Mensile Valori n. 105 2012

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 105. Dicembre 2012 Gennaio 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

GIANNI BERENGO GARDIN / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Impresedariscrivere Cooperative e non solo. Una responsabilità sociale stile-Olivetti è possibile? Finanza > Obama 2: Wall Street deve tremare. O sarà l’ennesimo compromesso? Economia solidale > Incentivi all’energia: carbone e petrolio battono le rinnovabili | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Sudafrica, aspettando il congresso dell’Anc tra diseguaglianze e razzismo


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| editoriale |

Produzione sociale Per crescere insieme di Flaviano Zandonai

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L’AUTORE Flaviano Zandonai Sociologo, svolge attività di ricerca, formazione e consulenza nel settore non profit e dell’impresa sociale. Collabora con Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), il consorzio nazionale Cgm e il gruppo editoriale Vita. È segretario di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale.

uesto numero di Valori è dedicato alla competizione. A un particolare tipo di competizione per la produzione di un’altrettanto particolare tipologia di bene. Si tratta della produzione di socialità e del modo in cui questa si incorpora in maniera sempre più evidente nei beni e nei servizi veicolati da una pluralità di soggetti. Non solo da quegli attori che, per missione e tradizione, operano per il “bene comune” o l’“interesse generale” come le amministrazioni pubbliche e i soggetti dell’economia sociale. Anche una parte, seppur minoritaria, di imprese for profit si dichiara orientata a produrre valore, non solo economico e non solo per gli azionisti, ma anche sociale e ambientale a favore di una pluralità di portatori di interesse. Si assiste così a un allargamento e a una differenziazione interna al campo della produzione sociale. La modernità ha progressivamente concentrato potere e risorse nelle diverse articolazioni dello Stato, ridimensionando il ruolo dell’autorganizzazione comunitaria. La contemporaneità ha visto riemergere, da almeno una trentina d’anni a questa parte, vecchie forme organizzative della società civile capaci di innovare la produzione sociale, pur correndo il rischio di essere colonizzate da burocrazie pubbliche che, in alcuni campi come il welfare, hanno mantenuto il monopolio delle risorse economiche. Oggi, “grazie” all’accelerazione della crisi, che ha mandato in default il modello di produzione sociale basato sulla redistribuzione di risorse pubbliche per finanziare l’offerta di un mix di attori, prende forma una nuova supply chain dell’economia e della socialità: una catena di produzione incentrata intorno all’azienda che assume un ruolo di trasformazione sociale. Le business schools hanno provveduto, con la consueta efficienza, a elaborare un modello interpretativo con relativa denominazione. La produzione di shared value, valore condiviso, è il mantra di un nuovo capitalismo in crisi di identità, messo sotto assedio da una schiera sempre più folta e competente di cittadini, che – come sostiene l’economista Leonardo Becchetti – “votano con il portafoglio”, facendo cioè delle scelte di consumo un atto politico. Il risultato è che la produzione di valore condiviso è lo slogan di multinazionali come Nestlé, da sempre nell’occhio del ciclone proprio per l’orientamento a massimizzare una sola dimensione del valore (economico) a favore di una ristretta platea di beneficiari (gli azionisti). Eppure la partita della produzione sociale merita di essere giocata, nonostante i livelli crescenti di complessità e di ambivalenza. Una via italiana può consistere nel “riportarla a terra”, dentro i contesti socio-economici locali, magari per scoprire che questo paradigma proprio così nuovo non è. E che, dunque, esistono molte risorse in attesa di essere rigenerate. Basta guardare alle storie raccontate in questo numero di Valori per riscoprire che la socialità è da tempo una questione “condivisa” tra enti pubblici, imprese glocal, economia sociale. Ed è forse quest’ultimo settore che presenta i più promettenti margini di sviluppo, nella misura in cui si sappia leggere non solo con la retorica dei fini e il massimalismo delle forme giuridiche, ma attraverso la capacità di organizzarsi in filiere trasversali tra modelli cooperativi, associativi, volontaristici. Un tessuto ricco di risorse chiamato a fare un salto di qualità: dai tavoli della programmazione e delle progettualità a un’imprenditoria sociale. Una rete sostenibile negli esiti e nella gestione, realizzando così la competizione nel suo significato etimologico: cum-petere, cioè crescere insieme. 

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| decrescita: il dibattito |

Il dibattito attorno al tema della decrescita continua. Il dossier pubblicato da Valori lo scorso settembre ha acceso un vivace confronto, con opinioni anche molto diverse tra loro. Le ospitiamo su queste pagine e sul sito internet www.valori.it.

Uno sguardo critico sulla decrescita da un punto di vista bioeconomico di Alberto Berton

Come modesto studioso di Bioeconomia e occupandomi professionalmente di sviluppo dei sistemi agroalimentari biologici e di forme innovative di vendita dei prodotti freschi, sfusi e locali, mi permetto di dare il mio personale contributo alla discussione in corso. Mi trovo coinvolto sul tema della decrescita per due ragioni. La prima: mi sono laureato in Economia politica nel 1995 con una tesi sulla riflessione epistemologica di Nicholas Georgescu Roegen […]. Un merito dei teorici della Decrescita è sicuramente quello di avere riportato in luce il pensiero di questo gigante intellettuale, a cui direttamente fanno riferimento. Noto però la presenza di interpretazioni teoriche secondo me non corrette e indirizzi di azione deboli e contraddittori. La seconda ragione: […] lavoro da oltre un decennio nell’ambiente del biologico, delle filiere corte, dello sfuso. Guardo e partecipo con interesse a quei movimenti critici della “domanda” che stanno esprimendo, con l’azione, una volontà di cambiamento forte. […] il consumo consapevole e responsabile, la finanza etica, l’economia equo-solidale, i Gas. Ed è proprio in questi ambienti che la “decrescita” rischia di diventare la nuova bandiera. Del resto, come dice Latouche, “la decrescita è uno slogan”. Come “urlo” di antagonismo rivolto a quanti credono ancora che l’aumento di un indice quantitativo come il Pil debba essere l’obiettivo del nostro processo economico va anche bene: ma il pericolo è un dialogo tra sordi. Al di là dell’efficacia o meno dello slogan, resta il fatto che, dietro la decrescita, è stata fatta una teorizzazione […]. Mauro Bonaiuti parla di “paradigma della decrescita” e nel libro Obiettivo Decrescita ci dice che questo paradigma nasce da due filoni: quello della critica radicale dello sviluppo di Latouche e quello della Bioeconomia di Georgescu Roegen. Ma questi due filoni cozzano e ne esce una visione e una prospettiva d’azione piuttosto “debole” e a volte “dubbia” dal punto di vista politico-valoriale. Latouche identifica lo sviluppo con la crescita, mentre Roegen, seguendo gli insegnamenti di Joseph Schumpeter, ci ha sempre ammoniti a distinguere la crescita (cambiamento quantitativo) dallo sviluppo (cambiamento qualitativo). […] «Su un piano puramente logico non si deve necessariamente mettere in relazione sviluppo e crescita: è perfettamente plausibile che vi sia sviluppo senza crescita […]» (Georgescu Roegen in Energia e miti economici). | 4 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

È vero, come dice Bonauti, che lo sviluppo è sempre accompagnato dalla crescita e, quindi, ogni sviluppo prima o poi si scontrerà con i limiti entropici del Pianeta. È vero che il nostro attuale sistema economico è in maniera abnorme improntato sullo sfruttamento delle risorse esauribili, è mosso da obiettivi speculativi sempre più avidi e rapaci, e genera guerre, diseguaglianze, inquinamenti, sofferenze e povertà. Ma questo non ci deve portare a pensare che il sistema economico non si possa cambiare in quanto è l’unico possibile (come del resto credono i neoliberisti) e che la soluzione sia “uscire dall’economia” (come sostiene Latouche) per raggiungere una Nuova Gerusalemme (direbbe Georgescu Roegen) dove pochi eletti potranno vivere in pace e armonia tra di loro e con la natura per l’eternità. Altrimenti: “O Decrescita o barbarie”. […] Giorgio Nebbia ha cercato di farci afferrare questo messaggio in modo più semplice dicendo: «Mangiare la torta, e poi averla ancora tale e quale, come vuole la definizione di sostenibilità, è un obiettivo fisicamente irraggiungibile». Per questo ha proposto di eliminare dal vocabolario la parola “sostenibilità” e tutti i suoi aggettivi. Non è vero quindi, come sostiene Latouche, citando la celebre frase di Georgescu Roegen sull’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”, che il problema sta nella parola “sviluppo”. Il concetto “tossico” è la “sostenibilità”, che esprime il mito della “salvezza ecologica” ed è fasullo se applicato alle vicende umane almeno come queste si sono andate sviluppando nella storia. E la nostra storia culturale e tecnologica è un processo evolutivo dal quale non possiamo prescindere, […]. Per Georgescu Roegen: «È indubbio che l’attuale processo di crescita deve giungere a un termine, anzi, rovesciarsi. Ma chiunque creda di potere stilare un programma per la salvezza ecologica della specie umana non comprende la natura dell’evoluzione, e nemmeno della storia […]». Quello che dobbiamo cercare di costruire in un’ottica di consapevolezza e responsabilità è uno sviluppo “meno insostenibile” e nel farlo dobbiamo chiederci, come ci ricorda il nostro Giorgio Nebbia, che cosa deve crescere e che cosa decrescere. Speriamo quindi ad esempio che decresca la vergognosa industria della guerra e che cresca l’industria delle protesi biomediche, che decresca l’agricoltura intensiva e transgenica e cresca l’agricoltura biologica, che decrescano le automobili che non ci stanno nei garage e che crescano le biciclette in circolazione, che decrescano gli enormi pescherecci che dilapidano gli oceani e crescano i piccoli trattori per le aziende agricole del Sud del mondo.


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Ma dobbiamo tenere sempre a mente che ogni attività che decidiamo di fare avrà un costo per noi e soprattutto per le generazioni che verranno […]. La visione di una rete di società sostenibili, felici, serene, armoniche, organiche, autonome, locali, autosufficienti, “vernacolari” dove il movimento di cose e di persone è ridotto all’osso, la prospettiva di un municipio che decide quante scarpe devo avere e se la mia giornata lavorativa debba essere di due o tre ore, da una parte mi fa pensare a visioni idealizzate, utopiche e antistoriche (tipo il socialismo feudale), dall’altra mi fa rabbrividire e forse capire le simpatie per la decrescita di posizioni politiche a me come a molti lontanissime come quelle della nuova destra. In famiglia condividiamo e pratichiamo nella vita quotidiana diverse azioni di cambiamento di cui si parla anche nella decrescita: non abitando nelle grosse aree urbane abbiamo il privilegio di avere un orto, con i vicini di casa occasionalmente acquistiamo direttamente dagli amici produttori, per il riscaldamento domestico bruciamo robinia locale nella stufa, nella quale cuociamo anche le pizze e le focacce. In famiglia pensiamo però che molte di queste cose siano in parte dei privilegi e che non rappresentino l’unico modo per cambiare il mondo. È per questo che vedo più interessante dell’uscita dall’economia la costruzione di “altri” mercati dei beni e dei servizi: rionali, nazionali, europei, internazionali che siano, come del resto da tempo si sta

MOLTI SGUARDI VERSO IL FUTURO MA MANCA UNA VISIONE GLOBALE Non vi è alcun dubbio che l’attuale modello di sviluppo vada cambiato alle radici. È ormai evidente l’aumento della povertà e delle disuguaglianze tra gli esseri umani. Si stanno intaccando le risorse del Pianeta: non solo le materie prime e le fonti di energia fossile, ma anche gli elementi essenziali per la vita umana come acqua, aria e suolo. A questo si aggiunge la crisi del sistema finanziario mondiale. Dal 1993 i Bilanci di Giustizia costruiscono un’esperienza concreta di cambiamento dello stile di vita, su un campione che ha interessato oltre mille famiglie e singoli. L’intuizione di partenza è che il cambiamento dell’economia debba cominciare da sé stessi, che vi sia un principio di giustizia come discrimine e che questo cambiamento vada misurato, perché possa diventare fatto politico. Attuando un lavoro di revisione sui consumi familiari, un uso diverso del tempo e promuovendo una maggiore apertura a una vita di relazioni e di ospitalità, sono stati raccolti dati che mostrano che a una riduzione dei consumi (mediamente del 21%) corrisponde un miglioramento della qualità della vita. Il dato è stato rilevato attraverso alcuni indicatori elaborati con il Wuppertal Institut tedesco. Tale miglioramento si concretizza principalmente nella “disponibilità di tempo” per le cose che si ritengono più importanti. Quindi una “decrescita” che parta dal basso è possibile e auspicabile. Un anno fa la Campagna Bilanci di Giustizia è stata contattata dagli organizzatori della terza Conferenza internazionale sulla Decrescita. Siamo stati invitati a monitorare l’impatto

cercando di fare, a volte con successo (!), ognuno con delle proprie logiche e strategie rinnovate nel senso della consapevolezza e della responsabilità e della mescolanza culturale di persone, di merci e di idee. […] Dalla visione della mia professione di “mercataro”, rilevo poi che la decrescita stia diffondendo in Italia una visione della merce, dello scambio, del consumo e del lavoro ideologicamente negativa, quasi “peccaminosa”, e Per capire i “perché” della decrescita un questo stia in qualche modo limitando lo svilibro, appena uscito, luppo (e quindi la crescita) di alcune espescritto da alcuni dei rienze distributive alternative e di avanguarsuoi sostenitori dia (per il contesto italiano), che si stanno generando dalla parte dei cittadini e di piccoli imprenditori (soprattutto donne). A mio avviso queste esperienze, se liberate da queste costrizioni ideologiche “anti-mercato”, potrebbero manifestare in modo più efficace le loro grandi potenzialità. La situazione è comunque estremamente fluida e il sasso lanciato da Valori è in realtà una grande opportunità di discussione. (Ringrazio Daphne per il contributo e le considerazioni date) L’intervento integrale sul sito www.valori.it

di Don Gianni Fazzini ed Enrico Pullini (www.bilancidigiustizia.it) ambientale dell’evento. Ci è sembrata una proposta seria e interessante, abbiamo offerto la nostra collaborazione e seguito attivamente la preparazione e lo svolgersi della Conferenza, realizzando il Bilancio di Sostenibilità dell’evento (una prima valutazione su www.bilancidigiustizia.it). L’abbiamo sentita come un’esigenza di coerenza e come buona occasione di confronto, all’insegna della Decrescita, fra esperienze e movimenti, molto vari nell’approccio e diversi tra loro, ma uniti dalla consapevolezza che stiamo vivendo un tempo di transizione culturale ed economica. Non possiamo lasciare al mondo della finanza l’esclusiva di pilotarci verso una nuova era in cui vengano monetizzati tutti gli elementi del vivere. La Conferenza di Venezia è stata un’occasione, con una larga partecipazione di giovani, per confrontarsi e per presentare le proprie specificità. Negli ultimi vent’anni sono sorte molteplici iniziative che possono essere di aiuto per costruire il futuro: dal commercio equo e solidale ai Gruppi di acquisto solidale, dall’impegno per l’ambiente alla finanza etica, dalle associazioni di Comunità famiglia al volontariato per il Terzo Mondo, ecc. È mancata però la cura di un rapporto fra i vari soggetti che punti a una visione globale di un Nuovo Modello. È mancata una ricerca comune fra queste realtà, che vada al di là della preoccupazione della propria autoconservazione. Solo creando spazi di condivisione e di sinergia si potrà costruire una nuova economia e una società in cui ogni soggetto possa vivere la propria tensione a una vita piena di senso e quindi alla felicità.

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| globalvision |

Una politica alternativa ai tagli europei

All’austerity Obama risponde col lavoro

A

di Alberto Berrini

stato anche determinato dall’intervento pubblico, che ha salvato il settore automobilistico e rilanciato quello delle infrastrutture. Ma Obama ha vinto soprattutto perché Romney non è risultato credibile come “gestore dell’economia” ed è stato giudicato come un “George Bush riscaldato” (meno tasse ai ricchi e più spese militari). La prima sfida sul versante economico che Obama deve affrontare riguarda l’ormai famoso fiscal cliff (precipizio fiscale), evento fissato all’1 gennaio 2013. A quella data entreranno in vigore sia rilevanti tagli di spesa pubblica che un aumento delle aliquote fiscali, causato dalla fine delle agevolazioni approvate dalla presidenza Bush. Senza un intervento legislativo il fiscal cliff provocherebbe un deciso rallentamento dell’economia americana fino al punto da condurla a una nuova fase recessiva. La promessa di Obama è «combinare i tagli alla spesa con l’aumento delle entrate e ciò significa che gli americani più facoltosi dovranno pagare più tasse». Obama è stato chiaro: «Non accetterò alcuna soluzione che non sia bilanciata, ossia non chiederò alla classe media di pagare per l’intero deficit quando a persone come me, con redditi oltre i 250 mila dollari, non viene chiesto di pagare più tasse».

che coinvolga imprenditori, sindacalisti e leader della società civile, per spingere le imprese «a creare occupazione qui e non all’estero». Obama ha, infatti, dichiarato: «Il mio secondo mandato sarà anzitutto dedicato ai disoccupati». Questo intento dimostra la distanza della cultura economica di Obama da quella di Romney. Quest’ultimo rappresenta il mondo del private equity ossia di quella cultura economica che privilegia la rendita finanziaria al lavoro, che non disdegna lo svuotamento delle imprese soprattutto se questa via garantisce ampi utili a breve termine. Del resto fin dai tempi di Clinton, ma anche nel precedente mandato di Obama, gli Stati Uniti hanno ceduto all’Asia sempre maggiori quote di manifatturiero in cambio di un ruolo privilegiato per Wall Strett nella gestione delle risorse finanziarie asiatiche. Torna il tema del rapporto politica-finanza che le campagne elettorali multimiliardarie rendono sempre più stringente. Nel precedente mandato l’amministrazione Obama è stata giustamente accusata di essere stata troppo vicina al mondo finanziario. Quest’ultimo questa volta ha scelto (sbagliando!) Romney. Un motivo in più per Obama per perseguire, con coerenza, le sue scelte di politica economica. 

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

lla fine ha vinto Obama, nonostante la fragilità della congiuntura economica che solitamente favorisce lo sfidante del presidente in carica. Ma, se la disoccupazione rimane elevata, è un fatto che due milioni di posti di lavoro sono stati creati negli ultimi due anni. E ciò non è solo dipeso dalla politica monetaria ultraespansiva della Federal Reserve, ma è

Lo sfidante Mitt Romney è risultato non credibile e giudicato come un “George Bush riscaldato” È evidente che Obama propone una politica economica alternativa all’austerity, che purtroppo risulta ancora egemone in Europa. È, infatti, solo grazie a una politica fiscale che recuperi risorse dalle fasce più ricche della popolazione che si possono «ridurre il deficit e fare contemporaneamente gli investimenti». Obama cerca in tal modo di coniugare una seria terapia di risanamento dei conti pubblici con politiche economiche di sostegno dell’occupazione e investimenti di lungo periodo. In definitiva un “nuovo New Deal” con al centro infrastrutture, istruzione e ricerca scientifica e politiche ambientali ed energetiche. In questo ambito si tratta di siglare un grande patto su “lavoro e crescita”,

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dicembre 2012/gennaio 2013 mensile www.valori.it anno 12 numero 105 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Roberto Caccuri, Fabio Cuttica, Xinhua (Contrasto); Fabrizio Bensch, Handout, Jorge Silva (Reuters); Olivier Douliery (Photoshot); Tomaso Marcolla abbonamenti Annuali Biennali Ordinario cartaceo - scuole, enti non profit, privati - enti pubblici, aziende Only Web Reader Cartaceo+Web Reader

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GIANNI BERENGO GARDIN / CONTRASTO

| sommario |

Ivrea, 1981. Nello stabilimento Olivetti un’operaia effettua un controllo di qualità di una macchina da scrivere.

globalvision fotonotizie dossier Imprese da riscrivere Il rigore non risparmia la cooperazione sociale La terza via è passata da Manchester Cooperative di salvataggio Responsabilità sociale. L’impasse dell’Ue Olivetti, la rivoluzione dall’alto L’economia soft che rende forte l’Italia

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finanzaetica Wall Street e le riforme. Obama 2, la vendetta? Tobin tax. Così vicina, così lontana Entrare in banca. Difficile per gli stranieri

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valorifiscali unpianetadafavola economiasolidale

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Incentivi all’energia. Carbone e petrolio battono le rinnovabili Chi continua a puntare sull’energia pulita? Politica agricola, s’infiamma la battaglia sul greening Quante ombre tra le luci dell’agricoltura italiana E la fabbrica finì al cimitero L’antimafia di provincia che pensa in grande

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consumiditerritorio internazionale

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Sudafrica. L’apartheid economica Chi soffia sul fuoco siriano Brasile. La grande frenata?

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altrevoci bancor action!

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LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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| fotonotizie |

L’Italia non è un Paese per bici

[Ciclisti alle prese con un pericoloso slalom nel traffico di Milano].

EMANUELE BIONDI / © PHOTOSHOT / TIPS

Nel 2011 in Italia si sono vendute più bici che auto. Lo storico sorpasso, che non si registrava dal dopoguerra, è stato di circa duemila biciclette in più: 1.748.143 le auto vendute, 1.750.00 le bici che gli italiani si sono portati a casa. Ma chi pedala in Italia lo fa a suo rischio e pericolo: prima c’è stata la sentenza 7970/2012 della Cassazione che ha stabilito che non è risarcibile il lavoratore che subisce un infortunio mentre va al lavoro usando la bici, se lo stesso percorso è servito da mezzi pubblici. Poi è arrivata la doccia gelata dei dati Aci-Istat sugli incidenti stradali nel 2011 a confermarci che l’Italia non è un Paese attrezzato per le bici, anche se riscuotono un sempre crescente successo. Secondo la ricerca Aci-Istat da una parte sono calati i numeri dei decessi sulle strade (-5,6%), mentre dall’altra parte il numero di biciclette coinvolte in incidenti stradali con lesioni a persone è aumentato del 12%; quello dei ciclisti morti è aumentato del 7,2% e dell’11,7% quello dei feriti. Gli incidenti stradali che coinvolgono autoveicoli sono diminuiti su autostrade e strade extraurbane, grazie ai limiti e ai controlli, uniti alla diminuzione del traffico dovuta alla congiuntura economica, mentre per le due ruote il problema sono le strade cittadine, dove la mancanza di piste ciclabili, la scorrettezza dei guidatori e spesso la scarsa manutenzione del fondo stradale falciano gli appassionati dello spostamento “leggero”. [PA.BAI.]

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A oltre quattro anni di distanza dal fragoroso default nazionale, l’Islanda rischia nuovamente di andare incontro agli effetti della bolla immobiliare. Un potenziale disastro, insomma, ma anche un’autentica beffa per il Paese che aveva detto no alle banche, avviando un poderoso piano di difesa finanziaria nazionale. Eh già, perché a innescare la nuova bolla, paradossalmente, sarebbe stato proprio uno dei provvedimenti chiave assunti dal governo di Reykjavik nel corso dell’emergenza finanziaria: il blocco degli asset monetari offshore . Nel 2008, con il Paese in bancarotta, le autorità islandesi avevano imposto il blocco dei depositi stranieri denominati in corone, la valuta nazionale in corso di svalutazione. Il provvedimento, che mirava a frenare la fuga dei capitali nel momento più difficile della crisi (Argentina docet ), prevedeva come unica possibilità il reinvestimento del denaro entro i confini del Paese. Risultato: gran parte degli otto miliardi di corone offshore confinate nell’isola hanno finito per essere investite nel comparto più svalutato e, di conseguenza, più promettente nel medio periodo: il settore immobiliare. La presidente del parlamento islandese Sigridur Ingibjorg Ingadottir ha proposto l’introduzione di una legge per bloccare nuovi investimenti, ma la nuova norma rischia di essere tardiva. Dall’aprile 2010 ad oggi, ha riferito Bloomberg , i prezzi delle case in Islanda sono saliti del 17%, toccando un livello prossimo a quello raggiunto nel picco pre-crisi (appena 1,7 punti percentuali in meno rispetto al marzo 2008). Era stata proprio l’esposizione ai titoli tossici del comparto immobiliare a condurre al fallimento le tre principali banche private del Paese sotto il peso di un debito da 85 miliardi di dollari che lo Stato non aveva potuto materialmente coprire. [M.CAV.]

[Un quartiere residenziale della capitale islandese Reykjavik].

RUGGERO MARAMOTTI / GALLERY STOCK / CONTRASTO

Bolla immobiliare Quattro anni dopo l’Islanda ci ricasca

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Giappone Dopo Fukushima il voto radioattivo

[Il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda (secondo da destra) visita il reattore numero 4 di Fukushima, il 7 ottobre 2012].

REUTERS / KYODO

«Restituiteci la regione di Fukushima!», gridavano i 170 mila manifestanti che lo scorso 16 luglio si sono trovati a Tokyo per chiedere al governo di abbandonare il nucleare. E, sebbene a settembre 2012 il Giappone abbia finalmente, e dopo vari tentennamenti, deliberato una exit strategy energetica entro il 2040, da qui al prossimo voto politico nazionale del 16 dicembre le conseguenze del maremoto dell’11 marzo 2011, che colpì l’unica centrale atomica più famosa di Chernobyl, condizioneranno di certo l’esito politico. Ad agosto del 2009 i democratici del Dpj salirono al potere dopo oltre 50 anni di governi quasi ininterrottamente retti dal Partito Liberal Democratico (Ldp), ma i sondaggi danno il partito del premier Yoshihiko Noda in pieno ridimensionamento. Chi ne trarrà beneficio non è però dato sapere, visto che l’Ldp, il rivale principale, ha promosso l’energia atomica negli ultimi decenni di dominio e l’opinione pubblica manda segnali contrastanti: a luglio, secondo il quotidiano d’affari Nikkei, ben il 49% degli intervistati sosteneva il riavvio degli impianti nucleari a un “livello minimo” di esercizio e in alcune elezioni amministrative vincevano candidati dei partiti pro-nucleare (Shigetaro Yamamoto nella prefettura di Yamaguchi, dichiarando però di voler sospendere la costruzione della centrale atomica di Kaminoseki; Yuichiro Ito nella prefettura di Kagoshima contro uno sfidante che si era opposto al riavvio di un’altra centrale). L’unica certezza è che la fibrillazione sul tema dell’atomo è rimasta sempre in prima pagina: dalla discussione sulla chiusura o meno della centrale di Oi – l’unica riattivata post-Fukushima – per una linea di faglia che le correrebbe sotto (e accuse agli esperti di aver accettato “donazioni” dal settore pro-nucleare), alla sottostima della contaminazione denunciata da Greenpeace, alle critiche per la spesa dei 113 miliardi di euro destinati alla ricostruzione. [C.F.]

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dossier

a cura di Andrea Barolini, Corrado Fontana ed Emanuele Isonio

Un momento di lavoro alla Chilavert, fabbrica di Buenos Aires recuperata dai lavoratori. Marcelo Vieta, ricercatore argentino che collabora con Euricse, si mette al lavoro con gli operai della fabbrica

Il rigore non risparmia la cooperazione sociale > 18 La terza via è passata da Manchester > 20 Cooperative di salvataggio > 22 Responsabilità sociale. L’impasse dell’Ue > 24 L’economia soft che rende forte l’Italia > 26


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Imprese da riscrivere Dalle cooperative alle aziende tradizionali, la responsabilitĂ sociale deve diventare un ingrediente comune. E un volano di crescita economica e culturale


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dossier

| imprese da riscrivere |

Il rigore non risparmia la cooperazione sociale di Andrea Barolini

più di quattro anni dall’esplosione della crisi finanziaria globale, la situazione della cooperazione sociale italiana appare estremamente composita. Sebbene, infatti, il modello cooperativo nel suo complesso sembri aver retto bene alla crisi, sia in termini di risultati operativi che dal punto di vista occupazionale, cominciano a manifestarsi preoccupanti elementi di sofferenza. Soprattutto per quelle realtà che dipendono fortemente dai finanziamenti pubblici.

A

Viste le cifre in ballo – e tenendo presente la natura dei servizi sociali, ricreativi, culturali, lavorativi ed educativi offerti dalle coop – è facile comprendere come un’eventuale crisi del settore possa rappresentare un problema enorme nel nostro Paese. Secondo le cifre del primo Rapporto sulla cooperazione in Italia del Censis (ancora non pubblicato, ma presentato a luglio scorso dal presidente dell’istituto demoscopico, Giuseppe Ro-

Le coop sociali offrono forme di welfare integrativo ed indispensabile: una loro crisi sarebbe catastrofica ma), in Italia esistono quasi 80 mila cooperative (sociali e non). Il loro numero è aumentato dal 2001 al 2011 di quasi 10 mila unità e oggi il comparto è in grado di dare lavoro a circa 1 milione e 382 mila

persone: qualcosa come il 7,4% dell’occupazione creata complessivamente dal sistema economico. Il 23,7% di tale quota, in particolare, è rappresentato proprio dal settore terziario sociale, che, a sua volta, si concentra nei servizi di assistenza socio-sanitaria (49,7%), nei trasporti e nella logistica (24%) e nel supporto alle imprese (19,3%). Attività che, tradotte in termini concreti, significano aiuto garantito a migliaia di disabili nel duro compito di trovare un’occupazione, accompagnamento di ex detenuti o semplici cittadini in percorsi di riabilitazione e crescita professionale, assistenza sanitaria per anziani o servizi ricreativi per ragazzi. Forme di vero e proprio welfare integrativo (e indispensabile) rispetto a quanto offerto dalle istituzioni.

TRENTINO A FARE IMPRESA RESPONSABILE SI INIZIA FIN DA PICCOLI Chi in Italia vuole costruire realtà imprenditoriali fondate sulla cooperazione, l’azione collettiva, la responsabilità sociale, non può non guardare al caso Trentino. Nel nostro Paese non c’è un altro territorio con la stessa densità di soci di cooperative: un abitante su due. Con quote di mercato impensabili in alcuni settori: 90% in agricoltura, 60% nel credito (attraverso il circuito delle casse rurali), 38% nel consumo. Risultati spesso poco noti altrove, che però non si raggiungono da un giorno all’altro, né senza spiegare alla popolazione i vantaggi della cooperazione. Nella provincia di Trento, ad esempio, questo avviene fin da piccoli, attraverso le “associazioni cooperative studentesche”. I minorenni non possono diventare soci di coop vere e proprie, ma questo non impedisce di costruire, all’interno delle scuole, idee e progetti suggestivi: produzione di oggetti artigianali rivenduti nell’atrio di scuola, orti collettivi, recupero di bici danneggiate, pulizia dei sentieri di montagna. Fino ai corsi pomeridiani ideati dalla cooperativa Il Dado del 5° Ragioneria del “Marie Curie” di Levico, in cui gli alunni più grandi

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danno lezioni di recupero agli studenti più piccoli. E ai cosmetici naturali della Narciso Laboratoires, i cui soci sono i ragazzi del “Liceo Leonardo da Vinci” di Trento. Elementari, medie, superiori. Nessun grado è escluso. Non si è mai troppo piccoli per imparare a cooperare: in tutti i casi esaminati (e presentati durante Educa, quinto incontro nazionale sull’Educazione organizzato a Rovereto dalla rete di cooperative Con.Solida e Cgm), i ragazzi hanno stilato lo statuto della propria associazione, eletto democraticamente le cariche sociali, deciso le strategie di vendita e stabilito anche a chi destinare gli utili ottenuti attraverso il loro lavoro. Con effetti positivi anche nel resto della vita scolastica, notati dagli stessi docenti. Qualche commento: «Gli studenti in questo modo provano realmente la democrazia, applicandone le regole dal vivo e non si limitano a studiarle sui libri». «Si abituano ad accettare le decisioni prese dal gruppo anche se non le condividono». «Hanno imparato aspetti della gestione dei soldi, comprendendo l’importanza del risparmio e della riduzione degli sprechi». Em. Is.


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Tipologia Previsione entrate da CCD

Consorzi

Crescita

Previsione indebitamento prossimi 3 anni

Coop A

Coop B

Coop A+B

8,1%

7,9%

18,2%

Crescita

26,8%

22,0%

24,4%

Previsione entrate da CCD

No debiti Diminuzione Stabile Aumento

Totale

26,8%

100,0%

Stabili

21,1%

40,7%

32,9%

27,3%

Stabili

32,6%

15,2%

37,0%

15,2%

100,0%

Diminuzione

78,9%

43,1%

38,4%

31,8%

Diminuzione

26,4%

14,2%

37,3%

22,2%

100,0%

4,1%

3,0%

4,5%

Non so

11,1%

38,9%

50,0%

0,0%

100,0%

4,1%

17,7%

18,2%

100,0%

100,0%

100,0%

11,1%

42,2%

6,7%

100,0%

29,4%

15,8%

37,0%

17,8%

100,0%

strazione e donazioni» (vedi TABELLA ). E, sul fronte dell’indebitamento, se la maggioranza delle coop dichiara che le proprie esposizioni resteranno stabili (37%), molte specificano che la ragione è da ricercare nelle difficoltà che si incontrano nell’ottenere credito da parte delle banche (vedi GRAFICO ). Non ci si indebita, perciò, solo perché non vengono concessi prestiti. Il che – conclude il rapporto – «insieme alla riduzione della spesa pubblica, sta mettendo a dura prova la cooperazione sociale. Solo in pochi prevedono un recupero per il prossimo futuro e, nonostante la maggioranza preveda un 2012 stabile, si deve considerare che questa stabilità è riferita a un anno, il 2011, già di contrazione e non di sviluppo». Quanto al fatturato, Gian Paolo Barbetta, del Centro ricerche sulla cooperazione e il non profit dell’università Cattolica di Milano, sottolinea come tra il 2005 e il 2010 si registri un +4,5% medio, mentre tra il 2009 e il 2010 un brusco calo. Al contempo gli utili due anni fa sono scesi ai livelli del 2005.

Va detto, tuttavia, che per ora il sistema delle coop ha retto alla crisi. Basti pensare all’occupazione, per la quale il Censis ha parlato di “tenuta straordinaria”. Dal 2007 al 2011, infatti, i posti di lavoro sono aumentati dell’8%. Ciò soprattutto in ragione della natura “anticiclica” di numerosi aspetti della cooperazione, in particolare quella sociale. È il caso di tutte quelle realtà che si occupano di sostegno a persone disagiate: in periodi di crisi il loro numero aumenta, e conseguentemente il ricorso ai servizi delle coop. «È probabile – spiega Massimo Minelli, presidente di Federsolidarietà Confcooperative Lombardia – che il momento in cui si uscirà dalla crisi sarà il più difficile. Fino ad oggi abbiamo tenuto duro, ma sacrificando i margini di profitto o attingendo alle riserve, ad esempio per salvaguardare l’occupazione. Scelte in linea con lo spirito cooperativo, ma che non potranno essere portate avanti all’infinito». 

PREVISIONE PER LA COOPERATIVA E IL PAESE, 2012 [valore %] 65%

Cooperative

Difficile ottenere prestiti 51,2%

52%

39%

26%

13%

12,2%

14,1%

Il Censis parla di ristagno per il 51,2% delle coop e di crisi per il 4% (dati comunque migliori rispetto alle aziende “tradizionali”, vedi GRAFICO ). In un’indagine pubblicata dall’Osservatorio Ubi Banca e da Aiccon sui fabbisogni finanziari di 500 realtà del settore si è evidenziato, inoltre, come la maggior parte di esse preveda per il 2012 «un trend negativo per le entrate derivanti da contributi, convenzioni, rapporti con la pubblica ammini-

Si resiste

Economia italiana

0,2%

Nonostante tale importanza, la scure del rigore del governo Monti non ha risparmiato il mondo della cooperazione sociale. A farne le spese, sono soprattutto le coop di tipo “A”, che secondo la legge sono quelle che si dedicano a servizi socio-sanitari ed educativi. Quelle cioè che sono più legate alla pubblica amministrazione. Di recente, in Veneto, è stato lanciato un vero e proprio grido d’allarme: l’applicazione regionale della spending review, infatti, prevede una riduzione del 5% dei finanziamenti. «Un 5% in meno di fatturato – ha sottolineato Loris Cervato, responsabile del settore sociale di Legacoop Veneto – si traduce inevitabilmente in tagli ai servizi». Nonché in una probabile contrazione occupazionale. E se oggi è difficile trovare lavoro per chiunque, figuriamoci cosa possa significare per soggetti svantaggiati. «Ci aspettiamo tagli per 400 mila euro», ha rincarato Bruno Pozzobon, presidente del Consorzio In Concerto, che raccoglie 22 coop (socio-assistenziali e di inserimento lavorativo) che danno lavoro ad oltre un migliaio di persone. Si rischia, insomma, di subire in pieno il rigore draconiano.

40,0%

Totale

4,1%

Sotto la scure della spending review

Non abbiamo rapporti

4,5%

100,0%

28,4%

Totale

20,5%

Non abbiamo rapporti

60,5%

Non so

0% Crisi

Ristagno

FONTE: INDAGINE SUI FABBISOGNI FINANZIARI DELLA COOPERAZIONE SOCIALE IN ITALIA, 2012, UBI BANCA

LA PREVISIONE DI INDEBITAMENTO NEI CONFRONTI DEGLI ISTITUTI DI CREDITO, IN RELAZIONE ALLE ASPETTATIVE SULLE ENTRATE

Ripresa

Consolidamento

Espansione

| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 19 |

PRIMO RAPPORTO SULLA COOPERAZIONE IN ITALIA - ANTEPRIMA DI GIUSEPPE ROMA, DIRETTORE GENERALE DEL CENSIS

LA PREVISIONE SULLE ENTRATE DERIVANTI DA CONTRIBUTI, CONVENZIONI, RAPPORTI CON LA P.A. E DONAZIONI

4,0%

FONTE: INDAGINE SUI FABBISOGNI FINANZIARI DELLA COOPERAZIONE SOCIALE IN ITALIA, 2012, UBI BANCA

| dossier | imprese da riscrivere |


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dossier

| imprese da riscrivere |

La terza via è passata da Manchester di Corrado Fontana

In Uk la cooperazione ha ribadito di essere la vera alternativa alla dicotomia in crisi tra Stato e mercato. Ma il modello va rilanciato e reinventato, senza più trascurarne il peso economico. Parola del presidente di Euricse i percepiva non solo una certa voglia di risveglio, ma una definizione di linee lungo le quali questo risveglio sta avvenendo, un rilancio verso la volontà di compiere nuove attività in modo diverso, ma in forma cooperativa, reinventando un po’ il modello»: è questa specie di ribollir di idee ed esperienze innovative che – ci sembra di intuire attraverso le sue parole – deve essere rimasto addosso al presidente di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) Carlo Borzaga, al ritorno dal congresso Cooperati-

«S

ves united di Manchester del novembre scorso. Professor Borzaga, da Oltremanica sono arrivate indicazioni interessanti per il futuro delle cooperative? In Inghilterra abbiamo conosciuto nuove iniziative a livello nazionale e nuove forme di cooperazione. Si sta sviluppando molto, ad esempio, il modello delle multi-stakeholder cooperatives, cooperative che includono diverse tipologie di soci; e poi è in atto una profonda riflessione sui modelli di business, dove si cerca di recuperare maggiormente la specificità del

BOSCH, RICONVERSIONE ECOLOGICA E CONDIVISA Responsabilità d’impresa significa soprattutto capacità di coniugare le esigenze aziendali con quelle ambientali e sociali. Un esempio virtuoso è dato dalla storia recente della fabbrica Bosch di Vénissieux, nei pressi di Lione, in Francia. A gennaio l’industria, che per molti anni ha realizzato pompe a iniezione per motori diesel della Peugeot, ha cominciato a produrre pannelli fotovoltaici. Ma a colpire non è tanto la trasformazione bensì il modo in cui è stata effettuata. Al centro del cambiamento ci sono infatti il dialogo sociale con i lavoratori e la scelta lungimirante di sviluppare le loro competenze. La storia – ha raccontato recentemente il mensile francese Alternatives Economiques – comincia il 3 dicembre del 2009, quando il rappresentante sindacale Marc Soubitez viene informato dalla Bosch del fatto che la fabbrica, in ragione di cambiamenti normativi e di mancanza di produzioni alternative, dovrà chiudere entro un anno. Il sindacato, la Cfdt, chiede allora un incontro con il numero uno del gruppo, il tedesco Franz Fehrenbach, che acconsente a mettere in piedi un gruppo di lavoro (formato in modo paritetico da lavoratori, dirigenti e consulenti esterni) incaricato di trovare una soluzione per la fabbrica. I lavori cominciano ad aprile del 2010 e il primo passo è organizzare interviste a tutti i lavoratori, per comprenderne le professionalità e costruire un vero e proprio “curriculum aziendale”. Si scoprì così che con un investimento ragionevole (50 milioni di euro) la fabbrica avrebbe potuto cominciare a produrre pannelli fotovoltaici. Grazie anche al fatto che Bosch, non essendo quotata in Borsa, non è succube dell’ossessione dei risultati di breve termine. Il prezzo è stato alto: si è passati da 820 a 420 dipendenti. Ma la fabbrica è stata salvata. A.Bar.

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LIBRI

Edmondo Berselli L’economia giusta Einaudi, 2012

modello cooperativo, particolarmente nell’ambito delle cooperative di consumo dove, in proporzione a quanto ogni socio ha speso, e invece di praticare degli sconti, si restituiscono gli eventuali utili ricavati a fine anno dalla differenza tra i prezzi di vendita e i costi di acquisto, puntando a questo come un modo innovativo e tipicamente cooperativo di fidelizzare il socio. Inoltre a Manchester erano diverse le esperienze di cooperative che, come nel caso di quelle sociali in Italia, si stanno impegnando in attività di interesse generale come l’assunzione di funzioni nei servizi pubblici che vengono privatizzati: eclatante il fatto che in Inghilterra abbiano già creato 450 scuole cooperative, rilevandole dallo Stato e gestendole secondo un modello di cooperazione in cui soci sono sia i genitori degli studenti che i lavoratori. In generale si riscontra una grande vivacità e modelli nuovi. E rispetto alla crisi, come hanno reagito le cooperative? Esistono numerose prove documentate della diversa resilienza (capacità di resistenza, ndr) delle cooperative rispetto a


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| dossier | imprese da riscrivere |

LA FRANCIA VUOLE RIFORMARE IL SUO MODELLO BICENTENARIO

LA “CO-DETERMINAZIONE” TEDESCA: UN MODELLO VINCENTE

Il modello cooperativo francese è uno dei più antichi al mondo. Da quasi due secoli, infatti, il Paese punta fortemente sulle coop, che oggi danno lavoro a circa un milione di persone (il 3,5% della forza lavoro nazionale). Un dossier del Centro studi di Legacoop ricorda come le prime cooperative transalpine nacquero già negli anni Trenta dell’800: all’epoca il Paese era poco industrializzato e la disoccupazione elevata. Ispirandosi agli ateliers nationaux (officine statali nate dalle idee socialiste di Louis Blanc, dove trovarono impiego i lavoratori delle grandi città per svolgere opere di pubblica utilità), garantirono una risposta efficace alla penuria di occupazione. Per questo oggi molte coop hanno una storia lunga oltre un secolo e sono presenti in tutti i settori: agricoltura, industria, commercio, immobiliare, finanza e servizi. Hanno raggiunto le 21 mila unità, alle quali si aggiungono 535 mila imprese associate. «Per volume d’affari prodotto (il 96% del totale) e per occupazione (72%) – spiega Legacoop – le coop agro-industriali e quelle operanti nel commercio rappresentano, assieme ai quattro grandi gruppi bancari cooperativi, la struttura portante dell’intero sistema cooperativo francese». Anche per loro, però, la crisi si è fatta sentire. Per questo la senatrice Marie-Noëlle Lienemann, nel luglio scorso, ha illustrato in un rapporto informativo – a nome della Commissione Affari economici – sei proposte per accelerare lo sviluppo del settore, sostenendolo nei suoi elementi di maggiore fragilità. Primo: fornire nuovo slancio allo sviluppo delle “Scop” (sociétés cooperatives), snellendo la legge e sostenendo chi si trova in difficoltà. Secondo: l’accesso al credito. Il Senato punta, «in attesa della creazione di una banca pubblica per gli investimenti», a riformare il modo in cui vengono concessi finanziamenti pubblici al comparto, creando un fondo ad hoc (che già esiste, ad esempio, in Italia) finanziato dalle coop stesse attraverso un versamento obbligatorio proporzionale agli utili realizzati. Terzo: rafforzare il ruolo del settore nel comparto immobiliare (in particolare per quanto riguarda le case popolari). Quarto: stringere i controlli sulla governance, imponendo a tutte le coop procedure di revisione e di trasparenza. Quinto: favorire un sistema economico equo e adatto alle realtà cooperative (in particolare nel settore agricolo). Sesto, infine: promuovere azioni di sensibilizzazione nella popolazione, compresa la promozione del modello cooperativo nell’istruzione superiore. A.Bar.

Uno dei segreti del successo delle industrie tedesche è nella parola Mitbestimmung, ovvero “co-determinazione”. Parliamo del modello sul quale si basa, sin dal secondo dopoguerra, la governance delle imprese della prima economia europea. E che, visti i risultati del suo sistema produttivo, merita di essere preso in grande considerazione, anche e soprattutto alla luce del palese fallimento dell’altro modello di riferimento, quello anglosassone, il più diffuso al mondo. La Mitbestimmung concede ai rappresentanti dei lavoratori un canale per incidere in modo diretto sulle decisioni dei dirigenti: i comitati aziendali (Betriebsräte). Eletti direttamente dai salariati, in modo proporzionale, tali organismi entrano in funzione in tutte le aziende con almeno 5 dipendenti. Secondo la legge i dirigenti hanno l’obbligo di informare i Betriebsräte sulle condizioni complessive dell’azienda (compresi i bilanci) e di consultarli per questioni che riguardano la formazione, la costruzione di nuovi fabbricati, le procedure di lavoro e le nuove tecnologie. Ma non è tutto: una vera e propria cogestione si verifica per quanto riguarda le decisioni legate agli orari di lavoro, ai congedi, alle modalità di remunerazione, agli spostamenti di personale, nonché ad assunzioni, promozioni e trasferte. In questo caso, infatti, il parere dei comitati aziendali diventa vincolante. Proprio grazie a questo sistema, nel biennio di crisi 2008-2009 le aziende tedesche hanno operato pochissimi licenziamenti, soprattutto se raffrontati con le altre grandi economie occidentali. Il che ha consentito ai lavoratori e alle loro famiglie di mantenere il potere d’acquisto, favorendo una ripresa più rapida rispetto agli altri Stati. Senza contare il fatto che il coinvolgimento diretto dei dipendenti nelle scelte imprenditoriali incrementa la loro responsabilizzazione, il che a sua volta favorisce l’impegno e aumenta la competitività delle aziende. Certo, la Mitbestimmung presenta anche qualche controindicazione: per i dirigenti è ad esempio difficile operare manovre strategiche in “segreto”. Le imprese, inoltre, hanno in qualche modo il “diritto” di addossare ai dipendenti la colpa di eventuali scelte aziendali rivelatesi infelici. E, infine, il potere conferito ai rappresentanti dei lavoratori rischia di favorire episodi di corruzione (come accaduto nel 2005 al colosso dell’automobile Volkswagen). Nel complesso, però, i vantaggi sembrano decisamente prevalere. A.Bar.

questa fase storica. Ma, ovviamente, essendo questa una crisi del modello di sviluppo, occorre trovare un modello organizzativo economico diverso: si stanno perciò riaprendo spazi per i comportamenti cooperativi, per un coordinamento tra gli agenti economici basato su una cooperazione volontaria piuttosto che sullo scambio con finalità di guadagno;

che sia aggiornata rispetto alle caratteristiche dei nuovi settori. Se, ad esempio, parliamo di una scuola cooperativa, non si può realizzare solo con genitori o insegnanti, perché sarebbe instabile: solo tenendo insieme i genitori con i lavoratori si dà alla scuola stabilità, inclusione, partecipazione e coinvolgimento. E per fare cose nuove occorre riadattare il modello. 

LA LETTERA DEGLI OTTO NOBEL www.monitor.coop, sito World Co-operative Monitor www.euricse.eu sito, Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) 2012.coop/en/welcome, sito anno 2012 internazionale della cooperazione www.ica-ap.coop, sito ICA - International Cooperatives Alliance

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dossier

| imprese da riscrivere |

Cooperative di salvataggio di Corrado Fontana

Fabbriche in crisi recuperate, gestite e trasformate in cooperative dai loro dipendenti, che così salvano il lavoro. Centinaia di esperienze nel mondo, con migliaia di lavoratori – ora soci – e le loro comunità che creano nuove forme di partecipazione

zione sintetica: «Di solito sono ex imprese di investitori o proprietari in difficoltà, in fallimento o vicine al default, o che non dispongono di piani di successione. Esse vengono prese in consegna dai dipendenti e convertite, di solito, in cooperative di lavoratori». Un modello anticrisi capace di salvare settori economici e posti di lavoro.

Si fa presto a dire Ert i chiamano Ert (Empresas Recuperadas por sus Trabajadores): imprese recuperate dai loro lavoratori. Si sono fatte conoscere soprattutto dopo la crisi argentina. Ce le racconta Marcelo Vieta, ricercatore originario di Quilmes, a sud di Buenos Aires, che lavora per l’istituto Euricse e ne dà questa defini-

S

Esperienze simili sono presenti in tutto il mondo (gran parte dei Paesi dell’America centrale e meridionale, Usa, Regno Unito, Francia, Spagna, Italia, Sudafrica, Corea del Sud), ma non hanno la stessa genesi. Vieta ne individua cinque tipi differenti: imprese riconvertite in fasi di grave disagio socio-economico, prese in carico dai dipendenti in situazioni conflittuali e ria-

perte come coop (così «in Argentina, Brasile e Uruguay durante e dopo la crisi degli anni ’90 e primi anni Duemila, oppure il caso recente di imprese in crisi nel Sud Europa, nel Regno Unito e in Irlanda. Ma anche in Francia, Spagna e Italia negli anni ’70 e ’80»); oppure imprese passate ai dipendenti senza tensioni, con una vendita all’asta; o imprese rilevate dai lavoratori perché i proprietari si sono ritirati o sono rimasti senza eredi, o i cui eredi non sono interessati a proseguire il business («comune in Canada e negli Usa, ma anche nel Regno Unito e in Italia»); imprese nazionalizzate, in cui i dipendenti assumono in tutto o in parte il controllo o condividono la proprietà con lo Stato («casi di autogestione nella ex Jugoslavia e di cogestione oggi in Venezuela»); infine so-

IMPRESE RECUPERATE DI CASA NOSTRA In inglese workers buyout, da noi “fabbriche recuperate”, ovvero quando sono i lavoratori che salvano la propria azienda, a volte se la comprano, comunque la gestiscono in cooperativa. Sono la Scalvenzi di Pontevico (Bs), la Nuova Bulleri di Cascina (Pi), la ex Videocolor di Anagni (Fr); oppure il gruppo padovano che comprende Fonderia [Clf], D.&C. Modellaria di Vigodarzere, le fonderie Zen di Albignasego e le aziende metalmeccaniche Zetronic e Capica. Ecco le Ert (empresas recuperadas, vedi ARTICOLO in queste pagine) di casa nostra, ciascuna con la propria storia di resistenza e rilancio. Come quella della cooperativa GresLab di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, nata dalle ceneri della ex-Optima Spa, industria della ceramica messa in liquidazione e poi salvata dai 40 operai che si sono costituiti in cooperativa, con il supporto di Legacoop Reggio Emilia e il finanziamento di Banca Etica. Oppure c’è la Calcestruzzi Ericina Libera di Trapani: confiscata alla mafia nel 2000 e ora, secondo la legge sull’uso sociale dei beni confiscati (109/’96), affidata a una cooperativa di 6 soci, già lavoratori dell’azienda

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prima del sequestro. Molte esperienze, centinaia di posti di lavoro, preservati grazie a una sinergia tra enti locali, famiglie e istituzioni mirate come Coopfond, il fondo mutualistico che promuove la nascita di cooperative: una rilevazione di Legacoop del 2011 dice che dal 2008 i workers buyout presentati al fondo sono stati 24 (3 respinti, per mancanza di requisiti, 2 in lavorazione, 19 approvati, di cui 8 in Toscana, 6 in Emilia Romagna, 2 in Veneto, 1 nelle Marche, nel Lazio e in Lombardia). Ma non è solo al Centro-Nord del Paese che si sperimentano soluzioni del genere. La Esplana Sud di Nola (Napoli), azienda di imballaggi per ortofrutta, occupata dai lavoratori durante una dura controversia con la proprietà, è stata rilevata ad aprile 2012 da Carovana Coop, nata grazie a 40 ex dipendenti che hanno investito il loro trattamento di fine rapporto e l’indennizzo di mobilità. Casi di fabbriche recuperate sono anche quelli dell’ex Cantiere Navale di Trapani, ora costituito in cooperativa come Bacino di Carenaggio, sviluppato sull’esempio di quel che era già avvenuto con la Cooperativa Cantieri Megaride di Napoli. C.F.


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Nella prima foto da sinistra: Comercio y Justicia - Cordoba, Argentina; Grafico Patricios - Buenos Aires, Argentina e Workers’ Assembly at Ust - Avellaneda, Argentina

cietà in cui i lavoratori acquistano titoli azionari dell’impresa: «United Airlines e molte altre imprese negli Stati Uniti rientrano in questa casistica», ben rappresentata anche in Canada e Regno Unito.

Responsabilità sociale Le Ert possono quindi diventare coop per tanti motivi: innanzitutto perché così accedono a un quadro giuridico che favorisce l’autogestione dei lavoratori ed è prontamente disponibile, soprattutto in Europa, Sud e Nord America. Ma le ragioni sono anche altre. Vieta spiega che «in

Argentina, Uruguay e Brasile le norme sulle cooperative, in caso di fallimento, prevedono che i lavoratori abbiano un diritto di prelazione (prima che i creditori siano pagati) a mantenere un’impresa fallita in attività se una certa percentuale di loro dà luogo a una cooperativa». E poi i modelli possono variare da Paese a Paese ma tutti contemplano strumenti mirati alla gestione democratica interna (elezioni dei dirigenti, base egualitaria dei salari, partecipazione nei meccanismi decisionali). Spesso, specialmente nelle realtà più povere, più empresas recuperadas si

interconnettono per ottimizzare i costi; e seppur messe in difficoltà da un limitato accesso al credito, il che ne comprime la capacità produttiva, queste realtà – sottolinea ancora Vieta – mostrano lusinghieri tassi di sopravvivenza e alti livelli di soddisfazione da parte dei lavoratori e delle comunità in cui sono inserite. Così queste imprese riescono ad aprirsi al territorio, fino a trasformarsi, nei casi estremi, in fabricas abiertas, dove trovano spazio momenti collettivi di formazione e ricreazione, radio private, laboratori d’arte, palestre popolari. 

ERTS SENZA CONFINI I dati quantitativi e qualitativi – raccolti da Marcelo Vieta – sulla diffusione delle Empresas Recuperadas por sus Trabajadores non sono globali e organici ma appaiono ugualmente significativi e utili per fotografare il fenomeno: SPAGNA Il modello di riferimento è quello delle sociedades laborales e prevede che i soci lavoratori posseggano almeno il 51% delle azioni. Questo tipo di cooperative nel 1980 includeva 50-70 mila lavoratori. Attualmente sono 12 mila imprese per circa 120 mila occupati.

BRASILE Le imprese autogeridas (autogestite) hanno cominciato ad emergere nei primi anni ’90, come conseguenza dei fallimenti a catena e della disoccupazione crescente. La quasi totalità di queste empresas recuperadas (140) ha assunto forma cooperativa per modi e ragioni analoghe a quelle sperimentate in Argentina, ma con una differenza: le autogeridas godono di sostegno pubblico e della protezione della Associação Nacional dos Trabalhadores de Empresas de Autogestão Anteag (Associazione nazionale dei lavoratori di imprese autogestite), che le assiste sul piano tecnologico, finanziario e amministrativo. Inoltre, a differenza di quelli argentini, i lavoratori Ert brasiliani hanno ricevuto il sostegno sindacale (Central Unica do Trabalhadores) nelle fasi iniziali di acquisizione e autogestione delle fabbriche.

FRANCIA Qui rientrano nelle cosiddette scops, ovvero imprese cooperative nelle quali i dipendenti detengono – come in Spagna – la maggioranza del capitale. I dipendenti eleggono il gruppo dirigente e partecipano al processo decisionale e ai profitti. Attualmente sono oltre 2 mila, cresciute di circa 50 unità l’anno negli ultimi 3 anni, e contano più di 43 mila lavoratori, di cui la metà soci. URUGUAY Dopo uno sviluppo iniziale simile a quello argentino e brasiliano, cominciato verso la fine del decennio ’90 come risposta alla crescente disoccupazione e ai fallimenti delle fabbriche, la seconda ondata di Ert uruguaiane sono state sostenute nella fase iniziale dall’unica federazione sindacale del Paese (Plenario Intersindical de Trabajadores-Convención Nacional de Trabajadores), grazie alla quale hanno avuto maggiore stabilità economica. ARGENTINA Sono 205 le Ert documentate. Il 94% di esse ha assunto forma cooperativa e insieme coinvolgono poco meno di 10 mila lavoratori. Non esiste una legislazione specifica per queste imprese ma vengono favorite dalle recenti riforme del diritto che regolano

ITALIA Non disponiamo di dati completi sul fenomeno nel nostro Paese ma sappiamo che circa 160 Ert si sono formate nel corso dei due decenni ’80-’90 grazie alla Legge Marcora (L. 49/85). Di queste ne sopravvivono ancora oggi una novantina come cooperative di lavoro, ma dopo il 2008 vi sarebbe stata una nuova ondata di Ert, di cui sono emerse poche decine di casi.

i fallimenti societari. Norme che non esistevano nel 2001-2002, con l’ondata iniziale di Ert, per cui i lavoratori dovettero allora rivendicare nei tribunali fallimentari il diritto a poter continuare il lavoro nelle loro aziende, e poi cercare di ottenerne l’esproprio.

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Responsabilità sociale L’impasse dell’Ue di Andrea Barolini

A ottobre del 2011 la Commissione europea aveva tracciato i contorni di una profonda riforma della Responsabilità sociale d’impresa. Da allora, però, le istituzioni comunitarie non sono riuscite a tradurre il progetto in legge passato ormai più di un anno da quando, il 25 ottobre del 2011, la Commissione europea presentò una nuova strategia sulla Responsabilità sociale d’impresa (Rsi). All’epoca, l’organismo esecutivo dell’Ue sembrò voler imprimere un’accelerazione sul tema: per questo inviò una corposa comunicazione ufficiale alle istituzioni coinvolte (Consiglio, Parlamento, Comitato economico e sociale e Comitato delle Regioni). Nel documento si delineava una profonda riforma della Rsi, da attuare entro il 2014. In particolare, si auspicava

È

che alle imprese potesse essere chiesto di «integrare le preoccupazioni sociali, ambientali, etiche, di diritti dell’uomo e dei consumatori nelle loro attività commerciali e nelle loro strategie». Con l’obiettivo di rafforzare l’impatto “positivo” delle produzioni aziendali, promuovendo beni e servizi capaci di apportare benefici allo stesso tempo alle imprese e alla società. In particolare, la Commissione suggeriva di aumentare la conoscenza della Rsi nella popolazione europea, di diffondere le buone pratiche, di misurare il grado di fiducia che ispirano le imprese, di

LIFE IS GOOD Idee in libertà. Idee di sviluppo sostenibile e responsabile nate dal basso che fluiscono sul web sui temi più vari, senza proprietari a rivendicarne l’esclusiva. A questo serve Good.is, portale di respiro planetario: si autodefinisce «comunità globale di persone che non offre un accidenti», ma – si aggiunge – «un luogo d’incontro e un kit di strumenti in crescita per gli idealisti pragmatici». Good.is è uno dei progetti di GoodCorps, società di innovazione sociale specializzata nella creazione di comunità “virtuali” e movimenti mirati a «ogni positivo e misurabile cambiamento sociale», e lavora con Ong, grandi società e fondazioni, per attivare nuove forme di comunicazione e campagne a tema. Good.is è però sostanzialmente uno spazio di dibattito, dove si parla di stili di vita, educazione, inquinamento, business, cultura, cibo. Vi scrive l’ex vice presidente Usa Al Gore. C’è Elias Kamal Jabbe, che riporta il lavoro di un gruppo di ricerca della University of Southern California; oppure c’è Gregory Trefry, che propone di ridisegnare il football americano per renderlo meno pericoloso per la salute di chi lo pratica; Liz Dwyer, che dice di essere «brava a imparare, promuovere l'unità razziale, mettere in connessione le persone, correre. È fan dei Depeche» e scrive in difesa della scrittura in corsivo. Tutti contribuiscono, e Good.is diventa veicolo di responsabilità sociale d’impresa e cooperazione a costo zero. www.good.is/everyone - www.goodcorps.com C.F.

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migliorare i processi di autoregolazione e di imporre norme volte a garantire maggiore trasparenza. Obiettivi il cui raggiungimento prevedeva facilitazioni nell’accesso al credito, incentivi agli investimenti privati, regole ad hoc per gli aiuti di Stato. I buoni propositi della Commissione non si sono ancora tradotti in un provvedimento legislativo organico, tranne per quanto riguarda il sostegno finanziario pubblico, che da gennaio è stato semplificato. Né una direttiva, né un regolamento sono stati approvati. Il che addensa nubi sulla reale capacità dell’Ue di andare a fondo sulla questione. Non a caso il commissario ai Servizi e al Mercato interno, Michel Barnier (tra i più attivi nel promuovere le prime iniziative a Bruxelles), intervenendo a un convegno a Parigi pochi mesi fa ha dovuto in qualche modo giustificare i ritardi. «Abbiamo raggiunto un obiettivo preliminare – ha spiegato – dando respiro al tema in Europa. La questione, inoltre, è nell’agenda delle riforme comunitarie, e dal 5 giugno scorso un gruppo consultivo di esperti sull’impresa sociale è al lavoro per indicarci la strada da seguire». Il commissario ha tuttavia ammesso che resta ancora molto da fare: «I testi in discussione in Parlamento e in Consiglio devono essere adottati in fretta, a cominciare dalle nuove regole in materia di accesso delle imprese sociali ai fondi strutturali». Più in generale, nell’ambito della Rsi a livello Ue c’è chi spinge da tempo verso l’imposizione del cosiddetto “reporting Paese per Paese”, ovvero l’obbligo da parte delle imprese (tutte, non solo quelle sociali) di relazionare istituzioni e citta-


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dini sulle loro attività in tutto il mondo. In questo modo, le aziende dovrebbero evitare comportamenti che poi potrebbero ledere la loro immagine. E si potrebbero anche “scovare” più facilmente evasioni ed elusioni fiscali. Il ministro francese Pascal Canfin, però, ha spiegato non molto tempo fa che il testo della direttiva (anch’esso in discussione) presenta alcuni punti deboli. «Pur trattandosi di una tappa importante, limita il reporting ai soli settori dell’energia, delle miniere e delle attività forestali. Si tratta, è chiaro, di alcuni tra i comparti più esposti, ma anche in nome dell’uguaglianza sarebbe più giusto imporre la stessa trasparenza a tutte le multinazionali che lavorano nei Paesi in via di sviluppo». 

COOPERATIVE DI CLASSE Citando l’Inghilterra ma pensando all’Italia, mesi fa su Valori Flaviano Zandonai (ricercatore Euricse) indicava il settore dell’istruzione come un terreno di sviluppo per le imprese sociali, la maggior parte delle quali da noi sono cooperative. Nel Regno Unito si assiste a un vero boom nella diffusione delle co-operative schools, cioè scuole cooperative o cooperative scolastiche. Un fenomeno alternativo – e in parte contrapposto – anche alla cosiddetta “accademizzazione forzata”, ovvero lo stimolo verso enti privati, benefici ma anche a scopo di lucro, a prendersi carico economicamente come sponsor delle scuole pubbliche. A differenza di questa formula, che prevede l’ingerenza inevitabile di un soggetto estraneo, le cooperative scolastiche richiedono una gestione condivisa da parte di genitori e lavoratori, divenuti soci, attraverso un trust, un patto che consente una partnership a lungo termine con la struttura istituzionale. Dal momento in cui la prima scuola cooperativa è stata fondata nella Reddish Vale, a Stockport, nel 2008, questo tipo di esperienze si trova al vertice dei settori di crescita dell’economia cooperativa inglese. Le 211 nuove co-operative schools in attività previste entro il 2011 sono state superate da un dato di fine anno che ha toccato le 242 unità, secondo un rapporto di Co-operatives Uk. Ma un computo più recente diffuso dall’International Cooperatives Alliance parla di 335 scuole cooperative nel Regno Unito, frequentate da circa 200 mila studenti. C.F. Che ottengono, fra l’altro, risultati estremamente soddisfacenti nella didattica.

Olivetti, la rivoluzione dall’alto di Andrea Barolini

La fabbrica di Ivrea non fu solo capace di eccellere a livello mondiale: fu anche un modello di corporate governance, e un vero e proprio laboratorio culturale e sociale. La storia di Adriano Olivetti è la storia di un rivoluzionario. Di un imprenditore illuminato e visionario, che condensò tra le mura di una fabbrica eccellenza industriale, culturale e umana. Guidò per quasi 30 anni l’azienda ereditata dal padre Camillo, traducendo in termini imprenditoriali gli ideali ai quali era stato educato: da un lato lo slancio socialista (con il padre, durante il fascismo, aiutò Filippo Turati, insieme a Parri e Pertini, a fuggire all’estero); dall’altro il rigore del calvinismo valdese. I risultati furono «talmente atipici da sconcertare perfino la sinistra», hanno raccontato i suoi collaboratori. Olivetti puntò, infatti, a rendere l’azienda non solo una fabbrica a misura d’uomo, ma un laboratorio culturale e sociale. A cominciare dalla struttura, per la cui edificazione si rivolse ai migliori architetti dell’epoca, con l’obiettivo di far lavorare gli operai «circondati dalla luce». Assunse una squadra di psicologi che lavorò con gli ingegneri per “umanizzare” i cicli di produzione. Alle lavoratrici madri furono concessi nove mesi di permesso retribuito (a stipendio invariato). Fece edificare case per gli operai. Furono allestiti asili nido, con ambulatori e pediatri a disposizione, nei quali i figli degli operai giocavano con quelli dei dirigenti. Nel ’56 fu ridotto l’orario di lavoro a 45 ore settimanali, a parità di salario. Fu concesso il sabato libero. Fu costruito uno stabilimento a Pozzuoli per «non costringere gli operai ad emigrare». E ciò che è straordinario,

è che per Olivetti si trattava di «atti dovuti». Ma, grazie a una rara voracità culturale, le sue scelte innovative e spregiudicate non si limitarono all’assetto assistenziale. Permearono al contrario ogni ambito di quella che oggi si chiama corporate governance. Ai posti di comando chiamò Geno Pampaloni, critico letterario, gli scrittori Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, il poeta Giovanni Giudici. In fabbrica fu allestita una biblioteca con 50 mila titoli, che i dipendenti frequentavano liberamente anche durante l’orario di lavoro. Alle pareti di una delle officine fu appesa un’immensa opera di Renato Guttuso: perché, scriveva Olivetti, «la bellezza – insieme all’amore, alla verità e alla giustizia – rappresenta un’autentica promozione spirituale. Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici, non indicheranno a nessuno il cammino della civiltà». In azienda si organizzano conferenze, mostre, seminari, esposizioni, corsi di educazione civica, letteratura, storia dell’arte e del movimento operaio. Luigi Nono diresse un concerto di fronte a una platea nella quale erano mischiate famiglie di operai e di dirigenti. Fu fondata una rivista (Comunità), organo di un omonimo movimento culturale. In breve, a fianco alle linee di produzione, si addensò così una straordinaria congerie di intellettuali. Ivrea divenne la Atene degli anni ’50. La Olivetti il suo specchio. La grafica olivettiana venne apprezzata in tutto il mondo, e i profitti venivano reinvestiti «per il bene della comunità». Da un punto di vista operativo, il risultato fu che in un solo decennio la produttività crebbe del 500%, il volume delle vendite del 1300% e gli stipendi furono mantenuti del 20% più alti rispetto alla media nazionale. Chissà cosa direbbe, oggi, Adriano Olivetti di Sergio Marchionne.

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L’economia soft che rende forte l’Italia di Emanuele Isonio

I BANCHI FRIGO, “BANCA” DI UN’INTERA FILIERA L’accento di Gianfranco Tonti, presidente di Ifi, è quello di Tavullia, dove le Marche sono quasi Romagna. Dietro di lui un’azienda con mezzo secolo di vita. Nata con colpo di genio: trasformare in industria l’artigianato dei banchi frigo. 6 unità produttive, 338 dipendenti, export al 40%. Alla base della filosofia di Ifi l’idea di un’azienda estesa: «Il tessuto di relazioni con gli artigiani, i dipendenti, i cittadini sono la nostra forza». E ciò che dà forza, va tutelato. Ifi ha quindi deciso di fare una “lotta al turn over”. Dentro l’azienda: migliorando la qualità di vita dei dipendenti e costruendo un percorso con le scuole per far entrare in contatto i ragazzi con il mondo del lavoro. Fuori dell’azienda: finanziando mostre, ricerche mediche, piste ciclabili. E costruendo un rapporto speciale con gli artigiani della zona. Talmente necessario che Ifi è arrivata a pagare in anticipo le commesse. «La funzione sociale dell’impresa è parte dell’impresa stessa. Una terra e una filiera in salute servono per fare prodotti straordinari. Senza, non possiamo fare eccellenze».

Cinque esempi di un fenomeno positivo: nel nostro Paese sta crescendo un modo nuovo di fare impresa. La sua forza? Qualità dei prodotti, impatto sull’ambiente, relazioni con il territorio, tutela dei diritti dei lavoratori. Una scelta giustificata dal buonsenso e premiata dai dati i sono aziende che considerano la responsabilità verso la collettività, i propri dipendenti, il proprio territorio un fattore strategico per accrescere la propria competitività. Ce ne sono altre che intraprendono fin dall’inizio questa via per convinzione morale. Le motivazioni iniziali possono essere diverse. Comune è però la voglia di dimostrare che unire profitto, sostenibilità sociale e tutela ambientale non è roba da avvocati delle cause perse. Di più: è probabilmente l’unico modo per consentire al tessuto imprenditoriale italiano di prosperare negli anni a venire. «Ormai siamo di fronte a due Italie – spiega Domenico Sturabotti, direttore della Fondazione Symbola –. Una, che ci stiamo lasciando alle spalle, è ancora convinta che la concorrenza si batta riducendo le garanzie e la sicurezza dei lavoratori, disinteressandosi degli impatti ambientali e puntando sulla quantità. Un’altra Italia sta facendo una scelta di qualità: dei prodotti, dei diritti, dell’ambiente. E i dati evidenziano che sarà quest’ultima a rimanere

C

PER DIVENTARE GRANDI, VETRO E SICUREZZA SUL LAVORO Nel panorama delle acque minerali sono una goccia nell’oceano. Parlando di acqua la battuta è scontata. Ma descrive la realtà di questa azienda piemontese, detenuta in parti uguali da Eataly di Oscar Farinetti e dalla famiglia Invernizzi. 60 milioni di litri imbottigliati a fronte di un consumo nazionale di 10 miliardi. Eppure, si sta facendo conoscere, anche oltre confine, per scelte che la differenziano da molti concorrenti: l’uso quasi esclusivo di vetro (80% delle bottiglie vendute), considerato miglior alleato per conservare la qualità dell’acqua. Creazione di prodotti a stretto contatto

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con il territorio (come il chinotto fatto con i frutti della vicina Liguria o i succhi con uva 100% piemontese). E forti investimenti per la sicurezza sul lavoro. «Io voglio dormire tranquillo e, siccome gli stabilimenti funzionano anche di notte, non voglio pensare che qualcuno possa farsi male», racconta l’amministratore delegato, Alessandro Invernizzi. «Per questo abbiamo collegato il 60% dei premi di produzione alla sicurezza e solo il 40% alla produttività». Un modo per responsabilizzare i propri dipendenti. Il risultato: negli ultimi tre anni non si sono registrati infortuni.


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MONTEPULCIANO, IL VINO È NOBILE. E ANCHE ETICO La storia della cantina Salcheto è entusiasmante come spesso capita quando si parla di vino. A differenziarla ci pensano, però, una serie di scelte che l’hanno resa celebre per aver creato un’azienda off grid, autonoma dal punto di vista energetico e per essere stata la prima in Europa a far calcolare l’impronta carbonica di una bottiglia di vino. Un modo per consentire al cliente-consumatore di misurare direttamente la prestazione ambientale dei vini che Salcheto produce nelle sue proprietà: 40 ettari sulle colline di Montepulciano, destinate dal 1997 a vino nobile, «con sistemi biologici e ispirazioni biodinamiche», come racconta Michele Manelli, presidente dell’azienda. Un’attenzione all’ambiente che si rivela nell’architettura del sito produttivo (luci e ventilazioni naturali, giardini verticali, recupero energetico degli scarti legnosi) e nella scelta, per le cassette, di usare solo legno certificato Fsc e Pefc. E poi, la decisione di fare un bilancio sociale da ormai cinque anni e costruire un rapporto con i dipendenti che va ben

sul mercato». Dati come quelli del rapporto Greenitaly, stilato dai tecnici di Symbola. In cui si evidenzia come il 38% delle imprese che investono in ecosostenibilità hanno introdotto innovazioni di prodotti o servizi contro il 18% delle altre imprese. E hanno una propensione all’export quasi doppia (37,4% contro 22%). Svolta verde e attenzione per il sociale: i due fattori sempre più spesso si legano per creare un “profit responsabile” a tutto tondo. La scelta di alcune imprese ha ormai fatto il giro del mondo. Accanto a loro (e, spesso, prima di loro) molte altre aziende stanno disegnando una nuova realtà. Che appare un sogno solo a chi, ancora, non ha imparato a sognare. 

al di là del semplice contratto di lavoro. «La sensibilità sociale – spiega Manelli – è naturale per chi pensa che un’impresa debba essere responsabile verso la collettività. L’ecoefficienza si sta dimostrando un alleato prezioso per ridurre i costi. E la nostra idea di “responsabilità totale” è apprezzata anche dagli investitori. Per il nostro settore, questa scelta è irreversibile. Chi non la fa, in futuro, non credo potrà rimanere sulla breccia».

IL PROBLEMA DI DIFFERENZIARSI DAL GREEN WASHING La prima preoccupazione per chi fa reali scelte di sostenibilità è difendersi da chi invece fa green washing. Lo sanno bene i vertici di Valcucine: «Per noi distinguerci da chi dice di sposare la via della riduzione degli impatti ambientali e gli investimenti nel sociale solo per puro marketing è una grande preoccupazione», spiega il direttore comunicazione, Daniele Prosdocimo. Dal punto di vista ambientale questo approccio si concretizza in cinque obiettivi: dematerializzare (abbattere le strutture senza alterare la qualità), riutilizzare, riciclare, ridurre le emissioni tossiche e pensare alla lunga durata tecnica ed estetica del prodotto. Valcucine finanzia Bioforest, associazione per la rigenerazione degli ambienti naturali. Ha attivato due progetti di tutela della biodiversità in Ecuador e in Italia. Nelle scuole medie della provincia di Pordenone, dove ha sede l’azienda, tiene dei laboratori di educazione alla sostenibilità.

IL PASTIFICIO CHE UNISCE QUALITÀ E RESPONSABILITÀ «Sono orgoglioso di pagare i miei operai più di quanto facciano altre aziende. Non puoi dire di essere green e poi bastonare i tuoi dipendenti». Basterebbe questa frase per capire di non essere davanti a un imprenditore Briatore-style. Il sogno di Pierantonio Sgambaro è, infatti, ben altro: rendere grande un pastificio, in provincia di Treviso, attivo fin dagli anni ’50. Producendo pasta solo con grano duro italiano (proveniente da Emilia, Veneto, Friuli e Lombardia), usando esclusivamente energia da fonti rinnovabili e costruendo un rapporto di fiducia con i dipendenti

(«avere lavoratori felici è un vantaggio per le imprese») e i produttori: a loro vengono garantiti contratti vantaggiosi, assecondando le loro esigenze di consegna e riconoscendo un premio del 10-15% in più, oltre al prezzo di mercato. A un patto: rispettare standard qualitativi che innalzino il livello del prodotto finale. «I costi – spiega Sgambaro – sono più alti del 20-30%, ma la qualità viene finalmente riconosciuta dai consumatori. Solo così possiamo pensare di attrarli. Non possiamo pensare di stare sul mercato e di vendere i nostri prodotti solo facendo scelte etiche».

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KAI NEDDEN / LAIF / CONTRASTO

finanzaetica

Tobin Tax. Così vicina, così lontana > 32 Entrare in banca: difficile per gli stranieri > 34 | 28 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |


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| post-elezioni Usa |

Festeggiamenti per la vittoria di Barack Obama alle presidenziali del 6 novembre scorso.

Wall Street e le riforme

La conferma di Obama alla Casa Bianca alimenta le speranze per un’efficace riforma della finanza. Ma sulla strada della definitiva approvazione del Dodd-Frank resta l’ombra del possibile compromesso

Obama 2, la vendetta? di Matteo Cavallito a possibilità per Wall Street di vedere smantellata la legge di riforma finanziaria, nota come Dodd-Frank, è morta con il concession speech (il discorso di accettazione della sconfitta, ndr) pronunciato da Mitt Romney la sera delle elezioni». Per il Washington Post, storico quotidiano liberal, la questione è piuttosto semplice. La riconferma di Obama alla Casa Bianca chiude definitivamente le porte alle speranze repubblicane di edulcorare fino alla totale inefficacia il piano di regolamentazione del settore finanziario. Riusciranno i democratici a perseguire invece l’obiettivo opposto? La questione è ancora aperta, ma per ora c’è già una certezza. Nella sua missione di lobbismo elettorale, la grande finanza ha scommesso in una direzione precisa. E, a conti fatti, ha perso clamorosamente.

«L

Finanziamenti elettorali I dati li ha resi noti il Center for Responsive Politics, un’organizzazione indipendente che da anni analizza i flussi dei finanziamenti ai candidati Usa (donazioni che negli Stati Uniti devono essere sempre rese pubbliche): Barack Obama ha | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 29 |


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| finanzaetica |

BARACK OBAMA, I PRINCIPALI FINANZIATORI

MITT ROMNEY, I PRINCIPALI FINANZIATORI

BARACK OBAMA Top 10 dei donatori

MITT ROMNEY Top 10 dei donatori

Contributo

1 UNIVERSITY OF CALIFORNIA

1.092

Contributo

1 GOLDMAN SACHS

994

2 MICROSOFT CORP

761

2 BANK OF AMERICA

922

3 GOOGLE INC

737

3 MORGAN STANLEY

827

4 US GOVERNMENT

628

4 JP MORGAN

792

5 HARVARD UNIVERSITY

603

5 CREDIT SUISSE

619

6 KAISER PERMANENTE

533

6 WELLS FARGO

598

7 STANFORD UNIVERSITY

473

7 DELOITTE LLP

555

8 DELOITTE LLP

430

8 KIRKLAND & ELLIS

497

9 COLUMBIA UNIVERSITY

412

9 CITIGROUP INC

465

10 TIME WARNER

409

FONTE: CENTER FOR RESPONSIVE POLITICS, 2012, WW.OPENSECRETS.ORG DATI IN MIGLIAIA DI DOLLARI

10 BARCLAYS

428

FONTE: CENTER FOR RESPONSIVE POLITICS, 2012, WW.OPENSECRETS.ORG DATI IN MIGLIAIA DI DOLLARI

raccolto più danaro del suo avversario grazie anche a migliaia di donazioni di medio e piccolo calibro; Mitt Romney ha invece concentrato su di sé il sostegno delle grandi società di Wall Street (vedi TABELLA ). Nella Top 10 dei grandi donatori di Romney ci sono un po’ tutti, da Goldman Sachs (quasi 1 milione di dollari) e Bank of America (920 mila) a Credit Suisse (oltre 600 mila), da Morgan Stanley (827 mila) e JP Morgan (circa 800 mila) fino a Citigroup, Barclays e Ubs. Wells Fargo è stata al contrario un po’ più bipartisan: 600 mila dollari al candidato repubblicano, poco meno di 300 mila a Obama. Quattro anni fa, al momento di decidere, Wall Street non aveva avuto dubbi puntando al contrario sui democratici (vedi TABELLA ). Goldman Sachs, per dire,

Le grandi banche temono un’accelerazione del DoddFrank Act. Oltre a Obama le lobby finanziarie hanno un altro nemico: la senatrice Elizabeth Warren, contraria al compromesso aveva investito nella campagna elettorale circa 6 milioni di dollari: il 75% della cifra era andato ai candidati obamiani, solo un quarto ai sostenitori dell’allora candidato repubblicano John Mc Cain. Come a dire che la grande finanza aveva vinto la scommessa. Oggi, al contrario, la sensazione prevalente è che abbia fatto male i conti. Mercoledì 7 novembre, nel day after elettorale, le azioni di Bank of America hanno perso il 7%. Goldman

NEL 2008 WALL STREET AVEVA SOSTENUTO I DEMOCRATICI Top 10 dei donatori nel 2008

Contributo

Democratici

Repubblicani

1 Goldman Sachs

6.070

75%

25%

2 Citigroup

5.010

63%

37%

3 JPMorgan

4.610

61%

39%

4 National Assoc. of Realtors

4.350

58%

42%

5 Morgan Stanley

3.930

59%

41%

6 UBS AG

3.170

54%

45%

7 American Bankers Assoc.

3.160

43%

57%

8 Merrill Lynch

3.030

47%

52%

9 Bank of America

2.990

56%

43%

2.740

47%

53%

10 PricewaterhouseCoopers

FONTE: FEDERAL ELECTION COMMISSION, MAGGIO 2009. CITATO IN CENTER FOR RESPONSIVE POLITICS, WWW.OPENSECRETS.ORG DATI IN MIGLIAIA DI DOLLARI

| 30 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

Sachs ha ceduto 6 punti percentuali, JP Morgan e Citigroup hanno registrato entrambe un poco confortante -2%.

Dodd Frank, prossimo al traguardo? Agli occhi degli analisti il segnale di mercato è piuttosto chiaro. Le grandi banche temono un’accelerazione del Dodd-Frank. Il piano di regolamentazione dovrebbe vedere la luce a breve quando saranno superati gli ultimi dubbi sui dettagli applicativi. I nodi principali riguardano, da un lato, la celebre Volcker Rule che impone la separazione tra l’attività retail (gestione dei depositi e delle attività ordinarie della clientela, i conti correnti dei risparmiatori insomma) e il cosiddetto investment banking. L’idea è di tornare al vecchio Glass Steagall Act, approvato all’epoca della Grande Depressione e successivamente abolito dall’amministrazione Clinton. Da qui il divieto del proprietary trading, ovvero dell’investimento speculativo capace di mettere a rischio i soldi della clientela. La previsione, in questo caso, è quella di una forte riduzione delle attività rischiose, le stesse che garantiscono ampi profitti alle banche. Secondo gli analisti di Seeking Alpha, uno dei più autorevoli portali di analisi finanziaria del mondo, un colosso come Goldman Sachs potrebbe perdere oltre metà dei suoi ricavi da attività di investment banking. La riforma impone inoltre nuovi requisiti di capitale con relativo aumento


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FONTE: HTTP://AMERICABLOG.COM

| finanzaetica |

WALL STREET, BONUS IN CRESCITA Tornano a crescere i bonus dei manager di Wall Street, pur mantenendosi tuttora distanti dai livelli raggiunti nell’age d’or che ha preceduto la crisi. Lo rivelano i dati degli analisti della società di consulenza Johnson Associates, pubblicati a inizio novembre. Alla fine del 2012 la retribuzione variabile degli operatori crescerà in media del 10% rispetto al 2011, un segnale di risalita condizionato però dal paragone con l’annus horribilis (si fa per dire) precedente in cui si erano registrati livelli particolarmente ridotti. Ad avere la meglio, quest’anno, i trader del comparto fixed income (obbligazioni) che guadagneranno dal 10 al 20% in più. Sostanzialmente costante, invece il livello retributivo dei gestori del comparto hedge e delle private equity e dei Ceo delle grandi banche. Lloyd Blankenfein, direttore di Goldman Sachs, si porterà a casa quest’anno 12 milioni di dollari, quasi un sesto dei 68,5 ottenuti all’alba della crisi finanziaria.

delle riserve di sicurezza per chiunque gestisca asset superiori ai 50 miliardi di dollari. Gli istituti medio-piccoli, che non accettano di essere equiparati ai colossi del settore, si sentono penalizzati e hanno già annunciato battaglia. Si arriverà a un compromesso?

L’importanza di essere Elizabeth Possibile, secondo alcuni persino probabile. A meno che non entri in gioco la donna del momento: la temibilissima senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren (nella foto in alto), democratica di ferro e nemico pubblico numero uno delle lobby finanziarie. Principale architetto del Consumer Financial Protection Bureau (vedi BOX ), la Warren ha sconfitto nel suo collegio il candidato repubblicano Scott Brown, l’uomo forte degli interessi di Wall Street. I gruppi di interesse della grande finanza hanno sostenuto Brown con 5,5 milioni di dollari ignorando o quasi la Warren. Ma quest’ultima, ha ricordato il New York Times, ha saputo ugualmente rastrellare nel corso dell’anno quasi 40 milioni da altre fonti, dimostrandosi così la miglior fundraiser del Senato. Definita dalla U.S. Chamber of Commerce “la principale minaccia alla libera impresa”, Elizabeth Warren punta ora alla poltrona presto lasciata vacante dal repubblicano Richard Shelby, presidente del Banking Committee. Un traguardo che potrebbe dare una svolta alle politiche regolamentari, soprat-

BCFP, L’ENTE DELLA DISCORDIA Il Bureau of Consumer Financial Protection (Bcfp) è stato creato in base alle direttive del Dodd Frank Act nel luglio del 2010 con l’obiettivo di proteggere i cittadini dal rischio di sottoscrivere non intenzionalmente prestiti rischiosi o di subire violazioni di legge da parte delle società finanziarie che erogano gli stessi prestiti. Dal momento della sua nascita, cui ha contribuito fortemente l’impegno di Elizabeth Warren (allora docente di Harward), i repubblicani ne hanno contestato la struttura, che prevede una direzione monocratica, chiedendo di istituire un consiglio direttivo composto da più rappresentanti. Nel gennaio 2012, sfruttando le sue prerogative, Obama ha nominato al vertice dell’ufficio l’avvocato dello Stato (attorney-general) dell’Ohio, Richard Codray. Una volta pienamente in funzione, il bureau avrà la possibilità di imporre nuove regole, di svolgere indagini e di avviare azioni legali contro presunte violazioni della legge, aprendo così la strada all’azione delle corti federali. Alcuni operatori – come le grandi banche e gli intermediari finanziari del settore immobiliare tra gli altri – non rientrano nella giurisdizione dell’ufficio.

tutto se la senatrice saprà confermare la sua fama di politica intransigente poco incline al compromesso.

12 million jobs Già, l’intransigenza. Per qualcuno sembra un concetto non al passo con i tempi. Il senior analyst della società finanziaria Guggenhaim Partners, Jaret Seiberg, ne è pienamente convinto. «Per ottenere la crescita economica ti servono regolamentazioni finanziarie che non contrastino con la fornitura di credito all’economia», ha dichiarato al Washington Post. «Per questo si vedranno atteggiamenti più moderati a tutti i livelli». È la solita storia della coperta troppo corta,

delle strette regolamentari imposte nei momenti di stallo o recessione. Gli Usa hanno ripreso a crescere, ma la ripresa è comunque lenta e il numero degli occupati è sostanzialmente lo stesso di quattro anni fa. Da qui al 2016, Moody’s ha previsto una crescita degli occupati pari a 11,7 milioni di unità grazie soprattutto al mantenimento dei risibili tassi di interesse della Fed. Difficile dire se la previsione sarà confermata. Di certo si sa che non potrà mai esserci alcuna diminuzione della disoccupazione accompagnata da una persistente stretta creditizia. Il nodo principale, o il principale ricatto, fate voi, in fondo è tutto qui.  | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 31 |


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| finanzaetica | tassa sulla finanza |

Tobin Tax Così vicina, così lontana di Matteo Cavallito

Il progetto di Tobin Tax europea è ormai formalmente avviato. Ma ogni Paese sembra avere un’idea diversa sulla tassa. E l’incertezza aumenta l sì definitivo di Italia e Spagna all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (sui giornali “Tobin Tax”) ha aperto la strada al processo di cooperazione rafforzata europea (vedi GLOSSARIO ) che dovrebbe condurre alla definitiva sperimentazione dell’imposta. Ma l’avvio dell’iter e delle discussioni sul progetto lascia per il momento più dubbi che certezze. È l’aspetto paradossale di una vicenda che va avanti da almeno un paio d’anni, da quando, cioè, il cancelliere tedesco Angela Merkel lanciò la sua battaglia per una tassazione della finanza, raccogliendo il consenso dell’allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, e via via di altri otto Paesi (contando il “sì” condizionato dell’Estonia). La tassa, insomma, si farà. Ma la sua struttura, i dettagli di applicazione e il suo gettito potenziale sono ancora ignoti. E l’accordo unanime appare ancora molto lontano dall’essere raggiunto.

I

La battaglia delle esenzioni Nell’incertezza generale, il fronte del “no” registra la prima possibile crepa: quella dell’Olanda, che starebbe pensando di appoggiare il piano di cooperazione rafforzata in caso di esclusione della tassa per i fondi pensione in nome di una questione nazionale. «I fondi pensione olandesi sono privati e hanno da sempre molto potere negoziale», spiega un attivista di Zerozerocinque, sezione italiana delle campagne internazionali a favore della tassa. E continua: «I gestori stanno facendo molta | 32 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

pressione presso il Centraal Planbureau (principale think tank dell’esecutivo olandese, ndr) per ottenere l’esenzione e il governo li appoggia ampiamente». Per i sostenitori dell’imposta la breccia olandese è una buona notizia. Ma il do ut des del governo alimenta un problema sempre più pressante: la ricerca ossessiva delle esenzioni. E, se da un lato c’è chi chiede, come l’Italia, di escludere l’imposizione fiscale sui titoli di Stato nazionali (i Btp), dall’altro non mancano ipotesi di deroga per alcune operazioni finanziarie per così dire borderline. È il caso dell’intraday trading, l’attività speculativa basata sulla compravendita ri-

petuta che sfrutta le oscillazioni di giornata, e del cosiddetto layering, la tecnica delle operazioni “fantasma” che contribuisce alla volatilità del mercato. Per capire il destino dei trattamenti fiscali occorrerà aspettare ovviamente la direttiva europea. Il programma prevede il passaggio della discussione all’Ecofin, che successivamente passerà la parola al Consiglio Europeo per produrre il testo definitivo, ma anche qui non è detto che il quadro risulti uniforme dal momento che tutti i governi nazionali sembrano muoversi per ora in modo autonomo. Con evidenti conseguenze.

Aliquote e destinazioni Il primo problema, va da sé, è dato dall’aliquota. L’Europa ipotizza un tasso base dello 0,1% per gli scambi di azioni e obbli-

GLOSSARIO COOPERAZIONE RAFFORZATA Procedura decisionale disciplinata dal Trattato di Amsterdam e modificata dal Trattato di Nizza, che permette ad almeno nove Stati membri di proseguire il proprio iter legislativo per quei temi dove la Ue non ha competenza esclusiva anche senza l’accordo di tutti i Paesi membri. INTRADAY TRADING Tecnica speculativa che concentra le operazioni di compravendita in una singola sessione di Borsa. L’operatore apre la propria posizione investendo sul mercato e la chiude in giornata liquidando o riacquistando i titoli in modo da tornare alla situazione iniziale. La variazione di prezzo dei titoli in portafoglio e di quelli venduti alla chiusura costituisce il suo profitto. LAYERING L’operazione che consiste nel piazzare ordini di acquisto titoli per poi annullarli un istante prima dell’esecuzione. Questa tecnica consente di manipolare i prezzi di mercato garantendo vantaggi speculativi agli operatori che sui titoli in questione hanno già assunto posizioni utili. MERCATI OTC (OVER-THE-COUNTER) Qualsiasi mercato esterno alle Borse dove i titoli possono essere scambiati liberamente sulla base del semplice incontro tra la domanda e l’offerta. Un mercato Otc non è tipicamente soggetto ai controlli che caratterizzano una borsa valori. SHORT SELLING (VEDI “SHORTARE”) Detta anche vendita allo scoperto, è un’operazione speculativa che consente all’operatore di ottenere un profitto a seguito del ribasso sul valore di un titolo.


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| finanzaetica |

gazioni e dello 0,01% per le transazioni sui derivati. Ma non tutti hanno concepito la stessa soluzione. L’Italia, ad esempio, pensa a una tassa dello 0,05% da applicare indistintamente a tutti gli scambi finanziari; la Francia si starebbe muovendo verso un’imposta allo 0,2% su azioni e obbligazioni, ma non pare aver raggiunto un’intesa definitiva sul fronte dei prodotti strutturati. Se la tassa entrasse in vigore oggi, insomma, le diverse piazze europee applicherebbero autonomamente tassazioni differenti con il rischio – ha sottolineato l’Associazione bancaria italiana (Abi) – di dar vita a un’autentica “concorrenza sleale” tra i Paesi membri. Quello delle aliquote è tuttora un problema centrale, almeno per due motivi. In primo luogo c’è il tema del comparto derivati, che in Italia, dove pure il mercato è piuttosto limitato, è finito al centro della discussione. In un’intervista a Bluerating il presidente di Assosim (Associazione Italiana degli Intermediari Mobiliari), Michele Calzolari, ha espresso la propria preoccupazione parlando di «importantissima e irreversibile contrazione dei volumi di mercato». Il riferimento corre alle stesse stime del governo italiano che ha ipotizza-

I derivati: un nodo centrale. Con la Ttf le transazioni calerebbero dell’80%. L’Italia ha tentato di esentarli to un meno 30% del volume delle transazioni azionarie e un meno 80% per il comparto derivati. A spaventare l’Assosim c’è l’ipotesi dell’esecutivo – poco gradita anche alla Consob che infatti ha già suggerito “piccole correzioni” per tenere conto delle differenze tra Otc (vedi GLOSSARIO ) e mercati tradizionali – di promuovere una tassazione identica su tutti i prodotti finanziari. Il colpo di scena è arrivato a novembre, quando il governo ha tentato di inserire nel Ddl Stabilità una norma che esentava i derivati dall’imposta. Il 22 novembre la Camera ha però espresso un parere contrario (sebbene non vincolante) approvando un ordine del giorno per impegnare l’esecutivo a tassare i derivati.

Efficacia e gettito Quello del peso dell’aliquota non è ovviamente un semplice dettaglio dal momento che dalla sua stessa dimensione dipende il gettito della tassa. Ad oggi, in realtà, la

misura dei ricavi da Tobin Tax non è ancora nota. L’Europa ha ufficialmente ipotizzato ingressi per le casse statali pari a 57 miliardi di euro all’anno, ma il dato fa riferimento all’estensione sull’intero territorio Ue con le famose aliquote 0,1 e 0,01%. Il ministro francese per gli affari europei Bernard Cazeneuve ha parlato di 10 miliardi complessivi per i Paesi della cooperazione rafforzata. Da noi si prevede di incassare poco più di un miliardo (1.083 milioni secondo le stime di Bankitalia). Infine c’è il tema della struttura stessa della tassa, da cui discende la valutazione della sua efficacia. Che fine faranno le operazioni abroad, ovvero quelle condotte dai Paesi no tax sui prodotti finanziari trattati nelle nazioni che applicano l’imposta? Tradotto: un trader della City che da Londra piazzasse ordini in serie per “shortare” (vedi GLOSSARIO ) compulsivamente le azioni di Intesa e Unicredit scambiate a Piazza Affari sarebbe ugualmente tassato dal fisco italiano? Ad oggi ancora non si sa, ma una cosa è certa: l’esenzione degli operatori esteri ha già fatto fallire l’esperienza della “Tobin” svedese vent’anni fa. Un precedente che pesa moltissimo. 


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| finanzaetica | immigrati e credito |

Entrare in banca Difficile per gli stranieri di Elisabetta Tramonto

Extrabanca è nata appositamente per loro. Banca Etica li ha indicati nel proprio piano industriale come clienti con cui stringere i rapporti. Per il momento però gli stranieri in Italia hanno grosse difficoltà quando entrano in banca

Q

uattro milioni e mezzo di persone (2011, Istat), che potrebbero raddoppiare entro il 2025. Sono gli stranieri (regolari) che vivono nel nostro Paese e che alimentano la nostra economia: il loro contributo al Pil italiano è pari a circa il 7%. Eppure il rapporto tra immigrati e banche è piuttosto difficile. Tanto che l’Abi (Associazione bancaria italiana) – in collaborazione con il ministero dell’Interno e con il Centro studi di Politica internazionale (Cespi) – da un anno ha attivato l’Osservatorio nazionale sull’Inclusione finanziaria dei migranti. Perché, come si legge nel rapporto presentato il 12 ottobre scorso: «L’inclusione finanziaria dei migranti è condizione necessaria per favorire il processo di integrazione». Ma, a guardare i risultati del primo anno di indagini dell’Osservatorio, questo processo di integra-

zione è ancora lontano, soprattutto per quanto riguarda l’accesso al credito.

Un rapporto difficile Sono quasi 1,8 milioni i conti correnti intestati agli stranieri. Considerando solamente la popolazione immigrata adulta l’indice di bancarizzazione è pari al 61,2%, con una forte differenza tra Nord (67%,) e Sud (21%). E molte banche (da Mps a Unicredit a Intesa San Paolo) si sono attrezzate per fornire prodotti e servizi ad hoc, perché gli stranieri, da un punto di vista prettamente commerciale, rappresentano un interessante territorio di conquista. «Nella maggior parte dei casi però le banche si limitano a slogan e interventi saltuari», spiega Alberto Borin, consulente per organizzazioni non profit e istituzioni di finanza etica e micro-

UNA SENTENZA CHE STONA Non è propriamente argomento di queste pagine, tanto che non approfondiremo la questione. Ma, citando Extrabanca, non possiamo esimerci dal segnalare che lo scorso marzo l’istituto di credito ha subito una condanna dal tribunale del lavoro per molestie a sfondo razziale, dopo la denuncia da parte di un dipendente di colore della filiale milanese della banca nei confronti del presidente per delle frasi ritenute offensive. Abbiamo chiesto all’istituto di spiegarci l’accaduto. Ecco la risposta. «L’episodio si è definitivamente risolto in una bolla di sapone: a seguito dell’appello presentato da Extrabanca, il dipendente, per evitare i rischi del relativo giudizio, ha rinunciato irrevocabilmente a tutte le domande poste e la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato con sentenza la cessazione della materia del contendere». Non abbiamo qui lo spazio per argomentare la questione e, come sarebbe opportuno, per interpellare il dipendente. Solo alcune precisazioni. La condanna di una o più persone nulla toglie alla validità del progetto. E, a titolo di cronaca, in seguito alla sentenza, l’ex vice-presidente (di colore) di Extrabanca, Otto Bitjoka, si è dimesso e, ci ha raccontato, ha denunciato l’istituto perché riteneva di aver subito un danno di immagine. E.T.

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credito. «Non servono tanto prodotti ad hoc – continua Borin – ma un approccio dedicato, per poter interagire con l’immigrato. E criteri di valutazione diversi, per intercettare il bisogno di credito». Quali problemi incontrano gli stranieri in banca? «Innanzitutto la lingua. Sarebbe semplice proporre fogli informativi multilingue, ma accade di rado», risponde Alberto Borin. «E barriere culturali. Se un immigrato è appena arrivato in Italia, magari ha trovato un lavoro e si sta mettendo in regola, avrà enormi difficoltà anche ad aprire un conto corrente. Se le banche vedono che il permesso di soggiorno è recente o in scadenza non si fidano».

Nessuna storia bancaria Ma il punto più dolente, che emerge anche dall’Osservatorio, è l’accesso al credito: per ottenere un prestito oltre la metà degli intervistati (51,4%) si rivolge a parenti e amici. Meno a banche (15,5%) o società finanziarie (5,8%). «È evidente che per uno straniero è più difficile ottenere un prestito. Il problema è il merito creditizio». Spiega Otto Bitjoka, camerunense, in Italia da quando aveva 19 anni, presidente della Fondazione Ethnoland ed ex vice-presidente di Extrabanca. Chi non ha mai chiesto un prestito in Italia non ha una “storia” a cui la banca può attingere per verificare se sia un buon pagatore. Magari nel suo Paese d’origine aveva chiesto e restituito decine di prestiti, ma una volta arrivato in Italia il passato non conta. «Bisognerebbe introdurre la porta-


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Amici/parenti connazionali

Banche

bilità della storia creditizia», continua Bitjoka. «I criteri di valutazione del merito creditizio oggi sono stanziali, impensabile in un’economia globalizzata». «E servono criteri di valutazione diversi», aggiunge Alberto Borin. «Oggi in Italia le imprese straniere stanno registrando la crescita più elevata. Non concedere loro prestiti è un comportamento miope. Oltre che pericoloso, perché si alimenta il credito clandestino».

Da Banca Etica... Con i clienti stranieri Banca Etica vorrebbe stringere i rapporti. Lo ha scritto nel suo ultimo piano industriale (vedi Valori di ottobre 2012). Per ora non ha ancora sviluppato prodotti per gli immigrati, che però, in quanto spesso non bancabili (cioè senza i requisiti per ottenere prestiti dalle banche), rientrano nel target della banca. «Più che studiare prodotti specifici, la nostra intenzione è proporre una prassi finanziaria tesa all’inclusione di questa categoria, che di solito viene esclusa dal sistema bancario», spiega Mario Crosta, direttore generale di Banca Etica. «Anche semplici attività come aprire un conto corrente, avere una carta di credito, fare un prelievo allo sportello, fino poi a ottenere un prestito, rappresentano modalità

12,6%

15,5%

35,4%

41% Amici/parenti italiani

2,6%

4,4%

10% Acquisti rateali

3,2% Banco Posta

IL DENARO CHE GLI STRANIERI MANDANO A CASA: RIMESSE 2005-2011 2008

10,4%

80 70 60 50 40 30 20 10 0

64%

I CANALI DEI PRESTITI PER GLI IMMIGRATI (TOTALE CAMPIONE)

Datore di lavoro

9%

Caritas, altri enti non profit e di microcredito

11%

Banche

0 Presso banche diverse

12,6%

10

26,1%

47%

Amici/parenti connazionali

20

8% Presso Banco Posta

FONTE: ABI, OSSERVATORIO NAZIONALE SULL’INCLUSIONE FINANZIARIA

Presso una sola banca

6,2%

Presso banca + Banco Posta

Amici/parenti italiani

30

Società finanziarie

25%

34%

40

Nessun conto

2012

Società finanziarie

Anno

Rimesse [in migliaia di euro]

Rimesse/PIL

Rimesse procapite

[in %]

[in euro]

44,1%

0,27%

1.624

Var. % annua

2005

3.900.793

2006

4.527.666

16,1%

0,30%

1.695

2007

6.039.255

33,4%

0,39%

2.055 15858

2008

6.376.949

5,6%

0,41%

2009

6.7475818

5,8%

0,44%

1.734

2010

6.572.238

-2,6%

0,42%

1.552

2001

7.394.400

12,5%

0,47%

1.618

per includere questi soggetti. Si dovrebbe rendere “normale” la fruizione da parte loro di servizi bancari».

... a Extrabanca Da due anni e mezzo esiste una banca nata apposta per gli stranieri: Extrabanca. Tra i soci: Fondazione Cariplo, Assicurazioni Generali e una quarantina di altri imprenditori, per un capitale sociale di 23,6 milioni di euro. Da poco si è aggiunto anche Sator, il fondo di private equity diventato principale azionista. In due anni e mezzo la banca ha assistito a una crescita esponenziale: 5.000 clienti, 150 in più al mese per ogni filiale. Stranieri e non solo: «Della clientela privata – spiega Alberto Rabbia, head of governance & operation di Extrabanca – il 20% arriva dalle Filippine, il 13% sono italiani, l’11% dallo Sri Lanka, il 9% dall’India, l’8% dalla Cina, il 6% dal Perù e il 5% dall’Ecuador». E i dipendenti, 40, metà dei quali sono stranieri, in cinque anni potrebbero diventare 350. «Riusciamo a coprire praticamente tutte le lingue – aggiunge Alberto Rabbia –. Il punto centrale per noi non è tanto il prodotto offerto, ma i servizi e il tempo che si dedica al cliente. Il problema della lingua è importante e serve tempo per superare le barriere culturali. Gli ora-

FONTE: ABI, OSSERVATORIO NAZIONALE SULL’INCLUSIONE FINANZIARIA

I CANALI DEI PRESTITI PER GLI IMMIGRATI 2012 [solo chi ha un finanziamento in corso]

ri poi sono fondamentali: noi siamo aperti dalle 9 alle 19 anche il sabato, senza pausa pranzo». E i prestiti? «Applichiamo criteri standard per valutare la concessione di un credito – risponde Alberto Rabbia – ma abbiamo un rapporto più personale con il cliente. Certo se non ha una storia creditizia è più difficile ottenere un prestito, ma non lo escludiamo a priori». In realtà c’è un prodotto, fondamentale per gli stranieri in Italia, su cui Extrabanca sta puntando. Un feudo che le banche tradizionali non riescono a espugnare. Parliamo delle rimesse: il denaro che gli immigrati guadagnano in Italia, ma inviano nel loro Paese alla famiglia d’origine. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2012 Caritas/Migrantes, nel 2011 hanno superato i 7,4 miliardi di euro, il 12,5% in più dell’anno scorso. E se si aggiungono i canali sommersi la cifra raddoppia. Realtà specializzate nel money transfer hanno reti capillari e permettono di far arrivare il denaro in giornata ovunque (cosa che le banche non sono in grado di fare). Da qualche mese Extrabanca è riuscita ad entrare in questo mercato, appoggiandosi a una piattaforma statunitense di trasferimento di denaro. «Oggi – conclude Rabbia – siamo in grado di mandare denaro in tutto il mondo, a costi estremamente competitivi».  | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 35 |

FONTE: ELABORAZIONE FONDAZIONE LEONE MORESSA SU DATI BANCA D’ITALIA E ISTAT

GLI STRANIERI IN ITALIA E LE BANCHE

5,8%

FONTE: ABI, OSSERVATORIO NAZIONALE SULL’INCLUSIONE FINANZIARIA

| finanzaetica |


36-37_santoro_V105 27/11/12 13.40 Pagina 36

inaugura

L’Università della sostenibilità A PARTIRE DA GENNAIO 2013 Nella splendida cornice della settecentesca Cascina Cuccagna, a Milano (zona Porta Romana, facilmente raggiungibile con metropolitana e autobus). Con la classica formula week-end: circa 15 ore di lezione nell’arco di due giorni Per studenti universitari, sindacalisti, imprenditori, mondo associativo, cittadini attivi, un piano formativo modulare, che ogni partecipante potrà comporre a suo piacimento. Docenti preparati useranno un linguaggio chiaro e un approccio attento ai non addetti ai lavori. Una metodologia basata sull’interazione, sulle esercitazioni collettive e sulla presenza continua di un facilitatore d’aula. Accanto ai corsi un programma di stage nel campo dell’imprenditoria non profit e della ricerca economica e finanziaria.

PROGRAMMA • Basi per una comprensione critica dell’economia. • Basi per una comprensione critica della finanza etica. • Finanza Etica: principi e strumenti alternativi ai modelli speculativi. • Economie Solidali. • Green economy: un futuro sostenibile per l’Europa. • Giornalismo economico finanziario. • Giornalismo e nuovi media: dalla distrazione di massa all’attivismo democratico. (per il calendario www.corsivalori.it) OLTRE ALLA SCUOLA ESTIVA: • Un nuovo rapporto città-campagna: agricoltura peri-urbana e di prossimità. • La riconversione dell’economia verso il controllo delle filiere. • Realtà e prospettive delle energie rinnovabili. • Green economy e impatti sull’occupazione.

INFORMAZIONI SUL SITO info@corsivalori.it / www.corsivalori.it


36-37_santoro_V105 27/11/12 13.40 Pagina 37

| valorifiscali |

Allo studio aumenti dell’Iva e delle accise

Manovre oscure l disegno di legge di stabilità – nuovo nome della legge finanziaria – originariamente presentato dal Governo era costituito in gran parte da una manovra fiscale dalle finalità poco chiare. Tre gli elementi costitutivi. Primo, si prevedeva la riduzione delle prime due aliquote Irpef di un punto percentuale: rispettivamente dal 23 al 22% e dal 27 al 26%, con un beneficio lordo

I

di Alessandro Santoro

massimo di 280 euro per contribuente, ma, in realtà, con impatti effettivi ben inferiori, stimabili mediamente tra i 150 e i 250 euro annui. Un intervento modesto, ma dal costo complessivo per il gettito fiscale elevato (oltre 4 miliardi di euro a regime). Tutti gli interventi sulle prime aliquote Irpef, applicati all’intera platea dei contribuenti, sono molto costosi anche quando hanno effetti contenuti sui singoli. In secondo luogo veniva stabilito che l’aumento delle aliquote, ordinaria e ridotta, dell’Iva, previsto per il 2013 in misura pari a due punti percentuali, scattasse solo per un punto. Tecnicamente si trattava di una riduzione (rispetto all’aumento previsto e incorporato nelle stime sui saldi di finanza pubblica), ma, sostanzialmente (rispetto alle aliquote effettivamente vigenti nel 2012), rappresentava un nuovo aumento dell’Iva, per circa 3 miliardi di euro, cui si aggiungevano ulteriori aggravi delle accise. Infine il Governo prevedeva anche una revisione delle detrazioni Irpef. Dal punto di vista sostanziale, quindi, il segno della manovra fiscale era chiaramente restrittivo: un’ulteriore riduzione del reddito disponibile per le famiglie e per gli individui, dopo i maxi-interventi fiscali compiuti nel 2011 e 2012. Sorprendente che, dopo an-

via fiscale: l’aumento dell’Iva (che grava sulle importazioni e non sulle esportazioni), per finanziare la riduzione del costo del lavoro sui beni prodotti internamente e, per questa via, migliorare la competitività del made in Italy. Tuttavia, a parte il fatto che l’aumento dell’Iva dovrebbe allora riguardare solo i beni oggetto di concorrenza internazionale, nella manovra originaria non c’era spazio per alcuna riduzione del costo del lavoro. Era quindi difficile non pensare che il Governo stesse cercando una strada facile per l’aumento dei consensi, in vista delle elezioni o delle prossime designazioni ministeriali. Fortunatamente i partiti della maggioranza hanno capito che l’impatto reale sull’opinione pubblica sarebbe stato ben diverso e hanno costretto il Governo a ridisegnare il pacchetto fiscale, rinunciando, a quanto pare, alle riduzioni dell’Irpef e a parte dell’aumento dell’Iva, nonché all’intervento indiscriminato sulle detrazioni. Mentre scriviamo non è ancora chiara la fisionomia finale dell’intervento, ma è già evidente che nella manovra originariamente proposta c’era poco di tecnico e trasparente e molto di oscuro e politico, nel senso peggiore oggi attribuibile a questo, invero originariamente nobile, termine. 

Sorprendente un governo “tecnico” che adotta la logica del taglio indiscriminato ni di riflessione sul sistema delle detrazioni, il Governo adottasse una logica di taglio indiscriminato, simile ai famigerati tagli lineari delle spese. Infine un ulteriore elemento di criticità era costituito dal fatto che il Governo destinava ben 1,2 miliardi di euro alla detassazione dei cosiddetti “salari di produttività”, una misura già adottata in passato la cui efficacia è per lo meno dubbia. L’unica spiegazione, abbozzata dal ministro Grilli, che aiutasse a capire il perché un Governo “tecnico” volesse adottare questi provvedimenti, si fondava sull’idea che queste manovre si collocassero nel solco delle politiche suggerite dall’Fmi, note come “svalutazione competitiva”. In pratica in un Paese che non può fare concorrenza attraverso la svalutazione monetaria, si adottano politiche dagli esiti simili per

| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 37 |


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| unpianetadafavola |

Nel mondo delle fiabe di Valentina Neri

LeMilleunaMappa è un’iniziativa della casa editrice Giralangolo, alla quale è stato conferito il premio “Andersen 2012” come miglior progetto. Si tratta della trasposizione in cartine di alcune celebri fiabe er questo numero natalizio di Valori anche la mappa è un po’ diversa dal solito: per una volta lasciamo da parte cifre e statistiche per fare un’incursione nel mondo della fantasia. Ad aiutarci è LeMilleunaMappa, un’idea della casa editrice Giralangolo, che, proprio con grazie a questa iniziativa, si è aggiudicata il premio Andersen 2012 come migliore progetto editoriale. Il formato è quello delle comuni cartine geografiche ma, invece di strade e città, ad essere “mappate” sono le favole, che vengono collocate fisicamente nello spazio e arricchite da descrizioni e curiosità. I testi sono a cura di Pino Pace, autore televisivo e radiofonico e docente di scrittura creativa. Si va da “Il giro del mondo in 80 giorni” (rappresentata in queste due pagine e illustrata da Paolo Domeniconi) alle tradizionali “Cappuccetto Rosso”, “Biancaneve” e “I tre porcellini”, dalla cronaca romanzata del “Milione” di Marco Polo alla fantasiosa ironia di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. L’ultima arrivata in libreria è “La battaglia di Little Big Horn”, dedicata all’epopea western, con la mitica vittoria dei Cheyenne e dei Lakota sulla settima cavalleria del generale Custer. 

P

www.giralangolo.it | 38 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |


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| le mille e una mappa |

Alcuni esempi delle favole in formato mappa: dai viaggi di Marco Polo (in alto) a “Il giro del mondo in 80 giorni” (nell’immagine grande al centro) ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” (qui sotto)

Tra le cartine delle fiabe disponibili c’è anche “Alice nel Paese delle Meraviglie”, opera di Lewis Carroll pubblicata per la prima volta nel 1865 | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 39 |


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SECURUM EQUITY PARTNERS & ASSOCIATES

economiasolidale

Politica agricola, è battaglia sul “greening” > 46 Le ombre tra le luci dell’agricoltura italiana” > 48 Sert. E la fabbrica finì al cimitero > 52 L’antimafia di provincia che pensa in grande> 54 | 40 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |


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| finanziamenti |

Nello scorso mese di ottobre, la Serbia ha dato il proprio via libera alla costruzione del più grande parco fotovoltaico al mondo sul proprio territorio. Le cifre parlano di 1,28 miliardi di euro investiti, 3 mila ettari di superficie occupata, 1,15 TWh annui previsti di produzione di energia elettrica pulita, e circa 800 posti di lavoro creati

Incentivi all’energia

Nel 2010 gli incentivi alle fonti rinnovabili sono stati pari in tutto il mondo a 66 miliardi di dollari. Nello stesso periodo i combustibili fossili hanno intascato tra 775 e mille miliardi. Un paradosso, figlio dello scarso impegno politico e dell’enorme potere delle lobby

Carbone e petrolio battono D le rinnovabili di Valentina Neri

ifficile non essere d’accordo quando si ribadisce l’importanza di puntare sulle energie pulite, liberandosi dalla schiavitù di carbone e petrolio e dal loro pesantissimo impatto ambientale. Difficile trovare uno Stato o un ente pubblico che non abbia promesso di intraprendere questa strada. Ma i cambiamenti sono fatti anche di cifre e quelle che si leggono in un recente rapporto realizzato da Vital Signs per il Worldwatch Institute raccontano una realtà ben diversa. Nel 2010 per l’energia pulita in tutto il mondo sono stati stanziati finanziamenti pubblici per 66 miliardi di dollari: due terzi alle rinnovabili, un terzo ai biocarburanti. Lo stesso anno i contributi ai combustibili fossili hanno raggiunto soglie ben diverse: si sono attestati tra i 775 e i mille miliardi di dollari, a seconda del metodo di calcolo usato. Come dire che, per ogni dollaro

| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 41 |


40-55_ecosol_V105 27/11/12 17.33 Pagina 42

FONTE: WORLD BANK 2004, 2005A, 2006A, 2006B, 2006C, 2006D, 2006E, 2006F, 2007A, 2007B, 2007C, 2008, 2009, 2010A, 2010B, 2010C, 2011A, WORLD BANK AND DRC 2012

| economiasolidale |

RIDURRE LA DEGRADAZIONE DELL’AMBIENTE GARANTIREBBE ENORMI BENEFICI ECONOMICI [costi dovuti alla degradazione dell’ambiente in percentuale sul Pil] Tunisia Giordania El Salvador Guatemala Araba Siriana repubblica Nepal Libano Colombia Marocco Algeria Perù Benin Bangladesh Egitto, rep. Araba Pakistan Iran, Rep. Islamica Nigeria Centrafricana repubblica Media Cina Tagikistan Ghana 0

2

4

6

8

10

costo del degrado ambientale % del PIL, equivalente

per il fotovoltaico, nel frattempo il petrolio ne intascava tra gli 11 e i 15. I sussidi alla produzione di energia si possono quantificare in circa 100 miliardi di dollari, anche se il conteggio non è facile. Restringendo il campo a 24 Paesi Ocse emerge che il carbone ha ottenuto

il 39% del totale, mentre il 30% circa è andato rispettivamente a petrolio e gas naturale. I sussidi al consumo, invece, nel 2010 hanno raggiunto i 409 miliardi nei Paesi emergenti, mentre negli Stati industrializzati si sono attestati su una media di 45 miliardi all’anno (vedi GRAFICO ). Fanno la parte del leone gli esportatori netti di petrolio e gas, che a partire dal 2007 coprono circa l’80% della spesa. Se si prendono in considerazione i contributi per kWh prodotto, invece, in ragione del peso nettamente maggiore della produzione da fonti “tradizionali”, per le rinnovabili i dati sono compresi tra gli 1,7 e i 15 centesimi di dollaro per kWh, mentre per le fonti fossili sono fermi a 0,1-0,7 ¢/kWh. «Sono dati fisiologici – afferma Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – perché il sistema da sempre punta sulle fonti fossili, come si è visto anche nella campagna elettorale negli Usa, in cui la lobby del petrolio ha sostenuto Romney. Chi guadagna miliardi all’anno, e con quei miliardi finanzia la politica, difficilmente rinuncia ai privilegi».

Il potere delle lobby Le conquiste delle lobby si toccano con mano. Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e clima di Greenpeace, fa un esempio: «In Europa è in corso un intenso dibattito sui livelli di efficienza dei motori e sui target per ridurre emissioni e consumi. Ma le case au-

tomobilistiche esercitano forti pressioni affinché tali target vengano definiti nel modo più blando possibile. Quindi le compagnie petrolifere trovano un alleato in un settore potentissimo». Si tratta di scelte politiche, dunque. Alimentate anche dal fatto che determinate fonti energetiche rappresentano asset strategici per alcune economie: il carbone per India e Cina, il petrolio e il gas per gli Usa. Poco conta, sottolinea Boraschi, il fatto che «siano in controtendenza rispetto al mercato: da almeno tre anni su scala globale le rinnovabili attraggono più capitali rispetto alle fonti fossili».

Senza sussidi ai combustibili fossili C’è chi pensa che, se gli incentivi ai combustibili fossili venissero azzerati, a rimetterci sarebbero i cittadini, a causa dei rincari in bolletta o sul prezzo della benzina. Ma Zanchini non è d’accordo: «I contributi non abbassano il prezzo finale: finiscono solo nelle tasche dei colossi del settore. Se gli stessi fondi fossero destinati alle rinnovabili, esse diventerebbero competitive rispetto al prezzo che già paghiamo nelle nostre case per il riscaldamento o l’elettricità». Quindi cosa vorrebbe dire, in concreto, eliminare i sussidi a carbone, gas e petrolio? Secondo l’International Energy Agency (Iea), entro il 2020 la domanda di petrolio calerebbe di 3,7 milioni di barili al giorno, quella di gas naturale di 330 mi-

La Banca Mondiale vuole una crescita verde per tutti di Valentina Neri

L’organismo internazionale ha spiegato in un rapporto pubblicato recentemente come sia necessario puntare a uno sviluppo inclusivo, sostenibile e green. Ma occorrerà prima vincere l’inerzia politica e sociale Inclusive green growth: una crescita green che sia inclusiva e non tagli fuori nessuno. È questa l’unica via per uno sviluppo

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sostenibile. Ad affermarlo è la Banca Mondiale, che a questo tema ha dedicato un rapporto pubblicato a maggio. La tesi è chiara: finora a creare un modello insostenibile, e ad accrescere le diseguaglianze, sono state le politiche con cui la crescita è stata gestita. Ciò non significa, secondo il rapporto della Banca Mondiale, che la crescita in sé sia un male: al contrario bisogna perseguirla in un modo nuovo, che non guardi soltanto al Pil, metta al centro le fasce più deboli della popolazione e abbia una prospettiva di tutela delle risorse ambientali a lungo termine.


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| economiasolidale |

FRANCIA, QUANTI SOLDI (PUBBLICI) AI SETTORI PIÙ INQUINANTI!

STIMA DEI SUSSIDI AL CONSUMO GLOBALI PER L’ENERGIA, 2008-2010 300

2008

250

2010

I dati sui Paesi in via di sviluppo sono tratti dalla IEA, quelli per i Paesi industrializzati dall’OCSE

Invertire la rotta 193

200

Questa crescita green – si afferma con forza dalle prime pagine – è necessaria, efficiente e raggiungibile. I costi non sono l’ostacolo principale: sono destinati a essere recuperati nel lungo periodo e potrebbero essere affrontati con strumenti finanziari adeguati che attualmente mancano in molti Paesi, scoraggiando il fondamentale ingresso dei privati. Il vero problema è rappresentato dall’inerzia sociale e politica. «La crescita verde non equivale agli incentivi alle rinnovabili – concorda Edoardo Zanchini –, è un modo di ripensare l’economia che deve diventare trasversale. Si tratta di rivedere totalmente il mondo in cui viviamo senza perdere in qualità della vita, anzi dando più possibilità a chi non ha disponibilità di fonti fossili». Ma quest’imperativo rischia di trovarsi frenato dalle politiche di austerity adottate per contrastare la crisi. È la forte presa

39 39 44 Energia elettrica da fonti rinnovabili

21 21 22 Biocarburanti

4,3 Carbone (Paesi 4,8 industrializzati) 4,5

35,5 24,7 28,3

7,7 8,9 9,6 Gas (Paesi industrializzati)

Energia elettrica da combustibili fossili

Carbone 4 (Paesi in via 5 di sviluppo) 3

0

Gas (Paesi in via di sviluppo)

50

Petrolio (Paesi industrializzati)

88

122

130

135 85 91

100

122

150

Petrolio (Paesi in via di sviluppo)

Eppure esempi positivi ci sono: la Germania, ad esempio. E anche l’Ue, spiega Boraschi, «indica obiettivi vincolanti su tre macro-aree: sostenere le rinnovabili, adeguare la rete elettrica per assimilarne lo sviluppo, investire sull’efficienza energetica. Soprattutto sul terzo bisogna ancora lavorare». Gli ostacoli ci sono, ma la prospettiva è obbligata. Tuttavia, precisa Boraschi, non si può andare avanti da soli: «Se le economie emergenti non prenderanno questa strada, ogni buona azione intrapresa dall’Europa conterà davvero poco nella lotta al climate change». 

2009

di posizione raggiunta durante il meeting dello scorso ottobre tra Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale. Al di là del dibattito fra sostenitori o detrattori dell’austerity, sono in molti a ritenere che quest’ultima, in campo ambientale, abbia fatto delle vittime: «Basti vedere cos’è successo in Italia con il quinto conto energia – afferma Boraschi – che prevede tagli al settore delle rinnovabili, l’unico che in Italia abbia manifestato un andamento anticiclico anche nel pieno della crisi economica. Senza contare gli ostacoli di tipo puramente burocratico che sono stati messi sulla strada di chi vuole installare un piccolo impianto: secondo alcune organizzazioni di rappresentanza, il crollo quest’anno è stato verticale, addirittura del 50%. Bisognerebbe fare un’analisi su quanto il settore delle rinnovabili possa contribuire al futuro del paese, ma temo che le esigenze spicciole di cassa lo impediscano».

| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 43 |

FONTE: WORLDWATCH INSTITUTE, VITAL SIGNS 2012

I finanziamenti concessi dalla Francia ai settori economici che più inquinano il Pianeta sono troppi ed è urgente pertanto che il governo riveda le proprie strategie. A chiederlo è una coalizione di organizzazioni ecologiste e di economisti francesi (tra gli altri, la rete Action Climat, les Amis de la Terre e la Fondazione Nicolas Hulot). Si tratta di un’iniziativa che andrebbe considerata anche in molte altre nazioni, visto che lo Stato francese non è il solo a concedere simili sovvenzioni. Il dito è puntato in particolare contro gli sgravi fiscali accordati sul cherosene utilizzato per gli aerei, o quelli di cui beneficiano le raffinerie, ma anche la defiscalizzazione parziale degli agrocarburanti. Senza dimenticare gli aiuti pubblici che riceve il diesel, che stridono con le conclusioni di un recente studio dell’OMS, che ha confermato il carattere cancerogeno delle polveri sottili emesse da tali motori. A.Bar.

285

liardi di metri cubi, quella di carbone di 230 milioni di tonnellate. Meno 3,9% per il consumo di energia a livello globale. Con effetti tangibili anche sulle emissioni di CO2, ridotte del 4,7%. Per non parlare dei benefici per la salute. Secondo la US National Academy of Sciences ogni anno gli Usa spendono 120 miliardi di dollari per l’inquinamento e i costi sanitari che ne derivano. «A guadagnarci sono solo le grandi compagnie», conclude Zanchini. La sola Italia, infatti, spende ogni anno 63 miliardi di euro per comprare fonti fossili dall’estero. E stanzia in media 400 milioni di euro all’anno per gli autotrasporti, scoraggiando il trasporto su rotaia. Ancora, dà il via libera alle trivelle in mare (vedi Valori di novembre) e concede permessi gratuiti di emissioni di Co2 alla produzione termoelettrica.


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| economiasolidale |

Chi continua a puntare sull’energia pulita? di Andrea Barolini

Usa e Cina sono i due Paesi che nel 2011 hanno investito di più nel comparto delle fonti rinnovabili, mentre l’India ha segnato la crescita più decisa rispetto all’anno precedente (+62%). Calano Medio Oriente e Centro-Sud America

l settore delle fonti rinnovabili si conferma in grado di fronteggiare con successo la crisi: lo scorso anno gli investimenti globali nel comparto delle energie pulite hanno raggiunto un nuovo record, a dispetto dei venti di recessione che continuano a soffiare ormai da anni. Anche se, avvertono gli esperti, il tasso di crescita sta mostrando segnali di rallenta-

I

PANNELLI, TRA USA, UE E CINA È GUERRA (COMMERCIALE) APERTA L’invasione sul mercato dei pannelli solari cinesi, molto meno costosi rispetto alla concorrenza, è oggetto ormai da tempo di una “guerra” commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti. L’ultimo fronte è stato aperto lo scorso 10 ottobre, quando il governo americano ha annunciato di essere giunto alla conclusione di un’inchiesta. Il risultato, secondo il dipartimento del Commercio di Washington, è che i prodotti in arrivo negli Usa dal colosso economico asiatico sono stati venduti sottocosto, o comunque sono stati “drogati” attraverso sovvenzioni che hanno costituito una concorrenza sleale nei confronti dei produttori statunitensi. Per questo gli Usa si sono rivolti all’Organizzazione internazionale del commercio (World Trade Organization), non è la prima volta che la Casa Bianca gioca questa carta. Se il Wto confermerà le conclusioni a cui è giunto il governo americano – cosa che normalmente accade in queste situazioni – Washington potrà ordinare alle proprie dogane di imporre dei dazi “anti-dumping” sui prodotti importati. Al contempo, secondo le stesse regole del Wto, gli esportatori cinesi dovranno depositare una garanzia per la copertura degli stessi dazi. Nel frattempo, nello scorso mese di settembre, anche l’Ue si è attivata, aprendo formalmente un’inchiesta “anti-dumping” contro i fabbricanti cinesi di pannelli solari. La procedura è stata avviata sulla scorta dell’iniziativa della SolarWorld, azienda tedesca leader nel settore fotovoltaico, che con il sostegno di una ventina di altre industrie del Vecchio Continente (un raggruppamento ribattezzato “ProSun”) ha chiesto a Bruxelles di agire. Anche in questo caso, il dito è puntato contro le condizioni che hanno permesso ai concorrenti cinesi di scalare il mercato a un ritmo impressionante, passando dal 40% del 2009 al 68% dello scorso anno. Ad affiancare le industrie europee c’è in particolare il commissario al Commercio Karel de Gucht, che sembra risoluto a muoversi per modificare la situazione. Scelta che però non è vista di buon occhio dalla Germania, che con Pechino preferirebbe risolvere diplomaticamente il problema. A.Bar.

| 44 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

mento, il che costituisce un monito per i governi. A fotografare lo stato dell’arte del comparto è il rapporto Global trends in Renewable Energy Investment 2012, redatto dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite (Unep) e da Bloomberg New Energy Finance, insieme al Renewable Energy Policy Network for the 21st Century (Ren21). Secondo il documento gli investimenti complessivi nelle rinnovabili sono aumentati nel 2011 del 17% rispetto ai dodici mesi precedenti, toccando il nuovo massimo storico di 257 miliardi di dollari (a crescere, in particolare, sono state le economie avanzate, che hanno garantito il 65% di tale somma). Due Paesi “pesano” in modo più significativo: Usa e Cina, che si contendono il primato con investimenti superiori ai 50 miliardi. Mentre un incremento enorme è stato registrato anche in India: il Paese ha segnato il record in termini di espansione, con un +62% (a 12 miliardi di dollari) rispetto al 2010.

Solare innanzitutto Tra le diverse fonti, lo scorso anno è stato il solare ad aver captato la quota principale degli investimenti: il 52% del totale, 147 miliardi di dollari. Quasi il doppio rispetto all’eolico, che ha raccolto 84 miliardi. E, scendendo ancor più nel particolare, sono state le piccole e medie installazioni di pannelli sui tetti di case e di altri fabbricati ad aver registrato l’impennata più evidente, soprattutto in Germania e in Italia. Spagna e Usa, al contrario, risultano ai primi posti per i progetti su larga scala. Ciò grazie soprattutto al fatto che i prezzi delle infrastrutture continuano a scendere: il costo medio dei moduli fotovoltaici, sulla spinta dell’e-


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norme offerta cinese, è sceso nel 2011 del 50%, mentre quello delle turbine eoliche onshore tra il 5 e il 10%. Ciò ha fatto sì che il 44% della nuova capacità installata nel mondo sia costituita proprio da fonti pulite (il dato era al 34% nel 2010 e al 10,3% nel 2004). Così, la produzione complessiva da rinnovabili è passata, dal 2010 allo scorso anno, dal 5,1 al 6%. Numeri confortanti, ma che non bastano: «Dobbiamo fare di più – ha spiegato al quotidiano The Guardian un esperto di Ren21 – se vogliamo combattere il cambiamento climatico e sviluppare appieno le tecnologie low-carbon».

ANDAMENTO DEGLI INVESTIMENTI NELLE ENERGIE RINNOVABILI (2004-2011) Dati in miliardi di $

Dati in %

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

Scostamento Scostamento 2011 2010-2011 2004-2012

Investimenti totali Nuovi investimenti

39.5

60.8

96.5 132.8 166.6 160.9 219.8 257.5

17%

31%

Transazioni totali

48.6

85.2 132.2 191.9 231.2 226.1 285.1 325.9

14%

31%

Nuovi investimenti per settore Eolico

13.3

22.9

32.0

51.1

67.7

74.6

95.5

83.8

-12%

30%

Solare

13.8

16.4

19.5

37.7

57.4

58.0

96.9

147.4

52%

40%

Biocombustibili

3.5

8.2

26.6

24.5

19.2

9.1

8.5

6.8

-20%

10%

Biomasse

6.1

7.8

10.8

11.8

13.6

12.2

12.0

10.6

-12%

8%

Mini idroelettrico

1.4

4.4

5.4

5.5

6.6

4.7

3.6

5.8

59%

22%

Geotermico

1.4

1.0

1.4

1.4

1.9

2.0

3.1

2.9

-5%

12%

0.9

0.7

0.2

0.3

0.3

Meno aiuti dai governi

Energie marine

Al contrario il rapporto dell’Unep sottolinea come i governi di numerosi Paesi stiano progressivamente affievolendo le politiche di supporto al settore, «in particolare in Europa e negli Usa». Un fattore che «paradossalmente proprio quando le rinnovabili possono diventare, in pochi anni, definitivamente competitive, sta mettendo a rischio la crescita degli investimenti nel settore». Non a caso, nonostante i record, l’indice borsistico americano delle energie pulite WilderHill New Energy Global Innovation Index (Nex) ha perso il 40% nel 2011. 

Totale

0.0

0.0

0.2

-5%

30%

39.5

60.8

96.5 132.8 166.6 160.9 219.8 257.5

17%

31%

Nuovi investimenti per regione USA

7.4

11.2

27.2

28.5

37.7

22.5

32.5

50.8

57%

32%

Brasile

0.4

1.9

4.3

9.3

12.7

7.3

6.9

7.5

8%

51%

Americhe (esclusi USA e Brasile)

1.3

3.3

3.3

4.7

5.4

6.4

11.0

7.0

-36%

27%

Europa

18.6

27.7

37.4

57.8

67.1

67.9

92.3 101.0

10%

27%

Medio Oriente e Africa

0.3

0.4

1.6

1.9

3.7

3.1

6.7

5.5

-18%

50%

Cina

2.2

5.4

10.0

14.9

24.3

37.4

44.5

52.2

17%

57%

India

2.0

2.9

4.7

5.6

4.7

4.2

7.6

12.3

62%

29%

Asia e Oceania (escluse Cine e India)

7.2

8.0

8.0

10.1

11.0

12.1

18.4

21.1

15%

17%

39.5

60.8

96.5 132.8 166.6 160.9 219.8 257.5

17%

31%

Totale

Rinnovabili: si spostano a Oriente i 70 miliardi di investimenti dei Top 50 di Emanuele Isonio

Rapporto Althesys: l’Europa mantiene la leadership del settore, ma i Paesi emergenti sono riusciti ad attrarre il 20% delle operazioni. Unica italiana: Enel Green Power La corsa alla rinnovabili non è un’esclusiva occidentale. E pensarlo può essere un danno irreparabile per le aziende italiane del settore. È uno dei tanti dati presenti nel recente Irex International Report dedicato dalla società di consulenza Althesys alle performance delle prime cinquanta compagnie mondiali delle rinnovabili: responsabili nel 2011 di 572 operazioni, per 62,3 GW di impianti, un giro d’affari di quasi 70 miliardi di dollari e oltre 350 mila addetti. Lo sviluppo di un’energia a minore impatto è sempre più legata

al denaro dei Paesi emergenti: questi ultimi nel 2011 hanno attratto il 19,4% delle operazioni. E, molte di queste compagnie, hanno sede in Estremo Oriente: 13 in Cina e 3 a Taiwan. L’Europa ha ancora la leadership – 45% degli investimenti grazie alle 11 “big” tedesche, 5 spagnole, 3 francesi, 2 danesi e l’italiana Enel Green Power (l’unica nella top 50) – ma sta perdendo posizioni. I colossi asiatici, infatti, hanno già due delle tre posizioni principali nello scacchiere del fotovoltaico. Settore sul quale si concentrano i maggiori investimenti mondiali: su 257 miliardi di dollari ne ha attratti 147, superando, per il secondo anno consecutivo, l’eolico. Che però è in testa fra i primi 50 gruppi: 46,3% di investimenti contro il 40,2. Ma l’Irex Report suggerisce di seguire le performance di altri due fonti verdi: solare a concentrazione (4,6% degli investimenti dei Top 50) ed eolico offshore (6,7%).

| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 45 |

FONTE: BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, UNEP

| economiasolidale |


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| economiasolidale | futuro agricolo |

Politica agricola, s’infiamma la battaglia sul greening di Emanuele Isonio

Attese con trepidazione dagli ambientalisti, guardate con scetticismo dagli agricoltori: le nuove regole per rendere più sostenibile l’agricoltura europea sono al vaglio dell’Europarlamento. Che potrebbe stravolgere la proposta della Commissione Ue. Sullo sfondo, i tagli di budget per la nuova Pac a un lato gli ambientalisti e la Commissione europea. Dall’altro, buona parte del mondo agricolo e dell’Europarlamento. In mezzo il pericolo che alla fine tutto salti, vittima dei tagli di bilancio e della potente lobby dell’agroindustria. Si preannunciano infuocate le sedute che si terranno nei prossimi mesi nelle aule di Bruxelles e di Strasburgo. Oggetto del contendere: il greening, uno degli strumenti più innovativi della prossima Politica agricola co-

D

| 46 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

mune (Pac). Messo a punto dal commissario europeo per l’Agricoltura, il rumeno Dacian Cioloş, dovrebbe riunire una serie di pratiche agricole utili ad assicurare la conservazione della biodiversità, l’adattamento ai cambiamenti climatici e la tutela dei suoli coltivabili. Pratiche volontarie, ma dalle quali, nelle intenzioni di Cioloş, dovrebbe dipendere una parte consistente del premio riconosciuto agli agricoltori dalla nuova Pac (il 30% dei pagamenti diretti). In pratica: o ci si adegua o gli aiuti economici si ridurranno drasticamente. A dire il vero, le critiche dei detrattori non si concentrano sul principio in sé quanto sugli strumenti per raggiungerlo. Tra i sostenitori è però forte il sospetto che questa sia solo tattica per ridurne l’impatto.

Tre azioni o niente premi Per accedere ai premi della Politica agricola 2014-2020, la bozza della Commissione prevede tre azioni: mantenere i pascoli permanenti, destinare il 7% della

superficie aziendale ad aree ecologiche (siepi, terreni lasciati a riposo, terrazze, zone di imboschimento) e diversificare le colture (le aziende più grandi di tre ettari dovranno avere almeno tre colture che non potranno superare ciascuna il 70% delle superfici seminate o essere inferiori al 5%). Tre misure che promettono di incidere sensibilmente sulla vita e l’organizzazione dei 14 milioni di aziende agricole europee, che gestiscono oltre la metà del territorio Ue. Sono state salutate con favore dalle associazioni ambientaliste: «Con il greening – sottolineano Wwf, Italia Nostra, Fai, Associazione agricoltura biodinamica, Federbio e Società italiana di ecologia del paesaggio – sarebbe finalmente introdotto nella Pac un riconoscimento economico direttamente connesso ai servizi ambientali delle aziende agricole per conservare gli ecosistemi, ridurre l’inquinamento da pesticidi, aumentare la capacità di adattamento agli eventi climatici estremi».


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| economiasolidale |

Di tutt’altro avviso le associazioni dei produttori, che mettono in dubbio la reale efficacia delle azioni e la loro sostenibilità economica, soprattutto per le realtà di piccole dimensioni. «Il greening ha un obiettivo nobile e condivisibile – commenta Pietro Sandali, capo dell’area economica di Coldiretti –. Ma per le aziende italiane, la cui superficie media è di 7 ettari, destinare il 7% del terreno ad aree ecologiche, produrrebbe un aumento di costi insostenibile. In più l’obbligo di diversificazione, per come è scritto, non porterebbe nessun vantaggio né dal punto di vista agronomico né ambientale. Diversificare, infatti, non significa far ruotare le colture, ma solamente suddividere fra tre prodotti le aree coltivabili». Il timore è che, per paradosso, le nuove norme portino a una deregulation delle coltivazioni. «Se i costi per adeguarsi alle regole supereranno i benefici economici dei fondi Pac, molti agricoltori potrebbero decidere di rinunciare ai premi per guadagnare grazie ad azioni meno sostenibili, ma più appetibili sui mercati». Analisi condivisa dal responsabile della Direzione Pac di Ismea, Camillo Zaccarini Bonelli: «Nelle aree più produttive d’Italia, oltre un terzo delle aziende per conformarsi al greening dovrebbe sostenere costi tali da non rendere conveniente la partecipazione al regime del pagamento unico». «In realtà – osserva però Carlo Bogliotti, consigliere nazionale di Slow Food Italia – per i piccoli produttori, che praticano agricoltura biologica non cambierà nulla. Loro già rientrano nei parametri previsti dal greening. Rappresenta una perdita di denaro solo per i grandi produttori che fanno monocolture. Da loro arriveranno le pressioni più forti per ridimensionare la portata del provvedimento».

Le voci critiche verso la bozza della Commissione Ue temono che i costi per adeguarsi alle nuove norme siano superiori ai premi e spingano a una deregulation fiume di emendamenti – circa ottomila – ha inondato la commissione Agricoltura dell’Europarlamento, impegnata nell’analisi del testo della nuova Pac. Quasi tutti puntano a cambiare le norme, in nome di una maggiore flessibilità e adattamento alle diverse realtà territoriali europee. «La modifica del testo giunto dalla Commissione europea è una certezza – spiega l’eurodeputato Ppe, Giovanni La Via, uno dei tre relatori del provvedimento –. È il buonsenso a richiederlo: che ragione avrebbe ad esempio imporre agli olivicoltori italiani di abbattere i propri olivi per destinare il 7% del proprio terreno a spazi erbacei?».

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L’idea che potrebbe prender piede è, da un lato, ridurre la quota di premio legata alle attività ecologiche; dall’altro, ampliare il numero di aziende esentate dall’obbligo di differenziazione delle colture («per quelle troppo piccole l’adeguamento renderebbe insostenibili i costi»). E potrebbe alla fine passare anche la proposta di creare un menù di azioni “verdi” tra le quali gli Stati membri potranno far scegliere le proprie aziende agricole: «Sarebbe un modo – commenta La Via – per onorare il principio di sussidiarietà tra Ue e singoli Stati che consentirebbe di rispettare le peculiarità dei vari territori». Ipotesi che fanno inorridire gli ambientalisti: «Se si esentassero dalle regole del greening le aziende sotto i 10 ettari e si consentisse a quelle fino a 15 ettari di non effettuare la rotazione delle colture, quasi il 90% delle imprese non avrebbe obblighi ambientali. Percentuale che salirebbe al 96% se si consentisse la rotazione tra due sole colture per le aziende fino a 50 ettari». Ma la battaglia tra le due fazioni potrebbe essere alla fine decisa non tanto dalla maggiore forza di uno dei contendenti, quanto dai tagli di bilancio. Il futuro del greening appare, infatti, strettamente connesso con l’entità dei fondi che saranno destinati alla nuova Pac. Ad annunciarlo è lo stesso La Via: «Se ci sarà un taglio consistente del budget, nell’ordine del 15-20%, il greening salterà del tutto. Le discussioni tra i membri del Parlamento vanno in questa direzione. Nuovi vincoli per gli agricoltori sarebbero impensabili, se non compensati da contributi adeguati». 

Ottomila emendamenti al Parlamento europeo Dalle pressioni alle proposte di modifica il passo è breve. Tanto più che già a maggio il Consiglio dei ministri Ue dell’Agricoltura si era espresso nel senso di ridurre la portata del provvedimento. E così un | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 47 |


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| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 20 |

Quante ombre tra le luci dell’agricoltura italiana di Emanuele Isonio

Al termine di diciannove puntate sulle filiere agroalimentari tricolori, un dato emerge chiaramente: alcuni problemi si ripetono in quasi tutti i settori, mettendone a rischio la sopravvivenza. Un’organizzazione del tessuto produttivo arretrata, l’accesso al credito quasi impossibile e una preoccupante dipendenza dagli aiuti Pac al vino alle arance. Dall’olio al pesce. Dal mais al pomodoro. E ancora: carne, pasta, cioccolato, birra, miele, mele. Decine di ingredienti per un pranzo bizzarro e pantagruelico durato quasi due anni. Diciannove tappe per fotografare i lati più interessanti, quelli meno conosciuti e quelli più preoccupanti dei diversi settori dell’agricoltura ita-

D

Paesi

Sau 2010 (superficie agricola utilizzata)

Valore Valore aggiunto aggiunto lordo 2010 per ettaro [milioni 2010

liana. Un tour che ha permesso di toccare con mano i punti in comune di molte filiere. Aspetti positivi da enfatizzare e lati negativi da risolvere.

Il pericolo frammentazione Un fattore, più di altri, si ritrova in quasi tutti i settori agricoli: la frammentazione del tessuto produttivo. Problema crucia-

Paesi

[000 ha]

di euro]

[euro]

Belgio

1.365

2.705

1.982

Bulgaria

5.030

1.337

265

Malta

Rep. Ceca

3.456

1.008

291

Olanda

Ungheria

Sau 2010 (superficie agricola utilizzata)

Valore aggiunto lordo 2010

Valore aggiunto per ettaro 2010

[000 ha]

[milioni di euro]

5.783

1998

345

10

56

5.611

1.921

8.773

4.567

[euro]

Danimarca

2.639

2.676

1.014

Austria

3.169

2.679

845

Germania

16.890

13.949

825

Polonia

15.625

7.990

511

Estonia

932

236

253

Portogallo

3.686

2.380

646

Irlanda

4.190

1.369

326

Romania

1.3711

6.569

479

Grecia

3.819

5.509

1442

Slovenia

469

418

893

Spagna

22.798

22.106

969

Slovacchia

1.930

361

187

Francia

35.178

27.172

772

Finlandia

2.296

1.441

628

Italia

13.338

23.442

1.757

Svezia

3.067

1.476

481

Cipro

121

314

2.602

Regno Unito

17.709

8.452

477

Lettonia

1.833

237

129

Ue 15

132.196

124.220

939

Lituania

2.689

650

242

Ue 27

183.875

145.399

790

131

85

655

Lussemburgo DATI: EUROSTAT

| 48 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

le perché riduce il potere contrattuale dei coltivatori e danneggia la loro capacità di confrontarsi alla pari con i concorrenti esteri, con poche eccezioni (il modello cooperativo dei melicoltori, ad esempio) e casi estremi come quello degli agrumi, in cui i 170 mila ettari di produzione nazionale sono divisi tra 126 mila aziende. «Le carenze organizzative dei produttori sono il problema dei problemi», osserva Dario Frisio, docente di Economia agraria e presidente della facoltà di Agraria alla Statale di Milano. «In questo modo si è incapaci di far fronte alle richieste degli acquirenti, che chiedono standard qualitativi omogenei e continuità nella fornitura. Ed è quindi impossibile avere la forza necessaria a spuntare prezzi adeguati nel rapporto con la Grande distribuzione». In due parole, gli agricoltori sono price takers, cioè non possono influenzare il prezzo di vendita dei loro prodotti: «Se una famiglia non riesce ad arrivare a fine mese coltivando la terra – commenta Pietro Sandali, capo dell’Area economica di Coldiretti – c’è il rischio che l’abbandoni. E questo è un danno per l’intera collettività». Una “polverizzazione” che riduce anche il livello di formazione dei coltivatori (spesso troppo piccoli per investire in ricerca) ed è aggravato da un problema di frammentazione amministrativa: «Il trasferimento alle Regioni delle competenze sull’agricoltura – prosegue Frisio – ha creato venti sistemi diversi, spesso molto burocratici, che ostacolano l’attività dei produttori, soprattutto nelle aziende di piccole dimensioni. Un sistema ormai incompatibile con i cambiamenti del mercato».


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| economiasolidale |

TOP E FLOP: CHI SE LA PASSA MEGLIO… BIRRA In Italia, dove il vino continua a far da padrone, i consumi interni sono ancora bassi, ma intanto siamo il 10° produttore Ue, superando Stati di grande tradizione brassicola come Danimarca e Irlanda. Quasi 13 milioni di ettolitri prodotti nel 2010, 350 stabilimenti, quattromila addetti e un fatturato da 2,5 miliardi. E accanto alla filiera principale, una miriade di micro birrifici che stanno incontrando i palati dei bevitori più esigenti: dai 4 del 1996 sono saliti a 385 nel 2011.

CIOCCOLATO A un italiano togliete tutto ma non il cioccolato: i numeri sono in crescita nonostante la crisi, sia nei grandi marchi sia tra i prodotti artigianali. 429 mila tonnellate di prodotti a base di cacao sono stati realizzati nel 2010, per un controvalore di oltre 4 miliardi. Vincente si è rivelata la scelta di puntare sulla qualità e non sulla concorrenza a basso costo. Come anche di costruire rapporti diretti tra cioccolatieri e coltivatori del Sud del mondo per avere materie prime eccellenti e prezzi equi.

MELE

MIELE

Altre filiere frutticole guardano a questo settore con malcelata invidia. Merito della scelta, costruita con tempo e fatica, di riunire le migliaia di piccoli produttori in pochi grandi consorzi. Risultato: siamo leader in Europa, le esportazioni sono cresciute di quasi il 50% in 10 anni, i coltivatori hanno maggiore potere contrattuale con la grande distribuzione. Unico neo: la standardizzazione di coltivazioni e gusti mette a rischio la biodiversità. Su 900 tipi di mele, l’80% della produzione è divisa tra sole cinque varietà.

Non è un bene primario, ma il miele resiste alla crisi. Anzi cresce: la produzione è a quota 10 mila tonnellate annue, per un controvalore di 35 milioni di euro. Gli apicoltori sono ormai 75 mila. I ricavi riescono a coprire senza troppi problemi i costi, soprattutto grazie alla diffusione della vendita diretta, un canale scelto da un consumatore su tre. I pericoli: la concorrenza sleale della Cina che immette sul mercato miele a prezzi stracciati e l’uso dei pesticidi che nel 2007 ha dimezzato gli alveari.

… E CHI FA SUDARE FREDDO AGRUMI L’esempio tipico di quanto male possa fare la frammentazione dei coltivatori: nonostante la produzione e i consumi crescano, i costi superano i ricavi per buona parte delle 126 mila imprese. La grande distribuzione può di fatto imporre il prezzo, spesso acquistando le arance in altri Stati mediterranei meglio organizzati. La ricetta anticrisi passa per l’unione dei produttori, riduzione degli anelli della filiera e riconversione biologica, che accresce il valore di prodotto del 50%.

PESCE Abbiamo ottomila chilometri di coste ma importiamo gran parte del pesce che mangiamo. La produzione italiana è scesa del 12% in sei anni e gli occupati sono calati da 34 a 29 mila unità. Colpa di una filiera troppo lunga e polverizzata (13 mila cooperative di pescatori senza alcun potere contrattuale), 800 punti di sbarco senza servizi adeguati. Intanto i ricavi sono legati al prezzo del gasolio: se sale troppo, i margini di guadagno evaporano.

In questo scenario, s’insinuano due altri ordini di problemi: il costo della terra, che, a causa delle speculazioni edilizie e degli incentivi per l’agroenergia, ha superato quello di altri Stati e sta creando problemi per il costo degli affitti. E, soprattutto, l’accesso al credito. «Nelle regioni del Centro-Sud – spiega Sandali – ha toccato livelli assurdi. Ormai è roba da strozzini. La scomparsa del credito agrario poi ha complicato la situazione». Giungendo a un declassamento di fatto del merito creditizio delle aziende agricole. «Purtroppo in questo, l’agricoltura non è dissimile da molti altri settori produttivi», aggiunge Frisio. Ad essere peculiare è invece la dipendenza dagli aiuti comunitari: i famosi premi Pac per alcuni settori sono indispensabili per portare i ricavi al di sopra

POMODORI

ZUCCHERO

La produzione è crollata del 30% negli ultimi dieci anni e tremila aziende su diecimila hanno chiuso i battenti. I prezzi di vendita sono spesso insufficienti e i rapporti con le catene di distribuzione non aiutano a formare prezzi equi. Cresce l’importazione di prodotto estero, spesso di qualità più bassa fino al dumping – sociale, ambientale e sanitario – del pomodoro cinese superconcentrato: 200 tonnellate ogni giorno arrivano via mare, in crescita del 200% in due anni.

dei costi e garantire un minimo di remunerazione ai produttori. Un caso su tutti: le aziende zootecniche, per le quali i contributi Ue garantiscono fino al 30% del reddito. La riforma in discussione a Bruxelles per gli anni 2014-2020 potrebbe rappresentare una mannaia per molti produttori.

Qualità e territorio In uno scenario a tinte spesso fosche, non rimane che consolarsi con gli aspetti positivi che pure ci sono, anche se, da soli, non bastano a mettere al riparo l’agricoltura dalla concorrenza estera e dalle speculazioni: «Le nostre sono indubbiamente produzioni di qualità, che nel tempo hanno incrementato il valore aggiunto per ettaro (vedi TABELLA ), tanto da portare l’Italia ai vertici Ue da questo

Dal 2006 la produzione italiana è diminuita del 66% e gli zuccherifici sono passati da 19 a 4, per effetto di una ristrutturazione della filiera imposta dall’Unione europea che ha ridotto le quote, per aumentare la produttività e sostenere i prezzi. 5 mila gli addetti in esubero. Per chi è rimasto, i margini sono cresciuti. All’orizzonte però c’è l’abolizione totale del sistema delle quote, che esporrebbe le nostre aziende alla concorrenza mondiale e alla totale volatilità dei prezzi.

NEL 2013, LE FILIERE NON AGRICOLE Alla fine di un viaggio c’è sempre un viaggio da ricominciare: Valori è quindi già pronto a partire di nuovo. Destinazione dal 2013: le filiere non food. Per un tour tra le esperienze di cui andar fieri e i molti problemi che mettono in crisi le nostre produzioni manifatturiere. Chi volesse suggerire i temi delle varie puntate, può farlo scrivendo a redazione@valori.it punto di vista», osserva Sandali («Ma ancora esportiamo le nostre eccellenze a prezzi più bassi della media estera», replica Frisio). Non solo qualità, però. Perché l’agricoltura italiana ha anche un’altra freccia nel suo arco. Una geografia tanto diver| ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 49 |


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| economiasolidale |

LE 19 TAPPE DEL VIAGGIO Febbraio 2011: OLIO Marzo 2011: LATTE Aprile 2011: VINO Maggio 2011: PESCE Giugno 2011: POLLO Luglio 2011: PANE Settembre 2011: PASTA Ottobre 2011: BIRRA Novembre 2011: CARNE BOVINA Dicembre 2011: CIOCCOLATO Febbraio 2012: AGRUMI Marzo 2012: MELE Aprile 2012: POMODORI Maggio 2012: RISO Giugno 2012: MIELE Luglio 2012: ZUCCHERO Settembre 2012: FAGIOLI Ottobre 2012: CEREALI Novembre 2012: MAIS sa, da Nord a Sud, garantisce, infatti, la possibilità di avere molti prodotti tipici, caratterizzati localmente, che possono diventare un volano per lo sviluppo di un territorio. «Il rapporto tra qualità e territorio è un elemento fondamentale delle produzioni alimentari – prosegue Sandali –. Ricordiamoci che già oggi il marchio Made in Italy è il secondo per notorietà dopo la Coca Cola». Ma forse, senza un deciso cambio di rotta nell’organizzazione e nella remunerazione dei produttori, avere tra le mani eccellenze invidiate a livello planetario è troppo poco. «La situazione agricola è fatta da molte ombre e poche luci – ammette Frisio –. Se non si riesce a risolvere presto i problemi c’è il rischio di una crisi diffusa che, in coincidenza con il ricambio generazionale, porterà molti ad abbandonare la terra o a optare per investimenti speculativi. Il riordino fondiario sarà obbligatorio tanto quanto una riorganizzazione delle strutture aziendali. Obiettivi da raggiungere attraverso misure a sostegno di chi rimarrà nel settore, in modo da fargli attivare adeguate economie di scala. Servono interventi rapidi. O rischiamo di arrivarci quando sarà troppo tardi».  | 50 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

DIPENDENZA DALLA CHIMICA DEBOLEZZA NASCOSTA DELL’AGRICOLTURA MODERNA C’è un punto debole, ma nascosto, che accomuna, trasversalmente, tutte le filiere agroalimentari passate in rassegna. Un “bug” che, sul medio periodo, rischia di essere una bomba ad orologeria per la nostra agricoltura. Ma gli stessi coltivatori spesso non ne conoscono l’esistenza. In termini tecnici si parla di “depauperamento del suolo”. In parole povere si può spiegare così: i nostri terreni agricoli sono ormai totalmente dipendenti dall’uso dei prodotti chimici che li rendono fertili. Senza il loro uso, far crescere verdura e frutta sarebbe (quasi) impossibile. Un esempio su tutti: la Pianura Padana. «Se andiamo a calcolare il suo tasso di sostanza organica – spiega Stefano Pescarmona, docente di Orticoltura ecologica all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo – è in media dell’1,6%. Con quella percentuale si parla ufficialmente di terreni in via di desertificazione». Colpa di un uso decennale di sostanze chimiche per aumentare le produzioni e contrastare gli agenti patogeni. Che ha però prodotto due conseguenze preoccupanti: i terreni e gli agenti patogeni si sono assuefatti, costringendo ad aumentare l’impiego della chimica in agricoltura. E, in più, ha fatto smarrire agli stessi contadini la conoscenza ecologica che li ha guidati per secoli. «Purtroppo – prosegue Pescarmona – da almeno mezzo secolo si è perduta la consapevolezza che il suolo è un organismo vivente e quindi ne devono essere rispettate le caratteristiche». Il rischio (che ormai è spesso una certezza) è di peggiorare la qualità dei prodotti, aumentare l’inquinamento ambientale (in primis, l’aumento di consumo idrico), perdere una volta per tutte la biodiversità. Senza considerare i danni per la salute umana. Una via d’uscita ci sarebbe: reimpostare le filiere agroalimentari secondo i principi dell’agricoltura biologica e biodinamica. «Se usati con criterio – conclude Pescarmona – questi metodi di coltivazione permettono al terreno di recuperare la propria fertilità e di allentare la dipendenza da prodotti chimici. Purtroppo più si va avanti sulla strada sbagliata più sarà difficile intraprendere un cambio di rotta». Em.Is.


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| economiasolidale |

I gusti che non ti aspetti a spasso per il Lingotto di Emanuele Isonio

A conclusione del viaggio, un piccolo tour tra le primizie presentate durante l’ultimo Salone del Gusto organizzato da Slow Food a Torino. Una testimonianza della ricchezza gastronomica (spesso poco nota) delle regioni italiane

proposito di eccellenze territoriali, abbiamo deciso di agganciare un’ultima – breve – tappa al nostro viaggio nel Made in Italy alimentare. Un piccolo tributo a quanti cercano di tutelare la nostra tradizione gastronomica e di inventarsi nuove nicchie di mercato. Gironzolando per gli stand dello sconfinato Salone del Gusto di Slow Food abbiamo scovato cinque “chicche”. Dietro di loro, la passione di altrettanti produttori innamorati, nonostante le difficoltà, della propria terra e dei propri prodotti.

A

Chinotto ligure Sembrava destinato all’oblio a causa della lunga procedura di lavorazione, le minime quantità disponibili e ricavi insufficienti. Invece, anche grazie al presidio Slow Food, questo agrume, coltivato in Liguria dal 1500, è tornato a nuova vita. I produttori lo trasformano in marmellate e gelatine gustosissime (amarognole, ma molto indicate con formaggi stagionati). E una sinergia con l’acqua Lurisia sta aumentando gli sbocchi economici per i pochi savonesi che ancora lo coltivano (a proposito: provate a indovinare qual è il colore reale del chinotto? Chi sta pensando a quello scuro di alcune bibite è sulla strada sbagliata).

Patate viola

Peschiole nettarine

Davanti a noi, un gruppo di inglesi le hanno mangiate crude, per errore. Pensavano fossero fette di salame. Questo tubero, tipico dell’Alta Langa, descrive invece la caparbietà di contadini convinti delle sue potenzialità. Ricche di antiossidanti, capaci di crescere quasi senz’acqua. «Coltivarle è faticoso perché il loro colore le fa confondere con il terreno», ci spiega Silvana Riggio (www.patataviola.com). Una scelta di vita, la sua. Un ritorno alla terra che le ha donato una consapevolezza: «Da soli non si va da nessuna parte. Serve un nuovo tessuto di relazioni per vendere insieme le nostre specialità».

Vedendole, nove persone su dieci le confonderebbero con olive verdi. Sono invece una specialità di Vairano Patenora (Caserta), dove queste “mini-peschenoci” sono raccolte quando misurano un paio di centimetri e il nocciolo è ancora morbido. Le peschiole vengono quindi lavate, cotte in acqua, aceto e spezie, infine conservate in barattoli di vetro. Una delizia al palato: croccanti, compatte, un sapore decisamente caratteristico, che ha aperto a questo frutto le porte dei ristoranti specializzati in prodotti tipici.

Cavolo trunzu Dietro questo ortaggio, che nulla ha a che vedere con l’odore e il gusto del cavolo tradizionale, c’è l’ostinazione di Enzo Pennini. L’unico produttore a far parte per ora del Presidio attivato da Slow Food. Una battaglia solitaria ma nobile: tutelare questa varietà, in pericolo per la coltura intensiva del suo cugino più noto: anche tre raccolti l’anno grazie all’uso di concimi chimici. (Una curiosità: il nome “trunzu” deriva dall’epiteto con cui i catanesi apostrofano gli abitanti di Aci, area d’elezione del cavolo).

Panettone all’aceto balsamico L’azienda modenese che ce lo ha fatto assaggiare al Salone (La vecchia dispensa) ci ha permesso di ricordare che probabilmente il migliore abbinamento gastronomico ancora non è stato inventato. Per loro, l’accostamento tra il sapore del dolce natalizio per eccellenza e l’aceto di Modena è stata l’occasione per costruirsi una nicchia di successo, in Italia e all’estero. Tanto da aver provato un paio di esperimenti sulla carta ancora più arditi: i cioccolatini ripieni di balsamico e parmigiano e il sale di Trapani all’aceto. Il risultato? Ça va sans dire.  | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 51 |


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| economiasolidale | cattiva amministrazione |

E la fabbrica finì al cimitero di Corrado Fontana

Rischiare di chiudere per un camposanto: è la vicenda della Sert di Leinì, fabbrica metalmeccanica del torinese. Una storia dai molti protagonisti, che potrebbe aprire una voragine economica nelle casse pubbliche del Piemonte e non solo ome in un giallo nella vicenda che oppone la Sert srl al Comune di Caselle Torinese, alle banche e a Equitalia, ci sono vittime e sospetti, ma il paradosso è che qui potrebbero essere i morti a far fuori i vivi. L’attività di sepoltura e cremazione – tutt’oggi in corso – del cimitero di Mappano, realizzato da Caselle, minaccia infatti l’esistenza della Sert, storica azienda metalmeccanica pesante collocata nel vicino Comune di Leinì (ora commissariato per ’ndrangheta in seguito all’operazione Minotauro del 2011). E minaccia soprattutto il posto di lavoro dei suoi 21 operai, di cui 15 in cassa integrazione: all’inizio della vicenda la fabbrica aveva 28 lavoratori e un fatturato di circa 15 milioni di euro, nel 2011 il fatturato è sceso a 3 milioni.

C

Sulla scena del delitto I fatti: ad aprile 2009 Caselle Torinese (15 mila abitanti) avvia la costruzione del suo secondo cimitero, proprio al confine dell’area industriale di Leinì e del terreno occupato dalla Sert. Peccato che, secondo il Regio decreto 265/1934, ogni cimitero deve prevedere intorno a sé, per motivi igienico-sanitari, una fascia di rispetto di 200 metri che pone un vincolo d’inedificabilità assoluta (non derogabile). Lo scontro, al calor bianco, tra il proprietario della fabbrica, l’ingegner Riccardo Rastrelli, e la decisione di Caselle verte proprio sulla fascia di rispetto e sul | 52 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

vincolo, che nessun ente locale può imporre unilateralmente sul territorio di un’altra amministrazione, e che comunque deve essere notificato a chi lo subisce. «La scoperta del vincolo – ricorda invece Rastrelli – è avvenuta solo perché ho richiesto un finanziamento alla banca, la quale ha inviato il perito che ha evidenziato l’inedificabilità. Nessun istituto mette un’ipoteca sull’azienda se il cimitero continua a operare e il vincolo non è definito». Conseguenza: un’aspra battaglia legale. Dopo un passaggio sfavorevole al Tar del Piemonte, la Sert si è rivolta al Consiglio di Stato, da cui ha ottenuto l’accertamento del cosiddetto periculum in mora (l’azienda corre cioè il rischio di cessare l’attività a causa di un comportamento illecito della pubblica amministrazione) e la relativa sospensiva cautelare – ad oggi non ottemperata – che chiede a Caselle di interrompere sepolture e cremazioni (luglio 2012). Ma soprattutto la Sert attende per questo dicembre una sentenza definitiva che, probabilmente, confermerà la sospensiva, imponendo l’annullamento degli atti che hanno dato luogo alla costruzione e alle attività cimiteriali. «Il che significa – dice Gioia Vaccari, avvocato che segue il caso per conto di Leinì – che Caselle dovrà tornare completamente indietro», magari modificando solamente i confini del cimitero o dovendolo spostare, se

non saprà dar seguito altrimenti alle prescrizioni del Consiglio di Stato.

Il vaso di Pandora La vicenda è però assai più complicata. Perché, al di là dei tentativi degli enti locali – ad oggi falliti – di rendere legittima in questi mesi la riduzione della fascia di rispetto, appellandosi ora a una normativa regionale del 1975, ora a un decreto del 2002 dell’ex ministro Pietro Lunardi, questa storia stupisce per la pervicacia con cui viene difeso quello che altrimenti apparirebbe solo come un grossolano errore amministrativo. Non a caso su Caselle è piovuta a novembre una mozione di sfiducia dei Grillini locali per l’operato degli avvocati del comune e dell’ex sindaco Giuseppe Marsaglia, ora assessore competente, per aver esposto l’amministrazione alla richiesta di maxirisarcimento della Sert. Un errore che mette in pericolo l’occupazione e potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora devastante per tutta l’amministrazione pubblica regionale. Secondo l’ingegner Rastrelli «in Piemonte circa 400 comuni non rispettano la normativa. Dal 1975, per legge, era concesso ridurre la fascia di rispetto fino a 50 metri a particolari condizioni, ma la riduzione era finalizzata a costruire o ampliare i cimiteri a ridosso delle case, non viceversa. Invece si è autorizzata la costruzione di immobili civili e industriali dove per legge non era possibile,


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permettendo vantaggiosissime speculazioni edilizie. Ma oggi tutte quelle licenze dovrebbero essere annullate dai comuni; e poiché l’illecito che ne deriva non è sanabile, le costruzioni devono essere demolite». Il Piemonte avrebbe insomma generalizzato l’abusivismo edilizio nelle zone cimiteriali, esponendosi al rischio di migliaia di contenziosi. E un indizio che questo sia un timore concreto si può trovare nelle parole pronunciate da Marsaglia, che pare chiamare i suoi colleghi sindaci a far fronte comune “per affinità di posizione”: «Se dovremo pagare i danni perché a 200 metri dal cimitero di Mappano non si può costruire, sarà un problema di tutte le strutture pubbliche del Piemonte» (27 giugno 2012, Il Canavese).

Fuoco incrociato e danni collaterali E mentre il comune di Caselle non risponde alla nostra richiesta di delucidazioni, l’ingegner Rastrelli, che giusto al principio della controversia aveva subito un’accusa – poi archiviata – di abuso edilizio nell’area della fabbrica, allarga ancora il campo di chi giocherebbe contro la sopravvivenza della Sert. Da un lato imputa agli enti locali coinvolti (comune di Caselle e Regione Piemonte) di non aver fornito tempestivamente la documentazione necessaria da impugnare per attuare la propria difesa rispetto al

vincolo. Dall’altro, nel tormentato contenzioso in cui la fabbrica rischia di fallire per la chiusura dei rubinetti del credito (al 31 marzo il valore del danno periziato dai consulenti dell’azienda ammontava a oltre 45 milioni di euro), Rastrelli punta il dito anche altrove. Innanzitutto sta denunciando le banche per usura (ha iniziato con Intesa San Paolo presso Banca d’Italia e Prefettura di Torino a settembre); e poi la poca trasparenza di quegli istituti che smettevano di finanziare l’azienda mentre finan-

Con il nuovo cimitero di Caselle una storica azienda metalmeccanica diventa “fuorilegge” e rischia di fallire. Ora chiede milioni di euro di danni alle istituzioni

ziavano la società che aveva in appalto il cimitero. Un comportamento singolare perché acuisce la perdita di valore della Sert e, quindi, la possibilità degli istituti di recuperare i crediti. Inoltre l’ingegnere ha denunciato a luglio ai carabinieri di Leinì e alla Prefettura di Torino per usura anche Equitalia, colpevole di aver operato pur essendo a conoscenza della vicenda e di una domanda di accesso al fondo antiusura avviata da Rastrelli. Se poi saranno accertati comportamenti dolosi degli enti locali contro la Sert, alle amministrazioni potrebbe toccare il risarcimento dei danni periziati (fino a 90 milioni di euro, aggiungendo il mancato introito delle lavorazioni per Fiat bloccate in questi mesi dalla chiusura del credito) e altrettanti soldi per danno morale (a cui andrebbe eventualmente aggiunto il costo di trasferimento della Sert o magari la demolizione del cimitero). Infine, conclude l’ingegnere, «se c’è un conflitto d’interesse tale che le banche fanno cartello per non finanziare un soggetto (Dl 180/2011), l’antitrust sanziona 50 volte il finanziamento in oggetto. Quindi io potrei (in caso di verifica del conflitto, ndr) impugnare davanti alla Corte dei Conti il mancato intervento della Banca d’Italia e l’eventuale mancata sanzione che avrebbe fatto perdere allo Stato oltre 500 milioni di euro». Cui prodest, insomma, il cimitero di Mappano?  | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 53 |


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L’antimafia di provincia che pensa in grande di Corrado Fontana

Da bene confiscato il Progetto San Francesco è diventato un centro nazionale di lotta alla criminalità organizzata, tra formazione e nuove regole. Due le parole d’ordine: “tracciabilità” finanziaria e sostegno alle imprese in difficoltà ggi la ’ndrangheta mica ti brucia solo l’escavatore! L’immobiliare controllata dalle mafie ti alza 6-7 volte la soglia dell’affitto, la fabbrica chiude e l’area diventa oggetto di speculazione edilizia. Perciò vogliamo introdurre un equo canone anti-mafia e anti-speculazione, perché la criminalità si infila sempre dove ci sono “i piccioli”, i soldi, e non ci sono le regole». A parlare è Alessandro De Lisi, direttore del Progetto San Francesco: un’associazione di promozione sociale, un centro studi, un movimento culturale per il contrasto alle mafie, nato l’anno scorso a Cermenate (Como) in una villetta confiscata alla ‘ndrangheta, su iniziativa dei sindacati Filca-Cisl (Federazione italiana lavoratori costruzioni e affini), Fiba-Cisl (Federazione italiana bancari assicurativi) e Siulp (Sindacato italiano unitario dei lavoratori di polizia). Valori ne ha già parlato sul numero di maggio 2011, ma in un anno e mezzo il Progetto San Francesco è cresciuto ed è passato dalla teoria delle buone idee alla pratica delle azioni.

«O

Un distretto “Mafia Free” Mentre a Palermo i negozi che si oppongono al racket espongono l’adesivo con la scritta “pizzo free” (un’iniziativa dell’associazione Addio Pizzo, www.addiopizzo.org), nel comasco sta nascendo il distretto “Mafia Free”: «Nessuno degli enti locali aderenti fa più gare d’appalto al massimo ribasso, portando in Consiglio comunale sia questa volontà sia la richie| 54 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

sta al presidente del Consiglio dei Ministri di destinare agli ammortizzatori sociali locali il 35% del capitale mafioso confiscato (anche se ogni sindaco è libero di condurre le iniziative sottoscritte con qualche autonomia)». E così oltre trenta comuni, con capofila Cermenate, hanno costituito una sorta di sovra-coordinamento antimafia in tema di appalti, servizi e richieste di nuove costruzioni. Tutti uniti su tre punti: «Pool dei segretari comunali, tracciabilità sociale e finanziaria delle opere pubbliche e un manifesto di responsabilità sociale per le opere di pubblico interesse», racconta De Lisi. Con un disciplinare territoriale per il

recupero socio-economico delle aree dismesse e, come accennavamo, una proposta d’introduzione di un equo canone per le aree interessate da imprese a rischio default e quindi “appetibili” per la speculazione criminale. «Si tratta di porre un tetto massimo e una soglia minima entro la quale comprendere la richiesta legittima di affitto per le aree industriali – spiega De Lisi –. Una pratica già attuata nei distretti produttivi dei marchi Doc e Dop. Il nostro obiettivo è creare una Doc antimafia nazionale su cui vigileranno sindaci, prefetture e regioni, ma abbiamo bisogno di un nuovo rinascimento culturale, innanzitutto in Lombardia». Oggi è la terza regione per beni confiscati e la prima per esportazione di capitale illecito in Paesi offshore. Purtroppo, mancando le risorse pubbliche «la criminalità si affida alla realizzazione di opere private infrastrutturali di interesse territoriale, come la Brebemi, la Teem o Expo, di fatto investimenti privati ricapitalizzati in un secondo momento, che sorpassano l’obbligatorietà dei certificati antimafia».

Uno Sciamano tra i banchi Un “rinascimento culturale”, però, parte necessariamente dalla diffusione di strumenti e competenze. Da qui l’idea di creare il Centro di alta formazione antimafia “Giorgio Ambrosoli”. Qui gli amministratori locali sono stati istruiti a usare il software Sciamano, elaborato dai Carabinieri e voluto dal prefetto di Genova, Franco Musolino, che incrocia dati economici e


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amministrativi. Il Progetto San Francesco e la prefettura seguono in questo percorso funzionari e tecnici, in attesa di portare l’esperienza in Liguria e in Calabria. «Agli amministratori locali del comasco, ma anche di Pisa, Firenze, Genova e poi agli artigiani affiliati alla Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato) insegniamo i metodi di tracciabilità dei fornitori, la conoscenza dei meccanismi di responsabilità sociale, i modi per riconoscere e segnalare le pressioni del racket, per accompagnarli poi, eventualmente, lungo questi percorsi insieme alle istituzioni. E poi teniamo corsi sulla qualità del made in italy – perché è anche l’abbassamento della qualità che le mafie perseguono – e raccontiamo il radicamento della mafia al Nord e, insieme a Banca Etica, spieghiamo le buone prassi finanziarie per sostenere il credito alle piccole e medie imprese».

Antimafia d’esportazione Ma il Progetto San Francesco comincia ad avere anche un respiro nazionale: «In Liguria abbiamo avanzato una proposta per il recupero sociale delle reti idriche – racconta ancora De Lisi – e abbiamo chiesto che le vittime dell’alluvione genovese del 2011 fossero inserite tra quelle di mafia, perché gran parte del dissesto idrogeologico regionale nasce dalla speculazione criminale di interessi immobiliari. Genova è un simbolo, ma stiamo rafforzando questo impegno nel savonese e a Imperia: laddove c’è un progetto di speculazione edilizia a monte, che costruisce 20-30 unità abitative sul letto di un fiume, solo la ’ndrangheta è in grado di gestire macchine di movimento terra, cemento e uomini, attraverso il caporalato». Le iniziative non finiscono qui: «Abbiamo iniziato un percorso con l’arcivescovo di Pisa, Paolo Benotto, il Comune e

altri enti locali per indirizzare un fondo strutturale di solidarietà alla legalità, attuando una cessione del credito trasparente». Presentato a metà novembre, il fondo verrebbe alimentato anche dai patrimoni criminali sequestrati. I promotori hanno poi lanciato la campagna Ricicliamoli! che chiede al governo di destinare il 35% dei capitali confiscati ai mafiosi e il 21% dei capitali recuperati dalla lotta all’evasione fiscale, a sostegno delle famiglie, dei lavoratori e delle imprese in difficoltà. Al fondo potrebbero accedere, attraverso il microcredito, imprese piccole e medie, artigiani e lavoratori in Cassa Integrazione Straordinaria. «Le organizzazioni criminali – conclude De Lisi – non minacciano più solo con la violenza, ma comprando il debito delle imprese, con cui di fatto si sequestra anche la rete di relazioni sociali degli imprenditori, ottenendo un profondo consenso sociale». 

Dal sindacato un’associazione tutta dedicata al sociale di Elisabetta Tramonto

Dalla responsabilità sociale d’impresa alle energie rinnovabili: la Fiba-Cisl crea Fiba Social Life, un’associazione dedicata ai progetti sociali Non solo la tutela dei diritti dei lavoratori in senso stretto, il sindacato oggi vuole andare oltre e pensa a un concetto più ampio di difesa della società. È il caso della Fiba-Cisl: sono molti i progetti di partecipazione attiva in ambito sociale portati avanti negli ultimi anni dalla rappresentanza dei bancari della Cisl. Tanto che oggi ha deciso di creare una struttura dedicata esclusivamente a queste iniziative. Si chiama Fiba Social Life, un’associazione di promozione sociale attiva in tutta Italia. «È il luogo nel quale custodire il patrimonio di esperienze e di relazioni maturate nei tanti anni di attività nei territori, con la società civile, la scuola, le università, le pubbliche amministrazioni», spiega Giacinto Palladino, segretario nazionale Fiba-Cisl. «Vogliamo che sia aperta a tutti – continua Palladino – perché la miglior tutela dei lavoratori e del lavoro passa dalla realizzazione di un modello partecipativo reale volto a rafforzare il welfare territoriale, alla sostenibilità ambientale ed economica, alla ricerca di alleanze nella società civile che funzionino da anticorpi attivi nella difesa delle nostre comunità e della comunità globale». Gestirà (anzi gestisce già)

il progetto San Francesco, il Centro studi sociali contro le mafie di Cermenate (di cui si parla in queste pagine). Ha contribuito alla fondazione di Next-Nuova economia per tutti, in partnership con una parte del modo accademico, fondazioni, società civile, mondo della cooperazione e imprese orientate alla sostenibilità: un portale dedicato alla responsabilità sociale d’impresa, presentato il mese scorso a Ecomondo a Rimini. «È un interlocutore – spiega ancora Palladino – per le imprese che vogliono sottoporre la propria autovalutazione in merito alla responsabilità sociale (Csr) ai commenti degli stakeholders, che diventano così parte attiva, sottraendo la Csr all’autoreferenzialità. Cittadini, consum-attori, lavoratori, portatori d’interesse collettivo potranno contribuire a un nuovo democratico modello di sviluppo, votando sulla base della propria esperienza, consapevoli di poter indirizzare risparmio e spesa verso obiettivi di bene comune». Ma Fiba Social Life gestisce anche progetti per lo sviluppo delle energie rinnovabili e della green economy (al momento ce ne sono in cantiere due: uno a Torino, precisamente a Venaria Reale, e uno in Emilia Romagna). E nell’associazione confluiranno storici progetti sociali del sindacato: Terra Futura; Valori (Fiba-Cisl è socio della cooperativa editoriale che pubblica la rivista); la Campagna Zerozerocinque per l’introduzione della Tassa sulle transazioni finanziarie. www.progettosanfrancesco.it - www.nexteconomia.org

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Nel mondo degli adultescenti

Confessioni di uno stratega del marketing on possiamo dire il suo nome e nemmeno il suo sesso, non possiamo svelare in quale multinazionale leader nei prodotti di largo consumo lavori e con quale ruolo. Non diremo se ha figli o che età ha, perché questa è un’intervista “Frankenstein”, fatta, cioè, mettendo insieme dichiarazioni di più persone che lavorano nel marketing o lo hanno studiato.

N

di Paola Baiocchi

Nel marketing nulla è segreto, esistono decine di libri o corsi universitari che ne spiegano i termini e le tecniche, ma il fatto che il sistema sia palese non vuol dire che sia conosciuto da tutti. Gli esperti di mercatologia non amano stare sotto i riflettori: come i maghi che spiegano i loro trucchi al largo pubblico, preferiscono restare anonimi.

magari avremo aggiunto un “coefficiente perlaceo” oppure variato il pH. Spieghi meglio cosa è il coefficiente perlaceo.

In quali settori opera la sua azienda?

Produciamo generi di largo consumo, prodotti con i quali tutti i giorni milioni di persone hanno a che fare per la bellezza, per l’igiene personale o della casa. Ci occupiamo anche di alimentazione. Abbiamo molti marchi e facciamo ricerca e continua innovazione, in collaborazione anche con le Università. Spendiamo milioni ogni anno in studi che ci portino a capire meglio quali sono i meccanismi che ci guidano nelle scelte. Studiamo le sensazioni, i comportamenti e le percezioni e poi mettiamo a punto tutto quanto può favorire un “responsabile d’acquisto”. Lo sa che un fattore importante nella scelta di acquistare un’auto è il rumore che fa la portiera quando si chiude? Deve essere un click che dà sicurezza e solidità. Cosa vuol dire esattamente fare ricerca, per esempio su un sapone?

Quanto è disposta a spendere per un sapone? Dovrei fare io le domande, diciamo 2 euro.

Per una crema per il viso, invece, molto di più. Vero? Certo!

Ecco, quello che facciamo nei nostri laboratori è rendere ogni prodotto corrispondente a quello che lei vuole spendere. Quindi se presento un “sapone di bellezza” lei sarà disposta a pagarlo di più di un normale “sapone per le mani” e saremo tutti contenti: noi perché avremo ottimizzato la produzione, trasferendo le nostre scoperte da un detergente per la cucina a un prodotto di bellezza. La cliente perché si sentirà più bella e più desiderabile. Inutile dire che

Se un prodotto ha un riflesso di perla comunica raffinatezza, ricerca, delicatezza. Bisognerebbe sempre comprare un prodotto dopo aver letto attentamente i suoi componenti e quelli del prodotto sullo scaffale diverso più in basso. Sa che c’è una lotta tra produttori per assicurarsi lo scaffale all’altezza degli occhi nei super? Perché è quello dove cade lo sguardo e quindi dove allunghiamo la mano. E sa che c’è una lotta anche per collocare determinati prodotti negli scaffali raggiungibili dai bambini? Ma i bambini non potremmo lasciarli fuori dal mercato?

Chi è il bambino oggi? Vedo 40enni con la maglietta di Topolino o la cravatta di Winnie the Pooh! I bambini desiderano le stesse cose ad ogni latitudine del mondo: vogliono giocare, divertirsi e mangiare cose buone. Se lavoriamo per farli diventare degli adultescenti (degli adulti adolescenti) avremo dei consumatori transnazionalmente simili e per noi che siamo delle multinazionali il mercato sarà senza confini culturali. Forse ho parlato troppo: la vedo preoccupata...  | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 57 |


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CAMERA PRESS / FOTO24 / FELIX DLANGAMANDLA / CONTRASTO

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Chi soffia sul fuoco siriano> 62 Brasile. La grande frenata? > 65 | 58 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |


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Rustenberg, Sudafrica, 15 agosto 2012: minatori riuniti dopo i violenti scontri nella miniere Lonmin di platino a Marikana

L’apartheid

Il progetto di società egualitaria, nato durante la resistenza dei neri sudafricani contro il regime razzista, si è infranto. L’Anc, il partito che ha condotto le lotte, ha costruito un Paese dove la diseguaglianza economica si è approfondita e conserva caratteristiche razziali

economica di Paola Baiocchi rucia il Sudafrica per il moltiplicarsi degli scioperi nelle miniere, durante i quali ci sono state vittime tra i manifestanti e i poliziotti, e 20 mila licenziamenti, circa un terzo dei minatori occupati. Gli scioperi hanno scoperchiato davanti al resto del mondo le profonde diseguaglianze sulle quali è stato costruito il Paese dopo la fine dell’apartheid. Dallo scorso agosto sono in sciopero i minatori che lavorano nelle miniere di platino di Marikana, di proprietà della società londinese Lonmin. Qui 36 lavoratori, che chiedevano aumenti salariali e migliori condizioni di vita, il 15 agosto hanno trovato la morte. Mentre le autopsie hanno rivelato che sono stati colpiti alle spalle, stanno trapelando e-mail che provano la collusione tra Cyril Ramaphosa, sindacalista del Num (il sindacato vicino all’Anc, African National Congress) oltre che ricco azionista minerario, che avrebbe chiesto al ministro

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L’Anc screditata per le sue politiche Ad essere del tutto screditata, però, è soprattutto l’immagine morale dell’Anc, il movimento e partito politico di cui si so-

La normalizzazione sotto il segno di Chicago

no festeggiati lo scorso gennaio i cento anni dalla nascita. Protagonista di una lunga lotta di resistenza contro il regime razzista dell’apartheid, costata almeno 21 mila morti tra il 1948 e il 1994, l’Anc ha tradito il progetto di cambiamento che sembrava essersi concretizzato con l’elezione alla presidenza nel 1994 del suo leader Nelson Mandela. Con Mandela, libero dopo 27 anni di detenzione, a ricoprire la carica più alta, la messa in atto degli intenti della Freedom Charter, la carta della libertà, sembravano a portata di mano (vedi BOX ). Ma non è stato così perché il potere economico è rimasto saldamente nelle mani della minoranza bianca (9,2% della popolazione), che detiene risorse minerarie valutate 2,5 miliardi di dollari e ha imposto al nuovo Sudafrica anche il pagamento del debito che lei stessa ha creato. Così se la diseguaglianza sociale, per dirla con le parole di Naomi Klein in Shock economy, prima del 1994 segnava una divisione tra bianchi e neri come tra

LA FREEDOM CHARTER: UN DOCUMENTO LUNGO 35 ANNI La Freedom Charter è una carta di intenti scritta collettivamente nel 1955, frutto di un ingente lavoro di coinvolgimento realizzato dal partito Anc, che aveva inviato nelle townships e nelle campagne 50 mila volontari a raccogliere le istanze di libertà della popolazione di colore. I leader dell’Anc sintetizzarono le richieste in un documento che fu approvato ufficialmente il 26 giugno 1955 da tremila delegati: la Carta rivendica il diritto al lavoro, a un alloggio decente, alla libertà di pensiero e, soprattutto, afferma che «la ricchezza nazionale del nostro Paese, il patrimonio dei sudafricani, sarà restituito al popolo; la ricchezza mineraria, le banche e le industrie monopolistiche saranno trasferite nelle mani del popolo come entità unitaria; tutte le altre industrie e attività commerciali saranno controllate per assicurare il benessere del popolo». I suoi enunciati sono stati traditi da subito, durante la fase di negoziazione cominciata nel 1991, che ha sancito la transizione dal regime dell’apartheid al nuovo Sudafrica. Nel passaggio i bianchi hanno conservato il potere economico e consegnato ai neri alcuni aspetti amministrativi, tanto che, in forma di battuta, gli attivisti dell’Anc dicevano: «Ehi, abbiamo lo Stato, ma dov’è il potere?». Pa.Bai.

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cittadini della California e abitanti del Congo, grazie alle politiche adottate dall’Anc – che ha governato ininterrottamente da quella data ad oggi – il divario ormai assomiglia a quello tra Beverly Hills e Baghdad.

Il Sudafrica è la dimostrazione di come un Paese possa avere una democrazia formale, con le elezioni, ma viva di fatto in una dittatura economica

Per la Klein se «Mandela avesse condotto l’Anc al potere e avesse nazionalizzato banche e miniere, avrebbe realizzato un precedente che avrebbe reso molto più difficile, per gli economisti della Scuola di Chicago, vendere negli altri Paesi l’idea che queste teorie economiche fossero relitti del passato, e che solo l’illimitata libertà dei mercati e il libero scambio potessero riequilibrare profonde diseguaglianze». Un esempio pericoloso, quindi, da bloccare a tutti i costi. E così, mentre il leader dell’Anc, Thabo Mbeki, braccio destro di Mandela e poi presidente del Sudafrica, trattava segretamente con i manager delle grandi aziende prima della fine dell’apartheid; mentre Mandela si incontrava con Harry Oppenheimer, ex presidente dei giganti minerari Anglo American e De Beers, ogni volta che sono state tentate svolte per l’attuazione di qualche parte della Freedom Charter, il Paese ha subito il ricatto economico dei capitali nazionali e FONTE: BLOG.GETAWAY.CO.ZA

della Polizia di intervenire per reprimere i manifestanti. Nei confronti del già molto screditato presidente Jacob Zuma si annunciano grossi ostacoli alla ricandidatura per le elezioni del 2014: il nome del candidato dovrebbe uscire dalla 53ma conferenza dell’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che si svolgerà dal 16 al 20 dicembre a Mangaung (Bloemfontein, in afrikaans), la capitale giudiziaria sudafricana, il cui nome in lingua sesotho vuol dire “il posto dove abitano i leopardi”. Zuma è accusato sia per la gestione della situazione nei distretti minerari, sia per gli scandali legati alla sua figura. L’ultimo nel tempo è quello di Zumaville, futuribile città giardino dedicata al presidente, che dovrebbe sorgere vicino al villaggio natale di Zuma, su terreni tribali amministrati da suoi parenti. I lavori non sono ancora iniziati e già dei fondi sarebbero spariti, sottratti al programma contro la denutrizione Zero Hunger, mentre è oscura la sorte dei contadini che verranno espropriati di quelle terre.


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Ricchi “insolitamente” ricchi e poveri estremamente poveri

FONTE: EN.WIKIPEDIA.ORG

Il Sudafrica è la dimostrazione di come un Paese possa avere una democrazia formale, che prevede anche le elezioni, ma viva di fatto una dittatura esercitata da una oligarchia economica che controlla le risorse naturali e ha imposto le regole della scuola di Chicago. E così il ricchissimo Paese che produce i tre quarti dell’uranio mondiale, che è il primo produttore di diamanti e il quarto di oro, ha un tasso di disoccupazione del 24,9%, che raddoppia tra i giovani ed è al 46,9% per le donne. Ma, cosa che gli fa ancora più disonore, non attua politiche di prevenzione e cura

In alto “The Freedom Charter memorial” a Kliptown, Soweto A sinistra la piazza “Walter Sisulu”, conosciuta come piazza “Freedom”, a Kliptown, con le sue 10 sculture che rappresentano le 10 clausole della Carta 1955 “La libertà è il lavoro” di Usha Seerjarim

dell’Aids che ha contagiato cinque milioni di persone e ridotto le aspettative di vita di venti anni, come è riportato nello studio Povertà e disuguaglianza dopo l’apartheid di Jeremy Seekings, dell’Università di Cape Town e Yale. Secondo questo studio «in Sudafrica i ricchi sono insolitamente ricchi e i poveri sono estremamente poveri, anche rispetto ad altre società disuguali». E nella lista dell’Onu per uguaglianza di reddito, basata sul coefficiente di Gini, il Sudafrica è al 116mo posto su 124 Paesi. Mentre il Brasile, con il quale è stato spesso paragonato, sta attuando politiche redistributive ed è ora al 66mo posto. 

IL PAESE IN CIFRE Nome: Repubblica del Sudafrica Forma di governo: repubblica Superficie: 1.220.813 kmq Abitanti: 51.770.560 Capitale: Pretoria Moneta: rand sudafricano Mortalità infantile: 46,9 per 1.000 nati Speranza di vita (anni): 50,6 maschi; 53,2 femmine Gruppi etnici: Bantu 79,4; bianchi 9,2%; coloured 8,8%; asiatici 2,6% Pnl (Prodotto nazionale lordo): 279.023 milioni $ Usa Pil (Prodotto interno lordo): 357.259 milioni $ Usa Pil/abitante: 7.158 $ Usa Disoccupazione: 24,9% maschile; 46,9% femminile

ZUMA RINUNCIA ALLA CAUSA CON IL DISEGNATORE SATIRICO Lo scorso ottobre il presidente Zuma ha rinunciato a portare avanti una causa per diffamazione nei confronti del vignettista Zapiro e il quotidiano Sunday Times. Nel 2008 Zapiro (un Vauro sudafricano) aveva rappresentato il presidente con una doccia in testa nell’atto di violare una donna, che rappresenta la giustizia, dopo l’assoluzione di Zuma in un processo per stupro. La doccia sulla testa era un riferimento alle affermazioni, fatte nel corso del processo da Zuma, di aver scongiurato il rischio di contrarre il virus dopo aver avuto rapporti sessuali con una donna sieropositiva facendo immediatamente una doccia e che il rischio di contrarre l’Aids da una donna è minimo per un uomo in salute. Affermazioni false e pericolosamente disinformative in un Paese in cui il 10% della popolazione è portatore del virus dell’Hiv.

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FONTE: WWW.INFO.GOV.ZA; E CIA WORLD FACTBOOK 2012.

internazionali: crolli della valuta, tagli agli aiuti esterni e fuga di società. Il rand, la moneta locale, ha subito un tracollo del 10% alla notizia della scarcerazione di Mandela, nel febbraio del 1990. E poche settimane dopo la De Beers, la compagnia diamantifera più importante del mondo, ha spostato la sua sede dal Sudafrica alla Svizzera. La stessa minaccia viene agitata ora dalle compagnie proprietarie delle miniere in sciopero, che hanno fatto cartello e annunciano sia di voler ritirare i loro investimenti, che di essere indifferenti a una diminuzione dell’estrazione che, anzi, compenserebbe un certo calo nell’offerta globale.


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Chi soffia sul fuoco siriano di Paola Baiocchi

Due fronti esterni si sono aperti nella delicatissima situazione siriana: le Alture del Golan, contese tra Siria e Israele, e la frontiera con la Turchia. Mentre il movimento pacifista europeo non riesce a organizzare una manifestazione a fianco della popolazione siriana siste una definizione più assurda di “guerra civile”? Sappiamo che si intende un conflitto combattuto all’interno di una nazione tra fazioni composte per la maggioranza dalla popolazione locale: ma civile accanto a guerra è un pugno che arriva allo stomaco, forte come quando si parla di guerra umanitaria. L’immagine che ci restituisce non è giusta e dobbiamo rifiutarci di utilizzarla. Se utilizziamo invece gli strumenti dell’analisi, pur con la difficoltà di reperire informazioni non viziate dalla propaganda di giornalisti embedded, in Si-

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ria si sta combattendo dal marzo del 2011 un conflitto surrogato, che si è innestato su rivendicazioni di democratizzazione iniziate nella città meridionale di Dera’a, ma è condotto da gruppi che rappresentano interessi di altre nazioni. Per Thierry Meyssan, saggista francese presidente del Réseau Voltaire, si tratta di una “pseudo rivoluzione” in cui «nessun gruppo armato si batte per la democrazia, e la maggior parte intende imporre una dittatura religiosa sunnita». Obiettivo: continuare la riconfigurazione politica del Medioriente, eliminando la laicità del panarabismo, in funzione del cambiamento di equilibri conseguente alla caduta del Muro di Berlino e alla crescente importanza degli imperialismi locali, rappresentati da Israele e dalle monarchie del Golfo.

Cresce l’intensità del conflitto L’intensità del conflitto sta salendo: Israele ha annunciato di aver risposto con i suoi Tammuz ai colpi dei mortai dei siriani sulle Alture del Golan, il più pacifico dei confini israeliani dove non

c’erano più stati scontri dal 1973, dopo l’annessione dei territori da parte israeliana, con la guerra dei sei giorni (1967). Ci sono stati scambi a fuoco sul confine turco e il presidente Abdullah Gul ha confermato che la Turchia dopo trattative con la Nato dispiegherà sul suo territorio missili Patriots terraaria. Secondo il quotidiano turco Milliyet il dispiegamento di missili farebbe parte di un piano delineato con gli Usa, per imporre una zona di esclusione aerea di 60 km, all’interno del territorio siriano. Che consentirà mano libera ai gruppi armati che stanno destabilizzando la Siria, riuniti sotto il nome di Esercito siriano libero (Esl) e composti da corpi scelti qatariani, terroristi wahabiti di Al Qaeda e provenienti dall’Arabia Saudita, miliziani libici, apparati speciali francesi, turchi, israeliani e della Nato. Un insieme di brigate che dovrebbe obbedire a un comando presso una base Nato in Turchia, ma che – secondo Meyssan – risponde solo “a chi le finanzia direttamente” e dopo mesi di scontri non è riuscito a conquistare l’appoggio del-


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L’Esercito siriano libero è composto da un insieme di brigate che non obbediscono a un comando Nato in Turchia, ma “solo a chi le finanzia direttamente” la popolazione e a sfaldare l’esercito siriano.

La ricerca di un interlocutore unico Pressato dalle richieste dell’Occidente di avere un interlocutore unico, l’Esl ha formato recentemente un Comando militare centrale nella città occupata di Idlib, in cui si identifica circa l’80% dell’Esl e riconosce come capo spirituale lo sceicco salafita Adnan al-Arour. Commentando la creazione del Comando militare centrale, lo sceicco ha auspicato anche l’unificazione dei tre comitati politici rivali all’estero e ha invocato l’istituzione di un Consiglio legislativo che dovrebbe adottare la shari’a sotto la sua direzione.

IL PREMIER OCULISTA Non era Bashar, secondo figlio di Hafiz nato l’11 settembre 1965, il predestinato a seguire le orme del padre. Anzi, pur iscritto al Movimento giovanile del partito Baath dall’età di 14 anni, l’attuale presidente è arrivato in politica nel 1994, dopo la morte del fratello Bassel in un incidente d’auto. Dopo aver conseguito la laurea in oftalmologia all’Università di Damasco, Assad aveva continuato gli studi a Londra, con l’intenzione di proseguire nel campo oculistico, ma è stato richiamato in tutta fretta da Londra e “spinto sotto i riflettori” per sostituire lo scomparso Bassel. A fianco del padre negli ultimi anni della sua vita, Bashar, riconosciuto dalla stampa occidentale come un modernizzatore della società siriana, sostenitore di internet e a capo di una commissione nazionale anticorruzione, ha messo sotto processo diverse figure di spicco della leadership. Dal 2005 al 2010, secondo gli indicatori sociali prodotti dalla Camera dei deputati italiana sulla Siria, sono migliorati i dati sul Pil pro capite, sul tasso di alfabetizzazione e quello di scolarizzazione. È migliorata l’aspettativa di vita alla nascita, diminuita la mortalità infantile e la violenza, sono aumentate le libertà civili e l’accesso a internet. Non è riuscita in questa unificazione l’assemblea degli oppositori della Siria, convocata a Doha nel Qatar ai primi di novembre. Ma ha prodotto come risultato la Coalizione nazionale delle forze rivoluzionarie di opposizione, un nuovo

organismo guidato da Maoz al-Khatib, sunnita ed ex imam della grande moschea di Damasco. Nella Coalizione è confluito anche il Consiglio nazionale siriano (Cns) ora guidato dal cristiano George Sabra. La Coalizione è stata per il | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 63 |


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FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA WORLD FACTBOOK 2012 E CAMERA DEI DEPUTATI

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UN PAESE LAICO, CON I LAVORATORI IN PARLAMENTO

momento riconosciuta dalle sei monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar), dalla Lega Araba, dalla Francia e ha avuto l’apprezzamento degli Usa.

Una dichiarazione di guerra Nelle sue prime dichiarazioni Sabra ha lanciato l’appello agli sponsor occidentali, come riporta l’agenzia stampa AsiaNews: «Non abbiamo bisogno di solo pane, ma di armi». Secondo la stessa agenzia «l’Occidente non vuole concedere armi in modo esplicito, ma lo fa attraverso Qatar e Arabia Saudita. Con il pieno riconoscimento da parte della comunità internazionale, la nuova Coalizione avrà diritto a ricevere fondi e armi da Paesi stranieri, ma non da Stati Uniti e Unione Europea». Tuttavia, Khaled al-Attiya, ministro degli Esteri del Qatar, sottolinea che con «la legittimazione internazionale, la Coalizione potrà concludere da sola contratti per l’acquisto di armi, senza il benestare di alcun Paese». «Una vera dichiarazione di guerra» per il presidente siriano, che solo pochi giorni prima in un’intervista alla catena televisiva Russia Today, aveva affermato di «credere nella possibilità di una soluzione affidata alle urne» e aveva rifiutato anche la “via di fuga” offertagli dal | 64 | valori | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 |

premier inglese, David Cameron, in visita negli stessi giorni nel campo profughi di Zaatari, in Giordania, Paese che ospita 36 mila dei circa 400 mila rifugiati provenienti dalla Siria. Di fronte a questa aggressione predatoria nei confronti di un Paese sovrano, che segue un suo percorso autonomo di sviluppo, come è possibile che tutti i democratici, i movimenti pacifisti, la società civile non facciano ancora sentire la loro voce? 

IL PAESE IN CIFRE Nome: Siria Forma di governo: repubblica Capitale: Damasco Indipendenza: 17 aprile 1946 (dal mandato conferito alla Francia dalla Lega delle nazioni) Popolazione: 22.530,746 (stima luglio 2012); arabi 90,3%, kurdi, armeni e altri 9,7% Religioni: musulmani sunniti 74%, altri musulmani (compresi alawiti e drusi) 16%; cristiani 10%; ebrei Pil: 64,7 miliardi di $ Usa (stima 2011) Pil procapite: 5.100 $ Usa Tasso di disoccupazione: 14,9% (stima 2011) Alfabetizzazione: 79,6% totale; maschi 86%; femmine 73,6% (censimento 2004) Aspettativa di vita alla nascita: 74,92 anni Mortalità infantile: 15,12 morti/1.000 nati Mortalità materna: 70 morti/1.000.000

FONTE: HTTP://TRIBUNODELPOPOLO.COM

Indipendente dal 1946, dopo esser stata amministrata dai francesi subentrati a seguito della guerra mondiale nell’area dell’ex Impero Ottomano (1920-1946), la Siria è stata unita allo Yemen e all’Egitto nella Repubblica araba unita, dal 1958 al 1961. Nel 1963 il Baath, partito nazionalista arabo laico e di ispirazione socialista, assume il potere con un colpo di Stato militare. A seguito della sconfitta nella “guerra dei 6 giorni” del 1967, con l’occupazione del Golan da parte degli israeliani, nel 1970 un golpe incruento (definito nella terminologia ufficiale baathista “movimento di rettifica”) estromette dal potere la sinistra neo-marxista e colloca il ministro della Difesa, il generale Hafiz al-Assad membro della minoranza alawita, al vertice dello Stato. Hafiz governa in continuità con i programmi precedenti, riceve gli apprezzamenti per la stabilità raggiunta dalla Siria persino dal segretario di Stato Usa, Henry Kissinger. Con la morte del padre, nel 2000, Bashar al-Assad è nominato presidente dall’Assemblea del popolo e confermato dal referendum popolare nel luglio dello stesso anno, come prevede la Costituzione del 1973. Nell’ordinamento siriano, il presidente è titolare del potere esecutivo e nomina il governo. Il potere legislativo spetta all’Assemblea del popolo, formata da 250 membri eletti a suffragio universale; la metà dei seggi è riservata ai lavoratori; 167 seggi sono garantiti per legge al Fronte nazionale patriottico (Jww) che fa capo al partito Baath. Nel 1976 la Siria interviene come elemento pacificatore nella guerra interna al Libano, imponendo al Paese una sorta di protettorato avallato nel 1991 da un trattato di cooperazione. In seguito alla risoluzione Onu che ordinava il ritiro delle truppe straniere dal Libano, nel 2005 la Siria richiama i soldati. Nel maggio 2007 Bashar è stato eletto per la seconda volta presidente. Pa.Bai.


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La grande frenata? di Andrea Barolini

Il Brasile, dopo anni di grande crescita economica e sociale trainata dalle risorse naturali, rischia di finire la sua corsa contro un muro. Complici gli scarsi investimenti nelle infrastrutture e la moneta sopravvalutata che possono mettere in crisi l’industria presto per dire addio ai sogni di gloria. Quello che appare certo, però, è che la crisi globale, unita a una serie di scelte strategiche discutibili, rischia di pesare in Brasile ben oltre le previsioni governative. È evidente, infatti, che gli anni di Lula – capaci di guidare l’economia locale verso un’espan-

È

sione mai registrata nella storia del Paese, foriera anche di conquiste sociali storiche – di colpo hanno cominciato ad allontanarsi.

Addio impermeabilità alla crisi La sesta economia del mondo sembra aver retto di fronte alla crisi globale solamente fino all’estate del 2011. Dopo il boom dell’anno precedente, quando il Paese appariva davvero immune al terremoto finanziario globale (la crescita del Pil raggiunse il 7,5%), gli ultimi 18 mesi sono stati contraddistinti da una stagnazione in qualche modo inattesa per gli stessi amministratori brasiliani. Basti pensare che l’ipotesi di crescita, indicata dal governo al 4% per il 2012, è stata rivista dalla Banca centrale all’1,6%. Il che costituisce un dato particolarmen-

UN PAESE ANCORA ASSETATO Nonostante i progressi degli ultimi anni, il Brasile è ancora alle prese con problemi che mal si addicono alla sesta economia mondiale. E, se quella della povertà (scesa decisamente, ma ancora superiore al 20%) è una questione nota, meno conosciuto è il problema dell’approvvigionamento di acqua. Se è vero, infatti, che dal 1960 a tre anni fa il Paese ha moltiplicato per 22 il numero di case allacciate alla rete idrica, nello stesso periodo sono raddoppiate anche quelle che non lo sono. E l’accesso all’acqua potabile costituisce, ancora oggi, un muro ideale tra ricchi e poveri. Secondo l’Ibge, l’istituto statistico brasiliano, solo l’84% delle abitazioni permanenti è allacciato alla rete. E in 13 delle 81 città più grandi del Paese il dato è al di sotto dell’80%. Ad Ananindeua, nella regione di Belem, in particolare, il problema assume proporzioni inquietanti: benché il Comune conti 495 mila abitanti, solo nel 29% delle case arriva acqua potabile. Una situazione ancora peggiore, poi, è quella in cui versa la rete fognaria. Nel 2009 serviva solamente il 53% della popolazione urbana, e in 19 città, di cui 5 nella regione di Rio de Janeiro, la quota scende al di sotto del 30%.

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La moneta locale, il real, si è apprezzata del 70% dal 2004 al 2011, rispetto alle valute dei principali partner te preoccupante se si tiene conto del fatto che lo stesso esecutivo ha tentato di sostenere il sistema attraverso un vasto programma di rilancio, a base di investimenti pubblici in infrastrutture e di un rapido calo dei tassi di interesse (dal 12% al 7,5% in soli dodici mesi). E la “frenata” si percepisce già nel Paese, il che è normale in un contesto che si è sviluppato fortemente, ma che presenta ancora grandi elementi di vulnerabilità. Negli ultimi mesi sono stati organizzati scioperi e proteste sindacali, in particolare da parte dei salariati del settore pubblico.

nel settore industriale sono risultati deboli. «Il livello risulta più basso rispetto ai principali competitori, il che comporta un ritardo infrastrutturale», ha spiegato il Fondo monetario internazionale in un rapporto pubblicato nel luglio scorso. Un problema compreso dalle autorità del Brasile, ma forse troppo in ritardo: il governo, tra il 2006 e il 2011, ha incrementato gli investimenti pubblici (attraverso il Programma di accelerazione della crescita, Pac) dal 2% al 2,5% del Pil. Ma secondo le stime degli esperti servirebbe arrivare al 5%, e mantenere tale livello per vent’anni, per eguagliare il livello delle infrastrutture esistenti in un Paese come la Corea del Sud. Inoltre, il fatto che la moneta locale, il real, abbia guadagnato qualcosa come il 70% dal 2004 al 2011, rispetto alle valute dei principali partner commerciali, rischia di affossare letteralmente il comparto.

DAL MEDIORIENTE ALL’AMERICA LATINA Da un anno ormai sulle pagine di Valori vi raccontiamo il Medioriente, con un appuntamento mensile dedicato ogni volta a un Paese diverso, in una zona che sta attraversando un periodo di grande cambiamento. Ma ci siamo resi conto che è giunta l’ora di dedicare la stessa attenzione a un’altra zona, non meno “vivace”. È per tale motivo che con questo numero attiviamo un nuovo Osservatorio dedicato al Sudamerica (che per qualche mese si alternerà con gli ultimi Paesi mediorientali che vogliamo raccontare). Il primo appuntamento sudamericano è con il Brasile.

Per capire la portata del dato, è sufficiente ricordare come nello stesso periodo lo yuan cinese (unanimemente considerato sopravvalutato) si sia apprezzato “solamente” del 25% e il peso messicano del 3%. 

La “sindrome olandese”

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IL PAESE IN CIFRE Governo, popolazione, società Ordinamento politico: Repubblica federale Capitale: Brasilia Superficie: 8.514.877 kmq Indipendenza: 7 settembre 1822 (dal Portogallo); fino al 1985 il Paese è stato guidato da governi militari e populisti Popolazione: 199.321.413 (stima di luglio 2012) Lingue: il portoghese è la lingua più parlata e diffusa; esistono ristrette minoranze linguistiche spagnole, tedesche, italiane, giapponesi e inglesi oltreché numerose lingue native. Religione: i cattolici sono il 73,6%, i protestanti il 15,4%, gli spiritualisti l’1,3%. Meno diffuso il credo bantu/voodoo Alfabetizzazione: 88,6% della popolazione (popolazione di 15 anni o più in grado di leggere) Mortalità infantile: 20,5 morti ogni 1.000 bambini nati (94esimo nella classifica mondiale) Speranza di vita alla nascita: 72,79 anni (124esimo nella classifica mondiale) Indicatori economici Moneta: real Pil: 2.324 mila miliardi di $ (ottavo nella classifica mondiale) Pil procapite: 11.900 $ (122esimo nella classifica mondiale) Occupazione della forza lavoro: 22% agricoltura, 14% industria, 66% servizi Disoccupazione: 6% (2011) Popolazione sotto la soglia di povertà: 21,4% (2009) Tasso di inflazione: 6,6% (2011) Debito pubblico: 54,2% del Pil Debito estero: 397,5 miliardi di $ (2011) Principali prodotti agricoli: caffè, soia, riso, grano, zucchero di canna, cacao Principali prodotti industriali: tessile, scarpe, cementi, elementi chimici, aeromobili, veicoli a motore, acciaio Produzione di petrolio: 2.633 milioni di barili al giorno (12esimo nella classifica mondiale) Produzione di gas naturale: 24,07 miliardi di metri cubi (31esimo nella classifica mondiale) Import/export: -52,59 miliardi di $ (2011)

FONTE: CIA WORLD FACTBOOK

Ma cosa è successo davvero alla modernizzazione del Brasile? Il settimanale francese Alternatives Economiques punta il dito contro la cosiddetta “sindrome olandese”: un’espressione con la quale si indicano i problemi economici che si registrarono nei Paesi Bassi negli anni Sessanta. All’epoca, la scoperta di importanti giacimenti di gas nella nazione europea causò un brusco calo degli investimenti nell’industria manifatturiera. Mentre l’ingresso di enormi quantitativi di capitali stranieri, legati proprio all’export di gas, provocarono un’impennata dei tassi di cambio, dando un colpo di grazia alla competitività del settore industriale nel suo complesso. Un film il cui remake sembra essere ambientato proprio nella prima economia latinoamericana: la crescita brasiliana degli ultimi anni è infatti stata sostenuta soprattutto dal cambio e dagli investimenti diretti internazionali. Il Paese si è ritrovato fortemente dipendente dalle sue ricchezze naturali, e conseguentemente dalle oscillazioni (e dalle speculazioni) sul mercato globale delle materie prime. Il governo ha fatto leva sul boom, dunque, ma non è stato abbastanza previdente: in particolare gli investimenti


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altrevoci FOTO ARCHIVIO ALCE NERO & MIELIZIA

LA COMMISSIONE UE PREMIA VALORI E IL MIELE “APPREZZATO” Sul numero di giugno 2012 Valori aveva pubblicato la storia del miele “apprezzato”. Un progetto originale messo in piedi dalle trecento famiglie del Gruppo acquisto solidale Biorekk di Padova insieme a un apicoltore locale e con la collaborazione di Aiab, la cooperativa El Tamiso e la Fondazione Culturale Responsabilità Etica. L’obiettivo era ambizioso: produrre un miele di alta qualità, biologico, il cui prezzo (6,80 euro al chilo) è stato concertato tra consumatori e produttore, sviscerando le varie voci di costo fino ad arrivare a un prezzo giusto, che garantisse un’adeguata remunerazione per il lavoro svolto. Un’idea che disegnava un modo nuovo di concepire i rapporti tra chi produce e chi utilizza un bene e che avevamo raccontato nell’ambito di una delle 20 inchieste sulle filiere agroalimentari italiane. La storia ha evidentemente incuriosito anche all’estero. L’articolo e il suo autore – il nostro collega, Emanuele Isonio – si sono infatti classificati al secondo posto del premio giornalistico indetto dalla Commissione europea (Direzione Agricoltura), nella categoria “Agricoltura ecologicamente sostenibile”. Il riconoscimento verrà consegnato durante una cerimonia a Bruxelles il 10 dicembre. [I.E.]

L’EUROPA CONGELA LA CARBON TAX SUL TRASPORTO AEREO

GLI SPECULATORI SCOMMETTONO SULLA RIPRESA GRECA

SETTEMILA FIRME PER L’AZIONARIATO POPOLARE

Si è parlato molto della carbon tax sul trasporto aereo imposta dall’Unione europea: a partire da gennaio, tutte le compagnie aeree che sorvolano il Vecchio Continente devono acquistare l’equivalente del 15% delle loro emissioni di gas inquinanti, rientrando nel sistema ETS. I primi pagamenti erano previsti per il mese di aprile del 2013. Ma a novembre è arrivato un improvviso dietrofront: la Commissione europea ha sospeso la tassa per un anno. La motivazione sta nell’impegno dell’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (ICAO) a cercare un accordo globale sul meccanismo di mercato delle quote di emissioni. Per ora, tuttavia, si tratta solo di una dichiarazione d’intenti: l’ICAO non ha ancora dato il via libera a nessuna decisione. Alcuni gruppi ambientalisti ritengono che si tratti di un parziale passo indietro rispetto a una normativa radicale, sulla quale, dall’altro lato, non erano mancate le polemiche: durissime le contestazioni di Stati Uniti, Cina, Russia e India. Ora ci sono dodici mesi di tempo. «Finalmente – ha annunciato il commissario europeo per l’Azione sul clima Connie Hedegaard – abbiamo la possibilità di ottenere una regolamentazione internazionale sulle emissioni. Si tratta di un’opportunità cercata a lungo, quindi la dobbiamo sfruttare». Se non verrà raggiunto un accordo, ha precisato, si tornerà al sistema previsto. [V.N.]

Sottoposta a nuove misure di austerity e attraversata da una crescente protesta sociale, la Grecia affronta la sua persistente crisi economica. Ma negli ultimi tempi, a sorpresa, è emersa una nuova ondata di ottimismo da parte dei protagonisti più inattesi: alcuni fondi speculativi che, dopo aver giocato al ribasso per almeno due anni contribuendo anch’essi al dissesto finanziario e al panico dei mercati, potrebbero avviare ora una significativa inversione di tendenza. Dromeus Capital, un fondo con sede a Ginevra e un nuovo ufficio operativo proprio ad Atene, starebbe completando una raccolta di capitale da 200 milioni di dollari con l’obiettivo di investire nel mercato finanziario ellenico puntando forte su azioni e obbligazioni. L’ipotesi dei suoi gestori, ricorda il Financial Times , è piuttosto semplice: i titoli finanziari avrebbero raggiunto livelli talmente bassi di prezzo da risultare sottovalutati. Già nel mese di maggio il New York Times segnalava un rinnovato interesse di un manipolo di fondi per i bond sovrani ellenici. L’investimento, ammettono gli operatori, è comunque rischioso. Secondo il direttore di Dromeus Capital, Achilles Risvas, la Grecia avrebbe tuttora un 30% di probabilità di abbandonare l’eurozona, il che implicherebbe una perdita del 50% sugli investimenti. In caso contrario, sostiene, l’ammontare investito potrebbe raddoppiare di valore nello spazio di un anno. [M.CAV.]

Poco meno di settemila firme nell’arco di una settimana: è questo il sorprendente riscontro ottenuto dalla petizione lanciata da Banca Etica al ministro dell’Economia Vittorio Grilli. L’appello, diffuso tramite la piattaforma Change.org, chiede al Governo, nell’ambito della legge di stabilità, di reintrodurre l’esenzione dall’imposta di bollo per i depositi titoli fino a mille euro. A sancire l’obbligo del bollo minimo di 34 euro anche per i piccolissimi investimenti è stata la legge n. 214 del 22 dicembre 2011, la cosiddetta manovra Salva Italia. Una decisione che – si legge nel testo della petizione – «ostacola la partecipazione e scoraggia i piccoli investitori», mettendo fortemente a rischio le esperienze di azionariato popolare e finanza cooperativa sulle quali si fonda Banca Etica stessa. Il successo della mobilitazione ha superato ogni aspettativa e il 13 novembre il presidente di Banca Etica Ugo Biggeri ha potuto inviare un elenco di quasi settemila firme al ministro Grilli, auspicando che i fondi per andare incontro ai piccoli investitori si possano trovare, al limite, «con lievi ritocchi alle aliquote sugli investimenti di grande entità». [V.N.]

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| LASTNEWS |

MODA AL VELENO

DE.WIKIPEDIA.ORG

A diffidare anche di quel che indossiamo ce l’avevano già insegnato a giugno scorso (alba dei Campionati europei di calcio) alcune organizzazioni (in Italia Altroconsumo), che denunciavano la presenza di sostanze chimiche tossiche oltre i limiti di legge sulle magliette ufficiali di alcune squadre nazionali. Oggi l’allarme arriva dal rapporto internazionale Toxic Threads - The Big Fashion Stitch-Up presentato a Pechino da Greenpeace: analisi chimiche su 141 articoli delle maggiori griffe planetarie della moda rilevano, infatti, la presenza di sostanze chimiche (alchilfenoli, ftalati e nonilfenoli etossilati), che potrebbero alterare il sistema ormonale dell’uomo o, se rilasciate nell’ambiente, diventare cancerogene. E, benché Greenpeace precisi che, ad oggi, non esistono informazioni sui possibili problemi sanitari nei quali potrebbe incorrere chi indossa questi prodotti, al contempo invita i vari Benetton, Jack & Jones, Only, Vero Moda, Blažek, C & A, Diesel, Esprit, Gap, Armani, H&M, Zara, Levi, Victoria ‘s Secret, Mango, Marks & Spencer, Metersbonwe, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Vancl a vigilare sui processi di produzione tessile: gli abiti possono diventare veicolo per sostanze chimiche pericolose realizzate da fornitori, specialmente cinesi e asiatici, che «contribuiscono all’inquinamento dei corsi d’acqua di tutto il mondo, sia durante la produzione che nel lavaggio domestico», spiega Li Yifang, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Asia orientale. [C.F.]

BOIRON ABBANDONA LA PRODUZIONE IN ITALIA? La Boiron avrebbe deciso di chiudere l’ultimo dei suoi stabilimenti produttivi italiani, quello di Ardea, vicino a Roma. A riferirlo al nostro giornale sono fonti sindacali, che spiegano di aver ricevuto la notizia lo scorso 12 ottobre: «Da quel giorno è partito un conto alla rovescia di 75 giorni. Passati i quali l’azienda chiuderà, e i 49 dipendenti che lavorano qui saranno lasciati per strada». Eppure Boiron, azienda leader mondiale dell’omeopatia, in Italia opera dal ’79, e i suoi risultati operativi sembrano positivi: l’esercizio 2011 indica ricavi per oltre 53,5 milioni di euro (in crescita del 3%), con un utile che sfiora i 2,3 milioni, e un indice di redditività (RoE) dell’11,7%. «È chiaro – aggiungono le fonti sindacali – che la scelta è puramente economica. Siamo in attivo: fino a luglio scorso sono stati concessi premi. E ad Ardea distribuiamo il 70% del fatturato aziendale. Non capiamo per quale ragione si sia deciso di chiudere». Anche perché il quantitativo di prodotti distribuiti dallo stabilimento laziale è cresciuto del 29% dal 2010 al 2012. La sensazione è quella di un ridimensionamento della presenza dell’industria in Italia: «Sono stati già chiusi altri stabilimenti. Un anno fa si è deciso di eliminare il servizio clienti ad Ardea, per accentrare tutto nella sede centrale di Segrate. Sei mesi fa, la stessa sorte è toccata al sito di San Giorgio di Piano (Bologna). Mentre a Pioltello (Milano), è stata eliminata parte del personale e ne è stata ricollocata una quota», proseguono le fonti di Valori . Da parte sua, l’azienda, pur ammettendo che «è in corso una ristrutturazione», fa sapere di non voler parlare «finché saranno in corso trattative sindacali». [A.BAR]

VACCINO ESAVALENTE: IL CASO IN PARLAMENTO

DANTE DE ANGELIS REINTEGRATO. FERROVIE RINUNCIA ALL’APPELLO

Il caso del vaccino esavalente approda in Parlamento. Il mese scorso avevamo segnalato che sono arrivati a 19 gli Stati nel mondo ad aver deciso di ritirare dal commercio lotti del vaccino Infanrix Hexa, prodotto dalla GlaxoSmithKline, a causa di una possibile contaminazione da parte del Bacillus cereus. Il numero troppo elevato di Paesi che ha deciso il ritiro ha però fatto sospettare che il problema non fossero solo alcuni lotti, ma il vaccino in sé, usato sui neonati per proteggerli non solo contro tetano, epatite B, pertosse ed emofilo tipo B, ma anche contro difterite (l’ultimo caso accertato risale a decenni fa) e poliomielite (l’Europa ha il certificato “polio free” dal 2002). I dubbi sono sfociati in un’interpellanza urgente di una trentina di deputati (prima firmataria Elvira Savino, Pdl). «In Italia non è stato necessario procedere ad alcun ritiro perché nessun lotto interessato è stato distribuito in Italia», ha spiegato il sottosegretario alla Salute, Adelfio Cardinale, nella sua risposta, sottolineando che «i controlli effettuati sui vaccini hanno rivelato l’assenza totale di contaminazione». Critica la replica della Savino: «Questa vicenda presenta ancora aspetti non chiari. Non è stata fornita la certezza scientifica che i lotti commercializzati in Italia siano privi di rischio». [EM.IS.]

Con la rinuncia di Ferrovie al ricorso in appello, a novembre, si è concluso il percorso giudiziario intentato da Fs contro il macchinista Dante De Angelis, delegato alla sicurezza licenziato a Ferragosto del 2008, per aver dichiarato che lo spezzamento dei due Eurostar a Milano, il 14 e 22 luglio 2008, era un fatto molto pericoloso che coinvolgeva la manutenzione, la progettazione e i controlli sugli Etr 500. De Angelis era stato reintegrato al lavoro dal giudice nell’ottobre del 2009, ma Ferrovie era ricorsa in appello. All’inizio del 2009, intanto, c’era stato un altro spezzamento, vicino ad Anagni, del Frecciarossa Napoli-Bologna. Dopo gli incidenti il ministero dei Trasporti e l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, avevano disposto delle indagini individuando lacune nella progettazione e nella manutenzione, prescrivendo la sostituzione dei tenditori sugli Etr. Dimostrando fondate le dichiarazioni di De Angelis… Ma ci sono voluti quattro anni prima che la vicenda si concludesse; condotta da Ferrovie con tutta la tenacia che utilizza per spegnere le voci critiche. Come già successo per i ferrovieri licenziati per aver collaborato a una trasmissione di Report . O come nel caso del licenziamento di Riccardo Antonini, in discussione a gennaio a Lucca, il ferroviere consulente per i familiari delle vittime della strage di Viareggio del giugno 2009. [PA.BAI.] | ANNO 12 N. 105 | DICEMBRE 2012/GENNAIO 2013 | valori | 69 |


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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

I GAS SCELGONO I JEANS ECOLOGICI

MADDALENA ZAMPITELLI

Nel 2009, all’interno dei Gruppi di acquisto solidale (Gas) veneti, emerge una domanda: i tempi sono maturi per andare oltre gli acquisti alimentari? E perché non iniziare proprio da un capo d’abbigliamento, come i jeans, presente in tutti gli armadi? L’esperimento si chiama EcoGeco e a lanciarlo sono Claudia e Giampaolo, che nel settore tessile lavorano da trent’anni. Il tessuto in filo di cotone biologico è realizzato dalla tessitura Berto, in provincia di Padova, ed è tinto (cosa molto rara) con l’indaco vegetale. I capi vengono poi tagliati e cuciti in aziende venete e il trattamento di lavanderia è eseguito solo con acqua e pietra pomice. «I nostri jeans, dal tessuto fino al prodotto finito, percorrono circa 50 chilometri», assicura Claudia. I principali interlocutori del progetto restano i Gas, i primi ad avere una sensibilità ambientale che fa passare in secondo piano il fatto che i capi non appartengano al mondo delle grandi griffe . Ma, specifica Claudia, «un progetto imprenditoriale per andare avanti ha bisogno necessariamente anche di altri soggetti per la commercializzazione. E in Italia facciamo molta fatica a trovarli». www.ecogeco.it

LA SFIDA DELLA COOPERAZIONE PARTE DAL FELTRO

PER NATALE UN REGALO ALL’EMILIA DEL TERREMOTO

UN PREMIO AI RITRATTI DELL’ITALIA FRAGILE

L’idea è di Ninni Fussone, una sociologa appassionata di tessuti. Il bagaglio di esperienze da cui partire è quello della sua associazione AManiLibere, che si occupa del recupero delle arti tessili della tradizione siciliana. Sono questi gli ingredienti da cui a febbraio del 2011 nasce FiloDritto, una cooperativa sociale che lavora soprattutto il feltro per produrre, tra le altre cose, ornamenti per giacche e sciarpe, oggettistica e coppole, in due laboratori: uno all’interno della casa circondariale di Enna e uno all’esterno. «Abbiamo capito presto che il lavoro aiuta – racconta una volontaria, Pierelisa Rizzo – visto che alcune detenute in forte difficoltà sono subito migliorate nei rapporti interpersonali». Ora la cooperativa conta nove soci, tutte donne ad eccezione di Htem, un ragazzo egiziano di poco più di vent’anni. Un percorso non privo di ostacoli: «Viviamo ai margini dell’Italia, dove fare cooperativa è un po’ complicato perché dobbiamo andare avanti da sole, senza appoggi politici». A dare una mano sono altri soggetti del Terzo Settore: dall’associazione Antiracket che quest’anno ha fornito la sede, a Libera che ha commissionato a FiloDritto i cesti di Natale, fino allo Spazio Sumampa e all’associazione Best Up, a Milano, con cui la cooperativa collabora da tempo. www.filodritto.com

A sei mesi di distanza dal terremoto, è l’iniziativa “Natale per l’Emilia” a riaccendere i riflettori sul pesante impatto del sisma sulla vita quotidiana nelle zone coinvolte. A promuoverla sono sei soggetti della Bassa modenese legati all’ambito del sociale: le cooperative sociali Oltremare, Bottega del Sole, Vagamondi e Eortè e le associazioni La Festa e Venite alla Festa. Realtà che hanno vissuto il terremoto in prima persona e si sono mobilitate per aiutare i produttori locali con una vendita speciale di ceste natalizie. Si potrà acquistare quindi il cotechino dell’allevatore che ha visto crollare la propria struttura, perdendo cinquanta maiali sotto le macerie; o il vino della cantina che con la scossa ci ha rimesso ventimila bottiglie; o il riso e la farina dell’azienda agricola costretta ad abbattere il vecchio forno che ha più di due secoli di storia. «Il progetto sta andando molto bene», assicura Roberto Zanoli della cooperativa sociale Eortè. «Per giunta siamo riusciti a dare un lavoro temporaneo a quattro persone, di cui una svantaggiata». A sostenere “Natale per l’Emilia” sono anche Banca Etica e Terra Ferma Emilia, il portale web dedicato alle buone pratiche per reagire al terremoto. www.nataleperlemilia.it www.terraferma-emilia.it

Land grabbing può essere tradotto con “a caccia di terra”, o “corsa alla terra”. Un’espressione che può sembrare lontana, ma di anno in anno si fa sempre più attuale e potrebbe diventare molto vicina al nostro vissuto quotidiano. Da questa emergenza nasce il premio fotografico indetto nell’ambito del convegno “Corsa alla terra verso le aree fragili dell’Italia? Alla ricerca di cibo, acqua ed energia nell’era della scarsità”, che si terrà a Rovigo il 16 marzo prossimo. Si può infatti parlare di “corsa alla terra” anche nel nostro Paese, soprattutto nelle sue aree più marginali, dove le spinte all’accaparramento possono avere conseguenze negative ma portare anche esternalità positive: la terra può servire a produrre biomasse da cui ricavare energia, oppure a smaltire rifiuti, o a sviluppare infrastrutture, o ancora può essere riconvertita al biologico. Le opere in concorso dovranno proprio cogliere le sfaccettature di questo fenomeno [nella foto uno scatto di Maddalena Zampitelli, vincitrice dell’edizione 2012]. Per partecipare c’è tempo fino al 3 febbraio. A organizzare l’evento sono Fondazione Culturale Responsabilità Etica, i soci di Banca Popolare Etica della provincia di Rovigo, la provincia di Rovigo, il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste e Agriregionieuropa. E nella giuria ci sarà anche Valori . www.zoes.it/gruppi/aree-fragili areefragili@yahoo.com

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Caro Valori...

I Gas e la finanza etica interessante articolo “Banca Etica e i Gas, non così vicini” (pubblicato sul numero di novembre di Valori, ndr), seppur incentrato sul rapporto tra Banca Etica e i Gas, allarga lo sguardo all’interesse che riscontrano i temi della finanza etica nel mondo del consumo critico e dei Gas, che, naturalmente, non si può esaurire solo sulla realtà di Banca Etica, sicu-

L’

ramente la più grande, ma non l’unica realtà presente. È pur vero, come abbiamo sottolineato più volte nel Tavolo Finanza etica della Rete di Economia Solidale nazionale, che su questi temi c’è ancora troppa timidezza e ritrosia da parte dei gasisti che, ritenendosi “inesperti”, spesso preferiscono delegare al sistema finanziario tradizionale; però è altrettanto vero che, seppur lentamente e forse anche stimolati dai produttori con cui entrano in contatto, sempre più spesso si trovano ad affrontare problemi e richieste che toccano i temi dell’economia “reale” e della finanza. Vorrei quindi riportare alcuni esempi che testimoniano la vicinanza dei gasisti alla finanza etica, che sia però una finanza dal basso, a “km zero”, che li veda non solo partecipi, ma protagonisti. Circa tre anni fa Mag2 ha raccolto l’appello di molti gasisti per il salvataggio di un “loro” caseificio biologico (Tomasoni) e si è attivato in poche settimane un percorso mutualistico e autogestito di raccolta di risparmio dal basso, che ha coinvolto centinaia di famiglie e salvato il produttore. Recentemente si è ripetuta l’esperienza nel Parco Agricolo Sud Milano, promossa dal Desr (distretto rurale di economia solidale) e da Mag2, che

di Patrizio Monticelli (presidente Mag2)

INVESTIMENTI RESPONSABILI ERRATA CORRIGE

Esistono numerosi esempi che dimostrano la vicinanza dei “gasisti” ad una forma partecipativa di finanza etica ormai ne ha fatto un modello replicabile, attivando una quindicina di Gas locali (un centinaio di famiglie), che sono intervenuti, scongiurando la chiusura di un’azienda agricola – la Cascina Lassi, ora gestita da giovani agricoltori – e il rischio che gli speculatori che gestiscono gli impianti di biogas potessero avventarsi. Un altro esempio significativo è l’attenzione dei gasisti in tutta Italia nei confronti di una proposta di assicurazione etica, Eticar, promossa da Caes con il supporto del Tavolo regionale lombardo di Finanza etica, che ha portato all’attenzione dei gasisti, in decine di incontri, i temi e le proposte di un approccio assicurativo alternativo e solidale. 

Sul numero 104 di Valori (novembre 2012), a pag 67, nel breve articolo intitolato “Investimenti responsabili. L’Europa ci crede sempre più”, abbiamo scritto: «Dai 6,9 miliardi di euro del 2005 ai 25,3 del 2009 ai 48 del 2011”. Dal Forum per la Finanza Sostenibile ci segnalano che i dati non sono corretti. Ci scusiamo per l’errore e riportiamo quanto ci hanno scritto: “I dati esatti sono invece: 1.033 miliardi totali nel biennio 2003-2005 (Fonte Studio Eurosif 2006), 5 miliardi totali nel biennio 2007-2009 (Fonte Studio Eurosif 2010), mentre per il biennio 2009-2011 lo Studio Eurosif non indica un numero complessivo ma registra la crescita per ciascuna delle sette strategie individuate (investimenti tematici, selezione best in class, selezione basata su standard, esclusioni, integrazione, engagement e voto su questioni di sostenibilità e investimento d’impatto). La crescente differenziazione e complessità degli approcci registrata dallo Studio è infatti risultata tale da rendere fuorviante il dato aggregato. Per ciascuna delle strategie, lo Studio registra una crescita maggiore rispetto a quella dell’intero mercato del risparmio gestito. Inoltre, per quattro di esse, gli asset under management (AuM) sono aumentati più del 90% nel biennio di riferimento”.

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Inizia il sesto anno di crisi

L’Occidente e lo spettro del baratro fiscale er le economie di quasi tutto il mondo occidentale inizia il sesto anno di una crisi profonda che, a seconda del grado di ottimismo di quei pochi che azzardano ancora previsioni a medio e lungo termine, potrebbe durare altri cinque, dieci o anche vent’anni. Comunque la si voglia leggere, la realtà è che la politica non ha ancora individuato il modo per dirimere

P

dal cuore della City Luca Martino

quei nodi che la crisi finanziaria, sviluppatasi nei mercati dei derivati americani, ha imposto, con il credit crunch prima e con la speculazione dopo, allo sviluppo economico di mezzo Pianeta, in particolar modo all’Europa. In un contesto nel quale le “regole” dei mercati dei capitali (azionari, obbligazionari e monetari) sono sostanzialmente le stesse del secolo scorso, molti economisti e rappresentanti dell’establishment si sono occupati quasi esclusivamente, e per troppo tempo, di ripristinare la fiducia proprio in quei mercati nei quali la crisi si era originata. In Europa la Banca Centrale ha inondato il sistema di liquidità ed escogitato i più strampalati meccanismi di intervento pur di salvare (le banche di) quei Paesi che stavano per far saltare la moneta unica. Negli Stati Uniti sia la Federal reserve che il Tesoro hanno praticato altrettanto artificiose misure di politica fiscale, compresa la perdurante svalutazione competitiva del dollaro. In entrambi i casi, l’idea è stata quella di salvare il salvabile tramite nuovo debito, arrivato oggi, in Europa come negli Stati Uniti, a cifre spaventevoli. Tanto che adesso il vero interrogativo è come ridurre gli attuali livelli di debito divenuti ormai insostenibili, operazione, questa sì, che, anche nella migliore

re il debito pubblico oltre quei limiti che negli Stati Uniti sono fissati per legge costituzionale. Un compromesso di principio con i Repubblicani è stato trovato, ma, in assenza di accordi specifici su come recuperare tutte le risorse necessarie nei prossimi dieci anni per ridurre il deficit federale nella misura preventivata, scatteranno, a partire da gennaio, tagli lineari alla spesa pubblica, che potrebbero riportare gli Usa in recessione. In Europa, con l’approvazione quasi unanime del fiscal compact, gli obiettivi di contenimento del debito e i meccanismi automatici di correzione del deficit sono sostanzialmente gli stessi. Con molte significative differenze, tuttavia, che non fanno ben sperare per le economie europee: dal veto della Gran Bretagna ai contrasti di altri Paesi su molti temi di politica fiscale, dall’artificiosa forza dell’euro al fatto, ancor più ovvio, che in molte aree in Europa la recessione non è mai finita. Ecco perché se l’outlook degli Stati Uniti rimane difficile, peggiore appare quello di numerosi Paesi europei, alle prese, come se non bastasse, con i venti di guerra del vicino Medioriente, tornati a spirare come non accadeva oramai da vent’anni a questa parte. 

Difficili prospettive per gli Usa, peggiori per molti Paesi europei, alle prese con i venti di guerra in Medioriente delle ipotesi, richiederà una se non due generazioni. Senza riforme strutturali non paiono, infatti, esserci ipotesi alternative rispetto ad aumenti di tasse e tagli indiscriminati alla spesa pubblica, che, a loro volta, comporteranno ulteriori contrazioni della crescita e una spirale peggiorativa dei conti pubblici. È il cosiddetto “baratro fiscale”, traduzione letterale di fiscal cliff, un neologismo coniato, guarda caso, da un team di economisti di Goldman Sachs poco più di un anno fa, quando, lanciando la campagna elettorale a favore di Mitt Romney, si incolpava il presidente Obama, contrario all’estensione dei tagli fiscali dell’era Bush e fautore della storica riforma sanitaria, di porta-

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| action! |

L’AZIONE IN VETRINA JP MORGAN CHASE 21 nov 2012:

JPM 40,73

Il rendimento in Borsa di JP Morgan negli ultimi dodici mesi (in marrone, +38,49%) confrontato con l’indice S&P 500 (in arancio, +18%%)

^GSPC 1391,03

50%

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2011

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Set

Ott

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JP Morgan bacchettata sui soldi ai politici l cancro della finanza si ciba di politica. Se ci troviamo in questa situazione è colpa anche delle persone che abbiamo delegato a rappresentarci in parlamento e nei governi. L’ultimo rapporto del Bureau of Investigative Journalism, un’organizzazione non profit londinese formata da giornalisti investigativi, parla chiaro: l’industria finanziaria della Gran Bretagna paga 93 milioni di sterline all’anno (110 milioni di euro) per fare lobbying su parlamentari, ministri, segretari e sottosegretari, foraggiando una gioiosa armata di oltre 800 persone riunite in 129 diverse organizzazioni. Da anni anche gli azionisti attivi statunitensi si occupano di contributi delle grandi imprese (non solo finanziarie) ai gruppi politici. Domini Social Investments, la società che analizziamo questo mese, ha chiesto a JP Morgan, una delle più grandi banche del mondo, di pubblicare un rapporto, aggiornato ogni sei mesi, su tutti i contributi che la banca distribuisce ai politici. JP Morgan ha risposto picche. Ma oltre il 10% degli azionisti si è aggregato a Domini. Una speranza per il futuro. 

I

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L’AZIONISTA DEL MESE

a cura di Mauro Meggiolaro

UN’IMPRESA AL MESE

FONTE: THOMSON REUTERS

20%

Domini Social Investments

www.domini.com

Sede New York - Usa Tipo di società Società di gestione del risparmio che promuove solo fondi di investimento etici. È controllata da Amy Domini, ex broker di Wall Street, diventata pioniere degli investimenti responsabili Asset gestiti Circa 1,5 miliardi di euro L’azione su JP Morgan Il 15 maggio 2012 Domini Social Investments ha presentato una mozione all'assemblea degli azionisti di Morgan Stanley chiedendo all'impresa di pubblicare un rapporto sui contributi (diretti e indiretti) versati a gruppi e movimenti politici. La mozione ha ottenuto il 10,6% dei voti degli azionisti Altre iniziative Domini Social Investments partecipa come azionista responsabile alle assemblee delle società nelle quali investe. Nel 2012 ha presentato mozioni alle assemblee di Cisco Systems (sulla libertà di internet), Kraft e RR Donnelley (sostenibilità nello sfruttamento delle foreste) e AT&T (contributi politici). La mozione presentata all'assemblea di Cisco ha ottenuto il 42,5% dei voti a favore

JP Morgan Chase & Co.

www.jpmorgan.com

Sede New York, Usa Borsa Nyse Rendimento negli ultimi 12 mesi +38,49% Attività JP Morgan Chase & Co. è una società finanziaria con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali. Attualmente serve più di 90 milioni di clienti Azionisti principali Società a capitale diffuso. Vanguard Group (4,35%); Wellington Management (2,84%) Perché interessa agli azionisti responsabili? JP Morgan Chase è stata spesso sotto accusa per le eccessive remunerazioni dei suoi manager, il ruolo di Chase nello scandalo Enron e la speculazione su prodotti finanziari derivati che, nel maggio del 2012, ha portato a perdite che potrebbero arrivare a 9 miliardi di dollari nello scenario peggiore 2011

Ricavi [Miliardi di dollari] Numero dipendenti

110,84 262.882

2011

Utile [Miliardi di dollari]

18,98


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76_IVcover_V105 27/11/12 12.02 Pagina 1


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