Mensile Valori n. 107 2013

Page 1

Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 107. Marzo 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

MATTEO FERRONI, WWW.ELAND.ORG

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Energia sociale Nuovi scenari energetici. E dalle rinnovabili una mano al Sud del mondo Finanza > Se non si vendono automobili, è meglio scommettere sulla finanza Economia solidale > Sos tessile: il made in Italy boccheggia. E scoppia l’allarme salute | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Occhi puntati sul Medioriente dopo le elezioni in Giordania e Israele


| 2 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


| editoriale |

La via tracciata è rinnovabile di Mario Agostinelli

È

L’AUTORE Mario Agostinelli Chimico-fisico, è stato ricercatore all’Enea, consigliere regionale in Lombardia e per sette anni segretario generale della Cgil Lombardia. Opera da anni nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre ed è portavoce per il Contratto mondiale per l’energia e il clima. È tra i promotori del comitato nazionale “No nucleare Sì rinnovabili”, presidente dell’associazione Energiafelice (www.energifelice.it), membro del comitato di redazione di “Alternative per il Socialismo”. Tra le sue pubblicazioni: “Tempo e spazio nell’impresa post fordista”; “Pianeta in prestito”, “Le 35 ore” con Carla Ravaioli; “Cercare il sole, dopo Fukushima”.

confortante constatare lo iato tra i capi del mondo che si ritrovano a Doha – e non concludono nulla dalla conferenza di Rio de Janeiro del 1992 – e la pratica di continua espansione dei sistemi di risparmio di energia, di riduzione degli sprechi, di mobilità sostenibile, di ricorso a sistemi elettrici e termici alimentati dal sole, acquistati e gestiti sempre più spesso in forme comunitarie. Ma, a distanza di vent’anni dal Brasile, svolta epocale per una forma di trattato che teneva in considerazione la natura, le speranze concretizzatesi allora risultano vanificate dal precipitare della crisi e dal prevalere – anche culturale – dell’economia sulla politica. Il punto cruciale di questa fase storica è che abbiamo ormai finito di trasformare la parte inerte della natura e siamo giunti a “mettere a profitto” il vivente, cioè l’anima della natura stessa. Quindi l’energia, fonte di vita e di progresso, consumata in eccesso e degradata in calore e inquinamento, diventa di fatto causa di pericolo per la sopravvivenza e di regresso per la civiltà. E l’inadeguatezza politica tende a concentrarsi sull’aspetto del debito finanziario, elemento di classe, e non sul debito verso la natura, che proprio la sopravvivenza della specie riguarda. Mentre otto anni fa la candidatura di Al Gore alla presidenza americana aveva imposto la risoluzione dei problemi del clima come tema principale, oggi Barack Obama sostiene la ricerca sulle fonti fossili attraverso lo shale gas, per prolungare il primato mondiale degli Usa e per un vantaggio nella competizione economica con Pechino. E il nostro governo ha improvvisamente rilanciato la Sen (Strategia energetica nazionale), con un drastico annullamento nella prospettiva delle rinnovabili e un affidamento completo alle prospezioni per il petrolio e all’idea di fare dell’Italia il “magazzino” del gas. Si continua, cioè, a investire su una dimensione dell’energia centralizzata, non territoriale, e finanziaria (al comparto energetico si riferisce il 29% di tutti i prodotti derivati), invece di puntare su un modello decentrato e su un’economia cooperativa delle fonti naturali. Senza contare che non si può spendere, come stimato dalla Banca mondiale, il 6% del Pil planetario per intervenire sulle conseguenze degli eventi climatici estremi e, contemporaneamente, avere un welfare che si occupa delle pensioni e della salute pubblica. Bisogna allora pensare a un “rallentamento”. Che porterebbe grandi quantità di lavoro. E bisogna far prevalere l’energia diffusa (vento, sole, acqua, biomasse), non trasportata attraverso opere enormi, per i cui investimenti le popolazioni povere non hanno disponibilità, se non quella di venire colonizzate, cedendo le royalties dello sfruttamento ad altri Paesi. E se la domanda è come si possa chiedere a India e Cina di rallentare la corsa per abbracciare un modello “un po’ più lento”, io credo che la risposta stia in una transizione decisa verso il 100% di fonti rinnovabili, non in una impraticabile coesistenza tra vecchio e nuovo sistema. Perché se è vero che certe società in pieno sviluppo hanno tassi di povertà assolutamente insostenibili, la fuoriuscita da questa povertà con il sistema fossile applicato all’agricoltura, alla produzione e ai trasporti non può essere raggiunta. Anche per questo la conversione potrebbe subire un’accelerazione. La svolta arriverà dopo il 2020. E, fino ad allora, vivremo anni di autentica transizione, di fatto anni di impudenza dal punto di vista della visione del futuro.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 3 |



| globalvision |

Per uscire dalla crisi

Oltre il “dinamismo resiliente” di Davos a crisi, o almeno la sua fase più acuta, è ormai alle nostre spalle. Ma non è finita: siamo alle prese con la sua coda, ossia con i suoi devastanti effetti sociali. Ma, soprattutto, il problema non risolto è come ripartire. Una domanda a cui non ha saputo rispondere nemmeno il World Economic Forum nel suo tradizionale incontro a Davos (fine gennaio 2013).

L

di Alberto Berrini

All’appuntamento, che ogni anno riunisce leader politici internazionali, scienziati, banchieri e grandi imprenditori che tentano di contribuire a definire un’agenda globale, non si è andato oltre il suggerimento, già sostenuto ormai da tempo dal Fondo monetario internazionale, di attenuare le politiche economiche di austerità: allungare i tempi del risanamento dei conti pubblici, per dare più fiato alla crescita. Se quest’ultima non si consolida ciò che stiamo vivendo è solo una tregua della crisi. Una quiete dopo la tempesta che prelude a una nuova tempesta, magari di natura sociale, poiché la disoccupazione, creata dalla crisi e che non si riesce a riassorbire, è un ulteriore elemento di impoverimento delle famiglie e di aumento delle disuguaglianze. Non a caso il titolo del Forum di Davos era “Dinamismo resiliente”. La resilienza è «la capacità di assorbire disequilibri eccezionali, ovvero di riportarsi alle normali condizioni di funzionamento partendo da situazioni estremamente lontane dalla stabilità». Tale concetto, che trova applicazione nei più diversi campi scientifici (ingegneria, fisica, ecologia, psicologia), ha ovviamente attirato l’attenzione degli economisti in quanto siamo appena usciti dal più grande shock sistemico

ripristinare un equilibrio perfetto (che peraltro non esiste), ma di imparare a gestire un mondo in perenne disequilibrio. In definitiva la resilienza non rimanda al laissez-faire, ma a politiche economiche di intervento a vari livelli sul sistema economico. In ambito sociale essa si conquista grazie a politiche che investono nella riqualificazione dei lavoratori licenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scientifica e nella scuola. Più in generale si tratta di redistribuire ricchezza a partire, ma non solo, dal carico fiscale, per favorire i consumi. Ma non basta consumare di più, bisogna investire di più. Un modello di sviluppo basato su finanza e debiti ci ha portato al disastro. Solo un massiccio ritorno degli impieghi finanziari all’economia reale, anche per mano pubblica, può garantirci crescita e occupazione. La qualità di tali investimenti determinerà inoltre la sostenibilità ambientale del mondo che verrà. Siamo al punto in cui le soluzioni tecniche devono lasciare spazio a quelle politiche che implicano visioni nuove. L’idea keynesiana, da cui derivò il New Deal, non è solo un’idea economica, ma prima di tutto un insieme di valori, una concezione della società. È questo il “dinamismo” che serve. 

Solo un massiccio ritorno degli impieghi finanziari verso l’economia reale può garantire crescita e lavoro che abbia mai colpito l’economia mondiale dopo la crisi degli anni Trenta. I grandi del mondo hanno affermato che il sistema economico si è dimostrato “resiliente”, ossia ha retto l’urto della crisi e non è imploso come nel ’29. Ma quanto al dinamismo non c’è traccia, come di ricette per la crescita. Il punto è che resilienza e liberismo non sono compatibili. Quest’ultimo postula un sistema economico in grado di auto-regolarsi e quindi tendenzialmente volto all’equilibrio, solo occasionalmente interrotto per lo più da shock esterni. Per gli studiosi (di qualunque disciplina accademica) che cercano di applicare il concetto di resilienza, al contrario, non si tratta di

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 5 |



MATTEO FERRONI, WWW.ELAND.ORG

| sommario |

marzo 2013 mensile www.valori.it anno 13 numero 107 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Q. Sakamaki (Contrasto); Andrew Biraj, Stefano Rellandini, Bob Strong (Reuters); archivio Greenpeace; www.eland.org

In lingua locale Foroba Yelen, “luce collettiva”, di lampioni a led a energia solare, su un telaio facile da assemblare con materiali di recupero (vecchi telai di bici) e trasportabile dai bambini. Sono già 56 queste lampade portatili che rischiarano 12 villaggi del Mali, per un progetto della Fondazione eLand (www.eland.org), il supporto della Haus der Kulturen der Welt e il concept e design dell’architetto italiano Matteo Ferroni.

globalvision fotonotizie dossier Energia sociale

8

Energia pulita al servizio del sociale Dalla teoria alla pratica. Il futuro del Sud del mondo è rinnovabile Rinnovabili ben oltre le attese Il nuovo ordine mondiale Lampi sull’Eni Dal nero al verde

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 22 febbraio 2013 in posta: 27 febbraio 2013

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

27

Finanzieri a quattro ruote. La nuova frontiera dell’auto Inchieste, perdite e derivati. Non solo Mps Bersani, Vendola e Ingroia rispondono a Banca Etica Non pensare, esegui! La crisi è colpa di lavoratori “stupidi”

28 32 34 35

investimentirinnovabili economiasolidale

38

Tessile e moda. La filiera muore (e il made in Italy pure) Vanità o sanità, questo è il dilemma Quando l’etica fa capolino nel tessile Confidi a rischio bolla. Allarme per le piccole imprese (e non solo) Se lo Stato (francese) tende la mano alle Pmi Una mobilità diversa in scena a Fa’ la cosa giusta!

40 44 46 48 50 52

socialinnovation internazionale

55

Diritti in fumo Giordania: il Paese a sovranità necessaria Israele. L’ago del bilancio Mauritania. Il Paese schiavo

56 61 63 64

equocommercio altrevoci bancor resistenze

67

Abbonamenti cumulativi

Lettere, contributi, informazioni, promozione, amministrazione e pubblicità Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano - tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it / segreteria@valori.it - www.valori.it

Assieme a Valori sottoscrivi un abbonamento annuale a una delle riviste riportate di seguito: risparmierai e riceverai più informazione critica, sostenibile, sociale e di qualità.

Valori [10 numeri]

Annuali

Biennali

Euro 38 Euro 48 Euro 28 Euro 48

Euro 70 Euro 90 Euro 50 Euro 85

14 16 18 20 22 24 24

valorifiscali finanzaetica

ABBONAMENTI 2013

Ordinario cartaceo - scuole, enti non profit, privati - enti pubblici, aziende Only Web Reader Cartaceo+Web Reader

5

Valori + Africa [6 numeri] euro 60 (anziché 76 €) Valori + Altreconomia [11 numeri] euro 70 (anziché 76 €) Valori + Italia Caritas [10 numeri] euro 49 (anziché 53 €) Valori + Mosaico di Pace [11 numeri] euro 62 (anziché 71 €) Valori + Nigrizia [11 numeri] euro 64 (anziché 73 €) Valori + Terre di Mezzo [11 numeri] euro 60 (anziché 71 €)

68 73 74

Versamenti  carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori  bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato  bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato


| fotonotizie |

Nucleare, Olkiluoto può aspettare ancora

[Il cantiere per la costruzione dell’EPR di terza generazione nella centrale finlandese di Olkiluoto, 220 chilometri a nord-est di Helsinki].

| 8 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

REUTERS / BOB STRONG

Una Fukushima in Europa costerebbe 430 miliardi di euro. La cifra è stata calcolata dall’Irsn, l’istituto pubblico per la sicurezza nucleare francese, e si basa sull’ipotesi di una catastrofe simile a quella avvenuta nel marzo del 2011 in Giappone. Ma, sottolinea l’organismo, anche in caso si verificasse un incidente meno grave, il conto per il governo di Parigi non sarebbe comunque inferiore a 120 miliardi. L’analisi dell’Irsn ha preso in considerazione la fusione ipotetica del nocciolo di un reattore da 900 MWh, nonché i costi legati alla contaminazione dell’ambiente, quelli che sarebbe necessario sostenere per i circa 100 mila rifugiati che dovrebbero abbandonare l’area del disastro e quelli indiretti per l’economia (dalle esportazioni agricole al turismo). Nell’ipotesi meno grave, quella che prevede un esborso di 120 miliardi di euro, si tratterebbe comunque di qualcosa come il 6% del Pil transalpino. Naturalmente l’allarme non viene neppure preso in considerazione dai colossi del settore, tanto che la francese Areva lavora ancora alacremente alla costruzione del nuovo reattore della centrale di Olkiluoto, in Finlandia. Alacremente, ma anche molto lentamente, visto che a febbraio l’operatore elettrico finlandese Tvo ha confermato l’ennesimo dilatarsi dei tempi per il completamento dei lavori nella centrale scandinava: «Non riusciremo a partire prima del 2016». E dire che la stessa Tvo, la scorsa estate, aveva parlato di 2014. D’altra parte, la previsione iniziale era di completare l’opera nel 2009. E ad un costo di 3,1 miliardi di euro inferiore rispetto a quelli (finora!) spesi. [A.BAR.]


| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 9 |


| fotonotizie |

Sull’onda dell’emozione per l’ennesima strage di bambini in una scuola (27 morti a Newtown, Connecticut, il 14 dicembre scorso) qualcosa si è mosso in tema di regolamentazione delle armi da fuoco negli Usa. A cominciare dal movimento civile che ha portato in piazza le migliaia di donne di One Million Moms 4 Gun Control (nella foto), per arrivare al vertice della nazione, con il giro di vite promesso dal presidente Barack Obama. Ma se la cittadinanza attiva non molla, la volontà politica vacilla. Il Congresso, che dovrebbe vietare la vendita libera delle armi d’assalto, starebbe infatti esaminando contemporaneamente un’esenzione dalle prossime misure per oltre 2 mila modelli di armi da fuoco, tra cui – ad esempio – la Ruger calibro 0,223 Mini-14, un fucile semi-automatico quasi identico a una delle armi utilizzate nella sparatoria più sanguinosa della storia dell’Fbi: a fronte del bando proposto per il modello a calcio pieghevole – facilmente occultabile e maneggevole, quindi – si opporrebbe così l’esenzione dal bando per un modello identico ma a calcio fisso. E mentre a capo della crociata “per difendere i bambini americani” viene messo simbolicamente il vicepresidente Joe Biden, la proposta di legge presentata a gennaio dal senatore californiano Dianne Feinstein vieterebbe sì la vendita al pubblico di 157 tipi di arma da fuoco progettati per uso militare, e caricatori ad alta capacità (oltre i 10 colpi), ma non inciderebbe sui modelli da caccia e su quelli per uso sportivo. L’America, in cui ad oggi il governo non ha potere per sottrarre legalmente armi proprie ai suoi cittadini (oltre 100 milioni sui 315 complessivi, cioè il maggior numero di sempre), potrebbe insomma perdere un’occasione d’oro. onemillionmomsforguncontrol.org [C.F.]

[Una manifestazione dopo la strage di Newtown del 14 dicembre scorso. Mamme, papà e bambini uniti in una protesta contro le armi].

| 10 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Q. SAKAMAKI / REDUX THE UNITED NAT / CONTRASTO

Usa, armi bandite O quasi


||

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 11 |


| fotonotizie |

La moda poco attenta alla sostenibilità

[Un blitz di Greenpeace durante la settimana della moda a Milano. Una modella-climber sfila in verticale su una torre del Castello sforzesco, per chiedere alle griffe una moda non contaminata da deforestazione e sostanze tossiche].

| 12 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

ARCHIVIO GREENPEACE

Se tutte le criticità attribuibili alla filiera internazionale del tessile si traducessero in capi d’accusa, per i marchi della moda italiani sarebbe un bel guaio. Economico, in primo luogo. D’altra parte l’elenco delle “magagne” fa impressione: processi produttivi pericolosi per i lavoratori, come la sabbiatura dei jeans; sfruttamento della mano d’opera, soprattutto in aree geografiche a bassa tutela sindacale; rispetto carente delle norme di sicurezza nei luoghi di lavoro; opacità nella filiera e nella salvaguardia del made in Italy; abiti contenenti sostanze tossiche con rischi potenziali per la salute; immissione in atmosfera e nelle acque di sostanze inquinanti; deforestazione e consumo smodato delle risorse naturali (su questo numero Valori affronta tali temi, a pag 40 e a pag. 56). Il mondo della moda è chiamato, insomma, a rendersi presentabile non solo in vetrina, affrontato apertamente da Greenpeace attraverso la campagna “The Fashion Duel” con due guanti di sfida lanciati a febbraio scorso in una delle cattedrali delle griffe: la settimana della moda di Milano. Nell’occasione gli attivisti hanno prima cosparso le zone interessate dalla kermesse di graffiti (ecocompatibili e temporanei) con il messaggio della campagna e poi scalato all’alba il Castello Sforzesco con la sfilata verticale di una stilistaclimber (nella foto). L’iniziativa era già partita qualche mese prima con l’invio di un questionario a 15 case d’alta moda con domande scomode sul rapporto tra i loro processi produttivi e l’ambiente, a cominciare dalle politiche di acquisto della pelle e della carta. Bollino nero per non aver risposto a Chanel, Trussardi, Dolce & Gabbana, Prada, Alberta Ferretti, Hérmes. «In testa Valentino Fashion Group, l’unico marchio a impegnarsi per raggiungere gli ambiziosi obiettivi Deforestazione Zero e Scarichi Zero nelle proprie produzioni». Altri (Ferragamo, Armani, Luis Vuitton e Dior) hanno mostrato trasparenza, ma si sono impegnati solo in parte. [C.F.]


||

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 13 |


dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Corrado Fontana

Il progetto dell’architetto italiano Matteo Ferroni realizzato in Mali. Lampioni portatili a led a energia solare www.eland.org

Energia pulita al servizio del sociale > 16 Il futuro del Sud del mondo è rinnovabile > 18 Uno sviluppo ben oltre le attese > 20 ll nuovo ordine mondiale > 22 Dal nero al verde > 24


MATTEO FERRONI

Energia sociale

Le fonti rinnovabili possono costituire un volano di sviluppo eccezionale sia per il Terzo mondo che per le economie avanzate. È l’Unione europea a credere di più all’energia pulita


dossier

| energia sociale |

Energia pulita al servizio del sociale di Andrea Barolini

ivere senza energia, oggi, significa essere privati di servizi essenziali. Significa essere tagliati fuori dal mondo. Significa vedere le speranze di risollevare la propria condizione economica ridotte al minimo. Secondo il World Economic Outlook 2012 del Fondo monetario internazionale tale scenario è la quotidianità per un miliardo e 400 milioni di persone (vedi TABELLA 1 ).

V

FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES AND CLIMATE CHANGE MITIGATION SPECIAL REPORT, 2012, SU DATI AIE

Qualcosa come il 20% della popolazione mondiale, la cui maggior parte vive in aree rurali dell’Asia e dell’Africa subsahariana non raggiunte dalla rete elettrica nazionale. Per questa enorme fetta di mondo le energie rinnovabili costituiscono molto più che una speranza: equivalgono alla differenza tra vivere e sopravvivere. Come noto, infatti, i piccoli impianti alimentati da energie pulite – dal fotovoltaico all’eolico, dall’idroelettrico alle biomasse – possono essere installati ovunque e fornire energia gratuita. Si possono sfruttare l’energia solare o la forza del vento per riscaldarsi o per cucinare, così come per ottenere luce elettrica, o i biocarburanti per i trasporti. «In Africa, grazie al fotovoltaico si possono alimentare impianti fondamentali come le pompe

Le fonti di energia rinnovabili non sono solamente uno strumento per combattere il cambiamento climatico: sono anche un’opportunità eccezionale di sviluppo sociale, soprattutto nei Paesi più poveri del Pianeta per l’estrazione di acqua dai pozzi», ricorda Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club. Ma avere energia a disposizione significa anche poter raggiungere la rete internet o poter tentare di avviare microimprese. Non a caso un recente report del Gruppo consultivo del segretario generale delle Nazioni Unite sull’energia e sul cambiamento climatico (Agecc, 2010)

TABELLA 1 PERSONE SENZA ACCESSO ALL’ENERGIA ELETTRICA (IN MILIONI) Regione Africa

2009

% sul tot

2015

% sul tot

2030

% sul tot

587

42

636

45

654

57

Africa sub-sahariana

585

31

635

35

652

50

Asia (Paesi in via di sviluppo/emergenti)

799

78

725

81

545

88

Cina

8

99

5

100

0

100

India

404

66

389

70

293

80

Altri

387

65

331

72

252

82

31

93

25

95

10

98

Totale Paesi in via di sviluppo/emergenti (incluso Medio Oriente)

1.438

73

1.404

75

1.213

81

Totale globale

1.441

79

1.406

81

1.213

85

America Latina

| 16 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

ha sottolineato l’importanza di ottenere un accesso universale alle moderne fonti di energia entro il 2030, definendolo un obiettivo cruciale nell’ambito della transizione verso un mondo sostenibile. Il grado di accesso all’energia è considerato, infatti, un elemento cruciale per il miglioramento dell’Indice di sviluppo umano dell’Onu (Human Development Index, Hdi), strumento utilizzato per misurare lo sviluppo di una popolazione combinando i dati relativi all’aspettativa di vita, all’istruzione e ai redditi percepiti (vedi BOX ).

Rinnovabili vitali per il Sud del mondo Per i governi, gli enti locali, le organizzazioni internazionali o le associazioni che intendono adoperarsi per colmare quello che è un vero e proprio energy divide, investire nelle fonti rinnovabili può costituire dunque un’opportunità eccezionale. E anche un risparmio economico enorme: costruire, ad esempio, un piccolo impianto fotovoltaico per fornire energia in un villaggio di una regione remota costa certamente molto meno rispetto a raggiungerlo tramite i cavi elettrici tradizionali. Tanto più che, in termini quantitativi, è sufficiente un’erogazione relativamente bassa di energia per garantire un livello di vita accettabile. Secondo il rapporto Renewable Energy Sources and Climate Change Mitigation, redatto dall’Intergovernamental Panel on Climate Change (Ipcc), è sufficiente una quota pari a 42 GJ (gigajoule) all’anno procapite (vedi TABELLA ): meno di un terzo di quanto, secondo i dati della Banca Mondiale, si consuma mediamente in Italia.


TABELLA 2 PERSONE COSTRETTE AD UTILIZZARE BIOMASSE TRADIZIONALI IN CUCINA [2009, in milioni di persone] Africa

657

Africa sub-sahariana

653

Asia (Paesi in via di sviluppo/emergenti) Cina

423

India

855

Altri

659

America Latina

85 2.679

la ricaduta occupazionale è pari a 33 mila nuovi impieghi. Ma nei Paesi in via di sviluppo o emergenti esiste di fatto un effetto-moltiplicatore: costruire un impianto in un’area priva di energia non solo crea in sé occupazione, ma consente di aprire scuole, piccole attività, ambulatori. Che a loro volta garantiscono nuovo lavoro e possono attirarne altro (ad esempio rendendo località sprovviste di servizi nuove mete turistiche).

Meno acqua e più salute Le fonti rinnovabili, inoltre, presentano un impatto idrico estremamente più basso rispetto a quelle tradizionali (eccezion fatta per l’idroelettrico), il che costituisce un vantaggio incalcolabile nei climi caldi e secchi (a cominciare dai Paesi africani). Ancora, dal punto di vista sanitario si potrebbe consentire ai 2,6 miliardi di persone (vedi TABELLA 2 ) che nel mondo usano ancora oggi biomasse tradizionali per cucinare

L’IMPATTO SUL PIL DI UN AUMENTO DI 10 $ DEL PREZZO DEL BARILE DI PETROLIO PER I PAESI IMPORTATORI Reddito procapite medio annuo (in $)

– con tutto ciò che questo comporta in termini di inquinamento dell’aria all’interno delle case – di avere a disposizione un metodo efficiente e sano per nutrirsi. «Le energie rinnovabili consentono inoltre di alimentare frigoriferi per conservare i cibi, così come medicinali e vaccini. Mentre l’uso di stufe efficienti garantisce aria salubre nelle abitazioni», aggiunge Silvestrini. L’energia pulita, insomma, per i popoli più poveri della Terra può consentire una vera e propria svolta. «Sono convinto che nei prossimi anni si registreranno tassi di crescita molto elevati – conclude il dirigente del Kyoto Club – e ci saranno ricadute positive anche in Paesi come l’Italia, che sarà in grado di esportare il know how acquisito in termini di gestione e manutenzione». Una dinamica favorita anche dal crollo dei prezzi degli impianti. E chissà che un domani non saranno i Paesi ricchi di sole e vento, i nuovi grandi esportatori di energia. 

ACCESSO ALL’ENERGIA VUOL DIRE SVILUPPO UMANO

Cambiamento del Pil (%)

1.0 0.8

< 300

-1,47

300 - 900

-0,76

0.4

900 - 9.000

-0,65

0.2

> 9.000

-0,44

0

Energia pulita contro la speculazione La speculazione finanziaria costituisce uno dei fattori che maggiormente ha esacerbato i problemi dei popoli più poveri della terra. Fenomeni deprecabili si sono registrati perfino sui beni alimentari. E l’energia non fa eccezione, anzi: il sistema produttivo globale, legato a filo doppio al mercato petrolifero, è “strutturalmente” precario. Un’oscillazione di soli 10 dollari nel prezzo del barile determina, infatti, effetti sensibili sul Pil dei Paesi di tutto il mondo (vedi TABELLA ). Con un impatto particolarmente nefasto proprio per le economie che presentano i redditi procapite medi più bassi. Al contrario, la diffusione delle energie rinnovabili, aumentando la sicurezza energetica, diffondendo l’accesso dove oggi non esiste, e migliorando l’efficienza delle reti, può garantire una forte stabilità sui mercati internazionali.

0.6

200

400

600 800 1000 Uso di energia totale pro capite (GJ), 2007

Accesso all’energia vuol dire sviluppo umano Lo Human Development Index (Hdi) – indicatore utilizzato dalle Nazioni Unite per misurare lo sviluppo di una popolazione, combinando i dati relativi all’aspettativa di vita, all’istruzione e ai redditi percepiti – presenta un rapporto di evidente correlazione con il tasso di utilizzo dell’energia. È chiaro, infatti, come l’accesso ad un minimo considerato vitale di energia (misurato in GigaJoule nella tabella) sia fondamentale per raggiungere livelli accettabili di Hdi. Successivamente la curva tende nettamente ad appiattirsi: segno che sistemi produttivi eccessivamente energivori non favoriscono in alcun modo il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 17 |

FONTE: WORLD BANK 2010; UNDP 2010

Totale Paesi in via di sviluppo/emergenti (incluso Medio Oriente)

Se, quindi, per i Paesi ricchi le ragioni per incoraggiare il ricorso alle rinnovabili sono essenzialmente legate alla necessità di ridurre le emissioni di sostanze inquinanti (solare, geotermico, idroelettrico, eolico e marino producono solo tra 4 e 46 grammi equivalenti di biossido di carbonio per kWh prodotto) e di garantirsi maggiore sicurezza energetica (grazie anche alle reti efficienti come le smart grid), per le nazioni povere i vantaggi sono anche superiori. Prendiamo le ricadute occupazionali. In tutto il mondo, secondo uno studio dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu), i posti di lavoro creati grazie alle energie pulite erano pari a 2,3 milioni nel 2008. Nel solo 2006, il ministero dell’Ambiente della Germania indicò in 236 mila i nuovi posti generati dal settore (due anni prima erano stati 161 mila), mentre negli Usa il Center for American Progress ha calcolato di recente che per ogni miliardo investito nelle rinnovabili FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES AND CLIMATE CHANGE MITIGATION SPECIAL REPORT, 2012

1.937

HDI, 2010

FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES AND CLIMATE CHANGE MITIGATION. SPECIAL REPORT, 2012

| dossier | energia sociale |


dossier

| energia sociale |

Dalla teoria alla pratica Il futuro del Sud del mondo è rinnovabile di Andrea Barolini

Dal Bangladesh all’Africa fioriscono iniziative volte a favorire l’installazione di impianti alimentati da energie rinnovabili. Una speranza, sociale ed economica, per chi vive in aree non raggiunte dalla rete elettrica tradizionale a Grameen Shakti è una renewable energy service company. Una società, cioè, che si occupa di installare e gestire impianti alimentati da

L

fonti rinnovabili. In Europa ne esistono ormai migliaia. La caratteristica peculiare della Grameen è che opera invece in uno dei Paesi più poveri del mondo: il

Bangladesh. E i numeri dimostrano come i suoi servizi siano non soltanto un volano di speranza (oltreché economico e sociale), ma anche un successo imprenditoriale. La compagnia installa attualmente qualcosa come mille impianti al giorno, concentrandosi nelle aree rurali: le più in difficoltà e le più difficili da raggiungere

DESERTEC, GIOCO DI SPONDE Desertec, e ancor di più il suo braccio operativo Desertec industrial initiative (Dii GmbH), è un’associazione nata nel 2009 tra grandi aziende del settore dell’energia e alcuni soggetti finanziari (Eon, Rwe, Deutsche Bank, First Solar, le italiane Unicredit, Enel Green Power, Terna). Due gli obiettivi comuni per 400 miliardi di euro di investimenti stimati: realizzare impianti solari ed eolici in Nord Africa e Medioriente per coprire entro il 2050 il 15% della domanda elettrica europea e una porzione significativa di quella dei Paesi produttori. E ipotizzare una rete d’interconnessione elettrica nella regione Europa, Medio Oriente e Africa Settentrionale per scambiare energia. Dal 2009 a oggi la parte diplomatico-finanziaria del programma si è mossa, seppur con qualche seria battuta d’arresto: vedi nel 2012 l’uscita di Siemens, che abbandona il settore fotovoltaico, e quella assai meno chiara di Bosch, che in proposito non rilascia commenti; nonché il rifiuto della Spagna di firmare un accordo sui diritti d’interconnessione. Tema di scontro, pare, l’aumento di capacità che passerebbe dall’elettrodotto sottomarino che la collega al Marocco. Le attività sul campo sembrano iniziare solo ora. In Egitto è in corso una gara sull’eolico e una seconda si è avviata con due anni di misurazione preliminare del vento. In Marocco a febbraio 2012 si è tenuta una gara per 150 MW eolici sul sito di Taza ed è attivo un progetto per 160 MW di solare termodinamico a Ouarzazate (previsti 500 MW nel 2020), mentre altri 850 MW eolici sono stati messi a bando. Ci sono progetti in stato avanzato sia in Tunisia che in Algeria e l’Arabia Saudita starebbe lanciando un programma di sviluppo delle rinnovabili (solare fotovoltaico, solare termodinamico ed eolico) da 25 GW.

| 18 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Insomma, pur dopo l’ulteriore rallentamento dovuto alle primavere arabe (per Egitto e Tunisia ce lo conferma Ingmar Wilhelm, Responsabile Business Development di Enel Green Power), la macchina sembra partita. Anche se la prospettiva di Desertec si è fatta più cauta: l’idea della rete d’interconnessione, e dell’importazione in Europa di energia prodotta nel Sud del Mediterraneo, sembra lasciar posto a una posizione secondo cui “l’energia rinnovabile va consumata laddove viene prodotta”, complice una sovrapproduzione europea attualmente non assorbita dal nostro livello di sviluppo demografico, economico e sociale. Viceversa, la potenziale efficacia di Desertec nel soddisfare parte degli obiettivi del Vecchio Continente in tema di energia pulita – si sottolinea da Greenpeace – viene strumentalmente esaltata dal commissario per l’Energia Günther Oettinger – tedesco come alcune industrie promotrici della Dii – per depotenziare la recente direttiva sulle rinnovabili (2009/28/CE). La posta in gioco è davvero notevole, del resto: le 32 grandi compagnie riunite nell’Ome (Observatoire Méditerranéen de l’Energie) ritengono che la domanda di elettricità della sponda Sud crescerà in media del 4,6% l’anno fino al 2030, per un totale di 1.385 miliardi di kWh.

SITOGRAFIA OME (Observatoire Méditerranéen de l’Energie), www.ome.org

Desertec industrial iniziative - Dii GmbH, www.dii-eumena.com

Desertec Foundation, www.desertec.org

MedGrid, www.medgrid-psm.com


| dossier | energia sociale |

attraverso la rete elettrica tradizionale, nelle quali vive circa l’80% della popolazione. Grazie a questo ritmo, è già stato installato un milione di pannelli, e si conta di raggiungere i cinque milioni entro la fine del 2015: un risultato straordinario, raggiunto dove il business as usual, invece, fallisce. Grameen Shakti offre una serie di possibilità per finanziare un impianto (con rateizzazioni possibili fino a 36 mesi, ad un tasso massimo dell’8%).

Dal Bangladesh al Malawi… Quello del Bangladesh è solo uno dei “casi-scuola” nel mondo. Altri, ad esempio, sono stati sviluppati in Malawi ed in Etiopia, e portano la firma italiana dell’associazione per la cooperazione internazionale Coopi. «Nello Stato africano abbiamo deciso di operare sull’isola di Likoma e nell’area di Kasungu. In quest’ultima vivono 1.300 agricoltori, dei quali solo il 3% ha accesso all’energia», racconta Paola Fava, responsabile delle iniziative di Coopi in Malawi. Il progetto, del valore complessivo di 680 mila euro, è già in fase avanzata: «Ci aspettiamo una serie di risultati nel prossimo futuro. Puntiamo in particolare alla riduzione del 40% dell’uso di legna per cucinare, da parte di 9 mila persone, grazie alla distribuzione di stufe efficienti. Inoltre, grazie ai pannelli solari, abbiamo installato un sistema di pompaggio di acqua che parte da alcune dighe e alimenta una serie di torri-cisterna, per consentire di irrigare la zona e diversificare la produzione agricola». A mille famiglie, poi, sono stati distribuiti “solar kit” e biocarburanti per ottenere luce nelle case e per consentire di avviare alcune piccole imprese: «Un internet caffè, un cinema, un parrucchiere, un barbiere. E poi c’è la promozione turistica – aggiunge Paola Fava – nell’isola di Likoma, dove un’associazione oggi alimenta grazie a solare ed eolico piccoli alberghi e bar». Infine, sono state attrezzate tre scuole in aree rurali (altre tre lo saranno quest’anno), dotate anche di connessione a internet, dove studiano tremila alunni: «Nella stagione delle piogge, altrimenti, la luce naturale non sarebbe stata sufficiente per proseguire le lezioni dopo le 15».

DIGHE, ALTO RENDIMENTO, PESSIMO IMPATTO «La quantità di energia che produce una SITI INTERNET diga è enormemente maggiore rispetto International Rivers, www.internationalrivers.org alle altre rinnovabili: la potenza Re:common, www.recommon.org di un’installazione fotovoltaica si misura Salini Costruttori, http://salinicostruisce.salini.it in kilowatt, quella di una diga in centinaia Stacca la spina, www.staccalaspina.org di migliaia di megawatt». Spiega Giulio Conte, del Comitato scientifico di Legambiente. Secondo uno studio dell’International Journal on Hydropower & Dams del settembre scorso, il 70% del potenziale idroelettrico del mondo è in attesa di essere sfruttato. Sarà per questo che, dopo un rallentamento a cavallo del 2000, negli ultimi 6-7 anni il settore ha ripreso trazione. Grazie all’India (oltre 4.800 grandi dighe completate e più di 300 in costruzione), ma soprattutto alla Cina, oggi il più grande costruttore e finanziatore di nuove dighe: banche e imprese cinesi sarebbero coinvolte in 307 progetti in 74 diversi Paesi, soprattutto in Africa e Sud-Est asiatico, oltre che in Cambogia, Sarawak e Malesia, Myanmar. Tra i terreni più fertili per il settore c’è proprio l’Africa, con iniziative mastodontiche quali l’etiope Grand Renaissance Dam sul Nilo e, sempre che si trovino i finanziatori, due nuovi sbarramenti sul fiume Congo, per un progetto idroelettrico da 70 miliardi di dollari, con le dighe Inga III (4,5 MW) e Grand Inga (39 MW). Intanto la Grand Renaissance Dam, che una volta completata risulterà la più grande del Continente, sconta ostacoli nel reperimento delle risorse necessarie (5 miliardi di dollari) e il rischio di una valutazione negativa da parte di una commissione indipendente composta da delegati di Etiopia, Sudan ed Egitto. E in Patagonia continua il calvario di Endesa (cui partecipa Enel) per realizzare 5 dighe su due fiumi cileni. Contestazioni e impatti sociali e ambientali a parte, «le difficoltà del progetto – spiega Luca Manes di Re:Common – deriverebbero soprattutto dall’impianto delle linee di trasmissione dell’energia, che sono lunghissime e impattano su varie regioni». Opere immani che producono problemi burocratici, soprusi, violenze, attacchi alla biodiversità, sfollamenti forzati. E non sono poche le dighe che, a causa dei cambiamenti climatici, perdono di redditività per una riduzione della portata d’acqua dei fiumi, o che necessitano di ammodernare impianti dalla vita media assai lunga, che raramente vengano smantellati (decommissioning). C.F.

… all’Etiopia Similmente in Etiopia si è operato in aree di campagna, nelle quali solo lo 0,4% della popolazione ha accesso all’elettricità per uso privato. Un progetto triennale prevede l’installazione di impianti in quattro scuole, quattro ospedali, quattro centri veterinari per gli allevatori; 12 mila persone, soprattutto

donne e bambini, potranno inoltre contare sui servizi di alcuni presidi sanitari. E saranno installati pozzi alimentati da pannelli fotovoltaici, che coinvolgeranno 3 nuove cooperative agricole composte da 56 membri. Educazione, lavoro, sanità, tutela dell’ambiente. In una parola: futuro. Grazie alle energie rinnovabili.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 19 |


dossier

| energia sociale |

Rinnovabili ben oltre le attese di Corrado Fontana

Gli scenari auspicati da Greenpeace superati dalla realtà di uno sviluppo impetuoso delle fonti di energia pulita a livello globale. Merito di Cina e India, ma non solo. Ne parla Giuseppe Onufrio, che bacchetta i macroscopici errori dell’Ocse guardare la dinamica dei tassi di crescita globali del 2011 per il solare è probabile che si arrivi a coprire gli obiettivi ipotizzati per il 2015», questa la prima sentenza soddisfatta di Giuseppe Onufrio, direttore scientifico di Greenpeace, sul presente dell’energia prodotta dal sole. Ma la seconda, a proposito del vento, fa trasparire una soddisfazione duplice: «Se il mercato dell’eolico ha fatto meglio delle nostre “speranze”, ha completamente sbaragliato le previsioni a breve termine dell’Aie». Come dire che l’ottimismo degli auspici di Greenpeace batte il pessimismo dei dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) dell’Ocse, perché il tasso di sviluppo del settore eolico nel mondo in questi anni ha battuto entrambi. E a noi – non capita spesso – fa piacere cominciare dalle note liete. «I nostri scenari non sono “previsioni”, ma valutano un percorso di fattibilità tecnica ed economica per arrivare al 2050 agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di gas serra (e contenimento entro 2 gradi dell’aumento della temperatura, ndr). Avevamo pensato per l’eolico a 156 GW (1 GW=1.000 MW, ndr) nel 2010 mentre il mercato globale ne ha

«A

| 20 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Giuseppe Onufrio, direttore scientifico di Greenpeace

sviluppati 197, cresciuti a 237 GW alla fine del 2011. Dunque scopriamo che, rispetto al nostro primo scenario del 2007 l’eolico ha fatto più di quello che avevamo sperato, spuntando nel 2010 41 GW di potenza installata in più, e nel 2011 questo trend è continuato, sebbene rallentato nel 2012. Nonostante la crisi, il tasso di crescita dell’eolico è tale che si dovrebbero raggiungere tutti gli obiettivi che speravamo di raggiungere entro il 2015. Ci sono alcune aree del mondo che sono avanzate più velocemente di quanto avremmo immaginato, in particolare la Cina».

Che portata ha l’errore dell’Aie? Il World Energy Outlook dell’agenzia di Parigi prevedeva, nel 2007, un livello dell’eolico di 123,7 GW nel 2010. L’errore di previsione – a tre anni! – è stato dunque del 40%. Ancora peggio per il solare fotovoltaico: nel 2007 l’agenzia prevedeva 9,6 GW installati a livello globale per il 2010. In realtà alla fine del 2010 la potenza solare installata si avvicinava ai 40 GW, un errore dunque del 75%. Lo scenario di Greenpeace prevedeva quasi 30 GW di solare, dunque il mercato ha superato di un terzo la linea di sviluppo necessaria per raggiungere gli obiettivi ambientali a lungo termine. Non solo. L’India e la Cina hanno già raggiunto tali obiettivi e quest’ultima ha deciso di raddoppiare il totale di potenza fotovoltaica installata entro il 2013, aumentandola di circa 10 GW, per arrivare nel 2015 a 40 GW. Si parla cioè di una potenza installata entro il 2020 che vale circa il triplo degli scenari da noi ipotizzati per la Cina. Qual è il trend complessivo delle rinnovabili nelle grandi aree di sviluppo? Sia l’Unione Europea che la Cina sono abbastanza in linea con gli scenari di base che avevamo delineato. Questo vale anche per gli Stati Uniti, nonostante la crisi e la guerra commerciale intrapresa con la Cina per quanto riguarda i pannelli fotovoltaici (vedi http://www.va lori.it/energia/fotovoltaico-cineseusa-dispongono-dazi-doganali4949.html). La crisi del 2012 ha segnato certamente una battuta d’arresto sia in Italia che a livello globale, generando una riduzione degli investimenti. Ma le


| dossier | energia sociale |

L’Irlanda si salva col green Ma gli altri Paesi non investono di Andrea Barolini

L’economia dell’isola, una delle più penalizzate dalla crisi economica globale, si sta risollevando grazie ad una manovra a base di carbon tax e di stili di vita sostenibili. Così le emissioni di CO2 sono calate del 6,7% nel 2011 Lo si ripete da anni, ma in pochi ci hanno creduto davvero: investendo nelle energie rinnovabili si potrebbe uscire in modo molto più veloce (e sostenibile) dalla crisi. Era l’idea originaria di Barack Obama, che poi però – almeno per ora – non ha trovato applicazione pratica. Chi invece è passato dalle parole ai fatti è l’Irlanda. Il governo di Dublino, per far uscire dalla recessione uno dei Paesi europei più colpiti dal terremoto immobiliare/ finanziario/economico degli ultimi anni, ha introdotto una serie di provvedimenti con l’obiettivo di coniugare introiti fiscali, conversione ecologica e rilancio produttivo. Così è stata imposta una tassa sulle emissioni di anidride carbonica che colpisce abitazioni, uffici, trasporti, imprese, industrie. Il principio è semplice: più inquini, più paghi; più paghi, più sei incentivato a modificare i tuoi comportamenti in senso ecologico. Così i prezzi dei combustibili più nocivi per l’ambiente sono aumentati tra il 5 ed il 10% e il Tesoro irlandese ha incassato, solo da questa manovra, 1 miliardo e 400 milioni di euro nel 2012. Nell’isola si è al contempo cominciato a investire sempre più in tecnologie verdi e ad adottare consumi e stili di vita sostenibili, tanto che il gruppo automobilistico Renault-Nissan ha firmato un accordo con le autorità dell’isola per dare nuovo impulso al mercato dei motori elettrici. E i primi risultati già si vedono: da un lato, le emissioni di biossido di carbonio sono calate del 6,7% nel 2011; dall’altro, il rapporto tra deficit e Pil dovrebbe, secondo un’analisi dell’Economist, tornare sotto la soglia del 2% (un miraggio per molti altri Paesi dell’Eurozona). La chiave del successo, insomma, è fatta di lungimiranza e investimenti, soprattutto in ricerca e sviluppo (R&D). Eppure le cifre rivelate a gennaio da Bloomberg New Energy Finance indicano come, lo scorso anno, in tutto il mondo gli investimenti in energie pulite siano scesi dell’11%. E a trainare la discesa sono stati soprattutto quattro Paesi: Usa, India, Spagna e Italia. Le cifre totali parlano di 268,7 miliardi di dollari, contro i 302,3

politiche aggressive di Paesi come la Germania, e ora anche il Giappone, oltre al rilancio della Cina, fanno sperare si tratti solo di un momento negativo. Peraltro il trend dei costi industriali per il solare è ancora previsto in discesa nel-

miliardi del 2011. Negli Stati Uniti (che comunque mantengono con 44,3 miliardi il secondo posto al mondo, dopo i 67,7 miliardi della Cina) gli investimenti scendono del 33%. Similmente, sono davvero clamorosi il crolli di Italia e Spagna: rispettivamente -51%, a 14,7 miliardi, e -68%, a 3 miliardi. In India, si è scesi poi del 44%. «Avevamo spiegato all’inizio dello scorso anno che il 2012 sarebbe stato difficile – ha osservato Michael Liebreich, numero uno di Bloomberg New Energy Finance – ma questo non significa che il settore sia in crisi. Nonostante i cali assistiamo, infatti, a una decisa diffusione degli investimenti nel mondo: dall’Australia al Sudafrica, dal Marocco all’Ucraina. E ancora Cile, Etiopia, Corea del Sud, Kenya». A preoccupare c’è, però, il fatto che, se si osservano specificatamente gli investimenti in ricerca e sviluppo, già il 2011 aveva fatto segnare un calo del 16% rispetto all’anno precedente (dopo un quinquennio di crescita, vedi GRAFICO a pag. 39). Una “stretta” che ha toccato sia gli investimenti corporate che quelli pubblici e che ha colpito tutte le tecnologie (se si eccettuano i fondi governativi assegnati alla ricerca sull’idroelettrico). I Paesi che hanno registrato i cali più sensibili degli investimenti (sia statali che privati, vedi MAPPA a pag. 38) sono quelli asiatici (escluse Cina e India), che hanno raggiunto un -40%. Medio Oriente e Africa, Europa e India scendono invece tra il 16 e il 18%. In controtendenza un unico Paese: il Brasile, che grazie ai contributi governativi segna un dato complessivo lievemente positivo.

l’ordine del 5% per il 2013: ancora negli anni ’90 si vaticinava che la soglia di 1 dollaro a watt per il fotovoltaico si sarebbe raggiunta con 100 GW installati globalmente. In realtà la riduzione dei costi a quel livello è stata raggiunta con

40 GW installati. Per quanto riguarda gli aspetti negativi, senz’altro si deve parlare dell’efficienza energetica: tutte le macroregioni che abbiamo analizzato sono al di sotto dei livelli che ci saremmo augurati si raggiungessero.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 21 |


dossier

| energia sociale |

Il nuovo ordine mondiale di Paola Baiocchi

L’estrazione di gas e petrolio dagli scisti è la nuova frontiera energetica degli Stati Uniti, che puntano ora all’autonomia. Un cambiamento non di poco conto, che sposterà il baricentro dei loro interessi, anche militari, verso l’area del Pacifico

ono in fase di profondo cambiamento gli scenari mondiali dell’energia: con lo sfruttamento dello shale gas, estratto dagli scisti con la contestata tecnica del fracking, gli Usa si avviano a superare la Russia nella produzione di gas, secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (o l’hanno già superata, secondo altri analisti), collocandosi tra i primi produttori mondiali di gas naturale, con la previsione di diventarne esportatori, dopo aver avuto per anni il primato di consumatori e importatori. Le stime sulle riserve di shale gas fanno parlare di una nuova frontiera, anche se il condizionale è d’obbligo: il solo Marcellus shale, localizzato sotto otto Stati della federazio-

S

| 22 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Shale gas, carbone, petrolio. Il mondo si divide le risorse energetiche. Le rinnovabili occupano ancora uno spazio ridotto, ma l’interesse cresce ne, potrebbe essere, con 14.000 miliardi di metri cubi di gas previsti, il più grande giacimento mai scoperto, superiore perfino al gigantesco North Field del Qatar. Anche le estrazioni di petrolio negli Stati Uniti sono tornate ai livelli del 1993, grazie allo shale oil (o tight oil, il greggio racchiuso nelle rocce argillose), così il raggiungimento dell’autonomia energetica a partire dal 2030 è segnato nell’a-

genda politica degli Stati Uniti e già ora fa da volano per il rilancio dell’economia, anche attraverso reinternalizzazioni di produzioni. È il caso di GE Appliance, la divisione di General Electric per gli elettrodomestici – dai tostapane ai frigoriferi – che, dopo esser stati per anni manufatti in Cina, tornano negli States, sotto la spinta del maggior costo dei trasporti dovuto al prezzo del barile e degli aumenti dei salari cinesi, che fanno tornare convenienti gli operai statunitensi. In un’ottica anche di guerra commerciale verso il grande Paese asiatico, dalla bandiera sempre rossa. Per Germano Dottori, docente alla Luiss di Studi strategici e curatore dell’ultima edizione del rapporto di Nomisma Nomos e Khaos, l’autonomia energetica degli Usa accentuerà lo spostamento già in corso dei loro interessi, anche militari, verso l’area del Pacifico: «Venendo meno la necessità di assicurare la regolarità degli approvvigionamenti energetici, Mediterraneo, Medio Oriente ed Africa diventerebbero fatalmente teatri ancor meno importanti nel calcolo geopolitico americano».

Disaccoppiati Marco Frey, direttore dell’Istituto di management della Scuola superiore Sant’Anna, ci spiega altre conseguenze dell’arrivo sulla scena dello shale gas: «Ha creato per la prima volta una sorta di disaccoppiamento nel mercato del gas, tradizionalmente associato anche in termini di prez-


| dossier | energia sociale |

zo, a quello del petrolio. Si sono così formati dei submercati del gas. Anche nei contratti – continua Marco Frey – si afferma una nuova tendenza verso gli approvvigionamenti short term, piuttosto che sul lungo periodo». Gli alti costi dei metanodotti sono alla base dei contratti a lungo termine take-or-pay (letteralmente “prendi o paga”) con i quali i fornitori si sono finora garantiti la copertura delle spese per le infrastrutture. Ma, di fronte a una riduzione dei consumi europei di gas, dovuta al perdurare della crisi, e alla sovrabbondanza nell’offerta di gas naturale, diventano ora difficilmente giustificabili e molto onerosi per chi, come l’Italia, ne ha in corso. Gli esportatori si trovano così a vendere a prezzi spot scontati ai vari hub del mercato europeo, traendo vantaggio dalla capacità di gasdotti rimasti inutilizzati per il calo della domanda entrando in concorrenza diretta con i loro clienti tradizionali, come spiega Leonardo Maugeri, ex funzionario Eni ora docente negli Stati Uniti, nel suo libro Con tutta l’energia possibile.

Piccole ma dinamiche Nel grande dinamismo energetico di questo inizio di millennio, le rinnovabili giocano un ruolo importante. L’Europa, nella prospettiva 2050, prevede forniranno da un minimo del 40% a quote superiori di energia. Riprende Marco Frey: «Dal punto di vista degli stock complessivi la componente delle rinnovabili è ancora abbastanza limitata, ma cresce in modo consistente e superiore alle previsioni. A livello

Il giacimento Marcellus Shale è localizzato per la maggior parte in Ohio, West Virginia, Pennsylvania e New York. Piccole aree interessano Maryland, Kentucky, Tennessee e Virginia

europeo tutto il nuovo installato negli ultimi tre-quattro anni vede la prevalenza delle rinnovabili e la Cina vi investe più del doppio degli Usa. Le rinnovabili poi, avendo un accesso privilegiato al mercato, stanno mettendo in difficoltà anche le dinamiche del prezzo a brevissimo termine per le fonti fossili». Il rapporto World Energy Outlook pubblicato dall’Aie (Agenzia internazionale dell’energia dell’Ocse) nel dicembre scorso, prevede che le rinnovabili forniranno nel 2035 quasi 1/3 della generazione elettrica mondiale, avvicinandosi al carbone, che si prevede sarà la prima fonte di elettricità su scala globale. Mentre in area Ocse il consumo di carbone diminuirà, da India e Cina si attendono da ora al 2035, secondo la Iea, circa i 3/4 della crescita di domanda nell’area non Ocse. Il numero dei Paesi che producono energia per il proprio bisogno o per l’esportazione da rinnovabili e non fossili sta aumentando: dalla Corea del Sud, al Brasile, al Nord Africa che, con solare ed eolico, sta entrando nella strategia di approvvigionamento dell’Europa del Sud. Il mercato dell’energia, insomma, si sta segmentando in diverse componenti, ciascuna delle quali è in grado di influenzare le altre, in un’ottica che può essere quella dell’approvvigionamento diversificato.

Dopo il petrolio Una strategia attuata anche dai Paesi del Golfo, che stanno ora investendo in ricerca sulle rinnovabili, sull’efficienza energetica e sulla diversificazione delle fonti. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, ospitano ad Abu Dhabi il World Future Energy Summit, qualificato appuntamento annuale per la sostenibilità e le rinnovabili. Masdar, la futuribile città a emissioni zero, alimentata da solare ed eolico, che sta sorgendo vicino Abu Dhabi, è la sede del Masdar Institute of Science and Technology, polo universitario realizzato con il Massachusetts Institute of Technology e dedicato allo studio e alla ricerca nel campo delle energie rinnovabili. Per quanto possa sembrare strano nel caso di grandi produttori di gas e petrolio, anche la costruzione di centrali

FILM Promised Land Usa 2012 regia di Gus Van Sant interpreti Matt Damon,John Krasinski, Frances McDormand, Hal Holbrook

Il film ha sollevato il dibattito sull’argomento delle estrazioni di petrolio e gas con la tecnica della fratturazione.

LIBRI

Leonardo Maugeri Con tutta l’energia possibile Sperling & Kupfer, 2011

nucleari rientra nelle strategie per sostenere il consumo elettrico interno, liberando così parte del gas prodotto per l’esportazione o per la redditizia reiniezione nei pozzi per aumentare l’estrazione di petrolio. È questo il caso, secondo Maugeri, dell’Iran e anche dell’Arabia Saudita, che ha in corso faraonici investimenti.

A saltelli Resta poi un’altra energia “rinnovabile” ancora poco sfruttata: l’efficienza energetica. Secondo l’Aie si possono recuperare i 4/5 del potenziale di miglioramento dell’efficienza nel settore residenziale e abitativo, e più della metà nell’industria. Miglioramenti che riguardano tutti l’innovazione di processo. In questa corsa che tende il più possibile alla diversificazione delle fonti, l’Italia più che correre saltella, e sembra incapace di programmazione a lungo termine. «Siamo in attesa di un piano energetico nazionale da 30 anni e le nostre scelte sono molto frammentate» aggiunge Marco Frey «Auspichiamo, però, che da adesso in poi ci sia estrema chiarezza sulle opzioni di politica industriale nel campo delle rinnovabili, ambito veramente strategico nel lungo periodo, ancor più per l’Italia, Paese fortemente dipendente dall’import di energia».  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 23 |


dossier

| energia sociale |

Lampi sull’Eni di Paola Baiocchi

In Petrolio, che stava scrivendo quando è stato ucciso, Pasolini indica Cefis come mandante dell’omicidio Mattei. Quasi tutta la critica italiana, invece, riferisce il romanzo solo all’omosessualità dell’autore Perché parlare di Pasolini, e di un libro appena uscito su di lui con il provocatorio titolo di Frocio e basta, in un dossier che si occupa di energia? È abbastanza inconsueto in questo spazio del nostro giornale occuparsi di letteratura. E, infatti, scriviamo per dovere civile e passione politica – e non solo per recensire il libro (bellissimo) di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti – e per parlare di Petrolio. Petrolio è un romanzo sul potere – in cui l’Eni viene definita, appunto, il topos del potere – al quale Pasolini stava lavorando quando è stato ucciso nella notte tra l’1 e il 2 di novembre 1975. Nella ricorrenza dei defunti, lo scrittore, poeta, regista, saggista viene massacrato di botte e schiacciato fino alla morte da un’automobile in un parcheggio dell’idroscalo di Ostia. Si prende tutta la responsabilità dell’omicidio il 17enne Pino Pelosi, spiegando di aver agito per sfuggire a un tentativo di violenza da parte di Pasolini. Per quanto la versione faccia acqua da tutte le parti, tanto che Pelosi nel 1979 viene condannato per omicidio volontario in concorso con ignoti, un coro quasi unanime di giornalisti, intellettuali e critici la sottoscrive. Non così Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana all’università di Pisa e coautrice di Frocio e basta, che ha contribuito con la sua azione alla riapertura delle indagini giudiziarie sulla morte di Pasolini e con la quale abbiamo parlato: «Nella prima indagine non sono stati raccolti molti indizi, non sono stati sentiti testimoni, sono state trascurate delle prove per coprire un’altra verità. Ora si sa che Pasolini era a quell’appuntamento per un ricatto, per recuperare le pellicole del film Salò». Le pellicole, rubate in agosto a Cinecittà, servono da esca e non verranno mai più ritrovate. Nella ricostruzione fatta da Giovannetti in Frocio e basta, all’idroscalo quella notte assieme a Pelosi c’erano almeno sette persone: i due fascistissimi fratelli catanesi Franco e Pino Borsellino, c’era Jhonny lo zingaro pluriomicida ergastolano vicino alla destra fascista, c’era forse Antonio Pinna legato agli ambienti della costituenda banda mafiosa della Magliana. Uno scenario molto diverso da quello centrato sull’avventura sessuale come confessato da Pelosi, che nel 2003 ritratta e dice di non essere lui il colpevole. Un’operazione quindi per “chiudergli la bocca”, per far sparire un testimone, riprende Carla Benedetti: «Mettendo in fila tutti gli elementi (la denuncia di Cefis come mandante dell’uccisione di Enrico Mattei contenuta in Petrolio, il capitolo scomparso “Lampi sull’Eni” in cui si parla ancora di Cefis e le molte altri morti collegate al delitto Mattei) si capisce in che contesto viene ucciso Pasolini. Certo, molti dicono che il libro Questo è Cefis uscito nel 1972 diceva le stesse cose su Cefis: ma quello è un libro “clandestino” che è stato subito ritirato dalla circolazione. Vi immaginate se Pasolini avesse pubblicato le stesse cose sul Corriere, dove abitualmente scriveva?». LIBRI Ancora una volta dietro a un fatto oscuro Carla Benedetti della storia d’Italia c’è quel nodo fatto Giovanni Giovannetti di piduismo, mafia, affari, fascismo, con Frocio e basta i quali non abbiamo fatto i conti, ma Sacra follia? Pasolini, Cefis, Petrolio. Così muore un poeta con i quali conviviamo. In quella “scienza italianistica” in quel “misto” di cui parlava Effigie edizioni, 2012 Pasolini, che conferisce potere al potere.

| 24 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Dal nero al verde di Corrado Fontana

Carbone ancora protagonista nel mix energetico globale. Ma il peggior “nemico del clima” vacilla, grazie alla competitività delle rinnovabili e dello shale gas. L’epitaffio per centinaia di impianti in un rapporto americano indipendente l carbone, idolo della rivoluzione industriale dell’800, resiste. Negli ultimi mesi, dopo anni di declino, il suo consumo in Europa ha registrato una ripresa, apprezzata dalla Polonia, che ne è grande produttore, e legata soprattutto a questioni di prezzo. La sbornia di shale gas americano ha, infatti, portato a un crollo dei prezzi del gas sia negli Stati Uniti, sia, in misura minore, a livello internazionale. Generando così due conseguenze: da un lato forse la “mazzata finale” per il nucleare, dall’altro – viste le grosse difficoltà dell’industria estrattiva carboniera a stelle e strisce – una spinta delle esportazioni. Ed è quest’ultima la cattiva notizia per il Pianeta, poiché il carbone è la fonte energetica più impattante sul clima, e il suo impiego, secondo gli scenari elaborati da Greenpeace, do-

I


1%

5 0%

2008

0 Sud-Est Atlantico centrale Ovest Nord-Ovest Nord-Est e Centro Ovest centrale

Florida

Texas

Pianure del Sud

La capacità energetica non sfruttata è superiore a quella che verrebbe meno con la chiusura delle centrali a carbone nella maggior parte delle regioni

vrebbe ridursi progressivamente, per cessare solo col 2030.

In pensione, senza drammi A sperarci è senz’altro l’Union of Concerned Scientists, un gruppo di studiosi indipendenti che a novembre scorso pubblicava il rapporto Ripe for Retirement - The case for closing America’s costliest coal plants (Maturo per la pensione - L’opportunità di chiudere le centrali a carbone più costose d’America): una sorta di epitaffio per una buona fetta del carbone americano. La relazione sostiene, infatti, che ben 353 centrali a carbone in attività (circa il 18% del totale) non sarebbero più competitive economicamente rispetto agli impianti che sfruttano le fonti di energia rinnovabili (solare ed eolico) o il gas naturale. E tan-

Carbone

2009 2010 Gas naturale

2011 Eolico

2012*

La diminuzione del contributo del carbone al mix energetico nazionale rispetto alla crescita del contributo offerto da fonti alternative meno inquinanti nel periodo 2008-agosto 2012

to meno una volta aggiornate in base ai moderni standard di rispetto dei livelli d’inquinamento. Da qui l’invocata pensione per una massa di attempati generatori – mediamente 45 anni di vita contro i 30 preventivati – che ancora oggi rappresentano collettivamente 59 GW, cioè il 6,3% di tutta la potenza generata negli Usa. Ma, e questo è peggio, centrali che per circa il 70% non sarebbero dotate di apparecchiature per il controllo delle emissioni di tre dei quattro inquinanti più nocivi (biossido di zolfo, biossido di azoto, mercurio). Chiuderle sarebbe perciò un’opportunità per aprire il campo alle rinnovabili, considerato che, oltre alle famigerate 353 centrali, gli Stati Uniti hanno già programmato l’onorata pensione per ulteriori impianti a carbone (e

sono altri 41 GW). Complessivamente si avrebbe un risparmio di emissioni di anidride carbonica pari a circa 410 tonnellate l’anno per il settore elettrico, ovvero il 16,4% dei livelli attuali. Rimpiazzare il contributo energetico fornito finora da queste centrali non sarebbe poi così difficile. Secondo gli studiosi basterebbe sfruttare «una combinazione tra impianti a gas naturale sottoutilizzati, energia da fonti rinnovabili e una riduzione dei consumi attuata implementando l’efficienza energetica nei prossimi otto anni, grazie al previsto aggiornamento e all’applicazione di norme statali». 

SITOGRAFIA www.ucsusa.org, Union of Concerned Scientists

CARBONE “PULITO”, CARBONE ASSETATO L’utilizzo del carbone è ancora in crescita, particolarmente in Cina. Con una duplice ricaduta ambientale negativa. Rispetto all’inquinamento ambientale, infatti, non sembra risolutivo puntare sul cosiddetto clean coal (“carbone pulito”), un insieme di tecnologie per ridurre l’impatto ambientale della combustione, migliorando l’efficienza energetica. «Che le emissioni degli impianti moderni a carbone siano inferiori è vero – precisa Giuseppe Onufrio di Greenpeace – ma, se si confrontano le tecnologie di abbattimento degli inquinanti, allo stato dell’arte il gas a ciclo combinato è decisamente più efficace; per la CO2, le emissioni specifiche dei migliori impianti a carbone sono doppie rispetto a quelle dei migliori impianti a gas naturale».

Il secondo tasto dolente è invece quello del conflitto tra l’uso del carbone e la disponibilità di acqua. Il rapporto Thirsty coal: a water crysis exacerbated (Carbone assetato: una crisi idrica esacerbata) analizza sul territorio cinese lo sviluppo mal pianificato e massiccio dei centri carboniferi (miniere e centrali), che non solo, drenano risorse idriche sotterranee, ma le inquinano, acuendo la scarsità d’acqua nei periodi siccitosi e mettendo a rischio gli ecosistemi. Lo studio stima che per ogni tonnellata di carbone estratto vengano meno 2,54 metri cubi di acque sotterranee, il pompaggio delle quali è preludio all’attività estrattiva. E se è vero che la versione in cinese del rapporto è stata scaricata dalla rete 9 milioni di volte, vuol dire che il dibattito è aperto anche all’ombra della Grande muraglia. C.F.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 25 |

FONTE: ENERGY INTERNATIONAL AGENCY (EIA)

37% 30% 3%

10%

10

3%

20%

15

44%

30%

21%

Capacità energetica non utilizzata oltre il margine considerato di sicurezza (valutazione 2004)

2%

40%

47%

Stima della capacità energetica centrali a carbone di cui è già prevista la dismissione

20%

25 20

50%

2%

35 30

Stima della capacità energetica delle centrali a carbone mature per la dismissione

47%

40

20%

60% 45

51%

RIPARTIZIONI SUL TOTALE DELLA FORNITURA DI ELETTRICITÀ DEGLI STATI UNITI

18%

RIPARTIZIONE CENTRALI A CARBONE E CAPACITÀ ENERGETICA INUTILIZZATA PER AREA GEOGRAFICA NEGLI USA Gigawatts

FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA, IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES

| dossier | energia sociale |



| valorifiscali |

Tasse & elezioni

Il 75% proposto dalla Lega è una secessione al 100%

L

di Alessandro Santoro

pensioni più alte e, addirittura, di fare arrivare puntuali i treni (con un sinistro richiamo a slogan mussoliniani). A lungo questa proposta è risultata incomprensibile nel suo fondamento e nelle sue finalità. Diversi studi sul cosiddetto residuo fiscale, cioè sulla differenza tra, da un lato, il prelievo fiscale operato sui redditi delle imprese e dei cittadini residenti in un determinato territorio e, dall’altro lato, le spese complessivamente sostenute dall’insieme delle Pubbliche Amministrazioni (Stato, Enti locali, Enti previdenziali), dimostrano, infatti, che già adesso una quota molto vicina, se non superiore al 75% delle entrate prelevate in Lombardia viene “restituita” ai cittadini e alle imprese. È vero che i criteri di ripartizione sono incerti e discutibili e che, comunque, il residuo fiscale della Lombardia è pur sempre positivo, ma si tratta di un fenomeno del tutto ovvio in un Paese che vuole almeno provare a correggere in parte gli squilibri territoriali. Se si escludono Valle d’Aosta e Trentino, infatti, la Lombardia ha il livello del Pil pro capite (dove è inclusa l’economia sommersa) più elevato del Paese, pari a circa il doppio di quello medio del Sud e del Mezzogiorno. Se la proposta leghista fosse stata in qualche modo legata ad un tentati-

l’Italia. La proposta leghista chiede, sic et simpliciter, di garantire che la Lombardia (e le altre Regioni d’Italia) gestiscano in autonomia il 75% del gettito territoriale per svolgere poco più delle funzioni attuali, con l’aggiunta, forse dell’istruzione. Nel contempo, lo Stato dovrebbe utilizzare il residuo 25% per fare sostanzialmente tutte le cose che oggi già fa, a beneficio dei lombardi e di tutti gli altri cittadini italiani, oltre che pagare gli interessi passivi sul debito. Il che è, numericamente, impossibile. Nella più prudente delle interpretazioni possibili, allo Stato rimarrebbero, al netto degli interessi da pagare sul debito, poco più di 52 miliardi di euro, con cui si riuscirebbe a finanziare esclusivamente le funzioni difesa, sicurezza pubblica e giustizia e parte della funzione amministrazione generale. Non un euro sarebbe disponibile per la cosiddetta perequazione, cioè i trasferimenti operati dallo Stato a favore delle Regioni povere. Questo significa togliere il senso stesso di un Paese unito e privare queste Regioni della possibilità di erogare i servizi fondamentali. Ecco perché è legittimo affermare che siamo di fronte a una proposta secessionista sotto mentite spoglie. 

HTTP://LEGANORDMELEGNANO.BLOGSPOT.IT

a “proposta” leghista sul 75% è il migliore (o peggiore) esempio dell’uso del fisco come clava mediatica che ha caratterizzato anche questa campagna elettorale. I muri della Lombardia sono stati invasi da megaposter in cui si affermava che trattenere il 75% delle imposte regionali “sul territorio” avrebbe consentito di dare più lavoro ai giovani, di pagare

La proposta leghista è semplicemente inattuabile in termini numerici vo di rendere più efficiente la spesa pubblica, magari ritornando criticamente sullo stesso disegno leghista di federalismo fiscale così fragorosamente naufragato, avrebbe anche potuto essere utile. Ma, quando è stato possibile leggere il programma leghista, si è capito che non era affatto così. La proposta leghista non vuole comparare il contributo al beneficio che i lombardi ottengono dall’esistenza del-

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 27 |


REUTERS / STEFANO RELLANDINI

finanzaetica

a qu

Inchieste, perdite e derivati. Non solo Mps > 32 Bersani, Vendola e Ingroia rispondono a Banca Etica > 34 La crisi è colpa di lavoratori “stupidi” > 35 | 28 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


| auto&finanza |

Un gruppo di operai al lavoro su una nuova auto Maserati, nella fabbrica di Torino, il 30 gennaio scorso

Finanzieri attro ruote

Leasing e finanziamento alla vendita. Ma anche plusvalenze di Borsa realizzate e da realizzare. Per i conti del settore auto il comparto finanziario è sempre più decisivo

La nuova frontiera dell’auto di Matteo Cavallito

ra saturazione, trend di segno opposto, piani di investimento energetico e grandi scalate, il mercato dell’auto vive di destini contrastanti. Ma, pur caratterizzate da prospettive diverse, le grandi case automobilistiche sembrano aver trovato da tempo un denominatore comune, scommettendo su un sempre più indispensabile fattore di crescita: il comparto finanziario. Le grandi case del settore? Ormai sono «banche che vendono automobili» spiegava il sociologo Luciano Gallino nel suo Finanzcapitalismo (Einaudi 2011) rimarcando la trasformazione dei grandi operatori come Fiat, GM, Volkswagen, Ford e Peugeot. Non più semplici costruttori, insomma, ma veri e propri istituti finanziari che offrono «un’amplissima gamma di piani di investimento» in un settore in cui «è il credi-

T

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 29 |


| finanzaetica |

to, non la vendita» a risultare fondamentale al traino della produzione stessa. Certo, il contesto resta particolarmente complicato e differenziato. Ma il ruolo delle operazioni finanziarie sembra assumere in ogni caso un peso sempre maggiore a prescindere dal grado di successo del core business.

Il futuro è nel financial service?

FONTI: BILANCI TRIMESTRALI BMW, GENERAL MOTORS, PEUGEOT-CITROEN (PSA), VOLKSWAGEN, SETTEMBRE 2012. BILANCIO ANNUALE FORD, GENNAIO 2013. BILANCIO ANNUALE FIAT, FEBBRAIO 2012.

Nello scorso mese di novembre, la General Motors ha raggiunto l’accordo per l’acquisto delle operazioni di finanziamento nel settore auto della holding bancaria Ally Financial. Un’operazione da 4,2 miliardi di dollari che permetterà alla casa automobilistica di espandere il proprio ramo finanziario nei mercati più promettenti a cominciare dal Sudamerica dove, ha ricordato Bloomberg, metà delle automobili vengono acquistate a credito. Ally non è altro che l’ex Gmac (General Motors Acceptance Corporation), la divisione finanziamenti creata in passato dalla casa di Detroit e successivamente ceduta nel 2006 alla società di private equity Cerberus Capital Management di New York. Nei primi nove mesi del 2012, i ricavi complessivi di GM sono aumentati dello 0,6%. Quelli della sola divisione finance sono cresciuti del 29%. E il trend, dati alla mano (vedi TABELLA ), non rappresenta certo un fenomeno isolato. Un anno fa Volkswagen annunciava l’intenzione di espandere ulteriormente la propria rete di finanziamento e leasing in Europa con l’obiettivo di coprire in questo modo il 40% delle proprie ven-

PORSCHE, LA SPORTIVA CHE SORPASSA GLI HEDGE La storia di una delle più clamorose speculazioni borsistiche del decennio inizia nel settembre del 2008 quando Porsche annuncia di essere salita al 35,14% delle quote Volkswagen. Potrebbe essere l’inizio di una scalata, ma nessuno nell’ambiente dei fondi hedge prende sul serio l’ipotesi. Ispirati dalla recessione globale e dalla crisi del settore auto, i fondi ignorarono quindi la strategia della casa automobilistica di Stoccarda (che implicherebbe un rialzo del titolo VW), scegliendo al contrario di attaccare al ribasso il titolo dell’azienda di Wolfsburg con il short selling. Il sistema funziona così: si paga una commissione e si prendono in prestito titoli che non si possiedono per poi venderli e successivamente riacquistarli sul mercato. Se, nel frattempo, il valore del titolo è sceso lo speculatore realizza una plusvalenza. La bomba scoppia alla fine di ottobre, quando Porsche comunica la propria posizione su VW: 42,6% delle azioni e opzioni di acquisto (a prezzo prefissato) su un altro 31,5% delle quote. Tradotto: controlla di fatto il 74,1% delle azioni. A beffare i fondi era stata una norma della legge tedesca che impone agli operatori di comunicare la posizione azionaria ma non il portafoglio delle opzioni. Porsche, insomma, aveva scalato VW ma nessuno se ne era accorto. Nel gergo dei mercati si parla di corner, l’innesco di una maxi speculazione al rialzo. Con i 3/4 delle quote in mano a Porsche e il 20,1% bloccato nelle casse del governo regionale della Bassa Sassonia (storico azionista della casa automobilistica), i titoli liberi sul mercato sono appena il 5,8%. Gli hedge, che per completare l’operazione short devono riacquistare le azioni sulle quali si erano esposti (in termini tecnici devono “chiudere le posizioni”), si lanciano alla disperata ricerca di azioni spingendo la domanda in orbita. Risultato? Il prezzo del titolo sale alle stelle e Porsche guadagna miliardi ai danni degli stessi fondi. Cinque anni dopo, VW ha acquisito Porsche. M.C.

2012 (9 mesi)

2011 (9 mesi)

11,6%

14.582

12.640

15.4%

112.286

0,6%

1.432

1.016

29.0%

42.484

44.585

-4,7%

1.450

1.435

1.1%

144.226

116.279

24%

14.700

12.800

12.9%

offrire alla clientela prestiti a interessi molto competitivi (3,9% annuo) ma anche, va da sé, estremamente redditizi. Nel 2011, ha ricordato il New York Times, Volkswagen Financial Services ha realizzato profitti per 658 milioni, un risultato migliore rispetto a quello ottenuto da Commerzbank, il secondo istituto di credito della Germania. Alla rendita pura e semplice, la casa di Wolfsburg ha fatto comunque seguire gli investimenti. Operazioni a sostegno del business principale, ovviamente, ma anche strategie di diversificazione che hanno interessato le energie alternative e la gestione stessa dei servizi di mobilità (vedi BOX ). Scelte che ad oggi la collocherebbero all’avanguardia di un settore in trasformazione.

-4.9%

Fiat-Chrysler, il business è in Borsa

dite nel Continente (contro il 30% del 2011). Un mese più tardi, la sua divisione finanziaria, la Volkswagen Financial Service, ha potuto accedere grazie alla sua licenza bancaria al maxi piano di alleggerimento quantitativo europeo ottenendo dalla Bce un prestito da 2 miliardi all’1% di interesse. Un assist clamoroso che ha consentito alla casa automobilistica di

LA CRESCITA DEL CONTRIBUTO DEI SERVIZI FINANZIARI SUI RICAVI TOTALI Ricavi totali 2012 (9 mesi)

2011 (9 mesi)

56.312

50.472

GM

112.949

PEUGEOT-CITROEN VOLKSWAGEN

BMW

Variazione

2012 (12 mesi) 2011 (12 mesi) FORD

136.300

134.300

2012 (12 mesi) 2011 (12 mesi) 1.5%

2011 (12 mesi) 2010 (12 mesi) FIAT (esclusa CHRYSLER)

37.382

35.880

Ricavi financial services Crescita

7.700

8.100

2011 (12 mesi) 2010 (12 mesi) 4.0%

358

270

24.6%

Dati in milioni di euro per BMW, Peugeot-Citroen (PSA), Volkswagen e Fiat. Dati in milioni di dollari per GM e Ford. | 30 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Ma il nesso auto-finanza non è solo una questione di leasing. Perché i servizi alla vendita, per quanto importanti, non bastano a descrivere il peso del comparto


| finanzaetica |

finanziario sul settore. Soprattutto di fronte alle possibilità offerte dalla Borsa sul fronte puramente (e magari anche legittimamente) speculativo. Cinque anni fa la Porsche segnò il passo, rendendosi protagonista di un memorabile gioco al rialzo sul titolo VW (vedi BOX ), una perfetta applicazione della strategia corner che beffò gli hedge funds e garantì alla casa automobilistica profitti miliardari. Oggi, in un contesto completamente diverso, le luci della ribalta spettano invece alla Fiat e ai suoi sogni di plusvalenza sulla sorella americana: l’ex moribonda Chrysler. L’azienda di Detroit è uscita dall’amministrazione controllata nel giugno del 2009. Diciotto mesi più tardi ha chiuso i conti con una perdita di 652 milioni di dollari mentre nel 2011 è arrivato finalmente un utile (il primo dopo 14 anni) sebbene di scarsa rilevanza: appena 183 milioni su un fatturato di 55 miliardi. Il botto Chrysler lo ha fatto invece nel 2012 quando il dato è salito a quota 1,7 miliardi. Lo scorso mese di novembre, ha ricordato di recente il Wall Street Journal, la banca elvetica Ubs ha valutato l’azienda di Detroit 9 miliardi di biglietti verdi. A gennaio, l’analista di settore della Morningstar Richard Hilgert ha avanzato una stima ancora più ottimistica: l’azienda, ha spiegato, potrebbe raggiungere sul mercato un valore complessivo di 13,5 miliardi. Come a dire che la Fiat, per usare le parole di Hilgert, «sta acquistando le azioni a un prezzo ancora basso». Il concetto, insomma, è chiarissimo: il vero business dell’operazione Fiat-Chrysler, prima ancora che nell’acquisizione del mercato, si collocherebbe soprattutto nella maxi plusvalenza azionaria del Lingotto. La Fiat controlla ad oggi il 58,5% delle quote Chrysler. Il restante 41,5 è tuttora in mano allo United Auto Workers, il sindacato Usa che partecipa all’azienda attraverso il Veba, il fondo di previdenza sanitaria dei suoi lavoratori. Il Lingotto punta alla fusione entro il 2014 dopo un’ulteriore scalata a Detroit attraverso l’acquisizione di un altro 16,6% delle azioni. L’anno scorso da Torino è scattata l’opzione sul 3,3% dei titoli con un’offerta di 139,7 milioni di dollari che implicavano una valutazione della compagnia pari a

4,2 miliardi. Veba ha risposto chiedendone 343, attribuendo all’azienda un valore di oltre 10 miliardi. Successivamente Veba ha quindi chiesto a Chrysler di formulare una registration demand alla Sec sul 16,6% delle quote con l’obiettivo di formalizzare un prezzo adeguato. La definitiva conquista dell’azienda Usa da parte di Torino ruota proprio attorno alla risposta dell’authority americana. «Di certo non sarà una partita facile – sottolinea Francesco Garibaldo, sociologo industriale e membro del Comitato scientifico dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali dell’Emilia Romagna Ires Cgil – anche se l’accordo resta probabile. Da un

lato c’è il sindacato Usa, ben consapevole di come la Fiat abbia assoluta necessità di risolvere la questione. Dall’altro ci sono i vincoli di Marchionne che, su mandato della proprietà, è costretto ad operare soltanto con i flussi di cassa che l’azienda produce». Le ricadute sulle strategie italiane del Gruppo sono evidenti: cassa integrazione, accantonamento della liquidità (oggi la sola Fiat ne avrebbe a disposizione per oltre 11 miliardi di euro), contrazione degli investimenti e crescita dell’esposizione sul mercato del credito. L’indebitamento netto (saldo debiti/crediti) della sola Fiat è passato dai 5,8 miliardi di fine 2011 agli 8,2 odierni. 

RINNOVABILI E CAR SHARING: IL FUTURO VOLKSWAGEN Il leggendario sole di Chattanooga, Tennessee (sì, proprio quello “che ti spacca in quattro”, come ricordava un mitico allenatore di pallacanestro in un celebre spot tv degli anni ’80), potrà soddisfare il 12,5% del fabbisogno energetico del locale impianto Volkswagen (ma si sale al 100% nei periodi di non produzione), dove si assemblano i modelli Passat dedicati al mercato a stelle e strisce. Lo ha riferito a gennaio l’azienda cinese JA Solar Holdings, fornitrice dei 33.600 pannelli fotovoltaici installati nell’impianto. La VW ha concentrato da tempo i suoi sforzi sul fronte dell’efficienza energetica – come dimostra il caso del Totem, la macchina di cogenerazione sviluppata nel 1975 alla Fiat e recuperata dalla VW dopo che l’azienda torinese l’aveva rapidamente abbandonata (vedi “Report”, 29 ottobre 2006) – ma anche sulla diversificazione e sull’adeguamento alle nuove domande di mobilità a cominciare dal car sharing, servizio già lanciato da Volkswagen alla fine del 2011 nella città tedesca di Hannover dopo le iniziative analoghe di Daimler e BMW. «Negli ultimi anni è diminuita la propensione dei giovani ad acquistare l’automobile come primo investimento, come dimostra il calo del numero di nuove patenti negli Stati Uniti – ricorda Francesco Garibaldo –. Viaggiare oggi richiede un nuovo portafoglio di soluzioni, per questo, da semplici costruttori, le aziende dovranno diventare sempre più fornitori di mobilità o comunque di servizi energetici legati alla mobilità». M.C.

VENDITE IN EUROPA. UN 2012 APOCALITTICO Nel corso del 2012, ha riferito l’Associazione dei produttori europei (Acea), le immatricolazioni di auto nel Vecchio continente sono calate del 7,8% attestandosi ai livelli più bassi dal 1995. Nello stesso periodo, ha sottolineato Il Sole 24 Ore, le vendite di nuovi veicoli in Italia sono state meno di 1,4 milioni di unità: il dato peggiore dal 1979. All’inizio di febbraio l’amministratore delegato di Renault e Nissan Carlos Ghosn ha parlato di stagnazione prolungata rinviando ogni possibile ripresa al lontano 2020. A passarsela peggio è la francese Peugeot-Citroen (Psa) che a febbraio ha annunciato una svalutazione contabile di 4,13 miliardi, cifra che ancora non tiene conto della perdita netta del 2012. Secondo quanto dichiarato dal ministro del Bilancio Jerome Cahuzac, il governo francese, che nel mese di ottobre aveva concesso garanzie per 7 miliardi a Banque Psa Finance, la finanziaria del gruppo, non esclude l’ingresso dello Stato nel capitale dell’azienda. M.C.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 31 |


| finanzaetica | scandali bancari |

Inchieste, perdite e derivati Non solo Mps di Matteo Cavallito

Conti in rosso, scandali giudiziari, allarme crediti. Per le banche del Vecchio Continente quello attuale è un inverno gelido commesse completamente sbagliate, perdite, ristrutturazioni e altre perdite. Mentre il titolo azionario precipitava, progressivamente e inesorabilmente, fino alla resa dei conti dei bilanci in rosso, delle acrobazie finanziarie e degli scandali. La storia recente del Monte dei Paschi sembra rievocare il caro vecchio monologo di Gordon Gekko, quello, per intenderci, dell’illusione che diventava realtà e del denaro che non si creava, ma si trasferiva “da un’intuizione a un’altra”. Peccato solo che questa volta non sia un film e che i soldi in ballo siano tutti veri. Così come gli scandali.

S

Bufera MPS A febbraio, l’ultimo CdA di Rocca Salimbeni ha certificato una perdita di 730 milioni, somma delle scommesse sbagliate sulle esotiche operazioni Alexandria (-273,5 milioni), Santorini (-305,2) e Nota Italia (-151,7), ma la realtà, ovviamente, è più complicata. Al netto dei guai giudiziari (impossibile per un mensile rendervene conto senza farsi superare dalla cronaca quotidiana), quella dei derivati di Mps è una storia potenzialmente esplosiva e, di certo, già di per sé devastante. Un esempio su tutti è il maxi swap sul portafoglio dei titoli di Stato, con il quale la banca ha tentato in passato di cautelarsi dal rischio di rialzo dei tassi variabili. Siena lo ha sottoscritto tra il 2009 e il 2010 con varie banche d’af| 32 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

fari – tra le quali spiccano Nomura (già protagonista della ristrutturazione sui “Cdo’s al quadrato” comprati da Dresdner) e Deutsche Bank – trasformando le cedole fisse in interessi variabili calcolati sull’Euribor. Risultato: i Btp renderebbero in media il 4,2%, ovvero 1 miliardo e spiccioli all’anno di interessi, ma, grazie ai derivati, Mps non incassa quasi niente. Nei primi tre trimestri del 2012 il portafoglio Btp della Rocca ha generato la miseria di 65 milioni. Quella del Monte è una storia particolare, tanto per gli eccezionali intrecci politici (parliamo pur sempre di una banca sotto il pieno controllo di una fondazione a nomina partitica), quanto per l’eccezionale capacità di raccogliere in sé l’eredità della stagione calda della finanza italiana (Antonveneta e il corollario della Popolare di Lodi e dei furbetti nazionali). Ma i suoi guai finanziari non rappresentano certo un caso isolato. Anzi.

Da Francoforte a Londra Per rendersene conto basta dare un’occhiata all’ultima trimestrale di Deutsche Bank, l’istituto numero uno della Germania. I bilanci degli ultimi tre mesi del 2012 segnano una perdita netta di 2,2 miliardi, ma le incombenze contabili non finiscono qui. DB, ha evidenziato di recente la Reuters, è tuttora impegnata in una sequela di cause legali: dalla bancarotta di Kirch Media Group (una storia che nei tribunali tedeschi si trascina da almeno 10 anni) alle sospette irregolarità sul trading dei crediti di emissione della CO2 fino alle accuse di manipolazione del tasso interbancario “londinese”, il Libor, operazione quest’ultima che

potrebbe aver alterato all’origine contratti derivati sui tassi per trilioni di euro. Nell’inchiesta sul Libor le banche Ubs e Barclays hanno già patteggiato multe da quasi 2 miliardi di dollari. DB, nel frattempo, ha avviato un piano di ristrutturazione (leggasi licenziamenti) con lo scopo di contribuire all’obiettivo di taglio dei costi fissato in 4,5 miliardi all’anno entro il 2015. Ad agosto il New York Times ha rivelato l’esistenza di un’inchiesta promossa dalle autorità Usa su DB per sospette transazioni illegali con Iran, Siria, Sudan e Corea del Nord (in inchieste analoghe sono coinvolte anche Abn Amro, Credit Suisse, Ing, Barclays e Lloyds). Lo scorso dicembre, tre ex funzionari hanno accusato l’istituto di aver nascosto perdite da 12 miliardi, originate da una maxi posizione (130 miliardi) assunta sui contratti di leveraged super senior trades. Strumenti derivati, ovviamente. Ai guai della banca tedesca si affiancano tuttora quelli degli istituti britannici. Lo scorso 31 gennaio, secondo quanto riferito dalla Financial Service Authority britannica (Fsa), le quattro maggiori società finanziarie del Regno Unito – Royal Bank of Scotland (Rbs), Barclays, Hsbc e Lloyds – hanno dato il via libera ai risarcimenti per la clientela “beffata”, diciamo così, sui contratti derivati. Gli istituti, aveva affermato la Fsa, avevano piazzato contratti finanziari particolarmente complessi a una clientela small business senza informarli adeguatamente dei rischi, ha precisato la Fsa, in circa 9 casi su dieci. Rbs, Barclays e Hsbc hanno già accantonato 630 milioni di sterline per il risarcimento che andran-


| finanzaetica |

no così a pesare sui conti degli istituti britannici. Un’altra tegola per le banche UK, già costrette ad accantonare 9 miliardi di sterline per il rimborso della clientela cui erano state cedute le contestate assicurazioni sui mutui.

Aiuti pubblici

FONTI: “PIANI DI STABILIZZAZIONE FINANZIARIA”, MEDIOBANCA, RICERCHE E STUDI SPA (WWW.MBRES.IT), OTTOBRE 2013 E NOSTRA SUCCESSIVA ELABORAZIONE. DATI IN MILIARDI DI EURO.

Scandali e perdite assumono ovviamente un significato particolare alla luce dell’impegno dei governi nazionali per il salvataggio degli istituti. Rbs e Lloyds sono state de facto nazionalizzate all’inizio della crisi, Mps potrebbe andare incontro allo stesso destino in caso di mancata restituzione cash del prestito da 3,9 miliardi ottenuto tramite i Monti bond. Ad oggi, ricordano gli ultimi dati di Mediobanca (vedi BOX ), i governi europei hanno utilizzato in salvataggi vari 2,7 trilioni di euro dei contribuenti e sono tuttora esposti per oltre 1.100 miliardi. In Italia, Monte dei Paschi a parte, il rischio nazionalizzazione non è attualmente contemplato per alcun istituto. Ma le

IL COSTO DEGLI INTERVENTI PUBBLICI IN EUROPA E NEGLI USA Secondo gli ultimi dati disponibili (giugno 2012) del centro studi di Mediobanca, dallo scoppio della crisi ad oggi gli Stati Uniti hanno sostenuto il settore finanziario con un impiego di denaro pubblico pari a oltre 2.850 miliardi di dollari offrendo prestiti, garanzie, ricapitalizzazioni e altri interventi a 1.400 istituti. Tra questi 446 hanno restituito i finanziamenti lasciando comunque il governo Usa esposto tuttora per quasi 1.200 miliardi. In Europa, sempre secondo i dati di giugno, gli istituti coinvolti sono stati 437 per un ammontare complessivo da parte dei governi pari a quasi 2,7 trilioni di euro. L’esposizione rimanente superava a giugno i 1.100 miliardi. In Italia il costo totale ammonta a 123 miliardi, quasi tutti (119) messi da parte sottoforma di garanzie. Stati Uniti ed Europa hanno sostenuto insieme un costo di circa 6,5 trilioni di dollari. Nel computo degli “aiuti” non rientrano gli oltre 1.000 miliardi di prestiti all’1% concessi dalla Bce l’anno scorso alle banche del Continente.

ti valgono ormai il 12,3% del totale dei prestiti (vedi anche Valori n. 106, febbraio 2013). Tra il 2007 e il 2012, ricorda un recente studio di Prometeia, le svalutazioni dei crediti sono cresciute del 215% tra il 2007 e il 2012, mentre il tasso di copertura (gli accantonamenti per coprire le potenziali perdite) si è ridotto secondo Bankitalia al 37,7% rispetto al 49,4 misurato sei anni fa. 

Dallo scandalo Libor alle transazioni sospette con l’Iran: la vicenda MPS è solo la punta dell’iceberg di una finanza malata prospettive contabili delle banche, in generale, non sono affatto positive. Negli istituti della penisola, i crediti deteriora-

GLI INTERVENTI DELLE BANCHE CENTRALI A SOSTEGNO DEL SISTEMA FINANZIARIO Paese

Capitali

Garanzie

Altri interventi

Aiuti totali

Banche conivolte

Aiuti restituiti

Terminati

Ammontare netto

AUSTRIA

8,85

24,45

0,0

33,3

8

0,0

4,2

29,2

BELGIO

20,9

170,2

5,5

196,7

6

72,3

23,9

100,5

7,6

26,8

6,6

41,1

59

7,7

0,1

33,3

FRANCIA

25,3

102,7

0,5

128,5

8

64,0

14,4

50,1

GERMANIA

46,9

365,4

7,3

419,6

13

164,7

149,5

105,4

GRECIA

20,3

45,5

17,0

82,8

10

8,1

0,0

74,8

IRLANDA

31,5

190,2

0,0

221,7

6

4,0

86,4

131,3

ISLANDA

0,8

0,0

0,0

0,8

3

0,0

0,0

0,8

ITALIA

4,1

119,0

0,0

123,1

258

1,5

42,3

79,3

LUSSEMBURGO

2,8

7,2

0,2

10,1

4

3,0

0,4

6,7

30,1

94,1

8,3

132,5

14

48,7

36,4

47,3

4,0

10,2

0,4

14,6

9

0,0

8,2

6,4

DANIMARCA

OLANDA PORTOGALLO SPAGNA

23,5

0,4

13,0

36,9

27

0,4

0,0

36,5

SVIZZERA

47,9

0,0

0,0

47,9

1

42,9

0,0

5,0

REGNO UNITO

114,5

1007,8

84,1

1206,5

18

747,8

56,7

401,9

TOTALE EUROPA

389,2

2163,9

142,8

2696,0

437

1165,0

422,5

1108,5

(in dollari)

519,1

2886,0

190,5

3595,7

1553,8

563,5

1478,4

TOTALE USA*

562,7

1869,0

421,6

2853,3

1402

1678,8

446,0

1174,5

1081,8

4755,0

612,1

6449,0

1839

3232,6

1009,5

2652,9

TOT USA+EUROPA*

*Dati in miliardi di dollari Usa. **Nostra elaborazione al tasso di cambio del 14/2/2013: 1 euro = 1,3337 dollari. | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 33 |


| finanzaetica | caro leader politico... |

Bersani, Vendola e Ingroia rispondono a Banca Etica di Elisabetta Tramonto

La petizione “Cambiare la finanza per cambiare l’Italia!”, lanciata da Banca Etica, ha raccolto 10 mila firme. Ai 5 quesiti hanno risposto tre leader politici: Pier Luigi Bersani (Pd), Nichi Vendola (Sel), Antonio Ingroia (Rivoluzione civile) iecimila firme e le risposte di tre leader politici: (in ordine di ricezione) Nichi Vendola di Sinistra ecologia e libertà; Pier Luigi Bersani del Partito Democratico e Antonio Ingroia di Rivoluzione Civile. Un ottimo risultato per la petizione lanciata a metà gennaio da Banca Etica: “Cambiare la finanza per cambiare l’Italia!”. Un appello rivolto ai leader politici candidati a governare il nostro Paese (chi legge questo articolo saprà chi è stato eletto, mentre scriviamo non lo sappiamo ancora), perché la campagna elettorale ha totalmente trascurato i temi della finanza. «Il primo obiettivo – spiega Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica – è risvegliare l’attenzione sui temi della finanza, che purtroppo è mancata nella campagna elettorale e anche tra le persone comuni, che stanno a discutere sull’Imu, ma non si rendono conto che, se abbiamo l’Imu, è perché c’è stata, e c’è, una crisi finanziaria alla quale non si sta mettendo mano».

D

I cinque quesiti ai politici Cinque i temi su cui Banca Etica interroga i leader politici. Il primo riguarda la Tassa sulle transazioni finanziarie, che, nella versione introdotta nel nostro Paese, è stata edulcorata (Valori febbraio 2013). «Per come è stata applicata in Italia – commenta Ugo Biggeri – non colpisce l’high frequency trading (le transazioni finanziarie giornaliere ultra-veloci, ndr), né i derivati». Quindi Banca Etica chiede ai | 34 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

politici: «Intende migliorare l’attuale Tobin Tax?». «Va rafforzata e migliorata», risponde Nichi Vendola, che chiede una tassa «efficace e incisiva, in grado di frenare la speculazione e di generare gettito da destinare alle spese sociali, alla cooperazione internazionale e alla lotta contro i cambiamenti climatici, e prima ancora di dare un segnale forte della volontà politica di regolamentare i mercati finanziari». «Va estesa ai derivati e attuata attraverso la cooperazione rafforzata avviata nell’Unione europea», aggiunge Pier Luigi Bersani. E per Antonio Ingroia, bisogna operare «affinché sia estesa a tutti i mercati regolamentati del mondo, a partire da Ue (incluso il Regno Unito), Stati Uniti e Giappone. E vanno proibite le transazioni Otc (Over the Counter)». Il secondo quesito riguarda i paradisi fiscali. Per Nichi Vendola: «L’Italia dovrà avere un ruolo da protagonista su scala europea e internazionale per una decisa lotta contro i paradisi fiscali, che comprenda l’introduzione di un accordo multilaterale e automatico per lo scambio di informazioni tra Paesi in ambito fiscale e non una serie di accordi bilaterali». «Oltre alla lotta contro i paradisi fiscali off shore – aggiunge Ingroia – intendiamo batterci per una riforma dei trattati Ue tale da prevedere l’obbligo di aliquote fiscali uniformi per le imprese in tutti i paesi dell’Unione». Terzo tema l’azionariato popolare: «Rivedrà la tassazione sui piccoli rispar-

mi per non penalizzare le esperienze di democrazia economica e azionariato diffuso?», chiede Banca Etica. Affermativa la risposta di Bersani, secondo cui bisogna «riequilibrare il prelievo a vantaggio dell’azionariato diffuso». Gli ultimi quesiti riguardano la separazione tra banche commerciali e banche d’affari e il ruolo cruciale delle banche etiche e cooperative in risposta alla crisi. «Chiederà una revisione degli accordi di Basilea affinché non penalizzino le banche etiche e cooperative e non ostacolino l’erogazione di credito a favore delle realtà del Terzo settore?», chiede la banca. «Il modello verso cui dobbiamo andare – scrive Vendola – è quello delle banche di piccole dimensioni, fortemente radicate sul territorio, che siano uno strumento al servizio dell’economia reale». E Bersani aggiunge: «In questi anni di difficile accesso al credito le banche etiche e cooperative sono state un fondamentale canale di risorse per le imprese e per le famiglie grazie alla loro capillare presenza e conoscenza del territorio». «È giusto operare affinché il ruolo del sistema delle banche etiche e cooperative sia riconosciuto. Bisogna però evitare che dietro tale paravento si nascondano gli interessi di banche [...] che di mutualistico non hanno nulla». 

Nota ai lettori: le risposte dei tre leader politici sono arrivate mentre Valori stava andando in stampa. Non abbiamo quindi potuto dedicare al tema uno spazio adeguato. Potete trovare tutte le risposte sul nostro sito internet www.valori.it. E commentarle! Per firmare la petizione: www.change.org Info: www.nonconimieisoldi.org, www.bancaetica.it


| finanzaetica | lavoro |

Non pensare, esegui! La crisi è colpa di lavoratori “stupidi” di Elisabetta Tramonto

Uno studio condotto da un’università di Londra punta il dito contro i metodi attraverso i quali numerosi istituti di credito inducono i propri dipendenti a “non pensare troppo”. Anestetizzando così il senso critico dei lavoratori a “stupidità” dei dipendenti delle banche è una delle cause principali della crisi economico-finanziaria. Un’affermazione alquanto azzardata, che potrebbe sembrare campata per aria, oltre che offendere molti lavoratori. Meglio spiegarla bene. La conclusione è frutto di un recente studio condotto dal professor Andre Spicer della Cass Business School della City University London, in collaborazione con Mats Alvesson della Lund University. Uno studio dal titolo “Una teoria delle organizzazioni basata sulla stupidità”, che prende in esame il comportamento dei lavoratori e la cultura organizzativa all’interno di grandi aziende, con un’attenzione particolare per il mondo della finanza. I ricercatori dell’università britannica la chiamano “stupidità funzionale”, che non ha nulla a che fare con il quoziente intellettivo dei lavoratori, quanto piuttosto con l’uso che ne fanno. Ovvero, secondo lo studio, molte aziende cercano di dissuadere i propri dipendenti dall’utilizzare appieno le loro facoltà intellettive e, quindi, dal porre domande, fare obiezioni, avanzare dubbi. Un’anestetizzazione del senso critico del lavoratori, funzionale agli scopi dell’azienda, che in questo modo non

L

mette in discussione il proprio comportamento. Una cultura ampiamente diffusa, sostengono i ricercatori, nel mondo finanziario, nella city londinese e non solo, che ha portato agli scandali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni.“Non pensare, fallo e basta”, sembra essere la regola non scritta valida nelle banche. Insomma eseguire i compiti assegnati senza pensarci a fondo e senza porre domande scomode. Il professor Spicer ha risposto alle domande di Valori. Professor Spicer, quale ruolo ha giocato la “stupidità” dei lavoratori delle banche nella crisi finanziaria degli ultimi anni? La “stupidità funzionale” è una delle cause principali della crisi finanziaria. Le banche sono composte da persone molto intelligenti. Prima della crisi gli istituti di credito cercavano dipendenti tra i candidati con una laurea e un dottorato dalle più importanti università nel mondo. Questi individui così intelligenti hanno rapidamente capito che, per fare carriera, non avrebbero potuto fare uso pienamente delle loro capacità

Andre Spicer, Cass Business school della City University London

«Chi lavora in banca spesso trascura i problemi che incontra, nonostante ne sia perfettamente al corrente» intellettive, non avrebbero dovuto fare troppe domande, cercare spiegazioni o esercitare una voce critica (tutte attività che avevano imparato a usare). Chi lavora in banca spesso trascura i problemi che incontra nonostante ne sia al corrente. E questi problemi trascurati si sommano gli uni agli altri e, nel tempo, hanno provocato l’enorme crisi finanziaria.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 35 |


| finanzaetica |

ALTRO CHE STUPIDI! NON HANNO GLI STRUMENTI «Non condividiamo affatto l’opinione del professor Spicer. La colpa della crisi non è certo dei lavoratori, ma dell’impostazione e della cultura delle banche, orientate alla massimizzazione del profitto nel breve periodo». Commenta così Mauro Bossola, segretario generale aggiunto della Fabi, le conclusioni del professor Spicer. Era talmente in disaccordo che non avrebbe voluto aggiungere altro. Fortunatamente ha voluto spiegarsi meglio. Perché ritiene infondata la tesi del professor Spicer? I lavoratori delle banche non sono affatto stupidi, si pongono domande, eccome! È l’organizational behaviour (il comportamento da tenere nel contesto organizzativo, ndr), che impone loro di non esercitare il proprio senso critico. I lavoratori non hanno strumenti per far arrivare le loro opinioni ai livelli decisionali. A furia di non poter esprimere la propria opinione accumulano dei bei “mal di pancia”. Siamo una delle categorie con il maggior numero di malattie professionali non riconosciute. Quindi se un dipendente deve svolgere un compito di cui conosce la pericolosità non può fare nulla per evitarlo? Se un dipendente si rifiuta di collocare un prodotto, non solo non fa carriera, come sostiene il professor Spicer, ma rischia di perdere

Se invece avessero usato di più il loro senso critico, alcuni “errori” avrebbero potuto essere evitati? Una maggiore capacità critica avrebbe certamente aiutato a evitare alcuni dei maggiori problemi della crisi finanziaria. Le organizzazioni che sono uscite dalla crisi indenni sono, infatti, quelle che si sono interrogate a fondo riguardo il loro modello di business. Per esempio le banche etiche e cooperative come Triodos hanno visto il loro giro d’affari crescere significativamente durante la crisi. Questo perché erano disponibili a sfruttare le capacità intellettuali dei loro soci e dipendenti per porsi domande difficili, trovare risposte e agire sulla base di queste. Le imprese dovrebbero creare spazi per stimolare il senso critico e la riflessione dei dipendenti. Questo permetterebbe di avanzare preoccupazioni o riflessioni profonde o problemi riscontrati nelle loro attività quotidiane. Fare questo significa che un’impresa è disponibile ad accogliere le critiche al suo modo di fare affari.  | 36 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

il posto di lavoro. Non si tratta di “stupidità”, ma di sopravvivenza in un ambiente ostile. Hanno una qualche responsabilità per la crisi finanziaria? Il problema non sono i lavoratori bancari né la loro stupidità (anche perché stupidi non lo sono affatto). Il problema sono le banche che ragionano con un’ottica di breve termine, tesa Mauro Bossola, segretario alla massimizzazione del profitto, incuranti generale aggiunto verso le conseguenze sociali e obbligando i di Fabi lavoratori al collocamento di prodotti anche rischiosi, per cercare di ottenere alti ritorni nel breve termine. E voi, come sindacato, state facendo qualcosa per cambiare la situazione? Da sempre ci siamo opposti a questa situazione. Stiamo lavorando per aumentare la componente fissa del salario mensile, le banche vorrebbero invece aumentare la parte variabile. Portiamo avanti una campagna chiamata sales versus advises, vendite contro consigli, in cui sosteniamo che le vendite di prodotti finanziari devono essere responsabili. Su una cosa concordo con il professor Spicer: senza un cambiamento culturale nelle banche c’è poco da fare!

«Al contrario, le domande sono funzionali a migliorare le aziende: chi se le è poste, è uscito meglio dalla crisi» RESPONSABILITÀ SÌ, COLPA DELLA CRISI NO «Dire che i lavoratori non hanno responsabilità in assoluto per quanto accade all’interno delle banche significherebbe chiudere gli occhi, ma affermare che il loro comportamento è la causa della crisi finanziaria non sta né in cielo né in terra». Dopo aver letto la tesi sostenuta dal professor Spicer, Paolo Bellentani, sindacalista della Fiba-Cisl, ci tiene a fare dei distinguo. Ritiene che i lavoratori avrebbero potuto fare di più per evitare alcune pratiche “dannose” portate avanti dalle banche? Erano consapevoli di quanto stava accadendo? Sì, teoricamente avrebbero potuto fare di più, ma a rischio di ripercussioni personali. Qualcuno può anche aver agito per interesse, chiudendo gli occhi nonostante si rendesse conto che c’era qualcosa che non andava. Magari per far carriera, come dice il professor Spicer. Ma questi casi sono davvero la minoranza. La maggioranza dei lavoratori o si trovavano in ruoli in cui non potevano rendersi conto di quanto accadeva, o, più spesso, se ne rendevano conto, ma non avevano strumenti per reagire. Difficile dire a un capo-area “io questa robaccia non la vendo” se si rischia, come “punizione”, di essere trasferiti a 50 km di distanza. Paolo Bellentani, sindacalista Fiba-Cisl


| finanzaetica |

LA FINANZA NON APPREZZA IL SENSO CRITICO

Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica

«Sostenere che la colpa della crisi sia di lavoratori resi “stupidi” dalle banche è una conclusione forzata, ma l’idea di base è corretta: il senso critico non è apprezzato dalla finanza, un’industria molto specializzata e verticistica». È questo il primo commento alla ricerca del professor Spicer da parte di Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica.

Che ruolo hanno, quindi, avuto nella crisi i lavoratori delle banche? Nello studio è stata posta decisamente troppa enfasi sulla responsabilità dei lavoratori. Ma non bisogna nascondere che hanno un ruolo importante. Più che di stupidità parlerei però di altre caratteristiche, ricercate e forzate dalle banche stesse: come il seguire ordini senza farsi problemi, l’incentivo alla vendita di prodotti non adatti alla clientela, la mancanza di passione, il non farsi troppe domande. Ma, soprattutto, attribuirei la colpa all’eccessiva automatizzazione e segmentazione dei processi. Nelle banche ormai tutto, o quasi, è stato automatizzato: anche la concessione di un fido viene decisa da una macchina. D’altro canto si è ampliata la struttura dei controlli: una parte del personale della banca deve controllare l’altra. Ma questo meccanismo automatizzato e questo sistema di controlli evidentemente non hanno funzionato. E la coscienza individuale non ha saputo sopperire. Così sono stati presi rischi eccesivi. E poi c’è il problema dell’eccessiva settorializzazione del lavoro, che fa si che ciascuno veda solo una porzione di una procedura e non si renda conto dell’entità complessiva. E il problema della standardizzazione,

Secondo lei, quindi, è vero che le banche tendono ad attenuare la capacità critica dei dipendenti? Questo sì, le banche (non tutte, ovviamente, è difficile che accada nelle Bcc o in alcune banche popolari, perché hanno un sistema di governance diffusa) tendono a creare un sistema di rapporti interno che spinge i lavoratori, o per paura o per interesse, a non usare la loro capacità critica su certi prodotti che vengono venduti. A volte i lavoratori si fanno attrarre dalle sirene dei sistemi incentivanti, che legano porzioni consistenti dello stipendio al raggiungimento di obiettivi di budget. Questo ovviamente esaspera la ricerca della “vendita a tutti i costi”, anche a discapito della valutazione critica di ciò

che sostituisce criteri rigidi e prefissati alla capacità decisionale e alla responsabilità delle singole persone. Molte operazioni sono impostate dall’alto e non sono discutibili. E i lavoratori spesso patiscono questa “impotenza” forzata… Che nel mondo delle banche ci siano forti mal di pancia tra i lavoratori non è una novità. Da diversi anni Banca Etica riceve una quantità spropositata di curriculum da dipendenti di altri istituti, stanchi di fare un lavoro che talvolta va contro i loro principi. Il professor Spicer cita le banche etiche come modello positivo. In Banca Etica viene lasciato spazio al senso critico dei dipendenti? I buoni risultati delle banche etiche dipendono da diversi fattori di successo. I lavoratori sono solo uno di questi. Innanzitutto posso dire che Banca Etica cerca di valorizzare le attitudini individuali dei suoi dipendenti e di favorire strumenti di partecipazione dei lavoratori nell’innovazione e nella costruzione del bilancio preventivo economico e sociale. Tra i criteri valutati al momento dell’assunzione c’è anche la conoscenza diretta da parte del candidato del terzo settore, del sociale, non solo per motivi di studio, ma anche per un’attenzione personale. E poi ogni decisione presa dai vertici della banca viene comunicata e spiegata a dipendenti, oltre che ai soci. Nessun’altra banca, credo, invii ai dipendenti resoconti di quanto viene discusso nel Cda. È chiaro che poi serve un equilibrio. Non tutte le modalità di partecipazione sono positive. Se ogni decisione dovesse essere messa in discussione, gestire una struttura delle dimensioni di una banca sarebbe impossibile.

che si sta facendo. Il tutto è favorito dalla distribuzione di prodotti sofisticati, corredati da prospetti informativi complicati e non adeguati a una clientela che avrebbe bisogno di prodotti estremamente semplici, a scarsa marginalità per le banche. E i sindacati possono fare qualcosa per evitare che ciò accada? Certamente. Il professor Spicer tocca un problema vero, ma dimostra di non avere una grande conoscenza attuale del mondo sindacale, che oggi ha strumenti, negoziali, per ottenere buoni risultati. Da anni stiamo portando avanti battaglie contro i sistemi incentivanti che ledono la dignità del lavoro: modelli che puntano

a risultati individuali e di breve termine, che rovinano il clima di lavoro e sui quali si innescano dinamiche pericolose. In alcune banche si può portare a casa il 30-40% del salario annuale come premio, soprattutto per livelli dirigenziali o titolari di filiale. Nell’ultimo contratto, rinnovato da pochi mesi, abbiamo normato la possibilità, se azienda e sindacato sono d’accordo, di inserire le somme erogate come incentivi nelle trattative che prevedono l’obbligo di un accordo sindacale. Questo permetterebbe al sindacato di vincolare le strategie incentivanti a criteri di lungo periodo; alle aziende e ai lavoratori di usufruire di sgravi fiscali significativi.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 37 |


2,3

| numeridellaterra |

di Andrea Barolni

2%

-1%

-19%

STATI UNITI

0,13

-4%

0,1

0,03

1,0

1,3

Chi fa ricerca sulle rinnovabili?

2%

-3%

AMERICA

| 38 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

-2%

4%

0,14

S

0,1

e si considerano i valori degli investimenti in ricerca e sviluppo, provenienti sia da fonti private che pubbliche, in tutto il mondo, la fotografia che offre il 2011 è desolante. Rispetto all’anno precedente, il Brasile risulta l’unico Paese – fra le macro-aree analizzate da Bloomberg New Energy Finance – che presenta un saldo positivo. Un +2% (dato in ogni caso non esaltante) arrivato grazie agli investimenti governativi, che hanno bilanciato il calo registrato sul fronte dei capitali concessi dai privati. A colpire particolarmente, in negativo, c’è poi l’Asia: escludendo Cina e India il continente ha fatto segnare tra il 2010 e il 2011 un calo degli investimenti pubblici del 66%. Dato tra l’altro in controtendenza rispetto a quelli, ad esempio, di Cina, Usa, e Ue, che seppur di poco hanno visto crescere i capitali statali. 

0,04

[senza USA e Brasile]

2%

BRASILE

Investimenti privati [2011, in miliardi di dollari] Investimenti statali [2011, in miliardi di dollari] Investimenti totali [2011, in miliardi di dollari] %

Crescita 2011 rispetto al 2010


2

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

-16%

6

2,5

0

2011

2,0

1,0

1,5

0,5

Onde marine Geotermico Idroelettrico Biomasse

Eolico

4,0

3,0 3,5

Biocarburanti

INVESTIMENTI R&D PER TECNOLOGIE (2011)

4,5

0,0

Solare

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 39 |

FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA, IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES

2,2 | -15% 1,9 | -17% 4,1 | -16%

1,5 | -6% 1,9 | -11%

12 B

0,4 | -25%

CINA

0,6 | -29% 0,6 | -16% 1,2 | -23%

INVESTIMENTI IN RICERCA E SVILUPPO SULLE ENERGIE RINNOVABILI -2%

0,3 | -19% 0,3 | -26% 0,6 | -22%

INDIA 9%

0,1 | -20% 0,2 | 7% 0,3 | -4%

32% -30%

0,1 | -12% 0,1 | -22% 0,2 | -18%

-18%

0,01 | -3% 0,1 | -13% 0,11 | -12%

15%

8

0,04

8% -16% -66% -40%

0,3

0,4

1,0

1,2

1,3

1,3

1,6

1,6

FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA, IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES - ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

0,08

0,04

-35%

5

26%

4

10 10

3%

5 5

8

8

EUROPA

3

7

-16%

4

12%

5

-36%

3

4

4

-16%

2

0,013

7%

5

5

0,003

0%

3

3

3

7

0,01 2%

2

2

2

5

-31%

2,3

| investimenti in r&d |

[senza India e Cina]

ASIA

MEDIO ORIENTE E AFRICA


economiasolidale

Vanità o sanità: questo è il dilemma> 44 Confidi a rischio bolla > 48 Quando lo Stato tende la mano alle Pmi > 51 Una nuova mobilità a Fa’ la cosa giusta > 52 | 40 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


| made in italy a rischio/puntata 2 |

Un impianto della Torcitura Padana, un’azienda della prima fase della filiera del tessile, in provincia di Pavia

Tessile e moda

Tra i big dell’abbigliamento che delocalizzano il più possibile, i costi dell’energia in continuo aumento ed etichettature lacunose, uno dei fiori all’occhiello dell’Italia nel mondo rischia di scomparire

La filiera muore (e il made L in Italy pure) di Emanuele Isonio

imiti dimensionali, difficoltà a fare rete tra le imprese, costi fissi in crescita inarrestabile, perdita di competenze tecniche, burocrazia, difficoltà di accesso al credito, contraffazione, discutibili politiche commerciali dei big del settore. È potenzialmente infinito l’insieme di motivi che stanno portando al collasso uno dei fiori all’occhiello dell’Italia nel mondo. Chiariamo: i marchi che hanno fatto la fortuna della moda tricolore continueranno ad esistere. Ma è concreto il rischio che, dietro di loro, la filiera italiana del tessile evapori. Questa preoccupazione, più che dai dati del settore, si desume dalle parole dei tanti piccoli e medi imprenditori che compongono i gradini della filiera. Dalla torcitura alla filatura, fino alla tessitura e alla nobilitazione, sono molti gli imprenditori che vedono nero. Un mix di rabbia, rassegnazione e voglia di denunciare una situazione insostenibile: «Sono tre anni che ricevo ordini di campionario da una ditta marchigiana che lavora per una nota griffe italiana», racconta un tes| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 41 |


FONTE: SMI SU ISTAT, SITA RICERCA; MOBIMPRESE, INDAGINI INTERNE; *ELAB. SMI SU STIME LIUC

| economiasolidale |

L’INDUSTRIA ITALIANA DEL TESSILE-MODA: PRECONSUNTIVI 2012 [milioni di euro correnti] Fatturato

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012*

54.408

55.947

54.718

46.312

49.660

52.768

50.446

1,5

2,8

-2,2

-15,4

7,2

6,3

-4,4

27.603

28.199

27.586

22.243

24.604

26.911

27.099

Var. % Esportazioni

Var. % Importazioni

4,3

2,2

-2,2

-19,4

10,6

9,4

0,7

17.484

17.949

17.669

15.856

18.566

20.342

18.857

Var. % Saldo commerciale

12,5

2,7

-1,6

-10,3

17,1

9,6

-7,3

10.119

10.249

9.917

6.387

6.039

6.569

8.242

Var. % Consumo apparente

-7,4

1,3

-3,2

-35,6

-5,4

8,8

25,5

29.517

30.331

29.552

26.593

28.807

29.670

26.688

Var. % Aziende

Addetti (migliaia)

2,3

2,8

-2,6

-10,0

8,3

3,0

-10,0

59.750

58.056

56.610

54.493

53.086

51.873

50.576

-2,8

-2,5

-3,7

-2,6

-2,3

-2,3

-2,5

516,7

513,0

508,2

482,3

458,6

446,9

430,8

-1,6

-0,7

-0,9

-5,1

-4,9

-2,6

-3,6

Var. % Indicatori strutturali (%)

Export/Fatturato

50,7

50,4

50,4

48,0

49,5

51,0

53,7

Propensione all’import (su Fatt.)

39,5

39,3

39,4

39,7

42,6

44,0

44,7

TREND CONSUMI INTERNI 115

110

105

100

95

90

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Abbigliamento

I PRIMI PAESI CLIENTI DELLA MODA ITALIANA [gennaio-settembre 2011, milioni di euro e variazioni su stesso periodo 2010] TESSILE rank

paese

ABBIGLIAMENTO

mln euro

var.

paese

mln euro

var.

1 Germania

916,5

14,5% Francia

1.639,2

9,5%

2 Francia

641,0

9,9% Germania

1.251,4

15,0%

3 Romania

568,0

27,0% Svizzera

960,8

20,5%

4 Spagna

392,2

-5,3% Russia

883,6

19,0%

5 Tunisia

346,4

0,6% Spagna

827,4

4,8%

6 Hong Kong

327,7

4,8% Stati Uniti

784,3

11,9%

7 Regno Unito

294,2

11,4% Regno Unito

756,0

10,9%

8 Turchia

275,9

15,8% Hong Kong

615,5

38,3%

9 Stati Uniti 10 Cina | 42 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

251,6

9,2% Giappone

533,0

13,4%

230,0

17,2% Paesi Bassi

409,0

12,5%

sitore, sotto anonimato. «Ha sempre ordinato solo il campionario senza fare alcun ordine di produzione. Mi è venuto il sospetto che acquistassero il materiale di campionario e poi facessero fare la produzione all’estero. E loro mi hanno risposto quasi stupiti: “Certo che facciamo così. È così che gira il mondo”». «Vi racconto questa», dice un suo collega. «Mesi fa l’azienda X (noto marchio di moda giovane, ndr) scelse un nostro tessuto e ci ordinò le pezze di campionario. Al momento della spedizione ci informò che dovevano essere fatturate a un confezionista portoghese. Risultato: l’ordine di produzione non ci è mai arrivato. Il confezionista non ci ha mai pagato la campionatura (2.400 euro). L’azienda X se ne è lavata le mani, dicendo che dovevamo vedercela con i portoghesi». «Una volta il mio lavoro mi piaceva», ci racconta un altro produttore. «Costruire nuovi tessuti, cercare fibre interessanti, finissaggi particolari. Ora sono disgustato da questo schifo che mi si ripropone tutti i giorni. Tutti parlano della scorrettezza dei cinesi. Ma i più vergognosi siamo noi italiani con questi comportamenti scorretti». «Forse sono uno zombie senza saperlo», ci dice invece Simona Pesaro, da vent’anni nel settore, titolare della Torcitura Padana, azienda con sede vicino a Pavia. «Il settore è stravolto rispetto a quando ho iniziato e ha già perso interi pezzi di filiera. Ha chiuso gran parte delle aziende della fase di filatura».

I fatturati tengono Ma le aziende spariscono Racconti assurdi, visto che, come ricorda Gianfranco Di Natale, direttore generale di Sistema moda Italia (Smi), l’associazione più rappresentativa della filiera del tessile-moda, «l’Italia da sola fa il 25% del fatturato di tutta Europa ed è l’unica filiera del


| economiasolidale |

Nelle due foto a lato: due impianti dell’azienda Torcitura Padana di Pieve Porto Morone (PV)

tessile rimasta. Le altre sono tutte morte». I freddi numeri faticano a fotografare queste realtà: dal 2006 al 2012 il fatturato globale del settore è diminuito dell’8%, le esportazioni, come le importazioni sono sostanzialmente stabili (rispettivamente 2% e +7%), con l’estero che però incide sempre più sui ricavi delle aziende (i consumi interni sono infatti scesi del 10%). E allora per capire meglio il trend bisogna considerare il numero di addetti e di aziende della filiera, le due voci che hanno subito la maggiore contrazione: meno 17% ciascuna. «Temo che queste diminuzioni siano irrecuperabili», osserva Aurora Magni, docente di Tecnologie e management per il settore tessile e moda all’università Carlo Cattaneo di Milano. «I dati globali appaiono migliori di quello che sono perché drogati dai guadagni enormi delle imprese finali. I principali marchi sono riusciti a farsi sopravvalutare indipendentemente dalla qualità dei loro prodotti». Concorda Simona Pesaro: «Ci sono studi che dimostrano come un jeans di alta gamma, venduto a 300 euro in negozio veniva pagato dall’azienda 11 euro ai terzisti di Prato. Eppure gli ordini sono stati spostati all’estero perché quel prezzo era comunque troppo alto». Tesi respinta da Di Natale di Smi: «Ormai è difficile vendere prodotti a prezzi alti solo perché c’è un logo cucito sopra. I consumatori sono cambiati, anche all’estero».

Energia alle stelle Etichette paradossali A mettere tutti d’accordo sono le preoccupazioni per i costi aziendali. A partire dal prezzo dell’energia. «Abbiamo costi doppi rispetto alla media Ue eppure crescono. Io ho le stesse bollette di anni fa, con le macchine ferme per molto più tempo», dichiara Simona Pesaro. I dati dell’Autorità per l’Energia confermano:

negli ultimi otto anni il costo dell’elettricità è salito del 46%. Un balzello insostenibile per un settore già in ginocchio. A peggiorare la situazione, le norme (europee) sull’etichettatura. Per nulla rigorose, secondo le piccole imprese del settore. Tanto da non rendere obbligatorio indicare la provenienza del prodotto. E da permettere di definire “made in Italy” abiti realizzati con tessuti esteri e che in Italia subiscono solo “l’ultimo passaggio sostanziale”. Cosa vuol dire? «È made in Italy un tessuto intrecciato in Italia con fibre estere. O una camicia cucita e confezionata nel nostro Paese partendo da pezzi tagliati altrove», spiega l’avvocato Filippo Laviani di Sistema Moda Italia. Da tempo le imprese

della filiera chiedono una normativa più rigida. E, in attesa del sogno di avere un’etichetta che certifichi il vero Made in Italy al 100%, i piccoli del settore (che, pure nell’emergenza, non riescono a unirsi per fare massa critica) propongono di poter definire “italiani” solo i prodotti per i quali due delle quattro fasi principali (filatura, tessitura, finissaggio e confezionamento) siano realizzate in Italia. Scettici i vertici di Smi: «Non è un’etichetta a rendere più competitiva un’impresa», commenta Di Natale. «L’attuale normativa esiste da trent’anni. E fare un prodotto totalmente italiano avrebbe costi fuori mercato». Si attendono sviluppi (con i Paesi del Nord Europa che frenano eventuali nuove regole comunitarie). E, nel frattempo, si continua a chiamare made in Italy un abito confezionato con filati e tessuti cinesi, confezionato in Italia e riesportato. Vogliamo indovinare a chi conviene una simile triangolazione? 

IL MADE IN ITALY CERCATELO IN SVIZZERA Volete visitare i centri di produzione dei maggiori marchi della moda italiana? Munitevi di passaporto e andate in Svizzera. Può sembrare un paradosso. Sicuramente è triste. Ma è una realtà che da qualche anno sta crescendo a dismisura. Il primo ad aprire l’emigrazione del fashion è stato il gruppo Zegna (Paolo, nipote dello storico Ermenegildo, è presidente dell’azienda oltre che vicepresidente di Confindustria, con delega all’internazionalizzazione), che nel 1976 aprì un sito di produzione a Mendrisio nel Canton Ticino. Negli ultimi anni più o meno la stessa scelta l’hanno effettuata in tanti. Basta fare la ventina di chilometri dell’autostrada tra Chiasso e il Gottardo per rendersene conto. L’elenco pare una sfilata di moda: Armani, Guess, Gucci, Prada, Versace. Alcuni, come l’americana VF proprietaria del marchio The North Face, lo fanno per sfruttare l’esenzione fiscale sugli utili che molti Comuni garantiscono per dieci anni se la metà degli assunti è residente in loco. Altri preferiscono avere le mani libere sulle assunzioni, “accontentandosi” degli altri vantaggi: «In Ticino ti stendono tappeti rossi per costruire magazzini, centri logistici e siti produttivi» commenta Aurora Magni, docente della Liuc di Milano. «Non ci sono lungaggini burocratiche, il lavoro è più flessibile, l’energia costa meno». Stefano Rizzi, direttore della divisione Economia del Ticino spiega: «Le esenzioni fiscali restano l’eccezione. Noi riusciamo ad attrarre queste aziende con le condizioni generali favorevoli. Tasse basse, pubblica amministrazione efficiente, servizi di qualità, personale qualificato nel campo della moda, della gestione e della logistica». E poi la ciliegina sulla torta: la Svizzera è infatti una zona franca nel cuore della Ue per le merci extracomunitarie. Un gruppo può quindi farsi produrre vestiti, scarpe, borse in Estremo Oriente, farli entrare in Svizzera evitando tasse e dogane e smistarli poi in tutte le boutique del mondo. Profitti alle stelle per i grandi gruppi. De profundis per le filiere locali.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 43 |


| economiasolidale |

Vanità o sanità: questo è il dilemma di Emanuele Isonio

L’associazione Tessile e Salute: il 7% dei ricoveri dermatologici è causato dalle sostanze chimiche presenti negli abiti. Greenpeace denuncia l’uso di composti che danneggiano il sistema ormonale. Ma per ora i regolamenti europei vincolano solo chi produce nella Ue a chimica pare ormai insinuata stabilmente nei nostri guardaroba. E voler seguire le mode in fatto di abbigliamento rischia di rivelarsi un pericolo per la nostra salute. A meno di non rassegnarsi a convivere con alchifenoli, ftalati, clorobenzeni e composti vari.

L

La chimica e i grandi marchi L’ultima denuncia, in ordine di tempo, arriva da Greenpeace, nel rapporto Toxic Threads. I tecnici dell’associazione hanno acquistato in giro per il mondo 141 capi d’abbigliamento realizzati da venti tra i marchi di moda più diffusi (per l’Italia: Benetton, Armani e Diesel). L’indagine ha rivelato che quattro capi erano contaminati da livelli elevati di ftalati tossici e altri due presentavano tracce di un’ammina cancerogena, derivante dai coloranti. L’aspetto più preoccupante è però un altro: tutte le marche oggetto dello studio, in uno o più articoli (100% nei capi Only e Vancl, 88% per Calvin Klein, il 67% per Tommy Hilfiger, 56% per Giorgio Armani, 33% per gli altri due italiani), facevano uso dei cosiddetti Npe

La chimica nell’armadio I risultati di alcune delle aziende esaminate dall’associazione ambientalista

(composti nonilfenoloetossilati), sostanze tensioattive usate per favorire l’eliminazione dello sporco e la bagnabilità dei tessuti. Il loro impatto diretto sull’uomo non è stato ancora evidenziato con certezza ed è oggetto di studio da parte della commissione Ecotossicità della Ue. Ma i danni indiretti sono già ben documentati: è la stessa Unione europea a denunciare pericoli significativi per terreno, ambiente acquatico e organismi più complessi. «Il rischio principale – spiegano i tecnici di Greenpeace – è quello di un avvelenamento secondario, dovuto all’accumulo tramite la catena alimentare». In pratica, queste sostanze, sia durante le fasi di produzione, sia durante i lavaggi in lavatrice finiscono nei fiumi e nei mari, andando a contaminare la fauna marina, per tornare a noi mentre mangiamo. Interferendo così con l’attività ormonale. Con conseguenze negative sullo sviluppo sessuale, sulla fertilità e sul Dna dei linfociti umani.

I paradossi del Reach Ma quelle prese in esame da Greenpeace sono solo tre delle decine di sostanze pericolose usate nell’abbigliamento. Informazioni ancora più preoccupanti arrivano dall’associazione Tessile e Salute, che da anni raccoglie dati, in collaborazione con una decina di ospedali in giro per l’Italia, sull’impatto delle sostanze chimiche sul corpo umano. «Il legame tra moda e salute è innegabile», commenta Mauro Rossetti, direttore dell’associazione. «Il 78% delle patologie dermatologiche che a

Capi positivi ai test: 100%

Capi positivi ai test: 88%

Capi positivi ai test: 83%

Capi positivi ai test: 78%

Capi positivi ai test: 67%

Le due aziende sono ai vertici della classifica del rapporto Greenpeace. In tutti i loro capi (4 su 4 per ciascuno dei due marchi) sono stati rilevati nonilfenoli etossilati (Npe).

Secondo posto in classifica per l’azienda newyorkese, celebre per le sue campagne pubblicitarie in bianco e nero. Fra i suoi vestiti però il nero prevale sul bianco: 7 su 8 contenevano Npe, composti tossici che alterano il sistema ormonale umano.

I vestiti dell’azienda danese con sede in Germania si collocano ai primi posti della classifica con 5 capi positivi sui 6 analizzati. A una sua t-shirt prodotta e acquistata in Messico va il “premio” per i più alti livelli di Npe rilevati (45mila mg/kg).

7 articoli su 9 contaminati. È il risultato del marchio californiano. In tutti i casi, compresi una t-shirt e un impermeabile per bambini, presenza di nonilfenoli etossilati.

Il prezzo di solito piuttosto elevato dei suoi prodotti non mette al riparo dalla presenza di sostanze tossiche. 6 su 9 presentavano Npe. E due capi realizzati in Bangladesh e Filippine contenevano anche dosi importanti di ftalati, Dehp e Dinp.

| 44 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


| economiasolidale |

BIOPOLIMERI, TESSUTI TECNICI E RICICLATI: CHI SI SALVA DALLA CRISI Tre sprazzi di luce tra i nuvoloni che dominano sul tessile italiano. Tessili tecnici, biopolimeri e tessili riciclati: dal panorama negativo per il settore in Italia, si salva chi ha scommesso su questi tre settori. Interessanti anche per la possibilità di crearci attorno un nuovo tipo di filiera. Il tessile tecnico riunisce prodotti destinati ai settori più disparati: ingegneria edile, costruzioni, ospedali, industria automobilistica, imballaggi, sport. «Il problema più grande di queste produzioni – spiega Aurora Magni, docente alla Liuc di Milano – è la dipendenza dalla congiuntura di comparti che non puoi governare. Se il mondo dell’auto va male, la recessione si scaglia anche su chi produce fibre per quel settore». Ma intanto i numeri sono promettenti. Il mercato mondiale è di 133 miliardi di dollari. Da battere c’è la concorrenza asiatica, che detiene il 45% del mercato. Altrettanto interessante è lo sviluppo dei biopolimeri, provenienti dal recupero degli scarti in agricoltura. Un vantaggio triplice, in questo caso: aprirebbe nuove strade per il mondo del tessile,

livello nazionale hanno richiesto un ricovero sono connesse con le sostanze chimiche rilasciate da abiti e calzature. E i casi sono in aumento». In più: in un terzo dei casi analizzati, i vestiti non hanno superato il test del Ph. E i laboratori che hanno analizzato a campione calzature provenienti da Paesi extraeuropei hanno trovato nel 50% dei casi presenza di cromo esavalente, sostanza altamente cancerogena (ricordate Erin Brockovich?). Un’emergenza anche economica, resa più acuta dall’aumento dei capi d’importazione. «Non tutto ciò che viene importato è pericoloso – precisa Rossetti – ma i prodotti extra Ue hanno spesso minori con-

darebbe nuovo valore a terreni abbandonati e ridurrebbe gli scarti di altre industrie: «Si potrebbe costruire una filiera integrata all’insegna dell’innovazione e della sostenibilità. Forse l’unico modo per resistere sui mercati mondiali» osserva Magni. C’è poi il caso dei tessuti riciclati, derivanti dal filato degli abiti usati. «Nel caso delle fibre sintetiche il riciclo può potenzialmente durare in eterno. E si stanno sviluppando sistemi molto interessanti. Come ad esempio fibre ottenute dalle reti da pesca abbandonate sui fondali marini». Un fenomeno in crescita. Anche grazie allo star system. A Hollywood molti hanno sposato questa causa. Fra tutti, un’italiana: la produttrice cinematografica Livia Giuggioli moglie dell’attore premio Oscar, Colin Firth. Il suo sogno si chiama Green Carpet Challenge. Lei stessa lo spiega così: «ho proposto ad alcuni stilisti di realizzare per ogni appuntamento da tappeto rosso, almeno un vestito per una star ideato e prodotto secondo le linee guida dell’Eco-Age. L’obiettivo finale è spingere la Ue a introdurre leggi sulla provenienza dei tessuti». Em.Is.

trolli». Colpa anche delle normative europee che pongono vincoli per le imprese comunitarie, ma, paradossalmente, permettono di vendere in Europa capi trattati con sostanze chimiche vietate. Il regolamento in questione è il Reach, nato con l’intento di proteggere la salute dei cittadini e di stimolare l’innovazione dell’industria chimica europea. «Però nulla impone a chi produce altrove. Per cui, per come è scritto attualmente, prevede requisiti talmente ampi che si può importare qualsiasi cosa». Un doppio danno: «I consumatori non sono tutelati. E la nostra filiera, l’unica ancora in piedi in Europa, rischia di essere ulteriormente penalizzata».

Dall’impasse si potrebbe uscire varando dopo anni di richieste un osservatorio per il tessile che possa monitorare ciò che circola sul mercato, innalzare i requisiti di legge e proporre integrazioni al regolamento Reach. Obiettivo finale: «chiarire – spiega Rossetti – che se una sostanza non si può usare in Europa, non può esserci nemmeno nei capi importati». Intento nobile, che incontra l’entusiasmo dei piccoli produttori della filiera del tessile, i più penalizzati dalla concorrenza estera. Ma che potrebbe rimanere utopia. Da abbattere c’è il muro di gomma dei grandi gruppi del fashion tricolore. Che delocalizzano in nome del profitto. 

Capi positivi ai test: 64%

Capi positivi ai test: 60%

Capi positivi ai test: 56%

Capi positivi ai test: 33%

Capi positivi ai test: 33%

Anche sette degli 11 capi presi in esame dello storico marchio di jeans statunitense sono caduti nella rete di Greenpeace. Tutti contenevano tracce di Npe.

Fra i sei abiti contenenti tracce di Npe del marchio spagnolo, la palma per le dosi maggiori va a una giacca per bambini, prodotta in Cina. Gli altri provenivano da India, Bangladesh, Vietnam e Pakistan.

Cinque dei nove capi analizzati presentavano Npe. E in un caso (una t-shirt di Emporio Armani prodotta in Turchia) sono stati rilevati alti livelli di ftalati tossici, Dehp e Bbp, che possono danneggiare fertilità e feti.

La percentuale di capi “contaminati” da Npe è più bassa di molte altre aziende (3 su 9), ma i prodotti in questione erano un giubbotto e due t-shirt per bambini. In uno dei tre casi erano presenti anche tracce di ftalati tossici.

Un jeans da uomo prodotto in Marocco e due t-shirt prodotte in Cina. Sono i tre prodotti dell’azienda italiana fondata dal padovano Renzo Rosso, che presentavano nonilfenoli etossilati.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 45 |


| economiasolidale |

Quando l’etica fa capolino nel tessile di Valentina Neri

Una carrellata di storie di chi ha scelto di puntare sulla sostenibilità nell’industria del tessile e della moda. Storie a lieto fine, anzi che segnano un lieto inizio UNA RETE PER IL TESSILE SOSTENIBILE Un network di specialisti (docenti universitari, manager, giornalisti, imprenditori) che mettono in comune le proprie competenze ed esperienze per promuovere la sostenibilità nell’industria tessile e della moda. Si può descrivere così, in poche parole, il progetto di Sustainability-Lab, che trova forma in una piattaforma digitale (www.sustainability-lab.net) progettata da Blumine, che ormai conta più di 500 utenti registrati. Abbiamo incontrato Sustainability-Lab e la sua cofondatrice, la professoressa Aurora Magni, a Milano Unica, il Salone italiano del tessile che si è tenuto a febbraio. Una manifestazione in cui la sostenibilità ha avuto un suo spazio: tra i tanti espositori che affollavano i padiglioni, Sustainability-Lab ne ha infatti selezionati alcuni che si distinguono nelle pratiche etiche e solidali, nella tutela degli animali, nella tracciabilità della filiera, nella gestione dei rifiuti, dell’acqua, delle emissioni e altro ancora. E tutti – ci tiene a precisare Aurora Magni – fanno ben più di quello che è loro richiesto dalla legge. È il caso di Canepa (www.canepa.it, nella foto), un’azienda familiare fondata nel Comasco nel 1966, che negli anni si è fatta strada fino a gestire tre brand di prodotto e quasi un migliaio di dipendenti. Nel suo campo, vale a dire la produzione di sciarpe, scialli e capi in fibre pregiate, i problemi in termini di impatto ambientale si toccano con mano. Fibre come il cashmere, infatti, sono molto sottili e tendono a rompersi. Ciò significa che di solito hanno bisogno di un sostegno chimico nella lavorazione che ha un pesante impatto a livello di consumo idrico, dispendio energetico e dispersione di acque di scarico inquinate. La campagna di Canepa, non per niente, ha preso il nome di Savethewater. La prima soluzione trovata è l’imbozzimatura, un particolare procedimento di rinforzo della tessitura che ha portato a una riduzione dell’80% degli inquinanti e un -40% nel dispendio di acqua ed energia. Il passo successivo invece si chiama Kitotex ed è un sistema di preparazione alla tessitura

| 46 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

dei filati che sfrutta il kitosano, un materiale ampiamente disponibile, economico e biodegradabile. In questi mesi siamo nel pieno degli studi e dei test di laboratorio, portati avanti nel centro di ricerca pugliese di Canepa, in collaborazione con il Cnr e grazie al sostegno della Regione. A settembre probabilmente arriveranno i prodotti sviluppati con il nuovo brevetto. Ma, quando si parla di sostenibilità in un settore composito come quello dell’abbigliamento, bisogna prendere in esame anche i più piccoli particolari. Lo dimostra la storia della Lanfranchi, un’azienda dalla storia più che centenaria che si dedica alle cerniere lampo. Per tutelare l’ambiente la Lanfranchi è intervenuta sul ciclo di produzione, con un innovativo impianto di galvanica (un procedimento a cui viene sottoposto il metallo, ndr) che ha raddoppiato la capacità produttiva tagliando di circa un terzo il consumo idrico e l’acqua scaricata nelle fognature. Quando si lavora il metallo inoltre bisogna fare i conti con lo sfrido, vale a dire con tutti quei piccoli frammenti che ci si trova necessariamente a scartare e che arrivano a rappresentare addirittura il 30-40% del totale ma non possono essere usati a loro volta per fabbricare le zip, perché non soddisfano determinati criteri di qualità. La Lanfranchi allora si è accordata con i fornitori per recuperare tutto questo metallo, ricondizionarlo e usarlo per altri prodotti. «La normativa di oggi verosimilmente è destinata a diventare più esigente fra tre o quattro anni – spiega il direttore commerciale Alessandro Bordegari – quindi, per restare competitivi, è indispensabile proiettarsi al futuro. La cosa interessante è che un processo come questo, se ben studiato, non è un costo extra ma, al contrario, ottimizza le risorse».


| economiasolidale |

LA SOSTENIBILITÀ CONQUISTA L’ALTA MODA Nell’universo del tessile sostenibile c’è un’esperienza che ha varcato le soglie dei templi dell’alta moda, senza dimenticare le sue origini. Parliamo di Cangiari, “cambiare” in calabrese (www.cangiari.it). Promossa da Goel (www.goel.coop), consorzio che riunisce numerose cooperative della Locride e della piana di Gioia Tauro, la griffe usa materiali biologici e affida la tessitura a donne della Locride che hanno recuperato la tradizione del telaio a mano. «Si sono rivolte alle anziane magistre che erano in grado di programmare i duemila fili del telaio calabrese», racconta Vincenzo Linarello, fondatore di Goel. «È una complessa procedura matematica che le magistre, spesso analfabete, ricordavano attraverso delle cantilene. Le socie della cooperativa hanno registrato decine di nenie e le hanno trasposte su una matrice ricreando i primi modelli basati sull’antica tradizione grecanica e bizantina». Il problema è che per un metro di stoffa ci vogliono da tre a sei ore di lavoro. La scelta di posizionarsi nella moda di fascia alta

LA MODA GREEN CHE AFFRONTA LA CRISI Produrre capi d’abbigliamento ambientalmente sostenibile non è facile: i costi lievitano e la concorrenza è spietata. Ma c’è chi ha accettato la sfida. E sono esperienze per tutti i gusti. A partire dai jeans. Quelli di Ecogeco (www.ecogeco.it) sono in cotone bio, tinto con indaco vegetale e lavati solo con acqua e pietra pomice. Se invece si cerca un gilet o una borsa in feltro c’è Gaia di Lana (www.gaiadilana.com): l’unica materia prima ammessa è la lana biologica che proviene dai piccoli allevamenti familiari della provincia di Biella. Baci di Trama (www.baciditrama.it), invece, propone capi in canapa, cotone bio, fibra di bambù o lana organica. Ma questa strada ha un costo. Non lo nega Vania Silvestri, fondatrice di Kyo Cashmere (www.kyocashmere.it), azienda padovana che usa solo cotone bio e lana di yak, un animale alternativo alla più blasonata capra da cashmere, oggetto di un pesante sfruttamento. Le tinture sono tutte Gots (marchio internazionale del tessile bio) e per il lavaggio si è scelto un processo che riduce al minimo il consumo di acqua e non riversa il solvente in falda. Una scelta, che tuttavia, spiega, «non è valorizzata nei circuiti di marketing della moda».

è perciò obbligata se si vuole garantire alle lavoratrici una remunerazione in linea con gli standard e le tutele sindacali del nostro Paese. Ecco perché i capi di Cangiari, raffinati e di ottima fattura, si trovano solo nelle boutique più prestigiose. Ma, verrebbe da chiedersi, sono i luoghi più adatti per proporre un contenuto etico? «In Italia – spiega Linarello – il pubblico capisce il nostro messaggio e lo considera un valore aggiunto. I canali commerciali, tuttavia, non sembrano ancora pronti a valorizzarne l’aspetto etico». Aver messo in connessione due mondi distanti come l’alta moda e la cooperazione sociale, comunque, ha i suoi vantaggi. Innanzitutto quello di dare lustro all’immagine della Calabria. E, non da ultimo, quello di intercettare un pubblico che spesso, spiega Linarello, «afferisce a un mondo di responsabilità politiche ed economiche di alto livello». Potenzialmente, un valido alleato nell’azione di contrasto alle mafie portata avanti da questo e altri progetti di Goel.

TESSERE LA TRAMA DI UNA SECONDA CHANCE A Milano, nelle sezioni femminili delle carceri di San Vittore e Bollate, da vent’anni la coop Alice gestisce laboratori che producono abiti di scena per il Teatro alla Scala e il Regio di Parma, ma anche le toghe per i magistrati milanesi e una linea di abiti da sposa, oltre alle collezioni in vendita nella boutique nel centro di Milano. Un’esperienza che ha fatto da apripista per la cooperativa Opera in Fiore che, oltre alla coltivazione di fiori e piante all’interno del carcere milanese di Opera, dallo scorso anno ha preso la guida di “Borseggi” (www.borseggi.it), un piccolo laboratorio in cui detenuti ed ex detenuti producono borse in stoffa e seta dai temi floreali. All’altro capo d’Italia, invece, un gruppo di detenuti della casa circondariale di Enna grazie alla cooperativa FiloDritto (www.filodritto.com) ha scelto di recuperare la lavorazione tradizionale del feltro. La lana, cardata e lavorata a mano con acqua e sapone di Marsiglia, viene colorata con tinte naturali. E alle lane autoctone si aggiungono cashmere e cammello. Il risultato? Coppole, coperte, giacche, sciarpe, e tessuti per arredo, che fanno il giro dello Stivale grazie a Libera e altri soggetti che hanno “adottato” l’esperienza per farla uscire dai confini dell’isola.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 47 |


| economiasolidale | l’italia che produce |

Confidi a rischio bolla Allarme per le piccole imprese (e non solo) di Emanuele Isonio

nerale. Se gli effetti della crisi dovessero ribaltarsi sulle nostre strutture si produrrebbero conseguenze dirompenti sulle imprese di minori dimensioni per le quali la garanzia mutualistica è fondamentale per l’accesso al credito». In pratica una reazione a catena che potrebbe dare il colpo di grazia al sistema delle piccole e medie imprese (pmi) già provato dalla recessione. «Ormai i Confidi sono cruciali per il credito alle imprese e negli ultimi 3-4 anni hanno toccato livelli di esposizione enormi e il loro patrimonio non è più sufficiente a coprire altri prestiti», concorda Alessandro Messina, economista e capo dell’ufficio Relazioni con le imprese di Federcasse. In effetti i 610 Confidi censiti dall’ultimo rapporto Bankitalia hanno eroga-

arlare di rischio default, almeno per il momento, è forse eccessivo. Ma, se prevenire è meglio che curare, la situazione dei Confidi è una di quelle da tenere sotto controllo per evitare di dover poi raccontare l’ennesima bolla dell’attuale tempesta finanziaria. L’apprensione ormai serpeggia, nemmeno tanto velata, tra gli addetti ai lavori.

P

Il rischio di una reazione a catena

GARANZIE DEI CONFIDI ARTIGIANI AL CENTRO È BOOM [valori percentuali]

| 48 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

2006

33,5

30,0 25,6

2010

15,7 2009

17,5 20,3

18,2

19,7

2008

20,1

20,7

23,0

2007

17,7

10

17,7

15

14,8

20

18,2

21,8

25

16,6

30

14,3 15,0

14.401

Nord Centro Sud Media

13,7

11.475

9.605

9.105

8.494

9.098

7.521

6.526

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

35

16,4 15,0 15,8

0

4.409

2.500

3.715

5.000

5.973

7.500

8.098

10.000

10.850

12.500

13.284

15.000

14.772

FINANZIAMENTI GARANTITI +490% IN 15 ANNI

3.025

FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI

«Per la prima volta – ammette Fabio Petri, presidente di Fedart Fidi, la più grande federazione delle strutture di garanzia in Europa, durante la presentazione del rapporto 2012 sullo stato dei Confidi dell’artigianato – il nostro sistema avverte su di sé i segnali della situazione di difficoltà ge-

to garanzie per 24 miliardi. «Se dovesse esplodere questa bolla sarebbe un nuovo problema in una situazione già delicata». Ma quanto è grave la salute dei Confidi? Per capirlo, basta dare un’occhiata allo stato dei consorzi degli artigiani. I più grandi fra quelli italiani e con i dati più aggiornati. I finanziamenti garantiti da Fedart sono cresciuti in modo esponenziale: dai 3 miliardi del 1996 ai 9 del 2005 fino ai 14,8 del 2011. 330 mila operazioni finanziarie in essere per un importo medio di 45 mila euro. Una crescita del 53% negli ultimi cinque anni e del 490% in 15 anni. La dotazione patrimoniale dei Confidi è però rimasta sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente: 875 milioni. C’è infine un altro fattore da considerare: il tasso delle sofferenze. Elemento essenziale per prevedere il futuro. E le notizie non sono buone. Perché la percentuale dei finanziamenti non rimborsati ha raggiunto a metà 2012 quota 6,9%. Appena due anni e mezzo prima era al 4,2%. Un da-

2011

FONTE: FONTE: RICERCA ANNUALE FEDART FIDI 16° EDIZIONE – 2012 - WWW.FEDARTFIDI.IT

La loro esposizione è quintuplicata in 15 anni e ha raggiunto il livello di guardia: 24 miliardi di euro. I prestiti in sofferenza aumentano. Ma la dotazione patrimoniale è ferma. Un problema non solo per il tessuto imprenditoriale ma per l’intero settore del credito


| economiasolidale |

Un alleato per il sistema bancario

È una bella storia quella dei Confidi, nati per agevolare le imprese nell’accesso al credito a breve, medio e lungo termine. Le loro origini affondano nel secondo dopoguerra e nelle tradizioni degli strumenti mutualistici: le prime cooperative di garanzia vengono costituite nel 1956 per aiutare le piccole imprese a ottenere prestiti. Il sistema è piuttosto semplice: le imprese associate versano una quota per poter entrare nel circuito. Quando hanno bisogno di un prestito, il Confidi funge da garante con la banca e l’impresa gli verserà un tasso per tale servizio. Il suo patrimonio dipende dalle quote versate dalle aziende e da contributi pubblici. In pochi anni hanno visto la luce i Confidi degli artigiani, poi del commercio, dell’industria e, in misura minore, dell’agricoltura. Ma il loro ruolo non è utile solo per i piccoli imprenditori. Anche il sistema bancario ne trae vantaggio: se per le banche assegnare un rating alla rischiosità di un’azienda (e decidere quindi se erogare un finanziamento) significa applicare semplici modelli statistici, i Confidi usano parametri qualitativi, spesso grazie alla conoscenza diretta delle realtà aziendale. Le banche quindi hanno una migliore valutazione del merito creditizio, una riduzione del rischio finanziario e un reperimento di clienti già selezionati. Da quando in Europa è entrato in vigore l’accordo di Basilea 2, i Confidi hanno assunto un ruolo essenziale per classificare correttamente i clienti e il loro merito creditizio. A Basilea 2, ha fatto seguito la decisione di Bankitalia di obbligare i consorzi più grandi (con volumi di attività finanziaria superiore a 75 milioni di euro) a entrare nell’elenco degli intermediari finanziari, vigilati dalla stessa banca centrale.

efficienza la dinamica dei rapporti con le banche e gli enti locali. E ne potrebbe beneficiare il tessuto imprenditoriale locale». Idea interessante, ma forse estrema. «Un solo Confidi per regione rischia di creare più problemi che vantaggi, soprattutto in termini di riduzione della concorrenza», osserva Nafissi. «Non c’è dubbio – commenta però Petri – che le fusioni vadano incentivate sui territori dove i Confidi hanno dimensioni ancora troppo contenute rispetto alle esigenze delle aziende». 

per agevolare il credito alle imprese ma, di fatto, diventato un ulteriore aiuto per le banche. «L’attività sociale dei Confidi – osserva Messina – merita di essere valorizzata. E le proposte di Fedart sono valide». Al tempo stesso, la Banca d’Italia invita il sistema dei consorzi a una riorganizzazione: «In linea teorica – osserva Corrado Baldinelli, fino a dicembre capo del Servizio di supervisione degli intermediari specializzati di Via Nazionale – non pare irrealistico immaginare la presenza di un solo Confidi per regione. Ne guadagnerebbe in

CHI SOFFRE DI PIÙ [dati aggiornati al 31 dicembre 2011]

SOFFERENZE IL TREND DEL TASSO LORDO 15

20%

16%

Imprese artigiane 12

8,7

15,8%

11,9

Imprese garantite dai Confidi

Imprese artigiane media: 10,9%

10,9

Imprese garantite dai Confidi media: 6,3%

9,4%

7,4

0 Nord

Centro

Sud

Nord

Centro

Sud

2007

2008

2009

4,6

2006

4,2

2005

4,8

3

3,6

6,0%

4%

3,7

6,1%

6,8%

6,3

6

8%

0%

5,7

6,3

6,7

6,7

9

11,7%

6,9

12%

3,7

FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI

«La situazione – aggiunge Leonardo Nafissi, direttore di Fedart Fidi – è preoccupante anche perché alcuni istituti bancari scaricano sui Confidi i crediti più rischiosi mentre stanno evitando l’intermediazione se rappresenta un ostacolo alle loro politiche commerciali». Quindi: per i casi rischiosi sfruttano i Confidi, per gli altri e quando possono pensare di spuntare condizioni migliori (ad esempio con le microimprese che non hanno poteri contrattuali) si muovono autonomamente. Correre ai ripari prima che sia troppo tardi non salverebbe solo la tradizione dei Confidi, ma non priverebbe il sistema di uno strumento che ha dimostrato di funzionare e di assicurare vantaggi a tutto il mondo del credito. Una funzione pubblica che i vertici dei vari consorzi chiedono venga tutelata. A partire dalla possibilità di accesso al Fondo centrale di garanzia, uno strumento pubblico attivo dal 2000

UNA STORIA DI CREDITO E MUTUALITÀ

2010

2011

Giugno 2012

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 49 |

FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI

to non molto diverso rispetto a quello del totale dei Confidi italiani in cui il rapporto tra crediti deteriorati e garanzie è al 6,3% (era al 4,7% nel 2010). E poco importa che, nello stesso periodo, le sofferenze del resto delle imprese artigiane avesse fatto segnare tassi doppi (dal 7,4 del 2009 all’11,6% di giugno scorso): «La dotazione patrimoniale costante, unita a una crescita dei volumi garantiti e delle sofferenze, determina un complessivo indebolimento del sistema, che necessita sempre più di interventi di capitalizzazione» osserva Petri.


| economiasolidale | sostegno pubblico |

Se lo Stato (francese) tende la mano alle Pmi di Andrea Barolini

Da otto anni in Francia è stato introdotto un istituto, Oséo, che si occupa unicamente di sostenere le piccole e medie imprese. Al 30 giugno dello scorso anno, le erogazioni complessive erano già arrivate a 31,3 miliardi di euro n Italia, secondo l’Istat, operano più di 63,5 imprese ogni mille abitanti: un valore stabile nel tempo e tra i più elevati d’Europa. La grandissima maggioranza di tali realtà è costituita da aziende di piccole e medie dimensioni. E tra queste, in particolare, le realtà “micro” – con meno di 10 addetti – sono più di 4,2 milioni, rappresentano il 95% del totale e occupano il 47% della forza lavoro complessiva del Paese, pari a 17 milioni di persone. Un altro 20% (circa 3,5 milioni) lavora nelle imprese considerate di piccole dimensioni (da 10 a 49 addetti) e il 12,2 % (oltre 2,1 milioni) in quelle di taglia media (da 50 a 249 addetti). Soltanto 3.707 imprese (lo 0,08%) impiegano 250 addetti e più (assorbendo, tuttavia, il 21% dell’occupazione complessiva, ovvero circa 3,5 milioni di lavoratori). È del tutto evidente, perciò, che le Pmi costituiscono la spina dorsale dell’econo-

I

Oséo propone una vasta serie di strumenti finanziari per sostenere le imprese, con particolare attenzione alle realtà innovatrici mia italiana. Eppure lo Stato spesso non è al loro fianco: in molti casi il supporto ai piccoli imprenditori – sia in termini di aiuto in periodo di difficoltà, sia in termini di investimenti – è lasciato ad iniziative temporanee, locali e insufficienti. Al contrario, altri Paesi hanno optato per soluzioni più durature, che hanno dato prova di funzionare anche in tempo di crisi.

Un modello di finanziamento anticiclico In Francia, ad esempio, opera dal 2005 un’impresa pubblica, Oséo, che si occupa

proprio di finanziare le Pmi, con l’obiettivo di creare occupazione e crescita economica. Presente in modo capillare sul territorio transalpino (mille addetti in 37 direzioni regionali), la struttura rivendica un ruolo prettamente anticiclico: lo scopo è quello di far affluire finanziamenti alle imprese soprattutto in periodi di crisi, quando le banche chiudono i rubinetti e il giro d’affari si contrae. Oséo interviene tramite sovvenzioni, prestiti, anticipi e fornendo garanzie bancarie. O, ancora, tramite un “Contratto di sviluppo partecipativo”, che consiste nell’erogazione di un finanziamento – fino a un massimo di 3 milioni di euro, in funzione della singola situazione dell’impresa – per l’acquisto di beni mobiliari o immobiliari, per operare ristrutturazioni, per avviare programmi di formazione, per assumere nuovo personale o per sviluppare

OSÉO SI TRASFORMA IN BANCA PUBBLICA PER GLI INVESTIMENTI Lo scorso 17 ottobre, il governo francese ha deciso di creare una Banca pubblica per gli investimenti (Bpi), che ingloberà Oséo, il Fondo strategico di investimenti e la Cassa depositi e prestiti (il presidente di quest’ultima, Jean Pierre Jouyet, sarà il numero uno del nuovo istituto). In tal modo il presidente Hollande punta a seguire le orme del modello tedesco di banca pubblica, la Kfw, guardato con attenzione anche in Italia. L’obiettivo ultimo della manovra è di creare un supporto stabile ed efficace per le piccole e medie imprese, non solo in termini di finanziamenti per l’avvio di nuove attività, bensì anche per quanto riguarda gli investimenti necessari per il successivo sviluppo di tali realtà. Per raggiungere tali risultati, la Bpi sarà dotata di 42 miliardi di euro: 20 miliardi destinati ai prestiti, 10 per le garanzie, 10 per investimenti propri. Il sito web di Oséo | 50 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


l’azienda all’estero. Solo tramite tale strumento sono stati concessi, nei primi sei mesi del 2012, 330,6 milioni di euro alle Pmi francesi (su un totale di 2,18 miliardi di euro di nuove erogazioni).

Attenzione alle imprese innovatrici Per avere un’idea di quanto le Pmi francesi siano state, fino ad oggi, appoggiate ad Oséo basti considerare che le erogazioni complessive, a vario titolo, sono arrivate a toccare, il 30 giugno del 2012, i 31,3 miliardi di euro. Grazie a tali capitali, lo Stato francese – rivendicava Oséo nel rapporto Plan de Relance – aveva evitato già nel mese di ottobre del 2009 (dunque in piena crisi) il fallimento di 2.725 imprese e il ridimensionamento in termini occupazionali di 1.558 di esse (complessivamente le imprese aiutate in un anno di piena crisi erano state 5.297, che davano lavoro ad oltre 88 mila persone, vedi TABELLA ). Alla struttura pubblica, poi, è chiesta un’attenzione particolare per le imprese innovatrici. Si tratta delle cosiddette Cei (Création d’entreprises innovantes): a 8.215 di esse Oséo ha concesso 10.330 garanzie bancarie. Si tratta soprattutto di

L’IMPATTO DI OSÉO IN TEMPO DI CRISI (2009) Motivo dell’intervento

Imprese coinvolte

Forza lavoro impiegata

Rischio di fallimento

2.725

34.455

Rischio di contrazione occupazionale

1.558

37.820

Altro

1.014

15949

Totale

5.297

88.224

ORIGINE DEL SOSTEGNO PUBBLICO PER LE PMI INNOVATRICI IN FRANCIA Osèo Enti locali CIR (Credito per la ricerca) Sgravi fiscali per i giovani Incubatore d’imprese Concorso nazionale di aiuto alla creazione di imprese innovatrici (MESR) Commissione europea Polo di competitività Altro 0%

10%

20%

imprese che occupano tra i 10 e 199 dipendenti, attive in particolare nel settore industriale (agroalimentare escluso). Per loro l’istituto costituisce il principale punto di riferimento in termini di finanziamenti pubblici (vedi GRAFICO ): a beneficiarne sono state soprattutto imprese

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

impegnate nel campo delle biotecnologie (con una media di 1,2 milioni di euro ciascuna), dell’elettronica (531 mila euro), dell’ingegneria chimica (552 mila euro) e della multimedialità (465 mila euro). Anche così si costruisce il futuro di un’economia. 

FONTE: OSÉO, PLAN DE RELANCE, OTTOBRE 2009

| economiasolidale |


| economiasolidale | buone pratiche |

Una mobilità diversa in scena a Fa’ la cosa giusta!

CI SIAMO ANCHE NOI! Valori sarà presente a “Fa’ la cosa giusta!” allo stand di Banca Etica Padiglione 4, SP06 falacosagiusta.terre.it

di Valentina Neri

Legambiente lancia un nuovo allarme: in alcune città italiane la qualità dell’aria è fuori dai limiti Ue un giorno su tre. Il tema del trasporto sostenibile è al centro dell’edizione di quest’anno della kermesse milanese (15-17 marzo) l 2013 è stato dichiarato dall’Ue “Anno dell’aria”. Ma non sono solo le autorità comunitarie a ribadire che l’attenzione alla qualità di ciò che respiriamo deve diventare una priorità. A dirlo sono i dati. Li ha raccolti Legambiente nel rapporto Mal’aria di città pubblicato a metà gennaio. E non fanno ben sperare. La legge prevede che ogni anno si possa sforare per al massimo 35 giorni la media di 50 microgrammi/metro cubo di pm10: ma in 52 città, sulle 95 monitorate, nel 2012 tale bonus è stato abbondantemente superato. Fino ai casi limite di Alessandria, Frosinone, Cremona e Torino in cui per un giorno su tre si è respirato veleno. Non va meglio se si considera il pm2,5, meno conosciuto, ma ancora

I

più pericoloso. Oltre la metà delle città studiate da Legambiente ha sforato i li-

miti previsti e il poco invidiabile primato è ancora appannaggio dei capoluoghi della pianura padana (Torino, Padova, Lecco, Milano e Brescia). Conviene tenere a mente queste cifre mentre si varcano le soglie di Fa’ la cosa giusta! che a Milano, dal 15 al 17 marzo, fe-

UNA VETRINA PER I PROGETTI DEI GAS I Gruppi di acquisto solidale non possono mancare a un appuntamento come “Fa’ la cosa giusta!”, un’occasione preziosa per conoscere le altre realtà del nord Italia. La rete milanese Intergas sarà presente con tre progetti molto diversi. Il primo ha al centro il pesce: i gasisti da anni sostengono i pescatori del Tirreno e ora, con l’iniziativa “La casa dei pesci”, contribuiscono alla posa di 150 dissuasori contro la pesca illegale a strascico nel tratto di mare antistante il Parco naturale della Maremma. Ma nel frattempo sono impegnati anche a pubblicare su www.gasmilano.org una mappatura delle aziende che sono interessate a lavorare coi Gas e hanno le carte in regola con i loro valori fondamentali. Ma si parlerà anche di energia: il progetto Coenergia prevede di partecipare, diventando soci della cooperativa Retenergie, al finanziamento di piccoli impianti a energia pulita, con un occhio di riguardo per quelli che coinvolgono realtà legate al mondo dell’economia solidale.

Dieci anni per cambiare gli stili di vita sostenibili Miriam Giovanzana, direttore di Terre di mezzo che organizza il salone.

di Valentina Neri

Da quando è nata la manifestazione, il numero di visitatori è cresciuto enormemente. E, soprattutto, non si tratta più solamente di “addetti ai lavori” «Dieci anni fa parlare di stili di vita sostenibili, km zero o acqua pubblica sembrava impossibile perché erano temi per addetti ai lavori. Abbiamo intuito che il mondo cambiava: emergevano produttori sostenibili e consumatori consapevoli. “Fa’ la cosa giusta!” è diventata una piazza per farli incontrare». Racconta così l’esordio della fiera del consumo critico e degli stili di vita

| 52 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Miriam Giovanzana, direttore di Terre di mezzo

C’è stata un’evoluzione della fiera? La crescita numerica degli espositori è stata accompagnata da un ampliamento degli spazi espositivi e da un’evoluzione della stessa fiera. All’inizio era organizzata negli ex spazi industriali di via Tortona. Spostandoci nel 2007, a Fieramilanocity, siamo entrati nel tempio dell’economia di mercato per portare un’altra idea


| economiasolidale |

steggia il traguardo della decima edizione mettendo al centro proprio la mobilità sostenibile. Un tema sul quale le amministrazioni italiane sono ancora troppo poco attive. Se il nostro – ricorda Legambiente – resta infatti il Paese Ue a più alta densità di automobili, in certi casi è perché non si può fare altrimenti: il trasporto pubblico è «messo sotto pressione dai tagli e incapace di attrarre passeggeri: un cittadino compie in media appena 83 viaggi l’anno su bus, tram e metro». Ma le auto costano: «Il traffico veicolare – si legge nel rapporto – assorbe l’1% del Pil in inefficienza e il 2% per i costi dell’incidentalità. Gli investimenti in nuove strade, spesso controproducenti, incontrano difficoltà finanziarie, sociali ed ambientali crescenti. Le spese per il possesso di un’automobile sono circa un terzo del reddito medio famigliare». Per tutto ciò, è urgente trovare un modo diverso per muoverci. A Fa’ la cosa giusta! un centinaio di produttori esporranno moto, bici e auto elettriche, che si potranno testare nel circuito interno o su strada. Il Politecnico di Milano ha scelto la fiera per presentare Bike+ e Chainless bike, la cui carica viene rigenerata dalla pedalata umana. Mentre lo Ied (Istituto europeo di design) mostrerà i dieci migliori progetti per realizzare ciclocargo creati all’interno del suo corso di Product Design. Non mancheranno poi servizi per i milanesi che vorranno “fare la cosa giusta” fino in fondo, arrivando a Fieramilanocity in bici. 

IL DESIGN E L’ARTIGIANO SOTTO CASA SI INCONTRANO ONLINE Per un giovane designer trovare l’idea creativa spesso è l’ultimo dei problemi. Il difficile arriva dopo: quando deve cercare un’azienda disposta, in un periodo di crisi, a investire su di lui per garantire un’adeguata distribuzione alle sue opere. Andrea Cattabriga e Sebastiano Longaretti hanno trovato una possibile soluzione nella più semplice e familiare delle tradizioni: quella della bottega artigiana sotto casa. Lo dimostra Slowd, la loro startup, che mette le potenzialità del web al servizio della filiera corta. Il designer espone i propri prodotti su Slowd.it. Il cliente sceglie un’opera e la fa fabbricare non da un lontano colosso industriale, con tutte le conseguenze in termini di impatto economico e ambientale del trasporto, ma dal negozio artigiano più vicino a casa sua. Dietro a quest’idea lineare, che cerca di ricreare il principio della fabbrica diffusa, c’è un lungo processo ancora work in progress. La piattaforma sarà on-line tra aprile e giugno. Per ora, Andrea e Sebastiano stanno incontrando i designer (ormai un’ottantina) e le imprese artigiane che li hanno contattati. I particolari da mettere a punto sono tanti. Innanzitutto la giusta remunerazione per i designer: «In Italia – spiega Andrea – su quel 5% di designer che hanno la fortuna e la bravura di commercializzare il proprio prodotto quelli che vivono di royalties si contano sulle dita di una mano. Ogni prodotto venduto tramite Slowd, invece, prevede un 10% di royalties per il designer». Vale a dire da due a cinque volte la media di mercato. E le aziende artigiane? Quelle che costruiranno il prototipo di un’opera saranno premiate con una piccola percentuale su tutti i pezzi che saranno realizzati di lì in avanti: «Così si riconosce una co-autorialità all’artigiano, che dà una mano non da poco», spiega Andrea. In seguito, quando verranno contattate da un loro concittadino interessato a un prodotto, glielo costruiranno ad hoc. «In questo modo – continua Andrea – vorremmo ridare linfa a tanti piccoli artigiani che disporranno di una vetrina web con un ampio catalogo». Slowd – ci tiene a precisare Andrea – non è un sito di e-commerce, ma un tentativo di ripensare radicalmente la produzione: «Troppo spesso nel mondo del design si spendono capitali in marketing e copertine patinate per mantenere i prodotti nel segmento del lusso, facendoli arrivare a pochi. Il nostro obiettivo invece è quello di riportare la manifattura in mano a chi la sa fare e focalizzare l’intero sistema sul territorio, riscoprendo l’abitudine dei nostri padri e dei nostri nonni di far fabbricare il mobile al falegname di fiducia». V.N.

di economia, legata non alla competizione, ma alla solidarietà e alla crescita comune. Ed è cambiato anche il pubblico? All’inizio abbiamo fatto presa su chi era già vicino al commercio equo e al consumo critico, ma i confini si sono allargati fino alle 67 mila persone del 2012, coinvolgendo un pubblico sempre più vario. La campagna sull’acqua come bene pubblico è stata il culmine di questa sensibilità. Si incontrano ostacoli a trasmettere al pubblico stili di vita alternativi? In questo decennio abbiamo dimostrato che un altro tipo di economia esiste, è rilevante e migliora la qualità della vita: non si tratta solo di mercati di nicchia. Un esempio è il biologico, che dieci

anni fa era per pochi salutisti e ora coinvolge vaste parti della popolazione e regge alla crisi. È stata un’evoluzione: abbiamo iniziato da pochi settori di largo consumo come agricoltura e turismo per arrivare a quelli sofisticati come la casa e il vestire. Quest’anno la sezione speciale è la mobilità sostenibile: è un tema poco intuitivo, a volte contraddittorio, ma diventa la sezione principale proprio perché la sensibilità e la consapevolezza si sono ampliate. Che cosa vi aspettate da questa edizione? Possiamo guardarci indietro e dirci che di strada ne abbiamo fatta. Una novità di quest’anno è l’area del business to business: già in passato le aziende non hanno incontrato solo i consumatori singoli, ma anche i Gas. Allo stesso modo ora, ad esempio, i produttori agricoli potranno dialogare con ristoratori, negozi di alimentari, mense. Un’occasione preziosa in tempi di crisi.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 53 |



| socialinnovation |

Inclusione sociale

Molto più di un’auto elettrica difficile prevedere come le tradizionali città del ventesimo secolo, dominate dalle auto, possano sopravvivere alla rapida urbanizzazione, ai prezzi del petrolio sempre più elevati, alle severe normative antiinquinamento atmosferico. La città del futuro dovrà funzionare in modo più efficiente, a basse emissioni, migliorando il trasporto di massa. A Bilbao si sono chiesti come realizzare tutto ciò

È

utilizzando le infrastrutture esistenti. Hiriko, che in basco significa “urbana”, è una city-car biposto che si “ripiega” su se stessa e si parcheggia come una bicicletta. Risolve così i problemi di parcheggio e, grazie al suo motore elettrico, non inquina. Con una sola carica il veicolo può percorrere più di 120 chilometri. È provvista di quattro ruote motrici indipendenti e controllate separatamente, che consentono anche di ruotare sul proprio asse o di muoversi lateralmente. La sospensione centrale fa scorrere l’abitacolo verso l’alto permettendo il parcheggio “in verticale”. Ma non è tutto: è un progetto europeo di “innovazione sociale” che coniuga rispetto dell’ambiente, creazione di posti di lavoro e attenzione alle categorie sociali svantaggiate, frutto di una collaborazione tra il Mit di Boston e Denokinn, il centro basco per l’innovazione. Il prototipo, ispirato da uno schizzo di Frank Gehry, architetto del Guggenheim Museum, è stato presentato dal presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, nel gennaio 2012 a Bruxelles. Nell’ultimo anno sono stati messi in produzione venti esemplari oggetto di test a Bruxelles, Malmo, Barcellona, San Francisco, Hong Kong e Quito, mentre sono in corso trattative

Un progetto d’innovazione sociale: rispetto per l’ambiente e posti di lavoro a Parigi, Londra, Amsterdam, Ginevra, Boston, Dubai, Abu Dhabi. Nel 2013 Hiriko arriverà a Berlino. Deutsche Bahn, la società che gestisce la rete ferroviaria in Germania, ha annunciato un programma pilota di car-sharing con l’acquisto delle city-car basche. Il quartier generale di Denokinn, il Social Innovation Park di Bilbao, fornirà la formula alle città che decideranno di adottare Hiriko e che potranno replicare il modello di Bilbao e realizzare un sito locale per l’assemblaggio della city-car, creando così nuovi posti di lavoro. «L’innovazione sociale è la nostra capacità di creare il futuro che desideriamo. È fatta di solidarietà e di responsabilità», ha detto Barroso. I Paesi Baschi sono stati un buon esempio di trasformazione sociale, eco-

di Andrea Vecci

nomica e industriale negli ultimi 25 anni. La crisi dei comparti siderurgico e cantieristico degli anni ’80 ha interessato intensamente la zona, ma una tradizione sociale profonda ha creato le condizioni per una nuova economia. Oggi, il tasso di rischio povertà nei Paesi Baschi si attesta al 9,5%, il secondo più basso in Europa dopo la Svezia. Il Social Innovation Park di Bilbao ospita imprese sociali consolidate e progetti di innovazione emergenti che mirano a creare una nuova “Social Silicon Valley”. Consente alle organizzazioni del terzo settore, agli enti di beneficenza, alle Fondazioni e alle Ong di incontrare le imprese produttive e di sviluppare nuove società miste. Hiriko è un esperimento di social innovation integrato poiché ha visto la luce grazie alla partecipazione attiva nell’elaborazione di nuovi piani di mobilità, nuovi sistemi di rifornimento, nuovi metodi di produzione e assemblaggio, nuovi criteri di inclusione lavorativa. Da non confondere con il design collettivo e partecipato: la responsabilità del terzo settore a partecipare, in modo più o meno istituzionalizzato, ai processi di sviluppo economico risponde ad un bisogno identitario di una comunità, capace di tradurre in un prodotto come Hiriko i concetti di inclusione, riscatto e coesione.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 55 |


REUTERS / ANDREW BIRAJ

internazionale

Giordania: il Paese a sovranità necessaria > 61 Israele. L’ago del bilancio > 63 Mauritania. Il Paese schiavo > 64 | 56 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |


| moda mortale |

Si cerca se c’è qualcosa da salvare, dopo l’incendio nella manifattura Smart Fashions di Dhaka, Bangladesh, il 26 gennaio 2013. Il fuoco ha ucciso almeno sei dipendenti e ha ferito 10 vigili del fuoco e volontari, a soli due mesi dal più grave incendio mai registrato nel Paese, che ha ucciso 124 lavoratori

Diritti

Incendi frequenti devastano le fabbriche tessili del Bangladesh, e non solo, uccidendo centinaia di lavoratori. Un prezzo messo in conto dalle multinazionali della moda per un sistema che si avvantaggia economicamente dall’assenza di tutele

in fumo di Corrado Fontana

Q

uasi trecento morti. Questo è il terribile bilancio di vittime del rogo che a settembre scorso ha ucciso la maggior parte dei lavoratori della Ali Enterprises, una fabbrica tessile di Karachi, in Pakistan. Forse la tragedia più grave di tutti i tempi per il settore, ma che si può definire un caso sporadico, seppure non casuale, per il Paese. Un caso che si aggiunge però ai tanti altri incidenti simili – troppo simili – registrati soprattutto in Bangladesh, dove l’incendio con il maggior numero di morti è costato la vita a 124 lavoratori della Tazreen Fashions (vedi FOTO a pag. 58), alla periferia della capitale Dhaka, la notte del 24 novembre 2012, ma che segue una serie di eventi del genere. La tragedia della Ali Enterprises ha attirato l’attenzione deimedia globali e ha portato centinaia di persone in piazza per richiedere migliori condizioni di lavoro. Ma le cause di questi drammi paiono insite nei meccanismi che mettono la filiera del tessile interna| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 57 |


| internazionale |

La filiera del tessile è una lente sulla globalizzazione, in cui le multinazionali – anche se si avvalgono dei buyers – non ignorano dove collocano gli ordini GLOSSARIO Secondo quel che scrive Treviso Glocal, società consortile partecipata dalla Camera di Commercio di Treviso, esistono due diverse tipologie di zone franche. “Zone franche classiche”, caratterizzate essenzialmente dall’esonero dei diritti di dogana e, a volte, da quello delle imposte indirette (qui si trovano le zone franche commerciali e quelle industriali d’esportazione, i porti franchi, i magazzini franchi); e “Zone franche d’eccezione”, dove possono offrirsi agevolazioni fiscali anche su imposte dirette e tributi locali, vantaggi finanziari e amministrativi per le imprese, altri incentivi di natura economica e sociale (di queste fanno parte le zone economiche speciali, le zone d’impresa e l’insieme delle zone di riconversione economica). Ma per dare un’idea dei vantaggi imprenditoriali concreti che offrono queste aree leggiamo un documento dell’Istituto italiano per il commercio estero (Ice) del 2009: «Ci sono attualmente 36 Zone franche attive o in via di realizzazione o proposte negli Emirati Arabi Uniti, che offrono agli investitori i seguenti incentivi: • Proprietà straniera del 100% • Nessuna imposta sulle società per 15 anni; rinnovabile per ulteriori 15 anni • Libertà di rimpatriare il capitale e il reddito • Nessuna imposta sul reddito personale • Completa esenzione dai dazi doganali • Nessuna restrizione valutaria • Nessuna lungaggine burocratica • Nessun problema di assunzione • Comunicazione moderna ed efficiente • Infrastruttura all’avanguardia • Energia abbondante • Ambiente lavorativo attraente».

| 58 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

zionale al servizio dei grandi marchi della moda e dei vari intermediari.

Abiti a misura di profitto «In tutti i Paesi dove sono avvenuti gli incendi – ci dice Deborah Lucchetti, portavoce di Abiti Puliti, organizzazione italiana che fa parte della coalizione Clean Clothes Campaign – si assiste a uno smantellamento delle istituzioni pubbliche di controllo sulle multinazionali e sulle imprese, o in favore di sistemi privatizzati o senza alcun rimpiazzo: in Pakistan il governo ha cancellato l’ispettorato del lavoro e sta finanziando le certificazioni commerciali. Tale processo ha portato, tramite il Registro Italiano

Navale Group (Rina), società di ispezione accreditata dal Saas (Social Accountability Accreditation Services), a certificare SA8000 la Ali Enterprises». Un caso particolare che ben rappresenta, però, i meccanismi del mercato globale, concepito, strutturato e nutrito per l’esportazione, incentivato in virtù della libertà di movimento dei capitali, sempre a caccia di condizioni di vantaggio, soprattutto fiscale. Uno dei fattori strategici in questo ambito è, infatti, quello di poter installare gli stabilimenti produttivi nelle zone franche per l’esportazione (foreign o free trade zones): migliaia di aree geografiche perfettamente legali e ben definite sul Pianeta,

DIETRO LA VETRINA: I BUYERS La filiera del tessile è una lente di ingrandimento sulla globalizzazione. Il capitalismo si riorganizza in network, che producono diversi anelli nella filiera: tra il produttore (chi fabbrica il pezzo) e il committente (il marchio) c’è di mezzo spesso un agente intermediario, i cosiddetti buyers, vere e proprie agenzie o aziende che lucrano e svolgono il servizio di allocazione degli ordini per i marchi internazionali. Li&Fung è il più grande intermediario del mondo, gestisce intere catene di fornitura per numerosi marchi internazionali, tra cui Reebok e Nike, Abercrombie & Fitch, Marks & Spencer, Wal-Mart, Metro. Molte aziende del settore sono “solo” traders (in Italia una griffe nota come Piazza Italia, ad esempio): comprano sui mercati internazionali e spesso non hanno rapporti diretti con il produttore proprio perché sono piuttosto piccole; tuttavia fanno ingenti fatturati e si avvalgono dei servizi di questi intermediari, che controllano in parte il mercato della produzione. Aziende molto grandi come Zara o Wal-Mart hanno invece anche rapporti diretti con le fabbriche che realizzano i loro capi d’abbigliamento, commissionando ordini che possono rappresentare anche il 70 o l’80% della produzione di un fornitore, e perciò esercitando su di esso un ampio controllo e una maggiore responsabilità. Le multinazionali, anche quando si avvalgono dei buyers, non possono tuttavia ignorare completamente dove vanno a collocare i propri ordini. C.F.


JOHANNES HOGEBRINK

| internazionale |

delimitate e orientate dagli investimenti esteri; luoghi dove si pagano pochissime tasse e le infrastrutture sono quasi gratis. Ma non solo. Queste aree sono tanto più appetibili se insediate dove c’è abbondanza di manodopera a basso costo, dove le norme sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori sono assenti o molto deboli e poco vincolanti, dove i sindacati non possono entrare o sono ostacolati alla radice. Sembra il ritratto del Bangladesh, nella cui zona franca la portavoce di Abiti Puliti è entrata, sebbene le fosse impedito, per trovare i militari a sorvegliare le aree di produzione manifatturiera.

Trappola per topi Luoghi chiusi e a volte militarizzati, insomma, dove i diritti evaporano all’interno di un sistema che non si accolla i costi sociali, ma pretende vantaggi fiscali. Anche di questo sistema è figlia la

La strage ininterrotta Ecco alcuni dei principali incidenti registrati dalla Clean Clothes Campaign nelle fabbriche tessili del Bangladesh a partire dal 2005. 11 APRILE 2005, crollo della fabbrica Spectrum 64 morti, almeno 74 feriti, tra cui diversi lavoratori che hanno subito invalidità permanenti Buyers della fabbrica: Inditex (Spagna), Carrefour, Solo Invest, Cmt Windfield (Francia), Cotton Group (Belgio), KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod (Germania), Scapino (Paesi Bassi), New Wave Group (Svezia). Dettagli dell’incidente: la fabbrica era costruita in una zona paludosa a rischio alluvionale a circa 30 km a Nord-Est di Dhaka. I funzionari della fabbrica hanno dichiarato che c’erano circa 184 lavoratori nell’edificio per il turno di notte, ma secondo alcuni dipendenti la cifra deve essere ricondotta ad almeno 400 persone.

23 FEBBRAIO 2006, incendio alla KTS Textile Industries di Chittagong 61 morti, circa 100 feriti Buyers della fabbrica: Uni Hosiery, Mermain International, Att Enterprise, Vida Enterprise, Leslee Scott Inc, Ambiance, Andrew Scott. Dettagli dell’incidente: un incendio, causato da un corto circuito, è scoppiato quando nell’edificio c’erano 400-500 persone. Tra le vittime anche tre ragazze di 12, 13 e 14 anni. Al divampare delle fiamme alcune uscite erano bloccate per evitare i furti e la fuga dei lavoratori, e non vi sarebbe stata alcuna attrezzatura di sicurezza antincendio nell’edificio.

25 FEBBRAIO 2010, incendio alla Garib and Garib 21 morti, circa 50 feriti Buyers della fabbrica: H&M, Otto, Teddy (brand Terranova), El Corte Ingles, Ulla Popken, Taha Group (marchio LC Waikiki), Provera and Mark’s Work Wearhouse. Dettagli dell’incidente: il fuoco, apparentemente causato da un corto circuito, si è sviluppato al primo dei sette piani dell’edificio e si è propagato rapidamente per la presenza massiccia di materiali infiammabili. Gran parte delle vittime sono morte per il denso fumo che non ha potuto defluire a causa della scarsa ventilazione dei locali. La fabbrica aveva già subito un incendio l’anno prima, con un morto, e ne subirà un terzo ad aprile 2010, senza vittime.

3 DICEMBRE 2011, incendio alla Eurotex (Continental) 2 morti, 64 feriti Buyers della fabbrica: Tommy Hilfiger (di proprietà della società statunitense Pvh Corp.), Zara (di proprietà della Società spagnola Inditex), Gap (US), Kappahl (Svezia), C&A (Belgio) e Groupe Dynamite Boutique Inc (Canada) direttamente o tramite subappalto. Dettagli dell’incidente: Jesmin Akter, 20 anni, aiutante, e Taslima Akter, 22 anni, operaia, sono calpestate a morte dalla folla in fuga per il panico provocato dall’esplosione della caldaia al secondo piano dello stabilimento. Pare che quel giorno alcuni lavoratori avessero segnalato tempestivamente un’anomalia nel funzionamento della caldaia. Le porte tagliafuoco in fondo alle scale erano chiuse, contribuendo al sovraffollamento sulle rampe di una scalinata che poi ha ceduto.

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 59 |


| internazionale |

Donne al lavoro in una fabbrica tessile di Dhaka, capitale del Bangladesh. A pag. 58 la fabbrica di Tazreen Fashions, sempre a Dhaka, dove il 24 novembre scorso 124 lavoratori sono morti in un incendio

www.abitipuliti.org www.cleanclothes.org

ABITI PULITI CONTRO ABITI SPORCHI La Clean Clothes Campaign ha 30 anni di storia di lobbying e di advocacy (attività di pressione e tutela) per i lavoratori del tessile ed è sostenuta da una coalizione di 250 organizzazioni partner in tutto il mondo, presenti in 17 Paesi europei con coalizioni nazionali (quella italiana è Abiti Puliti). L’elemento fondamentale di questa campagna è aver messo a punto un sistema di rilevazione dei problemi che parte dal basso e risulta tanto più efficace per informare sui casi meno eclatanti di abusi e incidenti, grazie a una relazione diretta con i soggetti interessati che si trovano sul posto. Sul Bangladesh ha un osservatorio permanente attivo dal 2005, cioè da quando è scoppiata la prima grande tragedia in una fabbrica tessile (Spectrum), con 64 vittime e 74 feriti. La Clean Clothes Campaign ha come target di influenza il mercato europeo delle grandi griffe, ma rispetto ai casi più complessi e di portata globale, che interessano marchi come Wal-Mart o il mercato americano, lavora in sinergia con altre organizzazioni analoghe, come le statunitensi Wrc (Workers Rights Consortium) e Ilrf (International Labor Rights Forum) o la canadese Maquila Solidarity Network. C.F.

| 60 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

piaga degli incendi nelle fabbriche bengalesi. Che dura da anni in una delle nazioni più povere del mondo eppure, in questo momento, vera potenza nel campo del ready made garment, cioè del confezionamento di prodotti di abbigliamento, contrassegnato da uno sviluppo furioso: 5 mila le società e 3 milioni i lavoratori stimati. Un Paese con un’altissima densità di popolazione (circa 150 milioni di abitanti), ma senza un’industria “verticale” dove siano presenti tutti i settori strategici, diversamente da Cina e India, dove la filiera del tessile va invece dal campo di cotone al prodotto finito, con il segmento manifatturiero della trasformazione collegato a quello agricolo. In Bangladesh no, c’è solo il confezionamento e migliaia di macchine da cucire per un lavoro come quello che si faceva nell’Ottocento in Europa, che ha reso il Paese secondo esportatore mondiale di abbigliamento (nel 2011 circa 17 miliardi di dollari di merce, corrispondenti all’80% delle esportazioni complessive della nazione). Su questa industria si regge perciò l’economia dello Stato. E sui lavoratori, precari poverissimi e flessibili, specialmente giovani donne, chiusi dentro i luo-

ghi di lavoro, magari con le sbarre alle finestre e le vie di fuga ostruite da pile di vestiti confezionati, circondate da materiali altamente infiammabili. «Le fabbriche tessili bengalesi sono luoghi infernali – specifica Deborah Lucchetti – grandi palazzi da 7-8 piani che sembrano più che altro delle trappole per topi. La costruzione verticale in un’azienda produttiva è altamente pericoloso, tanto più in edifici costruiti senza nessun tipo di attenzione preventiva agli incendi: qui è normale che tali eventi si verifichino, non si può certo parlare di incidenti! C’è un’industria senza scrupoli, con proprietari che lavorano per il mercato internazionale, e che trattano i lavoratori come bestie». 

JOHANNES HOGEBRINK

SITOGRAFIA


| internazionale | osservatorio medioriente/giordania |

Giordania: il Paese a sovranità necessaria di Paola Baiocchi

Collocato nell’area mondiale che più di ogni altra ha subito modifiche negli ultimi due anni, il Regno Hashemita mantiene a prezzo di ingenti aiuti internazionali la sua stabilità. Restando alleato importante sia dei Paesi Arabi, che degli Stati Uniti e dell’Europa l 23 gennaio si sono svolte le elezioni in Giordania. Nel Regno Hashemita si è votato per rinnovare il Parlamento, quando si erano appena chiuse le urne per le legislative nel vicino Israele (vedi ARTICOLO a pag. 63). Ma chi ha voluto sapere qualcosa sul nuovo Parlamento giordano ha dovuto cercare in internet o sui media stranieri. Strano, però, non trovare interessante la tornata elettorale nel piccolo regno che si incunea tra Siria, Iraq, Arabia Saudita, Egitto, Israele e i territori occupati della Cisgiordania. Al di là della collocazione della Giordania nella zona del mondo che più di ogni altra ha subito modifiche nel corso degli ultimi due anni, erano le loro prime votazioni dopo gli avvenimenti nordafricani che vanno sotto il nome di “primavere arabe” e presentavano anche una singolare serie di coincidenze con la situazione italiana: in primo luogo perché anticipate.

I

Re Abdallah II le aveva convocate a ottobre, dopo tre rimpasti di governo in tempi ravvicinati, in risposta alle manifestazioni di piazza contro il taglio dei sussidi per i carburanti. Più un’operazione “cosmetica” che di reale ascolto del Paese, secondo il principale partito d’opposizione, il Fronte di azione islamico, braccio politico della Fratellanza musulmana, che aveva invitato al boicottaggio perché il meccanismo elettorale garantirebbe un sostegno blindato alla monarchia, grazie ai membri del Senato, scelti direttamente dal re, e al maggiore peso dato alle zone rurali rispetto alle città, dove sarebbero maggioritari i simpatizzanti del movimento e i giordani di origine palestinese.

Presentata una lista “Saddam Hussein” Sorprendentemente coincidente con la situazione italiana era, poi, l’abbondanza dei

simboli presentati alla registrazione: 61 il numero dei diversi partiti e liste, che si sono aggiunti ai 30 già esistenti. Con un totale di 1.522 candidati: 824 (tra questi 88 donne) in lizza per 27 posti sui 150 della Camera bassa. Gli altri 698 (196 donne) si sono presentati, invece, per i restanti 123 posti assegnati su base locale. Tra le liste presentate quella intitolata al defunto leader iracheno, Saddam Hussein, ha dovuto cambiare intestazione perché la Commissione elettorale ha vietato l’uso di nomi di persone o di regioni, per evitare lo sviluppo di faziosità locali o tribali. O più probabilmente per evitare frizioni con Iraq e Kuwait. Secondo gli osservatori internazionali le operazioni di scrutinio si sono svolte in modo regolare e, secondo la Commissione elettorale indipendente appena istituita, ha votato il 56,69% degli aventi diritto, un milione e 228 mila persone su quasi quattro milioni. Le elezioni hanno sostanzialmente confermato re Abdallah II, anche se sono entrati in Parlamento 18 deputati legati alla Fratellanza, una decina di islamici moderati e alcuni candidati di sinistra del movimento panarabo. | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 61 |


A doppio filo con le istituzioni finanziarie globali Il mantenimento della stabilità in Giordania è tutt’altro che garantito, stretta com’è tra il suo ingombrante vicino Israele e il conflitto siriano, che ha rovesciato sul suo territorio almeno 163 mila profughi, secondo le stime Onu di gennaio. E costa al piccolo regno una grande attività relazionale in cui gioca un ruolo importante anche la bella regina Rania. Vessillo del cosmopolitismo arabo e del rinnovamento nei costumi (ha anche un canale Youtube ufficiale www.youtube .com/user/QueenRania), Rania è una palestinese nata in Kuwait, che ha studiato all’Università americana del Cairo e ha lavorato nella sede giordana della Apple, prima di essere uno dei membri fondatore del World Economic Forum che ogni anno si riunisce a Davos. L’alto costo sociale ed economico della stabilità in Giordania viene mantenuto dagli aiuti internazionali, richiesti dallo stesso sovrano soprattutto ai vicini Paesi del Golfo, che hanno garantito un sostegno decisivo alle finanze pubbliche. Nel 2011 Riad ha concesso aiuti per 1 miliardo di euro circa e il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha messo a disposizione 2,5 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni. Anche il Fondo monetario internazionale ha previsto un prestito di 2 miliardi

IL PAESE IN CIFRE Nome: Regno Hashemita di Giordania Forma di governo: monarchia costituzionale Indipendenza: 25 maggio 1946, dall’amministrazione britannica su mandato della Società delle nazioni Costituzione: 8 gennaio 1952 Capitale: Amman Difesa e giustizia: il sistema giudiziario si basa sulla legge coranica, con influenze del diritto europeo continentale. È in vigore la pena di morte Popolazione: 6.508.887 (stima luglio 2012) Mortalità infantile: 15,83 morti/1.000 nati Speranza di vita: (anni) 80,18 totale; 78,82 maschi; 81,61 femmine (stima 2012) Età media: (anni) 22,4 totale; 22 maschi; 22,7 femmine Tasso di disoccupazione: medio 11,4 (marzo 2012); femmine 18%; maschi 10% Gruppi etnici: arabi 98%; circassi 1%; armeni 1% Religione: musulmana sunnita 92%; cristiani 6% (per la maggioranza greco-ortodossi, ma anche cattolici, ortodossi siriani, copti, armeni apostolici e protestanti), 2% sciiti e drusi Unità monetaria: dinaro giordano Pil: 27.527 mln Usa $ Pil/ab: 4.500 Usa $ (2010)

di dollari, in cambio di riforme economiche che difficilmente potranno essere realizzate senza presentare un conto “lacrime e sangue” alla popolazione, visto che alla non facile situazione si sono aggiunte anche le valutazioni al ribasso delle agenzie di rating, la riduzione del gas proveniente dall’Egitto, e il fatto che una delle risorse più importanti della Giordania, il turismo, è sofferente per il vicino conflitto siriano e l’instabilità regionale.

Potrebbe, invece, arrivare una boccata di ossigeno da nuovi investimenti esteri attirati dalla scoperta di significativi giacimenti di uranio e da importanti depositi di argille bituminose (oil shale), che aggiungerebbero un appeal energetico alla Giordania, finora povera di materie prime se si escludono fosfati e potassio. Sempre che non diventino la goccia che fa traboccare il delicato vaso giordano. 

UNA GRANDE STORIA PER UN PICCOLO PAESE Situata nella Mezzaluna fertile, culla dell’umanità, la Giordania ha un territorio formato in gran parte da deserti e ampi altopiani. Jerah, Karak, Madaba sono importanti siti archeologici e l’antica città di Petra è considerata una delle sette meraviglie del mondo da visitare. Dopo la dissoluzione dell’impero Ottomano il territorio è stato amministrato dai britannici, su mandato della Società delle nazioni. Il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 1946, con il nome di Transgiordania, e ha assunto il nome di Giordania dopo l’annessione della Cisgiordania nel 1949. La Cisgiordania è stata poi occupata nel 1967 da Israele e dal 1988 la Giordania ha rinunciato a ogni legame amministrativo. Nel 1994 re Hussein ha firmato un trattato con l’allora premier israeliano Rabin per la demarcazione dei confini e la spartizione delle risorse idriche dello Nahr al-Yarmuk e del Giordano. A partire dal 1989 sono state istituite le elezioni ed è stata avviata una graduale liberalizzazione politica, che ha visto la legalizzazione dei partiti nel 1992.

| 62 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Re Abdallah II è succeduto al padre Hussein alla sua morte, nel 1999; da allora la Giordania ha aderito al World Trade Organization nel 2000 e alla European Free Trade Organization nel 2001. Nel 2003 la Giordania ha fatto parte della coalizione raccolta attorno agli Usa per l’offensiva contro l’Iraq di Saddam Hussein, accogliendo poi migliaia di profughi iracheni. A partire dal gennaio 2011, a seguito dei disordini in Tunisia e in Egitto, si sono susseguite le manifestazioni di piazza ad Amman e nelle principali città della Giordania, per ottenere riforme politiche e contrastare l’aumento dei prezzi, la disoccupazione, la povertà e la corruzione dilagante. In risposta re Abdallah ha sostituito il primo ministro e formato due Commissioni: una per la riforma elettorale e una per le riforme costituzionali, poi approvate nel settembre del 2011. È stata istituita anche una Commissione elettorale indipendente, operativa nelle elezioni di gennaio. Ma per l’opposizione le riforme non sono sufficienti per limitare l’autorità del re. Pa.Bai.

FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA – THE WORLD FACTBOOK 2012, ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI, OCSE

| internazionale |


| internazionale | elezioni/israele |

L’ago del bilancio di Paola Baiocchi

L’avanzamento dell’estrema destra è stato più contenuto del previsto: nel rinnovo del Parlamento israeliano vince di misura l’alleanza Likud-Yisrael Beiteinu, riconfermando Netanyhau. A sorpresa il secondo è Yesh Atid, un partito fondato appena un anno fa da un noto personaggio televisivo on nove mesi di anticipo rispetto alla scadenza naturale di ottobre, il 22 gennaio si sono svolte le elezioni per il rinnovo della Knesset, il Parlamento israeliano. Il primo ministro Benjamin Netanyhau le aveva convocate giocando in contropiede, di fronte alla difficoltà a far approvare un bilancio molto criticato dall’opinione pubblica, perché colmo di pesanti tagli. Le previsioni lo davano vincente e così è stato, anche se di poco: l’alleanza tra Likud e Yisrael Beitenu (in ebraico “Israele, casa nostra”) guidata dal premier uscente, è il primo partito con 31 seggi. La vera sorpresa uscita dalle elezioni, invece, è stata il partito Yesh Atid (“C’è un futuro”), costruito in un anno da Yair Lapid, che ha conquistato dal nulla 19 seggi, diventando la seconda componente e l’ago della bilancia negli equilibri tra partiti di destra e confessionali ebrei e quelli di centrosinistra e arabi. Yesh Atid si presenta come un partito centrista moderato, che nei temi della campagna elettorale ha puntato sia all’eliminazione dei privilegi di cui godono gli ultraortodossi della destra religiosa, a partire dall’esenzione al servizio milita-

C

re. Sia alla necessità della ripresa delle trattative con i palestinesi, per raggiungere l’obiettivo dei “due popoli, due Stati”. Ma con Israele che conserva tutte le colonie in Cisgiordania.

Il “fattore Banderas” Yesh Atid ha letteralmente vampirizzato Kadima: il partito centrista, fondato dopo aver lasciato il Likud nel 2005 da Ariel Sharon, ha perso 24 parlamentari su 26. Il partito fondato da Lapid ha raccolto consensi dalla classe media, che lo ha votato con la logica “è il meno peggio” e perché ha promesso il miglioramento del sistema educativo, più sicurezza e la soluzione del problema abitativo con la costruzione di nuove case. Nulla di nuovo per la politica israeliana, quindi, ma Yesh Atid è un fenomeno che anche a noi italiani ricorda qualcosa di già vissuto: è un partito immagine, costruito attorno alla figura del suo inventore Yair Lapid, 49 anni, amico dei banchieri che contano e figlio della scrittrice Shulamit Lapid e di Tommy Lapid, giornalista molto conosciuto e ministro della Giustizia nel 2003. Oltre ai genitori famosi, gli osservatori dicono che ha giocato a suo vantaggio anche il “fattore Banderas” – nel senso dell’attore molto apprezzato dal pubblico femminile – che già era stato invocato per Alexis Tsipras, rappresentante della coalizione greca Syriza. Ma ha contribuito molto anche la sua grande familiarità con le telecamere, perché Yair Lapid ha lavorato in televisione sia come attore in commediole romantiche (si trovano in

internet e sono parecchio ridicole), sia come giornalista e conduttore di trasmissioni molto popolari, a conclusione di una carriera cominciata come corrispondente militare per il settimanale dell’esercito israeliano “Ba-Mahaneh” (“Nell’accampamento”).

La valvola della pressione La lista di estrema destra di Naftali Bennett non ha ottenuto l’exploit atteso, ma ha sottratto voti alla coalizione LikudYisrael Beitenu. Nel nuovo governo formato da Netanyahu, la lista centrista di Lapid potrebbe ora svolgere la funzione della valvola nella pentola a pressione, così come è già accaduto con Kadima: dopo aver ottenuto qualche rivendicazione contenuta nel suo programma elettorale, potrebbe dare il suo appoggio all’approvazione del bilancio zeppo di quei tagli che vanno sotto il nome di austerità. Agendo così più da “ago del bilancio” che della bilancia. E intanto potrebbe lasciar passare la costruzione dei nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, annunciati da Israele dopo il riconoscimento Onu alla Palestina di Stato osservatore. A conclusione della tornata elettorale, Israele ha lanciato un attacco con dodici caccia contro il centro ricerche di Jamraya, alla periferia della capitale siriana. Mentre, nell’accettare l’incarico per la formazione del nuovo governo, Netanyahu ha ribadito la necessità di impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. Con queste premesse, i tempi della moderazione sembrano molto lontani.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 63 |


| internazionale | africa tra vecchio e nuovo |

Mauritania Il Paese schiavo di Valentina Picco

Dichiarata illegale nel 2007, la schiavitù esiste ancora nello Stato africano. Anche se molti giovani non hanno provato cosa vuol dire, vivono ancora in una condizione di marginalizzazione a causa della loro discendenza ivere significa innanzitutto conoscere che la vita è un diritto, non un dovere verso qualcun altro. Esistono persone che nel 2013 non conoscono questa verità. Esistono persone nel mondo che ogni mattina si alzano e pensano di dover giustificare la pro-

V

pria esistenza annullando il proprio io nell’io di qualcuno che si definisce – e che essi stessi definiscono – un padrone. In Mauritania ancora oggi la schiavitù è il diritto di usare e abusare dei servizi di una persona, che non può disporre liberamente della propria volontà.

Allo sfruttamento economico si aggiunge una mentalità di esclusione e disprezzo che permette il protrarsi di relazioni di completo assoggettamento. Lo schiavo è un essere privato della sua persona, viene considerato come un bene ed è incluso nel patrimonio del padrone, allo stesso modo di un bene mobile o immobile. Questa aberrante situazione perdura ancora oggi a causa del particolare tipo di organizzazione sociale del Paese, basato sul sistema delle caste. Il fenomeno è trasversale alle diverse etnie che lo popolano e si concretizza in un insieme di norme, istituzioni sociali, pratiche culturali che permettono l’instaurarsi di relazioni sociali complementari, interdipendenti e, allo stesso tempo, subordinate tra le varie caste. Ognuna ha una funzione ben determinata, un rango sociale e delle prerogative definite dalla tradizione. Il sistema si basa sulla fornitura di prestazioni e contro-prestazioni. Ciascun individuo nasce in una casta che ne determina lo statuto e il prestigio sociale rimanendo una frontiera insuperabile.

Libero chi paga In Mauritania la schiavitù è stata dichiarata illegale nel 2007, grazie all’approva-

CASTE E TRADIZIONI NATE DAL SINCRETISMO CULTURALE La società mauritana è una realtà complessa, caratterizzata da una popolazione divisa in due componenti etnico-sociali distinte: quella negro-africana e quella arabo-berbera. I gruppi etnici negro-africani, Wolof, Sonninké e Poular, hanno abitato da soli in Mauritania dalla preistoria fino all’arrivo dei berberi nel terzo secolo avanti Cristo. Strettamente imparentati con le altre etnie dell’Africa Occidentale, queste tribù sono ancora oggi composte soprattutto da popolazioni sedentarie, per la maggioranza agricoltori che abitano la parte meridionale del Paese, più fertile e accogliente. Imparentata con le popolazioni del Maghreb e del vicino Oriente, la comunità Maura Bidhaan (bianca) è nata invece dall’incontro tra gli autoctoni berberi dell’Africa del Nord e una parte di popolazione araba proveniente dalla penisola arabica nel decimo secolo dopo Cristo. I Mauri occupano la parte settentrionale del Paese e discendono dai nomadi del deserto. La loro ricchezza attuale affonda le radici nello sfruttamento della schiavitù a cui hanno assoggettato per secoli le popolazioni negro-africane utilizzate soprattutto

| 64 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

per l’allevamento di cammelli e ovini, ed è oggi alimentata dal controllo delle risorse petrolifere del Paese e da una salda supremazia politica. I rapporti storici tra Mauri e Neri e la domanda di schiavi hanno prodotto nel tempo nuove configurazioni sociali e ricomposizioni etniche. La lenta assimilazione dei neo-arrivati, confinati al fondo della stratificazione sociale, è all’origine della più popolosa etnia mauritana: gli Haratine (“servitori”, nella lingua hassanya, il dialetto arabo della Mauritania), caratterizzati dall’appartenenza razziale negro-africana ma anche dall’appartenenza linguistico-culturale arabo-berbera. La storia delle comunità etnico-culturali della Mauritania, sia quelle sedentarie che quelle nomadi, è un alternarsi di aspri conflitti e di momenti di grandi riconciliazioni che hanno influenzato fortemente tutte le culture. Il sistema delle caste, alcune tradizioni architetturali, alimentari, di abbigliamento e musicali del Paese sono, infatti, frutto di un forte sincretismo culturale. Anche la religione musulmana, praticata inizialmente dai Mauri, è presto stata adottata da tutte le tribù nere. V.P.


zione di una legge nazionale arrivata duecento anni dopo l’abolizione della stessa da parte degli imperi coloniali e quasi sessant’anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Incredibile, ma vero. Prima di questo momento, la pratica della schiavitù era stata messa in discussione solo nel 1981 quando, sotto la spinta di violente manifestazioni di piazza, l’allora Comitato militare, presieduto dal luogotenente colonnello Mohamed Khouna Ould Haidalla, fu costretto a promulgare una prima legge, in seguito alla consultazione con le cariche religiose del Paese. Gli Oulema decretarono quindi una fatwa che prevedeva l’annullamento dello stato di schiavo in cambio di un indennizzo in favore del padrone. Questa legge fu naturalmente accolta più come un affronto che come un cambio di paradigma, una legittimazione della pratica piuttosto che un suo ripudio: essa prevedeva, infatti, che lo schiavo (per statuto privo di qualunque risorsa economica) rimborsasse il suo padrone per il danno economico che procurava nel venir meno alla sua prestazione di manodopera.

Schiavitù di fatto Oggi la popolazione mauritana è composta da una grande maggioranza di giovani che non hanno provato direttamente sulla loro pelle la schiavitù pura, ma che vivono comunque una condizione di forte marginalizzazione e sono oggetto di disprezzo e pregiudizi a causa della loro discendenza. Ci sono però ancora molti schiavi mauritani, soprattutto nelle campagne, che ignorano ancora oggi che la schiavitù sia stata abolita. Lo schiavismo è una pratica concreta, silenziosa, massiva e pervasiva. Le persone che la subiscono vivono uno stato di alienazione costante – ideologica, economica e politica – che fino a ieri ha impedito alla società civile di organizzarsi per combatterla. La garanzia di un’effettiva protezione dei diritti umani di un popolo nasce, infatti, dalla consapevolezza che il popolo assume nell’aderire e nel partecipare alle decisioni che lo concernono, favorendo i processi di pace e di coesione sociale.

IL PAESE IN CIFRE Nome: Mauritania Forma di governo: repubblica Capitale: Nouakchott Unità monetaria: ouguiya Popolazione: 3.365.675 (stima 2010) Mortalità infantile: 74 morti/1.000 nati Speranza di vita: (anni) maschi 55,3; femmine 59,3 (2010) Gruppi etnici: Mauri 81,5%; Wolof 6,8%; Toucouleur 5,3%; Serahuli 2,8%; Fulbe 1,1%; altri 2,5% Religione: musulmani sunniti 99,3%; cristiani 0,3%; altri 2,5% Pil: 3.799 mlm $ Usa Pil/ab: 1.195 $ Usa Indice di sviluppo umano: 0,433 (136° posto)

La situazione sta finalmente cambiando: la società civile, guidata da movimenti come El Hor (“libertà” in hassanya) e da organizzazioni non governative locali come Sos ésclaves, da anni resiste ai tentativi di oscuramento politico e mediatico messi in atto dall’élite maura e diffonde nel Paese una forte spinta verso il cambiamento, aiutata dalle mutate condizioni storiche e politiche della regione saheliana di cui fa parte la Mauritania.

Un ostacolo allo sviluppo Il perpetrarsi di una mentalità schiavista non è solo un costante attentato ai diritti umani fondamentali (come il diritto alla dignità personale, al lavoro, alla sicurezza, alla protezione familiare, all’uguaglianza), ma è anche un freno reale allo sviluppo del Paese e al suo ingresso sulla scena mondiale. I rapporti feudali e

FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA – THE WORLD FACTBOOK 2012, ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI

| internazionale |

CONQUISTARE LA LIBERTÀ Il primo Paese del mondo a conquistare l’indipendenza dalle colonie europee e ad abolire la schiavitù sul suo territorio è stata Haiti. Grazie alla vittoria sulle truppe napoleoniche del generale Leclerc, è diventata, nel gennaio 1804, il primo Stato indipendente con popolazione nera del mondo. Il primo Paese europeo a proibire la tratta degli schiavi è stata invece l’Inghilterra, il 25 marzo 1807, quando il Parlamento ha approvato lo Slave Trade Act, che è entrato in vigore il primo gennaio 1808. Una legge decisiva per innescare un processo che ha portato, nel giro di dieci anni, all’abolizione a livello formale/istituzionale della schiavitù nelle altre potenze coloniali: Francia, Spagna, Portogallo. Antica colonia francese, la Mauritania ottiene l’indipendenza il 28 novembre 1960, ma sotto l’effetto dell’euforia della nuova condizione, “dimentica” di affrontare il problema della stratificazione sociale regolata dal sistema di caste che la caratterizza e che è ancora oggi giustificazione del perdurare della pratica della schiavitù. V.P.

semi feudali a cui si àncora il sistema schiavista sono un ostacolo allo sviluppo di un’economia di mercato libera, alla quale ormai aspirano differenti forze sociali nuove del Paese, nelle campagne e nelle città: in particolare la classe di uomini d’affari e quella dei proprietari di imprese, attirate da settori di produzione sempre più interessanti, come l’ idroagricolo nella valle del Senegal, ma male accolte dal contesto sociale inadeguato all’innesto di un capitalismo nazionale. Forse la Mauritania non potrà prescindere da un momento di frattura e di rivendicazione da parte di coloro che hanno subito per secoli. La speranza, però, è che la legittima rabbia possa essere convertita in azioni propositive, in una nuova spinta alla negoziazione e al riconoscimento dell’importanza dei diritti umani per la libertà di ciascuno.  | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 65 |



| equocommercio |

Un sostegno ai produttori

Fairtrade e i cambiamenti climatici iamo abituati a pensare ai cambiamenti climatici sopraffatti dalle immagini dei telegiornali sugli uragani che devastano i territori oltreoceano o sulle carestie che colpiscono i già martoriati popoli dell’Africa subsahariana. Ma le conseguenze del climate change sono anche attorno a noi: negli inverni miti e nelle estati torride che devastano le nostre campagne;

S

a cura di Fairtrade Italia

nell’innalzamento dei prezzi delle materie prime alimentari sul mercato internazionale, che si ripercuote sulle nostre tasche. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono vissuti dagli agricoltori e dai consumatori di tutto il mondo, ma in particolare nelle zone più povere, meno “attrezzate” ad attutirne le conseguenze. Il quarto Rapporto di valutazione (Fourth Assessment Report) dell’Ipcc (International Panel on Climate Change) ha sottolineato che «le condizioni climatiche stanno diventando sempre più estreme». Da un lato l’aumento delle temperature, la diminuzione delle precipitazioni alle latitudini subtropicali, la riduzione delle riserve d’acqua, la desertificazione, gli incendi spontanei. E, dall’altro, l’aumento del livello dei mari e delle precipitazioni alle altitudini maggiori, inondazioni, cambiamenti nelle dinamiche di esondazione dei fiumi. Secondo le proiezioni il numero di catastrofi naturali triplicherà entro il 2030. Per il Global Humanitarian Forum circa 325 milioni di persone sono colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici ogni anno. E questo numero è destinato a raddoppiare entro i prossimi vent’anni. E i più esposti sono i Paesi in via di sviluppo.

mento climatico. La Fao ha stimato che oltre un miliardo di persone ha sofferto la fame nel 2009 (la maggior parte di queste vive nei paesi in via di sviluppo) contro i 923 milioni del 2008. Si pensa che il cambiamento climatico da solo sia stato la causa della fame e malnutrizione di 45 milioni di persone. Cosciente delle difficoltà vissute dai propri produttori, Fairtrade International, l’organizzazione che stabilisce gli standard per i prodotti certificati Fairtrade, ha elaborato un programma dedicato al supporto ai produttori che fornisce servizi generici e sviluppa progetti regionali specifici per prodotto, sostenendo gli agricoltori in questa nuova sfida. «Nei nostri villaggi stiamo vivendo in prima persona gli effetti del cambiamento climatico», racconta Chief Adam Tampuri, produttore e presidente di Fairtrade Africa. «Stiamo vedendo strani insetti che non abbiamo mai visto prima. Abbiamo usato parte del Fairtrade Premium per avviare alcuni progetti di adattamento, come l’acquisizione di piante resistenti alla siccità e la ristrutturazione dei tetti delle nostre case per affrontare le piogge torrenziali». (Per maggiori informazioni: www.fairtradeitalia.it)

Il climate change colpisce soprattutto il Sud del mondo. I contadini pagano enormi conseguenze economiche. Un aiuto dall’ente certificatore Ovunque nel mondo si stanno verificando ingenti perdite economiche: si stima che fino al 2007 siano stati persi 125 miliardi di dollari. Un altro studio finanziato dall’agenzia tedesca per la cooperazione internazionale (Giz) mostra che, a livello globale, i contadini perderanno nei prossimi 15 anni fino al 90% dei loro introiti pur avendo beneficiato meno di tutti dello sviluppo industriale e della crescita economica che ha causato il cambia-

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 67 |


altrevoci BIG PHARMA SCOMMETTE SULL’AFRICA

HTTP://EN.WIKIPEDIA.ORG

Finora l’industria farmaceutica in Africa è stata attiva quasi solo per contrastare il dilagare di malaria o Hiv. Ma i colossi del farmaco iniziano a guardare con interesse al mercato africano, che nei prossimi anni potrebbe giocare un ruolo strategico. Cresce, infatti, la quota di popolazione che vive in città e può permettersi cure anche costose. E le società europee non stanno a guardare: è il caso di Sanofi, pronta ad aprire il terzo stabilimento in Algeria. Stando all’Ims, entro il 2016 la spesa farmaceutica in Africa raggiungerà i 30 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuo del 10,6%, secondo solo all’Asia. Entro il 2020 il volume del mercato sarà quasi raddoppiato, raggiungendo i 45 miliardi. E sarà incentrato sulla cura di cardiopatie, tumori, diabete e disturbi ai polmoni, che secondo la Banca mondiale entro il 2030 rappresenteranno il 46% dei decessi nell’Africa subsahariana, contro il 28% del 2008. Big Pharma dunque punterà sull’Africa quando assisterà al rallentamento delle attuali economie emergenti. Ma il Continente resta spaccato in due: da un lato le grandi città in cui vive una classe media sempre più numerosa, dall’altro le aree rurali più povere in cui i servizi sanitari ancora scarseggiano. E le multinazionali avranno a che vedere con vuoti normativi, corruzione e carenza di infrastrutture. Senza contare la concorrenza dei medicinali a basso costo importati dall’India o dalla Cina. [V.N.]

IL TRATTATO DI MINAMATA METTE AL BANDO IL MERCURIO

I NUOVI CAPITALISTI DI PYONGYANG

Si chiama Convenzione di Minamata il primo trattato Onu vincolante sulla riduzione dell’uso e delle emissioni di mercurio. Approvato a Ginevra il 19 gennaio scorso da 147 nazioni, verrà ratificato a ottobre proprio nella cittadina giapponese che ne porta il nome, ma che è soprattutto conosciuta per la malattia di Minamata, la complessa sindrome neurologica causata da intossicazione acuta da mercurio, che porta alla morte nel giro di poche settimane e può essere trasmessa al feto durante la gravidanza. La malattia ha avuto questo nome nel 1956, quando la scienza ha stabilito la correlazione tra le morti e le malformazioni e lo sversamento da parte della fabbrica Chisso nel fiume, e quindi nella Baia di Minamata, delle acque reflue della lavorazione dell’acetaldeide, che avevano provocato l’inquinamento da metilmercurio. Quest’ultimo si forma in ambienti aquatici, dove entra nella catena alimentare e viene “biomagnificato”: ad ogni passaggio della piramide alimentare dal basso verso l’alto, la concentrazione nell’organismo cresce. Frutto di un lungo percorso di negoziati, la Convenzione affronta i diversi temi dall’estrazione del metallo fino allo stoccaggio e alla messa in sicurezza dei rifiuti. E tratta anche della tutela delle popolazioni a rischio. Le principali fonti industriali di metilmercurio sono legate al trattamento dei rifiuti e alla combustione di carbone. [PA.BAI.]

Ambizioso membro del club nucleare e ultimo baluardo dello stalinismo, la Corea del Nord rappresenta tuttora un esempio unico di immutabilità sociale. Ma anche nel cuore della società più isolata e repressa del mondo potrebbero aprirsi spiragli di cambiamento. Grazie all’iniziativa privata. In principio, ha raccontato a febbraio l’Economist, era il mercato nero, rischiosissima attività avviata negli anni ’90 per contrastare la carestia che affliggeva il Paese. Ma chi vent’anni fa si limitava a smerciare generi di prima necessità sembra operare oggi a un livello molto più elevato. Sono i nuovi ricchi del Paese, specializzati nell’esportare illegalmente materie prime in Cina per introdurre beni di consumo in Corea. Per qualche tempo il regime li ha perseguitati, ma la corruzione ha tenuto lontano le sanzioni e oggi è la stessa economia del Paese a non poter più fare a meno di loro. «L’industria funziona così male – ha sottolineato il settimanale – che i grandi edifici di Pyongyang non possono essere costruiti senza le forniture offerte da questi stessi trafficanti». Insomma, non saremo ancora nella Cina di Deng Xiaoping, il padre del transizione al mercato, ma forse anche all’ombra di Kim Jong-un qualcosa sembra muoversi. [M.CAV.]

| 68 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

PER LE IMPRESE SOSTENIBILI C’È L’UFFICIO DI SCOLLOCAMENTO Le conseguenze della crisi sul mondo imprenditoriale italiano sono molto concrete: in questi anni abbiamo imparato a conoscerle bene. Se le difficoltà continuano a farsi sentire, ripensare radicalmente alla propria attività può essere una strada obbligata, ma anche un’opportunità da cogliere. Proprio a chi vuole cambiare si rivolge l’Ufficio di Scollocamento, lanciato ormai un anno fa dall’associazione Paea, che inaugura un nuovo filone dedicato agli imprenditori. Il primo incontro si terrà dal 5 al 7 aprile al PeR, il Parco dell’energia rinnovabile in provincia di Terni. Si parlerà di come reinventare nel segno della sostenibilità la propria impresa, adeguandola alla crescente sensibilità per l’ambiente e riconvertendola alla produzione di prodotti più utili, sani, rispettosi del territorio e delle persone. E mettendo da parte quell’idea di business fine a se stesso che è sfociata nella crisi che stiamo vivendo. Per informazioni, http://scollocamento.ilcambiamento.it/imprenditori/ [V.N.]


| LASTNEWS |

SVIZZERA, TRE “ISOLE SOLARI” NEL LAGO DI NEUCHÂTEL Due società svizzere, la Viteos e la Nolaris, costruiranno tre isole artificiali nel lago di Neuchâtel, completamente ricoperte di pannelli solari che – grazie ad un investimento di 80 milioni di euro – consentiranno di produrre più di 80 milioni di kWh in dieci anni. Ma non si tratta solo di un modo per sfruttare l’energia pulita. Quello di Neuchâtel sarà un vero e proprio laboratorio: «Potremo testare gli effetti dell’umidità, dell’erosione del vento, delle onde, nonché di neve e gelo su questo tipo di impianti», ha spiegato al magazine Enerzine Philippe Burr, direttore tecnico di Viteos. Le piattaforme avranno un diametro di 25 metri, e faranno galleggiare sull’acqua 300 celle fotovoltaiche, che seguiranno il sole nel cielo, grazie a un sistema che permette alle isole di girare per 220°. Le strutture, inoltre, saranno prodotte in PVC: saranno così leggere, minimizzando l’impatto ecologico in termini di trasporto e di successivo riciclaggio. Non si tratta dell’unica novità nel campo della ricerca. L’istituto di Microtecnica della Scuola politecnica di Losanna, utilizzando l’1% della materia prima necessaria per la costruzione dei pannelli oggi più diffusi, ha costruito celle che garantiscono un rendimento del 10,7%. I ricercatori svizzeri hanno così battuto il record, fissato nel 1998 dalla giapponese Kaneka Corp. [A.BAR.]

SE GLI OPERATORI DI BORSA SI AMMALANO DI SCOMMESSE

TTF, BRUXELLES PRESENTA IL TESTO DELLA DIRETTIVA

CINA, IL GOVERNO PUNTA SU POCHI COLOSSI INDUSTRIALI

Tra una previsione sull’andamento di un indice e una valutazione sui titoli del debito spagnolo, i trader finanziari scandiscono la loro giornata in una perenne scommessa con il mercato. Ma l’eccessiva abitudine al rischio può trovare sfogo per qualcuno di loro in una dimensione parallela e densa di analogie: il gioco d’azzardo. «Se una sera vi doveste recare presso un incontro della Gamblers Anonymous, potreste trovare un banchiere della City che scoppia in lacrime per tutto il denaro che ha appena perso», ha raccontato al Financial Times un trader 29enne capace di perdere 200 mila sterline giocando a Blackjack on-line. Il fenomeno è inquietante, ma ancora largamente sommerso. «All’incirca solo l’1% dei trader con problemi del genere si fa avanti», sostiene uno di loro. Particolarmente deleteria l’abitudine allo spread betting , le scommesse finanziarie offerte dalle agenzie ad hoc, in cui si punta sull’andamento dei mercati come fossero corse di cavalli o partite di calcio. Le operazioni sono virtuali (non si acquistano titoli o prodotti finanziari), ma i soldi sono veri. Al pari delle perdite. Lo spread betting è formalmente proibito ai dipendenti di molte banche. Ma le regole, spiega uno scommettitore, «sono incredibilmente facili da aggirare». [M.CAV.]

Lo scorso 14 febbraio è stata presentata a Bruxelles la direttiva europea con la quale la Commissione chiede l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf). Destinatari, gli 11 Paesi che hanno aderito alla cooperazione rafforzata. L’organismo esecutivo comunitario sottolinea in particolare – e a chiare lettere – gli obiettivi della misura: far partecipare in modo giusto il mondo della finanza ai costi della crisi, ed evitare la frammentazione dei mercati interni nelle transazioni finanziarie. Quanto alle modalità attraverso le quali la tassa dovrà essere applicata, la Commissione propone regole che la campagna ZeroZeroCinque – che da anni si batte per l’introduzione dell’imposta – ha accolto con soddisfazione. In particolare, si richiama all’utilizzo di un “principio di emissione” dei titoli oggetti di tassazione, che aggiunto al “principio di residenza” di chi effettua la transizione, evita il rischio di fuga di capitali e l’inefficacia di un’applicazione della norma applicata ad un ristretto numero di Stati. In sostanza, un titolo emesso in Germania dovrebbe essere tassato anche se la sua compravendita fosse effettuata al di fuori degli 11 Paesi che applicano la Ttf. Inoltre la proposta europea prevede una base imponibile molto ampia, con poche esenzioni: include, ad esempio, a differenza di quanto stabilito in Italia, l’applicazione della tassa anche ai fondi pensione: elemento che permetterà una stabilizzazione nel lungo periodo, scongiurando attività speculative sul breve termine. [A.BAR.]

I settori strategici per l’economia nazionale devono essere dominati da pochi, solidi gruppi industriali. È questa la visione del ministero cinese dell’Industria e dell’Informazione tecnologica, che ha ribadito l’invito a operare fusioni, acquisizioni e alleanze strategiche all’interno di una dozzina di settori ritenuti fondamentali per la tenuta della seconda economia del mondo. Nel 2012 l’industria cinese ha registrato un valore aggiunto pari al 10% e per l’anno appena iniziato è stato fissato un target analogo che, rispetto alla media del gigante asiatico, risulta piuttosto prudente. A detta dell’esecutivo, le imprese faticano proprio perché troppo frammentate e quindi poco specializzate ed esposte al problema della sovrapproduzione. Secondo i piani di Pechino, dunque, entro il 2013 i dieci maggiori player siderurgici dovranno arrivare a gestire il 60% della produzione di acciaio. Una quota che, nell’alluminio e nell’automotive , dovrà salire fino al 90%. Nelle tecnologie dell’informazione invece si auspica che il fatturato di 5/8 imprese cinesi superi i 100 miliardi di yuan. Il governo di Pechino, su questa scia, ha dettato obiettivi anche per le terre rare, l’agricoltura, la cantieristica navale, il cemento e l’industria farmaceutica. Ma gli analisti interpellati dal China Daily sono scettici, visto che per ora questi ripetuti appelli sono rimasti pressoché inascoltati. [V.N.]

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 69 |


| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Corrado Fontana e Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LE BANCHE NON DICONO LA VERITÀ Pascal Canfin Quello che le banche non dicono Castelvecchi, 2013

«Ci siamo fatti prendere in giro». Se lo dice un ministro francese, nonché giornalista economico e vicepresidente della commissione speciale sulla crisi finanziaria, uno che ha negoziato in Europa le leggi sui fondi speculativi, sui prodotti derivati, sui bonus dei trader e sulle agenzie di rating , forse c’è da credergli. Pascal Canfin identifica in questo sentimento generalizzato il malessere serpeggiante nella società di fronte ai discorsi delle banche che, dopo la crisi del 2008, hanno scaricato le loro responsabilità sui risparmiatori e i contribuenti. Argomenti scanditi a suon di grandi campagne mediatiche che Canfin, ministro delegato allo Sviluppo francese, sente da quando era deputato europeo, e che smonta sistematicamente in questo libro. L’autore conduce il lettore negli ambienti europei dove si negoziano le leggi che dovrebbero disciplinare la finanza, svelando la realtà sull’attività di lobby esercitate dalle banche. Canfin in questo pamphlet non si limita solo alla critica, ma propone delle riforme credibili affinché la politica riprenda il controllo della finanza.

LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DELLA CULTURA

IL POTERE NERO DELL’ENERGIA

IL QUINTO ELEMENTO

Se c’è una cosa che viene sacrificata ai tempi della crisi economica è la cultura. La falce della revisione della spesa in molti Paesi si abbatte sui corsi umanistici e artistici in favore dell’istruzione tecnico-scientifica e delle abilità pratiche. Il risultato è l’impoverimento degli strumenti per capire un mondo sempre più complesso, con una ricaduta pesante sull’innovazione che richiede intelligenze flessibili, creative, capaci di aprirsi al nuovo, mentre l’istruzione ripiega su poche nozioni stereotipate. Non c’è alcuna contrapposizione tra cultura classica e scientifica, ma la necessità di mantenere l’accesso a una conoscenza che nutra la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione, come altrettante precondizioni per una umanità matura e responsabile. «L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto del mercato globale esalta la scarsa capacità di ragionamento, il provincialismo, la fretta, l’inerzia, l’egoismo e la povertà di spirito, producendo un’ottusa grettezza e una docilità che minacciano la vita stessa della democrazia e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale».

Il giornalista Andrea Fontana autoproduce questo libro-inchiesta che mette il dito nella piaga di un comparto energetico dominato da colossi industriali non sempre paladini della trasparenza. E l’autore punta il dito contro Enel Green Power che, scrive, «rappresenta soltanto la faccia pulita di un’azienda che vuole fare utili giocando sporco e sfruttando il carbone». Ne esce un testo che chiama in causa la strategia energetica nazionale, proposta dall’ormai ex ministro Corrado Passera, e mette in dubbio la sostenibilità ambientale, tecnologica ed economica dell’impianto di una politica che punta sullo sfruttamento delle fonti fossili. Da un lato l’autore esercita la critica delle compagnie italiane dell’energia attraverso un’analisi documentale, denunciandone i comportamenti “interessati” a condizionare il mercato perché poco cambi; dall’altro propone visioni alternative, conducendoci lungo un dialogo con esperti del mondo scientifico e ambientalista, oltreché con rappresentanti delle realtà della green economy che diffondono il “verbo” delle rinnovabili. Ma c’è di più. Perché alla fine sono alcuni rappresentanti di partito a dover esprimere la loro proposta per una futura strategia energetica.

Acqua, Aria, Terra e Fuoco. Sui quattro elementi fondamentali (più uno) si struttura un libro che illumina il lato oscuro della cosiddetta green economy , intesa in senso ampio, come il quadro in cui si afferma una relazione – soprattutto predatoria – tra attività umana e amministrazione delle ricchezze naturali. Individuato nel capitalismo un “nemico addirittura della vita”, gli autori puntano a svelarne innanzitutto l’attacco ai beni comuni («prima li saccheggia, poi, quando li ha trasformati in risorse scarse, se ne impossessa per farne oggetto di mercato»). E poi puntano il dito sulle multinazionali che «si presentano col volto pulito della green economy , compromettono la nostra vita e costruiscono un mondo sempre più a misura dei ricchi». Salute e scellerata degradazione ambientale, speculazione e povertà, guerre e diritti negati, energia pulita e condotte criminali percorrono da protagonisti questo libro, fitto di dati, di colpevoli e di vittime. Alla collettività è attribuita l’unica possibilità di porsi come estremo e consapevole baluardo, come quinto elemento della serie, quello dei Movimenti. Che riuniscono gli individui e resistono attraverso i comportamenti (economia solidale, transition town , eco villaggi) o con la lotta (Argentina, Brasile, Cile), laddove occorre impedire la sottrazione del futuro in corso o proporne uno diverso.

Martha Nussbaum Non per profitto Il Mulino, 2013

| 70 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

Andrea Fontana Enel Black Power. Chi tocca muore! Perché vogliono fermare la corsa alle energie rinnovabili in Italia 2013, autoprodotto, ordinabile sul sito www.solarimpulse.it

Alberto Zoratti - Monica Di Sisto I SIGNORI DELLA GREEN ECONOMY - Neocapitalismo tinto di verde e movimenti glocali di resistenza EMI, 2013


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

CUCINA E CULTURA NEL NOME DI BASAGLIA Quando anni fa gli operatori della struttura di Neuropsichiatria dell’Asl 2 di Torino hanno organizzato i primi corsi di cucina per alcuni pazienti, forse non si aspettavano un risultato così concreto: si chiama Caffè Basaglia ed è uno spazio di 400 m2 a Torino, affiliato al circuito Arci, che comprende ristorante e bar e ospita concerti, mostre, cene etniche e presentazioni di libri. A girare fra i tavoli per raccogliere le ordinazioni, oppure in cucina alle prese con pietanze e stoviglie, sono 12 persone con problemi psichiatrici. Persone che, grazie a questa prima esperienza lavorativa, possono trovare la loro strada: «Un ragazzo che lavorava da noi ha ricominciato a studiare», racconta orgoglioso Maurizio, pensionato che lavora al Caffè quasi a tempo pieno. «Una signora che ci aiutava a lavare i piatti, invece, ora fa la cuoca in un ristorante». Dal 2006 la struttura ha potuto contare su numerose donazioni: «A quel punto non potevamo più tirarci indietro – racconta Maurizio – perché avevamo la responsabilità sia nei confronti dei pazienti, sia di chi aveva messo a disposizione qualche risparmio per noi». www.caffebasaglia.org

PRANZI ANTIMAFIA A IMPATTO ZERO PER I RAGAZZI DI BASIGLIO

ALBA, SI BRINDA AL REINSERIMENTO LAVORATIVO

A GENOVA SI IMPARA IL RIUSO CREATIVO

La pausa pranzo degli alunni della scuola di Basiglio, in provincia di Milano, è molto particolare. Perché è la prima in Italia “green” al 100%. L’edificio che ospita la mensa risale agli anni Ottanta e l’anno scorso, quando bisognava rinnovare l’appalto per la sua gestione, versava in quelle che il sindaco Marco Flavio Cirillo definisce senza mezzi termini come «condizioni fatiscenti». Il cambiamento è stato radicale. Se prima si consumavano circa 154 mila kWh annui di energia, ora i consumi sono stati dimezzati grazie all’illuminazione a led e a nuovi serramenti per limitare le dispersioni. E tutta l’energia necessaria è fornita dai pannelli fotovoltaici sul tetto, mentre al riscaldamento provvede un impianto geotermico. Un intervento che non è costato un euro alle casse del Comune perché la spesa, pari a 1 milione e 239 mila euro, è stata a carico della ditta Gemeaz Elior che si è aggiudicata l’appalto. L’amministrazione, anzi, ogni anno risparmierà 16 mila euro di bollette oltre a evitare di immettere nell’atmosfera 40 mila kg di CO2. Il menu dei ragazzi, inoltre, prevede prodotti di filiera corta provenienti dalla zona del Parco Sud («Abbiamo anche “adottato” una varietà di patata coltivata nel Cremonese che rischiava di scomparire», racconta il sindaco), prodotti biologici certificati, Doc e Igp. Periodicamente è previsto anche il menu antimafia, in collaborazione con Libera Terra.

“Vale la pena” di aprire gli occhi sulle carceri italiane, offrendo ai detenuti nuove occasioni di crescita. La frase casca a pennello perché proprio “Valelapena” è il nome del rosso da tavola ricavato dalle uve coltivate nell’Ecovigneto che ha una sede molto particolare: la Casa circondariale di Alba, in provincia di Cuneo. Una quindicina di detenuti sono impegnati da gennaio a luglio nei corsi gestiti dalla Fondazione Casa di Carità, che spaziano dalla teoria spiegata in aula all’attività pratica nell’orto e nel vigneto. Da luglio a ottobre, quattro o cinque di loro si occupano della raccolta. A produrre e imbottigliare il vino è l’Istituto agrario Umberto I, la Scuola enologica di Alba. Il vigneto è attivo ormai da tre anni, grazie alla collaborazione fra gli enti locali, il ministero della Giustizia e i soggetti del Terzo settore che operano sul territorio. «I numeri sono ancora piccoli, ma l’esperienza è molto positiva – spiega Elena Saglietti del consorzio Cis Compagnia di iniziative sociali, che da anni gestisce diversi progetti interni al carcere – e speriamo di allargare gli orizzonti». E una valida vetrina è il mercato “Vale la pena”, organizzato ad Alba a ottobre da due anni per promuovere le specialità agroalimentari provenienti dalle carceri lombarde, piemontesi e venete.

«Lavoravo nel sociale e mi trovavo spesso a riadattare abiti da rivendere: erano capi di buona qualità, ma magari il modello era passato di moda e bisognava fare qualche piccola modifica». Il racconto è di Sara. Poco per volta, con l’amica Monica, entrambe autodidatte, fondano Riciclabò Design, il laboratorio in cui danno nuova vita a camicie, cravatte e pantaloni usati, ricreando abiti artigianali, in gran parte pezzi unici. Sara e Monica hanno girato il Nord Italia fra “So critical so fashion”, il Vintage festival di Padova e tanti eventi legati al mondo del fai da te. Quando sono nella loro Genova, si dedicano ad arredare il loro laboratorio, sempre con elementi riciclati, e a insegnare cucito e riuso creativo. «La cosa più interessante è entrare a contatto con il proprio pubblico – racconta Sara – che va cercato e “preso per la gola” con creazioni belle e originali. Certo, la crisi c’è, ma noi dobbiamo intercettare quella fascia di clienti che ha qualche euro in più a disposizione e preferisce spenderlo in un prodotto ecocompatibile più che in un capo di una grande griffe». http://riciclabo.jimdo.com

| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 71 |



| bancor |

Una storia tutta italiana

Mps, vittima di armi di distruzione di massa è molto di “italiano” nella storia recente del Monte dei Paschi. C’è l’imprevidenza, e la grossolanità anche, che spinse a comprare, strapagandola, Banca Antonveneta, il pezzo forse meno pregiato dello spezzatino Abn, già al centro di Bancopoli e delle attenzioni dei “furbetti del quartierino”. C’è l’insensatezza con la quale si è tentato di rimediare a

C’

dal cuore della City Luca Martino

un’operazione chiaramente sconveniente con una serie di altre operazioni finanziarie altrettanto rischiose, puntando sulle maglie larghe della contabilità e sulla fragilità dei meccanismi di controllo. C’è la temerarietà con la quale si tentò di raggirare i giapponesi di Nomura e i tedeschi di Deutsche Bank dopo essere stati circuiti dagli spagnoli del Santander. E c’è, non da ultimo, l’immoralità della condotta fraudolenta con la quale la cosiddetta “banda del 5%” pare aver gonfiato i prezzi di quelle operazioni per mero arricchimento personale. Ma c’è anche, e soprattutto, molto di quello che, più o meno ovunque nel mondo, è diventato oggi il sistema finanziario: un calderone dove è difficile distinguere tra incompetenza e corruzione, incapacità e malcostume, vittime e carnefici. Vicende analoghe a quella di Mps sono, infatti, avvenute anche negli Stati Uniti, i primi a subire gli effetti sistemici di una gestione avventata del denaro e della “lettera” finanziaria, magnificati regolarmente dai rapporti quasi sempre poco trasparenti tra piccole banche regionali, grandi banche d’affari e istituzioni statali o para-statali. E anche in molti Paesi europei, compresa la Germania, dove alla crisi del mercato interbancario che ha colpito i giganti del credito si è aggiunta la crisi di liquidità

che gli organismi di controllo che del rispetto delle regole avrebbero dovuto fare un principio cardine del loro operato. Da questo punto di vista c’è di che rimanere sbalorditi nel rileggere gli atti della Consob, del ministero del Tesoro, della Banca d’Italia, della Bce, del Cebs (l’autorità di supervisione europea), che negli ultimi anni hanno tutti ritenuto di non dover muovere altre critiche alla dirigenza del gruppo senese se non specifici rilievi formali, del tutto marginali e irrilevanti, e che nulla hanno di fatto eccepito di sostanziale circa la governance aziendale e le pratiche finanziarie e contabili di Rocca Salimbeni. Complicità? Incompetenza? In attesa che la giustizia faccia il suo corso, a chi aspirasse a rinnovare il sistema bancario, a partire evidentemente dagli strumenti di vigilanza, suggerirei la rilettura non già di un prontuario di tecnica bancaria o di qualche manuale di compliance, ma del bilancio del 2002 della Berkshire Hathaway, la holding di Warren Buffett, nel quale l’oracolo di Omaha definì, spiegandone nel dettaglio le ragioni, gli strumenti derivati come «un’arma di distruzione di massa dai rischi potenzialmente letali sia per le controparti coinvolte che per l’intero sistema economico». 

Il caso della banca senese non è altro che lo specchio della crisi smisurata del sistema finanziario globale delle Landesbank, gestite anch’esse da enti regionali o fondazioni di diritto pubblico. Il caso “italianissimo” dell’Mps è solo l’ultimo esempio di quella che altro non è che una crisi smisurata del sistema finanziario globale, legata, da un lato, a fattori squisitamente tecnici – tra questi l’inadeguatezza delle poste contabili e degli indici regolamentari ai fini di una rappresentazione fedele ed efficace delle dinamiche del conto economico, il sempre irrisolto conflitto di interessi all’interno delle unità di business delle banche e la dimostrata fragilità dell’attuale modello operativo dei mercati secondari – e, dall’altro, a ragioni etiche che non hanno risparmiato nean-

todebate@gmail.com | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 73 |


| resistenze |

Donne e uomini, imprese che si indignano, protestano, resistono alla crisi

C’è crisi

Boom dei giornali di strada cs, il gruppo del Corriere della Sera, taglia ottocento posti di lavoro. A rischio chiusura perle dell’editoria come Astra, Yacht & Sail, Novella 2000, Visto. In Germania chiude il Financial Times Deutschland, mentre Rupert Murdoch annuncia su twitter che toglierà le tette dalla terza pagina di The Sun. È la fine di un’epoca. Con l’onnipresenza di internet la carta stampata soffre. Tagli a destra, a manca, a nord e a sud. Ma c’è una nicchia coriacea che resiste. Una riserva indiana editoriale che con la crisi non solo non patisce, ma si rafforza. È il mondo dei giornali di strada, venduti (e in parte scritti) dai poveri, dai senza dimora, gente che in crisi ci si trova come condizione di vita, che conosce le coltellate del freddo e i morsi della fame. Se n’è accorto perfino l’Economist qualche settimana fa: «Anche il caos economico può portare a nuovi business», scrive il settimanale inglese, bibbia del pensiero liberale. «È nato un nuovo giornale di strada in Grecia (Schedia) e ci sarà anche un festival che radunerà i 120 street papers più importanti al mondo, distribuiti da 28 mila venditori». «La Germania ha 19 testate, con una tiratura di 4 milioni di copie all’anno». I giornali parlano di emarginazione, danno voce ai senza dimora, spesso informano anche sugli eventi della città in cui vengono venduti e nella maggior parte dei casi sono collegati a progetti sociali coordinati da organizzazioni di assistenza volontarie, religiose, pubbliche. Ai venditori – che si mettono in tasca una parte del prezzo finale – vengono offerte le cure di base, un letto e un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro. Il giornale è solo l’inizio, la parte visibile di una lunga catena di aiuto e auto-aiuto. «Stranemente – osserva l’Economist, che ha analizzato il fenomeno – gli street papers stanno andando meno bene nei Paesi nei quali sono partiti». Street News, nato a New York nel 1989, ha chiuso nel 2007. Big Issue in Gran Bretagna vendeva 250 mila copie nel 2001, oggi solo 100 mila. «Con la crisi si è meno altruisti», suggerisce il settimanale inglese. Ma anche la concorrenza di internet fa la sua parte. Per fronteggiarla, a Manchester e Chicago è partito un progetto pilota per la prima versione digitale di Big Issue. I senza dimora saranno formati come “giornalisti online” e potranno scrivere dagli internet point e dalle biblioteche. I testi saranno accessibili scannerizzando un codice a barre impresso su una cartolina, venduta per strada. Il futuro degli street papers è appena cominciato. 

R

| 74 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |

di Mauro Meggiolaro

Scarp de’ tenis - www.scarpdetenis.it Fatti Scarp de’ tenis è uno dei più importanti giornali di strada italiani. Nato a Milano nel 1994 e sostenuto dalla Caritas Ambrosiana è oggi distribuito a Torino, Napoli, Genova, Catania, Como, Firenze, Palermo, Rimini, Salerno, Verona e Vicenza. La diffusione su scala nazionale del progetto Scarp è stata resa possibile da un progetto finanziato con fondi otto per mille della Chiesa cattolica attraverso Caritas Italiana. Numeri 105 venditori a livello nazionale, di cui 46 a Milano e 11 a Napoli. Oltre ai venditori altre 70 persone hanno collaborato con poesie, racconti, testimonianze, articoli, fotografie e disegni, che vengono pubblicati sulla rivista. Si tratta di persone in difficoltà, a cui è riconosciuto un compenso economico, sotto forma di diritti d’autore, oltre a un supporto sociale. 150 mila le copie vendute nel 2012 nelle parrocchie, in strada, in mercati, supermercati, aziende, feste, eventi. Interventi Scarp de’ tenis è al centro di un progetto sociale più ampio per l’assistenza ai senza dimora e il loro graduale reinserimento nel mondo del lavoro: stireria e sartoria, volantinaggio, piccoli sgomberi, pulizie, ecc...

Nella foto un venditore del giornale di strada berlinese Motz presenta un capo della Survival Collection Autumn/Winter 2014, disegnata da stilisti famosi per lanciare il giornale di strada

Per inviare commenti e proposte: http://zoes.it/meggiomauro twitter: @meggio_m Facebook: https://www.facebook.com/pages/Mauro-Meggiolaro/ 115383048506446


abbonamenti2013 Su Carta Only Web Reader All Inclusive

ra su misu per te!

Abbonamento annuale o biennale in tre formati diversi + il DVD Valori Collection Ordinario su carta

Only Web Reader (pagamento con Carta di Credito)

38 €

28 €

A N N U A L I

A N N U A L I

I nostri cento passi

Tu i i numeri in PDF dallo 0 al 100

“All inclusive” Ordinario su carta + Web Reader

48 €

Valori Collection

A N N U A L I

Un DVD con l’archivio completo di tutti i numeri di Valori dallo 0 al 100 in formato pdf!

10 €

15 €

5€ Prezzo speciale per gli abbonati o cumulabile con ogni tipo di nuovo abbonamento

Prezzo speciale per 2 DVD

Info abbonamenti anche su sito www.valori.it

Facebook /PeriodiciValori

Seguici su:

Twitter /PeriodiciValori

YouTube /PeriodiciValori

[solo con Carta di Credito]

 Rinnovo  Nuovo Abbonato

 Cartaceo  con Valori Collection

 Web Reader  con Valori Collection

 Cartaceo + Web Reader  con Valori Collection

cognome e nome*

denominazione ente/azienda

indirizzo*

cap*

e-mail*

telefono*

età

attività

 Solo Valori Collection n° .................... copie [*] obbligatorio

città*

titolo di studio

 Regalo l’abbonamento e/o Valori Collection sopra indicato a [cognome e nome]: indirizzo*

cap*

città*

e-mail/telefono

Autorizzo il trattamento dei dati personali ai sensi del D.Lgs. 196/2003 e s.m., per l’abbonamento e per la gestione della promozione (l’informativa completa è disponibile sul sito www.valori.it) luogo e data

firma leggibile

Ho già provveduto al pagamento tramite (allegare copia della ricevuta di pagamento)

 bollettino postale

 bonifico bancario

 modello RID

 carta di credito

COME EFFETTUARE IL VERSAMENTO  on line con carta di credito - modulo RID info su www.valori.it, sezione “Abbonati” (scelta obbligata per l’abbonamento Web Reader)  con bonifico bancario, sul C/C EU IBAN: IT29 Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica, intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (**)  con bollettino postale, sul C/C 28027324 intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (** è consigliato l’invio del tagliando per i nuovi abbonati) Nelle causali inserire sempre nome, cognome, indirizzo e recapito e-mail del destinatario, specificando la tipologia scelta (es. “Abb. annuale cartaceo”, “Abb. biennale Web Reader”, ecc…) Se sei un nuovo abbonato per una corretta e rapida attivazione, dopo aver effettuato il pagamento con bonifico o ccp della quota corrispondente all’opzione scelta, ti chiediamo la cortesia di inviare il tagliando compilato a mezzo fax (02 67479116) o tramite posta elettronica (abbonamenti@valori.it). In caso di rinnovo è necessario l’invio del tagliando solo per comunicare modifiche anagrafiche. Per ulteriori informazioni contattate la segreteria al n. 02 67199099 dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 17.30 oppure scrivete a segreteria@valori.it



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.