è quasi dimezzato. Colpa della crisi, che ha abbattuto la domanda in Europa, facendo crollare le azioni del gruppo, declassate da Moody’s appena sopra il livello junk (spazzatura). Duro, alla fine del 2012, il braccio di ferro con l’esecutivo francese sull’ipotesi – poi scongiurata – di chiudere l’acciaieria di Florange.


LA CINA PUNTA A CREARE GIGANTI DELL’INDUSTRIA Nel discorso di inizio anno il ministero dell’Industria cinese ha ribadito l’obiettivo da realizzare entro i prossimi due anni 5-8 società di elettronica, con vendite per almeno 100 miliardi di yuan. L’obiettivo, da raggiungere attraverso fusioni, alleanze e acquisizioni anche all’estero, rientra nel piano più generale di Pechino di promuovere aziende di marca a più alto rendimento, riducendo la frammentazione produttiva, per allontanarsi da un’economia centrata attorno alla produzione elettronica a basso costo. Il dipartimento ha spiegato che tra gli obiettivi c’è anche quello di aumentare i livelli di concentrazione industriale di un’ampia gamma delle maggiori produzioni, comprese quelle dell’industria automobilistica, del cemento, della logisticaspedizione, dell’alluminio, delle terre rare, della medicina e del comparto agricolo. Nell’auto, ai 10 maggiori produttori dovrà fare capo il 90% della produzione cinese del settore e lo stesso dovrà succedere nell’alluminio. Nella siderurgia la programmazione prevede 10 top player con circa il 60% della produzione totale di acciaio entro il 2015 e tre-cinque società competitive a livello mondiale. Nella logistica-spedizione i 10 maggiori costruttori di navi dovranno coprire il 70% o più della produzione cantieristica totale.

124 miliardi di euro (1.000 miliardi di yuan), con 3,2 milioni di unità occupate nel settore, mentre il valore della produzione aggregata di industrie ad alta tecnologia ha superato i 1.240 miliardi di euro (10.000 miliardi di yuan). Il focus del piano quinquennale sarà sull’innovazione e la modernizzazione, attraverso processi di ristrutturazione del sistema produttivo manifatturiero, sia a livello tecnologico che organizzativo, attraver-

so il rafforzamento dei “nuovi settori strategici industriali” (vedi BOX ) che dovranno entro il 2015 passare dal valore attuale del 3%, all’8% del Pil.

“Socialismo di mercato” Mentre la componente finanziaria dell’economia occidentale non accenna a diminuire, con cinque società finanziarie e cinque banche globali che detengono il 90% dei titoli derivati che valgono oltre

CHINA RAILWAY GROUP Posizione nella classifica generale: 95 Sede della holding: Cina Comparto: costruzioni Da sola ha costruito 22 mila km di linee ferroviarie in Cina, circa il 95% del totale. China Railway Group è uno dei due colossi delle infrastrutture controllati dallo Stato (l’altro è China Railway Construction Corporation). Oltre alle ferrovie, nel 2007 aveva già realizzato 4.230 km di ponti, 3.900 km di tunnel, 3.400 km di strade a scorrimento veloce e 566 km di metropolitane. Secondo Fortune, nel 2012 il suo fatturato era di 71 miliardi di dollari e i dipendenti più di 294 mila. Per giunta lo Stato, per ridare stimolo alla crescita, mira a spendere in infrastrutture almeno 10 miliardi di dollari al mese per tutto il 2013: più del doppio rispetto agli ultimi mesi del 2012. Ma il ministero delle Ferrovie, travolto da alcuni scandali per corruzione, verrà incorporato dal ministero dei Trasporti. Sembra inoltre che l’esecutivo voglia aprire ai capitali privati.

BOEING Posizione nella classifica generale: 114 Sede della holding: Usa Comparto: aerospaziale Un fatturato di poco meno di 68 miliardi di dollari, un utile netto di 4,01 miliardi e 171 mila dipendenti. Sono i numeri (2011) di Boeing, primo colosso mondiale dell’aeronautica, che nel 2016 taglierà il traguardo del cent’anni di attività. Ma il suo primato, a lungo indiscusso, ha iniziato a vacillare nel 2000 con lo storico sorpasso dell’europea Airbus. In quella che negli anni ha preso la forma di una vera e propria contesa commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, il 2012 è stato l’anno della rimonta statunitense: Boeing è salita infatti a quota 1.203 ordini e 601 consegne mentre Airbus si è fermata rispettivamente a 833 e 588. Per ora la crisi sembra non aver danneggiato il settore dell’aeronautica, che continua a viaggiare su introiti miliardari grazie soprattutto al boom delle compagnie low cost e del traffico in Asia e America Latina. Ma i prossimi anni non saranno altrettanto facili, visti anche i tagli alle spese militari.

I NUOVI SETTORI STRATEGICI INDUSTRIALI NEL PIANO QUINQUENNALE 2011-2015 Si potrà contare su finanziamenti e incentivi grazie al sostegno governativo rafforzato, anche per le imprese estere, nei seguenti ambiti: • efficienza energetica / protezione ambientale: nuove tecnologie, sistemi di riciclaggio, modernizzazione dell’agricoltura; • tecnologie dell’informazione: internet, cloud computing, comunicazione mobile, servizi d’informazione; • biotecnologie: prodotti (medicinali) fabbricati secondo parametri biotecnologici; • apparecchiature di alta qualità: aviazione e aeronautica, tecnologia satellitare, tecnica ferroviaria, impianti di produzione “intelligenti”; • nuove energie: energia nucleare, impianti solari termici, fotovoltaici ed eolici, tecnologie smart grid; • nuovi materiali: materiali di costruzione moderni, compositi, fibre ad alte prestazioni; • tecniche alternative di propulsione in ambito automobilistico: veicoli ibridi, elettrici e con celle a combustibile. 800.000 miliardi di dollari (680.000 sui mercati non regolamentati Otc e circa 220.000 su quelli regolamentati), “la visione scientifica dello sviluppo” – citando le parole dell’ex presidente Hu Jintao – ha suscitato molta ammirazione da parte degli economisti neokeynesiani, che hanno parlato apertamente della necessità di studiarne i fattori di successo, e dall’altra parte ha scatenato le critiche degli economisti liberali. Se, infatti, c’è chi legge in questo cambiamento anche l’importante opportunità di sostenere la maggiore richiesta di import di cui la Cina avrà bisogno, la formula della programmazione economica centralizzata contrapposta alla “mano invisibile del mercato” – per di più con componenti innovativi come la proprietà collettiva delle fabbriche – fa mugugnare i think tank conservatori come Eurasia Group, presieduto da Ian Bremmer che ha parlato di “fine della dottrina del libero mercato”. Uno dei capisaldi dello sviluppo degli Stati Uniti, che vacilla sotto i nuovi dati: l’agenzia Bloomberg, a febbraio, ha scritto che il socialismo di mercato della Cina ha superato gli Usa, nella somma delle importazioni ed esportazioni di beni.  | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 21 |

FONTE: OSEC, IL CENTRO DI COMPETENZA PER LA PROMOZIONE DEL COMMERCIO SVIZZERO CON L’ESTERO

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Se la mia Patria si chiama Multinazionale di Paola Baiocchi

Nel 1972 Eugenio Cefis tiene un discorso agli allievi dell’Accademia militare di Modena dal contenuto eversivo, che preconizza Stati al servizio delle corporation, che perdono ogni sovranità perché pongono limiti all’azione delle società commerciali. E un esercito professionale che fa politica egli ultimi 150 anni il capitalismo ha plasmato giuridicamente le attuali multinazionali, per conferire una “personalità” autonoma a questi soggetti economici, tanto invasivi da essere in grado di modificare la nostra salute e il nostro modo di pensare con i loro prodotti. Con i loro bilanci pari al Pil di intere nazioni, si permettono di guardare dall’alto in basso gli Stati, obbligate per

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legge a considerare più importante di tutto la bottom line, la riga in fondo. Quella che ad ogni trimestrale registra i profitti, realizzati sempre e comunque, anche agendo al di sopra del bene comune. A questa forma di potere assoluto, il 23 febbraio 1972, Eugenio Cefis, presidente della Montedison, consacra un discorso che tiene di fronte agli allievi dell’Accademia militare di Modena, dal titolo:

IL LAVORATORE ME LO PORTO DA CASA «Ci sono capitalismi di Stato in sistemi economico-sociali di mercato (o quasi mercato), come sono tutte le multinazionali occidentali. Poi ci sono le multinazionali cinesi attive in tutto il mondo, che sono le principali esponenti di questo cosiddetto capitalismo di Stato», così Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, sulle multinazionali di proprietà statale più attive, nel campo petrolifero-energetico, ma non solo. «Funzionano sostanzialmente in base a tre regole – continua Sapelli –: uno, dispongono di una liquidità illimitata: lo Stato stampa moneta come e quanto vuole. Due, soprattutto quando avvistano contratti lucrosi in certi Paesi, ricorrono al “lavoro portato” di migliaia di loro connazionali, che trasferiscono in tutto il mondo: ad esempio durante la crisi libica nessuno ha sottolineato che i cinesi hanno inviato sul posto 5 navi per portare via dal paese 40 mila dei loro connazionali che lì lavoravano. Tre, la Cina difficilmente opera in agreement, cioè in accordo con altre multinazionali, proprio perché dispone di questa liquidità illimitata. Le altre multinazionali a cui si può fare riferimento sono quelle degli altri cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India e Cina), tipici di un’economia mista, con una forte proprietà statale: pensiamo a Petrobras che mantiene una piccola quota privata, alla messicana Pemex, posseduta dallo Stato al 100%, pensiamo a società nazionalizzate di recente come quella dell’Ecuador e della Bolivia. Diverse sono invece le compagnie di Stato con partecipazione statale, come possono essere la nostra Eni o la francese Edf, quotate in Borsa, che lavorano con diversi limiti, nell’orizzonte del capitale finanziario e dei vincoli che pone loro la Borsa». C.F.

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“La mia Patria si chiama Multinazionale”. Il discorso ha una storia straordinaria, perché arriva nel 1974 nelle mani di Pier Paolo Pasolini, che lo trova talmente sconvolgente da volerlo inserire come cardine tra la prima e la seconda parte di Petrolio, il romanzo sul potere che sta scrivendo e che non riuscirà a portare a termine perché verrà ucciso il 2 novembre del 1975. Il discorso non sarà inserito nel libro dai curatori dell’edizione, uscita 17 anni dopo la morte di Pasolini. E ancora oggi non è agevole rintracciarlo perché non si trova in internet, anche se è un testo molto commentato e già pubblicato nel 1972 dalla rivista L’Erba voglio. Il discorso può essere richiesto al Gabinetto Viesseux di Firenze dove è conservato nel Fondo Pasolini, scrivendo una motivata lettera agli eredi del poeta.

Uno scritto semiclandestino Cos’ha di così straordinario questo testo da circolare ancora oggi semiclandestinamente, 41 anni dopo esser stato pubblicato? Tutto, a partire da chi lo pronuncia, ma anche i suoi contenuti eversivi, il luogo e il momento in cui viene presentato. Perché in Italia è in corso la “strategia della tensione”, che l’ha già colpita con la Strage di Piazza Fontana nel 1969 e due tentativi di golpe – nel 1964 ad opera del generale dei carabinieri De Lorenzo e nel 1970 per mano di Junio Valerio Borghese – e di fronte ai futuri quadri militari, Cefis pone una serie di domande: «Come si svi-


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lupperà il rapporto tra queste società che operano su basi internazionali e gli Stati sovrani che tendono sempre più a voler controllare i fatti economici che si svolgono all’interno del loro territorio?». E ancora: «Ma l’attuale dimensione degli Stati è compatibile con una politica efficace nei confronti delle imprese multinazionali?». La sua risposta sgombra il campo da ogni ipotesi di controllo su queste società: «Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che essi pongono». Dove verranno prese, allora, le decisioni? La risposta mette i brividi, soprattutto pensando al golpe in Cile, che solo un anno più tardi destituirà il governo di Salvador Allende, che aveva nazionalizzato le miniere di rame, fino ad allora controllate da imprese nordamericane: «I

«I centri decisionali non saranno più nei Parlamenti, ma nelle grandi imprese» maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle grandi direzioni delle grandi imprese e nei sindacati, anch’essi avviati a un coordinamento internazionale». A chi sarà affidato il compito di far rispettare le decisioni, se non fossero condivise dalle popolazioni? Dalle forze armate: «Anche dal punto di vista militare l’unica risposta possibile è quella di un allargamento delle dimensioni del potere politico a livello almeno continentale». Un esercito, secondo Cefis, di professionisti, ai quali in chiusura così si rivolge: «Occupatevi di politica. Non certo come militari, come casta, ma come cittadini, per dare un senso alla vostra fedeltà alla Costitu-

zione Repubblicana». Il disegno contenuto nel discorso è la negazione della nostra Costituzione e rappresenta, invece, il tassello di un altro progetto: bisogna ricordare che Pasolini scrive in Petrolio di Cefis come mandante dell’omicidio di Mattei, al quale succede dopo la sua morte alla presidenza dell’Eni, capovolgendone la visione statalista. Ma bisogna anche ricordare che Cefis viene indicato come il fondatore della P2, che la gestisce fino a quando è stato presidente della Montedison, in un appunto del Servizio segreto militare (Sismi) rintracciato da Vincenzo Calìa, il pubblico ministero che ha riavviato le indagini sul caso Mattei nel 1994. 

Il discorso di Eugenio Cefis non si trova on line. Lo pubblicheremo in versione integrale sul sito www.valori.it

IL COSTO DELLA DE-INDUSTRIALIZZAZIONE ITALIANA Come si trova l’Italia all’interno delle dinamiche industriali europee e internazionali? È un vaso di coccio tra vasi di metallo: in ritardo nell’adeguarsi al nuovo paradigma tecnologico, pur essendo stata fino al 1985 in buona posizione, e con un paradosso legato alla qualità degli investimenti che limita la crescita del Pil. Il paradosso è questo: «Il rapporto investimenti/Pil rimane stabile (o diminuisce) per i Paesi europei che generano alta tecnologia e che hanno un rapporto fra spese in ricerca e sviluppo e Pil superiore alla media, mentre tutti gli atri Paesi, cioè quelli che incorporano le tecnologie, sono costretti ad aumentare gli investimenti». Ne parlano Roberto Romano e Stefano Lucarelli* in un loro saggio pubblicato sul Libro bianco della Cgil, da cui traiamo i virgolettati: «La correlazione “maggiori investimenti-minore spesa in ricerca e sviluppo” è particolarmente evidente nell’analisi degli investimenti italiani. La crescita degli investimenti intervenuta alla fine del millennio (2000) è direttamente proporzionale allo sforzo di adeguamento del tessuto produttivo nazionale allo scenario economico europeo, anche se l’esito finale è un consolidamento della struttura produttiva, ovvero un sistema produttivo che opera nei settori supplier dominated, con dimensioni mediopiccole, dinamiche innovative finalizzate unicamente alla riduzione dei costi e tecnologie adottate dall’esterno (acquisite da specifici fornitori), con una scarsa appropriabilità dei risultati». L’ammodernamento del prodotto è avvenuto attraverso l’acquisto di nuove macchine prodotte da imprese estere e di pari passo: «Le imprese italiane – salvo rari casi – non sono entrate nei nuovi settori ai quali si rivolge la domanda mondiale». Mentre la Cina punta nella divisione internazionale

del lavoro alla produzione di beni strumentali ad alto valore aggiunto: “Il saldo della produzione industriale in generale e dei beni strumentali in particolare, tra il 1987 e il 2011, mostra con chiarezza la progressiva de-industrializzazione dell’Italia rispetto ai principali concorrenti internazionali. Quindi gli investimenti italiani generano un output inferiore agli investimenti europei, condizionando (negativamente) l’equilibrio macroeconomico”. In assenza di politiche economiche nazionali di indirizzo, il sistema italiano ha consolidato una significativa «resistenza al nuovo» con investimenti maggiori alla media dei Paesi industrializzati europei e addirittura «l’orario di lavoro medio per addetto tra i più alti dei paesi europei e il più basso tasso di utilizzo degli impianti». È urgente la trasformazione del modello di sviluppo che, secondo Lucarelli e Romano, «passa attraverso la programmazione della conoscenza e dell’innovazione tecnologica pubblica, lo sviluppo di organismi ad alta qualificazione con funzione di studio e valutazione delle decisioni politiche, l’industrializzazione della ricerca (pubblica) sia attraverso una regolazione dei finanziamenti privati, sia riprogrammando le funzioni della Cassa Depositi e Prestiti per modificare la specializzazione produttiva. In sintesi, è necessaria una struttura produttiva adeguata. Diversamente, ogni misura di aumento della domanda non farà crescere il Pil italiano». Pa.Bai. * Roberto Romano, economista, lavora per il Dipartimento contrattazione Cgil Lombardia, con incarichi di ricerca; Stefano Lucarelli è ricercatore in Economia politica all’Università di Bergamo. Il saggio si intitola: “La struttura industriale italiana e il vincolo degli investimenti”.

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dossier

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Ricchezza o pericolo? di Corrado Fontana

Fondi sovrani statali, neonati, eppure dalle enormi risorse economiche, penetrano mercati e industrie, investendo in altri Paesi. Hanno salvato le banche dalla crisi, ma la loro vocazione finanziaria e l’oscurità dei meccanismi ora preoccupano l tema non è quello dell’uso di Fondi sovrani come una sorta di cavallo di Troia per demolire le economie dei Paesi competitori, il problema è come questi Fondi sovrani possano contribuire a creare una finanza internazionale ancora più caotica e convulsa». Come dire – parafrasando queste parole di Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e di Geografia politica ed economica all’Università di Pisa – i Fondi sovrani devono preoccuparci più per la loro vocazione finanziaria e, talvolta, speculativa che per il rischio che si portino via i gioielli strategici dell’industria e della produzione di altri Stati. Ita-

«I

lia compresa. Ma che la recente nascita e crescita dei Fondi sovrani, alimentati dalle esportazioni di petrolio e materie prime, desti interesse, oltre a qualche timore, è innegabile.

Il sovrano fa moda Nel 2012, ricorda uno studio del Monte dei Paschi di Siena, la presenza dichiarata di questi Fondi in Italia con nuovi investimenti ha toccato una cifra superiore a 1 miliardo e mezzo di euro (erano un terzo nel 2011), con partecipazioni azionarie nel 36% circa delle società quotate (25% nel Regno Unito, tra il 17% e il 19% per la Francia e la Germania).

A luglio scorso la maison Valentino è passata per 700 milioni di euro dalla società finanziaria britannica Permira al Fondo sovrano del Qatar (Qatar Investment Authority), ma già una quota di Finmeccanica era stata rilevata dalla Libyan Investment Authority, mentre il Fondo sovrano Aabar di Abu Dhabi è il primo azionista della banca italiana Unicredit con il 6,5%. C’è poi l’acquisto dei cantieri navali Ferretti da parte di un conglomerato controllato dal governo cinese e l’impegno massiccio in Italia del norvegese Government Pension Fund - Global (vedi BOX ), con investimenti in azioni per 4,7 miliardi sparsi in un’infinità di aziende, ai quali si aggiungono 6,3 miliardi in obbligazioni e 4,2 in titoli di Stato. I nostri asset principali, come si dice, sono quindi partecipati o di proprietà di temibili Stati stranieri? Beh, nella sostanza è così. Ma è anche vero che l’enorme liquidità posseduta dai Fondi sovrani qualche beneficio l’ha pure portato, specialmente nel periodo più nero della crisi della finanza, tra 2007 e 2008. «Un esempio classico – sottolinea Mauro Meggiolaro, analista, fondatore di Merian Research – è quello di Ubs, la banca svizzera salvata dal Fondo sovrano del governo di Singapore con 7,8 miliardi di euro, o quello del colosso americano Citigroup, salvato dal Fondo sovrano degli Emirati Arabi con 7,5 miliardi di dollari».

Finanza oscura

MAMMA LI NORVEGESI! Da segnalare come una mosca bianca nella galassia dei Fondi sovrani è quello norvegese (Government Pension Fund). Oggi primo per capitalizzazione (656 miliardi di dollari), ha un comitato etico per decidere di comprare o scartare determinate imprese in base a criteri etici: qualche anno fa scartò Finmeccanica per un sospetto di investimenti in armi nucleari, riammesso però proprio all’inizio di quest’anno, mentre qui l’impresa veniva travolta dalle inchieste su casi di sospetta corruzione internazionale. Il Government Pension Fund si caratterizza per un forte investimento sul mercato italiano e per la centralità dei temi di responsabilità sociale. In proposito alcune recenti decisioni del fondo hanno fatto notizia: quella più recente è stata cedere tutte le partecipazioni detenute in aziende coinvolte nella produzione di olio di palma, a causa dell’impatto che questo business ha sulle foreste tropicali primarie (23 aziende, tutte con sede in Asia, accusate di compartecipazione al disboscamento). Ma tra 2011 e 2012 il fondo aveva già attuato una diminuzione progressiva dei propri investimenti nelle imprese considerate a impatto negativo sulle foreste asiatiche (meno 1,2 miliardi di investimenti).

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Tuttavia l’indispensabilità delle risorse dei Fondi sovrani è oggi diminuita. Al punto che diverse istituzioni internazionali (vari governi e l’Fmi) pensano o attuano già (per l’Italia il DL 21/2012) dei correttivi alla loro natura di per sé ibrida, per cautelarsi dalla difficoltà di «capire quanto l’azione di questi fondi sia legata a dinamiche di mercato e quanto invece a logiche di natura in senso lato politica», sottolinea il professor Volpi. Se sul piano della politica interna i SWF (Sovereign Wealth Funds) sono spesso strumenti di stabilizzazione del quadro economico nazionale, come contromisura alla volatilità dei prezzi delle materie prime di cui i Paesi proprietari dei Fondi sono esportatori, «sul versante della politica estera – conti-


Statalizzazione eterodiretta Normativa cercasi, insomma, per operatori finanziari aggressivi, talvolta equiparati ai famigerati hedge funds o a private equity, e ricchissimi, la cui azione pone anche altri temi di riflessione. Può accadere infatti che Fondi sovrani di Paesi emergenti, espressione di concezioni economiche differenti da quelle delle cosiddette democrazie avanzate, gestiti direttamente o indirettamente da Stati stranieri, acquisiscano le stesse imprese che un altro governo aveva precedentemente deciso di privatizzare in un’ottica di liberalizzazione. Contraddicendola, perciò. Ma non solo. Capita che il modello statalista dei Fondi sovrani attecchisca dove un tempo non sarebbe successo: in questa linea di direzione parrebbe muoversi oggi il Fondo strategico italiano e l’azione della Cassa depositi e prestiti, con la partecipazione in imprese in difficoltà («una stagione tutta mercatista si è sostanzialmente chiusa», conclude Alessandro Volpi). Oppure può accadere che l’attivismo dei Fondi sovrani venga visto come una minaccia concreta all’integrità del sistema produttivo nazionale: da qui gli scudi alzati ad esempio dalla Francia alle invasioni di campo nei propri settori strategici (energia, armamenti); e per finire il caso degli Stati Uniti riportato da un rapporto Consob del 2012: nel 2005 “la Dubai Ports World controllata dal Fondo

CHE NUMERI! • 4.600 miliardi di dollari • patrimonio complessivo dei 64 Fondi sovrani monitorati nel 2011. Il Pil della Germania di allora ne valeva 3.600; • 76% • è la percentuale del patrimonio complessivo di tutti gli SWF che viene amministrata da Fondi asiatici o del Medio-Oriente, i quali rappresentano circa il 60% di tutti fondi istituiti; • 50% • circa metà del patrimonio complessivo amministrato dai Fondi sovrani è gestita dai primi 5 in classifica per patrimonio gestito. Ai primi 10 fa capo addirittura il 75% del totale; • 2010 • è l’anno in cui, dopo un crollo avvenuto nel 2009, i Fondi sovrani hanno ripreso massicciamente a indirizzare verso la finanza la maggioranza relativa (quasi il 40%) dei propri investimenti, con partecipazioni in hedge fund e fondi di private equity, nonché in società di gestione dei mercati di strumenti finanziari (tra le quali il London Stock Exchange londinese, partecipata dal Fondo sovrano di Dubai e dal Fondo del Qatar); • 11 • è il numero di Fondi sovrani, sui 64 esistenti esaminati a luglio 2012 da Consob, che forniscono pubblicamente (in tutto o in parte) i dati di dettaglio sulle partecipazioni detenute in società quotate. PRIMI 30 FONDI SOVRANI PER PATRIMONIO GESTITO [dati ad aprile 2011]

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30.

Patrimonio gestito [miliardi $ Usa]

Paese

Fondo sovrano

Uae - Abu Dhabi Norvegia Cina Cina Singapore Cina - Hong Kong Kuwait Singapore Cina Uae - Dubai Russia Qatar Australia Libia Algeria Brunei US - Alaska Korea del Sud Malesia Kazakistan Kazakistan Venezuela Francia Russia Azerbaijan Uae - Abu Dhabi Irlanda Uae - Abu Dhabi Canada US - New Mexico

Abu Dhabi Investment Authority Government Pension Fund - Global Safe Investment Company China Investment Corporation Government of Singapore Investment Corporation Hong Kong Monetary Authority Investment Portfolio Kuwait Investment Authority Temasek Holdings National Social Security Fund Dubai World National Welfare Fund Qatar Investment Authority Australian Future Fund Libyan Investment Authority Revenue Regulation Fund Brunei Investment Agency Alaska Permanent Fund Korea Investment Corporation Khazanah Nasional Kazakhstan National Fund Samruk Kayna National Welfare Fund National Development Fund Strategic Investment Fund Reserve Fund State Oil Fund Mubadala Development Company National Pensions Reserve Fund International Petroleum Investment Company Alberta’s Heritage Fund New Mexico State Investment Council Totale

sovrano Dubai World, tentò un’acquisizione ostile della Peninsular and Oriental Steam Navigation Company (P&O), società che gestiva i principali porti degli Stati Uniti (compresi quelli di New York e del

625 530 347 332 315 293 202 140 120 100 88 80 71 70 61 39 39 37 36 30 29 27 26 25 24 23 22 21 15 15 3.767

% cumulata su totale 15,7 29,0 37,7 46,0 53,9 61,4 66,4 69,9 72,9 75,4 77,6 79,6 81,4 83,1 84,7 85,7 86,7 87,5 88,5 89,2 89,9 90,6 91,2 91,8 92,4 93,0 93,6 94,1 94,4 94,7 94,7

New Jersey), mediante un’offerta pubblica del valore di circa 5,7 miliardi di dollari”, con ciò determinando un problema politico e un interessamento del Congresso degli Stati Uniti e del presidente Obama.  | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 25 |

FONTE: I FONDI SOVRANI E LA REGOLAZIONE DEGLI INVESTIMENTI NEI SETTORI STRATEGICI - CONSOB, LUGLIO 2012

nua Volpi – la funzione di questi Fondi è fare investimenti strategici, puntare ad acquisire partecipazioni in società che hanno un ruolo importante nel mantenimento dell’apparato produttivo. Qui nasce quindi un problema intorno al carattere di strategicità: cosa si deve considerare strategico? E quindi, come regolare gli interventi di questi Fondi che non rispondono solo al mercato ma anche alla politica?». Questioni che si intersecano al tema della scarsa trasparenza con cui maturano le decisioni di operatori nati spesso nell’ambito di sistemi politici legati a oligarchie con ampi poteri, come quello cinese o russo, di Singapore o del Kuwait: «L’elemento di perplessità – secondo Meggiolaro – è quanto riescano a condizionare le politiche degli altri Paesi… avendo così tanti capitali».

FONTE: RAPPORTO CONSOB I FONDI SOVRANI E LA REGOLAZIONE DEGLI INVESTIMENTI NEI SETTORI STRATEGICI, LUGLIO 2012

| dossier | nelle loro mani |



| valorifiscali |

Cinque stelle

Idee chiare cercasi l Movimento 5 stelle ha ottenuto un indubbio successo elettorale ed è protagonista di questa fase politica. Nelle dichiarazioni del suo leader e dei suoi parlamentari appare interessato esclusivamente a realizzare il suo programma. Tuttavia non è semplice capire di quale programma si stia parlando, visto che in rete ne esistono diverse versioni. Quella più nota è

I

di Alessandro Santoro

contenuta nella “lettera agli italiani” (www.beppegrillo.it/2013/02/lettera_a gli_italiani.html). Si tratta di poco più di un elenco di 20 titoli, i cui contenuti sono mancanti o recuperabili in parte da dichiarazioni di diversi esponenti del movimento. Quelli di più immediato interesse per la finanza pubblica sono meno di una decina ed è davvero difficile riscontrare una logica comune, o anche semplicemente un ragionamento che li tenga insieme in un quadro sufficientemente coerente. Alcune di queste proposte sono di stampo “socialdemocratico-radicale”, in particolare il reddito di cittadinanza e il ripristino dei fondi tagliati alla scuola e alla sanità. Tuttavia non mancano richiami alla più classica e facile retorica anti-fisco della destra (abolizione di Imu sulla prima casa e di Equitalia). Questo variegato insieme è condito da proposte generaliste (misure per le piccole e medie imprese) e dalle ormai classiche idee anti-sistema (abolizione dei contributi ai partiti, dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali e delle Province). Non si capisce come queste proposte si collochino nel contesto della crisi, né come possano contribuire a risolverla. Una cosa, tuttavia, è certa: la realizzazione, anche solo in parte, di questo

pubblico italiano non permette ulteriori aumenti di queste dimensioni. Come scrisse all’indomani del trattato di Maastricht un economista eretico come Luigi Pasinetti: seppure «non ha senso imporre una velocità predeterminata» al processo di riduzione del debito pubblico, «non c’è dubbio che alla sua espansione si debba porre un freno». E si noti che questo problema non potrebbe venire ignorato neppure se l’Italia uscisse dall’euro, come adombrato nella proposta di referendum contenuta nella lettera, perché comunque il debito italiano dovrebbe essere finanziato (in una moneta più debole, tra l’altro, e quindi con tassi di interesse ancora maggiori). Ma non ci sono solo gli aspetti contabili a destare più di un dubbio. È davvero difficile giustificare che un movimento fondato su ideali di giustizia e di democrazia radicale partecipi (e, anzi, alimenti) alla campagna denigratoria contro Equitalia, fondata perlopiù su dati falsi e manipolati, e alimentata da chi vuole continuare tranquillamente a non pagare le tasse. Se il M5S studiasse un po’ di più, si renderebbe conto che i poteri di Equitalia, che tanto scandalo destano da noi, corrispondono a quelli che le autorità fiscali posseggono, e da tempo, nei Paesi civilizzati. 

Pochi i punti sulla finanza pubblica: confusi e per un aumento di deficit e debito programma comporterebbe un rilevante incremento del deficit e del debito pubblico. Ad essere generosi, le proposte anti-sistema possono generare maggior gettito per 1 miliardo di euro, mentre l’abolizione dell’Imu sulla prima casa costa, da sola, 4 miliardi. E il reddito di cittadinanza, nella versione più plausibile del reddito minimo garantito, ha un costo stimato non inferiore agli 8 miliardi. Sembra implausibile che le altre proposte della “lettera”, tra cui la legge anti-corruzione e quella sul conflitto di interessi, l’informatizzazione e la semplificazione dello Stato, possano colmare un simile divario. Ora, il Movimento cinque stelle ha certamente ragione a denunciare l’assurdità delle politiche di austerità. Ma rimane il fatto che l’entità del debito

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REUTERS / ARND WIEGMANN

finanzaetica

La Ttf non fa male alla Borsa > 33 Microcredito. Troppo micro e poco profit > 34 | 28 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |


| riforme europee |

Un membro della sezione giovanile del Partito Socialista svizzero manifesta indossando una maschera del presidente del colosso farmaceutico Novartis, Daniel Vasella, e lanciando banconote false. Al numero uno della compagnia è stato accordato un pagamento da 78 milioni di dollari per ottenere l’esclusiva sulle sue consulenze. Goccia che ha fatto traboccare il vaso, dando il via alle proteste.

Finanza senza regole

Dal Glass-Steagall all’europea ai bonus dei manager: il Vecchio Continente lancia le riforme. Germania e Francia si muovono, la Svizzera sorprende tutti. E l’Italia resta indietro

C’è chi dice “no” di Matteo Cavallito er Antonio Vigni sono giorni convulsi. Sentito dalla procura nell’ambito dell’infinita inchiesta sui disastri del Monte dei Paschi di Siena e accusato dagli inquirenti di associazione a delinquere per truffa ai danni della banca, manipolazione del mercato e falso in prospetto al pari dell’ex numero uno della Rocca Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale dell’istituto senese vive ormai costantemente sotto le poco invidiabili luci della ribalta. Ma ad alimentare le cronache giornalistiche attorno al suo nome, ultimamente, non sono state solo le pur inquietanti vicende del Monte. La notizia, a modo suo impressionante, l’ha riferita a febbraio Il Sole 24 Ore rendendo note le cifre del primato.

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BANCHIERI, STIPENDI DA SOGNO La classifica la guida Jamie Dimon di Jp Morgan, ma sono in molti a passarsela più che bene. Lo sostiene una ricerca della società Aquilar, citata a giugno dal Financial Times, parlando di un aumento medio dell’11,9% nei compensi dei 15 banchieri più pagati di Usa ed Europa. Cifre inferiori, ma trend in crescita anche in Italia dove nel 2011, secondo un’indagine di Uil-Credito ripresa da Il Sole 24 Ore, gli stipendi dei più importanti manager bancari sarebbero aumentati del 36,2% toccando quota 26 milioni. A novembre l’agenzia Ansa, ripresa da Il Fatto Quotidiano (che ha citato ulteriori dati sulle retribuzioni top che differiscono in parte dalle cifre riprese dal Il Sole 24 ore), ha esteso il calcolo alle dirigenze (consiglieri, dirigenti e sindaci) parlando di una spesa complessiva di 134 milioni per i primi 8 gruppi bancari italiani. Secondo i dati Intesa Sanpaolo avrebbe speso 28,3 milioni, contro i 20,8 di Mediobanca e i 18,7 di Unicredit. Cifre che fanno da contraltare ai dati sulle svalutazioni complessive del comparto (26 miliardi secondo la Consob) e ai previsti esuberi del personale (20 mila dipendenti).

Alla fine del 2011, l’ultimo anno per il quale sono disponibili numeri e comparazioni, il dimissionario Vigni, grazie a una buonuscita a sei zeri, si è portato a casa 5,4 milioni di euro. Tradotto: è stato il banchiere più pagato d’Italia. Il record fa discutere, al pari del podio nazionale. Scorrendo la classifica stilata dal libro “Banchieri e compari” di Gianni Dragoni, citato ancora dal quotidiano di Confindustria, si trova un’emblematica medaglia d’argento: Alberto Nagel. L’ex numero uno di Mediobanca, già travolto dall’imbarazzante affaire del “papello Ligresti”, ha intascato nello stesso anno quasi 3 milioni di euro (2,93 per la precisione) precedendo in graduatoria il collega di Piazzetta Cuccia Renato Pagliaro che, più modestamente, ha dovuto ac-

Antonio Vigni, ex dirigente di Mps, è stato il banchiere più pagato in Italia nel 2011. Al secondo posto c’è Alberto Nagel, ex numero uno di Mediobanca, travolto dallo scandalo Ligresti contentarsi di 2,59 milioni. Pier Francesco Saviotti (Banco Popolare) e Federico Ghizzoni (UniCredit) se ne sono portati a casa un paio e spiccioli.

La guerra dei bonus I numeri saranno forse poca cosa nel quadro del trend globale (vedi BOX ), ma di certo alimentano il dibattito. Perché il momento, si sa, è certamente decisivo.

LE RIFORME FRANCESI IN 20 PUNTI Questi, in sintesi, i punti fondamentali della Loi de séparation et de régulation des activités bancaires presentati a dicembre in una relazione firmata dal ministro delle Finanze di Parigi Pierre Moscovici. 1. Obbligo di separazione delle attività di investment banking da quelle retail attraverso la creazione di entità separate. 2. Vietare alle banche di investire in fondi hedge o di concedere loro finanziamenti senza garanzia. 3. Regolamentare e limitare le operazioni di proprietary trading. 4. Proibire alle controllate attività speculative come trading ad alta frequenza e le operazioni sul mercato dei derivati sulle materie prime agricole. 5. Rafforzare la capacità dell’Autorità di vigilanza di monitorare e intervenire sulle attività delle banche vietando eventualmente alcuni tipi di transazioni.

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La svolta è arrivata a marzo dall’Unione Europea con l’approvazione di una riforma particolarmente sentita. A partire dal 2014 i banchieri dovranno fare i conti con un tetto massimo ai loro bonus che, secondo i piani, non dovranno superare il doppio dello stipendio fisso e, in ogni caso, dovranno passare attraverso l’assenso degli azionisti. La riforma, fortemente sostenuta dal ministro delle finanze irlandese Michael Noonan, presidente di turno della Ue, e dal commissario europeo al Mercato interno e ai Servizi finanziari, Michel Barnier, dovrà ora trovare la ratifica dei singoli governi nazionali in un contesto, manco a dirlo, già tormentato. La guerra, ovviamente, l’ha già scatenata Londra, da sempre impegnata nella strenua difesa degli interessi della City e dei suoi 144 mila impiegati. Il sindaco della capitale britannica Boris Johnson si è già scagliato contro Bruxelles denunciando i gravi danni alla competitività delle società Uk, mentre il premier David Cameron ha tenuto toni più bassi ma ha comunque promesso di difendere gli interessi della principale industria nazionale. La vera novità, in compenso, è arrivata dal Paese più insospettabile, la Svizzera, dove un recente referendum (vedi BOX ) ha imposto sorprendenti limitazioni ai sistemi di retribuzione dei manager. In Italia, il Codacons ha reagito alla notizia chiedendo l’applicazione di una consultazione analoga rimarcando la

6. Richiedere alle banche di sviluppare anticipatamente piani di recupero in caso di crisi. 7. In caso di programma giudicato insoddisfacente l’autorità può imporre alle banche un piano diverso. 8. In caso di fallimento di una banca, l’autorità potrà intervenire con misure eccezionali quali ad esempio la revoca degli amministratori e la nomina di commissari. 9. L’autorità avrà in caso di fallimento il potere di caricare perdite su creditori e azionisti con l’obiettivo di proteggere il denaro dei correntisti. 10. Obbligo delle banche di finanziare un fondo di garanzia da utilizzare in caso di default. 11. Creare una nuova autorità, il Conseil de stabilité financière, responsabile di monitorare e prevenire lo sviluppo del rischio sistemico.


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necessità di affidare le decisioni sui compensi agli azionisti stessi. Per il momento, ovviamente, si resta in attesa di una risposta.

Per capire che aria tiri in Europa basta andare Oltralpe. François Hollande lo aveva promesso già in campagna elettorale e, almeno per ora, sembra intenzionato a mantenere l’impegno. La Francia intende frenare la speculazione a cominciare dallo stop a proprietary trading e affini. La legge, all’esame del Parlamento, prevede la separazione delle attività retail (le operazioni con la clientela) dalle operazioni di tipo speculativo. Di fatto si tratta del vecchio Glass-Steagall Act, introdotto negli Stati Uniti nel 1933 e abolito nel 1999 durante la seconda amministrazione Clinton. Ma il piano francese va oltre: il progetto presentato dal ministro dell’Economia Pierre Moscovici (vedi SCHEDA ) prevede il blocco alla speculazione sui derivati legati alle materie prime agricole e lo stop all’high frequency trading, le operazioni algoritmiche che sfruttano i margini di prezzo in intervalli di tempo minimi e che possono generare volatilità e instabilità per i mercati. L’aspetto è particolarmente significativo, soprattutto in relazione allo stesso principio di separazione delle attività. L’idea, come noto, è già stata promossa a livello europeo dal governatore della Banca di Finlandia e consigliere Bce,

I CEO PIÙ PAGATI DEL 2011 Nome

Banca

Stipendio 2011

Stipendio 2010

Variazione +11%

1 James Dimon

JP Morgan

23.060

20.776

2 Bob Diamond

Barclays

20.072

nd

nd

3 John Stumpf

Wells Fargo

17.915

17.568

+2%

4 Lloyd Blankfein

Goldman Sachs

16.160

14.114

+14%

5 Alfredo Sáenz

Banco Santander

16.140

16.736

-4%

6 António Horta-Osório

Lloyds Banking Group

15.679

nd

nd

7 Vikram Pandit

Citigroup

14.857

nd

nd

8 James Gorman

Morgan Stanley

12.969

14.854

-13%

9 Stuart Gulliver

HSBC

10.471

nd

nd -21%

10 Stephen Hester

Royal Bank of Scotland

9.101

11.537

11 Joseph Ackermann

Deutsche Bank

9.005

8.548

+5%

12 Brian Moynihan

Bank of America

7.482

1.220

+513%

13 Francisco González

Bbva

7.362

8.071

-9%

14 Sergio Ermotti

Ubs

6.989

nd

nd

15 Brady Dougan

Credit Suisse

6.561

12.230

-46%

Dati in milioni di dollari Usa.

12. Attribuire a questa nuova autorità poteri più ampi a cominciare dalla possibilità di imporre ulteriori requisiti patrimoniali. 13. Prevenire lo sviluppo di bolle speculative, consentendo al Conseil de stabilité financière di controllare la politica di concessione del credito delle banche. 14. Aumentare la trasparenza dei costi di assicurazione per i contraenti dei prestiti. 15. Consentire ai consumatori di scegliere liberamente l’assicurazione sul prestito. 16. Porre un tetto massimo alle commissioni esigibili dalle banche ai clienti che incontrassero difficoltà nei pagamenti (ad esempio il massimo scoperto).

17. Facilitare l’esercizio del diritto all’apertura di un conto che permetta a chiunque l’accesso a servizi finanziari di base gratuiti. 18. Consentire a soggetti terzi di rivolgersi alla Banque de France per permettere ai soggetti interessati di aprire un conto. 19. Ridurre la durata della procedura di risoluzione dei casi di sovraindebitamento. 20. In caso di procedimento per eccessivo indebitamento si introduce la possibilità di congelare gli interessi sul debito a partire dall’apertura della pratica.

[Per approfondire: www.economie.gouv.fr/files/projet-loi-reforme-bancaire.pdf]

| ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 31 |

FONTE: EQUILAR (WWW.EQUILAR.COM), FINANCIAL TIMES (WWW.FT.COM), GIUGNO 2012.

Le riforme di Francia e Germania


| finanzaetica |

Erkki Liikanen, per le banche le cui operazioni di investimento (tra le quali è compreso l’high frequency trading) superino i 100 miliardi di euro di controvalore o abbiano un peso non inferiore al 15-25% delle attività totali. Il Regno Unito ha già avviato un piano in tal senso mentre la Germania ha promosso una legge in linea con i medesimi parametri. E gli effetti anti-speculazione non dovrebbero tardare a manifestarsi. L’ipotesi l’ha lanciata di recente Bloomberg, citando le valutazioni dell’agenzia di rating Fitch. Il piano dovrebbe interessare Deutsche Bank, la principale banca del Paese, così come Commerzbank, Landesbank Baden-Württemberg e la filiale tedesca di Unicredit per un totale di una decina di istituti o poco più. Ma per alcuni di questi, nota l’agenzia di rating, i costi della ristrutturazione organizzativa, che implicano la costituzione di unità separate per la gestione degli investimenti più complessi, dovrebbero rivelarsi troppo onerosi e, in definitiva, non sostenibili. Risultato: piuttosto che sostenere i costi di separazione, molte banche dovrebbero abbandonare le attività più rischiose.

Italia in ritardo

IT.WIKIPEDIA.ORG - BANCA D’ITALIA, MILANO

Diversi mesi or sono il presidente del Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo, aveva sottolineato lo scarso impatto della proposta Liikanen sugli istituti italiani, per i quali l’investment banking continua a rappresentare una risorsa marginale (basti pensare alla scarsa

BONUS, LA RIVOLUZIONE DELLA SVIZZERA Un risultato simile, probabilmente, non se lo aspettava nemmeno Thomas Minder, l’imprenditore di Sciaffusa che aveva promosso la raccolta firme per il referendum. A marzo il 68% degli Svizzeri ha detto sì alla legge che impone un tetto agli stipendi dei manager delle società private quotate in borsa. Risultato: stop alle buonuscite milionarie e ai bonus legati alle operazioni di acquisizione e, soprattutto, potere decisionale agli azionisti chiamati a esprimersi sulle retribuzioni (il vecchio principio del Say on Pay). Molti, di recente, i casi clamorosi che avevano fatto discutere l’opinione pubblica elvetica: i 15 milioni di franchi guadagnati dall’ex presidente della Novartis, Daniel Vasella, ma anche i 12,5 milioni intascati dal numero uno di Roche Severin Schwan e gli 11,2 milioni guadagnati da Paul Bulcke della Nestlé.

Mentre all’estero molti Paesi lanciano progetti di riforma, in Italia ci si nasconde dietro allo scarso coinvolgimento nell’investment banking. Ne fa le spese anche la Tobin tax esposizione sui derivati, vedi Valori n. 102, settembre 2012). Ma questo, ovviamente, non basta a sollevare l’Italia dalla responsabilità di una scarsa politica anti-speculazione. Per capirlo basta guardare alla versione tricolore della Tobin Tax, entrata in vigore a inizio marzo. La norma colpisce in modo estremamente marginale il trading ad alta frequenza (tassato a un quinto dell’aliquota sugli scambi ordinari di azioni) ed esclude le operazioni specu-

lative intraday (su cui si basa l’high frequency stesso) nonché la maggior parte delle transazioni in derivati. Assumere una posizione speculativa sui futures delle materie prime, per intenderci, resta in Italia un comportamento totalmente tax free. Un passo avanti importante è arrivato invece dalla Spagna. A marzo Madrid si è detta pronta a introdurre il principio del voto vincolante degli azionisti sul compenso totale dei manager bancari (sia per i bonus che per la componente fissa). L’operazione, ha ricordato il Financial Times, si affianca ad un’altra norma che imporrebbe alle aziende quotate in borsa di rendere noti i dati sugli stipendi all’authority di controllo nazionale. 

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| 32 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |


| finanzaetica | la tassa all’opera |

La Ttf non fa male alla Borsa di Andrea Barolini

Entrata in vigore il 1° marzo scorso, la tassa sulle transazioni finanziarie italiana nei primi giorni di applicazione non ha colpito i volumi di scambio. Le previsioni cupe dei detrattori, dunque, almeno per ora si stanno rivelando del tutto infondate. E in Francia l’impatto sui prezzi è risultato nullo da agosto a Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) in salsa italiana – quella cioè introdotta dalla legge di Stabilità 2013 e che si applica ai trasferimenti di proprietà di azioni e strumenti finanziari partecipativi, alle operazioni su derivati e altri valori mobiliari, nonché all’high frequency trading – è operativa (in parte) dal 1° marzo scorso. E, nei primi giorni di scambio, non ha determinato alcun effetto sugli scambi di Piazza Affari. Né in termini di volumi di scambio, né secondo il giudizio degli operatori di Borsa. La Tobin Tax, insomma, finora non si è rivelata affatto catastrofica per la piazza finanziaria italiana e le fughe in massa paventate dai suoi detrattori non si sono verificate. A onor del vero va detto che la normativa non si applica a tutti gli scambi azionari. L’imposta dello 0,12% colpisce, infatti, solo chi acquista azioni di società con capitalizzazione superiore ai 500 milioni di euro e con sede in Italia. Si tratta, dunque, di una tassa circoscritta di fatto alle “big” quotate a Milano. Inoltre, le operazioni su titoli derivati saranno tassate solamente a partire dal 1° luglio prossimo. La normativa, poi, prevede una tassazione sul netto delle posizioni in chiusura di giornata. Il che, tradotto dal linguaggio tecnico, significa che se si acquistano 100 titoli e se ne rivendono altrettanti entro la stessa giornata, si evita di incorrere nella Tobin Tax.

L

Tali caratteristiche hanno suscitato forti critiche da parte degli attivisti che da anni si battono per l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, che la giudicano troppo poco stringente. D’altro canto, i detrattori dell’imposta potrebbero sfruttare la stessa osservazione per affermare che, se non c’è stato un calo dei volumi, è proprio grazie al fatto che la Tobin tricolore è di fatto annacquata, aggiungendo che in ogni caso è necessario aspettare qualche mese prima di poterne giudicare appieno l’impatto.

Chi ha fatto di più Andiamo allora a vedere cosa succede dove la tassa è stata applicata e da più tem-

Anche la versione francese della tassa, in vigore da agosto, non ha inciso sui prezzi degli asset. E aiuta a limitare le speculazioni

po. Uno studio effettuato da Leonardo Becchetti, docente all’Università Tor Vergata di Roma, ha esaminato i titoli quotati alla Borsa di Parigi dallo scorso mese di agosto a oggi. Da quando cioè è entrata in vigore la tassa sulle transazioni introdotta dal governo francese. I risultati evidenziati nel rapporto indicano un calo del 25% della volatilità intraday (ovvero di ciascuna singola sessione) e del volume delle transazioni. Ma l’impatto sui prezzi degli asset, così come quello sulla liquidità, sono risultati nulli. Anche in Francia, conclude il docente, sono risultati perciò infondati gli allarmi lanciati dalle banche e dai gestori di patrimoni mobiliari. «La nuova imposta – prosegue il paper firmato da Becchetti – rende inoltre molto costoso il trading ad alta frequenza (high frequency trading), il che genera un effetto benefico limitando le attività speculative». Fin qui le esperienze “nazionali”. A breve, in ogni caso, gli 11 Paesi europei che hanno aderito alla cooperazione rafforzata per introdurre una tassa sulle transazioni a livello comunitario dovranno conformarsi a una direttiva europea che, a giudicare per lo meno dal testo licenziato dalla Commissione di Bruxelles che dovrà essere ratificato dall’Europarlamento, risulta particolarmente avanzata. Se, come sono certi i responsabili delle campagne internazionali a favore della Tobin Tax, anche “a regime” l’imposta europea non comporterà fughe di investitori, diventerà molto difficile, per i governi che hanno preferito non unirsi all’iniziativa, spiegare la loro posizione di fronte all’opinione pubblica.  | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 33 |


| finanzaetica | microfinanza |

Troppo micro e poco profit di Corrado Fontana

Domanda e offerta di microcredito crescono, lo certifica un rapporto appena pubblicato. Ma ci sono troppi piccoli promotori, pochi strutturati e professionali. E così il mercato italiano perde 30 milioni di fondi europei a un lato continua la stretta al credito da parte delle banche, dall’altro aumenta (vertiginosamente!) il ricorso alla microfinanza. Dell’importanza di questo strumento si è accorta anche la politica: gli eletti alla Regione Sicilia del Movimento cinque stelle si decurteranno lo stipendio per alimentare un fondo regionale per il microcredito a sostegno delle micro-imprese (in discussione). Sono 9.300 i piccoli prestiti erogati nel 2011, 106,7 milioni di euro, con un aumento del 42% dal 2010 che impressiona. A rivelarlo è il 7° Rapporto sul microcredito in Italia, pubblicato a marzo nel volume “Fiducia nel credito. Esperienze di microcredito per l’impresa ed il sociale”. «Pensavamo che il 2011 sarebbe stato il punto più profondo della crisi, ma proba-

D

bilmente il limite dovrà spostarsi nel 2012, se non addirittura più avanti», commenta Nunzio Pagano, partner della C. Borgomeo&co e coordinatore del Rapporto. Insomma il microcredito come “ammortizzatore finanziario” e indicatore economico.

Nessuna regola... Dietro questo aumento del 42% della microfinanza si intravede una fotografia del settore con diversi punti critici, a partire dalla sua disomogeneità. Secondo Pagano, infatti, «il microcredito è la somma di un numero incredibile di esperienze. Siamo arrivati a contarne 216, dalle iniziative delle parrocchie a quelle delle università, delle province, degli altri enti locali e delle fondazioni bancarie. All’interno del microcredito sociale ci sono operazioni che riguardano il sostegno dei redditi familiari e iniziative che anticipano addirittura l’erogazione degli ammortizzatori sociali (non esisteva negli anni passati). Oppure opzioni destinate ai lavoratori interinali.

Tra business e (social) business di Corrado Fontana

PerMicro e Banca Etica: due operatori importanti per il microcredito in Italia. Due modi diversi di intendere e di applicare questo strumento Con 16 milioni di euro di microcrediti previsti per il 2013 e 12 agenzie sparse per il Paese, PerMicro è l’operatore professionale specializzato in microfinanza più significativo sul mercato italiano. Dalla parte di PerMicro numeri notevoli: dai 19 milioni di euro

| 34 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

di microcrediti erogati fino a oggi (17 milioni negli ultimi tre anni) a quel 5% scarso del totale distribuito sotto l’ombrello protettivo di un fondo di garanzia, fino alla crescita del 100% nel numero di microcrediti erogati tra 2011 e 2012, passati da 760 a 1477. Tra i suoi soci, oltre al Fondo europeo degli investimenti, Bnl e UbiBanca. Con Banca Etica ha in comune l’idea dell’utilità del microcredito per l’economia e il vantaggio sociale che esso comporta, nonché la convinzione che il microfinanziamento non possa prescindere dalle attività di accompagnamento e assistenza tecnica, prima,


| finanzaetica |

FONTE: BILANCIO SOCIALE BANCA ETICA 2011

un anno o meno, senza dare modo alla domanda di percepire lo strumento e prendere confidenza con le sue regole». Un grande limite, questo sottolineato da Nunzio Pagano, che autorizza a parlare di “diffusa fragilità” per iniziative che quasi mai si presentano come prodotti strutturati. E non solo, dato che si tratta perlopiù di programmi di natura locale e dimensione provinciale (diocesi, camere di com-

I MICROCREDITI CONCESSI DA PERMICRO

...E GLI IMPORTI EROGATI

2.000 1.800 1.600 1.400 1.200 1.000 800 600 400 200 0

€ 11.000.000 € 10.000.000 € 9.000.000 € 8.000.000 € 7.000.000 € 6.000.000 € 5.000.000 € 4.000.000 € 3.000.000 € 2.000.000 € 1.000.000 €0

2010

2011

850 149

225

536

514 2009

87

88

186

41

75

2008

2012

Previsione 2013

durante e dopo l’erogazione. Ma le differenze tra i due principali attori del mercato di casa nostra si colgono già dalle parole usate per individuare i loro interlocutori: “cliente” o “beneficiario”. Andrea Limone, amministratore delegato di PerMicro, infatti, ha ben chiaro il concetto che il microcredito sia innanzitutto uno strumento finanziario (innovativo e a finalità sociale). E che «il tasso d’interesse non è un elemento rilevante», anche se «in Italia questo è un tema ancora preponderante». Non è rilevante, ci dice, perché si calcola su cifre basse, innanzitutto, e perché «se si fa microcredito nell’ottica della sostenibilità economica e per essere al servizio dei cosiddetti “non bancabili”, allora bisogna stabilire un prezzo che corrisponda alla somma tra il costo di funding (la raccolta, ndr), quello di default atteso e quello delle pratiche amministrative

Insomma, la mappa del microcredito italiano è frammentata e disorganica. E per questo paga un alto prezzo in termini di risorse: ben 30 milioni di euro resi dispo-

MC Fam

400.808 317.620

2.000

MC Imp

1.328

MC Fam

... ma poco credito

2008

11.000.000

Totale

MC Imp

2009

2010

2011

5.675.000

Nel microcredito imprenditoriale esiste sempre il tema del finanziamento alle start-up, ma cominciamo a registrare programmi destinati alle imprese esistenti». E, considerato che un’impresa esistente dovrebbe essere bancabile, c’è di che interrogarsi. Come pure sul fatto che «una certa quota dei programmi di microcredito è rappresentata da piccole finestre che si aprono e si chiudono, durando magari

2011

6.783.935

2007

1.283.212

0

mercio, comuni più importanti), nati in un mercato con pochissimi soggetti a carattere nazionale e dedicati: «Nel nostro Paese esistono ad oggi oltre 100 operatori, ma di questi si possono considerare “specializzate” (ovvero dedite unicamente al microcredito) circa 35 realtà», spiegava qualche mese fa a Italia Caritas Giampietro Pizzo, presidente della Rete italiana di microfinanza (Ritmi).

2.673.765

2010

84

2009

19

2008

103

191 40

151

144

125

148

126

19

100

22

200

73 48 121

300

213

400

1.452.219

500

637.404

600

872.809

559

700

Socio-assistenz. Micro-imprese Totale

643.709

772

800

La mappa del microcredito in Italia è frammentata, quasi nessun operatore è specializzato. E le banche tradizionali lo considerano un’attività in perdita

2.059.558

I MICROCREDITI CONCESSI DA BANCA ETICA

2012 Previsione 2013

e di gestione: da questa somma deriva il tasso d’interesse, che non può essere certamente del 4%. Soprattutto per i costi elevati di monitoraggio e di selezione, che devono essere svolti, secondo noi, dagli enti erogatori e non da soggetti esterni». Un approccio che marca qui una distanza rispetto al pensiero di Gabriele Giuglietti, vicedirettore di Banca Etica, che racconta le diverse metodologie dell’istituto di credito, che «ha fatto sempre i suoi interventi di microcredito attraverso una relazione con soggetti di riferimento come Caritas, associazioni quali Acli e Arci, o enti pubblici. [...] A differenza di quanto accade alla maggior parte delle banche, noi consideriamo la conoscenza sociale ricavata dal mondo associativo e parrocchiale un bagaglio informativo importante e anche una garanzia».

| ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 35 |


| finanzaetica |

FONTE: FIDUCIA NEL CREDITO. ESPERIENZE DI MICROCREDITO PER L’IMPRESA ED IL SOCIALE. VII RAPPORTO SUL MICROCREDITO IN ITALIA (2011)

LE FINALITÀ DEI MICROCREDITI SOCIALI CONCESSI NEL 2011

… E QUELLE DEI MICROCREDITI IMPRENDITORIALI (2011) 1.482

Sostegno alla famiglia

270 174 1.183

97

Start-up o imprese 0 esistenti

228 225 50

Start-up o avvio lavoro autonomo

155

Sostegno 0 al lavoratore 2

574

Imprese esistenti 7

818

278

32 21

94 567

427

Prevenzione usura

15

162

Prevenzione usura 0

458 0

0 Nord

72

0

300 Centro

600 Sud

900 1200 Multiregionale

nibili per il nostro Paese dal Fondo europeo degli investimenti (Fei) e stanziati dalla Banca europea degli investimenti. Denaro pubblico che potrebbe arrivare attraverso Sefea (Société Européenne de Finance Ethique et Alternative) se non fosse che, chiarisce Fabio Salviato (presidente di Febea - Fédération Européenne des banques Ethiques et Alternatives), «in Italia non esiste ancora una società finanziaria o una banca per il microcredito che abbia capitali adeguati e un’équipe strutturata e organizzata per gestire una scala di almeno 10 mila microcrediti, solo tanti operatori piccoli a livello locale». Ci sarebbero PerMicro, società specializzata (1.477 microcrediti per circa 8 milioni di euro erogati nel 2012), e Banca Etica,

1500

0 Nord

100 Centro

che però non fa del microcredito il suo core business (103 microcrediti per 766 mila euro erogati nel 2011). Ma la domanda insoddisfatta va ben al di là delle loro attuali possibilità. «Secondo una ricerca del Fei, su 100 potenziali richieste di microcredito in Europa – prosegue Salviato – la risposta media tocca il 10%. Il miglior risultato è quello della Francia con il 17%. L’Italia spunta un misero 0,34%, pur essendo lo Stato che l’indagine individua come il più bisognoso di microcredito». La domanda è allora: perché l’offerta italiana non si è ancora strutturata adeguatamente?

Troppe falle nello scafo Le ragioni sono diverse: il primo motivo è che le banche, strumenti essenziali del mi-

MICROCREDITO D’EUROPA Secondo un rapporto della Microcredit Summit Campaign al 31 dicembre 2009 erano 3.589 gli istituti di microfinanza operativi in tutto il mondo, capaci di raggiungere oltre 190 milioni di clienti (di cui più di 128 milioni, circa il 67%, risultava al di sotto della soglia di povertà assoluta, ossia meno di 1 dollaro al giorno, prima di ricevere l’erogazione del prestito). D’altra parte, come sottolineato da un rapporto di Bankitalia del luglio 2011 (Inclusione finanziaria, le iniziative del G20 e il ruolo della Banca d’Italia), l’esclusione finanziaria riguarda ormai circa 2 miliardi e mezzo di individui, e 450 mila imprese a livello globale. Secondo uno studio della Commissione Europea del 2008 (Financial Services Provision and Prevention of Financial Exclusion), in Italia ben il 16% della popolazione risulta esclusa dai principali servizi finanziari. Mentre nell’Europa a 15 il dato, riferisce Social Watch, era pari nello stesso momento al 7%. Infine, secondo European Microfinance Network (i cui dati sono aggiornati al settembre del 2010), in Italia l’82% degli istituti di microfinanza fa parte del mondo del non-profit. Se la Francia è per tutti il modello da seguire, Sabina Siniscalchi della Fondazione Culturale Responsabilità Etica precisa però che «in generale, dove esiste una normativa nazionale che facilita e snellisce le procedure, e abbina il prestito ad attività non finanziarie come l’accompagnamento, il tutoraggio e il reinserimento nel sistema creditizio tradizionale, il microcredito funziona». A.B.

| 36 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

200

300 Sud

400 500 Multiregionale

600

700

crocredito, generalmente lo considerano un investimento in perdita e quasi mai se ne fanno dirette promotrici. E del resto margini di profitto non ne restano per nessuno, o quasi, laddove i programmi di microcredito sono portati avanti da soggetti che profit non possono essere (enti locali, diocesi), attraverso prodotti finanziari coperti da ogni rischio tramite fondi di garanzia, e puntando comunemente a tenere i tassi d’interesse al minimo richiesto dalla banca, quando non addirittura sotto. In questo tipo di operazioni difficilmente si può contemplare il costo di un’adeguata attività di selezione e monitoraggio della clientela (secondo PerMicro) o dei beneficiari (secondo Banca Etica), nonché il loro accompagnamento, con un’assistenza tecnica professionale. Metteteci poi la presenza costante degli enti pubblici, spesso non percepiti come soggetti a cui si deve restituire il denaro; la scarsa cultura del mid-management delle banche sul microcredito; e pure l’attesa per i decreti attuativi all’articolo 111 sul microcredito del Testo unico bancario, che definiranno i requisiti per gli operatori professionali e, forse, nuovi criteri di valutazione del merito creditizio per ridurre la platea dei “non bancabili”. Insomma, i punti da cui partire per migliorare questo mercato non mancano di certo. 

SITI INTERNET www.borgomeo.it, Borgomeo&co www.febea.org, Febea www.bancaetica.it, Banca Popolare Etica permicro.it, PerMicro www.microfinanza-italia.org, Ritmi www.fcre.it, Fondazione Culturale Responsabilità Etica


| ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 37 |


14.527

| numeridellaterra |

222

3.286

207

2.250

Più ricche degli Stati 1.557

IRLANDA Toyota Motor

781

REGNO UNITO

CANADA

OLANDA F

MESSICO

di Paola Baiocchi

USA PORTOGALLO State Grid

293

SPAGNA

| 38 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

2.091

S

FRANCIA

152

154

VENEZUELA

PERÙ General Electric

CILE Japan Post

378

203

204

BRASILE

370

e fossimo degli alieni che prima di sbarcare sulla Terra volessimo conoscere quali Paesi sono i principali attori economici, faticheremmo a localizzare il Wal Mart Land, la 25ma economia del Pianeta, che per fatturato è un po’ meno importante del Pil di Taiwan, ma è superiore al Pil della Norvegia. Noi sappiamo che Wal Mart è una società che si occupa di grande distribuzione e compra in tutto il mondo, imponendo le sue condizioni. Soprattutto in Paesi dove la somma della produzione nazionale non raggiunge nemmeno un terzo del suo fatturato. Lo stesso per le altre megasocietà che occupano la classifica delle prime cento economie: il potere di ricatto che gli conferisce la grandezza di scala non è, al momento, valicabile, ma costringe i Paesi fornitori a lavorare per loro, senza metterli in grado di uscire dalla miseria. 

226

229

2.563

1.410

1.034

GERMANIA

ARGENTINA Royal Dutch Shell


1.480 134

138

355

310

5.549

5.878 SVEZIA

NORVEGIA Walmart

UCRAINA Bank of America

528

735

DANIMARCA ExxonMobil

1.632 TURCHIA

S

310

304

133

2.055

ROMANIA AXA

132

SVIZZERA

162

162

RUSSIA

KUWAIT Eni INDIA

CINA

GIAPPONE

GIAPPONE GERMANIA

GERMANIA F

105

QATAR Samsung

104

ARABIA SAUDITA

134

127

448

GRECIA BP

VIETNAM Nestlé

1.237

168

158

ITALIA

ALGERIA Volkswagen

Pil del Paese [2011, in miliardi di dollari]

145

140

AUSTRALIA

NUOVA ZELANDA Glencore

Fatturato dell’impresa [in miliardi di dollari] | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 39 |

F

FONTE: “TOP 200. LA CRESCITA DEL POTERE DELLE MULTINAZIONALI”, CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, GIUGNO 2012 - ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

459

422

413

| megasocietà |


REUTERS / BRENDAN MCDERMID

economiasolidale

Italiani & medicine, amore malato > 44 Per essere belli non servono gli animali > 47 Il divano tricolore si è fermato a Chinitaly > 49 A Piazza d’Arti L’Aquila che resiste > 52 | 40 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |


| big pharma |

A spasso davanti al quartier generale di Pfizer a New York, il colosso farmaceutico con un fatturato che nel 2012 ha sfiorato i 60 miliardi di dollari.

L’affaire Donepezil:

La Pfizer ha raddoppiato la dose consigliata di una medicina anti-demenza per non perdere il brevetto e i relativi profitti. Il tutto con l’avallo dell’Agenzia del farmaco Usa, nonostante gli effetti collaterali e i dubbi di molti neurologi

guadagnare miliardi puntando N sul 23 di Emanuele Isonio

ella roulette del casinò targato Big Pharma puntare sul numero 23 ha fruttato davvero un bel tesoretto alla Pfizer e alla Eisai. Non che i due colossi farmaceutici (statunitense il primo, giapponese il secondo) avessero disperato bisogno di denaro: Pfizer è la più grande società al mondo nella ricerca e produzione di farmaci, con i suoi 58 miliardi di dollari di fatturato (tanto per capirci: 13 miliardi in più del Pil della Tunisia). Ed Eisai si colloca comunque tra le prime 25 aziende del settore. Ma | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 41 |


CAPACITÀ COGNITIVE: MIGLIORAMENTI LIMITATI NEL TEMPO (METODO SIB) Patients increased to ARICEPT 23 mg Patients continued on ARICEPT 10 mg

50 LS mean (+SE) change from baseline

Patients increased to ARICEPT 23 mg Patients continued on ARICEPT 10 mg 40 30 20 10 0

Marked

Moderate Improvement

Minimal

P=NS vs ARICEPT 10 mg for overall score Adapted from Farlow MR et al. Clin Ther. 2010;32:1234-1251.

Minimal

No Change

Moderate Worsening

n=1367 in the ITT-LOCF analysis

L’agenzia del farmaco Usa ha autorizzato la nuova dose del Donepezil, nonostante vantaggi molto dubbi. Le uniche certezze riguardano l’aumento degli effetti collaterali

Marked

6 5 4 3 2 1 0 –1

Cognitive Improvement

*

0

6

12

18 Settimana

24

Cognitive Decline

*P<0.001 Adapted from Farlow MR et al. Clin Ther. 2010;32:1234-1251.

pecunia non olet e il motto vale ovunque. Per cui, quando il brevetto di uno dei loro prodotti più redditizi stava per scadere, le due ditte hanno pensato a come tenere alla larga la concorrenza dei produttori di medicine generiche per qualche altro anno. Una soluzione a nove zeri (di fatturato), ottenuta però sul-

L’APPELLO DEL BRITISH MEDICAL JOURNAL: «PUBBLICARE LE RICERCHE, QUALUNQUE SIANO I RISULTATI» Quello delle ricerche scientifiche è un settore delicatissimo per l’impatto che può avere sulla salute pubblica. Ma, per sua natura, è anche esposto a enormi pressioni. Come ad esempio quella di non pubblicare i risultati se vanno contro l’interesse del committente. Per questo il British Medical Journal, insieme a molte altre associazioni (tra cui l’italiana NoGraziePagoIo), ha promosso una petizione: chiedere che i volontari che si sottopongono a una sperimentazione abbiano la certezza che la ricerca verrà pubblicata, qualunque siano i risultati ottenuti. «La non pubblicazione equivale a negare il progresso scientifico, tradisce la fiducia dei volontari, altera le evidenze con una ricaduta negativa sulle decisioni cliniche», spiega Iain Chalmers, responsabile della James Lind Alliance. Fatto ancor più grave, visto che fin dal 1964 la storica dichiarazione di Helsinki redatta dall’Associazione medica mondiale impone che «i risultati positivi e negativi vanno ugualmente pubblicati». «Senza un’iniziativa concreta autori, comitati etici, istituzioni accademiche e finanziatori non modificheranno lo status quo», commenta Giovanni Peronato, responsabile dell’unità di Reumatologia dell’ospedale San Bortolo di Vicenza e membro dell’associazione NoGraziePagoIo. «Un passo concreto lo ha fatto il National Institute of Health britannico, vincolando una parte del finanziamento delle ricerche alla loro effettiva pubblicazione. Ha ottenuto il successo nel 98% dei casi». La petizione può essere firmata al sito www.alltrials.net. Em.Is.

| 42 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

FONTE: PFIZER

ARICEPT 10 E 23 A CONFRONTO: CAMBIA LA DOSE, NON L’IMPATTO SULLE FUNZIONI GLOBALI... (METODO CIBIC+)

Percentage of patients at Week 24 (LOCF)

FONTE: PFIZER

| economiasolidale |

la pelle dei pazienti e minando la credibilità del sistema di controllo e prescrizione dei farmaci.

Una pillola campione d’incassi La vicenda è questa. Ed è stata denunciata nelle settimane scorse dal prestigioso British Medical Journal. Il Donepezil (prodotto da Eisai e commercializzato da Pfizer con il nome di Aricept) è un autentico leader tra i trattamenti della demenza causata dall’Alzheimer: due miliardi di dollari di vendite, ogni anno e solo negli Stati Uniti. Dose raccomandata: 10 milligrammi. Almeno fino a quando il brevetto miliardario non è giunto quasi al capolinea. Un pericolo da scampare come la peste per i proprietari della molecola, terrorizzati dal crollo del prezzo del prodotto e dei margini di guadagno. A quattro mesi dalla scadenza l’ideona: convincere la Food and Drug administration (l’agenzia del farmaco statunitense) ad approvare un nuovo (e curioso) dosaggio: 23 milligrammi. Tredici in più del precedente. Un numero primo, ma non un numero a caso: ventitré è, infatti, una quantità impossibile da ottenere ingerendo due pillole da dieci milligrammi o quattro da cinque. In questo modo il brevetto sarebbe stato salvo per altri tre anni.

La diga inesistente della Fda Rimaneva da convincere la Food and Drug administration dell’effettiva utilità di raddoppiare il dosaggio consi-


| economiasolidale |

gliato. Una missione impossibile, almeno stando ai grafici della stessa Pfizer. «L’impatto sulle funzioni globali è chiaramente identico tra i due dosaggi», spiega Guido Rodriguez, professore ordinario di Neurofisiopatologia all’università di Genova e uno dei massimi esperti italiani di Alzheimer. «Anche i vantaggi a livello cognitivo sono minimi, tanto che per misurarli è stata usata una scala che analizza condizioni già molto compromesse. Probabilmente era l’unica che mostrava una qualche differenza». Eppure dalla Fda il disco verde è arrivato. La motivazione dice tutto: «Anche se lo studio non lo dimostra direttamente – scrive Russell Katz, direttore della divisione di neurologia della Fda – secondo me è forte la sensazione che il dosaggio da 23 mg ha molto probabilmente un effetto sul funzionamento complessivo. Credo che lo sponsor abbia dimostrato che il dosaggio di Aricept 23 è efficace. Pertanto approverò la commercializzazione». Un via libera che giustifica sospetti. Tanto più che la Fda ha accettato anche un foglietto illustrativo secondo il quale il nuovo dosaggio avrebbe vantaggi “in entrambe le misure effettuate”. Un’affermazione palesemente falsa. Ma ci sono voluti diciotto mesi per modificarla. Nel frattempo il nuovo Aricept 23, grazie a una sapiente campagna informativa verso medici e pazienti, ha preso il largo: negli Usa viene rimborsato sia dallo Stato, sia dalle assicurazioni private e nei

primi sei mesi di vendite ha fatto segnare 68 mila prescrizioni. Un boom ottenuto nonostante effetti collaterali tutt’altro che secondari: «L’Aricept porta con sé una selva di drammatici disturbi, che crescono all’aumentare della dose», denuncia Rodriguez. «Sono le analisi della stessa Pfizer ad ammetterlo»: quadruplicati i pazienti che segnalano nausea, triplicati i casi di vomito, raddoppiati quelli di diarrea e anoressia.

Farmaci anti-Alzheimer: «Soldi sprecati» Ma non è solo la questione di dosaggio a suscitare lo sconcerto di molti esperti. Sotto accusa è più in generale l’uso della cate-

Due banner che campeggiano nei siti internet della statunitense Pfizer e della giapponese Eisai

goria di medicinali di cui il Donepezil fa parte. «Abbiamo sperato che fossero utili a migliorare la qualità di vita dei malati d’Alzheimer, ma abbiamo poi scoperto che i farmaci anticolinesterasici non servono quasi a nulla», confessa Rodriguez. «Sono utili solo al 50% delle persone affette da demenza e la ricerca ha dimostrato che il loro effetto è limitato a 6-8 mesi. Dopo, la malattia continua a progredire. Illudere i pazienti e i familiari è immorale». Ed è anche un problema di costi. In Italia gli anticolinesterasici vengono sommi-

IL SENATO USA ACCUSA: 210 MILIONI PER ORIENTARE 13 ARTICOLI SCIENTIFICI L’atto d’accusa fa tremare i polsi: aver orientato e manipolato il contenuto di tredici articoli scientifici. Prezzo per il lavoro: 210 milioni di dollari in diritti e compensi, accreditati sui conti correnti di esperti e consulenti. A puntare il dito è il Senato degli Stati Uniti d’America, che in un suo rapporto ha messo sotto inchiesta la Medtronic, un’azienda specializzata in apparecchiature medicali. Oggetto dell’indagine è una proteina (nome in codice: InFuse) pensata per stimolare la crescita delle ossa e approvata undici anni fa dalla Food and Drug Administration per fondere le vertebre in caso di mal di schiena non trattabile altrimenti. Secondo il dossier del Senato Usa, i medici avrebbero occultato gli effetti secondari dannosi dell’InFuse, enfatizzandone in modo eccessivo i benefici. Inoltre avrebbero redatto il rapporto usato

poi dalla Fda per dare il via libera al prodotto concordandone i contenuti direttamente con Medtronic. Dal canto suo, la ditta nega ogni addebito. I medici, tutti affiliati a prestigiose università americane, anche. Ma, almeno negli Usa, il fatto che, nel redigere i loro rapporti, i medici avessero celato i legami con l’industria e i vari conflitti d’interesse è già di per sé un atto d’accusa. Tanto più che l’introduzione dell’InFuse non è stata senza conseguenze per la salute dei pazienti: alcuni sono deceduti, molti altri hanno sofferto di infiammazioni o segnalato problemi neurologici e indebolimento delle ossa. Effetti secondari che sia la ditta sia i medici coinvolti conoscevano. Ma che, nelle loro pubblicazioni, erano tutti accuratamente celati. Em.Is.

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C’È PUZZA DI CONFLITTO (DI INTERESSI) AL NATIONAL INSTITUTE OF HEALTH Gli Stati Uniti saranno pure la culla delle opportunità e il paradiso del merito. Ma per quanto riguarda i finanziamenti delle ricerche sanitarie la realtà appare molto diversa. Tanto da allarmare in maniera crescente la comunità scientifica. Un esempio su tutti arriva dal National Institute of Health, il più grande ente finanziatore di ricerca biomedica del mondo. 460 mila progetti di ricerca finanziati nell’ultimo decennio, per circa 200 miliardi di dollari. Il suo slogan? “Finanziare la miglior ricerca, fatta dai migliori scienziati”. Attività senz’altro meritoria. Ma due ricercatori – Joshua Nicholson e John Ioannidis – hanno rivelato (e denunciato su Nature a fine 2012) che i criteri di assegnazione sono quanto meno opinabili. Hanno infatti scoperto che i fondi erano erogati soprattutto in favore dei membri delle study section dell’NIH (le commissioni di scienziati che suggeriscono quali progetti meritano di essere sovvenzionati), a prescindere dal numero di citazioni ricevute dai loro lavori. Al contrario, il 60% degli autori di articoli influenti e molto citati (oltre le mille segnalazioni) non ricevevano finanziamenti. Ma non è solo una questione di persone: i due ricercatori hanno scoperto che i progetti di ricerca dei membri delle study section dell’NIH indagavano ambiti assai analoghi a indagini già finanziate: una corsa all’omologazione, che premia progetti simili tra loro e lascia fuori idee innovative e potenzialmente rivoluzionarie. Un problema comprensibile se chi può ricevere fondi dall’NIH è anche giudice dei progetti da approvare. In tre parole: conflitto di interessi. E intanto, il circolo vizioso lascia fuori gli autori più citati: che non ricevono fondi e al tempo stesso non possono influenzare il processo di ripartizione del denaro. Inutile dire chi sia, da ultimo, a farne le spese. Em.Is.

nistrati gratis dalle unità di valutazione Alzheimer. «Ci sono poi neurologi senza scrupoli che non inviano i propri pazienti ai centri pubblici per non perdere le loro laute parcelle. Prescrivono loro stessi i farmaci che diventano un vero salasso per le famiglie». 30-40 mila euro è la cifra spesa in media per un familiare affetto da Alzheimer. «È il momento di chiederci se non sia meglio dare ai parenti dei malati i milioni spesi in medicine inutili», osserva Rodriguez. Un dubbio che si sono posti i vertici del Nice (National Institute for Health and Clinical Excellence), l’omologo britannico della Fda. L’agenzia inglese già da anni ha limitato l’uso degli anticolinesterasici a un piccolo numero di pazienti, raccomandando di non prescriverli ai malati con forme moderate di Alzheimer. Troppo basso il rapporto costi-benefici. Scelta mantenuta nonostante le enormi proteste delle associazioni di pazienti, sostenute da oltre cento parlamentari. «In Italia accadrebbe la stessa cosa», osserva Rodriguez. «Colpa di una mancanza di cultura medica e della cattiva informazione. Quando in un articolo si danno notizie scorrette, si alimentano false speranze. I media dovrebbero avere più coraggio. Solo così possiamo sperare di sconfiggere le lobby».  | 44 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

Italiani & medicine, amore malato di Emanuele Isonio

Dall’ultimo rapporto Aifa sull’uso dei farmaci in Italia emerge un consumo spesso slegato da motivazioni mediche. I pericoli per la salute sono dietro l’angolo leggerlo attentamente, ci sono parecchie notizie interessanti all’interno dell’ultimo rapporto sull’uso dei farmaci in Italia, che l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha presentato nelle settimane scorse a Roma. Incrociando numeri, tabelle e costi economici viene alla luce un legame tra farmaci, medici e pazienti tutt’altro che virtuoso.

A

Troppe pillole. Usate male Capita ad esempio di scoprire che in Italia si spendono ogni anno quasi 140 euro a testa solo per acquistare le prime cinque categorie di farmaci più prescritti (50 euro per i medicinali cardiovascolari, 29 per quelli dell’apparato gastrointestinale, 24 per gli antidepressivi, 22 per i farmaci per il sangue, quasi 14 per curare le affezioni respiratorie). Una spesa complessiva di quasi 20 miliardi (22 confezioni pro capite solo nei primi nove mesi del 2012), «che non potrà calare più di tanto» secondo Luca Pani, direttore generale dell’Aifa. Ma il problema è che, spesso, il consumo non è giustificato. Per rendersene conto, bisogna intrecciare questi dati con quelli relativi alla distribuzione regionale


| economiasolidale |

della spesa farmaceutica. Emergono, infatti, differenze notevoli da regione a regione: 55 euro di spesa per le statine (tra i rimedi più usati per le affezioni cardiovascolari) in Sicilia contro i 33,5 di Bolzano e i 40 della Toscana. 11 euro per i farmaci del sangue spese da ciascun cittadino calabrese a fronte di una media italiana che, tolta Calabria e Sicilia, viaggerebbe sotto i 6 euro. 25 euro per le medicine del sistema nervoso centrale spese in Abruzzo, a fronte di una media nazionale di 18. «Bisogna esser chiari su questo punto», osserva Pani. «Non ci sono cause epidemiologiche tali da motivare simili differenze». I motivi vanno quindi cercati altrove. Perché il consumo di farmaci è spesso figlio di comportamenti che di medico hanno ben poco. «È solo frutto di un atteggiamento prescrittivo del quale sono ugualmente responsabili i medici, che consigliano medicine con troppa leggerezza, e cittadini che fanno pressione per ottenerle».

Abitudini sotto accusa Un’abitudine che allarma gli addetti ai lavori, consapevoli che una medicina assunta in modo errato è spesso peggio della malattia che dovrebbe curare. «L’aderenza (ovvero la tendenza di un paziente ad assumere i farmaci così come prescritto dal medico) è molto bassa, soprattutto tra gli anziani». Ma anche i medici hanno le loro responsabilità e spesso non sanno dare indicazioni adeguate per sospendere i farmaci: «Togliere le medicine a un paziente è un’arte importante quanto saperli dare», spiega Pani. Ecco perché, agli occhi degli esperti Aifa, non è ad esempio giustificato l’utilizzo massiccio delle pillole per i disturbi gastrointestinali (168 dosi giornaliere prescritte ogni mille abitanti). «Un consumo così diffuso di inibitori della pompa protonica non ha senso rispetto alla diffusione delle patologie che dovrebbero curare. Ma se si sospendono drasticamente potrebbero produrre preoccupanti reazioni di rimbalzo». A questo si aggiunge un altro dato: gli italiani, quando acquistano i farmaci da banco (quelli per i quali non è necessaria alcuna ricetta) finiscono per comprare sempre lo stesso principio attivo. Probabilmente senza rendersene conto. Il rapporto Aifa rivela che il 22% tra i primi 50 farmaci Otc contiene paracetamolo. Un antipiretico (ma non antinfiammatorio) ampiamente usato e tollerato. Ma un consumo inconsapevole potrebbe portare a conseguenze molto gravi. «Già oggi – denuncia Pani – le reazioni avverse a farmaci Otc presi erroneamente sono la quarta causa di morte negli Usa».

Depressione in agguato Una delle poche note positive riguarda l’uso di antibiotici. Ancora sproporzionato rispetto al resto dell’Unione europea ma in calo del 6,4% rispetto al 2011 (-18% la spesa). A preoccupare dovrebbe invece essere un’altra notizia, annunciata durante la conferenza stampa di presentazione (ma forse sottovalutata dalla folta platea di giornalisti presenti): «Da qui al 2020, la depressione sarà la prima causa di disabilità in Italia». Una freccia in più nell’arco di chi implora di cambiare modello di “sviluppo”. 

Ortaggi: farmaci del futuro di Paola Baiocchi

Le sostanze vegetali sono forzieri naturali ricchi di sostanze utilissime per prevenire le malattie, conservandoci in buona salute. E c’è chi studia come questi alimenti possano trasformarsi in medicine molto promettenti è un settore del made in Italy che ha una serie di promettenti caratteristiche: è sperimentale, ma legato alla nostra tradizione agricola e culinaria. Riguarda la salute e l’alimentazione, in cui abbiamo già una rendita di posizione, essendo uno dei Paesi base della dieta mediterranea, ma potrebbe coinvolgere settori industriali avanzatissimi, come la biorobotica. Si tratta della nutraceutica, neologismo tra nutrizione e farmaceutica (vedi BOX ), che sta interessando molto, non solo il mondo accademico, ma anche le case farmaceutiche, che da anni segnano il passo nella ricerca delle nuove molecole, lamentandone il costo, e nella nutraceutica si trovano di fronte a principi attivi naturalmente sintetizzati, sui quali c’è ancora molto da scoprire. I vegetali sono, infatti, dei forzieri di una serie di sostanze che, fino a poco tempo fa, erano poco note e ora si stanno stu-

C’

NUTRACEUTICA Il neologismo nutraceutica, nato dalle parole nutrizione e farmaceutica, ha un padre e una data di nascita: è stato utilizzato per la prima volta nel 1989, in un articolo, dal medico Stephen De Felice, fondatore e presidente della Fondazione per l’Innovazione nella medicina. Il termine è entrato ora in molti dizionari come la Treccani che dà questa definizione: «Sostanza alimentare che agisce positivamente sulle funzioni fisiologiche dell’organismo, favorendone il benessere e contrastando i processi degenerativi». Anche i ministeri della Sanità hanno cominciato ad occuparsene: per esempio Health Canada, il ministero federale della Salute canadese, definisce il nutraceutico «un prodotto isolato o purificato da alimenti che viene generalmente venduto in forma di medicinali, di solito non associati al cibo». Una definizione, insomma, che colloca il nutraceutico tra gli integratori o i farmaci a discapito dell’altra parola che lo compone, la nutrizione.

| ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 45 |


| economiasolidale | nutraceutica |

diando grazie a nuove tecnologie. Sostanze epigeneticamente attive, come l’acido alfa lipoico, che favorisce un adattamento della trascrizione genica cellulare all’ambiente, aiutando la difesa contro il cancro o le patologie degenerative, ed è contenuto in piante come il cavolo o il broccolo. «A Pisa – spiega Vincenzo Lionetti, medico ricercatore della Scuola superiore Sant’Anna – l’Istituto di Scienze della vita è una realtà unica in cui agrobioscienziati, in grado di seguire la parte iniziale della filiera, dal pre al post raccolto, dialogano strettamente con biomedici e medici. Non tutti i vegetali ne contengono le stesse quantità e qui gli agronomi o i fisiologi vegetali possono intervenire, perché le colture si orientino verso vegetali più ricchi di elementi nutraceutici, in modo che diventino alimenti funzionali o d’uso sanitario».

Agricoltura sanitaria Spingere verso un’agricoltura più qualificata ha molte implicazioni, che potrebbero avere ricadute positive sui territori: attorno alla figura dell’agricoltore, riqualificata dalle nuove conoscenze e con l’introduzione di sensori biorobotici e software in grado di monitorare le concentrazioni di nutraceutici nella pianta e lo stato del terreno, si potrebbe atti-

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LA DIETA MEDITERRANEA DIFENDE LA SALUTE E ANCHE IL TERRITORIO Nel 2010 l’Unesco ha inserito la dieta mediterranea nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità. All’importante riconoscimento ha fatto seguito, lo scorso marzo, la pubblicazione sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine di uno studio, durato cinque anni, sulla dieta mediterranea, che ne afferma il ruolo significativo nel ridurre almeno del 30% il rischio di infarti, ictus e diabete di tipo 2. Lo studio specifica che si deve pensare alla dieta mediterranea nel suo vero significato di “stile di vita”, quindi di correlazione tra tutti gli elementi, considerati importanti alla stessa maniera. Molta frutta, molta verdura, cereali, legumi, pesce, poca carne rossa, olio d’oliva, un moderato consumo di alcol, attività fisica: sono, in sintesi, i segreti della dieta mediterranea. Un italian style che potrebbe a pieno titolo rappresentare uno straordinario motore di attrattiva turistica, che molte Regioni stanno pensando di valorizzare con leggi ad hoc. Ma che soprattutto avrebbe bisogno di uno stop al consumo di territorio per usi urbanistici, in favore della conservazione del territorio e del paesaggio. vare un indotto industriale ad alto valore aggiunto. E attirare giovani verso le campagne, con un tipo di agricoltura basato su selezioni naturali e incroci, non su Ogm. «Noi siamo favorevoli alla somministrazione degli elementi nutraceutici attraverso l’alimento funzionale – riprende Lionetti – cioè a un cibo che contenga concentrazioni misurabili di principi attivi, e la cui efficacia terapeutica, potenziata dal contatto con la matrice di origine, sia stata dimostrata con accuratezza in vivo». Per questo è stata immessa sul mercato una pasta con un alto contenuto di BetaGlucano, anti-ossidante contenuto nel-

l’orzo, testata come efficace nel ridurre gli alti livelli di colesterolo nell’uomo. L’Istituto di Scienze della vita ha in corso un altro studio per verificare l’ipotesi che il Beta-Glucano, con il giusto dosaggio, sia in grado di potenziare la riserva plastica del cuore, cioè la fisiologica capacità del tessuto cardiaco di ripararsi. Chi ha avuto un infarto potrebbe, insomma, curarsi con un bel piatto di pastasciutta! Una strada che a secoli di distanza ci riporta alle affermazioni di Ippocrate, il padre della medicina occidentale, che nel IV secolo a.C. diceva: «Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo». 


| economiasolidale | normative europee |

Per essere belli non servono gli animali di Gaia Angelini

Dall’11 marzo in Europa è entrato in vigore il divieto di test sugli animali per i cosmetici. Un iter legislativo durato quindici anni: da una parte gli animalisti, dall’altra l’industria della bellezza piccole e medie imprese 160. In media ogni giorno in Europa si vendono tra i 100 e i 300 mila cosmetici.

Una strage silenziosa

ddio test sugli animali, almeno per i cosmetici venduti in Europa. È questo il risultato ottenuto l’11 marzo scorso, dopo un lungo iter legislativo: quindici anni per arrivare a una normativa europea unica nel suo genere. Da quella data l’Unione europea ha sancito il divieto totale di importazione e commercializzazione di prodotti cosmetici testati su animali. Il commissario europeo alla Salute e protezione dei consumatori, Tonio Borg, l’ha definito «un importante segnale sul valore che l’Ue attribuisce al benessere animale».

A

Stimato tra i 70 e i 90 miliardi di euro all’anno, il mercato di prodotti cosmetici e da igiene personale dell’Unione europea è il più grande al mondo, circa tre volte quello statunitense. Da solo costituisce metà del mercato globale di questi prodotti. Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna rappresentano circa il 70% del settore nel Vecchio Continente. Secondo dati della Commissione Ue un consumatore europeo utilizza almeno sette cosmetici al giorno e le grandi industrie cosmetiche offrono un portafoglio di circa diecimila prodotti, mentre le

Nonostante i dati ufficiali siano limitati, le stime (seppure conservative) parlano di circa 100 milioni di animali utilizzati ogni anno nel mondo per la sperimentazione in tutti i campi (farmacologia, ricerca medica, prodotti chimici e cosmesi). Circa 12 milioni nell’Ue. Quasi tutti sono uccisi o muoiono a seguito dei test alla fine della sperimentazione. Solo per i cosmetici ogni anno in Europa venivano usati circa novemila animali all’anno. Almeno fino al 2009, quando fu introdotto un primo parziale divieto: i produttori di cosmetici non potevano più condurre test sugli animali sul territorio europeo, ma potevano tranquillamente eseguirli in altri Stati e commercializzare i singoli ingredienti o il prodotto finito in Europa.

La svolta, il divieto totale I cosmetici testati prima dell’11 marzo potranno rimanere in commercio, mentre i nuovi ingredienti dovranno essere testati con le moderne tecniche alternative per ottenere un’autorizzazione al commercio in Europa. La Commissione si è anche impegnata a finanziare ulteriormente lo sviluppo di alternative ai test su animali e a promuovere questa misura in altre regioni del mondo. Tra il 2007 e il 2011 l’Unione eu| ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 47 |


| economiasolidale |

La copertina dell’Annual Report 2012 di Seurat (Safety Evaluation Ultimately Replacing Animal Testing 2011-2015), progetto guidato alla Commissione Europea e da alcune industrie cosmetiche.

Normalmente non sono espressamente richiesti test su animali in fase di autorizzazione di un prodotto o dei suoi ingredienti. Test con tecniche alternative sono accettati nella maggior parte dei Paesi. La Cina rimane oggi l’unico mercato al mondo che richiede obbligatoriamente di testare cosmetici finiti sugli animali.

trodotto e promuovere i test alternativi nei vari campi di ricerca. Al momento resta una sola area grigia riguardo all’utilizzo degli animali per i test su cosmetici venduti sul mercato europeo: un’azienda potrebbe ottenere un’autorizzazione al commercio di determinati ingredienti per prodotti non cosmetici eseguendo test su animali e in un secondo momento richiedere il loro utilizzo nei cosmetici. Un meccanismo che permetterebbe di aggirare il divieto appena entrato in vigore. La Commissione europea ha promesso di risolvere tale potenziale conflitto. Attendiamo ulteriori sviluppi. E vigiliamo. 

Una scelta etica

Fino al 2009 in Europa venivano sacrificati circa 9.000 animali per i test sui cosmetici. Dall’11 marzo si possono usare solo test in laboratorio, per i quali serve ancora molta ricerca. L’Ue ha promesso investimenti ropea ha investito 238 milioni di euro sulla ricerca e lo sviluppo di metodologie alternative ai test sugli animali e investimenti futuri saranno promossi tramite Horizon 2020 – il programma europeo di ricerca per il periodo 2014-2020 – ancora in fase di negoziazione. Ci sono anche progetti specifici guidati dalla Commissione Europea e da alcune industrie cosmetiche, come Seurat (Safety Evaluation Ultimately Replacing Animal Testing 20112015), un progetto da 50 milioni di euro nel campo della tossicologia. Ci si aspetta che a breve altri Paesi seguano l’esempio europeo, dal momento che l’industria cosmetica mondiale dovrà comunque produrre cosmetici senza testarli su animali per il mercato europeo. Israele ha annunciato recentemente l’introduzione di una legislazione simile, mentre l’India e la Corea del Sud la stanno considerando. | 48 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

La Direttiva Cosmetici costituisce soprattutto una risposta etica: non sacrificare animali per la produzione di prodotti di bellezza. Infatti introduce il divieto di test sugli animali in questo campo senza aspettare che tutte le alternative per la produzione di nuovi ingredienti per prodotti di bellezza e pulizia personale siano disponibili. Una scelta etica che applica l’articolo 13 del Trattato di Lisbona, che identifica il benessere animale come un valore europeo da tenere in considerazione nello sviluppo delle politiche e della legislazione Ue. Negli ultimi decenni almeno 400 aziende nel mondo hanno scelto di produrre cosmetici con ingredienti non testati su animali, indipendentemente dalle regolamentazioni vigenti. Normalmente aderiscono a uno standard internazionale volontario di certificazione. Il più famoso è il Leaping Bunny Standard, la coalizione per l’informazione ai consumatori sui cosmetici, che si occupa di certificare prodotti sul mercato globale come non testati su animali. Nel campo dei cosmetici, l’Ue è parte di Iccr (International Collaboration on Cosmetics Regulation), una piattaforma internazionale insieme a Stati Uniti, Canada e Giappone, finalizzata alla cooperazione nel campo delle alternative alla sperimentazione animale. La Commissione Europea si è impegnata a cercare la massima collaborazione con i partner commerciali al fine di esportare il modello europeo appena in-

LE LEGGI EUROPEE IN DIFESA DEGLI ANIMALI Articolo 13 del Trattato dell’Unione Europea (Trattato di Lisbona): riconosce gli animali come esseri senzienti e prevede l’obbligo di tenere in considerazione il loro benessere nella formulazione e applicazione della politica e legislazione europea. Direttiva sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (2010/63 /UE): ha come fine ultimo la sostituzione dell’uso degli animali nella sperimentazione con metodi alternativi, la riduzione del numero di animali utilizzati dalla sperimentazione, il miglioramento della cura e la sistemazione degli animali utilizzati. Direttiva Cosmetici (76/768/EEC e le sue 7 revisioni): prevede la proibizione di importazione e commercializzazione di prodotti testati su animali a partire dalla data dell’11 marzo 2013. Ecvam: Laboratorio di referenza dell’Unione europea per le alternative alla sperimentazione animale basato al Joint Research Center (Jrc), Dipartimento Ricerca della Commissione europea. È uno strumento attuativo della Direttiva sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici; promuove la ricerca e validazione di alternative ai test su animali in tutte le scienze mediche. È un centro di referenza internazionale per la validazione di test alternativi.


| economiasolidale | made in Italy a rischio/puntata 3 |

Il divano tricolore si è fermato a Chinitaly di Emanuele Isonio

Nei distretti dell’arredo le ditte cinesi continuano a crescere. I grandi marchi li usano per abbattere i costi e aumentare i profitti. I terzisti italiani perdono ordini e in dieci anni il numero di dipendenti è dimezzato a storica (e nobile) tradizione del divano italiano rischia di morire così: capannoni semiabbandonati, magazzini fatiscenti, condizioni di lavoro da Ottocento, lavoro clandestino, prezzi impossibili da sostenere rispettando la legge. Una situazione inconcepibile, se si hanno negli occhi e nelle orecchie le pubblicità patinate, a base di sconti, show room sfavillanti e dive più o meno note. Eppure, a sentir descrivere la realtà quotidiana dagli addetti ai lavori, i divani made in Italy dei marchi più noti nascono esattamente in queste condizioni. Figlie di politiche commerciali assurde e della concorrenza cinese ormai radicata nei distretti italiani. Concorrenza sleale, a chilometri zero.

FONTE: OSSERVATORIO GRANDI IMPRESE E LAVORO INDUSTRIA DEL LEGNO - ANALISI 2013

L

Costi bassi con il dumping Basta ascoltare i racconti dei piccoli produttori per capire come funzionano le cose: «Da anni ci troviamo a dover combattere con terzisti cinesi che producono divani con costi per noi inconcepibili e con committenti senza scrupoli. Non siamo competitivi solo perché rispettiamo le regole», denuncia Elena Ciocca di Etica Divalia, che, insieme a Manuela Amadori, anche lei terzista a Forlì, ha denunciato una situazione ormai insostenibile e ha reso possibile una storica sentenza (vedi BOX ). L’aspetto paradossale è che, diversamente da altre volte, in questo caso il dumping si è diffuso nel nostro Paese, nelle stesse aree storicamen-

LE PRIME 300 AZIENDE ITALIANE PER FATTURATO [dati di bilancio 2011] DENOMINAZIONE

COMUNE

PROVINCIA

FATTURATO 2011

Natuzzi Spa

Santeramo in colle

BA

464.931.885

Poltrona Frau Spa

Torino

TO

111.901.000

Club House Italia Spa

Roma

RM

64.552.766

Minotti Spa

Meda

MB

56.803.056

Consofa Società Consortile Arl

Matera

MT

48.024.450

Flexform - Spa

Meda

MB

47.819.190

Jumbo Collection Srl

Cantù

CO

29.987.761

Moroso Spa

Tavagnacco

UD

27.133.970

Max Divani Società

Altamura

BA

22.739.176

Polo Group Srl

Altamura

BA

19.110.692

te dedicate alla produzione di divani: da nord a sud, da Forlì a Prato, fino a Matera (quest’ultima conta una comunità cinese di oltre tremila persone). «Si pubblicizzano divani “fatti a mano in Italia”, venduti a 199 euro, a 399 euro e a 499 euro», osserva Pasquale Natuzzi, presidente del gruppo leader del settore (vedi TABELLA ), uno dei pochi “big” a condannare le storture del sistema e a realizzare “in casa” i propri prodotti. «Non è possibile fare questi prezzi per oggetti che richiedono molta manodopera, soprattutto nel nostro Paese, dove il costo del lavoro e la pressione fiscale sono alle stelle». Il modo per lucrare è sconcertante, ma tutto sommato semplice: le ditte cinesi hanno rilevato magazzini (e spesso persino i macchinari), prendendo poi contatti con i grandi gruppi dell’arredamento. Questi ultimi hanno colto l’occasione per far realizzare i propri prodotti a prezzi inferiori rispetto a quelli pagati ai terzisti italiani, aumentando i propri margini di profitto. In fondo basta imparare a non farsi troppe domande. Ma le risposte non sono comunque difficili da immaginare: «Le ditte cinesi possono offrire prezzi molto bassi – spiega Marinella Meschieri, responsabile legno e arredo di Fillea Cgil – perché fanno ampio ricorso al lavoro nero e grigio». Lavoratori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 49 |


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totalmente ignoti all’Inps oppure con contratti part time, ma in realtà utilizzati per il doppio o il triplo delle ore. «E poi non rispettano quasi nessuna delle norme sindacali, ambientali, di sicurezza e usano materiali spesso di bassa qualità». La crisi che spinge le famiglie ad acquistare prodotti guardando solo al prezzo fa il resto.

Etica, design, ambiente: tre idee anticrisi

Addetti dimezzati in dieci anni «Fa rabbia pensare che basterebbero più controlli per stanare le aziende scorrette», osserva Giovanni Rossi, di Fillea Cgil. «Ci vogliono regole certe per la tracciabilità per mettere un freno a un fenomeno che sta mettendo in serio pericolo le aziende sane», aggiunge Pasquale Natuzzi. I crudi dati rendono l’idea di una filiera che sta morendo. Già prima dell’esplosione della crisi, fra il 2001 e il 2007, si sono persi quasi 600 milioni di fatturato, 222 milioni nel mercato interno e con un mercato internazionale quasi dimezzato (dal 31% del 2000 al 16 del 2006). E la tendenza è ovviamente continuata. «Negli ultimi sei anni – rivela Rossi – hanno chiuso oltre trecento imprese nel distretto industriale della Puglia-Basilicata (dove si produce il 70% di tutti i divani fatti in Italia). Gli addetti in dieci anni sono passati da 10 a 5 mila».

di Emanuele Isonio

Nonostante la fase di recessione, alcune aziende provano a innovare. E i risultati, in termini di visibilità e fatturati, sembrano dar loro ragione asta fare capolavori. Bisogna essere dei capolavori”. L’Italia che resiste, nel settore del divano in crisi, sembra aver fatto sua questa frase di Carmelo Bene. Le strade per riuscirci possono essere diverse. Ma i risultati sono simili. Almeno per la possibilità di vedere il futuro con una speranza in più.

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Giovani talenti per l’arredo Ha deciso di puntare sui designer più talentuosi la padovana Lago, azienda di Villa del Conte guidata da uno dei dieci fratelli dell’omonima famiglia. Nella loro fabbrica, realizzata secondo i criteri di bioarchitettura, ospitano 4-5 volte all’anno workshop con studenti e progettisti. I loro prodotti rispecchiano un modo nuovo di fare reddito: «Del profitto da solo non me ne importa un fico», spiega il capo designer, Daniele Lago. «O generiamo valore culturale, estetico, spessore o Cina e India ci mangiano». Da qui l’idea di pubblicizzare le loro creazioni non solo nei loro trenta negozi monomarca in giro per il mondo. Ma anche in appartamenti selezionati da Nord a Sud. Le candidature si

Luci e ombre Ma non c’è solo la concorrenza cinese in trasferta a rendere incerto il futuro del divano italiano. Come in altri settori, i problemi irrisolti di organizzazione aziendale e di carenza di formazione hanno acuito il problema. «A partire dal 2001 – osservano i tecnici dell’IPI, l’agenzia governativa di supporto del ministero dello Sviluppo economico per le politiche industriali – solo le imprese di maggiore dimensione e con attività di esportazione organizzata sono state in grado di affrontare le turbolenze dei mercati». Senza contare che «alla polverizzazione produttiva ha fatto seguito una frammentazione della distribuzione, che ha eroso quote di mercato per i canali distributivi tradizionali». Un’analisi che trova d’accordo anche il fronte sindacale: «Molte realtà imprenditoriali medie e piccole – spiega Meschieri – non hanno saputo guardare ai mercati | 50 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

esteri e hanno sottovalutato l’importanza dell’innovazione. C’è un problema culturale da superare, in cui le imprese si guardano l’un l’altra come nemici anziché come possibili alleati». E poi c’è l’accesso (negato) al credito. «O puoi offrire garanzie enormi o i finanziamenti te li scordi, a prescindere dalla qualità del progetto» prosegue Meschieri. Nonostante lo scenario negativo, i punti di forza ci sarebbero pure. A partire da una capacità di design e a un’atten-

zione alla qualità dei prodotti delle aziende italiane che senza dubbio possono contribuire ad attirare l’attenzione dei nuovi mercati sul made in Italy. «Dobbiamo puntare su qualcosa che i cinesi non riescono a fare, investendo sull’innovazione di processo e di prodotto» commenta Rossi. I casi virtuosi in tal senso non mancano (vedi ARTICOLO ). Ma, senza una strategia condivisa, rischiano di essere poche luci in un settore industriale sempre più simile a un deserto. 


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Passoni Nature

possono proporre sul sito dell’azienda (www.lago.it). In cambio di forti sconti sull’arredo, il proprietario di casa dovrà ospitare conferenze e convegni. I risultati per ora danno ragione alle scelte fatte: Borsa Italiana ha inserito l’azienda tra le trenta migliori per crescita e redditività.

La legalità in salotto Elena Ciocca e Manuela Amadori, le due imprenditrici che hanno permesso di far processare alcuni imprenditori italiani e cinesi scorretti, hanno deciso di imboccare una strada diametralmente opposta. Consapevoli che le loro denunce avrebbero fatto terra bruciata tra i loro vecchi committenti, hanno creato “Etica Divalia”. Due i capisaldi: rigoroso rispetto delle regole e la scelta di puntare sul made in Italy al 100%. «Per riuscirci – spiegano – rifiutiamo tessuti esteri, tranne che per il pellame, conciato però in Italia. E poi colla-

La Cividina

boriamo con altri artigiani e falegnami della zona, anch’essi in difficoltà». I divani vengono venduti senza intermediari (www.eticadivalia.it), per ridurre i costi («abbiamo preso contatti anche con alcuni Gruppi d’acquisto solidale»). E così riescono a offrire un prodotto di altissimo livello a prezzi paradossalmente inferiori rispetto a molte rinomate griffe.

Fare impresa con la natura C’è poi chi ha scelto di differenziarsi puntando sul mercato estero con prodotti creati partendo da materiali naturali. Come La Cividina, nata nel ’76 e riconvertitasi nel nuovo millennio. «Abbiamo scelto di stare sul mercato con il nostro marchio, collaborando con i designer che realizzano hotel, navi da crociera e uffici» spiega il titolare Fulvio Bulfoni. «Il 98% del nostro fatturato è diviso tra Europa, Cina, Hong Kong, Singapore, Thailandia e Stati Uniti.

L’idea di proporre divani realizzati con materie prime ecocompatibili ci sta dando un valore aggiunto». Per ora i loro fatturati vedono rosa: nel 2012 hanno segnato +15%. Una scelta analoga è quella di Passoni Nature, impresa di San Giovanni al Natisone (UD), nata come ramo d’azienda e poi divenuta autonoma. Da quattro anni, i loro divani vantano numerose certificazioni: «I tessuti e i rivestimenti, creati con fibre naturali (lana, canapa, cotone, lino) hanno il marchio Ecolabel» spiega l’amministratore Tommaso Passoni. «Le strutture interne sono in legno massello certificato FSC. Le imbottiture sono fatte con gomme a base di acqua, soia e oli essenziali». Un’avventura iniziata da poco ma i primi segnali sono confortanti. «Soprattutto all’estero c’è molta attenzione a questi temi» prosegue Passoni. Aspetto importante: i costi per produrre divani naturali non sono più alti di quelli tradizionali. «Il successo di alcune aziende – commenta Domenico Sturabotti, direttore della Fondazione Symbola – è dato dalla loro innovatività, dal loro poter essere assemblati in diverse varianti, dal loro essere unici e riconoscibili, dal risparmio di materie prime e dalla riduzione dell’impatto ambientale che li caratterizza, dalla capacità di comunicare queste novità e qualità. Sono loro che rimarranno in piedi dopo la crisi». 

DAL CORAGGIO DI DUE DONNE UNA SENTENZA CONTRO LA CONCORRENZA SLEALE Era tutto cominciato, quasi quattro anni fa, grazie al coraggio di due artigiane romagnole, Elena Ciocca e Manuela Amadori, messe in ginocchio dalla concorrenza sleale delle aziende cinesi e di grandi marchi del divano che rendeva impossibile per loro competere sui costi di produzione. Dalla loro denuncia, raccolta anche dalle telecamere di “Report”, è scaturito un processo che, a luglio 2012, ha portato alla condanna a un anno di reclusione per quattro imprenditori forlivesi colpevoli di aver violato le norme sulla sicurezza sul lavoro. Insieme a loro, sono stati condannati a un anno e nove mesi anche due artigiani cinesi. In più, sono stati riconosciuti i danni alla Camera di commercio locale e ai Comuni di Forlì, Bertinoro, Castrocaro, che si erano costituiti parte civile. Una condanna considerata storica da molti terzisti. Ma anche dal gruppo Natuzzi, che per l’occasione, acquistò una pagina del Corriere della Sera per ringraziare le due artigiane. «La sentenza che ha condannato quattro aziende italiane in concorso con i loro subfornitori cinesi finalmente individua non solo nei terzisti scorretti ma anche nei loro committenti il volano dell’illegalità» commenta Pasquale Natuzzi, amministratore delegato del gruppo. «È un primo passo, un segnale che ci spinge a non perdere tutte le speranze. Le nostre aziende hanno carte importanti da giocarsi in Brasile. Cina, India, Russia, Usa e Medio Oriente. Ma ce la faremo solo se tutto il made in Italy sopravviverà».

Reparti di taglio e cucito, stabilimento Natuzzi di Laterza (Taranto)

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| economiasolidale | 6 aprile, quattro anni dopo |

A Piazza d’Arti L’Aquila che resiste di Valentina Neri [foto di Paola Baiocchi]

Il 6 aprile 2009 il terremoto de L’Aquila. Valori lo aveva raccontato con un dossier di copertina a dicembre dello stesso anno. Siamo tornati a vedere cos’è cambiato, poco purtroppo. E raccontiamo le storie di chi sta cercando di ripartire Dopo 4 anni il centro storico de L’Aquila è un cumulo di macerie. Due protagonisti dell’altra economia raccontano la città oggi 1

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ui all’Aquila ormai parliamo sempre di un “prima” e un “dopo”: è facile intuire a cosa ci riferiamo». Esordisce così Ciro Cannavacciuolo, fino a poco fa presidente del circolo Arci La Querencia. “Prima”, il circolo era attivo nel centro storico de L’Aquila con le sue proposte musicali e teatrali, le conferenze dedicate alla legalità, la collaborazione con l’università. “Dopo” il 6 aprile 2009 c’è stato il periodo nella tendopoli, in cui i volontari del circolo hanno fatto da mediatori affinché gli immigrati irregolari, che rischiavano di restare dei “fantasmi”, venissero soccorsi e accolti. Una volta archiviati i mesi più duri, la raccolta fondi nazionale lanciata dall’Arci ha permesso a La Querencia di stabilirsi in un container all’interno di un terreno messo a disposizione dal Comune in via Ficara. Ed è qui che la storia de La Querencia si incontra con quella de Il Sicomoro, dopo un percorso diverso, ma parallelo. 3

Anche Il Sicomoro, associazione e bottega di commercio equo e solidale, aveva sempre avuto la propria sede nel centro de L’Aquila. Poi il terremoto, la totale distruzione della bottega e la difficile ricerca dei fondi per tentare di ricostruirla. Un obiettivo che è stato radicalmente ridimensionato a causa di una serie di difficoltà normative e dei costi lievitati a dismisura. Anche Il Sicomoro, a quel punto, si è stabilito in un container nello spazio di via Ficara. Uno spazio che è stato ribattezzato, non a caso, Piazza d’Arti. Sulla piazza si affacciano il Museo sperimentale d’arte contemporanea, la Comunità XXIV Luglio che lavora con le persone disabili, la Casa del teatro, Legambiente e una decina di altre realtà del mondo della sostenibilità, della cultura e del Terzo settore, che si mettono in gioco in una serie di progetti comuni. È stato ribattezzato proprio “La Città che sPiazza” un ciclo di incontri a tema musicale, teatrale e ludico, che proseguono ormai da diversi mesi. «Ci siamo 4


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chiamati a raccolta – continua Ciro – per trovare il modo di resistere. Resistere alla diaspora che si è manifestata con le cosiddette new town che ci hanno privato del centro storico che era il cuore pulsante della città». Bisogna tener presente, infatti, che uno degli ostacoli principali che si trovano di fronte queste realtà, che lavorano proprio sui legami sociali, è quello di aver perso la propria città. E, di conseguenza, tutti i tradizionali luoghi di aggregazione. Il centro storico de L’Aquila (vedi FOTO ) è ancora uno scenario di macerie delimitate dalle transenne. Subito dopo il sisma tutti gli sforzi sono stati veicolati nel progetto C.A.S.E. che ha ridato un’abitazione a 15 mila aquilani ma, dall’altro lato, si è limitato a costruire da zero nuove zone residenziali. Ma una città vera e propria non è fatta solo di case. Vive anche di servizi, negozi, vie di comunicazione, luoghi di ritrovo e coesione sociale. «La cosa più grave è che lentamente stiamo iniziando ad

abituarci», racconta la presidente dell’associazione Il Sicomoro, Annamaria De Luca. «I disagi della vita post-sisma all’inizio ci lasciavano spiazzati, mentre ora sono la nostra quotidianità. È come nascere un’altra volta: il nostro passato ci appare quasi come un qualcosa di estraneo». Annamaria nel centro de L’Aquila è nata e ha lavorato per tanti anni. Non stupisce, dunque, il fatto che anche a distanza di quattro anni vederlo in queste condizioni sia «un dolore fortissimo. Ma il programma di ricostruzione – continua – non ci aiuta perché non ci dà nessuna speranza. La città è talmente in degrado, un degrado che si aggrava sempre di più col passare del tempo, che a molti ormai viene da chiedersi che senso abbia ritornarci in futuro. Ma noi dobbiamo tornare nel centro de L’Aquila. Dobbiamo andare continuamente nelle strade in cui siamo cresciuti e chiedere a gran voce di poter tornare, perché ne abbiamo il diritto: è la nostra città». 

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IL TEMPO SI È FERMATO AL 6 APRILE 2009 Piange il cuore ad attraversare il centro storico de L’Aquila: sono pochissimi i negozi che hanno potuto riaprire, quelli chiusi hanno le vetrine coperte di bigliettini di turisti e amici della città che esprimono il loro dispiacere per un terremoto che non ha precedenti nella gestione dissennata della ricostruzione. Sui negozi sbarrati sono fitte le locandine dei corsi più disparati, molti di teatro. Si può percorrere solo il corso principale, mentre sono transennate tutte le vie laterali. Interi quartieri moderni sono abbandonati e, pericolosamente fratturati, si sporgono da costoni argillosi. Tutta la città è come appena uscita da un bombardamento, con bastioni di sostegno e ponteggi, i segni di ripristino sono sporadici. La vita si è trasferita altrove, nelle new town che circondano L’Aquila, nei grandi centri commerciali della periferia dove il traffico è caotico e lo sviluppo urbano disordinato. Arrivando alla Basilica di Collemaggio sembra tutto a posto e si tira un sospiro di sollievo vedendo la meravigliosa facciata gotica intatta. Ma è la luce al suo interno a dare un aspetto straniante che tradisce l’assenza del transetto, crollato e sostituito da un tetto trasparente. Pa.Bai.

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| socialinnovation |

Impact investor

Attenzione allo scalino re imprenditori sociali indiani, a partire dagli scarti del riso, producono e distribuiscono energia pulita nell’area più rurale dell’India. Hanno installato due impianti pilota, che riforniscono 800 clienti. Nonostante l’attività sia promettente e ci sia una grande richiesta, hanno speso tutti i loro risparmi. E devono affrontare una serie di sfide: infrastrutture carenti,

T

di Andrea Vecci

insolvenza dei clienti, assenza di personale qualificato e nessuna supplychain. La maggior parte degli investitori evita casi come questo. Chi può quindi aiutare i tre imprenditori indiani a comprendere meglio i rischi, a diminuire l’interferenza dei vincoli esterni, a reperire i capitali necessari per crescere e, nello stesso tempo, migliorare le condizioni di vita della popolazione povera dell’area rurale attraverso l’accesso alla rete elettrica? In questo dilemma di impresa chiamato pioneer gap, lo scalino del pioniere, entra in gioco l’impact investor. Le stime di JP Morgan e della Fondazione Rockefeller riportano un potenziale profitto per gli impact investor dai 183 ai 667 miliardi di dollari, a fronte di un capitale investito che va dai 400 ai 1.000 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Al momento si contano circa 200 impact fund in tutto il mondo. Ma che cos’è l’impact investment? Sono nuovi strumenti finanziari, anche di natura pubblica, per raccogliere finanziamenti privati destinati alle imprese sociali capaci di produrre un impatto sui commons, i beni comuni in senso lato, all’interno di sistemi economici rischiosi. La remunerazione non è garantita, ma è legata al raggiungimento di un impatto “sociale” come la

In Italia ci sono pochi attori nell’impact investing: Human Foundation, Fondazione Oltre e il neonato Opes Impact Fund. Un fondo non profit fondato da Fem, Acra, Ctm altromercato, MicroVentures e Fondazione Maria Enrica. Ha già radunato innovatori di primo piano nel proprio advisory board e convinto Fondazione Cariplo a un investimento iniziale. Intende supportare le imprese sociali nella prima fase di vita, per colmare il pioneer gap. Elena Casolari, la presidente, auspica una raccolta di 8 milioni di euro da trasformare in investimenti con tagli dai 50 mila ai 400 mila euro nei prossimi tre anni. La disponibilità di partenza dell’impact fund è di natura filantropica. Per non creare distorsioni sul mercato, Opes investe nelle imprese sociali selezionate da Acra e Fem (e da altri partner internazionali non profit) attraverso: una donazione per sostenere le fasi di due diligence e di definizione delle metriche di impatto; una parte in capitale, con l’acquisto di azioni societarie; e una parte con un finanziamento a breve associato a un grace period adeguato. Opes non si dedicherà alle start-up ma a imprese sociali già avviate. I primi settori in cui ha intenzione di investire saranno la sanità e le rinnovabili, in India e Uganda. 

Strumenti che raccolgono fondi da privati per imprese che abbiano impatti sociali riduzione della povertà o la realizzazione di economie più inclusive. I settori su cui si stanno concentrando sono le energie rinnovabili (vedi Valori di marzo 2013), la mobilità, la sanità e i rifiuti nei Paesi poveri. Come misurare le ricadute sociali di un investimento è oggetto di studio internazionale. Engaged Investment, impresa sociale inglese impegnata nello sviluppo etico del mercato finanziario, ha lanciato EngagedX, il primo indice open source e collaborativo, costruito dalle competenze degli operatori che stanno lanciando investimenti sociali, con una filosofia in stile wiki: maggiore è la trasparenza con cui saranno analizzati i dati finanziari aggregati e maggiore sarà la trasparenza nella remunerazione attesa dalle imprese sociali.

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DRENTH / HOLLANDSE HOOGTE / CONTRASTO

internazionale

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«La soluzione al rigore? Passa da Berlino» > 60 L’inesorabile (e ineguale) ascesa dell’Africa > 61 Venezuela, gli orfani di Chávez > 63 | 56 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |


| eurozona in crisi |

Un panorama dell’isola di Cefalonia, in Grecia. L’emiro del Qatar sta acquistando numerose isole dell’arcipelago delle Echinadi, con l’obiettivo di regalarne una a ciascuno dei suoi 24 figli. E di costruirci qualche reggia. Anche questo è lo specchio della crisi.

Europa,

L’austerity europea sta distruggendo le economie dei Piigs. Dai drammi della Grecia alla crisi occupazionale, le ricette della Troika si rivelano sempre più indigeste

non si uccidono così che i “maiali”? di Matteo Cavallito

on c’è dubbio che l’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani sia di questi tempi un uomo pieno di problemi. Capo di governo da quasi 18 anni e storico finanziatore dell’emittente televisiva Al Jazeera, l’instancabile businessman ha da poco speso tre milioni e mezzo di euro per acquisire cinque isole dell’arcipelago greco delle Echinadi e rimpinguare così la collezione iniziata lo scorso anno quando, con un esborso da quasi 5 milioni, si era appropriato dei 1.200 acri di Oxia, l’isola più grande della zona. Secondo la stampa greca l’obiettivo dell’operazione sarebbe chiaro: donare un’isola a ciascuno dei 24 figli avuti dalle tre mogli. Sfortunatamente, tuttavia, l’arcipelago ellenico in questione, che comprende anche l’omerica Itaca, presenta appena 18 isole, non sufficienti, quindi, a soddisfare le ambizioni dell’intera progenie. Ma i problemi, per il povero Al Thani, non finiscono qui. La legge greca, infatti, impone ai proprietari delle isole di co-

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| internazionale |

struire edifici abitabili non superiori ai 250 metri quadrati. Il che, a prima vista, rappresenterebbe comunque un buon margine di manovra. Solo che, fa notare il Telegraph, un simile spazio equivarrebbe a malapena alla dimensione che l’emiro aveva pensato per il suo bagno. Vale a dire, circa un quarto dello spazio riservato alla cucina. L’operazione immobiliare, insomma, inizia già tra infinite difficoltà. A risolvere l’impasse, forse, ci penserà il premier ellenico Antonis Samaras, che a febbraio era volato a Doha per avviare i decisivi colloqui d’affari. Sul piatto ci sono 5 miliardi di euro di un business plan che comprenderebbe il restyling dello stesso aeroporto di Atene. Quanto alle sei isole mancanti non dovrebbero esserci particolari problemi. A settembre il governo greco ha preparato un elenco di 40 esemplari da cedere in concessione ai facoltosi affittuari per i prossimi decenni.

L’infinita tragedia greca L’incredibile vicenda degli arcipelaghi rappresenta solo l’ultimo capitolo della vasta letteratura sull’infinita crisi greca. Storie tragicomiche di un Paese allo stremo, cronache di un’emergenza contabile che l’austerity continua a declinare tra farse e tragedie. Il sistema sanitario, ha raccontato lo scorso ottobre un reportage del New York Times, è ormai al collasso. Circa 600 mila disoccupati avrebbero già perso la propria assicurazione sani-

PER APPROFONDIRE www.voxeu.org/article/panic-driven-austerity-eurozone-and-its-implications

taria e si troverebbero costretti a pagare di tasca propria le cure mediche. Il che, nella maggior parte dei casi, equivale a rinunciare a ogni trattamento. Atene, che da tempo fronteggia la carenza di farmaci anti tumorali e anti Hiv, deve ancora 5 milioni di franchi alla Croce Rossa svizzera, principale esportatore di sangue per le trasfusioni. In attesa che il governo saldi il debito, Berna ha deciso di cautelarsi dimezzando le forniture entro il 2020.

Roma

Dublin

Roma (Rome)

ITALIA

Nel corso del 2013, dicono le previsioni Eurostat, l’economia greca si contrarrà del 4,4% confermando così un trend recessivo che dura dal 2008. Il tasso di disoccupazione, che all’inizio dello scorso anno viaggiava attorno al 20%, si aggira ormai al 27%. Il rapporto debito/Pil, in compenso, è migliorato e i costi di finanziamento a dieci anni, un chiaro indicatore di rischio sui mercati finanziari, sono letteralmente crollati bruciando quasi 800 punti base (8 punti percentuali). Un

Madrid

Dublino

IRLANDA

MADRID

SPAGNA

Crescita 2012

-2,4%

Crescita 2012

+0,7%

Crescita 2012

-1,4%

Crescita 2013 (stime)

-1,0%

Crescita 2013

+1,1%

Crescita 2013

-1,4%

Disoccupazione 2012

9,6%

Disoccupazione 2012

15,1%

Disoccupazione 2012

23,6%

Disoccupazione 2013

11,7%

Disoccupazione 2013

14,7%

Disoccupazione 2013

26,2%

Debito/Pil al terzo trim. 2011

119,9%

Debito/Pil al terzo trim. 2011

103,6%

Debito/Pil al terzo trim. 2011

66,7%

Debito/Pil al terzo trim. 2012

127,3%

Debito/Pil al terzo trim. 2012

117,0%

Debito/Pil al terzo trim. 2012

77,4%

Interessi a 10 anni

4.66%

Interessi a 10 anni*

3.67%

Interessi a 10 anni

4.75%

Variazione ultimo anno (in Bps)

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Variazione ultimo anno (in Bps)**

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| internazionale |

sostanziale paradosso che, secondo l’economista belga e docente della London School of Economics Paul De Grauwe, nascerebbe da un clamoroso errore di valutazione del celebre “panico dei mercati”. E che caratterizza oggi tutto il club delle periferie europee.

Piigs in sofferenza Per capire quanto se la passino male i cosiddetti “maiali” (dalla traduzione fonetica dell’acronimo “Piigs” - Portugal, Ireland, Italy, Greece, Spain) basta rilevare i dati sull’economia reale (nelle SCHEDE in queste pagine). Il tasso di disoccupazione è in pericoloso aumento in Spagna e in Portogallo. In Irlanda, dove pure l’economia è tornata a crescere grazie a un regime fiscale favorevole alle imprese, nonché a qualche investimento di successo nella green economy (vedi Valori n. 107, marzo 2013), la quota dei senza lavoro si è ridotta di poco. In Italia la percentuale dei disoccupati è ormai in linea con la media europea (11,7% contro 11,9). In sintesi i numeri di un costante peggioramento. «Chi avesse ancora bisogno di una prova del mancato funzionamento dell’austerity dovrebbe visitare il Portogallo”, ha scritto di recente la capo economista di Maverick Intelligence, Megane Greene, sulle colonne di Bloomberg. Lisbona, ha ricordato la Greene nella sua spietata analisi, ha seguito le indicazioni della Troika (Ue, Bce, Fmi) e, a differenza

L’AUSTERITY? UN ERRORE DI VALUTAZIONE La crisi dello spread nasce dal panico irrazionale dei mercati. Lo stesso panico che avrebbe erroneamente indotto i decisori europei a promuovere in seguito politiche sbagliate e distruttive a danno delle economie nazionali. Lo sostiene un articolo pubblicato a febbraio dal docente della London School of Economics Paul De Grauwe e dalla ricercatrice dell’Università di Leuven Yuemei Ji. I Paesi che hanno subito i maggiori incrementi dello spread hanno applicato le ricette di austerity più pesanti provocando le recessioni più intense. Eppure, negli ultimi mesi, sono stati proprio questi Paesi ad essere maggiormente premiati dal mercato in termini di riduzione degli spread. A rassicurare gli operatori, in altre parole, non sarebbero stati i fondamentali economici quanto piuttosto la decisione della Bce di intervenire sul mercato stesso (ovvero di non abbandonare i Piigs alla speculazione). Un segnale di come la soluzione della crisi finanziaria passasse dall’intervento sul mercato piuttosto che dai piani di austerità.

della Grecia, ha attuato un intenso programma di privatizzazioni che ha interessato, tra le altre, le grandi compagnie statali Edp-Energias, Ren-Redes Energeticas Nacionais e Ana-Aeroportos de Portugal Sa. Ma le prospettive di sviluppo restano misere di fronte al peso di due fattori chiave: l’eredità di un decennio di scarsa crescita e le difficoltà nel promuovere l’export con un sistema di imprese di dimensioni troppo ridotte. Due clamorose analogie con la situazione italiana. Ad aggravare il quadro ci sono poi i dati sulla contrazione del credito che in Europa si è ridotto sul fronte delle imprese di 100 miliardi negli ultimi sei mesi. Un segnale tanto di cause quanto di effetti, secondo Fausto Panunzi, ordina-

rio di Economia politica presso l’Università Bocconi di Milano. «La crisi – spiega – si è aggravata talmente tanto che la questione centrale non è più solo la contrazione del credito in sé ma anche quella della domanda. Le famiglie non spendono e le imprese seguono a ruota. In sostanza è tutto bloccato». Una via d’uscita, al momento, sta provando a fornirla la stessa Troika che, all’inizio di marzo, ha annunciato l’intenzione di estendere le scadenze per la restituzione dei prestiti contratti da Irlanda e Portogallo (67 e 78 miliardi rispettivamente). I negoziati sono tuttora in corso. Ma parlare di svolta nel piano di austerità Ue è ancora terribilmente prematuro. 

Lisbona

Lisboa (Lisbon)

GRECIA Crescita 2012

Atene

Athina (Athens)

PORTOGALLO -6,4%

Crescita 2012

-3,2%

Crescita 2013

-4,4%

Crescita 2013

-1,9%

Disoccupazione 2012

20,8%

Disoccupazione 2012

14,7%

Disoccupazione 2013**

27,0%

Disoccupazione 2013

17,6%

Debito/Pil al terzo trim. 2011

163,7%

Debito/Pil al terzo trim. 2011

110,4%

Debito/Pil al terzo trim. 2012

152,6%

Debito/Pil al terzo trim. 2012

120,3%

Interessi a 10 anni

10.70%

Interessi a 10 anni

Variazione ultimo anno (in Bps)

-778

Variazione ultimo anno (in Bps)

* Calcolato sul titolo benchmark 2020, fonti: Financial Times 13/3/2013, Bloomberg Businessweek (“Ireland Enlists Pensioners in Bond Crusade: Euro Credit” 21/3/2012), nostre elaborazioni. Il dato sulla variazione annuale è calcolato a 51 settimane (13/3/2013 rispetto a 21/3/2013). ** Novembre 2012, ultimi dati disponibili.

5.93% -832

FONTI: BLOOMBERG, 13/3/2013, EUROSTAT FEBBRAIO 2013, EUROSTAT GENNAIO 2013, STANDARD & POOR’S, NOSTRE ELABORAZIONI.

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| internazionale |

«La soluzione all’austerity passa dalla Germania» di Matteo Cavallito

L’opinione di Fausto Panunzi: solo Berlino può condurre l’Europa fuori dal vicolo cieco della dieta del rigore. Ma interessi contrastanti bloccano qualsiasi soluzione inora abbiamo accettato il rigore in cambio dello scudo Bce. Ma cosa accadrebbe se un Paese decidesse di deviare dal percorso di risanamento dei conti pubblici? Draghi potrebbe ancora acquistare i suoi titoli? E come reagirebbe la Germania?». Sono questi i primi interrogativi chiave secondo Fausto Panunzi, ordinario di Economia politica presso l’Università Bocconi di Milano. La situazione europea, spiega, è grave. Ma alle condizioni attuali, specialmente per l’Italia, «si può fare ben poco».

«F

gi, anche se l’economia mostra qualche segno di rallentamento, continuano a trarne vantaggi in termini di export. Anche perché, come ha sostenuto Morgan Stanley, l’euro risulta sufficientemente svalutato per i tedeschi mentre è tuttora sopravvalutato per la maggior parte delle altre economie dell’area. Esatto, e qui torniamo al problema della mancanza di sincronia e dell’assenza di un obiettivo comune europeo. Come lo stesso Draghi ha dichiarato, la Bce non ha tra i suoi obiettivi il controllo del tasso di cambio. In definitiva siamo all’ennesimo paradosso: l’euro è in crisi eppure si rivaluta rispetto ad altre valute impedendo così all’export di rilanciarsi e alla crisi della domanda aggregata di mitigarsi.

Professore, in Europa si sta diffondendo un sentimento anti-austerity. Possiamo aspettarci un cambio di rotta in futuro? Difficile dirlo, di certo Angela Merkel non vorrebbe attenuare l’austerity perché potrebbe scontarlo in termini elettorali. Il punto è che qualsiasi soluzione deve ottenere l’ok di Berlino, ma questo oggi non è possibile perché esiste un’asimmetria di interessi tra la Germania e i Paesi periferici dell’Ue.

Quindi che fare? Riforme strutturali? In Italia ce ne sarebbe certamente bisogno perché esse sono indispensabili per fare ripartire la crescita. Ma sono cose che si possono realizzare sul medio-lungo periodo. Servirebbero privatizzazioni e liberalizzazioni, una riforma della giustizia, un investimento volto al miglioramento della qualità dell’istruzione e quindi del capitale umano dei lavoratori italiani. Sappiamo però che è difficile realizzare riforme in una fase di recessione, prima occorre risolvere l’emergenza.

Come a dire che alla Germania non serve una politica fiscale espansiva, giusto? I tedeschi hanno fatto alcune riforme, tra cui quella del mercato del lavoro già più di 10 anni fa, riducendo i costi per le imprese e rendendo più competitiva la loro produzione rispetto agli altri Paesi europei. Og-

Si potrebbe iniziare con la riduzione della pressione fiscale? Ovviamente una riduzione della pressione fiscale è auspicabile, ma il problema è come conciliarla con i vincoli europei. Si potrebbe ridurre la spesa, cosa che in Italia non è mai stata veramente fatta. Cer-

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Fausto Panunzi, ordinario di Economia politica presso l’Università Bocconi

to, la riforma delle pensioni ha ridotto la spesa previdenziale futura, ma il resto? Si potrebbe ridurre la spesa sanitaria che però costituisce un capitolo in mano alle regioni ed è politicamente molto sensibile. Oppure le spese per l’istruzione che però in Italia sono già piuttosto basse rispetto alle media europea e che avrebbero effetti negativi per la crescita. La verità è che oggi possiamo fare ben poco. Negli Usa c’è stata una risposta molto rapida alla crisi, in Europa è accaduto il contrario. Come mai? C’è stata una sottovalutazione dei problemi? Non è tanto un problema di diversa consapevolezza quanto di tempestività di intervento. La Bce non è intervenuta in modo deciso fino all’estate scorsa e il ricorso alla leva fiscale è tuttora di fatto bloccato dai trattati europei, come il Fiscal Compact. Questo stallo ci porta a riflettere sull’architettura istituzionale europea e a porci una domanda: può esistere un’unione monetaria senza una contemporanea unione fiscale? Lei che dice? Sarei cauto a dire di no in modo assoluto. Ma questa unione non è attualmente sostenibile. Per lo meno se la Germania non accetterà di essere più flessibile. 


| internazionale | prossimi emergenti |

L’inesorabile (e ineguale) ascesa dell’Africa di Andrea Barolini

Nel 2030 ci abiterà un terzo della popolazione mondiale di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Pur tra grandi diseguaglianze, crescerà una domanda interna e si formerà una middle class. Che è già nel mirino delle multinazionali stato rivisto a un +15% pochi mesi dopo la prima stima. E, pur ancora a livelli incapaci di estirpare le enormi sacche di povertà e fame, anche il Pil procapite lo scorso anno è cresciuto in tutto il continente di oltre il 3%.

nvestire in Africa, oggi, è ancora difficile. I costi possono risultare più alti anche del 40% rispetto alle previsioni iniziali. Ciò per ragioni logistiche (spesso si devono importare gli equipaggiamenti, pagando pesanti dazi doganali), culturali (in Africa si parlano 2-3mila dialetti) e politiche (la corruzione dilaga e la governance lascia spesso a desiderare). Eppure, nonostante tali problemi endemici, il Continente attrae un numero crescente di aziende occidentali. I dati, infatti, non lasciano spazio a dubbi. Nel 2012 la sola Africa subsahariana ha registrato una crescita media compresa tra il 5 e il 7%. In un Paese come il Ghana il boom previsto inizialmente (+8%) è

I

Non più solo risorse naturali L’Africa, insomma, «ha superato relativamente bene la crisi», ha constatato a giugno 2012 la Banca Africana per lo Sviluppo nel rapporto Prospettive economiche per l’Africa. Ma, soprattutto, decisivo per la regione potrebbe essere il fatto che le risorse naturali non sono più l’unico carburante dell’economia. È vero, infatti, che i livelli di crescita più alti sono ancora re-

NEL 2050 L’AFRICA RAGGIUNGE L’EUROPA…

… MA IL PIL PER ABITANTE RESTA DEBOLE

25.000

25.000

21.911

20.000

19.287

10.000

21.000

AFRICA

15.000

UE

5.000

17.000

8.800 2.653

0 25.000

13.000

20.000

ASIA 21.876

15.000 10.000

9.000

5.598

5.000

AFRICA

0

5.000

L’interesse delle multinazionali

25.000 20.000

1.000

2005

gistrati dai produttori di materie prime: dal petrolio (in Congo, Gabon, Nigeria, Ciad), ai prodotti minerari (come il rame in Zambia), a quelli agricoli (il cotone in Benin, Burkina Faso e Mali; il caucciù in Liberia). Ma è altrettanto vero che le economie camminano ormai sulle loro gambe, anche per ragioni demografiche. La mortalità alla nascita in Stati come il Senegal è calata negli ultimi anni a un ritmo cinque volte più sostenuto rispetto a quello dell’India. Secondo Jean-Joseph Boillot, autore del libro Chindiafrique (una crasi tra Cina, India e Africa), il continente potrebbe accogliere nel 2030 quasi un terzo della popolazione mondiale tra i 15 e i 24 anni. Entro il 2035, inoltre, la popolazione subsahariana sorpasserà quella della Cina. E, nel 2050, Etiopia, Congo e Nigeria figureranno tra gli otto Paesi più popolosi del mondo. La traduzione economica di tutto ciò è che l’Africa può cominciare ad avvalersi di quella che fu la vera “benzina” dei Paesi industrializzati (la stessa che soffia, ora, nelle vele di quelli emergenti): una crescente massa di giovani lavoratori. Cresce il numero di salariati, e così, per la prima volta, l’Africa conta sulla prospettiva di una discreta domanda interna. Uno studio di McKinsey (The Rise of the African Consumer) conferma che, nel 2020, i consumatori africani spenderanno 300 miliardi di euro in più rispetto a oggi (dato legato anche alla prevista urbanizzazione).

2025

2050

15.000 10.000

[Prodotto interno lordo, in miliardi di dollari]

5.000 0

FONTE: «LES ÈCHOS» / BANQUE MONDIALE, COE-REXECODE

AMERICA LATINA 24.438 10.921

Le prospettive di sviluppo non sono sfuggite alle multinazionali occidentali, che pianificano massicce operazioni, sfidando anche la concorrenza cinese e mediorientale. Nestlé – riferisce un’analisi del | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 61 |


| internazionale |

quotidiano francese Les Echos – investirà 1,5 miliardi di dollari; Coca-Cola 12 miliardi entro il 2020. Danone ha scalato il capitale della Centrale del latte del Marocco; aziende cinesi costruiscono strade a pedaggio e imprese libanesi, saudite e qatariane sono attive nei business dei supermercati e degli alberghi. Il totale degli investimenti stranieri in Africa è cresciuto lo scorso anno di 30 miliardi di dollari rispetto a dodici mesi prima (e solo il 16% di essi è ancora legato alle risorse naturali). Per il continente si potrebbe trattare di un’enorme opportunità. Ma i problemi dell’Africa sono ancora giganteschi: per questo occorrerà scongiurare una nuova era di colonizzazione, stavolta economica. Se, infatti, il Pil dell’Africa – secondo i dati della World Bank – raggiungerà i 19.287 miliardi di dollari nel 2050 (poco meno dei 21.911 miliardi dell’Ue, vedi GRAFICO ), il dato per abitante resterà ben distante da quelli di altre macro-regioni emergenti. Il Pil procapite passerà, infatti, dagli attuali 2.600 dollari a 8.800, mentre nell’Asia emergente e in America Latina, dove il dato è oggi pari rispettivamente a 5.600 e 11 mila dollari, si raggiungeranno i 21.900 e i 24.400 dollari (vedi GRAFICO ). Metà della popolazione subsahariana, inoltre, vive ancora con meno di un dollaro al giorno, e il 25% deve accontentarsi di meno di 2 dollari. Le multinazionali si dichiarano interessate a una nascente middle-class. Ma se il mondo ricco farà di nuovo l’errore di dimenticare gli ultimi, stavolta ne pagherà a caro prezzo le conseguenze, anche economiche. 

POPOLAZIONE • 1,07 miliardi, è il numero di abitanti attuali del continente, che diventeranno 2 miliardi nel 2050. • 200 milioni è il numero di cittadini di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Cifra destinata a raddoppiare entro il 2045. • 40% è il tasso di urbanizzazione attuale. CONSUMI • 85 milioni di famiglie vantano un reddito annuale superiore ai 5 mila dollari. La cifra crescerà a 130 milioni entro il 2020. • 84% è la quota di popolazione che prevede un miglioramento della propria condizione economica nei prossimi due anni.

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L’avvenire dell’Africa dipende da una serie di fattori. Oggi, infatti, gli squilibri interni sono ancora causati da problemi endemici (povertà diffusa, fame, mancanza di infrastrutture, sistemi sanitari inefficienti se non del tutto assenti). Ma nel prossimo futuro, il crescente interesse economico delle grandi aziende occidentali nei confronti del continente potrebbe generare un’ondata di speculazione potenzialmente distruttiva. Un “assaggio” di cosa potrebbe accadere se non si vigilerà sui comportamenti delle multinazionali è contenuto in un rapporto pubblicato un paio di anni fa dal think tank californiano Oakland Institute, secondo il quale solamente nel 2009 i big della finanza globale hanno acquistato 60 milioni di ettari di territorio africano. Più o meno l’estensione di un Paese come la Francia. Una cifra in aumento esponenziale rispetto ai 4 milioni annui registrati fino al 2008. L’obiettivo? Convertire le colture alimentari in campi di fiori da recidere o in piantagioni per biocarburanti. In questo modo si può far diminuire l’offerta globale di cibo, farne impennare i prezzi e ottenere il margine utile per centrare enormi guadagni dalle oscillazioni. L’Africa, poi, è fortemente esposta agli squilibri legati ai cambiamenti climatici: in particolare la crescita del livello dei mari minaccia numerose zone costiere occidentali: un’area che complessivamente, nel 2050, potrebbe arrivare ad ospitare 250 milioni di abitanti (più di 4 volte la popolazione italiana attuale). Ancora, per l’Africa sarà fondamentale alimentare il settore manifatturiero: nel 2010 – secondo quanto riportato dal mensile Alternatives Economiques – il valore aggiunto del comparto sul Pil africano è stato pari solamente al 10,4% (contro il 21,7% dell’insieme dei Paesi in via di sviluppo). In rapporto alla popolazione, inoltre, il dato non supera i 30 dollari annui per abitante (meno di un decimo della media dei Paesi in via di sviluppo), con le sole eccezioni delle Seychelles (che arrivano a 1.295 dollari), Mauritius (804), Sudafrica (581) e Swaziland (451). A.Bar.

Paesi già dotati

DIECI PAESI PROGETTANO FONDI SOVRANI

TUNISIA

ALGERIA

Paesi che ne progettano la creazione

LIBIA

MAURITANIA SUDAN FONTI: ONU, OCSE

I NUMERI DELL’AFRICA

LA RICETTA PER UNA CRESCITA INCLUSIVA

NIGERIA UGANDA

LIBERIA

RWANDA

GABON Per gestire al meglio le risorse derivanti dalle esportazioni, undici Paesi africani stanno ipotizzando la creazione di fondi di investimento sovrani. Tra gli altri, Sudafrica, Repubblica Democratica del Congo, Tanzania, Tunisia e Kenya. Che potrebbero unirsi agli attuali dieci Stati che già ne possiedono uno. Il primo Paese a dotarsi di un sovereign fund è stato il Botswana, nel 1994. Oggi il fondo gestisce circa 6 miliardi di dollari, in gran parte derivanti dai proventi delle esportazioni di diamanti, rame e nichel. Ma i più grandi, attualmente, sono quelli della Libia e dell’Algeria: entrambi raggiungono circa i 60 miliardi di dollari.

KENYA

REP. DEMOCRATICA DEL CONGO TANZANIA ZAMBIA ZIMBABWE NAMIBIA

SUD AFRICA

MOZAMBICO MAURITIUS


| internazionale | la morte del leader |

Venezuela, gli orfani di Chávez di Matteo Cavallito

Il campione del “socialismo del XXI secolo”, scomparso lo scorso 5 marzo, ha sposato una linea che lo ha portato, da un lato, a instaurare rapporti diplomatici anche controversi; dall’altro, ad adottare politiche economiche che hanno abbassato nettamente il tasso di povertà, ma che da altri punti di vista lasciano pensare a grandi occasioni mancate a storia me la raccontò alla fine del 2005 Jesús Garrido Pérez, deputato socialdemocratico del parlamento venezuelano e storico oppositore del suo governo. All’epoca il presidente Chávez stava conducendo la sua batta-

L

glia contro il latifondo secondo l’ambizioso programma di ridistribuzione della terra e lotta alla povertà. Gli espropri, spiegava il governo, colpivano la grande proprietà. Ma le operazioni, denunciava al contrario il deputato, avevano finito in

IL FUTURO DEL PAESE SI DECIDE IL 14 APRILE Nicolás Maduro contro Henrique Capriles Radonski. Sarà una sfida ristretta a due candidati quella che animerà le elezioni presidenziali venezuelane previste per il prossimo 14 aprile. Maduro, leader del Partido Socialista Unido de Venezuela, fedelissimo di Chávez e già presidente ad interim, è favorito dai sondaggi ma l’esito elettorale non appare comunque scontato. Capriles, numero uno del partito di opposizione Primero Justicia e ammiratore dichiarato dell’ex presidente brasiliano Lula (che però è stato uno storico sostenitore del chavismo), è stato accusato di appoggio al golpe del 2002 ma un processo lo ha successivamente assolto. Alle scorse elezioni di ottobre, alla guida della coalizione Mesa de Unidad Democrática, ha ottenuto oltre il 44% dei consensi, un risultato di tutto rispetto. Alle elezioni di aprile si presenteranno altri cinque candidati – María Bolívar (Pdupl), Reina María Sequera (Poder Laboral), Eusebio Méndez (Nuvipa), Julio Mora (Udemo) e Fredy Tabarquino (Joven) – a cui i sondaggi attribuiscono comunque consensi minimi.

realtà per coinvolgere soprattutto le piccole e medie imprese e, talvolta, “i semplici campesinos”. Le accuse erano pesantissime: vessazioni, sequestri, estorsioni, persino un omicidio. Antonio Gallo, un imprenditore agricolo figlio di immigrati veneti, mi riferì che la sua proprietà di Yaracuy era ormai stabilmente occupata dalla Guardia Nacional e che nella sua regione il governo stava progressivamente distruggendo la coltivazione della canna da zucchero. L’obiettivo, aggiungeva Garrido, era quello di costringere il Paese a importarne una crescente quantità da Cuba e dare così un po’ di ossigeno all’agonizzante economia del regime castrista. Era la verità? Non ho più sentito le fonti dell’epoca, non ho potuto interpellare le controparti e, soprattutto, non sono mai andato in Venezuela a controllare di persona. In altre parole non ho idea di come sia andata a finire la storia degli expropriados, né di | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 63 |


quanto vi fosse di vero, o eventualmente di falso, nelle denunce dell’opposizione e nelle rassicurazioni ufficiali fornite all’epoca dal governo di Caracas. Ma la vicenda mi sembra a modo suo emblematica. Perché lo scontro che evidenziava allora resta significativo ancora oggi, con il Paese tuttora diviso nei giudizi sul suo defunto leader.

Un leader controverso Hugo Chávez è morto il 5 marzo scorso, a cinque mesi di distanza dalla sua quarta vittoria elettorale consecutiva. 14 anni di presidenza nel segno della “rivoluzione bolivariana” e del “socialismo del XXI secolo”. Ma anche 14 anni di divisioni, tra il clamore dei successi e le accuse di autoritarismo. Una parte del Paese, la maggioranza a giudicare dagli esiti delle elezioni e dai sondaggi, promuove la sua politica. Un’altra, non necessariamente “da destra”, ne contesta i metodi e i risultati denunciando i fiumi di retorica che ne accompagnano il mito. «Quasi tutti i leader di sinistra in America condividono gli ideali di giustizia sociale di cui parla Chávez , ma quasi nessuno approva i suoi metodi», mi spiegò nell’agosto del 2005 una giornalista di El Nacional, il principale quotidiano dell’opposizione. In quei giorni, Caracas stava iniziando i colloqui con il presidente uruguayano Tabaré Vázquez per l’avvio di un programma di raffinazione del petrolio venezuelano negli impianti della Ancap, la compagnia statale di Montevideo. Secondo gli oppositori si trattava dell’ennesimo tentativo di usare il petrolio come arma politica per influenzare le scelte delle altre nazioni del Subcontinente. Per i suoi sostenitori, al contrario, Chávez stava avviando una vera e propria rivoluzione diplomatica che avrebbe condotto l’America Latina alla piena emancipazione economica. La storia, ovviamente, è piena di contraddizioni. Chávez è salito alla ribalta la prima volta nel 1992, guidando un fallito colpo di Stato contro il governo del presidente Carlos Andrés Pérez. Viene arrestato, poi amnistiato. Sei anni dopo si presenta alle elezioni. E vince. Nell’aprile del 2002 è a sua volta vittima di una | 64 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

FONTE: CIA - WORLD FACTBOOK, FEBBRAIO 2013.

| internazionale |

IL PAESE IN CIFRE Nome: Repubblica Bolivariana del Venezuela Popolazione: 28,4 milioni Capitale: Caracas Pil pro capite: 13.200 $ Tasso di crescita 2012: 5,7% Rapporto debito Pil: 49% Tasso d’inflazione: 20,9% Disoccupazione: 8% Alfabetizzazione*: 93% Popolazione sotto la soglia di povertà: 31.6% Tasso di povertà: 29.5%** Tasso di indigenza: 11.7%** Mortalità infantile: 20,18 per mille Speranza di vita: 74 anni * percentuale della popolazione con più di 15 anni di età in grado di leggere e scrivere **dati Cepal su report del governo venezuelano.

Il bilancio dei tanti anni di governo del leader venezuelano è controverso. Il consenso è rimasto alto, ma tra numerose ombre congiura, ma il golpe, guidato da Pedro Carmona Estanga, fallisce miseramente. La televisione privata del Paese appoggia l’operazione. Finirà sotto il sostanziale controllo del governo. Negli anni successivi el presidente stringerà rapporti di amicizia con i grandi leader progressisti del Continente, da Cristina Kirchner a Lula, ma anche con un discreto manipolo di impresentabili come il presidente iraniano Ahmadinejad e il dittatore bielorusso Lukashenko. Si ritroveranno tutti, commossi, al suo funerale.

Luci e ombre dell’economia In una Caracas listata a lutto il delfino Nicolas Maduro e il leader dell’opposizione Henrique Capriles hanno già iniziato la loro battaglia politica in vista dell’appuntamento elettorale del 14 aprile (vedi BOX ). L’obiettivo è la presidenza del Paese. La sfida è il futuro di un’economia nazionale piena, manco a dirlo, di contraddizioni. Nel 2002, ricorda un rapporto ufficiale della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal), il tasso di povertà in Venezuela raggiungeva il 48,6%, quello della popolazione indigente il 22,2%. Nel 2011 le percentuali erano scese

rispettivamente al 29,5 e all’11,7. Ma al successo dei programmi di sviluppo fanno da contraltare altri fattori di instabilità. L’inflazione viaggia attorno al 20% e rappresenta tuttora un problema significativo di fronte al rischio di una fuga di capitali. I numerosi accordi di cooperazione economica firmati da Chávez nel corso degli anni non hanno avuto un grande impatto sugli investimenti stranieri passati, secondo la Banca Mondiale, dal 2,9% all’1,7% del Pil dal 1999 al 2011. La capitalizzazione delle compagnie quotate alla borsa di Caracas, ha sostenuto il Wall Street Journal, è passata dal 7,6% del Pil del 1999 all’1,6% del 2011. Infine il petrolio, risorsa numero uno del Paese. Nel dicembre del 1998, quando Chávez divenne presidente, il barile di greggio viaggiava attorno agli 11 dollari. Oggi siamo sopra quota 90. Ma il Venezuela, dicono i numeri, non ha saputo approfittare in pieno del boom petrolifero. Nei 14 anni della presidenza Chávez, la produzione interna di greggio è calata da 3,2 a 2,5 milioni di barili quotidiani e il Paese si è trovato costretto a importare prodotti raffinati. Come a dire che Caracas vende il petrolio negli Stati Uniti, ma si ritrova a comprare benzina “yankee” a prezzo maggiorato. Le esportazioni di refined dagli Usa al Venezuela, ha riferito l’ex analista di Glencore Stephen Schork, sono passate dai 6.600 barili giornalieri del 2004 agli 85 mila odierni. Il segnale, forse, di una grande occasione sprecata. 


| equocommercio |

In piena crisi

Il commercio equo cresce i chiama Monitoring the scope and the benefits of Fairtrade ed è il report recentemente pubblicato da Fairtrade International (l’organizzazione internazionale responsabile dello sviluppo degli standard di certificazione del commercio equo) sui benefici e l’impatto del circuito del commercio equo Fairtrade per le organizzazioni di produttori dei Paesi in via

S

a cura di Fairtrade Italia

di sviluppo (relativi al 2011). Quello che emerge è uno scenario in assoluta controtendenza: una crescita continua. Cresce il numero delle organizzazioni coinvolte nel sistema, aumentate nel 2011 del 13% rispetto all’anno precedente, per un totale di 1,24 milioni di persone, raggruppate complessivamente in 991 organizzazioni di 66 Paesi nel mondo. La maggior parte, poco più di un milione, fa parte del sistema in qualità di membro di una cooperativa. Migliorano le prospettive commerciali: grazie all’aumento delle vendite di materie prime Fairtrade, i produttori agricoli dei Paesi in via di sviluppo riescono a incrementare le proprie entrate (+30% nel 2011 sul 2010) e, parallelamente, ad accrescere il valore dell’investimento a favore dell’emancipazione delle comunità locali. Infatti il margine di guadagno aggiuntivo assicurato alle organizzazioni per incentivare progetti di sviluppo (Fairtrade premium) ha toccato i 61,1 milioni di euro per il periodo preso in considerazione (+26% sull’anno precedente). Il Fairtrade Premium viene investito per l’implementazione del business delle organizzazioni e per il miglioramento dei processi produttivi (principalmente nelle cooperative), ma anche in progetti educativi e nelle comunità (specie nelle organizzazioni

particolarmente positiva per lo zucchero, la cui crescita è stata significativa grazie all’aumento delle aziende che hanno scelto di utilizzarlo nelle ricette di snack e barrette in abbinata con il cacao. Una scelta che ha avuto un impatto diretto sull’aumento delle organizzazioni di produttori dei Paesi in via di sviluppo coinvolte nel sistema che, a fine 2011, hanno raggiunto quota 69 (nel 2006 erano solo 16), distribuite in 15 Paesi. Sono stati ben 37.200 i produttori di zucchero a beneficiare del premio Fairtrade, per un valore di 7,4 milioni di euro nel 2011. «Questa ricca serie di dati – ha dichiarato Harriet Lamb, Ceo di Fairtrade International – mette in luce i nostri punti di forza, come l’impegno globale a favore delle piccole organizzazioni, ma anche gli aspetti che dobbiamo potenziare, come il miglioramento delle condizioni dei lavoratori dipendenti e il percorso verso un salario più dignitoso». Grazie a dati di prima mano, le testimonianze riportate e le oltre 100 tra cartine e grafici, il documento rappresenta l’istantanea più ampia e approfondita a disposizione del pubblico sul circuito Fairtrade e sui suoi benefici.

Le prospettive del settore migliorano nonostante le difficoltà dell’economia globale. E si tinge di rosa anche il futuro delle comunità di produttori di lavoro dipendente, attraverso il Joint Body, l’organismo formato da una rappresentanza dei lavoratori e dell’azienda creato per decidere la destinazione di questi fondi). Tra tutte le materie prime Fairtrade, il report evidenzia una performance

www.fairtrade.net/impact_studies1.html | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 65 |


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ENI CEDE ALLA CINA IL 20% DEI GIACIMENTI SCOPERTI IN MOZAMBICO È stato firmato a Pechino da Paolo Scaroni, Amministratore delegato di Eni, e Zhou Jiping, suo pari ruolo di Petrochina Company Limited, società controllata da China National Petroleum Corporation (Cnpc), un accordo per la vendita da parte di Eni a Cnpc del 28,57% delle azioni della società Eni East Africa, titolare del 70% della partecipazione nell’Area 4, nell’offshore del Mozambico. Con questa operazione, Cnpc acquisisce indirettamente la partecipazione del 20% nell’Area 4, mentre Eni rimane proprietaria del 50%. Le rimanenti quote nell’area sono detenute da Empresa Nacional de Hidrocarbonetos de Mocambique (Enh, 10%), dalla coreana Kogas (10%) e dalla portoghese Galp Energia (10%). A largo delle coste africane, tra il 2011 e il 2012, l’Eni ha annunciato il ritrovamento di una serie di giacimenti “giant ” di gas metano, valutati in grado di produrre potenzialmente 1.416 miliardi di metri cubi di gas. Il comunicato dell’Eni riporta che «il completamento della transazione è soggetto al verificarsi di alcune condizioni di prassi tra le quali l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni da parte delle Autorità del Mozambico. Il completamento della transazione deve essere perfezionato». Il prezzo concordato è pari a 4.210 milioni di dollari. Contestualmente, Eni e Cnpc hanno firmato un accordo preliminare di cooperazione finalizzata allo sviluppo dell’estrazione di shale gas nell’area denominata Rongchang, che si estende per circa 2.000 chilometri quadrati nel Sichuan Basin, in Cina. [PA.BAI.]

ACQUA, BOMBA A OROLOGERIA CHE MINACCIA L’INDIA

PECHINO RESPIRA ITALIANO

In India, l’80% delle acque utilizzate finisce senza alcun trattamento nei fiumi e nelle falde freatiche. Ovvero in quelle che costituiscono le principali fonti di approvvigionamento di acqua potabile per milioni di persone nel Paese. A denunciarlo è uno studio pubblicato dalla Ong Centre for Science and Environment (Cse), secondo il quale le città indiane, in continua espansione ormai da molti anni, producono ogni giorno 40 miliardi di litri di acqua utilizzata a fini domestici o industriali. A consentire tale comportamento, sottolinea il Cse, sono da un lato norme contraddittorie, dall’altro la mancanza di sensibilizzazione della popolazione. Ma i problemi idrici per gli indiani sono anche dipesi dal cambiamento climatico: sono milioni le persone nella regione occidentale di Maharashtra colpite dalla peggiore siccità degli ultimi 40 anni. Le riserve di acqua potabile hanno raggiunto livelli allarmanti, i capi di bestiame non riescono a sopravvivere, e vengono distrutti i raccolti. Le autorità hanno disposto a febbraio la circolazione tra i villaggi più colpiti di 2 mila camioncisterna. Ma i centri abitati in crisi sono ormai più di 10 mila: secondo l’agenzia Afp scarseggia anche il cibo, aumentano i casi di malattie legate alla disidratazione, e perfino gli ospedali rischiano la chiusura. [A.BAR.]

Un pallido sole offuscato dallo smog nel cielo di Pechino e la città avvolta da una densa cappa di quegli inquinanti che soffocano molte grandi aree urbane del colosso cinese: queste immagini hanno fatto il giro del mondo negli ultimi mesi. E a gennaio 2013 l’inquinamento atmosferico era tale che le autorità invitavano la popolazione di una decina di centri urbani a non uscire di casa per i livelli di polveri sottili. Se montano le proteste dei cittadini per le conseguenze ambientali di una crescita economica tanto violenta, il governo cinese ha deciso di correre ai ripari. Da un lato attivando strumenti di monitoraggio ambientale e pubblicando in tempo reale le rilevazioni di Pm 2,5 registrate da 35 centraline nella capitale, dall’altro acquisendo nuova tecnologia per proteggere la salute dei cinesi. Anche l’Italia è coinvolta: il 13 marzo scorso è stato siglato un accordo di cooperazione tra la Commissione scientifica e tecnologica di Pechino e l’azienda bresciana Hsd Europe per la fornitura di 120 mila filtri nasali Sanispira® al Ministero di Scienza e Tecnologia cinese. Una strategia “micro” per un problema “macro”, visto che i filtri non sono altro che due piccoli coni che, introdotti nelle narici, proteggono in modo quasi invisibile, da smog, allergie e contagi. [C.F.]

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AI NO TEEM IL FONDO SOLIDALE DI ADESSO PASTA! Più che una transazione economica è stata una festa quella che si è svolta a “Fa la Cosa Giusta!” tra i promotori del progetto “Adesso Pasta!” e i rappresentanti del Distretto dell’economia solidale della Brianza (Desbri). Un’occasione per mostrare i risultati concreti di un’idea diversa di fare agricoltura. Motivo dell’incontro: la consegna di un fondo di solidarietà di 3.513 euro, ottenuti grazie all’accordo di fornitura condiviso del grano che, da settembre 2010, coinvolge 40 Gruppi d’acquisto solidale di tutta Italia e la cooperativa agricola biologica La Terra e il Cielo. L’accordo prevede l’applicazione di un prezzo giusto che i Gas pagano al produttore per avere un grano di alta qualità, remunerando al tempo stesso in modo equo il lavoro svolto (finora sono stati acquistati quasi 176 mila euro di pasta). Nel patto è inoltre previsto che il 2% del valore degli acquisti effettuati (l’1% alimentato dai Gas e l’altro 1% da La Terra e il Cielo) finisca in un fondo di solidarietà per progetti di sovranità alimentare. I promotori di “Adesso Pasta!” hanno deciso di contribuire, con la somma finora raccolta, alle spese legali del movimento No Teem, impegnato in Tribunale e presso la Commissione europea contro la costruzione della nuova Tangenziale Est esterna di Milano che, lungo il suo percorso, devasterebbe migliaia di ettari di suolo fertile. [EM.IS.]


| LASTNEWS |

L’ISLANDA NON È TENUTA AL RIMBORSO DEI RISPARMIATORI STRANIERI

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La Corte di giustizia dell’Efta – l’Associazione europea di libero scambio a cui aderiscono oltre ai Paesi Ue anche Islanda, Norvegia e Liechtenstein – esenta in modo definitivo il popolo islandese dal risarcimento dei risparmiatori stranieri che avevano investito nei conti Icesave, sfumati dopo il tracollo del 2008 di alcuni istituti di credito dell’isola. A garantire i rimborsi dei depositi restano i rispettivi Paesi, che hanno dovuto versare ai correntisti alcuni miliardi di euro. Nella sentenza si legge: «La Direttiva Ue sulla garanzia dei depositi non prevede l’obbligo per un Paese e le sue autorità di assicurare la compensazione se il sistema stesso di garanzie sui depositi non è in grado di ottemperare ai propri obblighi in caso di una crisi di sistema», avallando così la linea di difesa del governo islandese che sosteneva di non dover pagare le conseguenze di un crac bancario come quello del 2008, dovuto a una crisi finanziaria internazionale. La sentenza costituisce un importante precedente in Europa per quanto riguarda le garanzie dei depositi in caso di crisi, e si aggancia con la questione cipriota dove il 40 per cento circa dei 70 miliardi di depositi attuali è straniero. In definitiva, stabilisce che uno Stato non può essere sempre il garante ultimo al cento per cento. Anche se la sentenza non è vincolante per la giustizia europea, gli esperti di Bruxelles stanno studiando le implicazioni che la decisione della Corte Efta potrebbe comportare in futuro. [PA.BAI.]

IRAQ, PER KBR UN AFFARE DA 40 MILIARDI

CRESCE IL MERCATO DELLE ARMI. E LA CINA È SEMPRE PIÙ LEADER Nel corso del quinquennio 2008-2012, le esportazioni di armi convenzionali nel mondo sono cresciute del 17% rispetto ai flussi registrati nei cinque anni precedenti. Un aumento sul quale ha avuto una forte influenza la clamorosa espansione delle vendite da parte della Cina, le cui esportazioni sono aumentate del 162% rispetto al periodo 2003-2007. Lo segnala lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel suo ultimo rapporto pubblicato a metà marzo. Il successo delle armi cinesi ha così permesso a Pechino di scalzare il Regno Unito dal quinto gradino della classifica globale e di entrare nella Top Five degli esportatori per la prima volta dalla conclusione della Guerra Fredda. In totale, l’export della Cina rappresenta il 5% del mercato mondiale, contro il 6% della Francia (4%) e il 7% della Germania, terza nella graduatoria. A dominare il mercato sono sempre gli Stati Uniti (30%) seguiti a ruota dalla Russia (26%). Nella classifica delle importazioni, domina l’India, con il 12% dell’import globale. Seguono Cina (6%), Pakistan (5%), Corea del Sud (5%) e Singapore (4%). Rispetto al quinquennio precedente le importazioni del Nord Africa sono cresciute del 350%. Gli acquisti del Vecchio Continente si sono invece ridotti del 20%. [M.CAV.]

39,5 miliardi di dollari, praticamente 4 miliardi all’anno dall’inizio della guerra ad oggi. È il “bottino” intascato in Iraq da Kbr, colosso dell’ingegneria di base a Houston incorporato, fino al 2007, nella più nota Halliburton. Mentre ricorre il decimo anniversario dell’invasione irachena da parte degli Stati Uniti, che pose fine al regime di Saddam Hussein, ma scatenò al tempo stesso un’ondata di violenza tra le fazioni locali in lotta, ricorda il portale Usa International Business Times (IBTimes), l’azienda texana si conferma il contractor più ricco del maxi business dell’occupazione e della ricostruzione irachena. Una vittoria per distacco davanti alle kuwaitiane Agility Logistics e Kuwait Petroleum Corp (l’azienda di Stato del greggio), rispettivamente argento e bronzo con un ricavo complessivo di 13,5 miliardi di dollari. In totale, la spesa pubblica statunitense per le operazioni appaltate ai privati in Iraq è costata ai contribuenti 138 miliardi di biglietti verdi. Secondo una recente analisi del Financial Times, a spartirsi metà della torta (il 52% per la precisione) sarebbero state appena 10 imprese. Nelle stime del Watson Institute for International Studies della Brown University, i costi totali del conflitto (che non includono i benefit per i veterani) ammontano a circa 1,7 trilioni di dollari. [M.CAV.]

SOGNANDO LAS VEGAS A MANILA Il governo delle Filippine punta forte sul gioco d’azzardo con l’obiettivo di incrementare il turismo e di creare nuovi introiti per le casse dello Stato. Lo ha raccontato l’Economist, ripreso da Business Insider. Inaugurato nel mese scorso, il Solaire Manila rappresenta solo il primo della lista di quattro casinò che il governo aveva annunciato di voler aprire nello spazio di un quadriennio, un’operazione avviata negli anni passati grazie allo sviluppo di trattative poco trasparenti che potrebbero aver spalancato a pochi fortunati le porte di un business multimilionario. Le licenze, osserva infatti il settimanale britannico, sarebbero state distribuite durante il penultimo mandato presidenziale, quello di Gloria Macapagal Arroyo, senza fare ricorso a un’asta competitiva bensì tramite un procedimento tuttora poco chiaro che, si sospetta, avrebbe favorito un gruppo ristretto di alleati del capo del governo. Benigno Aquino III, l’attuale presidente, sembra intenzionato a procedere sulla stessa linea nella speranza di permettere al suo Paese di fare concorrenza alle consolidate Las Vegas d’Oriente come Singapore e Macao. I casinò delle Filippine, ad oggi quasi tutti controllati dallo Stato, generano ricavi annuali per 1,4 miliardi di dollari che il Governo spera di innalzare a 5 o 7 entro il 2016. [M.CAV.] | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 67 |


| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

SEEJAY, IL SITO CHE AGGREGA Dai prolifici autori di Decoro Urbano e Italia 2013 nasce SeeJay, versione beta di un progetto di informazione che vuole aggregare i dati disponibili in Rete attraverso un monitoraggio di social network, siti di informazione e blog. Il servizio è attualmente attivo su invito (si compila un piccolo form sulla homepage e arriva rapidamente una mail di istruzioni) e si offre come ausilio di comunicazione per siti internet, operatori dell’informazione, aziende e pubbliche amministrazioni. Più che il servizio, segnaliamo la logica cui si ispira: i dati sono già presenti, quello che occorre è organizzarli. Il dibattito si può aprire sulle forme di controllo e verifica. Propagare un’improbabile notizia in Rete non è impossibile. Mentre il controllo della veridicità nella carta stampata è da sempre affidato al singolo giornalista e alla reputazione della testata e la validità della notizia può al più soggiacere all’eco mediatico che procura (pur essendo vera, verosimile o totalmente infondata), in Rete il controllo è affidato a un pubblico potenziale di milioni di utenti-cittadini. Difficile raccontare che i supermercati di Atene sono oggetto di esproprio da parte dei cittadini affamati se uno, dieci o cento blogger spiegano dalla capitale greca che la realtà che vedono e vivono è diversa. Il dato è sempre numerico, come accadeva con le vendite dei giornali, ma i ruoli sono cambiati: da utenti si è diventati attori e controllori.

BONIFICANDO FIUMI SACRI

IL TEMPO DURO DELLE BUGIE

FINANZA EDUCATIVA E GAMING

1.556 milioni di dollari per avviare un progetto complesso di bonifica delle acque sacre del Gange. Il governo indiano e la Banca Mondiale hanno annunciato il provvedimento straordinario destinato ad analizzare e quindi bonificare gli oltre duemila chilometri che il fiume sacro percorre attraversando cinque regioni indiane. Il progetto prevede la formazione sul campo di personale destinato ai futuri monitoraggi e lo sviluppo di buone pratiche per riportare le coltivazioni su aree attualmente non utilizzabili a causa dell’inquinamento delle acque. Pesano sulla situazione di degrado, ben più dei rituali sacri e delle cerimonie funebri svolte nelle aree prospicienti le acque, gli scarichi industriali incontrollati che hanno lentamente avvelenato il fiume, rendendo difficili persino le abluzioni sacre. Indicativo delle potenzialità della green economy e della sua progressiva penetrazione nel mercato finanziario istituzionale, il finanziamento di un miliardo di dollari concesso dalla Banca Mondiale per il progetto.

Tempi duri per le bugie on line. Lo sviluppo della Rete e dei suoi utenti/artefici modifica assetti comunicativi radicati nel tempo. E il marketing insegue, con una costante assenza di linee guida etiche. Gli ultimi in ordine cronologico a essere messi sulla graticola mediatica sono stati i candidati presidenti degli Stati Uniti: in tempo quasi reale le loro affermazioni nei talk show televisivi venivano analizzate da ricercatori e software automatici. Le promesse non mantenute e le accuse indimostrabili venivano rapidamente smascherate. Lo chiamano fact checking . E sul fronte elettorale interno dire bugie per un candidato politico Usa può essere più problematico che scatenare una guerra. Più difficile in Italia, finché ha gioco ed eco mediatica chi la spara più grossa. Sono nati Truth Teller, progetto del Washington Post , l’archivio Snopes e ora Blt, start up Usa dell’italianissimo Franco Salvetti che scova commenti commissionati sui social network, praticamente l’edizione rivista e aggiornata del tormentone dei “publiredazionali”, falsi articoli altrettanto falsamente indipendenti pagati da aziende e società di comunicazione, ma presentati come fossero notizie giornalistiche o commenti.

Il gioco educativo che simula la crisi finanziaria greca viene lanciato per una scommessa e riceve migliaia di ordini sul web; i corsi di formazione per capire cosa sia la finanza; i siti in cui investire virtualmente per comprendere le proprie attitudini al rischio e all’investimento (economie etiche incluse, anche se l’approccio è più simile al gioco d’azzardo) che anche Borsa di Milano ha messo on line. La finanza non è più una sconosciuta e, anche se ormai “spread” è una parola di uso comune, il livello medio di conoscenze sul tema resta piuttosto imperscrutabile. Nato in ambito non profit, il progetto Financial Entertainment negli Usa vuole avvicinare il grande pubblico ai temi della finanza e insegnare a utilizzare correttamente carte di credito, a basarsi sul budget effettivamente disponibile e a gestire correttamente le tasse. Il target cui si rivolge sono perlopiù i ragazzini, perché non ripetano gli errori dei genitori, finiti travolti dalle periodiche crisi. Il progetto è basato su una serie di videogames che possono essere richiesti da scuole e organizzazioni per diffonderli ai loro associati.

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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

IL SALONE DEL MOBILE NON DIMENTICA LA SOSTENIBILITÀ Quella dal 9 al 14 aprile a Milano è la settimana del Salone del Mobile, un contenitore di eventi di respiro internazionale in cui, a partire dallo scorso anno, anche la sostenibilità è riuscita a ricavarsi uno spazio. Merito di Best Up, associazione per la promozione dell’abitare sostenibile, e di Cascina Cuccagna, l’innovativo progetto di recupero di una cascina agricola nel cuore della metropoli lombarda. È proprio la Cascina a ospitare gli eventi e le esposizioni che rientrano nella cornice di Goodesign, il cui filo conduttore è “Lavorare bene abitare meglio”: un lavoro che rispetta e valorizza le persone, i luoghi e le culture – spiegano gli organizzatori – è strettamente collegato a una vita improntata alla giustizia, alla coesione sociale e al rispetto dell’ambiente. Fra le tante proposte, l’installazione “Who’s out is out / Who’s in is in” a forma di gabbia, in cui gli autori terranno alcune performance legate all’arte, al design, alla musica e al cibo, promuovendo i principi dell’autoproduzione. O ancora il lavoro degli architetti Giulio e Valerio Vinaccia, impegnati da anni nel Sud del mondo. www.bestup.it

LA PESCA È “SLOW” AL PORTO DI GENOVA

LA RISPOSTA AL DISAGIO SOCIALE È LA CREATIVITÀ

A TRANI I TARALLI LI SFORNANO I DETENUTI

“Il mare è di tutti”: è questo il tema della sesta edizione di Slow Fish, che animerà il porto antico di Genova dal 9 al 12 maggio. A organizzare la manifestazione, dedicata al mondo del mare e degli ecosistemi acquatici, sono Slow Food e la Regione Liguria, in collaborazione col ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Una kermesse del genere non può che prevedere un grande mercato ittico: ma la sua particolarità è che gli espositori si sono impegnati a non vendere tonno rosso, pesce spada, squalo e salmone, specie che sono a rischio di estinzione. E tra le bancarelle si potranno conoscere i Presìdi del mare, vale a dire le storie di chi ha scelto di portare avanti una pesca responsabile e rispettosa della biodiversità e dell’ambiente. Non mancheranno inoltre i percorsi didattici, le degustazioni guidate da chef di fama internazionale, i Laboratori dell’acqua e le Cucine di strada dedicate alle specialità gastronomiche locali. www.slowfood.it/slowfish

Chi vive a Trieste avrà di sicuro fatto l’abitudine a vedere di tanto in tanto, abbandonati nei cestini o agli angoli delle strade, gli ombrelli che non hanno retto alla bora. Ma c’è chi dopo la pioggia li va a recuperare per smontarli e trasformarli in frisbee, aquiloni, mantelline per cani, borse per la spesa. Si tratta di Lister, una cooperativa sociale che impiega soprattutto persone che provengono dall’area del disagio mentale, del recupero dalla tossicodipendenza e della marginalità sociale. Persone che non solo ottengono un’opportunità lavorativa, ma hanno anche modo di sviluppare le loro abilità espressive. La creatività, infatti, non si ferma agli ombrelli: «Ricicliamo di tutto: le cravatte ad esempio diventano segnalibri, portaocchiali o trousse – spiega il responsabile, Pino Rosati – mentre i vestiti usati servono per costruire borse e accessori». I Listerjeans sono uno dei pezzi forti: con il denim si confezionano cappotti e borsoni oppure si rivestono divani e cuscini. «Riceviamo talmente tanti capi usati – racconta Pino – che da tempo non abbiamo bisogno di acquistare nulla, salvo ago e filo». www.listersartoriasociale.it

Nella casa circondariale di Trani ormai da una decina d’anni a preparare i pasti è un gruppo di detenuti. A seguirli e formarli è la cooperativa Campo dei Miracoli, che dal 2007 ha deciso che il loro lavoro era ormai maturo per uscire dalle mura della struttura. Da allora, quindi, nella cucina del carcere si confezionano anche le specialità pugliesi per eccellenza, i taralli. «I primi ad acquistarli – racconta il presidente della cooperativa Salvatore Loglisci – sono stati gli agenti di polizia penitenziaria, che sanno che usiamo solo ingredienti di qualità». In seguito i taralli hanno attirato l’attenzione di Ipercoop e del circuito equo e solidale di Ctm altromercato. I detenuti, assicura Loglisci, sono assunti col contratto collettivo delle cooperative sociali che prevede ferie, contributi e tutte le tutele del caso. Ma, una volta terminata la pena, la loro strada spesso non è facile: «Nonostante le loro competenze e la loro voglia di cambiare vita, a volte faticano a trovare sbocchi lavorativi adeguati perché si trovano a fare i conti con un periodo economicamente difficile per tutti, ma anche con i pregiudizi nei confronti di chi ha vissuto un periodo di detenzione». campo.miracoli@libero.it

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| NARRATIVA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA VITA TI IMPONE SEMPRE UNA SCELTA Paolo Grugni La geografia delle piogge Laurana Editore, 2012

Paolo Grugni con “La geografia delle piogge” si conferma uno scrittore di rango. La storia che racconta fa riflettere su un grande tema della vita: la ricerca di senso. Mauro Casagrande, ex giornalista d’inchiesta del Corriere della Sera , quel senso lo ha smarrito insieme alle tante verità che il sistema nasconde. A riportarlo nella realtà ci pensa Federica, la sua fidanzata, avvocato penalista che si deve occupare di un caso di infanticidio. L’imputata però rifiuta la difesa e chiede solo di leggere una lettera in udienza, affidata alla penna di Casagrande che nel frattempo campa vendendo libri in rete in società con Stefano, amico bibliotecario in perenne crisi matrimoniale. L’ex giornalista scopre inoltre che il bar dello zio Nino a Paderno Dugnano è taglieggiato dalla ’ndrangheta e lo convince a denunciare gli estorsori. Il protagonista capisce così che, fuori o dentro il sistema, la vita ti chiede sempre di scegliere. E poi c’è la vita vissuta dai libri con le speranze e le delusioni condensate nelle dediche che l’autore inserisce nella storia. Un vero colpo da maestro.

UN SEGRETO DI STATO CHE DURA DA 33 ANNI

LA VERITÀ DI AGCA SULL’ATTENTATO AL PAPA

DUE PERSONAGGI DA FIABA PER RACCONTARE LA REALTÀ

Graziella De Palo e Italo Toni erano due giornalisti rapiti e uccisi a Beirut in Libano nel settembre del 1980 mentre facevano un’inchiesta sul traffico d’armi e i rapporti tra l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), i vertici dei servizi segreti italiani e alcune industrie della guerra. Di questa storia non se ne parla mai, troppo scomoda per le pesanti responsabilità di alcuni apparati dello Stato. Solo il primo marzo del 2010 è stata data la possibilità ai famigliari di consultare alcuni documenti nella sede dell’Aise (ex Sismi) senza poterne fare copia a tutela dei rapporti internazionali con l’Olp. Un “intrigo silenzioso” a cui ha dato voce Nicola De Palo, cugino di Graziella, con un libro coraggioso che ripercorre tutte le tappe di una vicenda molto complessa e difficile da ricostruire a causa le numerose omissioni di Stato. Ci sono, infatti, ancora 80 documenti rimasti secretati, decisivi per capire delle responsabilità politiche e morali a monte della morte dei due giornalisti. Una storia inquietante dove convergono altre oscure vicende, dalla P2 fino alla strage di Bologna, che racchiudono “lo spirito grigio dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta”.

Ali Agca, l’uomo che il 13 maggio del 1981 attentò alla vita di Papa Karol Wojtyla, racconta in prima persona quella vicenda, svelando i reåtroscena di una vita segnata dal fanatismo islamico. Questo libro si legge come un tragico romanzo, dall’odio che contraddistingueva il piccolo Ali nel povero villaggio turco di Yesiltepe fino all’ingresso nella setta dei Lupi grigi, passando per gli addestramenti militari nell’Iran degli Ayatollah da cui, secondo Agca, arriverà l’ordine di attentare alla vita del Papa. Prima di giungere all’appuntamento finale di Piazza San Pietro, Agca fa tappa a Sofia, assistito dalla rete europea dei Lupi grigi nei vari passaggi da Belgrado a Parigi, da Zurigo a Roma dove visiterà i musei vaticani, mentre l’arma per l’attentato gli verrà consegnata alla Stazione centrale di Milano. Agca racconta nel dettaglio anche l’incontro con il pontefice avvenuto due anni dopo l’attentato nel carcere romano di Rebibbia. A Wojtyla, in cambio della promessa del silenzio, svelerà i mandanti dell’attentato e racconterà una storia dove rispunta il terzo segreto di Fatima.

“Che cos’è la felicità? Tra le tante risposte che l’uomo si è dato, senza arrivare mai al centro del problema, vale la pena prendere in considerazione anche quella che espongono due esseri che la sanno lunga proprio perché contano poco o nulla”. Inizia così l’introduzione al libro “Alfred e Jack”, scritta da Federico Roncoroni, figura di riferimento per il mondo della lingua, della letteratura italiana e della didattica, saggista, studioso di poeti e scrittori dell’Ottocento e del Novecento. I due esseri che la sanno lunga sono Alfred e Jack, da cui ha origine il titolo. Si tratta di uno spaventapasseri e un pupazzo di neve, che si danno il cambio su un campo di granoturco, l’uno d’estate e l’altro d’inverno. Non si incontreranno mai lungo tutta la narrazione, ma hanno un amico in comune: un corvo chiamato Vox, voce narrante del racconto. Sarà lui che, scrive Roncoroni: “Porterà ciascuno dei due amici alla consapevolezza di sé e all’accettazione del proprio destino e li guiderà, con tecnica maieutica, a scoprire cos’è la felicità e, soprattutto, come e perché ognuno ha una sua forma di felicità”. Una storia delicata, con un tocco poetico e la capacità di andare fino in fondo all’anima, dei suoi protagonisti e di chi legge. Insieme al libro c’è anche un cd con letture interpretate del romanzo.

Nicola De Palo Omicidio di Stato Armando Curcio Editore, 2012

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Ali Agca Mi avevano promesso il paradiso Chiarelettere, 2013

Lucia Valcepina, Lux Bradanini Alfred e Jack Fabbrica dei Segni editore, 2012


| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA RIPRESA NON DISTRIBUISCE LA RICCHEZZA Joseph E. Stiglitz Il prezzo della disuguaglianza Einaudi, 2013

Sono anni che il premio Nobel Joseph Stiglitz lo va dicendo: la disuguaglianza del reddito negli Usa ha raggiunto livelli insostenibili. Prima della crisi finanziaria l’1 per cento dei cittadini si è accaparrato oltre il 65 per cento dei guadagni del reddito nazionale totale e anche se il prodotto interno lordo (Pil) cresceva, la gran parte dei cittadini non solo non ne aveva benefici ma vedeva erodere ulteriormente il proprio tenore di vita. Nel 2010 l’1 per cento guadagnava il 93 per cento del reddito aggiuntivo creato nella cosiddetta “ripresa”, godendo dei migliori servizi e senza preoccuparsi del fatto che quel destino privilegiato era strettamente collegato al restante 99 per cento che faticava a tirare avanti. Una situazione assecondata dall’azione dei mercati e dalle sterili manovre politiche. Stiglitz, partendo dalla sua autorevole visione economica, lancia un appello all’America affinché ritorni agli ideali economici e politici che l’hanno resa un grande Paese, il luogo delle opportunità capace di rispondere alle aspettative dei suoi cittadini.

LA NUOVA ERA SI CHIAMA CAPITALESIMO

SOLDI E BELLEZZA UNA STORIA TUTTA ITALIANA

L’AVIDITÀ NON PORTA VANTAGGI A NESSUNO

Il titolo è la sintesi tra capitalismo e feudalesimo e sta a indicare non la fine di un sistema ma la sua trasformazione, proprio come è accaduto con l’affermazione del feudalesimo dopo il declino del mondo antico. Il “capitalesimo” si presenta dunque come un sistema radicato e capillare di controllo assoluto su un territorio frammentato. Il potere della finanza è esercitato dai feudatari, vassalli e valvassori, marchesi e baroni, a discapito della massa sempre più sterminata di poveri. L’economia reale è in grado di generare una ricchezza pari a circa 70 mila miliardi di dollari, ma l’ingegneria finanziaria ha creato un valore virtuale di scambi che vale trenta volte tanto. Il mondo poggia su un piedistallo di carta, una contraffazione che è ormai strutturale e causa principale della trasformazione del capitalismo. Le regole tanto invocate non sono mai arrivate per l’inerzia della politica che ha lasciato ai feudatari la gestione e la difesa di questo sistema. E i nuovi baroni, grazie ai mezzi economici e alle conoscenze, continuano a trarne grandi vantaggi.

“Il cambiavalute e sua moglie” di Quentin Massys in copertina è l’immagine perfetta per rappresentare un argomento come quello dei soldi. Già inserito nella mostra di Palazzo Strozzi “Denaro e bellezza” (2012), questo quadro racchiude una storia che ha nell’Italia, da Lucca a Siena e da Firenze a Venezia, lo scenario principale. È in queste città infatti che nascono le prime banche, società di assicurazione, assegni e obbligazioni. Le banche risolvono il problema del trasferimento di denaro da un paese all’altro con l’invenzione della lettera di cambio consentendo ai commercianti di riscuotere una somma di danaro senza che la moneta venga fisicamente spostata. Le monete italiane (fiorini e ducati) dominano per secoli i commerci mondiali sia per la fiducia di cui godono sia per il pregio artistico del conio. Il viaggio nei soldi è costellato di personaggi geniali e intraprendenti: dal matematico Fibonacci, che per primo introduce in Occidente lo zero, a Luca Pacioli, che diffonde gli strumenti della contabilità utilizzati ancora ai nostri giorni, fino a John Law, lo scozzese che dà vita alla prima bolla finanziaria della storia, quella della Compagnia del Mississippi.

La conseguenza principale dell’aver sostituito la competizione e la rivalità alla cooperazione amichevole, alla fiducia, al rispetto e alla condivisione, è che la disuguaglianza nel mondo è aumentata esponenzialmente. I poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Questa situazione non è però immutabile. Si ha la guerra solo se la si sceglie, ma la società può optare anche per la pace, così come può scegliere la cooperazione anziché la rivalità. Il problema è che il mondo nel nuovo millennio non ha preso la via della solidarietà e cooperazione, rendendo queste ultime opzioni impopolari e onerose anche per chi è animato da nobili intenzioni, perciò le persone si convincono che questo sistema sia l’ordine naturale delle cose. Bauman sottopone le convinzioni (false) dell’uomo medio, come ad esempio l’inevitabile disuguaglianza tra le persone, alla verifica della realtà. Nell’avidità non c’è vantaggio, eppure abbiamo creduto che l’arricchimento di pochi fosse l’unica via per il benessere di tutti.

Paolo Gila Capitalesimo Bollati Boringhieri, 2013

Alessandro Marzio Magno L'invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano Garzanti, 2013

Zygmunt Bauman La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. Falso! Laterza, 2013

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| bancor |

Politica (e storia)

Perché non possiamo non dirci “grillini”

C

dal cuore della City Luca Martino

compiuto, più di quanto fecero i Greci nella poesia, l’arte e la filosofia o i Romani nel diritto”. In quegli anni l’Italia soffriva gli orrori della guerra e la fine di un regime sciagurato, quello di Mussolini, cui Croce aveva in origine guardato con speranza e al quale, da senatore, diede anche un voto di fiducia, nonostante l’orrore dell’eccidio Matteotti avesse innescato in lui un profondo turbamento che lo portò, di lì a poco, a interrompere lo storico sodalizio con Giovanni Gentile. La sua fu una fiducia “condizionata”, per il bene dell’Italia, per tenere il Duce sostanzialmente prigioniero di se stesso: l’auspicio era che Mussolini se ne andasse, ma senza scosse, al momento opportuno, giacché la sua permanenza al potere era condizionata al beneplacito dei liberali. A distanza di quasi un secolo, l’Italia, che esce dal ventennio berlusconiano e da quasi un decennio di crisi economica, attraversa simili travagli, non avendo espresso nelle urne nessuna ipotesi di governo stabile: anzi, più della metà dei nostri concittadini ha manifestato il proprio disgusto per il sistema politico o con l’astensione o con il sostegno al movimento di Beppe Grillo, il cui vero scopo, ancor prima della governabilità, è la cancellazione dei partiti, di tutti i partiti, e di quello che hanno rappre-

zionali a dover dare una fiducia, magari condizionata, a un governo monocolore dei Cinque stelle che, di lì in avanti, sarà chiamato a governare e legiferare. Non solo su finanziamento ai partiti o banda larga, ma anche e soprattutto su come gestire ogni anno mille miliardi di spesa pubblica e di relativo gettito fiscale; o su come rifinanziare i duemila miliardi di debito pubblico; o ancora su come affrontare i rapporti internazionali, dai conflitti “biblici” che affliggono il Medio Oriente alla corsa all’armamento da parte di Iran e Corea del Nord, dagli scambi globali delle merci alla guerra delle valute, dalla riforma dei mercati dei capitali alla vigilanza sul settore bancario. Tutti crediamo che Grillo abbia avuto più di una ragione nel denunciare il degrado del nostro sistema politico; molti pensano sia nell’interesse del Paese – e anche nel suo – convergere verso una fiducia, condizionata sì, ma costruttiva, a un governo riformista. Molti vedono invece nella sua intransigenza l’unica speranza per riuscire in Italia lì dove altri movimenti, come quelli degli indignados o di Occupy Wall Street, hanno oggettivamente fallito. Da parte mia, spererei nella prima soluzione, ma temo che tra le letture di Grillo ci sia poco Benedetto Croce e tanto altro. 

BENEDETTO CROCE - IT.WIKIPEDIA.ORG

onsiderato il fondatore del liberalismo italiano, esponente tra i più illustri dell’idealismo e dello storicismo, Benedetto Croce scrisse in età avanzata un breve saggio dal titolo “Perché non possiamo non dirci cristiani”, nel quale il filosofo laico e agnostico riconosceva al Cristianesimo di aver rappresentato “la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai

Il M5S è a un bivio: o una fiducia condizionata a un governo o l’intransigenza sentato nell’ultimo ventennio. Il fascino di un siffatto messaggio, dove la nausea per la corruzione e il malaffare prevalgono sul tatticismo politico, potrebbe addirittura risultare vincente qualora, con qualsiasi sistema elettorale, si tornasse al voto appena dopo il disbrigo del tipico ingorgo istituzionale di inizio legislatura, nel quale i partiti appariranno al solito come quelli che si spartiscono poltrone e privilegi e gli “amici” del comico genovese, senza auto blu e con un reddito netto poco più che popolare, come gli unici interpreti di una nuova morale indispensabile alla gestione della cosa pubblica. A quel punto, con lo spread verosimilmente di nuovo alle stelle, saranno i pochi esponenti rimasti dei partiti tradi-

todebate@gmail.com | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 | valori | 73 |


| resistenze |

Donne e uomini, imprese che si indignano, protestano, resistono alla crisi

I cittadini si ribellano

Ore contate per i superbonus l Financial Times ha un inserto che si chiama how to spend it (come spenderlo, il denaro). Pagine e pagine di consigli su come liberarsi dalla liquidità in eccesso: ville in Toscana, vini pregiati francesi, orologi tempestati di diamanti, centri benessere esclusivi e borse in pelle umana. Un vademecum mensile per i supermanager che incassano superbonus e fanno sballare il coefficiente di Gini (che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito). I comuni mortali, che spesso fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, giustamente si incazzano. E spesso ottengono importanti risultati. In Svizzera il 3 marzo scorso il 68% dei cittadini ha votato a favore di un’iniziativa per frenare le remunerazioni dei top manager delle imprese quotate. “Iniziativa popolare contro le retribuzioni abusive”, l’hanno chiamata senza mezzi termini. A far traboccare il vaso è stata la buonuscita dell’amministratore delegato di Novartis (settore farmaceutico) Daniel Vasella: 60 milioni di euro in comode rate da 10 milioni all’anno. Vasella ora ha dichiarato che rinuncerà alla liquidazione che, dice, avrebbe comunque devoluto in beneficenza. Intanto, grazie al risultato del referendum, le società quotate in Svizzera dovranno sottoporre al voto vincolante degli azionisti i piani di remunerazione dei manager e non potranno più pagare buonuscite. Sul tema si sta muovendo anche l’Unione europea. A Bruxelles la stragrande maggioranza dei membri dell’Ue si è dichiarata disponibile a sottoscrivere un accordo politico per ridurre le paghe dei manager. In Olanda il governo ha già imposto un tetto ai bonus nel 2010 e si sta muovendo per limitare i bonus al 20% della remunerazione di base. Anche in Gran Bretagna si stanno approvando norme per dare agli azionisti un voto vincolante sulle paghe dei manager. In Italia, a partire dalla stagione assembleare 2012, gli azionisti possono esprimere un voto consultivo sui piani di remunerazione dei manager delle società quotate. Per ora, a parte pochi casi (come quello della Fondazione Culturale Responsabilità Etica con Eni ed Enel), i piccoli azionisti non hanno approfittato di questa possibilità. In assemblea si presentano quattro gatti e i grandi fondi pensione di emanazione sindacale come Cometa (metalmeccanici) o Fonchim (chimici) stanno a guardare. Nel frattempo Alessandro Profumo esce da Unicredit con 40 milioni di euro di liquidazione. Qualcuno ha abbaiato, certo, ma chi avrebbe dovuto parlare ha taciuto. In Svizzera, come minimo, avrebbero indetto un referendum. 

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| 74 | valori | ANNO 13 N. 108 | APRILE 2013 |

di Mauro Meggiolaro

Abzockerinitiative Fatti La fuga di notizia sulla buonuscita di Daniel Vasella, Ceo del colosso farmaceutico Novartis, ha fatto scoppiare l’indignazione dei cittadini svizzeri, che hanno presentato una proposta per un referendum contro le superpaghe dei manager. La proposta è stata accolta e il referendum, che si è tenuto il 3 marzo 2013, ha visto la vittoria schiacciante (68%) del “Sì” in tutti i cantoni. Il risultato del referendum porterà a una serie di limitazioni per le superpaghe dei manager. Storia Il tema delle superpaghe dei manager ha fatto breccia in Svizzera soprattutto grazie a enti come Ethos, fondazione per lo sviluppo sostenibile con sede a Ginevra. Dal 2005 Ethos si presenta come azionista critico alle assemblee delle imprese quotate svizzere per conto dei grandi fondi pensione pubblici e chiede che le società sottopongano al voto consultivo degli azionisti i piani di remunerazione. Ora, grazie al referendum, il voto sarà vincolante e varrà per tutte le società quotate. Numeri In Svizzera hanno sede alcune tra le più grandi multinazionali della terra come Novartis, Nestlé, Roche, oltre alle grandi banche UBS e Credit Suisse. I loro manager sono tra i più pagati al mondo. Pur essendo solo marginalmente toccati dall’attuale crisi, i cittadini svizzeri hanno votato in grande maggioranza per essere ascoltati come azionisti in assemblea sulle paghe dei supermanager. “La relazione degli svizzeri con gli ultraricchi” sta per cambiare, ha scritto il Financial Times. “La cultura svizzera trova disdicevole l’ostentazione della ricchezza”.

La copertina di febbraio 2013 dell’inserto how to spend it del Financial Times

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