Mensile Valori n. 124 2014

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Cooperativa Editoriale Etica

Anno 14 numero 124 dicembre ’14/gennaio ’15

€ 4,00

LE CASSE DELLE BANCHE SONO PIENE DI CREDITI AVARIATI

finanza

ADDIO AUTO DI PROPRIETÀ IL FUTURO È IL CAR SHARING

economia solidale

LA GRAN BRETAGNA SI VEDE FUORI DALL’UNIONE EUROPEA?

internazionale

A porte aperte

9 788899 095024

ISBN 978-88-99095-02-4

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NE/VR. Contiene I.R.

PAOLO ARCIERI PER LA COOPERATIVA SOCIALE L'ARCOLAIO WWW.ARCOLAIO.ORG

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Il lavoro è dignità e responsabilità. Anche per un detenuto. Ormai è dimostrato: un modello di “carcere dei diritti” riduce la recidiva


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valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


editoriale

IL CARCERE DEI DIRITTI di Lucia Castellano

L’AUTORE

LUCIA CASTELLANO

Dal 1991 al 2011 direttore di numerosi istituti penitenziari: Marassi a Genova, poi Eboli (Sa), Secondigliano (Na), Alghero (Ss) e infine Bollate (Mi), dal 2002 al 2011, quando entra nella giunta milanese del sindaco Giuliano Pisapia. Oggi è capogruppo della Lista Civica di opposizione a sostegno di Umberto Ambrosoli in Regione Lombardia. Ha raccontato nel libro “Diritti e Castighi” la vergogna della detenzione in Italia.

D

etenzione non significa “afflittività”, anche se nella cultura collettiva questa concezione è ancora ampiamente diffusa. È superata la concezione di un carcere punitivo, a porte chiuse, con giornate cadenzate da una routine ripetitiva, dal ritmo della porta della cella che si apre e si chiude agli stessi orari, da mansioni umilianti e dequalificanti e dalla totale assenza di autodeterminazione del detenuto. O almeno dovrebbe esserlo: le leggi lo stabiliscono da tempo. In Italia abbiamo una delle normative più avanzate in tal senso, che risale a quarant’anni fa: la 354/75, che pone alla base della vita intramoenia il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità dei detenuti ed elenca i pilastri del trattamento rieducativo in carcere: il lavoro, la scuola, le attività sportive, la religione, le relazioni affettive. Tutti elementi che fanno sì che il detenuto possa vivere una vita simile a quella degli uomini liberi, con la sola differenza che il muro di cinta non si può varcare. L’Europa ha poi ripreso e ampliato il concetto di “carcere dei diritti” con le regole penitenziarie del 2006. In questo scenario di norme cogenti, nazionali e sovranazionali, pressoché inapplicate, si inserisce la Corte europea dei diritti umani (Cedu) che, con la “sentenza pilota” Torregiani, ha condannato il nostro Paese per trattamenti disumani e degradanti, dandoci un anno di tempo per modificare “in toto” l’impostazione del sistema penitenziario, partendo dagli spazi minimi da garantire a ciascun recluso, ma non solo. Non è soltanto la dimensione delle celle (uno dei temi che più è stato sottolineato sui giornali), ma l’intero modello di detenzione a essere “indagato” dalla Cedu. La vera rivoluzione che l’Europa si aspetta da noi sarebbe, dunque, quella di applicare le leggi vigenti. Norme che spesso restano sulla carta. E molte carceri in Italia sono ancora luoghi chiusi,

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rigidi, con un verticismo gerarchico, dove vige una totale restrizione delle libertà dei detenuti. A dimostrazione che le leggi non bastano, bisogna cambiare la cultura. Una recente ricerca, condotta dall’Università di Essex e dall’Einaudi Institute for Economics and Finance (di cui si parla in questo numero di Valori) dimostra che la recidiva si abbatte notevolmente per gli ospiti di un “carcere dei diritti”, dove il potere assoluto e invasivo dell’istituzione totale si ritrae, lasciando posto alla massima libertà possibile e autonomia del singolo (compatibilmente con il muro di cinta). Come ha dichiarato, in diverse sentenze, la Corte Costituzionale, quanta più libertà concedi a un detenuto, tanto più puoi misurare la sua capacità di gestirla. È quello che si tenta di realizzare nel carcere di Bollate (oggetto della suddetta ricerca): applicare un modello basato sulla cittadinanza attiva dei detenuti, che partecipano alle decisioni che riguardano la vita del carcere. Con questo modello il ruolo della polizia penitenziaria si trasforma: diventa assimilabile al poliziotto di quartiere, che garantisce la sicurezza in un luogo dove le persone si muovono liberamente. Sono necessari meno poliziotti, con conseguente riduzione dei costi. All’interno del carcere dei diritti i detenuti possono muoversi senza accompagnamento. E, ovviamente, lavorano. Il lavoro, per avere una funzione reale, deve essere remunerato e qualificante, non afflittivo. Il lavoro forzato e gratuito non ha senso nel percorso di riappropriazione responsabile della libertà. In buona sostanza, dunque, il carcere, per produrre la definitiva libertà dei propri abitanti, come vuole la Costituzione, deve rivoluzionare sé stesso. È questo il messaggio della Corte europea dei diritti umani. Siamo sulla buona strada. ✱ 3


fotoracconto 02/04

Il carcere come luogo di pena, ma le prospettive migliori nascono da una detenzione che ottenga un positivo effetto di cambiamento su chi ha commesso reati, e quindi sulla società. Così il lavoro nelle case di reclusione d’Italia produce beni e servizi, anche di alta qualità, produce ricchezza e professionalità. Dalla pasticceria all’alta sartoria, dalla falegnameria alle tipografie, dal miele all’olio ai formaggi del territorio, il lavoro dei detenuti si trasforma in educazione, riabilitazione, utilità sociale. La pena acquista senso. 4

Negli scatti del fotoracconto di questo numero raccontiamo il lavoro nelle caceri italiane, quello che una parte dei detenuti italiani (purtroppo una minoranza) prestano alle dipendenze di cooperative esterne. Lavoro che qualifica e dà dignità. Nella foto in alto la preparazione dei panettoni da parte dei detenuti del carcere di Padova. Il pezzo forte di questa squadra sono proprio i panettoni (venduti anche a Ferragosto), ma i detenuti del carcere di Padova, con la cooperativa

“I dolci di Giotto”, sfornano molte altre golosità: biscottini di ogni genere, torte, torrone. Si possono comprare on line o in uno dei molti negozi che li distribuiscono (l’elenco sul sito www.idolcidigiotto.it). Ma i detenuti che lavorano per la cooperativa non si occupano solo di pasticceria, ma anche di catering, call center, costruzione di biciclette, digitalizzazione di documenti, produzione di componenti per valigie. ARCHIVIO OFFICINA GIOTTO WWW.OFFICINAGIOTTO.COM

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sommario

dicembre 2014/gennaio 2015 mensile www.valori.it anno 14 numero 124 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 ROC. n° 13562 del 18/03/2006 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente) direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Paolo Arcieri; Archivio Cooperativa Alice; Archivio Carcere di Volterra; Archivio Officina Giotto; Farm Cultural Park; Images Money, Alex Proimos, Sailko (commons.wikimedia.org) distribuzione Press Di - Segrate (Milano)

fotoracconto 01/04 Le “Dolci evasioni”, il nome è tutto un programma. Sono paste di mandorla senza glutine e biologiche realizzate dai detenuti del carcere di Siracusa, con la cooperativa L’Arcolaio. In vendita in molti negozi bio e del commercio equo e solidale. www.arcolaio.org

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numeri della terra economia solidale

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Web e privati mettono le ali al car sharing Arte e design, Favara torna a vivere Ciak, si gira! L’Italia è un set cinematografico Cibo, riforme, energia: l’incerto futuro dello zucchero Chi produce ancora mine anti-uomo e cluster bomb?

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Il sogno inglese di un’unione “à la carte” Il presidente dimezzato Bangladesh. La lunga tessitura

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internazionale

Involucro in Mater-Bi®

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Lettere, contributi, informazioni, promozione, Per informazioni sugli abbonamenti scrivete a abbonamenti@valori.it. I nostri uffici sono aperti dal lunedì al giovedì, dalle 9.00 alle 13.30 Via Napo Torriani, 29 / 20124 Milano tel. 02.67199099 /fax 02.67479116 Euro 38 Euro 48 Euro 28 Euro 48

Un modello di “carcere dei diritti” dove il detenuto è responsabilizzato e il lavoro, qualificante e remunerato, è un elemento chiave del reinserimento porta enormi vantaggi, sociali ed economici. La recidiva precipita

Sofferenze: la parola al mercato Se gli stress test non vedono la tempesta Usa, la diseguaglianza arriva dalla Borsa A Davos c’è spazio per l’iniquità?

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali.

Annuali

8 A porte aperte

global vision finanza etica

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

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global vision

Niente cambia

Finanza fuori controllo di Alberto Berrini

a crisi finanziaria ha indebolito la capacità di governo della politica proprio in ambito economico. E ha trasferito sulle Banche Centrali il compito di attuare le policy per cercare di uscire dalla crisi, investendo tali istituti di un ruolo di supplenza. Gli interventi monetari non convenzionali di “espansione quantitativa” ne sono la prova più evidente. In particolare in questi anni di grave crisi economica, il trend positivo dei mercati finanziari, sempre più scorrelato dall’andamento dell’economia reale, ha svolto un ruolo “quasi di compensazione” socialmente utile. I risultati positivi dei portafogli investiti nei mercati finanziari hanno, infatti, rassicurato in parte i consumatori. Inoltre i mass media non hanno avuto un’ulteriore occasione per enfatizzare la crisi con grida di allarme sull’andamento delle Borse. In definitiva sembra che il compito che si sono date le Banche Centrali consista nel gestire l’umore dei mercati. Se troppo euforico viene in qualche modo ricondotto (ma non troppo) a più miti consigli, se troppo depresso ottiene invece le rassicurazioni necessarie al mantenimento del trend positivo. Ma tutto ciò non può durare. Lo si è visto nelle elezioni americane di midterm che, nel penalizzare Obama, hanno sancito la percezione, più che reale, di una ripresa che premia pochi, lasciando ai molti ben pochi vantaggi. E ora il rischio è che l’“espansione quantitativa” (quantitative

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HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / ALEX PROIMOS FROM SYDNEY, AUSTRALIA

easing) della Fed si incroci con la voglia di de-regolamentazione repubblicana. Come intitolava Il Sole 24 Ore (il 9 novembre scorso) “Wall Street brinda al flop di Obama”. E ciò nonostante sia ormai chiaro che il tanto decantato Dodd-Frank Act (luglio 2010) non solo è arrivato in ritardo, ma è risultato vago ed eccessivamente complesso, al punto da approdare in una normativa di scarso rilievo e concretezza e ancora incompleta nelle sue regolamentazioni applicative. In ogni caso sembra ormai certo che il trend verso regolamentazioni più severe per il settore finanziario ha fatto il suo corso. Da gennaio 2015 si potrà soltanto tornare indietro. Ma, soprattutto, il vero problema è che i mercati finanziari hanno raggiunto una dimensione tale da divenire incontrollabili. Inoltre l’applicazione in essi di tecnologie avanzate li rende ulteriormente vulnerabili. Il mercato obbligazionario valeva 70mila miliardi di dollari nel 2007 e ne vale ora oltre 100mila miliardi. I derivati ammontano a 691mila miliardi. Se si sommano Borse e valute si arriva a cifre impensabili. È evidente che in un mercato di tale dimensione, che non ha alcuna relazione con quello dell’economia reale, le regole non riusciranno mai a controllare tutti i soggetti in campo. Ma, ancora una volta, di questo tema non c’è traccia nel documento finale dell’ultimo G20 (Brisbane, Australia). E qualcuno ricomincia a parlare di rischio sistemico. ✱ 7


DOSSIER

fotoracconto 03/04 La cooperativa Alice lavora da oltre vent’anni con le detenute del carcere di San Vittore, a Milano, e da poco anche con quello di Bollate. Realizzando capi di abbigliamento, con il marchio “Sartoria San Vittore”, accessori di ogni genere con il simpatico brand “Gatti Galeotti”, costumi teatrali e anche toghe per magistrati. www.sartoriasanvittore.com

10 / Meno crimini con il carcere dei diritti 12 / Lavoro che dà dignità 15 / Mappa: detenuti al lavoro 16 / Usa: business is business Se conviene


ARCHIVIO COOPERATIVA ALICE

A PORTE APERTE I dati lo dimostrano: un “carcere dei diritti” dove i detenuti sono autonomi e responsabili, lavorano e studiano, permette di ridurre la recidiva (e i costi per la collettività)

Il lavoro è uno strumento di reinserimento, ma deve essere qualificante e remunerato. Difficile per le imprese produrre in carcere. Serve una nuova mentalità e una diversa organizzazione degli stessi istituti


DOSSIER A PORTE APERTE

Meno crimini con il carcere dei diritti di Elisabetta Tramonto

Un modello carcerario che tratta il detenuto con dignità, lo responsabilizza e gli permette di lavorare e di imparare riduce la recidiva del 10% circa. Lo dimostra una ricerca appena conclusa

O

Momenti di lavoro nel carcere di Bollate con la cooperativa ABC Catering - La sapienza in tavola

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gni “ospite” può entrare e uscire dalla sua “stanza” quando vuole; andare a scuola, in biblioteca, in palestra, a lavorare. Per ogni sezione viene eletto un rappresentante e ognuno è responsabile di una delle attività in comune (dalla palestra alla biblioteca alla scuola) di cui ha personalmente cura. Vengono organizzati gruppi di discussione in cui si prendono insieme le decisioni sulle attività da svolgere. Potrebbe sembrare la descrizione di una scuola, di un condominio in cohousing o addirittura di un villaggio turistico. E invece si tratta di un carcere. Non uno qualunque, è la casa di reclusione di Bollate, appena fuori Milano. Intendiamoci, non è certo una vacanza quella che i detenuti trascorrono nel penitenziario: al posto delle “stanze” ci sono le celle, essere “ospite” non è una scelta, ci sono obblighi, regole e soprattutto un muro di cinta invalicabile. Ma questa particolare struttura è quanto in Italia possa esistere di più vicino alla definizione di reclusione secondo la legge 354 del 1975 (vedi BOX ): una reclusione fatta di dignità e di autodeterminazione, di reinserimento e di diritti. Così viene chiamato questo modello penitenziario: il “carcere dei diritti”. È organizzato in modo da rispettare il detenuto-persona, da favorirne il reinserimento nella società. E ha enormi vantaggi sociali: i detenuti che escono da un carcere di questo tipo sono meno propensi a ripetere il reato commesso. A Bollate la recidiva è del 20%, contro il 70% di media in Italia. Un vantaggio per la società, che vede ridurre la criminalità, ma anche un risparmio per lo Stato, perché le spese penitenziarie si abbassano di molto. Il legame tra il modello di carcerazione e la recidiva è stato dimostrato da una ricerca da poco

conclusa, ma non ancora pubblicata, realizzata dall’Università di Essex e dall’Einaudi Institute for Econmics Finance, avviata a settembre 2012 su impulso de Il Sole 24 Ore e con la collaborazione del ministero della Giustizia. Scopo della ricerca, che si è concentrata proprio sul carcere di Bollate, era misurare gli effetti sulla recidiva degli interventi di riabilitazione in carcere, dal lavoro a tutte le iniziative di responsabilizzazione del detenuto. Risultato: chi sconta la pena in un istituto “aperto” vedrà ridurre la recidiva di circa 10 punti percentuali. Considerando che ogni anno entrano in carcere circa 9mila persone, di cui la maggior parte ha alle spalle una precedente condanna, i 10 punti di recidiva ridotti potrebbero tradursi in 900 detenuti in meno all’anno.

I NUMERI PARLANO DA SOLI «Bollate è un caso a parte, lo sapevamo quando abbiamo iniziato la ricerca», spiega a Valori Daniele Terlizzese, direttore dell’Einaudi Institute for Econmics Finance, uno degli autori della ricerca, insieme a Giovanni Mastrobuoni dell’Università di Essex. «La maggior parte dei detenuti che arriva in questa casa di reclusione è selezionata sulla base del reato commesso e dei precedenti, vengono scelti i “migliori”. Non costituirebbero un campione rappresentativo del detenuto italiano medio. Abbiamo quindi concentrato l’analisi sui carcerati mandati a Bollate da altri istituti (un secondo modo per entrare), non selezionati, e abbiamo confrontato, a parità di pena, l’impatto del tempo trascorso in questo carcere sulla tendenza a ripetere il crimine. È emerso che ogni anno in più trascorso a Bollate, invece che in un altro penitenziario, porta valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


A PORTE APERTE DOSSIER

a un calo della recidiva del 10% circa». E continua: «Dalla ricerca non emergono i meccanismi che portano a una riduzione della recidiva, ma è evidente che il modello detentivo applicato a Bollate provoca effetti enormemente positivi: il non dover restare in cella chiusi a oziare, il lavoro, lo studio, le relazioni umane, essere trattati in modo dignitoso sembrano avere effetti rieducativi molto più marcati di un carcere punitivo». E i benefici per la società sono evidenti. Anche in termini economici. Un detenuto a Bollate costa molto meno: 64 euro al giorno, contro i 130 euro (nel 2013) della media italiana. Merito anche di un diverso modo di intendere la sorveglianza: invece che un controllo a uomo, con in media una guardia per ogni detenuto, in questo carcere, a fronte dei 1.150 detenuti, ci sono solo 430 poliziotti.

UN MODELLO NON IMITATO Il modello Bollate sembra dunque portare notevoli vantaggi. E allora perché le altre carceri non lo imitano? Prendiamo solo l’elemento lavoro: perché così pochi detenuti lavorano? Dei 54.400 carcerati oggi in Italia lavorano in 14.100 (il 25%) di cui solo 2.364 (4%) per cooperative esterne. Abbiamo chiesto qualche spiegazione a Luigi Pagano, oggi funzionario del Dap, per anni direttore del carcere milanese di San Vittore. «Il lavoro è un elemento fondamentale nel trattamento rieducativo del detenuto – spiega Pagano –, il problema è metterlo in pratica nelle carceri italiane, che presentano oggettivi impedimenti. Problemi organizzativi, che rendono difficile per un detenuto svolgere una mansione continuativamente. Problemi di sicurezza: per entrare e uscire da un penitenziario e per movimentare la merce un’impresa deve superare numerosi controlli e ne risulta inevitabilmente rallentata. Problemi architettonici: la struttura edile della maggior parte dei penitenziari in Italia è inadatta a un modello “aperto”. Sono molte le barriere da abbattere nelle carceri italiane per introdurre una politica alla Bollate, soprattutto culturali. Ma stiamo cercando di cambiare la situazione: rivedendo i penitenziari anche da un punto di vista edilizio. Stiamo selezionando le strutture più adatte a mettere in pratica una trasformazione. E anche sul fronte organizzativo, stiamo cercando di introdurre delle modifiche, con maggiori spazi per la vita in comune dei detenuti, per le attività lavorative. Ma deve anche cambiare la concezione di lavoro in carcere, che va considerato uno strumento rieducativo, da un lato, e, dall’altro, bisogna far sì che per un’impresa sia conveniente dare lavoro ai detenuti». ✱ valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

I DETENUTI PRESENTI NELLE CARCERI ITALIANE (PER REGIONE, 2014) E QUANTI LAVORANO (PER L’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA E PER L’ESTERNO) FONTE: DIPARTIMENTO DELL'AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA - UFFICIO PER LO SVILUPPO E LA GESTIONE DEL SISTEMA INFORMATIVO AUTOMATIZZATO STATISTICA E AUTOMAZIONE DI SUPPORTO DIPARTIMENTALE - SEZIONE STATISTICA [NOVEMBRE 2014]

Regione di detenzione

ABRUZZO BASILICATA CALABRIA CAMPANIA EMILIA ROMAGNA FRIULI VENEZIA GIULIA LAZIO LIGURIA LOMBARDIA MARCHE MOLISE PIEMONTE PUGLIA SARDEGNA SICILIA TOSCANA TRENTINO ALTO ADIGE UMBRIA VALLE D'AOSTA VENETO Totale nazionale

Capienza Detenuti Numero Regolamentare Presenti Istituti (*) 8 1.502 1.830 3 470 451 13 2.620 2.467 17 6.082 7.358 12 2.799 2.934 5 484 622 14 5.114 5.671 7 1.174 1.407 19 6.060 7.851 7 822 885 3 274 329 13 3.826 3.600 11 2.377 3.407 12 2.427 1.843 24 5.979 6.048 18 3.340 3.349 2 509 307 4 1.314 1.417 1 180 144 10 1.956 2.508 203 49.309 54.428

FONTE: D.A.P - UFFICIO PER LO SVILUPPO E LA GESTIONE DEL SISTEMA INFORMATIVO AUTOMATIZZATO - SEZIONE STATISTICA [GIUGNO 2014]

Non alle Alle Totale dipendenze dipendenze lavoranti dell’amm. dell’amm. 630 582 48 109 4 113 518 34 552 1.424 1.207 217 627 106 733 104 20 124 1.316 218 1.534 215 56 271 1.605 607 2.212 237 208 29 102 92 10 1.037 882 155 840 733 107 670 622 48 1.221 1.098 123 1.139 985 154 112 98 14 333 309 24 44 36 8 771 389 382 14.099 11.735 2.364

(*) I posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni, più favorevole rispetto ai 7 mq + 4 stabiliti dal CPT. Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato.

Una legge rivoluzionaria. Se solo fosse applicata

Alcuni estratti della legge 26 luglio 1975, n. 354: “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

Art. 1. Trattamento e rieducazione “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. Art. 12. Attrezzature per attività di lavoro di istruzione e di ricreazione “Negli istituti penitenziari, secondo le esigenze del trattamento, sono approntate attrezzature per lo svolgimento di attività lavorative, di istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di ogni altra attività in comune. Gli istituti devono inoltre essere forniti di una biblioteca costituita da libri e periodici [...]. Alla gestione del servizio di biblioteca partecipano rappresentanti dei detenuti e degli internati”. Art. 15. Elementi del trattamento “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro”.

Art. 20. Lavoro “Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private e possono essere istituiti corsi di formazione professionale organizzati e svolti da aziende pubbliche, o anche da aziende private convenzionate con la regione. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato”. “L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”. Art. 27. Attività culturali, ricreative e sportive Negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo.

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DOSSIER A PORTE APERTE

Lavoro che dà dignità di Elisabetta Tramonto

Per un detenuto lavorare significa dignità e normalità. Impara un mestiere, ma anche a rispettare delle scadenze, una vera educazione al lavoro. Per le imprese però le difficoltà sono molte

«I

l lavoro è il pilastro del trattamento e del recupero di un detenuto in carcere», sostiene Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, la cooperativa che lavora con i detenuti del penitenziario di Padova. «Il carcere annienta la personalità e la dignità umana. Il lavoro restituisce visibilità a chi altrimenti sarebbe trasparente e recluso venti ore in una cella. L’impatto sociale di queste esperienze è altissimo e ancora non misurato. Le detenute imparano un ritmo di lavoro e apprendono il gusto estetico, che può

FATTI IN CARCERE Un brand per il tessile made in carcere Un vero e proprio marchio che certifica la qualità e l’eticità dei prodotti, in particolare quelli tessili, realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni penitenziari italiani. Al momento sono 14 le carceri coinvolte: Milano (San Vittore e Bollate), Genova, Torino, Como, Vigevano, Monza, Brescia, Venezia, Roma (Rebibbia), Lecce, Trani, Catania e Palermo. A gestire il brand una vera e propria agenzia dedicata, che ne cura le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato. www.progettosigillo.it

essere loro utile una volta tornate alla vita reale», aggiunge Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, cooperativa sociale che lavora con le detenute a Lecce e Trani. «Il lavoro permette al detenuto di guadagnare qualcosa per autosostenersi durante la detenzione e qualcosa da mandare a casa. Il lavoro che i detenuti possono svolgere all’interno del carcere dà loro consapevolezza delle proprie potenzialità, e dei propri limiti. Un bagaglio prezioso che potranno far fruttare anche una volta usciti». I pareri sull’utilità del lavoro in carcere da

Nuova vita per i tessuti e per le detenute C’è una donna tenace e vulcanica dietro l’esperienza di Made in Carcere che coinvolge 20 detenute nell’istituto Borgo San Nicola di Lecce: Luciana Delle Donne, per vent’anni manager di banca, ha deciso di cambiar vita, «volevo dimostrare che si può fare qualcosa di buono anche in contesti difficili». Dal 2007 ha lanciato l’idea di dare una seconda chance a donne e tessuti. Le prime possono imparare un mestiere e costruirsi un percorso di riavvicinamento al mondo reale. Ai secondi dona una nuova vita, sottoforma di borse, vestiti e accessori. Centomila i prodotti venduti finora. Dalla Puglia fino a Milano, Sofia, Stoccarda, Londra e New York. Da due anni Made in Carcere ha contribuito a creare un marchio del tessile prodotto dalle detenute di 14 penitenziari in tutta Italia: il progetto Sigillo. CARCERI DI LECCE E TRANI Cooperativa Officina Creativa

Non si butta via niente Se i carcerati vestono i magistrati «Realizziamo toghe per magistrati in fresca lana e arricciatura a nido d’ape sullo schienale, guarnizioni in raso e pettorine in cotone con o senza pizzo , complete di cordoniere». È questa la descrizione che si legge su un annuncio della Cooperativa Alice e, può sembrare un paradosso, ma a cucire le toghe per i magistrati sono le detenute del carcere di San Vittore. La Cooperativa Alice lavora con le donne dell’istituto milanese da oltre vent’anni. E ora anche con il carcere di Bollate. Realizza abbigliamento con il marchio “Sartoria San Vittore” e accessori di ogni genere con il simpatico brand “Gatti Galeotti”. www.sartoriasanvittore.com MILANO, SAN VITTORE E BOLLATE / Cooperativa Alice 12

Dai teloni pubblicitari nascono le “Malefatte”, borse colorate e originali, in pvc riciclato. A realizzarle i detenuti del carcere maschile di Santa Maria maggiore, a Venezia, con la cooperativa Rio Terà dei pensieri. Le “colleghe” del carcere della Giudecca, invece, creano prodotti di bellezza (anche bio): shampoo, bagno schiuma, creme viso e corpo. Si possono acquistare on line o in diversi negozi bio o del commercio equo elencati sul sito www.rioteradeipensieri.org VENEZIA / Cooperativa Rio Terà dei pensieri valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


A PORTE APERTE DOSSIER

parte di chi con i detenuti lavora ogni giorno sono unanimi. Quest’ultima era Luisa Della Morte, fondatrice della storica cooperativa Alice, che da oltre vent’anni fa cucire le detenute di San Vittore. Ma c’è lavoro e lavoro in carcere. E non tutti hanno lo stesso “potere rieducativo”.

I LAVORI NON SONO TUTTI UGUALI «In un carcere si possono svolgere lavori “domestici”, ossia funzionali alla sopravvivenza dell’istituto (pulizia, spesa, piccole manutenzioni) o alle dipendenze di aziende o cooperative esterne», spiega Lucia Castellano, direttrice per nove anni della casa di reclusione di Bollate. E continua: «Il lavoro domestico, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, così com’è organizzato, è mortificante e poco dignitoso: si sentono ancora termini come “scopino”, che indica l’addetto alle pulizie, “spesino”, per chi fa la spesa per i compagni. Nomi assurdi e umilianti, per mansioni svilenti e squalificanti. Sarebbe interessante esternalizzare queste attività, affidandole a cooperative che, assumendo i detenuti, insegnino loro a svolgere il lavoro di addetto alle pulizie, cuoco o addetto alla lavanderia in modo professionale e spendibile all’esterno, una volta liberi. Il lavoro alle dipendenze di aziende esterne, profit e non, cooperative e non, è sicuramente un veicolo migliore per il reinserimento sociale dei detenuti». Ma per un’impresa lavorare in un carcere non è affatto facile.

UNA CORSA A OSTACOLI «Delle giuste misure di sicurezza delle carceri spesso vengono amplificate e diventano ostacoli insormontabili per le imprese», racconta Alessandra Naldi, Garante dei detenuti di Milano. «Penso a una cooperativa, oggi fallita, che produceva pane nel carcere di Opera. Le regole penitenziarie vietano le comunicazioni con l’esterno, ma per lavorare avevano bisogno di ricevere gli ordini. Un fax attivo solo per la ricezione sarebbe stato perfetto, ma non c’è stato niente da fare, la richiesta è rimasta bloccata e addio ordini».«Un camion carico di merce può restare ore fuori dall’istituto, per attendere i controlli di sicurezza. Un detenuto che ha ricevuto formazione con una cooperativa sociale può essere improvvisamente spostato in un altro penitenziario», aggiunge Luisa Della Morte. «Per permettere che il diritto al lavoro venga esercitato – propone Lucia Castellano – il carcere deve modificare i propri tempi e la propria burocrazia: bisogna diventare veloci come un’azienda, altrimenti gli imprenditori perdono la convenienza a investire in carcere. La burocrazia elefantiaca del carcere deve lasciare il posto alla velocità dell’azienda. È uno dei passaggi più difficili». E non basta: «I detenuti nella maggior parte dei casi non hanno un’educazione al lavoro – spiega Alessandra Naldi – e il carcere li abitua all’ozio, a chiedere tutto, mentre il lavoro prevede autonomia. È necessaria un’opera di educazione al lavoro: in carcere i detenuti imparano un mestiere,

Una pausa caffè con i detenuti piemontesi

Il vino dal sapore di libertà

Il Barbera “corrode” le sbarre

Caffè e birra, ma anche cioccolato e da poco il pane. A produrre queste delizie sono i detenuti piemontesi delle carceri di Torino, Saluzzo e Alessandria. A guidarli la cooperativa Pausa Café. Il caffè viene acquistato direttamente dai produttori in Guatemala, poi lavorato dai detenuti di Torino, che realizzano anche tavolette di cioccolato e chicchi di caffè ricoperti. La birra invece è opera dei carcerati di Saluzzo. Si può comprare tutto sul sito internet di Pausa Café, in alcuni punti vendita Coop del nord Italia, da Eataly e in diverse botteghe del commercio equo. Nel carcere di Alessandria invece da poco si sforna il pane. Si acquista nel negozio del carcere aperto al pubblico e in molte Coop piemontesi. www.pausacafe.org TORINO / Cooperativa Pausa caffè

Abbattere il tasso di recidivi dall’80% al 20% aprendo le celle e facendo lavorare i detenuti in vigna. Il miracolo avviene sull’Isola di Gorgona, dove sorge un carcere considerato un modello nonostante i problemi agli impianti idrici, fognari e di riscaldamento: 70 detenuti che hanno già scontato almeno la metà della pena, celle singole e doppie (raramente triple). E soprattutto un progetto per produrre un cuvée bianco da uve Vermentino e Ansonica coltivate biologicamente. Circa tremila bottiglie quelle prodotte nell’ultima vendemmia, ottenute con la collaborazione degli enologi della storica cantina Marchesi de’ Frescobaldi, commercializzate nelle enoteche di tutta Italia. Accanto alla vigna anche un caseificio. A dimostrazione del potere educativo della terra, delle piante e degli animali. ISOLA DI GORGONA (LIVORNO)

Saranno senza dubbio invidiati dalla quasi totalità della popolazione carceraria italiana i 15 detenuti attualmente coinvolti nel progetto Valelapena. Avviato nel 2006 nella Casa circondariale di Alba, ha permesso di impiantare un vigneto di uve Barbera nell’orto del penitenziario. Ai reclusi viene consentito di curare le viti e l’uva (1400 bottiglie le bottiglie prodotte ogni anno nelle cantine dell’Istituto Enologico Albese e vendute a 5 euro ciascuna). Ma non solo: grazie alla collaborazione con la onlus Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, ottengono anche la qualifica professionale di operatore agricolo. Una formazione senz’altro utile vista la vocazione vinicola dei territori delle Langhe e del Roero. ALBA (CUNEO)

Un sorso di birra “a piede libero” La birra contenuta nelle bottiglie che usciranno dal birrificio creato all’interno dell’Istituto tecnico agrario Emilio Sereni di Roma avrà un gusto particolare: non solo per il farro biologico coltivato negli orti della scuola che la aromatizzerà insieme a orzo, arance amare e cannella. Ma anche per il progetto che c’è dietro: nella microimpresa, realizzata grazie a 240mila euro erogati dai ministeri di Giustizia, Istruzione e dalla Provincia di Roma, lavorano da settembre nove detenuti del carcere romano di Rebibbia. Ogni giorno si uniscono agli studenti per imparare il mestiere di tecnico birraio e per gustare insieme il valore dell’educazione e della legalità. Simbolico il nome scelto per la birra: “A piede libero”. ROMA, REBIBBIA / Microbirrificio Semi (di) libertà valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

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DOSSIER A PORTE APERTE

ma anche a rispettare i tempi e le commesse». Qualche vantaggio però esiste per le imprese che scelgono di lavorare in carcere: oltre all’uso gratuito degli spazi del carcere per istallare l’attività produttiva, c’è la cosiddetta legge Smuraglia (la 193/2000, attuata nel 2001), che contiene agevolazioni fiscali per chi assume detenuti. Un aiuto notevole, peccato che dipenda dai fondi pubblici che vengono stanziati di anno in anno e che quindi non dia garanzie di continuità alle imprese. «Al di là dei benefici fiscali, riceviamo dei contributi regionali per la formazione dei detenuti (non tutte le regioni li prevedono, ndr) – aggiunge Luisa Della Morte – ma, una volta che iniziano a lavorare, vengono contrattualizzati e il loro stipendio dipende esclusivamente dalla vendita dei prodotti».

GRATUITO O REMUNERATO Ultimamente si è spesso parlato di lavoro “utile” per i carcerati, gratuito e volontario, per il recupero di monumenti danneggiati, il ripristino degli argini, interventi di soccorso in caso di calamità naturali e attività simili (è stato l’oggetto anche di una recente puntata di Report). Si dice: è utile per la comunità e per i carcerati, che danno un senso e un’utilità alla loro giornata, invece di stare tutto il giorno a oziare e ad annullarsi in cella. «Di per sé è giusto – spiega Nicola Boscoletto – ma il lavoro di pubblica utilità non deve essere confuso con il lavoro vero, come strumento di reinserimento, come lo intende la legge 354/75. Al detenuto deve essere dato un lavoro remunerato, poi nel suo tempo libero può fare volontariato da esercitare in servizi di pubblica utilità. Ma solo il lavoro remunerato è quel tassello del percorso di recupero che evita che il carcerato reiteri il reato». ✱

VENETO Padova OFFICINA GIOTTO

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Coltivare il futuro

Quando un brand ti fa sorridere

La parola d’ordine per il lavoro in carcere in Sardegna è fare rete. Un approccio raro in Italia, tanto più che a farlo è direttamente l’amministrazione penitenziaria, senza coop intermediarie. Nelle tre colonie penali dell’isola (Is Arenas, Isli e Mammone) da un paio d’anni è attivo il progetto Galeghiotto: 250 detenuti coinvolti (il 100% di quelli attualmente “ospiti” dei centri di detenzione, tutti con meno di quattro anni di pena ancora da scontare). Molti i lavori, nei diversi settori agricoli: coltivazione di ortaggi (in conversione biologica), apicoltura, allevamento e lavorazione carni. I prodotti vengono poi venduti all’esterno per un fatturato di 2,5 milioni nell’ultimo biennio (cifra che abbatte sensibilmente i 5 milioni investiti dalla Cassa delle Ammende). E grazie a un accordo con aziende turistiche locali alcuni detenuti vengono inseriti nei villaggi vacanze locali. COLONIE PENALI DI IS ARENAS, ISLI E MAMMONE

Baci di dama, polentine, lingue di gatto e dolcetti per tutti i gusti. I pasticceri della Banda Biscotti sono dietro le sbarre, nel carcere di Verbania e di Saluzzo, in Piemonte. Lavorano per la Fondazione Casa di carità arti e mestieri. Le graziose confezioni si possono acquistare nei punti vendita Eataly, nelle Coop del Nord Italia e in molte botteghe del commercio equo. La stessa Fondazione ha creato anche il marchio “La gang del truciolo”, per i detenuti del carcere di Saluzzo che producono mobili su misura, di solito con pallet riciclato. Ma anche il marchio “Ferro e fuoco”, per manufatti in ferro nel carcere di Fossano (Cuneo). www.bandabiscotti.it - lagangdeltruciolo.it www.ferroandfuocojaildesign.it VERBANIA, SALUZZO, FOSSANO Fondazione Casa di carità arti e mestieri

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DETENUTI AL LAVORO

Milano / Casa di reclusione di Bollate SAN GIORGIO E IL DRAGO

LAVORAZIONE DEL CUOIO

www.sangiorgioeildrago.it

Milano / Casa di reclusione di Bollate WSC - WORLD STARTEL COMUNICATIONS

RIPARAZIONE CELLULARI E CALL CENTER

LAZIO Roma / Rebibbia MADE IN JAIL

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www.madeinjail.com Roma / Rebibbia ORA D’ARIA

BORSE CON MATERIALE DI RECUPERO

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valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


A PORTE APERTE DOSSIER Produzioni artigianali/manifattura

PIEMONTE

Servizi

CAFFÈ (A TORINO) E BIRRA (A SALUZZO)

Torino (e Saluzzo e Alessandria) COOPERATIVA PAUSA CAFÉ

Alimentari/pasticceria

www.pausacafe.org

Torino / Lorusso - Cutugno COOPERATIVA SOCIALE UNO DI DUE

SARTORIA E AGRICOLTURA BIOLOGICA

www.unodidue.it

Saluzzo LA GANG DEL TRUCIOLO

MOBILI SU MISURA

lagangdeltruciolo.it

Verbania BANDA BISCOTTI

BISCOTTI E PASTICCERIA

www.bandabiscotti.it

Torino / Casa Circondariale Lorusso e Cutugno - Le Vallette LA CASA DI PINOCCHIO

Milano / Opera GLOBAL SERVICE PROVIDER (GSP SRL)

BORSE INTRECCIATE IN PURA LANA O IN PELLE, POCHETTE, ZAINI E TRACOLLE

www.lacasadipinocchio.net

DIGITALIZZAZIONE DOCUMENTI CARTACEI

www.gsp01.com

Vercelli / Casa Circondariale di Vercelli COOPERATIVA SOCIALE CODICE A SBARRE

Milano / Opera COOPERATIVA IL GIORNO DOPO

GREMBIULI E TOVAGLIE, FELPE E MAGLIETTE STAMPATE

www.codiceasbarre.it

PANIFICAZIONE PER IL CARCERE E PER SOCIETÀ ESTERNE COME MILANO RISTORAZIONE E DISASSEMBLAGGIO E SMALTIMENTO DI RIFIUTI TECNOLOGICI

Milano / Opera CONSORZIO CASCINA NIBAI

UOVA DI QUAGLIA (MARCHIO “FATTORIA DI AL CAPPONE”), VENDUTE ALLA COOP LOMBARDIA, AUCHAN E EATALY

www.nibai.it

Milano / Opera COOPERATIVA OPERA IN FIORE

MENTA E PICCOLI FRUTTI. PRODUZIONE DI VIOLINI

www.operainfiore.net

Busto Arsizio (Va) Casa Circondariale di Busto Arsizio DOLCI LIBERTÀ

TOSCANA Firenze / Casa Circondariale di Sollicciano ASSOCIAZIONE PANTAGRUEL ONLUS

BAMBOLE IN MATERIALI NATURALI

CIOCCOLATO, CREME, PANETTONI

www.lapoesiadellebambole.it www.asspantagruel.org

Como / Casa Circondariale di Como COOPERATIVA SOCIALE “HOMO FABER”

PROGETTAZIONE GRAFICA E STAMPA

CAMPANIA

Como / Casa Circondariale di Como COOPERATIVA SOCIALE IMPRONTE DI LIBERTÀ

CAFFÈ

www.dolciliberta.com

www.homofaber.org

TESSILE

Napoli / Casa Circondariale di Pozzuoli COOPERATIVA LE LAZZARELLE

caffelazzarelle.jimdo.com

www.improntediliberta.com

Cremona / Casa circondariale di Cremona COOPERATIVA “CREMONA LABOR”

PRODUZIONE DI MIELE, FALEGNAMERIA E DIGITALIZZAZIONE DEGLI ATTI DI PROCESSI PER CONTO DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA

PUGLIA Lecce (e Trani) COOPERATIVA SOCIALE OFFICINA CREATIVA

PRODUZIONE TESSILE CON IL MARCHIO MADE IN CARCERE

www.madeincarcere.it

Gravina (Ba) / Casa Circondariale di Trani COOPERATIVA CAMPO DEI MIRACOLI

PREPARAZIONE E CONFEZIONAMENTO PASTA E PRODOTTI DA FORNO

valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

SICILIA Siracusa COOPERATIVA L’ARCOLAIO

PASTE DI MANDORLE (LE DOLCI EVASIONI)

www.arcolaio.org

Enna / Casa Circondariale di Enna COOPERATIVA FILO DRITTO

MANUFATTI TESSILI E SOPRATTUTTO IN FELTRO

www.filodritto.com

ABRUZZO

SARTORIA DA MATERIALI DI RECUPERO

MANDORLE TOSTATE

Palermo / Casa Circondariale di Palermo - Pagliarelli ALREVÉS

www.coopalreves.it

Pescara / Casa Circondariale di Pescara COOP. “LE TRADIZIONI” ARTIGIANATO D’ABRUZZO

www.ildesertofiorira.com

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DOSSIER A PORTE APERTE

Usa, business is business Se conviene di Corrado Fontana

 ONLINE European Prison Observatory www.prisonobservatory.org Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” www.osservatorioantigone.it UNICOR - www.unicor.gov GEO Group - www.geogroup.com Corrections Corporation of America www.cca.com Global Research www.globalresearch.ca

Tra accuse di schiavitù e crisi di una promettente “industria carceraria”, negli Usa il dibattito sul lavoro dei detenuti è vivo. In parte subappaltato alle commesse per la difesa, coinvolge varie multinazionali

N

egli Stati Uniti c’è una vera industria penitenziaria, un’industria privata che prolifera in un Paese col tasso di incarcerazione più alto del mondo (quasi una persona ogni 100 è in prigione), dove il numero dei detenuti è passato da 300mila a 2,3 milioni in 40 anni, nonostante i reati siano in drastico calo («Il tasso di omicidi per i giovani americani è ai minimi da 30 anni», scriveva The Economist a luglio scorso). Secondo la giornalista peruviana Vicky Pelàez, mentre «dieci anni fa c’erano solo cinque prigioni private del Paese, con una popolazione di duemila detenuti, ora ce ne sono 100, con 62mila carcerati». UNICOR, uno dei principali contractors del

governo americano (di sua proprietà), dedito alla gestione di vere fabbriche collocate in decine di carceri, gestisce 110 stabilimenti in 79 penitenziari federali, dove si produce di tutto: per 23 centesimi di dollaro l’ora (!) si realizza gran parte dell’equipaggiamento militare, ma anche mobili, componenti elettriche ed elettroniche, biancheria. Il conflitto d’interessi tra vocazione punitiva e business, da una parte, e funzioni educativa e riabilitativa della carcerazione – poco praticate dall’origine nel sistema penitenziario Usa – è palese.

DIRITTI O PROFITTI? L’accusa è che si tratti di nuova schiavitù al servizio

PAESE CHE VAI, CARCERE CHE TROVI di Corrado Fontana

In Europa i detenuti lavorano poco, con regole diverse da un Paese all’altro. Mansioni dequalificate, tutele ridotte Una situazione diversa da Paese a Paese, in comune l’offerta di occupazioni non qualificate e ripetitive. È lo scenario del lavoro per i detenuti nelle carceri europee rilevato dallo European Prison Observatory (EPO), progetto finanziato dalla Ue, realizzato da enti universitari e Ong, coordinato dall’italiana Antigone. Confronta otto Paesi: Uk, Spagna, Francia, Grecia, Portogallo, Lituania, Polonia e Italia. 16

Gran Bretagna Il lavoro nei penitenziari in Uk (il sistema meglio analizzato) vede una stretta collaborazione con le organizzazioni del terzo settore (su Valori di settembre 2014 abbiamo raccontato proprio un progetto pionieristico di finanza d’impatto sociale avviato nel carcere di Peterborough, in Uk), ma sarebbe crescente anche il numero di aziende private che stanno facendo affari dietro le sbarre. Tanto da comportare per alcune l’accusa di ridurre la propria forza lavoro in favore delle commesse offerte in outsourcing ai detenuti, approfittando di retribuzioni all’osso (perlopiù sotto i 2,5 euro l’ora, ma in Scozia c’è un sistema diverso con base settimanale e piccoli bonus) e

ampia disponibilità agli straordinari (fino ad offrire 60 ore di lavoro a settimana). Spagna Anche qui l’uniformità non è di casa, con regole distinte tra Spagna e Catalogna. In quest’ultima nel 2012 ogni giorno lavorativo dei carcerati era pagato quasi 11 euro, le imprese esterne fornitrici vengono “ospitate” in spazi interni al penitenziario, il Dipartimento di Giustizia fornisce la manodopera e le aziende si accollano macchinari e materie prime. In Spagna invece è un’agenzia pubblica, l’Autonomous Organism Prison Work and Training for Employment, a gestire direttamente sia l’occupazione che la formazione professionale, finanziata anche dal Fondo sociale europeo (nel 2011 con 917 corsi per 15.589 detenuti in patria e 88 corsi per 1.300 detenuti all’estero). valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


A PORTE APERTE DOSSIER

del capitalismo. Non sono di questa idea, ovviamente, UNICOR, CCA (Corrections Corporation of America) e GEO Group. Tra le principali compagnie protagoniste dell’“industria carceraria”, che realizza e gestisce molte prigioni, sempre per conto del governo federale. Secondo chi cerca di spegnere le proteste il fenomeno non sarebbe esteso né acuto: l’autorizzazione alle imprese private per operare nelle prigioni sottostà al programma di certificazione Prison Industries Enhancement, che nel 2012 registrava “solo” 4.675 detenuti al lavoro, per una produzione finalizzata in maggioranza alla domanda dei dipartimenti governativi, come la Difesa e la Sicurezza. Inoltre, sostengono, i detenuti impiegati sarebbero individui “scartati” anche nel mondo del lavoro fuori di prigione, estremamente dequalificati. Insomma, il problema resta.

TROPPI COSTI Ma la polemica sull’asse diritti/profitti potrebbe venire sorpassata da quella sui costi: l’amministrazione Obama si è accorta che mantenere così tanti detenuti (e l’industria carceraria privata) costa troppo, che il tasso di recidiva è eccessivo (tre quarti dei prigionieri liberati vengono nuovamente arrestati entro cinque anni) e, soprattutto, che puntare sulla riabilitazione potrebbe far risparmiare molto: uno studio del 2013 del think tank Rand Corp, citato dal Wall Street Journal, sostiene che, spendendo tra 140 e 174mila dollari in programmi educativi per 100 detenuti, si avrebbe un risparmio enorme derivante dalla mancata reincarcerazione, fino a 1 milione di dollari in tre anni. Sposare queFrancia In Francia il tasso di occupazione della popolazione carceraria è passato dal 37% del 2000 al 28% del 2011, riguardando perciò circa 18 mila prigionieri, di cui quasi metà lavora nei servizi necessari al carcere (gestiti direttamente o in appalto), e le retribuzioni variano a seconda che si venga occupati dall’amministrazione penitenziaria o nella produzione per altri soggetti (generalmente a cottimo, intorno all’euro per ora). Lituania, Grecia, Polonia e Portogallo In Lituania i condannati possono essere impiegati con o senza retribuzione, sono tuttavia piuttosto pochi e la remunerazione può variare in base al tipo di prigione in cui si trovano. In Grecia il lavoro può valere sconti di pena; mentre in Polonia, dove “i prigionieri valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

La multinazionale dietro le sbarre

Tra i protagonisti del dibattito sul presunto sfruttamento dei carcerati americani da parte delle compagnie multinazionali ci sono il quotidiano Huffington Post e i siti Internet Counter Punch e Global Research. Le testate hanno indicato in alcuni articoli molte società committenti, tra cui: Chevron, Bank of America, AT&T, Starbucks, Wal-Mart Motorola, Compaq, Honeywell, Microsoft, Revlon, Chevron, TWA, Victoria ‘s Secret, Pierre Cardin, Eddie Bauer. E poi IBM, Texas Instruments e Dell, per cui i prigionieri avrebbero realizzato circuiti stampati, o Kmart e JCPenney per cui avrebbero cucito jeans. Senza contare l’equipaggiamento militare, le componenti per aerei ed elicotteri da guerra di Lockheed Martin, Raytheon Corporation, McDonnell Douglas, Boeing, General Dynamics, Bell o Textron.

QUESTIONE DI COSTI (E DI OPPORTUNITÀ POLITICA)

«La materia è sensibile, perché il lavoro in carcere è sempre meno (per la crisi economica), eppure è necessario per combattere traffici illegali all’interno dei penitenziari e per la sicurezza (le rivolte aumentano se i detenuti sono disoccupati)». Così sintetizza la situazione un ricercatore dedito a un ampio lavoro sul sistema carcerario europeo, che non gradisce essere menzionato finché lo studio non sia pubblicato. «La società vede male il lavoro dei detenuti, soprattutto in periodo di disoccupazione, perché sono pagati meno e fanno una concorrenza sleale. I detenuti vorrebbero essere pagati di più, ma non sono molto produttivi (giornate interrotte, uso di psicofarmaci, allungamento dei tempi di produzione e consegna dovuto a ragioni di sicurezza) e anche con un lavoro pagato poco è difficile trovare imprese che vogliano fornirlo. Le associazioni cercano di far riconoscere più diritti ai detenuti, ma il rischio di fronte all’aumento dei salari è che le amministrazioni li facciano lavorare meno e solo quelli più produttivi. Difficile trovare dati economici. Le imprese non sono molto chiare sui guadagni. Ma se fosse così vantaggioso, dovrebbero fare la fila per avere dei detenuti (cosa che non accade, ndr)».

sta prospettiva sarebbe un profondo cambiamento per l’intero sistema carcerario Usa e si aprirebbe un mercato su cui l’imprenditoria penitenziaria privata non si farebbe trovare impreparata. ✱

possono essere noleggiati a pagamento” da imprenditori esterni, le occasioni di occupazione hanno riguardato circa il 30% dei detenuti nel 2012; in Portogallo si registra come il lavoro venga impiegato anche in funzione punitiva (espressamente condannato dalla Ue). In alcuni casi considerati dal rapporto EPO si specifica che la retribuzione subisce un prelievo alla fonte per sostenere il sistema carcerario o per pagare precedenti sanzioni. Tutele variabili Anche sul piano della sicurezza e della salute dei lavoratori in prigione vige la regola europea dell’“ordine sparso”. In Inghilterra, dove i detenuti classificati a basso rischio possono essere autorizzati a essere occupati nella comunità, quelli impiegati nei laboratori del carcere operano in locali esentati

dalle disposizioni della legge che si applica alle fabbriche (Factories Act): se feriti devono fare affidamento su una causa civile per negligenza. Ma è fatto obbligo alla prigione di consentire l’ingresso degli ispettori dell’Health and Safety Executive, cioè l’agenzia pubblica che sovrintende alle tutele sui luoghi di lavoro. La Francia non applica ai prigionieri le garanzie imposte dalle leggi sul lavoro, e perciò, ad esempio, non vi è alcuna regolamentazione degli orari; né i detenuti contribuiscono all’assicurazione contro la disoccupazione, e così non beneficiano di indennizzo in caso di licenziamento, cassa integrazione, malattia o infortunio (tranne nel caso in cui subiscano una disabilità permanente). In Spagna, infine, non esiste una legislazione specifica sul lavoro carcerario in tema di salute e sicurezza. 17



FINANZA ETICA

http://commons.wikimedia.org / sailko

SOFFERENZE: LA PAROLA AL MERCATO

D

di Matteo Cavallito* * Ha collaborato Emanuele Isonio

In Italia i crediti bancari deteriorati valgono 174 miliardi. Un peso per gli istituti, ma anche un’opportunità per gli operatori finanziari valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

alle condanne in primo grado degli ex uomini chiave – Mussari, Vigni e Baldassarri – alle ipotesi di bad bank, già rivelate in esclusiva da Valori. Fino, ovviamente, alla bocciatura dell’esame europeo. Per il Monte dei Paschi sono tempi durissimi. E non potrebbe essere altrimenti. L’allarme certificato dagli stress test (vedi ARTICOLO pag. 22) impone all’istituto di Rocca Salimbeni un aumento di capitale, ma l’operazione, dicono gli insider, dovrebbe slittare al 2015. «Viola (Fabrizio, Ad della banca, ndr) ha anticipato che la trimestrale non sarà positiva e questo impedisce di fare l’aumento entro l’anno», precisa a Valori una fonte vicina alla banca senese. A gravare sul bilancio, in particolare, ci sarebbero alcune operazioni di finanziamento realizzate nei «tradizionali territori della banca», ma anche alcune pesanti eredità storiche, a partire dai crediti deteriorati ereditati dalla controllata Antonveneta «che, a sua volta, aveva incamerato quelli della Banca Nazionale dell’Agricoltura». Una massa di

Siena, palazzo del Monte dei Paschi 19


crediti a rischio, legati più alle maxi operazioni finanziarie piuttosto che ai prestiti alle piccole e medie imprese, che peserebbe soprattutto sulle filiali del Sud. Le stesse, precisano le fonti, a cui «Antonveneta aveva girato i suoi crediti in sofferenza» e che potrebbero costituire a breve la base di partenza della bad bank. Tutto, insomma, sembra ricondurre alla nota madre di tutti i dissesti, lo sciagurato acquisto dell’istituto padovano che nel novembre 2007 era stato “strappato” per 9 miliardi agli spagnoli di Santander che, in consorzio con RBS e Fortis, ne erano entrati in possesso appena un mese prima dagli olandesi di Abn Amro sulla base di una valutazione di 6,6 miliardi. Da allora l’istituto senese ha bruciato in Borsa il 97% del suo valore (vedi GRAFICO ).

I CREDITI NON PERFORMANTI… Ma quello delle sofferenze, come noto, non è solo un problema di Mps. A giugno 2013, ricorda l’ultima indagine di Mediobanca, i crediti dubbi lordi delle banche italiane incidevano sui crediti totali per il 14,5%, contro il 5,7% registrato in Spagna e il 3,8% rilevato in Germania. Ad agosto 2014, segnala l’ultima indagine Abi, le sofferenze lorde degli istituti italiani han-

http://commons.wikimedia.org / images money

finanza etica crediti deteriorati

Nelle banche italiane i crediti dubbi sono il 14,5%, in Spagna il 5,7%, in Germania il 3,8%. Per tamponare il problema Madrid crea una bad bank no sfiorato i 174 miliardi di euro segnando un incremento annuo del 22,6% circa (vedi GRAFICO ). L’Italia, a differenza della Spagna (vedi BOX ), non ha perseguito la strategia della bad bank e si trova tuttora costretta a fare i conti con il peso degli

FROB, SAREB Y BANCO MALO: LA VIA SPAGNOLA ALLA RISTRUTTURAZIONE

Si chiama Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria, meglio nota con il suo acronimo Sareb. È la bad bank (o banco malo) spagnola, l’entità finanziaria creata con l’obiettivo di raccogliere e gestire gli asset problematici del sistema bancario locale. La società, creata nel 2012, è partecipata al 45% dal Fondo de reestructuración ordenada bancaria (FROB), un veicolo pubblico gestito dallo Stato, e da un manipolo di investitori privati tra cui, ricorda tra gli altri Il Sole 24 Ore, gli istituti spagnoli “ancora in salute” (Santander, Caixabank, Banco Sabadell e altri) oltre ad alcuni operatori esteri come Deutsche Bank, Barclays e Axa. L’idea è quella di gestire al meglio circa 200 mila asset (che ammonterebbero a oltre 50 miliardi di euro) costituiti da titoli non performanti (crediti immobiliari e non) con l’obiettivo di rivenderli nello spazio di 15 anni, contando su un loro apprezzamento. Gli asset problematici sono stati estratti principalmente dai libri contabili degli istituti in maggiore difficoltà: Bankia, Catalunya Banc, Novagalicia Banco e Banco de Valencia. «Il prezzo di trasferimento delle attività a Sareb – ricordava lo scorso anno un’analisi

20

asset problematici a bilancio. Ma quello che per le banche resta un problema potrebbe trasformarsi presto in una grande opportunità per gli investitori. Lo immaginano, con ogni probabilità, Unicredit e Intesa Sanpaolo che da mesi, in collaborazione con le società estere KKR e A&M (già liquidatore della Lehman Brothers), studiano la costituzione di una nuova compagnia di asset management in cui trasferire crediti in via di ristrutturazione. E ne sono convinti, soprattutto, gli operatori di Algebris, la finanziaria del lanciatissimo Davide Serra, grande sponsor di Matteo Renzi e oggi alfiere della

a cura de Lavoce.info – è determinato dalla Banca di Spagna sulla base di una stima del valore di mercato, a cui poi è applicato uno sconto». Ne deriva un valore finale che ammonterebbe a meno del 40% di quello originario. Le banche che hanno trasferito i crediti in sofferenza acquistano titoli di debito ad hoc emessi dalla stessa Sareb e garantiti dalle casse pubbliche di Madrid. Sareb, rilevano ancora gli analisti de LaVoce, vanterebbe significative prospettive di redditività con un return on equity annuo (Roe, il rapporto percentuale tra il reddito netto e il capitale proprio, in sostanza un indice di redditività) prossimo al 14%.

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


crediti deteriorati finanza etica

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

Attivi di liv. 3 (valore assoluto) [milioni di euro] 20,00

15,00

10,00

5,00 0,00 01-11-07

03-11-08

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01-11-12

01-11-13

31-10-14

LE SOFFERENZE BANCARIE IN ITALIA (OTTOBRE 2010 - AGOSTO 2014) Fonte: associazione Bancaria italiana (www.aBi.it), aBi monthly outlook, ottoBre 2014

180.000 160.000 140.000 120.000 100.000 80.000

Attorno ai crediti deteriorati potrebbe nascere un business: con acquisti e vendite speculative to bene? Non proprio. Perché al di là delle opportunità – rilancio del mercato, profitti e pulizia dei bilanci bancari – restano evidenti alcune incognite. La prima è data dalla lentezza dei procedimenti civili che ostacola l’operazione di repossession («In Italia ci vogliono mediamente dai 6 ai 7 anni per entrare in possesso di un bene posto a garanzia di un prestito, servirebbe una riforma in grado di accorciare i tempi

lug. '14

apr. '14

gen. '14

ott. '13

lug. '13

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[milioni di euro] 60.000

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«La premessa è che si tratta di crediti deteriorati, prestiti che fanno i conti con pagamenti irregolari delle rate e con la svalutazione delle garanzie sottostanti», spiega a Valori un’analista di mercato che ha chiesto di restare anonimo. «L’idea è quella di acquistarli con una certa percentuale di sconto per poi rivenderli a prezzo maggiorato. Come? Attraverso una gestione più attiva che consenta all’acquirente di raggiungere un accordo di ristrutturazione con il debitore entrando più facilmente in possesso della garanzia stessa». A quel punto, va da sé, diventerebbe possibile rivendere il credito ristrutturato o il suo sottostante, spesso costituito da una proprietà immobiliare, spuntando un prezzo superiore a quello di acquisto. Tut-

Fonte: yahoo Finance (https://it.Finance.yahoo.com/), novemBre 2014

25,00

gen. '11

… E LE OPPORTUNITÀ DI GUADAGNO

IL TITOLO MPS IN BORSA (NOVEMBRE 2007 - NOVEMBRE 2014)

ott. '10

“rottamazione” di una certa vecchia finanza. Nelle scorse settimane, il finanziere ha annunciato l’imminente avvio delle operazioni di Algebris NPL Fund 1, veicolo d’investimento gestito dalla Algebris SPV Srl, una società che opererà nel campo della cartolarizzazione. Il fondo punta a raccogliere finanziamenti per 400 milioni di euro da investire proprio nei non performing loans (NPL), i crediti problematici. Un business in crescita, tanto per l’espansione dell’ammontare complessivo dei prestiti in sofferenza (i famosi 174 miliardi già rilevati dall’Abi, il 40% dei quali, secondo Algebris, maturati nel settore immobiliare) quanto per la necessità delle banche di sbarazzarsi dei crediti stessi. Secondo lo stesso Serra, che sul tema si è espresso pubblicamente il mese scorso, è prevedibile che gli istituti italiani arrivino a cederne per circa 120 miliardi nei prossimi anni. Il target di rendimento, ha fatto sapere Algebris, dovrebbe essere compreso tra il 15 e il 18%, una prospettiva allettante (è lo stesso ordine di grandezza ipotizzato per gli investimenti nella bad bank spagnola) che dovrebbe garantire l’interesse degli investitori istituzionali dai quali, per altro, sarebbero già stati raccolti almeno 370 milioni di euro. Ma quali sono le strategie di profitto associate ai prestiti non performanti?

a 12-18 mesi», precisa l’analista). Le altre sono, invece, relative alle attuali condizioni sistemiche del mercato europeo. «Bisognerebbe capire se, a seguito dell’asset quality review, i crediti non performanti sono stati davvero svalutati – spiega ancora l’analista – perché in caso contrario le banche non sarebbero certo incentivate a venderli incassando una sicura perdita». Un deterrente alimentato anche dal bassissimo costo del denaro, visto che l’attuale tasso Bce, prossimo allo zero, garantisce alle banche la possibilità di continuare a finanziarsi agevolmente. Senza la necessità di fare cassa gettando gli asset svalutati in pasto al mercato. ✱ 21


finanza etica crediti deteriorati

Se gli stress test non vedono la tempesta di Matteo Cavallito

I regolatori Ue ignorano gli asset a rischio e non sono preparati a uno shock sistemico. Le banche italiane sono poco esposte. Ma devono essere comunque riformate

B

anca Carige, Popolare di Vicenza, Banca Popolare di Milano e, ovviamente, Banca Monte dei Paschi di Siena. Sono queste le quattro grandi bocciate degli stress test europei. Quattro istituti della Penisola chiamati ora a nuove ricapitalizzazioni per 6,6 miliardi di euro, oltre due terzi del totale richiesto ai 13 istituti europei che non hanno superato l’esame Ue. È il risultato degli stress test, le analisi sullo stato di salute delle banche continentali, che hanno ufficialmente aperto il dibattito sullo stato di crisi del comparto italiano. Un dibattito, per altro, che ha investito gli stessi test europei, giudicati da molti osservatori come non troppo attendibili di fronte ad alcune interpretazioni quanto meno discutibili sul peso degli asset a rischio.

DERIVATI & ATTIVI ILLIQUIDI Al cuore della polemica, manco a dirlo, ci sono i derivati, strumenti simbolo della crisi e tuttora protagonisti più o meno silenti dei bilanci continentali.

STRESS TEST: 131 BANCHE SOTTO ESAME

In vista dei nuovi compiti di vigilanza sul sistema bancario Ue (assunti ufficialmente lo scorso 4 novembre), la BCE, In collaborazione con gli altri regolatori europei, ha esaminato i 131 istituti continentali considerati di importanza sistemica. L’analisi ha implicato una valutazione sulla qualità dei titoli in portafoglio (asset quality review) nonché una simulazione (gli stress test veri e propri) dell’impatto di un’escalation della crisi (deprezzamento dei titoli di Stato, recessione, crescita della disoccupazione) sui bilanci degli istituti. L’esame punta così a calcolare l’ammontare di capitale necessario per reggere in un contesto di shock economico. I risultati dell’indagine hanno evidenziato una carenza di capitale per 25 banche del Continente che scendono però a 13 prendendo in considerazione le misure di ricapitalizzazione già avviate nel 2014. Bocciate, oltre alle 4 banche italiane, anche 2 cipriote e 2 slovene. Una bocciatura a testa per Austria, Belgio, Irlanda e Portogallo. 22

Nelle banche italiane, dicono gli ultimi dati di R&S Mediobanca, questi titoli pesano per il 7,6% dell’attivo con un valore complessivo superiore al patrimonio netto tangibile di 1,4 volte. Nelle banche svizzere e tedesche si arriva a quota 37,8 e 28,3%, pari al controvalore patrimoniale moltiplicato rispettivamente per 12,3 e 10,8 volte. «La scelta di escludere i derivati dall’analisi iniziale del rischio ha indubbiamente penalizzato le banche italiane, decisamente più concentrate sui prestiti, e ha favorito le grandi banche di investimento, quali quelle tedesche, assai più esposte sui prodotti strutturati», spiega a Valori Elena Carletti, professore ordinario del Dipartimento di Finanza dell’Università Bocconi. «In Germania, inoltre, i prestiti sono l’attività principale delle casse di risparmio, le cosiddette Sparkasse, che, tuttavia, sono state escluse dagli stress test in quanto considerate singolarmente e non come settore aggregato capace di costituire un rischio sistemico». Nel magma derivati rientrano almeno in parte i cosiddetti “attivi di livello 3”, ovvero gli asset illiquidi difficili da prezzare. Qualcuno li definisce senza eufemismi come “asset tossici”, le regole contabili li classificano in ogni caso come gli elementi meno pregiati del bilancio. Semplificando al massimo, insomma, si tratta di titoli a rischio. E il problema, dati alla mano, è che ce ne sono ancora tantissimi. Nello spazio di un biennio, afferma l’ultima relazione di Mediobanca, l’ammontare degli attivi di livello 3 delle principali banche Ue è diminuito soltanto di un quarto passando dai circa 309 miliardi del 2011 ai 225 registrati nel 2013, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati definitivi. Deutsche Bank, in particolare, ne possiede ancora valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


crediti deteriorati finanza etica

per 29 miliardi, pari al 70,8% del patrimonio netto. Credit Suisse, seconda in classifica, si ferma al 63,2% (circa 20 miliardi) mentre Barclays, medaglia di bronzo in termini relativi ma prima nella classifica per valore assoluto (39,5 miliardi), registra un peso totale pari al 58,5% (vedi GRAFICI ). Nelle prime 20 banche europee, segnala ancora Mediobanca, il rapporto medio attivi di livello 3/patrimonio netto tangibile si colloca al 24,4%. Intesa e Unicredit registrano in media un valore di 16,7 punti percentuali mentre i pesi massimi spagnoli Santander e BBVA non arrivano al 3%. I colossi tedeschi (Deutsche Bank e Commerzbank) e svizzeri (UBS e Crédit Suisse), da parte loro, toccano quota 48%. Il doppio della media Ue. «Gli Stati Uniti hanno smaltito buona parte degli asset problematici, l’Europa non ha fatto altrettanto, e questo costituisce ancora oggi un problema molto rilevante», rileva Elena Carletti. «La domanda è: cosa succede se questi asset, soggetti tra l’altro a un alto livello di leva, si deprezzano di colpo? L’Europa non dispone di grandi linee di credito ma solo di un fondo di risoluzione molto limitato e del tutto inadatto ad affrontare una crisi di quel genere. La verità – conclude – è che non siamo pronti ad affrontare un eventuale shock sistemico».

UN SISTEMA DA RISTRUTTURARE Gli attivi illiquidi, non diversamente dai derivati, pesano poco sui bilanci degli istituti italiani. Ma non per questo si può parlare di sistema solido. «Il problema non è tanto nei derivati in portafoglio o nella minore spesa a sostegno del sistema bancario italiano, quanto piuttosto nello stato di salute generale degli istituti di credito che, da parte loro, evidenziano elementi di debolezza di lunga data», spiega Silvia Merler, ex analista della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari (EN) della Commissione europea (ECFIN) e attualmente Affiliate Fellow presso Bruegel, un think tank di Bruxelles specializzato sui temi economici. Tra i punti critici, ha spiegato, la forte esposizione sul debito pubblico domestico (i titoli sovrani italiani costituiscono il 10% degli asset bancari della Penisola) e la presenza di un gran numero di filiali «che incide da sempre sui costi fissi». Inevitabile, va da sé, il confronto con la Spagna. «I processi di fusione delle banche spagnole sono stati intensi e persino dolorosi ma hanno dato indubbiamente i loro frutti in termini di profittabilità», ricorda ancora la Merler. «Il risultato è che dal 2012 ad oggi la Spagna ha ridotto l’uso dei fondi della Banca centrale più velocemente e i suoi istituti hanno sperimentato un aumento del return on equity valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

GLI ATTIVI DI LIVELLO 3 NELLE PRINCIPALI BANCHE EUROPEE

Fonte: ricerche e studi spa medioBanca (www.mBres.it), “dati cumulativi delle principali Banche internazionali e piani di staBilizzazione Finanziaria”, luglio 2014. dati in milioni di euro

Barclays Deutsche Bank BNP Paribas Credit Suisse Groupe BPCE Ubs HSBC Credit Agricole Nordea Lloyds RBS Unicredit Intesa Sanpaolo Soc. Générale ING Group Danske Bank Rabobank Commerzbank Banco Santander BBVA

Attivi di liv. 3 (valore assoluto) [milioni di euro] 0

5.000

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20.000

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30.000

35.000

40.000

IL PESO DEGLI ATTIVI SUL PATRIMONIO

Fonte: ricerche e studi spa medioBanca (www.mBres.it), “dati cumulativi delle principali Banche internazionali e piani di staBilizzazione Finanziaria”, luglio 2014

BBVA Banco Santander Rabobank Commerzbank HSBC ING Group Soc. Générale RBS Unicredit Intesa Sanpaolo Danske Bank Lloyds Groupe BPCE BNP Paribas Credit Agricole Ubs Nordea Barclays Credit Suisse Deutsche Bank -5,0

Attivi di liv. 3 Patrimonio netto tangibile (%) [in percentuale]

5,0

15,0

25,0

35,0

45,0

55,0

65,0

75,0

(Roe) oltre a una riduzione significativa dei costi di finanziamento dei depositi retail. Le banche italiane, al contrario, hanno avuto nello stesso periodo un Roe negativo e sostengono costi maggiori sui depositi rispetto alle omologhe spagnole». La via d’uscita, nota ancora la ricercatrice, passerebbe dunque attraverso la riforma del sistema di governance – tuttora caratterizzata dal pesante ruolo delle fondazioni e dal controllo incrociato degli istituti attraverso le partecipazioni dirette e indirette di questi ultimi – e la conseguente apertura agli investimenti esteri. Per i quali, peraltro, la presenza di una supervisione Ue «costituirà una garanzia enorme». ✱ L’intervista completa è pubblicata su www.valori.it 23


finanza etica boom in borsa

Usa, la disuguaglianza arriva dalla Borsa di Matteo Cavallito

Wall Street ai massimi storici certifica la dimensione della ripresa americana. Ma il boom degli indici è alla base della crescente disuguaglianza. Tocca alla Fed risolvere il problema

A

lla fine di ottobre la Federal Reserve statunitense ha annunciato l’imminente chiusura del Quantitative Easing (QE), una maxi iniezione di liquidità, realizzata tramite il riacquisto dello stesso debito americano e accompagnata dal mantenimento di tassi di interesse prossimi allo zero, che ha innaffiato il sistema con risorse extra pari a circa 3,5 trilioni (mila miliardi) di dollari. Una cifra, per intenderci, equivalente al Pil del Germania misurato al tasso di cambio ufficiale. A giustificare lo stop, ovviamente, c’è il conforto dei dati macroeconomici, che certificano la ripresa (+2,3% la crescita 2014, 5,9% il tasso di disoccupazione, in costante discesa da quattro anni). Il quadro, insomma, appare molto positivo. Ma la realtà, a ben vedere, risulta più problematica. A spiegarlo, nel corso di una conferenza svoltasi a Boston lo scorso 17 ottobre, è stata la numero uno della banca centrale Usa, Janet Yellen, che ha puntato il dito contro la crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Il fatto, ha segnalato, è che alla risalita del mercato azionario non ha fatto seguito né un’adeguata crescita dei salari né un sufficiente apprezzamento del mercato immobiliare capace di accrescere il valore di quello che per la maggior parte delle persone resta l’asset principale in portafoglio (la casa, ovviamente). Il risultato, ha osservato quindi la numero uno della Fed, è che «la disuguaglianza viaggia ai livelli più alti da un secolo a questa parte, ben al di sopra del tasso medio registrato nel medesimo periodo e, probabilmente, a un livello più elevato di quello osservato in buona parte della precedente storia americana». 24

UN RIMBALZO PER POCHI Le cifre, calcolate dallo U.S. Census Bureau, l’agenzia statistica nazionale, parlano chiaro. Nel 2007, il reddito medio del 20% più povero della popolazione Usa arrivava a 11.551 dollari, contro i quasi 168 mila del 20% più ricco. Oggi, al netto dell’inflazione, i valori sono saliti rispettivamente a 11.651 e 185.206. In una scala sociale fatta idealmente di cinque gradini, in altre parole, il primo step ha guadagnato in media appena 10 dollari (+0,9%) contro gli oltre 17 mila (+10,3%) dell’ultimo livello. La domanda sorge dunque spontanea: cosa ha determinato una distribuzione così iniqua dei frutti della ripresa? A svelare l’arcano, ha suggerito una ricerca condotta dalla Federal Reserve e dall’Università del Michigan, potrebbe essere proprio il grande rimbalzo borsistico che, come noto, è stato favorito dalle eccezionali condizioni monetarie create nell’occasione dalla Fed. Nel corso del 2008, il Dow Jones, l’indice di riferimento della borsa Usa, era andato incontro a un forte ribasso che ne aveva praticamente dimezzato il valore. Da allora, tuttavia, è stato solo bull market, ovvero un’impressionante risalita (+146% tra il febbraio 2009 e il novembre di quest’anno, ma il trend è ancora in corso) in grado di offrire enormi profitti agli investitori. Una platea, quest’ultima, che non comprende però, se non in minima parte, le classi medie e medio-basse. Il problema, ha notato infatti il Wall Street Journal, è che «milioni di americani avrebbero commesso inavvertitamente il classico errore che caratterizza gli investimenti: acquistare a prezzi alti e vendere al ribasso». Travolti dalla crisi, dal panic selling e dalla necessità di fare cassa, i risparmiatori più poveri avrebbero quindi ceduto i valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


boom in borsa finanza etica L’INDICE DOW JONES, 2008-14

LA CRESCITA DEL REDDITO MEDIO

Fonte: yahoo Finance, FINANCE.YAHOO.COM. novemBre 2014, medie mensili

Fonte: u.s. census Bureau (www.census.gov), current population survey, annual social and economic supplements, novemBre 2014. nostre elaBorazioni. dati in dollari usa attualizzati al 2013

18.000

350.000

16.000

300.000

14.000

250.000

12.000

200.000

10.000 8.000

+146,2% [Febbraio 2008 - Novembre 2014]

02-01-08 01-05-08 02-09-08 02-01-09 01-05-09 01-09-09 04-01-10 03-05-10 01-09-10 03-01-11 02-05-11 01-09-11 03-01-12 01-05-12 04-09-12 02-01-13 01-05-13 03-09-13 02-01-14 01-05-14 02-09-14

loro titoli in perdita buttando via l’opportunità di successive plusvalenze.

FED: UN NUOVO CORSO? Il concetto, insomma, appare chiaro: la politica monetaria della Fed ha favorito le Borse e con essa la ripresa. Ma la risalita degli indici ha alimentato a sua volta la disuguaglianza limitando così gli effetti benefici della crescita economica. L’aspetto positivo, ha notato però Jared Bernstein, ex chief economist del vicepresidente Usa Joe Biden sulle colonne del Washington Post, è che garantendo occupazione di lungo periodo (favorita dai bassi tassi di interesse) con l’obiettivo di far crescere i salari reali, promuovendo programmi di investimento per le fasce più deboli della popolazione (come il già avviato Working Cities Challenge) e regolamentando il mercato finanziario per ridurre il rischio di

150.000 100.000 50.000

6.000

0 2007

+0,9% 20% più povero 2010

20% più ricco

5% più ricco

2013

bolle speculative, la stessa Fed sembra anche in grado di risolvere buona parte del problema. «Negli ultimi anni la Fed ha giocato certamente un ruolo molto ampio nell’economia americana», spiega a Valori lo stesso Bernstein. Una conseguenza del peso della “Grande recessione” e della consapevolezza dell’incapacità della politica fiscale ordinaria di sostenere adeguatamente la ripresa. Una partecipazione attiva destinata a continuare? «L’eventuale mantenimento del profondo coinvolgimento nell’economia da parte della Fed sarà in funzione di due obiettivi: inflazione e disoccupazione», prosegue Bernstein. Con l’inflazione «ampiamente al di sotto del 2% c’è ancora un bel po’ di gioco (possibilità di intervento, ndr) nel mercato del lavoro». Fintanto che esisterà questa possibilità, conclude, «mi aspetto che la Fed continui a sostenere il quadro macroeconomico». ✱

IL BEST SELLER DELLA DISCORDIA

Non solo numeri da bestseller (vedi Valori di giugno 2014): “Il Capitale nel XXI Secolo” di Thomas Piketty ha anche innescato un dibattito che, dopo otto mesi, non accenna a spegnersi. La tesi dell’economista francese è radicale: il capitalismo, in quanto tale, fa sì che i ricchi siano sempre più ricchi. E va affrontato con una patrimoniale globale. Ma a maggio è sceso in campo Chris Giles, capo della redazione economica del Financial Times, che ha preso in analisi i suoi dati fino a smentirlo del tutto. È stato il calcio d’inizio di un match che sembra assumere i contorni di una controffensiva con cui il mondo accademico anglosassone difende il proprio tradizionale primato nella ricerca economica, minacciato da una new entry francese. Proprio mentre un altro cittadino d’Oltralpe, Jean Tirole, si aggiudica il Nobel per l’Economia. Ma cosa si confuta a Piketty? Da un lato, alcune sviste nei dati; oggettive ma comprensibili in un’opera così poderosa, ribatterà il New York Times. Ma Giles si spinge oltre, contestando cifre approssimate grossolanamente, presentate senza citare le fonti o confronvalori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

+12,2% +10,3%

tando in modo arbitrario fonti diverse. Altri dubbi sono metodologici: perché affiancare Regno Unito e Francia alla Svezia, che ha una popolazione molto più ridotta? La conclusione è netta: «Il livello esatto della diseguaglianza in Europa negli ultimi cinquant’anni è impossibile da determinare, poiché dipende dalle fonti. […] Ma a differenza di quanto dice Piketty, la concentrazione del patrimonio della parte più ricca della popolazione è stata abbastanza stabile in Europa e negli Usa». «Ho cercato di fare le scelte più giustificate possibili – replica Piketty –. Non ho dubbi sul fatto che le mie serie storiche possano e debbano essere migliorate in futuro (infatti pubblico tutto online)». Sottolinea poi come Saez e Zucman, pochi mesi dopo l’uscita de “Il Capitale nel XXI Secolo”, abbiano pubblicato un report che arriva, in modo diverso, agli stessi risultati. Accorre in sua difesa il premio Nobel Paul Krugman: il fatto che la diseguaglianza sia rimasta stabile, scrive, “non può essere vero”. Se Piketty è obbligato a combinare dati da fonti differenti – concorda Paul Mason sul Guardian – è perché i governi hanno preferito tassare i redditi più che i capitali. Permettendo ai più ricchi di riuscire a celare il loro patrimonio. [V.N.] 25


finanza etica i grandi della terra

A Davos c’è spazio per l’iniquità? di Andrea Barolini di Valentina Neri

Dal 21 al 24 gennaio 2015 si riunisce il World Economic Forum. Un’occasione per parlare di gap tra ricchi e poveri: negli Usa una vera emergenza

È

difficile, occorre ammetterlo, immaginare gli uomini d’affari che si riuniscono ogni anno a Davos, in occasione del World Economic Forum, preoccupati dall’aumento delle diseguaglianze nel mondo. Eppure l’edizione 2014 è stata, in questo senso, sorprendente. Un sondaggio tra i partecipanti rivelò, infatti, come al primo posto tra “i principali rischi futuri” per l’economia globale ci fosse proprio la troppa distanza tra ricchi e poveri. «Se quest’ultima dovesse continuare ad aumentare – aveva spiegato Jennifer Blanke, capo-economista del WEF – la situazione diventerà presto insostenibile. Le diseguaglianze generano conflitti sociali, come possiamo vedere nei Paesi emergenti. Ma anche in Grecia o in Spagna, dove la disoccupazione giovanile è esplosa. Ebbene, tutto questo ci preoccupa». Chissà se nell’edizione 2015, in programma dal 21 al 24 gennaio, si troverà lo spazio per affrontare questa realtà, che resta impellente e riceve prestigiose conferme in ambito accademico.

UN SECOLO DI DISEGUAGLIANZA Emmanuel Saez, docente di Economia all’Università della California, direttore dell’Equitable Growth Center a Berkeley e collaboratore dell’ormai celebre Piketty (vedi BOX a pag. 25), ha già dimostrato che l’1% della popolazione statunitense, il più ricco, ha visto crescere il proprio reddito reale del 31,4% tra il 2009 e il 2012. Nello stesso periodo il restante 99% si è dovuto accontentare di un misero +0,4%. Saez a ottobre è tornato con una nuova ricerca, co-firmata da Gabriel Zucman, che prende in analisi l’economia Usa a partire dal 1913 e non si concentra sul reddito, ma sul patrimonio. Perché, prendendo in considerazione tutti i beni (monetari, finanziari, immobiliari), il divario risulta ancora più marcato. Le famiglie statunitensi – si legge – si possono dividere in tre gruppi. Il primo è quello alla base 26

della piramide: una base decisamente “allargata”, di cui fanno parte 9 famiglie su 10, che nel 2012 avevano un patrimonio netto medio inferiore agli 84mila dollari. Queste famiglie, insieme, coprono il 22,8% della ricchezza complessiva. Ciò significa che tutto il resto va cercato nella punta della piramide. Il 35,4% del totale è nelle tasche di quel 9% della popolazione che possiede tra i 660 mila e i 4 milioni di dollari. Poi c’è il terzo gruppo, il più privilegiato in assoluto, costituito dall’1% di superricchi che da soli si spartiscono il 42% della ricchezza americana. All’estremo vertice di questo 1% troviamo 160 mila famiglie: a livello numerico sono solo un minuscolo 0,1%, ma controllano da sole il 22% del patrimonio del Paese. Vale a dire una quota molto simile a quella di cui si deve accontentare quel 90% che avevamo incontrato all’inizio. Negli ultimi anni sono proprio loro ad arricchirsi sempre di più: dopo aver visto scendere il proprio patrimonio ai minimi (“solo” il 7% del totale nel 1978), stanno tornando a livelli che non si vedevano dal 1916 e dal 1929. E tutti gli altri, vale a dire il 90% delle famiglie americane? Per loro, la curva è stata analoga, ma di segno opposto. Il secondo Dopoguerra è stato caratterizzato dal ruolo sempre più centrale della middle class, forte della previdenza e del possesso di beni immobiliari. Ma alla metà degli anni Ottanta è arrivata la brusca inversione di tendenza e il capitale del ceto medio ha perso 15 punti percentuali, eroso dal boom dei mutui, del credito al consumo e dei prestiti agli studenti. In una parola l’indebitamento privato, che negli anni Ottanta ammontava al 75% del reddito nazionale, per poi salire al 135% del 2009 e attestarsi nel 2012 attorno al 110%. Il risultato è sconfortante: mentre i beni dei più ricchi letteralmente si moltiplicano, la stragrande maggioranza della popolazione statunitense oggi è ferma ai livelli del 1986. ✱ valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


Addio crisi per gli investimenti sostenibili in Europa, che alla fine di giugno hanno registrato una crescita del 18% rispetto a un anno prima. Cresce il patrimonio gestito, che ha raggiunto 127 miliardi di euro (dai 108 di giugno 2013), e aumenta il numero dei fondi: 957, tra prodotti “green” ed etici. I dati sono

NEWS

La ripresa degli investimenti responsabili

stati raccolti da Vigeo, agenzia leader nella valutazione della sostenibilità aziendale, e Morningstar, il principale fornitore di dati sul mercato internazionale dei fondi di investimento, nella 14ª edizione del report Green, Social and Ethical Funds in Europe. www.lamiafinanza-green.it

VALORITECA I MIGLIORI TWEET DEL MESE MININEWS

Le ombre sulla finanza sana

Il sistema bancario ombra sta tornando ai livelli pre-crisi. Secondo i dati del Financial Stability Board l’anno scorso in 20 Paesi oltre all’area euro il sistema bancario ombra avrebbe raggiunto 75 trilioni di dollari, cioè 75mila miliardi di dollari, che rappresenterebbe il 120% del Pil dell’area. Ai primi posti, come protagonista del sistema bancario ombra, è la Cina. Le nuove regole introdotte nel mondo della finanza avrebbero dovuto colpire anche quest’area grigia, invece hanno colpito solo le banche classiche. www.ft.com

Sanzioni miliardarie alle banche per manipolazioni dei mercati possono essere detratte dalle tasse. #bassafinanza www.washingtonpost.com 13 novembre @meggio_m

Glad UK gov't now accepts bonus caps. Caps not silver bullet to solving excesses in finance world but are essential step for less risk

[Lieto che il governo britannico accetti un tetto ai bonus. I tetti non sono la soluzione definitiva per risolvere gli eccessi nel mondo della finanza, ma sono un passo fondamentale per ridurre i rischi] 21 novembre @EP_President

STIPENDI RECORD PER I CEO DELLE BANCHE EUROPEE (HANDELSBLATT)

Anshu Jain deutsche Bank

10,00 mio. €

Stuart Gulliver hsBc holdings

9,46 mio. €

Sergio Ermotti uBs

8,72 mio. €

António Horta-Osório lloyds Banking group Brady Dougan credit suisse

Jürgen Fitschen deutsche Bank

Stephen Hester* royal Bank oF scotland Francisco Gonzalez Rodriguez BBva Peter Sands standard chartered Javier Marín** Banco santander

Alfredo Sáenz** Banco santander

Ross McEwan* royal Bank oF scotland JEan-Laurent Bonnafé Bnp pariBas Frédéric Oudéa société générale

Annika Falkengren skandinaviska enskilda Banken

8,81 mio. €

7,96 mio. €

7,28 mio. €

6,05 mio. €

5,17 mio. €

5,15 mio. €

4,74 mio. € 4,37 mio. €

3,87 mio. €

3,44 mio. €

2,71 mio. €

2,29 mio. €

1,21 % 9,61 % -1,89 % 6,82 % 6,31 % 1,21 % -12,38 % 6,42 % 9,04 % 6,73 % 6,73 % -12,38 % 5,84 % 4,43 % 13,22 %

*Ross McEwan segue Stephen Hester in ottobre 2013; **Javier Marin segue Alfredo Sáenz in aprile 2013

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

Pochi anni dopo "affare" Antonveneta, favore a Botin e Opus Dei, #mussaribanchieredidio candidato a presidenza #Ior, banca vaticana. #Report 23 novembre @reportrai3

APPUNTAMENTI fino all’

1

FEBBRAIO 2015

Un premio alla Microfinanza

C’è tempo fino alla mezzanotte del 1° febbraio 2015 per presentare le candidature al Giordano Dell’Amore Microfinance Good Practices Europe Award. Premia progetti e imprese che impiegano la microfinanza e il microfinanziamento, e che da almeno 12 mesi operano per l'inclusione finanziaria di chi è escluso dai servizi finanziari tradizionali in Europa, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Al vincitore 50 mila euro da reinvestire in nuovi progetti o nel sostegno a quelli esistenti. www.fgda.org 27


numeri della terra 16.300 [18.500]

Il mondo  1.500

UNIONE EUROPEA

IN UNA ZUCCHERIERA

 3.750

7.706 [10.614]

 700

USA

 2.806

6.890 [4.564] 2.850  2.158

MESSICO

 1.950

GUATEMALA

di Matteo Cavallito 175,6 milioni di tonnellate. È il valore della produzione globale di zucchero per uso alimentare previsto per il 2014/15 dallo United States Department of Agriculture (USDA), una cifra sostanzialmente identica a quella registrata nella stagione precedente (175,7). Il Brasile, che evidenzia un aumento dei consumi associato soprattutto all’incremento demografico, dominerà come di consueto la classifica della produzione con un ammontare complessivo di quasi 37 milioni di tonnellate, così come quella dell’export, settore in cui la nazione sudamericana copre da sola quasi la metà della quota totale. L’India, secondo produttore mondiale, svetta nella graduatoria dei consumi (con 27 milioni di tonnellate previste per il periodo in esame) precedendo Unione europea, Cina, Brasile e Stati Uniti. La Ue, sottolineano ancora i dati USDA, si colloca al primo posto nella classifica delle importazioni con 3,75 milioni di tonnellate davanti alla Cina (3,3 milioni), agli Stati Uniti (2,8 milioni) e alla Russia (1,1 milioni). 28

36.800 [11.355]

BRASILE

 25.250

[produzione in migliaia di tonnellate, 2014/2015] Produzione [consumi]

FONTE: UNITED STATES DEPARTMENT OF AGRICULTURE - USDA (HTTP://APPS.FAS.USDA.GOV/): “SUGAR: WORLD MARKETS AND TRADE”, FOREIGN AGRICULTURAL SERVICE, MAGGIO 2014. DATI IN MIGLIAIA DI TONNELLATE.

valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


produttori di dolcezza

MONDO Zucchero 175.589

4.400 [5.500]

 1.100

RUSSIA

[170.528]

 import

 55.241  50.037

 export

13.700 [17.400]

 3.300

CINA 11.000 4.860 [4.500]

 8.300

THAILANDIA PAKISTAN

2.500 27.900 [27.000] FILIPPINE

 1.500

INDIA 2.500 [5.900]

 3.750

INDONESIA 4.400

2.500  3.300

AUSTRALIA

 760

SUDAFRICA

valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

29


30

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


ECONOMIA SOLIDALE

WEB E PRIVATI METTONO LE ALI AL CAR SHARING

I

di Emanuele Isonio

L’ingresso di Eni e Car2Go e lo sviluppo degli smartphone hanno fatto crescere gli iscritti ai servizi di auto condivise del 1.400% in meno di due anni. E imporranno alle pubbliche amministrazioni di ripensare il proprio ruolo: da gestori a organizzatori valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

l segnale dell’alba di una nuova stagione era apparso evidente già un paio d’anni fa a quanti avevano tenuto d’occhio un’acquisizione che negli Stati Uniti appariva incredibile: Avis, colosso mondiale dell’autonoleggio, aveva acquistato, dopo una trattativa blindata, la Zipcar, azienda del Massachusetts specializzata in car sharing. Una realtà imprenditoriale sana e capace di buoni profitti, ma comunque marginale nel panorama dell’autonoleggio a stelle e strisce. Per le sue azioni, Avis sborsò quasi mezzo miliardo di dollari, accettando di pagarle il 49% in più del prezzo di chiusura del giorno prima. Evidentemente aveva individuato nell’auto condivisa un settore con invidiabili margini di crescita, considerando ormai maturi i tempi di un cambio di approccio al concetto di mobilità e nel rapporto con il veicolo di proprietà. Quella profezia sembra essere valida anche per l’Italia. Dove il car sharing ha letteralmente spiccato il volo in pochi mesi.

Alcune auto per il car sharing a Milano 31


economia solidale mobilità condivisa

BLABLACAR: ANCHE DAL BASSO È BOOM CONDIVISIONE

Non si condividono solo le auto ma anche i semplici posti liberi in una vettura diretta da qualche parte. Il nome corretto è “ride sharing”: in pratica l’autostop 2.0, nel quale chi offre il passaggio indica anche un prezzo per il trasporto, luogo e orario di partenza. L’idea si è sviluppata parallelamente in Francia (a Parigi nel 2006 nacque covoiturage.fr) e in Italia, dove nel 2010 un gruppo di studenti lanciò postoinauto.it. «Mentre il mercato dei trasporti sulle brevi distanze è altamente competitivo – spiega Philippe Botteri, membro del board di BlaBlaCar – noi agiamo nel segmento delle lunghe distanze». Nel primo anno i posti condivisi furono 30mila. Altri 12 mesi e salirono a 100mila. Nel 2012, la fusione dei due portali con la nascita di BlaBlaCar e il salto di qualità. Un portale e un’app in 10 lingue per 13 Paesi. Oggi la comunità è formata da 10 milioni di iscritti, che hanno condiviso 2 miliardi di chilometri e trasportano due milioni di persone ogni mese. 216 milioni gli euro risparmiati dai conducenti e 700mila le tonnellate di CO2 evitate, grazie a un’occupazione delle auto che, da una media di 1.6 passeggeri è salita a 2.8. E, accanto ai vantaggi economici e ambientali, anche la possibilità di fare nuove conoscenze. Un’idea nata dal basso in grado di farsi globale. E appetibile per gli investitori, evidentemente attratti dalla crescita del 200% di anno in anno. Nel luglio scorso, la notizia di un investimento di 100 milioni di dollari da parte di Index Ventures e altri partner che già avevano sostenuto il progetto in passato. Obiettivo: fare di BlaBlaCar la prima rete mondiale di trasporto condiviso.

ISCRITTI DECUPLICATI IN 18 MESI I dati più aggiornati parlano di 358mila abbonati. Due anni fa non arrivavano a 25mila: +1400% in diciotto mesi. Una crescita troppo impetuosa per non incuriosire. L’elemento di rottura pare essere indubbiamente uno: l’ingresso di due operatori privati legati ad altrettanti big dell’industria. Car2Go della joint venture DaimlerEuropcar e Enjoy di Eni. Giovani ma capaci in 18 mesi di convincere 335mila utenti a iscriversi a un servizio che, nei dieci anni precedenti, aveva attirato poco più di 22mila clienti. Un settore introdotto in Italia nel 2001 da un’idea di Legambiente e finora gestito quasi esclusivamente dalle aziende municipalizzate di una dozzina di Comuni, riunite nel circuito ICS - Iniziativa Car Sharing (vedi MAPPA ). Esperienze fondamentali per diffondere l’idea di un nuovo rapporto tra uomo e auto, ma marginali nei numeri e forse non del tutto efficienti (un’auto ogni 37 utenti per le città ICS, una ogni 122 per Enjoy-Car2Go). 32

FLUSSO LIBERO, SCELTA VINCENTE «Indubbiamente – osserva Andrea Poggio, vicedirettore di Legambiente – i due big privati sono entrati nel settore in un momento in cui il car sharing è ormai un’opzione nota e la possibilità di fare consistenti investimenti economici ha accelerato lo sviluppo». Il periodo di crisi economica ha poi dato una mano: i trasporti sono la terza voce di spesa per le famiglie. Un’auto media costa, tra assicurazione, carburante, parcheggi e manutenzione, circa 4.500 euro l’anno. L’auto a noleggio breve permette di pagare l’auto solo per il tempo strettamente necessario. Ma a dare la mano decisiva al decollo del settore sono altri due fattori: la diffusione degli smartphone e la scelta di abbandonare il tradizionale modello di car sharing basato su parcheggi predefiniti. «Lo sviluppo delle App per i cellulari – spiega Gianni Martino, country manager Car2go Italia – ci ha permesso di superare

l’obbligo di ritiro delle auto in luoghi predefiniti optando per il cosiddetto “free flow”. Le auto possono essere parcheggiate in qualsiasi punto della città, strisce blu comprese. E ogni utente può sapere in ogni momento dove trovare una vettura libera consultando il proprio smartphone». La scelta è stata premiata ben oltre le attese: «Roma, la città con il più alto rapporto tra auto e abitanti (700 ogni 1000), ha fatto segnare il record europeo per crescita di iscritti e noleggi effettuati con il nuovo sistema» rivela Raimondo Orsini, direttore della Fondazione Sviluppo Sostenibile.

NUOVO RUOLO PER I COMUNI Non è però detto che il nuovo modello a flusso libero spedirà nell’oblio il vecchio. «Siamo all’inizio di una nuova era della mobilità urbana – spiega Poggio – in cui i cittadini avranno davanti a sé un ampio panorama di servizi. Il “nuovo” car sharing sarà preferibili per noleggi molto brevi. Quello tradizionale offrirà tariffe migliori per noleggi di più ore. E tali offerte si integreranno con il trasporto collettivo e le nuove proposte di bici elettriche e moto». Un menù integrato che renderà realistica la previsione secondo cui un veicolo condiviso elimina 32 auto private. Il nuovo orizzonte imporrà anche un ripensamento del ruolo degli enti pubblici, locali e nazionali. Non più erogatori in prima persona dei servizi ma organizzatori: «Chi progetta il trasporto pubblico dovrà permettere alle varie opzioni di integrarsi tra loro» osserva Poggio. «Dovrà ad esempio domandarsi se ha più senso mantenere le linee di bus notturni piuttosto che fare convenzioni con car sharing e taxi, introducendo magari detrazioni fiscali per chi usa strumenti di mobilità condivisa». E nei bandi pubblici di autorizzazione si potrebbe obbligare le varie aziende a usare un’unica piattaforma. In modo da semplificare la ricerca ai cittadini evitando loro di girare con troppe card nel portafogli. ✱ valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


mobilità condivisa economia solidale

L’ITALIA DELLE AUTO CONDIVISE

INFOMOBILITY SPA [pubblico] 7 MODELLI / Inizio: febbraio 2007 Costi abbonamento: 120 euro annuali Prezzo noleggio: 2 euro l’ora + 0,50 a km per modello base 10

   p 17

BRESCIA 1 2 7

MILANO TORINO

4

13

8

12

6

1 CAR2GO [privato (Daimler)] 1 MODELLO (SMART 2 POSTI) Inizio: marzo 2013 Costi abbonamento: 19 una tantum Prezzo noleggio: 0,29 a minuto

   p 1.300

150.000

5,80 €

libero

ritiro su strada

10

185.000

5,00 €

libero

ritiro su strada

   p 119

GENOVA

nessun vincolo

1 2 11

42

1.232

6,25 €

30 fissi

parcheggio di partenza

1 ora

4 MUOVOSVILUPPO SCRL [pubblico] 4 MODELLI / Inizio: febbraio 2010 Costi abbonamento: 100 euro annuali Prezzo noleggio: 2 euro l’ora + 0,40 a km per modello base

   p 6

117

4,00 €

5 fissi

parcheggio di partenza

   p 134

6.245

4,45 €

78 fissi

parcheggio di partenza

9

1 ora

11

148

5,00 €

11 fissi

parcheggio di partenza

1 ora

AMAT PALERMO SPA [pubblico] 4 MODELLI / Inizio: marzo 2009 Costi abbonamento: 100 euro annuali Prezzo noleggio: 2 euro l’ora + 0,40 a km per modello base

   p

   p

2.502

7,00 €

44 fissi

parcheggio di partenza

1 ora

4.064

5,15 €

17 fissi

parcheggio di partenza

1 ora

PALERMO

GENOVA CAR SHARING [misto] 9 MODELLI / Inizio: luglio 2004 Costi abbonamento: 100 euro annuali Prezzo noleggio: 2,50 euro l’ora + 0,90 a km per modello base 6

53

77 fissi

1 ora

   p

parcheggio di partenza

6,05/ 9,08 €

   p 16 fissi

1 ora

1 ora

8 APS OPERE E SERVIZI DI COMUNITÀ SRL [pubblico] 2 MODELLI / Inizio: settembre 2011 Costi abbonamento: 100 euro annuali Prezzo noleggio: 2,50 euro l’ora + 0,50 a km per modello base

5,70 €

parcheggio di partenza

7 ATM SERVIZI SPA [pubblico] 15 MODELLI / Inizio: settembre 2001 Costi abbonamento: 60 euro annuali Prezzo noleggio: 2,20 euro l’ora + 0,45 a km per modello base

CAR SHARING FIRENZE SRL [pubblico] 2 MODELLI / Inizio: aprile 2005 Costi abbonamento: 120 euro annuali Prezzo noleggio: 2,70 euro + 0,60 a km 571

2.634

   p

5

15

79 fissi

13 AVM SPA [pubblico] 11 MODELLI / Inizio: agosto 2002 Costi abbonamento: 50 euro annuali Prezzo noleggio: 3 euro + 0,43 a km per modello base 46

3,73 €

126

ROMA

3

   p

3.311

   p 

nessun vincolo

CAR ATC [pubblico] 9 MODELLI / Inizio: agosto 2002 Costi abbonamento: 100 euro annuali Prezzo noleggio: 3 euro l’ora + 0,65 a km

1 ora

12 CAR CITY CLUB [pubblico] 7 MODELLI / Inizio: novembre 2002 Costi abbonamento: 59 euro annuali Prezzo noleggio: 2,45 ora + 0,72 a km per modello base con riconsegna nel parcheggio di ritiro. 3,68 euro l’ora + 1,08 a km se riconsegna in parcheggio diverso da quello di ritiro

FIRENZE

ENJOY [privato (ENI)] 1 MODELLO (FIAT 500) / Inizio: dicembre 2013 Costi abbonamento: gratuito Prezzo noleggio: 0,25 a minuto 1.444

parcheggio di partenza

11 ROMA SERVIZI PER LA MOBILITÀ SRL [pubblico] 3 MODELLI / Inizio: marzo 2005 Costi abbonamento: 101,63 euro annuali Prezzo noleggio: 2,03 euro l’ora + 0,34 a km per modello base

3

2

   p

11 fissi

VENEZIA PADOVA

PARMA BOLOGNA 1 2 5

4,50 €

287

1 ora

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

9

45

1.020

4,00 €

34 fissi

parcheggio di partenza

1 ora

  

Numero auto Card attive

Costo percorso “tipo” (5 km in 20 min.)

P

Parcheggi

 

Durata minima

Riconsegna/ritiro

33


economia solidale mobilità condivisa

A GRENOBLE L’AUTO È CONDIVISA, ELETTRICA, INNOVATIVA E INTEGRATA

di Andrea Barolini

Un progetto sperimentale nella città francese: 70 minicar 100% elettriche per completare i servizi di trasporto pubblico. Costo medio: 7 euro all’ora Dimenticare completamente l’automobile privata. Ciò che è impensabile in Italia è realtà a neanche 150 km dal confine. A Grenoble, in Francia, una partnership tra il comune alpino, la società specializzata in car sharing, Cité Lib, la Toyota e la Sodetrel, impresa che fornisce le infrastrutture necessarie, permette dall’inizio di ottobre di garantire gli spostamenti anche “nell’ultimo miglio”. Quello, cioè, che manca al trasporto pubblico tradizionale e che, finora, è coperto nell’agglomerato urbano solo dal bike sharing. Quest’ultimo, estremamente efficiente e utilizzato nella città transalpina (il servizio Velib mette a disposizione ben cinquemila bici), diventa tuttavia, inevitabilmente, meno allettante in inverno, specialmente nelle giornate più rigide. Quello di Grenoble è il primo esperimento di Ha:Mo (Harmonious Mobility) avviato da

34

Toyota al di fuori dei confini giapponesi, e il primo al mondo su larga scala. Il progetto, che per ora è stato avviato in via sperimentale per tre anni, consente infatti di integrare – sul territorio comunale e quello delle municipalità circostanti (per un totale di oltre mezzo milione di persone) – i “classici” tram, bus, treni regionali con una flotta di 70 minicar 100% elettriche, fornite dalla casa giapponese in due modelli diversi. Trentacinque monoposto a quattro ruote, dotate di cofano, e altrettante i-Road, ovvero tricicli (chiusi, come micro-automobili) a due posti lunghi 2,35 metri e larghi come uno scooter. Il modello a tre ruote, unico al mondo, si adatta particolarmente bene al traffico cittadino: in curva si inclina come una moto, viaggia fino a 45 km/h e garantisce un’autonomia di 30 km circa (con una ricarica completa). A differenza del car sharing tradizionale, inoltre, non è necessario lasciare il veicolo nella stazione in cui lo si è preso: si può partire a un capo della città e parcheggiare all’altro, verificando in tempo reale dal proprio cellulare (grazie a una “app” gratuita) i posti disponibili alle paline di ricarica. Queste ultime sono circa 160, disponibili in 27 stazioni di raccolta, presenti strategicamente vicino ai principali nodi di scambio. Sempre dal telefono, inoltre, è possibile prenotare il veicolo, farsi consigliare un percorso che comprende altri mezzi di trasporto e che tiene conto del traffico. I costi, inoltre, sono ragionevoli: 3 euro per primi 15 minuti di utilizzo, altri 2 euro per il secondo quarto d’ora e quindi 1 euro per i periodi successivi. Ovviamente “carburante” incluso. A conti fatti, 7 euro

per un’ora. Ma l’idea è appunto quella di offrire un’alternativa all’auto privata per l’ultima parte degli spostamenti, quella che ci porta direttamente sotto casa (o quasi), oppure al lavoro. È difficile perciò che le minicar Toyota vengano utilizzate per spostamenti particolarmente lunghi: per quelli è disponibile il car sharing classico. «I primi dati indicano che i veicoli sono molto utilizzati. Siamo solo all’inizio ma il progetto sembra essere ben avviato, e sembra piacere agli utenti», spiegano negli uffici di Cité Lib. Prova ne è il fatto che, nelle piazzole di ricarica, non è facile trovare le miniauto parcheggiate, mentre non di rado le si vedono sfrecciare nelle strade della città. Unico neo (non da poco), il fatto che l’energia elettrica utilizzata sia in gran parte generata tramite il nucleare: l’installazione di tetti fotovoltaici di copertura sulle piazzole avrebbe reso il tutto perfetto. ✱ In alto: Il modello verde, sulla destra nella foto alla stazione di place Victor Hugo, è quello più innovativo: la i-Road a tre ruote, capace di trasportare due persone, sedute una davanti all’altra. È in grado di garantire un’autonomia di qualche decina di chilometri, e – dopo aver fatto un po’ di abitudine alla guida – può essere un ottimo mezzo per districarsi nel traffico cittadino.

In basso da sinistra: (I) due minicar in ricarica alle paline elettriche a rue Thiers, a Grenoble. I modelli nella foto sono quelli a quattro ruote. La ricarica completa necessita di circa 3 ore di tempo. (II) Il comune di Grenoble ha integrato i sistemi di trasporto pubblico con quelli di car sharing: è possibile verificare online il miglior “incastro” per muoversi da un capo all’altro della città, nonché dei comuni limitrofi, con tram, autobus, biciclette e automobili. (III) Dietro a una palina elettrica, è affissa la mappa delle stazioni del servizio di car sharing elettrico presenti nella città. Un’applicazione per cellulari consente di conoscere in tempo reale la disponibilità di veicoli e di piazzole libere per la ricarica.

valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


abitare sostenibile / 1 economia solidale

Arte e design Favara torna a vivere

UNA TRASFORMAZIONE CULTURALE Le case dei sette cortili vengono così ristrutturate e trasformate in due gallerie, un bookshop e alcune residenze per gli artisti. A partire dall’inaugurazione, il 25 giugno 2010, a Favara iniziano ad arrivare turisti da tutt’Italia e dall’estero, per visitare questo laboratorio innovativo e prendere parte a mostre, corsi di formazione, workshop ed eventi. Primo tra tutti il compleanno di Farm Cultural Park, a giugno, che di anno in anno raccoglie sempre maggiore entusiasmo e partecipazione. «La cosa più difficile da valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

capire, per i nostri “vicini di casa”, è il perché ci siamo imbarcati in un progetto totalmente autofinanziato e senza fini di lucro – spiega Florinda – ma, piano piano, a Favara si avverte un cambiamento sociale e di mentalità. Dopo l’inaugurazione alcuni giovani imprenditori hanno aperto dei locali, il centro storico sta iniziando a rivivere e diversi artisti si presentano qui come volontari, all’insegna di un inedito spirito di collaborazione». L’esperimento, insomma, sembra funzionare. Lo conferma la fittissima agenda di questi mesi. Dal 13 dicembre al 6 gennaio esordirà con la sua prima edizione il Christmas Market, in collaborazione con Maurizio Carta, professore di Urbanistica e pianificazione territoriale all’Università di Palermo, e con la facoltà di Architettura dell’Ateneo. Un mercatino sui generis, che affiancherà i classici articoli da regalo a opere di giovani designer indipendenti. Il 20 dicembre invece verrà inaugurata la mostra collettiva Greetings from Italy, incentrata su un tema delicato come quello delle contraddizioni della politica del nostro Paese e del rapporto tra Stato e mafia. ✱

di Valentina Neri

Nella provincia di Agrigento un borgo rinasce grazie al Farm Cultural Park: un’officina culturale permanente creata in sette cortili. Dal 2010 è stato un boom di turisti

farm cultural park / luglio 2014

U

n notaio, Andrea Bartoli, e un avvocato, Florinda Saieva. A prima vista, con l’arte e il design hanno poco o nulla da spartire. Ma Andrea e Florinda sono anche marito e moglie, sono collezionisti e appassionati di arte contemporanea e, qualche anno fa, erano alla ricerca di un modo per dare vita a queste loro passioni e far crescere le loro bambine in un ambiente sano e stimolante. Quest’ambiente se lo sono costruito da soli. Non a Parigi, dove vivevano da un paio d’anni. Ma nel loro paese d’origine: Favara, in provincia di Agrigento. Tra il 2008 e il 2009 Andrea e Florinda acquistano le vecchie case di sette cortili, edifici di matrice araba ormai abbandonati a se stessi. Favara, 33 mila abitanti nella Sicilia profonda, non è certo un contesto facile. Tant’è che, il 23 gennaio 2010, la città è sconvolta dal crollo di una palazzina che porta alla morte di Chiara e Marianna, due sorelle di 3 e 14 anni. Una tragedia annunciata, figlia del degrado e dell’abusivismo dilagante. Il Comune reagisce con la demolizione di alcuni immobili fatiscenti del centro storico. «Noi, in controtendenza, abbiamo voluto dare una risposta diversa», racconta Florinda. La risposta si chiama Farm Cultural Park: una sorta di officina culturale permanente aperta a tutti, che trae ispirazione da esempi internazionali come il Palais de Tokyo di Parigi, Place Jemee El Fna di Marrakech e il mercato di Camden Town a Londra.

Dal 14 al 19 aprile 2015 la città di Milano tornerà al centro del mondo del design con il Salone Internazionale del Mobile, un appuntamento che la scorsa edizione ha superato il traguardo dei 310 mila operatori di settore e delle 39 mila presenze di pubblico. Su Valori ci avvicineremo a quest’evento a modo nostro: a partire da questo numero, fino ad aprile, ogni mese daremo spazio a un progetto in cui il design va a braccetto con la sostenibilità, con la rigenerazione urbana, con l’ambiente. 35


economia solidale film del territorio

Ciak, si gira! L’Italia è un set cinematografico di Paola Baiocchi

Regioni, province e comuni italiani si sono attivati per promuovere le produzioni audiovisive, con le Film Commission regionali, uffici che forniscono assistenza di ogni genere per le “pellicole territoriali”

I

 ONLINE L’articolo uscito su The Guardian nel giugno 2013 An inspector calls: British tourists go on trail of Montalbano www.theguardian.com/travel/ 2013/jun/07/british-touriststrail-inspector-montalbano Il sito dell’Italian Film Commissions www.italianfilmcommissions.it/ web/members

l paesaggio italiano, i suoi borghi antichissimi e in molti casi fragili, testimonianze di stratificazioni storiche e culturali, hanno un valore aggiunto di cui si comincia ad apprezzare anche una loro peculiarità: si prestano a essere fantastici set per opere audiovisive, che siano film o fiction. Ben lo sanno gli abitanti di quella parte della Sicilia dove vengono girate le puntate del commissario Montalbano, l’adattamento televisivo dei romanzi di Andrea Camilleri, che hanno strutturato l’offerta turistica con dei “Montalbano tour” che fanno conoscere i luoghi dove si svolgono i casi del commissario di Vigàta: Puntasecca, Scicli, Ibla, Ragusa, Donnalucata, tutti gli anni sono visitate da centinaia di migliaia di turisti che arrivano non solo dall’Italia (ne ha parlato perfino l’inglese The

Guardian), ma anche dagli altri 65 Paesi dove la serie è stata trasmessa. Regioni, province e comuni italiani si sono attivati per promuovere le produzioni audiovisive sul territorio, con le Film Commission regionali, uffici e organismi non profit, che forniscono servizi che vanno dall’assistenza logistica all’ottenimento dei permessi, dalla ricerca di location alla facilitazione nell’accesso a risorse finanziarie locali. Esistono 17 Film Commission (Fc) riunite nell’associazione Italian Film Commissions (Ifc) e i risultati ci sono, ci spiega Stefania Ippoliti, allo stesso tempo presidente dell’Ifc e general manager della Toscana Film Commission: «L’Italia riesce ad attirare le grandi produzioni straniere come ai tempi di Cinecittà, ma a differenza di cinquant’anni fa non è

CRACO: DA PAESE FANTASMA A PARCO MUSEALE SCENOGRAFICO di Paola Baiocchi

Dopo una frana che lo ha interamente spopolato, il piccolo borgo della provincia di Matera ha avuto il coraggio di rialzarsi avviando una rivalutazione del proprio paesaggio che passa anche attraverso le produzioni cinematografiche 36

Craco è un paesino antichissimo della Basilicata, in provincia di Matera: è probabile che abbia offerto riparo ai coloni greci di Metaponto quando questi si spostarono sulle colline, forse per sfuggire alla malaria. Arroccato su un monte, nel 1963 ha dovuto essere evacuato a causa di un importante movimento franoso, diventando un paese fantasma, mentre si creava un nuovo insediamento a valle. L’essere spopolato e inserito in una natura spettacolare ha reso Craco interessante per l’industria cinematografica,

che qui ha ambientato molte produzioni negli anni Settanta, che coinvolgevano, però, poco la popolazione. A partire dal 2009 una nuova giunta di sinistra ha iniziato un impegnativo percorso di recupero e messa in sicurezza del vecchio borgo, che comincia a dare risultati: dal 2010 il centro storico di Craco è inserito nella lista dei monumenti da vedere del World Monuments Fund ed è possibile visitarlo tutto l’anno (quando piove vengono forniti gli ombrelli) con giovani guide locali. valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


film del territorio economia solidale

il basso costo a convincerle a venire qui, ma la qualità delle maestranze e il nostro gusto, uniti a paesaggi unici, che ci permettono di far fronte anche alla concorrenza di zone di produzione low cost come il Marocco o la Romania. Ron Howard – continua Stefania Ippoliti – girerà qui Inferno, tratto dal libro di Dan Brown, preferendo le quinte del vero Palazzo Vecchio di Firenze a una ricostruzione in studio. Un blockbuster come The Avengers 2, basato sui fumetti della Marvel, ha appena finito le riprese in Val d’Aosta, nello straordinario Forte di Bard».

BANDO ALLA CRISI IN BASILICATA Tra le Film Commission ce ne sono alcune attive da molti anni che hanno strutturato anche i cineporti, cittadelle della produzione con studios e tecnici, come la Fc Piemonte e quella pugliese. Ci sono delle assenze inspiegabili, come quella dell’Umbria, che ha avuto una Fc fino a poco tempo fa, che ha smesso l’attività, altre invece hanno appena debuttato. È il caso della Lucana Film Commission, che ha appena venti mesi, ma già un curriculum di tutto rispetto, come ci spiega il suo direttore, Paride Leporace: «In meno di due anni abbiamo avviato la struttura, trovato fondi europei (che non sono aggredibili dal patto di stabilità) e finanziato 71 nuovi progetti. Attraverso un’azione di sostegno alle imprese cinematografiche, che abbiamo chiamato “Bando alla crisi, in Basilicata puoi fare il film che vuoi” – continua Leporace –, sono arrivate 121 domande da tutta Italia. Finanzieremo 19 produzioni e 17 start up, che daranno lavoro a oltre 600 lucani. L’unico limite è che i finanziamenti siano spesi interamente sul territorio, per impiegare giovani del posto e costruire le basi di un sistema produttivo duraturo. La Basilicata

– conclude il direttore della Lucana Film Commission – che è una terra di emigrazione, grazie a questo bando, ha visto ritornare alcune professionalità che si erano stabilite altrove».

LA SEDUZIONE DELLA SETTIMA ARTE La seduzione della settima arte è tale che addirittura serie piene di pervertiti assassini, come Csi Scena del crimine, che dovrebbero scoraggiare chiunque a mettersi in viaggio per Miami o New York, hanno un effetto traino per il turismo nelle città che fanno da scenario ai casi sanguinolenti. «Il cinema è molto più efficace di qualsiasi spot pubblicitario, perché colpisce direttamente il sentimento», ci spiegano tutti i tecnici delle Film Commission che abbiamo interpellato. Ancora oggi 2.000/2.500 turisti americani arrivano tutti gli anni a Matera per visitare i luoghi dove è stato girato The Passion di Mel Gibson, mentre Lucca è una delle mete italiane più visitate dai turisti indiani grazie all’iniziativa di una piccola agenzia, Occhi di Ulisse, che ha fatto da tramite per localizzare nella cittadina toscana molte produzioni bollywoodiane. E ora sta lavorando con la Cina. Non tutte le Film Commission hanno azioni efficaci: un filmaker ci racconta di aver avuto molti problemi con la Fc siciliana «dove è facile prevedere a chi andranno a finire i finanziamenti» e di non aver mai ricevuto i fondi per un progetto, che pure si era aggiudicato. «Per contro – ci spiega Paolo Benvenuti, regista di film come Segreti di Stato e Puccini e la fanciulla – le Film Commission sono una buona opportunità, di ottenere finanziamenti, per i giovani registi che vogliono fare esperienza». ✱

http://commons.wikimedia.org

Il progetto del Parco museale scenografico di Craco si autofinanzia con i biglietti di ingresso, 70mila euro, che permettono di occupare fino a cinque giovani nel periodo estivo. «Ci sono stati 2.700 visitatori nel 2012, 4.800 nel 2013 e 8.000 da gennaio a novembre 2014. Per il 2019, quando Matera sarà capitale della cultura, ne aspettiamo molti di più», spiega il sindaco, Giuseppe Lacicerchia, ora al secondo mandato e con molti altri progetti avviati: come la Craco Art Movie Production, una società di produzione di audiovisivi, la Cittadella dell’energia e dell’innovazione, la raccolta differenziata dei rifiuti. Per capire pienamente la portata dello sforzo di riqualificazione di Craco, che poteva restare uno dei tanti paesini spopolati del valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

 LIBRI MARIO BENVENUTI VISTO DA PAOLO BENVENUTI di Michela Paparoni Edizioni Ets, 2014

Sud destinato a sgretolarsi per gli effetti del dissesto idrogeologico, bisogna conoscere le dimensione di Craco: 700 abitanti nel nuovo insediamento e 70/80 nel borgo storico, che è servito anche dalla banda larga perché le produzioni audiovisive ne hanno bisogno. Un piccolo successo ottenuto con pochissimo aiuto da parte delle istituzioni regionali e nazionali: «Ho un dossier – termina il sindaco – con la descrizione dei lavori necessari per terminare la messa in sicurezza della parte storica. L’ho già consegnato al governo Berlusconi, a quello Monti (con Letta non ho fatto in tempo) e ora è pronto per Renzi. Vedremo se ci prenderanno in considerazione». ✱ 37


economia solidale sapore dolce-amaro

Cibo, riforme, energia: l’incerto futuro dello zucchero di Matteo Cavallito

Tra dolci, bibite ed etanolo il fatturato del comparto vale quasi 70 miliardi di dollari. Ma a pesare sulle prospettive è il trend negativo dei prezzi. In attesa della prevista rivoluzione del mercato europeo

C

onsumi in aumento e produzione pressoché costante. Sono due dei principali trend del mercato dello zucchero, certificati dall’ultima analisi dello US Department of Agriculture (USDA). Due fenomeni che condizionano un mercato erede di una forte espansione che dura da decenni. Secondo la Fao, nell’ultimo mezzo secolo circa (1961-2013), la produzione complessiva di canna da zucchero e barbabietola, le due fonti principali del prodotto grezzo, è aumentata del 250% passando da 600 milioni a 2,1 miliardi di tonnellate. Ne deriva una produzione di zucchero che, nella stagione 2014/15, dovrebbe attestarsi sui 176 milioni di tonnellate, lo stesso livello dell’annata 2013/14. La diminuzione registrata in Brasile, tuttora primo produttore mondiale (vedi MAPPA pag. 28), sarebbe compensata dall’incremento in India, che, insieme alla Cina, traina la crescita dei consumi. A garantire la tenuta del commercio globale è l’aumento dell’export thailandese che compensa la ri-

PRODUZIONE TOTALE PIANTE 1961-2013 (barbabietola e canna da zucchero) fonte: fao (http://faostat3.fao.org), 2014

[dati in milioni di tonnellate] 250.000.000

+250%

2.130

200.000.000 150.000.000 100.000.000

MAL D’AFRICA 609

38

1961 1963 1965 1967 1969 1971 1973 1975 1977 1979 1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013

50.000.000 0

duzione del trading di Brasile e Messico. Pur senza particolari sussulti, quello dello zucchero resta un mercato solido. Il più recente rapporto di IBIS World, una società di ricerca di Melbourne, parla di un tasso di crescita medio annuale dello 0,4% nel quinquennio 2009-14 per un giro d’affari da 68 miliardi di dollari. Il comparto impiega complessivamente oltre 1,1 milioni di lavoratori distribuiti in più di 5.300 società tra le quali si segnalano, per importanza e influenza, tanto i maggiori produttori – come Associated British Food o Südzucker – quanto i principali compratori come Pepsi Co., Nestlé e soprattutto Coca Cola, valutata, per lo meno fino all’anno scorso, come il principale buyer globale del comparto (ma le cifre ufficiali non sono mai state rese note). In questo contesto spicca però il trend negativo del prezzo. A novembre, ha riferito un’analisi di Signal Financial Group, il valore di mercato dello zucchero ha registrato un calo su base annuale del 24,32%, la seconda peggior performance in un paniere di 40 elementi presenti nei più comuni portafogli finanziari (commodities, valute, titoli di Stato e indici di Borsa). A settembre, ha ricordato il Wall Street Journal, il prezzo dello zucchero su scala globale è calato fino a quota 13,5 centesimi di dollaro per libbra, il valore più basso dall’aprile 2009.

A pagare le maggiori conseguenze, secondo il WSJ, sarebbero i Paesi africani, incapaci di recuperare i grandi investimenti realizzati nel passato con l’obiettivo di sviluppare la produzione locale. Il continente importa ogni anno circa cinque milioni di tonnellate di zucchero, proveniente sopratvalori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


sapore dolce-amaro economia solidale

tutto da Brasile, Cina e India. Importazioni che risultano meno costose delle produzioni locali. Il nodo, nota ancora il quotidiano, sarebbe costituito dall’eccesso di offerta, conseguenza, a sua volta, dei grandi investimenti realizzati su scala globale alla fine dello scorso decennio in pieno boom dei prezzi delle commodities. Secondo l’International Sugar Organization, ripresa ancora dal quotidiano, la stagione 2014-15 dovrebbe segnare il quinto anno consecutivo di eccesso di produzione che caratterizzerà (e penalizzerà) tra gli altri tutti i principali esportatori africani come Uganda, Mozambico, Zambia e Malawi. Il quadro non appare confortante. Ma le valutazioni devono essere fatte con cautela. «I dati che ci arrivano sono spesso contrastanti», spiega a Valori Maurizio Mazziero, analista finanziario, esperto di commodities e fondatore della società di ricerca indipendente Mazziero Research. «In realtà, guardando alle stime e alle loro revisioni, oscilliamo tra surplus e deficit di produzione. I prezzi sono effettivamente bassi, ma dal momento che sono tuttora vicini ai costi di produzione è obiettivamente difficile pensare che possano calare ancora». Ma, al di là dei trend di prezzo, un altro fattore potrebbe incidere negativamente sulle prospettive africane nel settore. Gli investimenti degli anni passati, nota ancora il Wall Street Journal, erano stati motivati dalla promettente valvola di sfogo del mercato europeo che, ad oggi, si rifornisce per il 35% dell’import totale proprio dall’Africa. Ma nei piani di Bruxelles c’è la riforma del mercato prevista per il 2017 che, tra le altre cose, porterà all’eliminazione delle agevolazioni commerciali per lo zucchero africano. Creando ulteriori problemi ai produttori. Soltanto in Kenia, le cinque principali imprese a partecipazione statale del settore devono fronteggiare attualmente debiti complessivi per mezzo miliardo di dollari.

I PIANI UE L’Unione europea, dicono i dati della Commissione, è oggi il primo produttore mondiale di zucchero estratto dalla barbabietola (che rappresenta però solo 1/5 dello zucchero prodotto nel mondo) con quasi il 50% della quota globale. Una produzione concentrata soprattutto in Germania, Regno Unito, Francia e Polonia che si affianca al comparto della raffinazione dello zucchero di canna di cui la Ue resta uno dei principali importatori. Ad oggi quello europeo resta ovviamente un mercato regolamentato con una quota produttiva di 13,3 milioni di tonnellate – cui si aggiungono le 690 mila previste per i dolcificanti, un comparto particolarmente promettente (vedi ARTICOLO pag. 40) – divisa tra 19 dei 28 Paesi valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

ETANOLO: SETTORE IN CRESCITA, MA OCCHIO AL PETROLIO

Una ripresa certificata dalle cifre. È ciò che caratterizza il settore dell’etanolo prodotto dalla canna da zucchero, da sempre un comparto chiave per l’economia brasiliana. Tra il 2000-01 e il 2008-09, la produzione di etanolo in Brasile è aumentata del 160%. Nella stagione 2013/14, il livello della produzione ha toccato quota 27,5 miliardi di litri, pareggiando il picco di cinque anni prima. Nel Brasile centromeridionale (dove si concentra oltre il 90% della coltivazione di canna da zucchero), dicono i dati diffusi dall’União da Indústria de Cana-de-Açúcar – UNICA, quasi il 55% delle coltivazioni previste per il 2014/15 risulta orientato alla produzione di etanolo contro il 45% destinato allo zucchero. A incidere sul destino del comparto, tuttavia, sarà però il trend del mercato petrolifero. I due settori sono strettamente correlati dal momento che la convenienza all’investimento nei biocarburanti aumenta inevitabilmente con la crescita del prezzo dell’oro nero. Per questo l’attuale valore di mercato del barile (oggi siamo a attorno ai 75 dollari) potrebbe rappresentare un motivo di preoccupazione. «In media, parlando a livello di ipotesi, la soglia di convenienza per i biofuels si colloca attorno ad un prezzo del barile di petrolio compreso tra i 70 e gli 80 dollari», spiega Maurizio Mazziero, analista e fondatore della Mazziero Research. «Non va dimenticato, tuttavia, che quello dell’etanolo brasiliano è un settore molto efficiente a livello produttivo, il che suggerisce il possibile abbassamento della soglia critica a quota 50-60 dollari».

membri. Ma la prevista riforma della Politica Agricola Comune (Pac) 2014-2020 porterà, come noto, all’abolizione del regime delle quote. Un provvedimento che entrerà in vigore solo a partire dall’ottobre 2017, ma che, nota Patrick Pagani, direttore di Unionzucchero, l’associazione dei produttori italiani, «ha già avuto forti conseguenze sul mercato comunitario e nazionale con una drastica riduzione dei prezzi di vendita». Nel settore, spiega a Valori, «è già iniziata una forte competizione tra gli operatori e in particolare un incremento della produzione da parte di quei Paesi che per condizioni climatiche si trovano avvantaggiati nella produzione bieticola, Francia e Germania in primis». Uno scenario, aggiunge, che «prefigura l’aumento della posizione di forza di un minor numero di operatori con l’evidente risultato della crescita di un oligopolio». In attesa della riforma restano aperte le prospettive associate alle quote, a partire dalla cessione della produzione in eccesso (il cosiddetto “zucchero fuori quota”) ai comparti extra alimentari. Una destinazione che chiama in causa soprattutto i biofuels, protagonisti di un settore tuttora in salute (vedi BOX ). «A livello europeo le previsioni per la prossima campagna indicano un record di produzione fuori quota oltre 6 milioni di tonnellate con un consumo stabile di 3 milioni», spiega ancora Pagani. «È evidente che in un contesto comunitario si dovranno trovare delle destinazioni per tale ampia produzione che altrimenti andrebbe a gravare sugli stock». Con inevitabili conseguenze in termini di costi. ✱ 39


economia solidale sapore dolce-amaro

Sweet dreams (are made of Stevia) di Matteo Cavallito

Il mondo, dicono gli analisti, consumerà in futuro una crescente quantità di dolcificanti. Un sogno per gli operatori del comparto. Che puntano da un po’ su una promettente pianta sudamericana

U

n affare da 14,4 miliardi di dollari entro il 2019, contro gli 11,5 odierni (+25,2%). È questo il dato più significativo associato al mercato dei prodotti sostitutivi dello zucchero, i cosiddetti dolcificanti, certificato da un rapporto reso noto a luglio dalla società di consulenza MarketsandMarkets. Una crescita che caratterizzerà una gamma di esemplari che spazia dalla promettentissima Stevia al contestatissimo Aspartame, passando per i prodotti come sorbitolo, saccarina, xilitolo e simili, in un mercato che resterà concentrato in tre macro aree: il Nord America, cui spetterà praticamente il controllo di mezzo comparto a livello globale (49%), l’area Asia-Pacifico (26,4%) e l’Europa (21,1%).

PIÙ NATURA, MENO SINTESI Tra i protagonisti dell’espansione non mancheranno i cosiddetti dolcificanti naturali (estratti cioè dalle piante) capaci, ha notato di recente un’indagine della Reuters, di sottrarre sempre maggiori quote di mercato ai loro omologhi artificiali (creati cioè attraverso sintesi di laboratorio), tuttora capaci di generare un giro d’affari da 1,3 miliardi di dollari all’anno. L’interesse degli operatori si concentra in modo particolare sulla Stevia,

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pianta diffusa soprattutto in Paraguay e in Brasile e introdotta negli Stati Uniti a partire dal 2008 quando la Food and Drug Administration (FDA) ne ha approvato in via definitiva l’utilizzo come dolcificante. Nel 2008, sostiene un’indagine del Natural Marketing Institute ripresa dalla Reuters, l’utilizzo della Stevia come dolcificante interessava il 4% dei consumatori americani. Nel 2013 il dato era salito al 17%. Ad oggi, rileva ancora la Reuters, la Stevia compare soltanto nell’1,5% dei nuovi prodotti alimentari lanciati negli Usa nel corso del 2014 ma le sue prospettive di crescita sono notevoli. Secondo Euromonitor International, citata ancora dalla stessa agenzia, i consumi di Stevia negli Usa raggiungeranno quota 597 tonnellate nel 2018 contro le 14,4 del 2008. Nel medesimo periodo il consumo di aspartame calerà di un terzo scendendo a quota 3.243 tonnellate nel 2018. Alla fine del 2011, la Stevia ha ricevuto anche il nulla osta dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) facendo così il suo ingresso nel mercato continentale. Ma le prospettive più interessanti, per la Ue, sembrano riguardare soprattutto l’isoglucosio, un dolcificante prodotto dai cereali il cui utilizzo, ha sostenuto la Commissione europea in un report diffuso a gennaio 2014, dovrebbe passare dalle attuali 600 mila a 2,2 milioni di tonnellate del 2023. «Con la fine delle quote come per lo zucchero, anche per l’isoglucosio è ragionevole pensare che vi possa essere uno sviluppo e incremento di produzione», rileva Patrick Pagani di Unionzucchero. Nel prossimo decennio, sostiene ancora la Commissione, i consumi annuali di zucchero all’interno della Ue dovrebbero calare a 17,1 milioni di tonnellate, contro gli attuali 17,8 milioni. ✱ valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


armi controverse economia solidale

Chi produce ancora mine anti-uomo e cluster bomb? I

l commercio e l’uso di armi controverse nel mondo sono monitorati solo in parte dalle Nazioni Unite. E le convenzioni internazionali non coprono che una quota della produzione. A spiegarlo è uno studio dell’istituto tedesco Oekom Research che nei mesi scorsi ha pubblicato un rapporto che denuncia la fabbricazione di armamenti in virtù di “vuoti normativi” o di aggiramenti delle leggi esistenti. Benché esistano accordi internazionali che vietano la produzione di alcuni tipi di ordigni, secondo le conclusioni del think tank di Monaco di Baviera, circa 250 aziende nel mondo non li rispettano. «La maggior parte di tali compagnie – si legge nel report – è negli Stati Uniti (49). Al secondo posto la Francia (16), al terzo la Russia (14). Esistono poi ragionevoli sospetti sul fatto che 11 imprese in Germania siano coinvolte in tali produzioni. Stesso numero in Cina, Regno Unito e Israele». A preoccupare è il fatto che le munizioni cluster (considerate particolarmente disumane. “Particolarmente”, perché è in ogni caso difficile definire “umana” un’arma) siano le più gettonate in questa “zona grigia” dell’industria militare. Tra queste figurano le bombe a grappolo, che prima di toccare terra si dividono in decine di altri ordigni più piccoli, molti dei quali rimangono inesplosi, il che le rende assimilabili alle mine anti-uomo. Ben 106 aziende potrebbero averne “sfornati” numerosi esemplari. Altre 63 si sarebbero concentrate sulle armi nucleari, oppure su alcune “componenti-chiave” di esse (9, in particolare, sono nel mirino per possibili produzioni a base di uranio), mentre 46 produttori sono sospettati di fabbricare mine anti-uomo e 62 altri tipi di ordigni simili (come le mine anti-carro). «Tra le imprese implicate – si legge nello studio – figurano anche compagnie note e che emettono obbligazioni. Molti investitori le escludono dai loro portafogli, ma la mancanza di trasparenza rende difficile la loro identificazione». valori / anno 14 n. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

USA “PRIMI DELLA CLASSE”

di Andrea Barolini

I risultati della ricerca tedesca ricalcano i dati sulle spese militari dei singoli governi. Secondo l’ultimo rapporto dell’International Institute for Strategic Studies (The Military Balance 2014), sono gli Stati Uniti i primi nella classifica dei finanziatori: ben 600 miliardi di dollari. La Cina è seconda con 112 miliardi; la Russia terza con 68. A seguire Francia (57 miliardi), Giappone (51), Germania (44) e l’India (36). L’Italia è al tredicesimo posto con 25 miliardi di dollari. I fondi pubblici non sono necessariamente utilizzati per le armi controverse, ma quando ci sono così tanti soldi, il rischio c’è. Il centro di ricerca svedese SIPRI, ad aprile scorso, ha aggiunto una buona notizia: le spese militari nel mondo nel 2013 sono scese (ma la cifra complessiva è altissima, 1.750 miliardi di dollari). A trainare il calo sono stati proprio i tagli imposti negli Usa. In controtendenza Cina, Russia e Arabia Saudita, tra i 23 Paesi che hanno più che raddoppiato i fondi destinati al settore militare dal 2004. «L’aumento delle spese nei Paesi emergenti e in via di sviluppo – ha sottolineato uno degli autori – prosegue. In alcuni casi è dovuto a una necessità di sicurezza, ma spesso si tratta di vere corse agli armamenti su scala regionale». ✱

Un rapporto dell’istituto tedesco Oekom Research denuncia: 250 aziende nel mondo producono armi controverse violando gli accordi internazionali

COMPAGNIE SOSPETTATE DI FABBRICARE ARMI CONTROVERSE PER PAESE fonte: oekom research

[dati in milioni di tonnellate]

Per tipi di armi

Per Paesi

Munizioni in uranio Mine anti-uomo

Altri tipi di mine 62

Armi nucleari

2

46 Munizioni a grappolo

63

USA Francia 3 Russia 4 Cina 5 Germania 6 Regno Unito 7 Israele 8 India 10 Polonia 11 Romania 12 Corea del Sud 13 Egitto

11 12

1

9

106

10

8

9

1

49

9

8

9

7

11 6

7 6

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5

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NEWS

L’Italia innova in verde

Negli ultimi cinque anni in Italia sono state presentate 2.210 domande di brevetto nel settore green, circa il 9,5% delle domande totali. Il verde si dimostra uno dei comparti

più innovativi in Italia. In particolare, oltre il 70% delle domande di brevetto presentate da aziende italiane green riguarda tecnologie per la produzione energetica da fonti rinnovabili, sistemi per il controllo dell’inquinamento e il risparmio energetico, biocarburanti, mobilità sostenibile, isolamento termico in edilizia, energia eolica, circuiti per la generazione di energia.

VALORITECA  LIBRI

NUMERI

L’ECONOMIA ECOLOGICA SPIEGATA AGLI STUDENTI

30 milioni

Quando era stata pubblicata la prima edizione, 17 anni fa, sembrava un libro per visionari: dimostrare la possibilità (e la sostenibilità) di unire crescita economica e tutela degli ecosistemi. Quel testo – An introductions to Ecological Economics (CRC Press) di Robert Costanza, padre del GDP (Genuine Progress Indicator), tra i più utilizzati indicatori alternativi al Pil – ora è diventato un punto di riferimento per quanti sono convinti della necessità di coniugare sviluppo umano e ambientale. Tanto da farlo entrare in università e master in una seconda edizione rinnovata e ampliata.

La richiesta di risarcimento da parte della Regione Toscana alla Costa per danni all’immagine. Lo ha dichiarato il presidente della Regione, Enrico Rossi, ascoltato nell'ambito del processo per il naufragio della Costa Concordia, procedimento nel quale la Regione Toscana è parte civile.

MININEWS

MININEWS

Mettiamoci in gioco

“Liberi dal gioco d’azzardo. Con l’azzardo ti giochi la vita”: è lo slogan della campagna di comunicazione lanciata il 14 novembre da “Mettiamoci in gioco”, la Campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo promossa da una lunga serie di organizzazioni della società civile, enti locali, associazioni per la tutela dei consumatori, sindacati. www.mettiamociingioco.org

Ambiente, Valori c’è

L’informazione ambientale sui media nel 91% dei casi passa per le pagine interne. Va in prima pagina solo “grazie” a eventi drammatici legati, per esempio, al dissesto idrogeologico del Paese. Così nel 1° Rapporto dell’Osservatorio Eco-Media, presentato a novembre al Sustainability International Forum. Valori c’era: col direttore Andrea Di Stefano che ha ricevuto il Premio Pentapolis Giornalisti per la Sostenibilità.

 COLLABORAZIONI

Valori e l’Università Sapienza di Roma insieme per il giornalismo di domani

Valori sarà media-partner, per un triennio, dell’Università Sapienza di Roma, nell’ambito di Bejour (Becoming a journalist in Europe: a bridge between traditional and new media), modulo didattico dedicato alla comunicazione dell’Unione 42

europea, cofinanziato dal programma “Erasmus+” nell’ambito delle “Azioni Jean Monnet”. Il progetto è condotto sotto la responsabilità della professoressa Maria Romana Allegri, docente di Diritto dell’Ue, e coinvolge anche altri docenti

e tutor, tra cui i giornalisti di Valori Andrea Barolini ed Emanuele Isonio. Ogni mese le nostre pagine ospiteranno alcuni dei lavori prodotti degli studenti, che avranno così l’opportunità di acquisire competenze utili alla loro futura professione. valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


fotoracconto 04/04

Una sartoria e una serie di appuntamenti gastronomici fanno del carcere di Volterra (Pisa) una vera gemma del panorama detentivo italiano. Due progetti in piena attività da parecchi anni. Il primo ha permesso di costruire nella casa di reclusione toscana una piccola industria tessile, che produce camici, pigiami e lenzuola, occupando una settantina di detenuti: tutti con condanna definitiva e tra loro anche qualche ergastolano. L’attività lavorativa più grande tra le mura del carcere.

Accanto ad essa, il programma di otto serate gastronomiche: le “Cene galeotte” (nelle foto in questa pagina), che si ripetono ogni anno da nove anni. I detenuti collaborano con grandi chef e nel frattempo ottengono una competenza che, in sedici casi finora, si è tradotta in un impiego nei ristoranti del luogo, una volta scontata la pena. www.cenegaleotte.it

valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

ARCHIVIO CARCERE DI VOLTERRA

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INTERNAZIONALE

IL SOGNO INGLESE DI UN’UNIONE “À LA CARTE”

L

di Emanuele Isonio

Il premier Cameron presenta una serie di richieste per ridurre il peso della Ue nelle decisioni nazionali. Un rischio per l’integrazione comunitaria, ma anche una strategia anti-Ukip e per contare di più nelle decisioni del Vecchio Continente valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

a notizia è passata tutto sommato sotto silenzio fra i media italiani. Ma in patria, fra i confini di Sua Maestà britannica, ha avuto tutt’altra eco. E racconta di un primo ministro assai determinato nell’intavolare una trattativa con la Commissione europea per ottenere corpose modifiche alle regole che legano il Regno Unito all’Unione. Una serie di proposte superate nella copertura mediatica italiana dall’annuncio shock di David Cameron di un referendum per uscire dalla Ue, che verrebbe indetto se il leader conservatore uscirà vittorioso dalla delicata tornata elettorale in programma nella primavera 2015. Ma quelle proposte, presentate al presidente uscente Barroso a pochi giorni dal cambio della guardia, se accettate, potrebbero avere sul futuro dell’Europa un effetto paradossalmente più dirompente di quanto possa produrne l’uscita di uno Stato membro, per quanto influente esso sia. 45


internazionale dentro o fuori dalla Ue

UN ATTACCO AL CUORE DELL’EUROPA Il pacchetto di proposte è ampio ed esula dall’ambito strettamente economico. L’obiettivo finale è però chiaro: allentare (e di molto) gli obblighi che la legislazione comunitaria impone. Clausole d’esclusione da eventuali integrazioni future, maggiori poteri ai governi nazionali, diritto di disapplicare le norme europee ritenute eccessive, rifiuto delle “interferenze” sulla gestione dei diritti umani, limitazioni alla libertà di spostamento dei cittadini comunitari verso la Gran Bretagna in cerca di lavoro o per motivi sanitari (vedi SCHEDE ). Per ora solo idee e suggestioni. Ma sul tetto ai lavoratori esteri c’è già qualcosa di più e il premier Cameron dovrebbe presentare a breve un piano per fissare una quota annua di National Insurance Number concedibili ai cittadini Ue: un codice indispensabile nel Regno Unito per essere assunti e ricevere contributi previdenziali e sanitari. Un chiaro attacco alle fondamenta stesse dell’Europa: «Se le proposte del governo inglese dovessero concretizzarsi – spiega Maria Romana Allegri, docente di Diritto dell’Unione europea all’Università La Sapienza di Roma – le istituzioni europee non potranno che dichiararle irricevibili. Per un principio generale, perché l’appartenenza alla Ue impone il rispetto di tutto l’acquis comunitario (l’insieme dei diritti, obblighi e norme giuridiche europee in vigore, ndr). Ma anche per non crea-

re un pericoloso precedente. Se passasse l’idea che ogni Stato può scegliere quale parte delle regole Ue non rispettare, si aprirebbe la strada a un’Unione à la carte». In poche parole: l’anticamera della fine del processo d’integrazione. «E poi – prosegue la professoressa Allegri – eventuali concessioni non le decide la Commissione, ma possono scaturire solo da modifiche dei trattati approvate da conferenze intergovernative e ratificate da tutti gli Stati membri». E l’Italia difficilmente lo farebbe.

GLI INTERESSI DELLA CITY Ma il fatto che le richieste a Bruxelles siano state rese pubbliche poche settimane prima del cambio della guardia tra Manuel Barroso e Jean Claude Juncker, con una Commissione ormai ai titoli di coda, fa sospettare che gli obiettivi concreti del governo conservatore fossero altri: sul fronte interno guardarsi le spalle a destra dall’avanzata dell’Ukip. E, sul fronte esterno, limitare il potere delle istituzioni europee senza arrivare allo strappo definitivo. «Gli inglesi hanno sempre avuto un approccio molto pragmatico nei confronti della Ue: la loro permanenza è dettata da un mero calcolo costi/benefici» spiega Raffaele Marchetti, docente di Relazioni internazionali all’Università Luiss di Roma. Nessuna scelta ideale, solo una valutazione di convenienze. «Al di là delle dichiarazioni pubbliche, le élite inglesi sanno che essere membri dell’Unione conviene sia per gli

GLI OTTO DIKTAT DI DOWNING STREET

1 3 46

Autorizzazione a essere esclusa dai futuri passi in avanti verso un’Unione sempre più profonda.

FUTURO DELL’UNIONE Aumento dei poteri dei governi nazionali e contestuale riduzione dei poteri del governo comunitario.

POTERI DEGLI STATI

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scambi economici sia per mantenere la centralità della City. Non a caso Cameron ha voluto che il commissario ai Servizi finanziari fosse un inglese». Minacciare l’uscita servirebbe quindi solo ad attirare consensi in Patria. L’elenco di richieste aumenta invece il potere contrattuale al momento di trattative ritenute cruciali. A partire dalla delicata questione dell’extrabudget per finanziare l’Unione europea: la quota inglese doveva essere di 2,1 miliardi di euro da versare subito. Londra pagherà invece 850 milioni di sterline. A rate.

RECIPROCHE CONVENIENZE C’è poi il fronte, altrettanto cruciale, della politica internazionale e del rapporto con l’altro lato dell’Atlantico. «La Gran Bretagna – prosegue Marchetti – è un canale di trasmissione delle esigenze Usa. Anch’essi la vogliono nella Ue per avere un alleato di ferro nelle istituzioni europee». Una sorta di testa di ponte che possa influenzare da dentro le scelte strategiche del Vecchio Continente. E forse si assicuri che non si rafforzi eccessivamente. D’altro canto, avere il Regno Unito fra gli Stati membri conviene anche alla Ue: «Con l’uscita britannica – spiega Marchetti – l’Unione perderebbe la quarta potenza europea, cruciale dal punto di vista politico, economico, militare. L’unica ad avere testate nucleari, oltre la Francia, e con un seggio permanente all’Onu.

Autorizzazione a bloccare i viaggi nel Regno Unito di cittadini europei che presumibilmente vogliono solo sfruttare il migliore sistema di welfare state.

TURISMO SOCIALE Concedere un potere di “veto” a un gruppo di Stati che voglia rifiutare di applicare parti di legislazione Ue se le considera indesiderate.

NORME EUROPEE valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


dentro o fuori dalla Ue internazionale

Un partner troppo forte per lasciarlo andare». Il matrimonio, pur complesso e spigoloso, pare quindi destinato ad andare avanti per reciproco interesse. Le concessioni future a Downing Street dipenderanno però da quanta autorevolezza saprà mostrare il governo europeo: «Barroso per dieci anni ha assecondato molto le decisioni intergovernative, fin quasi a trasformare la Commissione europea in un segretariato generale del Consiglio europeo» ha ammesso deluso Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari comunitari, davanti agli studenti del corso di formazione giornalistica “Bejour” organizzato a La Sapienza di Roma. «Avere una Commissione forte – aggiunge Allegri – significa maggiore capacità di contrastare con decisione le richieste più irricevibili per il futuro dell’integrazione comunitaria». ✱ I COSTI DEL DEFICIT D’INTEGRAZIONE

FONTE: SOCIAL INTEGRATION: A WAKE-UP CALL. SOCIAL INTEGRATION COMMISSION 2014

Disoccupazione a lungo termine

Danni per demansionamento e mancate carriere

1.5

0.7

Spesa per l’assistenza sociale

0.7

Danni cardiovascolari Suicidi

1.2

[valori in miliardi di sterline]

5 7

1.7

I PERICOLI DI UNA “SOCIETÀ FRATTURATA” di Emanuele Isonio

Una ricerca indipendente quantifica in sei miliardi di sterline i danni economici causati dalla mancata integrazione tra i diversi gruppi sociali Sei miliardi di sterline buttati al vento ogni anno a causa della disintegrazione sociale a cui è sottoposta la Gran Bretagna dai tempi della signora Thatcher. E il pericolo che in futuro la terra che per prima ha conosciuto diritti civili e democrazia in Europa si trasformi in un insieme di comunità sgretolato, in cui futuro e carriere sono determinati non dai meriti ma dal ceto d’appartenenza: uno scenario degno dei film di Ken Loach, che è anche la fotografia, impietosa, contenuta in un recente rapporto della Social Integration Commission, organismo di ricerca indipendente secondo il quale «senza azioni immediate per approfondire l’interazione e i legami tra i diversi gruppi economici, etnici e generazionali, il Paese è destinato a diventare una società fratturata». Tante linee di faglia, prodotte da differenze di reddito, formazione e ambienti di vita, che di fatto impedirebbero, a chi appartiene a una classe più bassa, di aspirare a salire la scala sociale. Le probabilità di ottenere i lavori migliori, secondo il rapporto, sarebbero sempre più legate alla cerchia di persone che si conosce e frequenta piuttosto che alle proprie capacità e competenze. Non solo un problema di aspirazioni frustrate e di mobilità sociale bloccata. Ma anche un problema economico quantificabile sommando i soldi spesi per programmi assistenziali, sostegno ai disoccupati di lungo periodo, danni da mancate carriere. E ad essi si aggiungono i costi sanitari associati a tale condizione: i ricercatori hanno infatti calcolato che la perdita di fiducia nel futuro a livello lavorativo comporta un aumento di problemi cardiovascolari, obesità, malattie nervose, e, nei casi estremi, un incremento dei suicidi (vedi GRAFICO a sinistra). «Se non romperemo i muri che ci dividono – ammonisce Matthew Taylor, presidente della Commissione – le comunità ghetto diventeranno la norma diffondendo sfiducia e un aumento delle tensioni sociali». ✱

Limiti al diritto di immigrazione negli attuali Stati Ue per i cittadini dei nuovi Stati che si uniranno all’Unione nei prossimi anni.

NUOVI STATI MEMBRI Riduzione della regolamentazione Ue in specifici settori e fine delle “interferenze eccessive” della Ue negli affari interni di uno Stato.

CONTROLLI UE valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

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Fine delle “inutili interferenze” della Convenzione europea dei diritti umani sulla legislazione inglese.

DIRITTI UMANI Limitazione del diritto dei cittadini Ue a migrare nel Regno Unito per cercare lavoro e possibilità di fissare quote per stabilire quanti lavoratori comunitari sono accettabili.

LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE 47


internazionale rinnovo del congresso usa

Il presidente dimezzato e l’agenda mondiale di Paola Baiocchi

Dopo le elezioni di medio termine i repubblicani hanno conquistato la maggioranza del Senato e rafforzato quella che già detenevano alla Camera. Il presidente Obama sarà ostaggio di questo nuovo scenario?

G

eneralmente poco sentite dagli elettori americani, le elezioni di medio termine edizione 2014 hanno toccato gli estremi della minima percentuale dei votanti e del massimo storico della spesa sostenuta: 4 miliardi di dollari spesi e solo il 36,5%, degli elettori registrati nelle liste, che si è recato alle urne contro il 40,9% delle midterm del 2010. Bisogna ricordare che per votare negli Usa bisogna volontariamente registrarsi, dichiarando l’appartenenza politica, un meccanismo che riduce il numero degli elettori. La vittoria è andata ai repubblicani, che hanno ora la maggioranza nei due rami del Congresso: al Senato hanno conquistato sette nuovi senatori che portano a 52 il totale dei seggi detenuti. Ma il partito dell’elefantino aggiunge anche 12 nuovi rappresentanti alla Camera, rafforzando così la maggioranza conquistata nel 2012 e arrivando a 238 deputati repubblicani a fronte di 164 democratici. Nella tornata elettorale che ha visto anche 147 referendum locali su argomenti come l’uso delle armi, l’aborto e il salario minimo (vedi BOX , sono stati rinnovati pure 36 governatori. L’onda rossa dei candidati repubblicani ha conquistato una serie di primati, come il West Virginia, un distretto dove non vincevano da 30 anni, o la prima donna dell’Iowa (nonché reduce) eletta al Senato: il tenente colonnello Joni Ernst, che ha vinto con una campagna elettorale tutta giocata sui doppi sensi basati sulla sua giovanile attività di castratrice di maiali: «A Wahington li faremo grugnire» e «sapremo dove tagliare il porco (nel senso della spesa pubblica)». Da brividi. 48

LA DISILLUSIONE DEI DEMOCRATICI Dalla lettura dei dati, tuttavia, la débâcle dei democratici, definita dai commentatori statunitensi alluvionale, si delinea piuttosto come una colossale disillusione nei confronti del primo presidente di colore, che aveva acceso grandi speranze di rinnovamento nel 2008, ma non ha portato sostanziali differenze nella qualità della vita del suo elettorato di riferimento, fermo anzi a un potere d’acquisto pari a un terzo di quello del 1950. Donne single, afro-americani, ispanici e Millennias (i giovani elettori tra i 18 e i 29 anni) non si sono mobilitati in massa come nelle elezioni che hanno portato Barack Obama per la prima volta alla presidenza: i democratici con una bassa “propensione al voto” semplicemente non sono andati a votare. Mentre i repubblicani hanno riconfermato la stessa affluenza del 2010, con le stesse percentuali tra alta e bassa propensione al voto. Secondo i dati pubblicati dall’opinionista conservatore Andrew Breitbart, a livello nazionale nel 2008 l’affluenza degli afro-americani aveva raggiunto la cifra record del 65% degli iscritti alle liste, superata dall’altro record del 66% nel rinnovo del 2012. Ma nelle midterm del 2014 l’affluenza degli afro-americani è crollata al 35%, dal 39% del 2010. Le donne non sposate, che hanno comunque per la maggioranza sostenuto i democratici, sono diminuite dal 23% del 2012 al 21% di questo turno. Gli ispanici, che erano il 10% di tutti gli elettori nel 2012, sono scesi all’8% in questa tornata elettorale. I Millennials, che nel 2012 erano il 19%, hanno risposto con un tiepido 13% alla chiamata alle urne, nonostante nel piatto ci fossero argomenti che si pensava dovessero riguardarli molto da vicino, valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


rinnovo del congresso usa internazionale

come l’aumento del salario minimo e la legalizzazione della marijuana.

QUALE SARÀ LA POLITICA INTERNA? Ora la domanda centrale per gli osservatori politici è se queste elezioni di passaggio per gli Stati Uniti sono già un test per l’elezione nel 2016 del prossimo presidente e che influenza avranno sul resto del mondo le scelte del Congresso con la maggioranza opposta al partito del presidente: in altre parole, per i prossimi due anni Obama sarà un presidente debole e tenuto in scacco? Non obbligatoriamente, perché il presidente ha comunque il potere di veto per bloccare le leggi varate dal Parlamento e ha lo strumento dell’ordine esecutivo, che gli potrà permettere di decidere in alcune materie senza consultarsi con il Congresso. L’anteprima di quello che potrà succedere si è manifestata con l’ordine esecutivo firmato a novembre sugli immigrati, che ha ridotto il numero di chi non ha il permesso di soggiorno. Un surrogato della riforma epocale promessa da Obama, ma una mediazione che riconquisterà soprattutto l’elettorato ispanico e allo stesso tempo asseconderà il Big Business che vuole frontiere aperte per avere manodopera che accetti i bassi salari, che ormai i lavoratori statunitensi preferiscono rifiutare. Si apre così uno scenario in cui il presidente uscente potrebbe rialzare la posta dell’iniziativa politica, costringendo i repubblicani a scelte impopolari, tirando la volata del futuro candidato che, per parte democratica, dovrebbe essere una donna: Hillary Clinton o Elizabeth Warren. Dopo la carta razziale l’obiettivo di genere potrebbe far correre l’elettorato democratico verso una nuova speranza. Mentre con questa maggioranza è impossibile che passi la riforma del salario minimo che era stata bloccata dagli stessi democratici al Senato, ed è ora stata votata in diversi referendum locali. L’Obamacare, invece, la più consistente revisione del sistema sanitario statunitense dopo l’introduzione del Medicare e Medicaid del 1965, dovrebbe restare al riparo dagli attacchi repubblicani perché non hanno abbastanza voti per scavalcare il veto presidenziale, ma anche perché è una riforma molto apprezzata dal ceto medio. Il presidente Obama avrà infine le mani più libere sui due trattati commerciali a cui sembra tenere molto – quello Transatlantico (Ttip) e quello Transpacifico (Ttp) – perché si sono ridimensionate le due ali del Parlamento che lo osteggiavano, il Thea Party e i più estremisti dei democratici. valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

POTERI FORTI IN EQUILIBRIO Insomma se a questo quadro aggiungiamo che l’ennesimo Bush, George P. (Prescott, come il bisnonno che finanziava i nazisti), ha ottenuto il mandato di quattro anni per amministrare i terreni pubblici e i diritti minerari dello Stato del Texas, dove in molte contee sono partiti referendum contro l’estrazione dello shale gas e se consideriamo che viene data come già approvata la costruzione della pipeline Keystone Xl, l’America che verrà sembra all’insegna dell’equilibrio tra i poteri forti. Guardando i sondaggi del Pew Research Center sulle priorità degli elettori democratici e quelli repubblicani, si trova un solo punto di convergenza: la politica interna. Gli Stati Uniti vogliono “pensare ai propri affari e lasciare che gli altri Paesi facciano come credono”. «Finora – dice a Valori l’economista Francesco Schettino – gli Stati Uniti sono stati abilissimi a scaricare sull’Europa gli effetti della crisi e a portare avanti una serie di guerre surrogate», ma si terranno al di fuori da interventi più diretti? Su questo ha espresso la sua opinione Ian Bremmer, presidente e fondatore di Eurasian Group, società di ricerca del rischio politico: «A meno che l’Isis non compia un attacco su vasta scala sul territorio americano, il prossimo presidente, democratico o repubblicano, si guarderà bene dal chiedere al popolo americano di affrontare una nuova guerra in Iraq». E, come sappiamo, il casus belli nella storia americana è stato più volte fabbricato in casa. ✱

I REFERENDUM DI MIDTERM

Tra i tanti referendum su cui gli americani sono stati chiamati a esprimersi ci sono stati quelli sull’aborto: in North Dakota e Colorado gli elettori si sono detti contrari a considerare il feto una persona fin dal concepimento. Mentre nel Tennessee gli elettori hanno votato a favore di un emendamento che creerà le basi per future restrizioni sull’aborto. L’aumento del salario minimo è stato votato in cinque Stati: in Alaska vittoria dei sì per l’aumento del salario minimo, che passerebbe dagli attuali 7,75 dollari all’ora a 8,75 dollari nel 2015 e a 9,75 dollari nel 2016. Positivo anche il responso in Arkansas, dove il 65,4% degli elettori ha votato a favore dell’aumento del salario minimo a 7,50 dollari nel 2015, a 8 dollari nel 2016 e 8,50 nel 2017. Stesso discorso in Nebraska, dove si passerà da 7,25 dollari a 8 nel 2015 e a 9 dollari nel 2016. Anche gli elettori del South Dakota hanno votato a favore dell’aumento del salario minimo a 8,50 dollari all’ora il prossimo anno. In Illinois, invece, se ne riparlerà nel 2015: stavolta agli elettori è stato chiesto soltanto un parere a proposito di un aumento: il 66,7% si è espresso a favore. Oltre a referendum sulla caccia che hanno raggiunto ovunque la maggioranza, in Oregon è passato l’uso ricreativo della marijuana, in Alaska il possesso di cannabis per uso personale, mentre la Florida ha bocciato la legalizzazione della marijuana a scopo terapeutico. [Pa.Bai.] 49


internazionale passi avanti

Bangladesh la lunga tessitura di Corrado Fontana

Dal crollo del Rana Plaza il mondo della moda è stato costretto a confrontarsi con i temi della responsabilità (e del risarcimento delle vittime). Da una tragedia è forse nato un modello esemplare

I

l punto zero è sempre lo stesso: complesso Rana Plaza, città di Dhaka, capitale del Bangladesh. Il collasso del 24 aprile 2013 trasformò in macerie un edificio con laboratori tessili e migliaia di lavoratori: 1.138 vittime, 2.500 feriti, spesso rimasti disabili. Prima di Rana Plaza c’erano state altre tragedie(vedi BOX a pag. 52) passate sotto silenzio, ma da quell’aprile la pressione dei media e dell’opinione pubblica ha costretto molti grandi marchi della moda e i loro intermediari, che si avvalgono di centinaia di fornitori e subfornitori

E ORA CHI PAGA? di Corrado Fontana

La portavoce di Abiti Puliti descrive una filiera in cambiamento, ma servono risorse per sanare un settore insicuro per chi lavora. E accusa le imprese italiane «Le aziende sostanzialmente non vogliono vedere per iscritto da nessuna parte la loro ammissione di responsabilità in simili tragedie, mentre accettano più facilmente la forma della contribuzione volontaria. Tuttavia anche questo è un passo importante verso un’assunzione di responsabilità». Deborah Lucchetti, che rappresenta l’emanazione 50

bengalesi, a riconoscere che esiste un problema di responsabilità da assumere e di vittime da risarcire. Non solo. I maggiori beneficiari della filiera, dalle griffe più conosciute (Adidas, Puma, Benetton, H&M, Abercrombie & Fitch) ai colossi della grande distribuzione (Auchan, Tesco, Bonmarché, Coin/OVS) ai cosiddetti buyers (Primark, Inditex, KIK), stanno accettando la necessità di ristrutturare per intero un settore industriale chiave per il Bangladesh (vale circa l’80% delle sue esportazioni).

italiana dell’internazionale Clean Cloths Campaign, si mostra realista, cogliendo il potenziale positivo di un panorama comunque mutato. E sottolinea le novità dell’“Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici in Bangladesh”: «Non era mai accaduto un simile processo di ispezione coordinato, centralizzato e terzo rispetto alle aziende committenti. Normalmente ogni società si muove per conto proprio e spesso i disastri avvenuti, che sia il collasso di un edificio o l’incendio, si scoprono collegati a ispezioni svolte da enti commerciali che hanno rapporti unilaterali con il committente che li paga». Un modello che può essere esportato? È un accordo storico che reca con sé delle novità importantissime che possono fungere da modello replicabile, in grado di condizionare le relazioni industriali del futuro. Incorporando l’elemento della trasparenza,

esibisce per la prima volta una lista complessiva di fornitori e un elenco di committenti, pur non collegando il singolo fornitore al singolo committente. Ma è ambivalente perché parliamo di un accordo firmato dalle compagnie multinazionali sotto la pressione dell’opinione pubblica: mantenerlo e portarlo a compimento è un’operazione difficile che va monitorata nel tempo. E chi paga questa ristrutturazione? Il contributo assegnato ai marchi committenti è, in particolare, quello di accompagnare e sostenere i propri fornitori finché non si siano messi in regola, innanzitutto non interrompendo le commesse né rilocalizzandole altrove, e fornendo un sostegno finanziario. Chiaramente, i fornitori che non daranno seguito alla soluzione dei problemi andranno espulsi dalla filiera dei marchi aderenti all’Accordo. valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


passi avanti internazionale

MODELLI DA ESPORTARE Meno di un mese dopo la tragedia di Dhaka dieci sigle sindacali, locali e internazionali, un pugno di Ong in qualità di osservatori e oltre 180 soggetti imprenditoriali del tessile mondiale da 21 Paesi diversi hanno firmato l’“Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici in Bangladesh”. Non un semplice pezzo di carta, ma l’avvio di un esteso monitoraggio dei problemi antincendio, elettrici e strutturali di oltre 1.600 fornitori dei marchi aderenti e, soprattutto, l’impegno a sanare i problemi riscontrati. Il monitoraggio costa 10 milioni di dollari l’anno ed è stato affidato a enti terzi: oltre 1.100 imprese sono state già indagate, individuando decine di migliaia di criticità e redigendo per ciascuno stabilimento una scheda e un piano di risoluzione delle irregolarità. Con ciò realizzando e rendendo pubblico su un sito Internet – altro risultato eccezionale – il censi-

A che punto sono i risarcimenti dell’Arrangement? Non pagano sempre gli stessi? Con grande desolazione, tra i non pagatori primeggiano le imprese italiane: nessuna delle quattro aziende italiane (Benetton, Robe di Kappa, Manifattura Corona e Yes Zee) ha corrisposto ad oggi un centesimo al fondo dedicato ai risarcimenti; viceversa Benetton, Chicco, Gruppo Coin/OVS e Prenatal hanno aderito all’Accordo sulla sicurezza, rendendo così disponibili alle ispezioni le fabbriche dei propri fornitori. Pochi giorni fa è stata conclusa la fase di valutazione per stabilire quanto spetta a ciascuno. Mentre per le vittime il risarcimento prevede una sorta di trattamento pensionistico alle famiglie, basato sulla stima della speranza di vita attiva dei lavoratori deceduti, per i feriti e i disabili si tratta di un risarcimento diretto. È la prima volta che le vittime di una tragedia di questo tipo hanvalori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

mento dettagliato di gran parte di una filiera che impiega oltre 2 milioni di persone. L’Accordo, che contempla anche la garanzia delle retribuzioni dei lavoratori nei mesi necessari a eventuali ristrutturazioni dei laboratori, è un vero spartiacque. E non è l’unico buon frutto scaturito dal dramma di Rana Plaza.

GERMOGLI SOTTO LE MACERIE A novembre 2013 i rappresentanti delle imprese, del governo bengalese e delle unioni sindacali hanno sottoscritto un altro documento, il “Rana Plaza Arrangement ”: uno schema di risarcimento del disastro che, per la prima volta, ha istituito un fondo dedicato – seppure a contribuzione volontaria – che stima in 40 milioni di dollari la cifra necessaria a rifondere le vittime. Di quella somma ne è stata raccolta circa la metà e, per stabilire come ripartirla, l’International Labour Organization (ILO)

 ONLINE “Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici in Bangladesh” bangladeshaccord.org Rana Plaza Arrangement www.ranaplaza-arrangement.org Clean Clothes Campaign www.cleanclothes.org Campagna Abiti Puliti www.abitipuliti.org International Labour Organization (ILO) – www.ilo.org IndustriALL Global Union www.industriall-union.org Alliance For Bangladesh Worker Safety www.bangladeshworkersafety.org

no avuto la legittimazione del loro status e hanno potuto usufruire di un ufficio di ascolto dedicato ad ogni singolo caso, con una lista completa di nomi e cognomi. La prima tranche dei risarcimenti è stata attribuita o è in via di attribuzione a fine novembre, grazie ai fondi attualmente disponibili.

cato anche per Tazreen (vedi BOX a pag. 52), ad esempio: il sistema di calcolo ha richiesto mesi di lavoro, ma è stato già elaborato e, ricevuto il consenso delle parti sociali, è condiviso. Ma non è automatico trasferirlo ad altri casi, almeno finché l’Arrangement non ha avuto piena conclusione e successo.

Si è lasciata alle imprese la decisione su quanto corrispondere e quando? Non si è potuto fare altrimenti all’interno dell’Accordo, poiché non eravamo in grado di stabilire chi lavorasse per chi nello stabilimento crollato.

Esiste la possibilità che alcuni marchi committenti non siano stati ancora scoperti tra le macerie? Certo. Basta fare l’esempio di Robe di Kappa di cui noi non avevamo registrato la presenza finché, l’anno scorso, il giornalista di Repubblica Riccardo Staglianò ha trovato le sue etichette grattando fra le macerie. Quanti altri non si sono mai dichiarati approfittando che non sia stata accertata la loro presenza nell’immediatezza del disastro? ✱

L’Arrangement per Rana Plaza è un caso eccezionale. E per le tragedie precedenti nulla si muove? È chiaro che se riusciamo ad averla vinta su Rana Plaza, questo modello può essere repli-

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internazionale passi avanti

FONTE: SALARIO MINIMO DIGNITOSO SECONDO L’ASIA FLOOR WAGE

UCRAINA

21%

SALARIO MINIMO LEGALE NETTO IN EURO

ROMANIA

SLOVACCHIA

CINA

19% MOLDAVIA

14%

19%

INDIA

GEORGIA

BiH (RS)

46%

26%

BANGLADESH

10%

25%

MACEDONIA

19%

BULGARIA

14% CROAZIA

14%

TURCHIA

21%

MALESIA

36%

28%

CAMBOGIA

Bulgaria BiH (RS) Croazia Georgia Macedonia Moldavia Romania Slovacchia Turchia Ucraina Bangladesh Cambogia Cina India Indonesia Malesia Sri Lanka

139 euro 189 euro 308 euro 52 euro 111 euro 71 euro 133 euro 292 euro 252 euro 80 euro 50 euro 61 euro 175 euro 52 euro 82 euro 196 euro 50 euro

INDONESIA

54% IL SALARIO MINIMO LEGALE IN ASIA E IN EUROPA ORIENTALE, BEN AL DI SOTTO DI UN LIVELLO DIGNITOSO FONTE: SALARIO MINIMO DIGNITOSO SECONDO L’ASIA FLOOR WAGE

[salario minimo legale in valore percentuale rispetto al salario minimo dignitoso] Europa orientale

Asia

MORIRE DI LAVORO, IN BANGLADESH 11 APRILE 2005 Crollo della fabbrica Spectrum Sweater Industries Limited, Palashbari. / 64 morti, almeno 74 feriti, tra cui diversi lavoratori che hanno subito invalidità permanenti. / Buyers della fabbrica: Inditex (Spagna), Carrefour, Solo Invest, Cmt Windfield (Francia), Cotton Group (Belgio), KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod (Germania), Scapino (Paesi Bassi), New Wave Group (Svezia). 23 FEBBRAIO 2006 Incendio alla KTS Textile Industries, Chittagong. / 61 morti, circa 100 feriti. / Buyers della fabbrica: Uni Hosiery, Mermain International, Att Enterprise, Vida Enterprise, Leslee Scott Inc, Ambiance, Andrew Scott. 25 FEBBRAIO 2010 Incendio alla Garib & Garib Sweater Ltd, Gazipur. / 21 morti, circa 50 feriti. / Buyers della fabbrica: H&M, Otto, Teddy (brand Terranova), El Corte Ingles, Ulla Popken, Taha Group (marchio LC Waikiki), Provera and Mark’s Work Wearhouse. 3 DICEMBRE 2011 Incendio alla Eurotex (Continental), Dhaka. / 2 morti, 64 feriti. / Buyers della fabbrica: Tommy Hilfiger (di proprietà della società statunitense Pvh Corp.), Zara (di proprietà della Società spagnola Inditex), Gap (US), Kappahl (Svezia), C&A (Belgio) e Groupe Dynamite Boutique Inc (Canada), direttamente o tramite subappalto. 24 NOVEMBRE 2012 Incendio alla Tazreen Fashions, Dhaka. / 124 morti, circa 200 feriti. / Buyers della fabbrica (denunciati a novembre 2012 da Clean Clothes Campaign, ma non tutti confermati): Walmart, C&A, Edinburgh Woollen Mill, Kik, Teddy Smith, Ace, Dickies, Fashion Basics, Infinity Woman, Karl Rieker GMBH & Co., Li & Fung, True Desire (Sears), Piazza Italia, direttamente o tramite subappalto. 24 APRILE 2013 Crollo Rana Plaza, Dhaka. / 1.138 morti, circa 2.500 feriti. / Buyers della fabbrica: Auchan, Carrefour (Francia), Bonmarché (UK), Inditex, El Corte Inglés, Mango (Spagna), Kik (Germania), Mango, Benetton, Manifatura Corona, Robe di Kappa, Yes Zee (Italia), Wal-Mart (Usa), direttamente o tramite subappalto. 52

31% 19% SRI LANKA

ha istituito a Dhaka un ufficio che raccoglie le richieste di risarcimento. Un lavoro sul campo concluso con la valutazione di circa 2.500 richieste di persone ferite e disabili. Ma la grande importanza dell’Arrangement sta anche nell’identità dei donatori: oltre a imprese come Auchan, Bonmarché, El Corte Inglés, Mango, H&M, Primark (aderenti già all’Accordo) compaiono Wal-Mart e Wal-Mart Foundation, riunite sotto l’ombrello di un soggetto intermediario, BRAC USA, a cui sono ascritti 2,205 milioni di dollari di contributo complessivo. Wal-Mart in questi anni è stata tra le compagnie più restie ad assumersi qualsiasi responsabilità sui disastri in Bangladesh e, insieme a Gap e a molti altri brand, partecipa all’Alliance For Bangladesh Worker Safety, organismo che raccoglie solo i marchi americani del tessile non aderenti all’Accordo. L’Alliance, che la Campagna Abiti Puliti critica per un “approccio volontaristico e auto-referenziale”, nel suo rapporto di luglio 2013 stimava necessari 150 milioni di dollari per risanare le 600 fabbriche (300 “in comune” con l’Accordo). La collaborazione tra Accordo e Alliance rimane complicata, ma Rana Plaza continua a far scuola: a novembre scorso il gigante tedesco del tessile C&A ha firmato i principi per un nuovo schema di risarcimento che, questa volta, riguarderà l’incendio alla Tazreen Fashions di Dhaka. ✱ valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


NEWS

Petrolio in discesa, gli americani risparmiano 8,4 miliardi

Il calo del prezzo del petrolio – 25 dollari in meno a barile da metà estate ad oggi – garantirà agli americani un Natale più

ricco generando una ricaduta positiva per l’economia pari a circa mezzo punto percentuale di Pil nel corso dell’ultimo trimestre dell’anno. È la previsione avanzata nelle scorse settimane dal New York Times, La riduzione dei costi della benzina dovrebbe generare, tra novembre e dicembre, un risparmio complessivo di 8,4 miliardi di dollari. Circa 400 dollari per ogni famiglia Usa.

NUMERI

24 miliardi di dollari

La somma che gli studenti stranieri versano nelle casse dell’economia americana

VALORITECA 35 MILIONI: LE PERSONE NEL MONDO ANCORA SOTTOPOSTE A SCHIAVITÙ

MININEWS

FONTE: WWW.THEGUARDIAN.COM

Corporation, un affare di famiglia

Total Global Solar PV Capacity at the End of 2013

TOP 10 SOLAR COUNTRIES

N. Paese

Gigawatts

35.9 19.9 17.6 13.6 12.1

HIGH

RUSSIA & EURASIA

EUROPE

2,599,300

THE MIDDLE EAST AND NORTH AFRICA

EAST ASIA PACIFIC

2,178,100

6,082,900

THE AMERICAS

SOUTH ASIA

1,285,000

17,459,900 SUB-SAHARAN AFRICA

5,619,200 COUNTRIES WITH THE HIGHEST PROPORTION OF THE POPULATION ENSLAVED

5 4

4%

3.97%

2.30%

1.35%

1.14%

1.13%

1.13%

1.13%

1.13%

1.13%

3 2 1

MAURITANIA

UZBEKISTAN

HAITI

QATAR

INDIA

PAKISTAN DEMOCRATIC REPUBLIC SUDAN OF THE CONGO

SYRIA

CENTRAL AFRICAN REPBULIC

I MIGLIORI TWEET DEL MESE Greece outpaces Germany (this year) Greek Growth: 1.7% German Growth: 1.2%

[La Grecia ha superato la Germania, quest’anno, in termini di crescita: +1,7% per Atene, +1,2% per la Germania] 14 novembre @ianbremmer

5.6 4.6 3.3 3.3 3.0 20.2

FONTE: THE CLIMATE REALITY PROJECT (ADAPTED FROM REN21 RENEWABLES 2014 GLOBAL STATUS REPORT)

valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

LOW

566,200

Lungi dal passare di moda, il capitalismo “familiare” sembra godere di ottima salute, come rileva l’Economist. Le grandi corporation tuttora sotto il controllo diretto del loro fondatore o degli eredi di quest’ultimo rappresentano quasi un quinto delle 500 imprese più ricche del Pianeta (le componenti del celebre club del Fortune Global 500). In testa, nella classifica dei ricavi 2013, il gigante Usa della distribuzione Walmart che, con 476 miliardi di dollari, precede la tedesca Volkswagen (262).

1. GERMANIA 2. CINA 3. ITALIA 4. GIAPPONE 5. STATI UNITI 6. SPAGNA 7. FRANCIA 8. REGNO UNITO 9. AUSTRALIA 10. BELGIO RESTO DEL MONDO

TOTAL NUMBER OF PEOPLE ENSLAVED PER REGION

La diffusione della dieta occidentale potrebbe aumentare dell’80% le emissioni di gas serra. 17 novembre @Internazionale

53


bancor

A cavallo dell’austerity

L’illusione paradossale di un placebo contabile dal cuore della City Luca Martino

crisi “infinita” ormai, un’aporia, e il pessimismo comincia a serpeggiare anche tra i difensori più strenui sia dell’austerità che dello “stampare moneta”. Del resto, senza una disciplina davvero nuova per i mercati finanziari e per la fiscalità nazionale e sovranazionale, era difficile attendersi esiti diversi: nei mercati le imprese e gli investitori si regolano esattamente come prima; la supervisione del sistema bancario è più o meno quella pre-Lehman; un fondo pensione che volesse comprare una qualsiasi di quelle asset backed security che hanno scatenato la crisi dei mutui sub-prime non avrebbe che l’imbarazzo della scelta. E allora? Allora, quei Paesi che hanno investito, anche in deficit, in settori innovativi (soprattutto sul fronte energetico, come gli Stati Uniti) o che avevano meno problemi legati a infrastrutture o a fenomeni come corruzione, evasione e criminalità (la Gran Bretagna e alcuni Paesi del nord-Europa, per esempio) stanno soffrendo meno, in qualche caso sono ripartiti con passo discreto. Gli altri invece sembrano sempre più vittime sacrificali sull’altare del pareggio di bilancio e del fiscal compact, sia che le cosiddette “riforme” le facciano (vedi Grecia o Spagna) sia che le annuncino e basta (vedi Italia e Francia). A dire il vero, una riforma a livello europeo è stata fatta: così come fecero Stati Uniti, Canada e Australia nel 2008, la Commissione ha introdotto, a partire dal terzo trimestre di quest’anno, un nuovo sistema di calcolo dei conti nazionali chiamato ESA 2010. Si tratta di una quarantina di rettifiche,

È

54

alcune metodologiche (di fatto irrilevanti), altre di scopo: tra queste la capitalizzazione, nel calcolo del prodotto interno lordo, della spesa pubblica in ricerca e sviluppo e in sistemi di difesa militare, e, cosa che ha destato scalpore benché già prevista nel precedente ESA 1995, di una quota stimata di economia illecita legata specificatamente, qui sta la novità, a contrabbando, prostituzione e droga. Anche se le modifiche non alterano i rapporti tra un periodo e l’altro, non si potrà cioè “giocare” sui numeri di una (eventuale) ripresa economica, sostanziali sono gli effetti su quelle metriche che usano il Pil al denominatore, tra questi l’ormai famoso parametro di Maastricht che fissa il rapporto deficit/Pil al 3%. In Italia, questa rivalutazione artificiosa del Pil, inizialmente sottostimata, ha sfiorato il 4%, trattasi di circa 60 miliardi di euro. Ora, oltre ad aspetti tecnici (come stimiamo, ad esempio, il mercato delle droghe senza dati attendibili?) e lasciando da parte la morale, nel nuovo meccanismo appaiono evidenti molte distorsioni di tipo puramente economico. In quanto illecita, l’economica criminale è per definizione anche sommersa, sfugge cioè al controllo delle autorità: che contributo può mai fornire alla rappresentazione della sostenibilità delle finanze pubbliche? Poi, contrariamente al sommerso, l’obiettivo dello Stato nei confronti dell’economia criminale non è quello di farla emergere, bensì quello di azzerarla, perché quel tipo di economia non crea valore, ma lo distrugge, sia da un punto di vista economico che umano. Infine, ove represse (e ci si augura che lo siano), le attività illecite incidono “negativamente” sulle attività lecite dell’indotto, ciò a dire che, semmai, droga e contrabbando dovrebbero entrare nel Pil con peso negativo. Ma il rischio maggiore è che si generino pericolose illusioni rispetto agli effetti delle famigerate riforme e che i governi si autoconvincano a perseguire obiettivi di fatto sbagliati, trascurando ancora i veri problemi che questa crisi aveva avuto almeno il merito di rendere così palesi. ✱ todebate@gmail.com valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


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SuPPLEmENto al n. 124 di

Finanza etica per indignados

Dopo 15 anni di crescita in Italia, Banca Etica apre la prima succursale all’estero, a Bilbao. Un percorso nato dal basso che ha coinvolto oltre 5.000 persone in tutta la Spagna


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

BANCA ETICA

I FINANZIAMENTI DELIBERATI DA BANCA ETICA 900

813

800

761

700

775

640

600

539

500

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400

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300

209 200 100 0

150 11 32

69 87

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

I CREDITI CONCESSI RISPETTO ALLA RACCOLTA FONTE: PROSPETTO INFORMATIVO BANCA ETICA - ABI MONTHLY OUTLOOK DICEMBRE 2013

NUMERI

36.888 soci totali

30.991 persone fisiche

Dati Banca Etica 58,44% 63,36% 63,20% 63,5%

2010 2011 2012 2013

5.897 persone giuridiche

Dati sistema bancario italiano 62% 64% 62% 60,8%

FIARE LA CRESCITA DI FIARE FONTE: FIARE

28

26,8

24

28,9

24,4

20 16 12

14,5

8 4 0

2,1

2010 Crediti concessi

4,7

3,9

2,8

2011 Capitale sociale

2012

2013

[in milioni di euro, cumulati] FONTE: FIARE

NUMERO DEI SOCI

1.820

 

3.809

 

2.573

  

4.777

  

[2010] [2011] 2

[2012] [2013]

SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


editoriale

LA SPAGNA SOSTENIBILE OGGI di Andrea Di Stefano

Supplemento al numero 124 dicembre 2014/gennaio 2015 - anno 14 mensile www.valori.it Registro Stampa del tribunale di milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo torriani, 29 - 20124 milano promossa da Banca Etica direttore editoriale mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta tramonto (tramonto@valori.it) grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (tN)

testi a cura di matteo Cavallito, Emanuele Isonio, Pere Rusñol, mariana Vilnitzky traduzioni a cura di Silvina Dell’Isola testi originali tratti dal dossier “La economia social cambia de marcha”, pubblicato sul mensile Alternativas Economicas N°18 di ottobre 2014 editing e coordinamento Elisabetta tramonto

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali.

È

stato un caso studio. In positivo, per l’incredibile sprigionamento di vitalità dopo il cupo periodo dittatoriale che ne ha fatto una democrazia compiuta, ma anche un Paese economicamente reattivo. Nell’Europa del Dopoguerra nessun processo di crescita e cambiamento strutturale è stato così rilevante come quello spagnolo, sia per il livello di avanzamento che per la profondità e rapidità delle trasformazioni. Nella storia dell’Europa occidentale il ventesimo secolo è stato il periodo del riscatto democratico, dell’affermazione dei diritti e della libertà dei cittadini. E di un’idea di Europa delineata durante la Guerra dagli ideatori del manifesto di Ventotene. A lungo la Spagna è stata relegata ai margini di questa “rivoluzione” democratica, oppressa dalla dittatura franchista, un mix di conservatorismo e arretratezza sociale. Il fascismo agrario si rivelò un fallimento, ma gli stessi princìpi – interventismo e autarchia – guidarono anche la politica industriale. I danni della guerra erano stati in questo campo sensibili, ma non drammatici, specie per quanto riguarda gli impianti baschi e catalani, consegnati quasi intatti ai nazionalisti. La libertà d’impresa fu severamente limitata a mezzo di decreti (20 agosto 1938, 8 settembre 1939), i piani di industrializzazione furono vincolati alla creazione dell’INI (Istituto Nacional de la Industria) nel settembre del 1941, che trasformava lo Stato nel maggiore imprenditore industriale (specie per le forniture militari), e i mono/oligopoli divennero la regola. I salari reali diminuirono di due terzi rispetto all’anteguerra, né si potevano difendere senza sindacati e/o azioni rivendicative, e una mastodontica burocrazia costrinse gli imprenditori a un’unica forma di concorrenza, volta esclusivamente a garantirsi appoggi politici, amministrativi ed economici. Ne scaturì una depressione profon-

SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

da e fino al ’50 l’industria del Paese non raggiunse i livelli produttivi del ’30; il reddito pro capite raggiunto nel 1935 non verrà del tutto recuperato fino al 1954. Nei due decenni successivi il regime mise in campo interventi di modernizzazione che portarono a un piccolo avvicinamento del Paese alla media europea, ma poco prima della morte di Franco, nel 1975, la distribuzione degli occupati era ancora caratterizzata da un 22% in agricoltura, 38% nell’industria e 40% nel terziario. La rivoluzione post franchista ha cambiato parte della struttura economica e sociale della Spagna. È passata da un’economia subordinata alle fluttuazioni dell’agricoltura, con un alto grado di isolamento e gravi differenze sociali, a un’economia con la struttura produttiva di un’industrializzazione consolidata. La Spagna democratica ha vissuto negli ultimi vent’anni un veloce processo di avvicinamento all’Europa; l’integrazione è stato l’argomento centrale, specialmente dal lato economico. Ma dagli anni ’90 qualcosa si è inceppato: il ruolo preponderante della finanza e il boom speculativo immobiliare hanno prodotto una bolla, esplosa con la crisi del 2007-2008 che dovrebbe far ripensare dalle fondamenta il sistema economico-sociale iberico. Ma sul fronte dell’energia qualcosa è accaduto: nel 2013 le rinnovabili hanno raggiunto il 42% del mix elettrico, grazie anche a un’eccezionale produzione idroelettrica, ed è in costruzione il primo parco fotovoltaico senza incentivi, in grado di produrre energia in grid parity. Il segno che, grazie alla posizione geografica, la Spagna può essere, insieme all’Italia e alla Grecia, l’eldorado di sistemi sostenibili integrati, dall’agricoltura alle fonti rinnovabili, dall’abitare al turismo sostenibile. È questa la Spagna con cui Banca Etica ha scelto di interagire, aprendo proprio qui la sua prima succursale estera ✱ 3


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Primi passi in Spagna per Banca Etica di Emanuele Isonio

A Bilbao apre la succursale della banca. 10 anni di cammino insieme a Fiare che ha saputo convogliare persone e organizzazioni che vogliono portare democrazia e giustizia anche nel sistema finanziario

Q

uindici anni fa sembrava un sogno per visionari, bollato come irrealizzabile dalla maggior parte del pensiero economico mainstream. Costruire una banca che, per statuto e per volontà dei propri soci, aiutasse a far circolare denaro nel proprio Paese, finanziando iniziative nel campo sociale, assistenziale, educativo ed ambientale, in modo trasparente e senza investire in prodotti finanziari speculativi, produzione di armi o scudi per evasori fiscali. E, come tutti i sogni, anche quello di Banca Etica ha dei numeri da dare: 17 sportelli, 200 dipendenti, 37mila soci, 883 milioni di risparmio raccolto e 775 milioni di finanziamenti distribuiti a 7.142 progetti. Ma il numero più importante è: uno. Che verrà scritto d’ora in avanti in

«PER CRESCERE IN EUROPA SERVONO CORRENTISTI CONSAPEVOLI» di Emanuele Isonio

Biggeri: «Non solo domanda da intercettare. La finanza etica cresce dove ci sono clienti attenti che chiedono conto di come vengono usati i soldi» 4

Spagna. Uno. Come la succursale della banca che ha aperto nelle settimane scorse a Bilbao. Dell’esigenza di consolidare l’esperienza del credito sociale e della finanza alternativa anche in terra iberica si parlerà più diffusamente negli articoli delle prossime pagine. Ma la scelta del board di Banca Etica di figliare in Spagna più che frutto di strategia commerciale è piuttosto il risultato di un percorso portato avanti con Fiare, Fondazione per il risparmio e il credito responsabile.

UN PERCORSO LUNGO OTTO ANNI «Anche da noi – spiega Peru Sasia Santos, membro di Fiare e oggi consigliere d’amministrazione di Banca Etica – sentivamo l’esigenza di un punto di

«L’esperienza spagnola ci fa tornare indietro di 15 anni e riassaporare le emozioni di quando abbiamo costruito in Italia un nuovo tipo di banca». L’apertura della succursale di Bilbao equivale a salire su una macchina del tempo per chi ha vissuto i primordi di Banca Etica. Come l’attuale presidente, Ugo Biggeri. In Italia non c’è più quel tipo di passione? Siamo in età matura, le sensazioni sono inevitabilmente diverse. Per gli spagnoli è il compimento di un sogno. È una bella sensazione: contagiosa anche per noi. Che cosa è lecito aspettarsi in Spagna? Nel settore bancario la prudenza è d’obbligo. Ma confidiamo di replicare i dati posi-

UGO BIGGERI presidente di Banca Etica

tivi avuti in Italia. Ci sono tutte le premesse per intercettare una domanda forte di unire etica e finanza. La crisi economica è stata un alleato? Probabilmente sì, come in Grecia: ma arrivare in un Paese in un momento difficile non aiuta la crescita di un settore. Abbiamo accettato la scommessa spagnola grazie al SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

riferimento per i finanziamenti alle realtà dell’economia civile. E, infatti, la risposta è stata subito molto positiva». Due gli aspetti che sono stati immediatamente notati (e apprezzati) dagli spagnoli: la possibilità di aprire i cordoni del credito a soggetti altrove difficilmente “bancabili” (l’82% di chi ha ricevuto finanziamenti dal circuito Banca Etica l’ha indicato come indispensabile per mettere in piedi o proseguire la propria attività) e, nonostante questo, il tasso di crediti in sofferenza più basso che nel resto del sistema bancario tradizionale (a fine 2013 era a 2,02% contro una media di 7,7). In dieci anni Fiare, con la consulenza di Banca Etica, attraverso i libretti di risparmio dei propri soci, ha permesso di raccogliere 40 milioni di euro che si sono trasformati in 30 milioni di finanziamenti per 200 progetti del Terzo settore. Con l’apertura della succursale di Bilbao i cinquemila soci di Fiare, che già oggi sono coordinati in 21 gruppi locali, dai Paesi Baschi alle Baleari, dall’Andalusia, alla Catalogna, alla Galizia, diventeranno a tutti gli effetti soci di Banca Etica, e potranno utilizzare gli strumenti finanziari offerti dall’istituto ai propri correntisti. «Il grande lavoro ora sarà di contattarli uno ad uno per proporgli di aprire un vero conto corrente con tutti i servizi che esso prevede». Una tappa essenziale per passare dalla semplice raccolta alla conformazione di un istituto bancario vero e proprio.

CRISI, ALLEATO INVOLONTARIO Tra l’altro, per una volta, la crisi potrebbe diventare un inconsapevole alleato per il percorso di consolidamento di esperienze della finanza etica. Nato in grande lavoro fatto negli ultimi dieci anni con Fiare. Una valutazione squisitamente commerciale probabilmente avrebbe suggerito di iniziare altrove l’espansione estera. Quali sono i fattori che fanno aumentare la domanda di prodotti finanziari etici? Sono due: un mercato bancario maturo, in cui i correntisti siano sufficientemente preparati per chiedere alle banche come stanno usando il loro denaro. E la presenza di bisogni forti a cui rispondere: un Terzo settore consolidato, una società civile organizzata e difficoltà di accesso al credito per le realtà imprenditoriali più piccole. E dove sono in Europa queste condizioni? Stiamo notando un fermento in Croazia, RoSUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

tutt’altro contesto, quando il Paese iberico, nell’era Zapatero, sembrava destinato a una crescita impetuosa, tanto da far parlare di “miracolo spagnolo”. Il governo socialista è ormai un lontano ricordo. E la realtà oggi è drammaticamente diversa. Con ricadute evidenti per l’“altra economia”: «La recessione e i tagli selvaggi allo Stato sociale portati avanti dai governi spagnoli hanno colpito duramente il nostro Terzo settore», spiega Peru Sasia. «Non a caso, molte realtà del commercio equo, del mondo agricolo e ambientale, sono diventate negli ultimi anni promotrici dell’avventura spagnola di Banca Etica. La recessione ha in qualche modo aperto gli occhi di molti, diffondendo la consapevolezza di quanto sia importante orientare eticamente gli investimenti finanziari per costruire un circolo virtuoso che aiuti lo sviluppo del Paese reale». Lasciando a bocca asciutta, almeno per una volta, gli avvoltoi della finanza tradizionale. ✱

mania, Austria, Portogallo. Realtà che si stanno avvicinando alla rete di banche etiche europee riunite in Febea. Altrove come in Germania c’è maggiore difficoltà di penetrazione: la presenza di un sistema bancario cooperativo forte copre di fatto il settore e riduce i margini di intervento. Basta offrire prodotti etici per attirare investitori? La questione dell’efficienza è un tema che è giusto porsi ed è un elemento che aumenta con il consolidarsi del settore. Dobbiamo ammettere che i primi caffè equosolidali erano una mezza porcheria. Oggi sono di qualità alta. I prodotti finanziari di Banca Etica sono già oggi di livello analogo a quelli del sistema bancario tradizionale.

 LIBRI Esce la traduzione in spagnolo dell'ultimo libro di Ugo Biggeri: Il valore dei soldi, il titolo italiano, EL VALOR DEL DINERO, quello spagnolo

Arriveremo a vedere conti correnti gratuiti in Banca Etica come per altre banche? Sarebbe come voler comprare prodotti da agricoltura biodinamica con prezzi da discount. Una grande banca può proporre conti gratuiti perché ha la possibilità di fare investimenti in perdita. Per realtà piccole è impossibile. L’obiettivo realistico è offrire un ottimo servizio a costi ragionevoli. Lo stiamo già facendo e dovremo continuare su questa strada. Ma il vero problema della finanza etica oggi è un altro: l’erogazione dei crediti. Banca Etica finora ha concesso un euro di finanziamenti per ogni euro raccolto. Ma nell’ultimo anno il risparmio è cresciuto mentre i crediti sono rimasti al palo. Dobbiamo far crescere l’economia sociale e la qualità dei progetti da finanziare. ✱ 5


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Una nuova banca, finalmente di Pere Rusñol*

A 11 anni dalla sua nascita, dallo scorso ottobre Fiare Banca Etica offre i suoi servizi ai privati. A disposizione anche agenti a Madrid e Barcellona. E un’agenzia virtuale

Q

uattro cifre: 1.550. Molto più che un numero, è il codice di Fiare Banca Etica, la prima banca etica a base cooperativa ad operare in Spagna. Il 15 luglio ha ottenuto il via libera dagli enti regolatori e dall’1 ottobre apre ai privati. La banca ha appena iniziato la sua attività, ma ha già una lunga storia alle spalle, iniziata come Progetto Fiare nel 2003 che rinasce oggi come Fiare Banca Etica, parte integrante di una banca europea con sede in Spagna – dove ormai conta con 5.300 soci che hanno sborsato 5 milioni di euro di capitale sociale – e in Italia, dove la Banca Popolare Etica ha 37mila soci e 15 anni di esperienza commerciale e di prestigio. * traduzione di Silvina Dell’Isola

In basso, un’assemblea di Git nei Paesi Baschi. A pag. 7, la succursale a Bilbao

6

UNICA IN SPAGNA In Spagna Triodos Bank si presenta da anni con il marchio commerciale di “banca etica”, ma per le sue caratteristiche si colloca maggiormente nel settore di “banca con valori etici”, in questo caso incentrata sul rispetto dell’ambiente. La differen-

za è che Fiare Banca Etica è una cooperativa in cui i clienti sono in realtà soci che partecipano ai processi decisionali della banca in condizioni di parità, cosa che la distingue anche dalle cooperative di credito tradizionali. I soci hanno lo stesso peso, indipendentemente dal capitale conferito – in linea coi principi cooperativi – e nessuno può superare l’11% del capitale sociale. Inoltre, la banca non distribuisce dividendi, perché i proventi sono destinati in modo integrale al rafforzamento del capitale e ad estendere le linee di credito per sostenere l’economia sociale. La partecipazione dei soci al processo decisionale non sminuisce la professionalità, come dimostra l’esperienza in Italia di Banca Popolare Etica, che ha concesso prestiti per 1.800 milioni di euro e ha un tasso d’insolvenza del 2% quando nel circuito bancario tradizionale spagnolo si supera il 13%. Ciò è dovuto al fatto che i progetti da finanziare richiedono una doppia approvazione, quella da parte del comitato etico-sociale, com-

SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

CONDIVISIONE E SOLIDARIETÀ: I FINANZIAMENTI DI FIARE di Matteo Cavallito

Convivir, Deixalles, Cortijo Covaroca. Sono alcuni dei progetti spagnoli finanziati da Fiare Banca Etica Lavoro, solidarietà, responsabilità sociale. Sono gli elementi principali alla base delle iniziative finanziate in Spagna da Fiare Banca Etica. Progetti nati con l’obiettivo di promuovere opportunità nuove e soluzioni diverse. Come, tra le altre, quelle proposte da Convivir (www.apartamentosconvivir.com), progetto sociale e residenziale che si pone come vera e propria alternativa ai tradizionali “ospizi”.

Fino ad oggi, Fiare aveva operato a supporto degli attori dell’economia sociale, con una minima operatività verso i privati, era soggetta alla legislazione italiana e pertanto con non pochi vincoli operativi e tecnici. La novità è che, d’ora in poi, potrà offrire ai privati tutti i servizi di base: internet banking, conto deposito, prestiti rateali tra i 12 e i 60 mesi, domiciliazioni bancarie, carte di credito Servired (Casse Rurali), oltre a tutte le garanzie previste per i clienti di qualsiasi altro istituto bancario, tra cui la copertura del Fondo di Garanzia dei Depositi. L’istituto ha iniziato con una sede a Bilbao, ma può contare agenti a Madrid e Barcellona e un’agenzia virtuale on line sul sito internet: www.fiareban caetica.coop. La priorità iniziale è fornire servizi ai soci che siano già clienti, nonostante le difficoltà esistenti (circa 2.300 soggetti), poi al resto dei soci (altri 3.000) e cominciare ad allargare la base sociale da inizio 2015. Per diventare clienti, il modo più razionale è diventare soci, cosa che richiede un conferimento minimo di circa 300 euro al capitale sociale. «Essere cliente senza essere socio non ha molto senso perché non offriamo una grande redditività né condizioni particolari», spiega Juan Garibi, direttore della filiale spagnola. «La missione della banca è quella di sostenere progetti nel settore dell’economia sociale e solidale, ed è questo quello che apprezzano le persone che vogliono tenere i loro soldi da noi», conclude. ✱ SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

CONVIVIR

tra le iniziative finanziate merita una segnalazione il sostegno alla Fundación Deixalles, un ente senza scopo di lucro attivo nelle Isole Baleari dal 1986, anno dell’apertura della prima sede a mallorca. L’iniziativa, estesasi a partire dal 2003 anche ad Ibiza, si concentra sui temi dell’economia solidale e della gestione responsabile dell’ambiente promuovendo iniziative occupazionali per le persone a rischio di esclusione sociale. Dotata di officine apposite per il trattamento dei rifiuti, la Fondazione impiega i lavoratori nelle varie fasi del processo di gestione a partire dalla raccolta e proseguendo con attività specifiche come la lavorazione del legno e il riciclo dei materiali. «Deixalles – spiegano dal Fiare – riunisce in un solo progetto molti obiettivi di trasformazione sociale e solidale per contribuire alla costruzione di una società più giusta e sostenibile favorendo l’inserimento lavorativo di persone escluse o a rischio di emarginazione».

FUNDACIÓN DEIXALLES

UNA BANCA A TUTTI GLI EFFETTI

un obiettivo del tutto analogo a quello perseguito dalla Fundación El Sembrador, ente privato senza scopo di lucro impegnato al momento nella creazione di un’impresa dedicata all’inserimento occupazionale presso Nerpio, un comune della provincia di Albacete. L’ente, denominato “Cortijo Covaroca”, svolge attività di creazione di posti di lavoro nel settore alberghiero nonché nel comparto agroforestale e in quello delle produzioni di qualità. Le attività principali riguardano la formazione dei lavoratori e la sensibilizzazione degli altri operatori nel settore dell’inserimento lavoratori e si rivolge alle persone appartenenti a categorie a rischio. Il progetto ha ricevuto un finanziamento da 72.500 euro da Banca Etica come anticipo di una sovvenzione già approvata dall’assessorato alla salute e al benessere sociale (Consejería de Salud y Bienestar Social) del governo locale della comunità autonoma di Castiglia-La mancia.

FUNDACIÓN EL SEMBRADOR

posto da soci eletti nelle loro circoscrizioni, e quella del comitato finanziario, costituito da professionisti.

Nata su iniziativa di un gruppo di persone ormai in pensione o prossime al ritiro dal lavoro, la cooperativa Convivir lavora per la creazione di un complesso residenziale di oltre settemila metri quadri nel paese di Horcajo de Santiago, un piccolo comune della provincia di Cuenca, nella comunità autonoma di Castiglia-La mancia. Il progetto, spiegano dal Fiare, «è pensato per persone anziane autonome e indipendenti che vogliono vivere insieme ad altri coetanei in un ambiente di amicizia e cooperazione capace di stimolare le relazioni di convivenza in un clima che faciliti l’invecchiamento attivo e salutare e la prevenzione delle situazioni di dipendenza». I lavori di costruzione, iniziati lo scorso gennaio, sono sostenuti da un credito di tre milioni di euro erogato da Fiare Banca Etica che ha consentito alla cooperativa di superare l’impasse riscontrato nei circuiti bancari tradizionali. L’erogazione del prestito, spiegano i promotori, «ha dato l’impulso definitivo al progetto ponendo fine a quella lunga ricerca costellata di ostacoli e difficoltà poste da diversi operatori tra cui altre entità finanziarie». I lavori dovrebbero concludersi all’inizio del 2015.

7


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

L’economia sociale resiste alla crisi L’altra economia iberica ha resistito meglio alla crisi. 1,2 milioni di posti di lavoro in Spagna, 14 in Europa. E adesso nuove cooperative entrano in settori chiave come il credito e l’energia.

di Pere Rusiñol*

L’

economia “tradizionale” guarda con sufficienza all’economia sociale, come se fosse un mondo puramente idealistico, se non proprio fatto di hippy. Certamente alla base dell’economia sociale ci sono degli ideali, ma la sua attività produttiva è molto concreta. E il suo impatto economico è ormai rilevante, in crescita, e sembra fare affidamento su hippy molto speciali, oltreché numerosi.

NUMERI CHE CONTANO

* traduzione di Silvina Dell’Isola

Secondo uno studio macroeconomico dell’Ue elaborato dal CIRIEC (International Centre of Research and Information on the Public, Social and Cooperative Economy) e coordinato da José Luis Monzón e Rafael Chavez dell’Università di Valencia, l’economia sociale in Europa contribuisce con più di 14 milioni di posti di lavoro, di cui 1,2 milioni in

IL BALZO IN AVANTI

RESISTENZA PRIMA DELLA CRISI

FONTE: ELABORAZIONE ESEGUITA SULLA BASE DEI DATI INE (ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA SPAGNOLO) E DEL MINISTERO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE

[andamento dei posti di lavoro. I dati 2013 sono in % dei posti di lavoro esistenti rispetto al 2008] 100

90

90,67 2008=100

85,09 80,36

80 Datori di lavoro Lavoratori autonomi

70

8

2008

2009

Dipendenti del settore privato Lavoratori delle cooperative 2010

Spagna. E, considerando l’impatto complessivo, tra cui l’occupazione indiretta, le cifre raddoppiano: secondo stime del CEPES – la confederazione delle aziende dell’economia sociale – in Spagna si parla di 2,3 milioni di lavoratori in 44.500 aziende, con un fatturato di 150 miliardi, pari al 12% del Pil iberico. L’economia sociale è molto variegata e comprende diverse forme giuridiche – le cooperative, in tutte le loro varianti, le società a partecipazione operaia, le associazioni mutualistiche, le fondazioni (vedi MAPPA a pag.13) – con due caratteristiche comuni: non comanda il capitale e il fine ultimo non è il profitto privato. Le cooperative ne sono l’emblema e non sono certo un paradiso hippy: esistono 1.465 cooperative in 42 Paesi che superano i 100 milioni di dollari di fatturato annuo.

2011

2012

74,91

2013

Si tratta di cifre di per sé impressionanti, ma gli esperti concordano sul fatto che ci sono le condizioni per un grande balzo in avanti: i cambiamenti culturali dovuti alla crisi, una maggiore capacità di resistenza e lo sbarco in grandi settori strategici come quello bancario, l’energia e le telecomunicazioni. L’economia sociale finora è stata un buon ammortizzatore, ma adesso è pronta per il decollo. «L’economia sociale è il futuro, perché la crisi attuale ha causato un cambiamento radicale in molte persone», afferma Juan Antonio Pedroza, presidente del CEPES. «Ed è ormai chiaro che l’economia deve essere organizzata in modo diverso», aggiunge. La crisi si è rivelata grave anche per l’economia sociale, ma quest’ultima ha mostrato una maggiore resistenza nonostante il crollo di un simbolo coSUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

me quello legato al gruppo Fagor sia stato presentato dall’economia “tradizionale” come un fallimento della cooperazione. Questa maggior resistenza è stata riconosciuta chiaramente dal Governo: «La crisi ha colpito le imprese sociali come ha fatto con le altre imprese, ma l’economia sociale ha dimostrato una maggiore capacità di creare e mantenere posti di lavoro», ha detto un portavoce del ministero del Lavoro di Madrid. E lo confermano i dati ufficiali della previdenza sociale: dopo la crisi del 2008, le cooperative hanno perso il 10% degli occupati, mentre i lavoratori autonomi sono diminuiti del 15%, i dipendenti del settore privato del 20%, e il numero dei datori di lavoro è sceso del 25%. Inoltre ogni anno si creano sempre più cooperative di lavoro – nel 2013 sono state 950, +66% rispetto al 2008 – ed è aumentata la trasformazione di attività commerciali in cooperative – con almeno 75 imprese dall’inizio della crisi, la metà di tutte quelle trasformate nella Ue, secondo la COCETA (la confederazione delle cooperative di lavoro spagnole) – e l’anno scorso la previdenza sociale ha registrato la creazione netta di 7.100 posti di lavoro nelle cooperative.

L’AUTOGESTIONE È COMPETITIVA La chiave di questa resistenza, secondo il professor Monzón, è il modello di governance. «L’autogestione è molto competitiva perché i lavoratori sono anche soci, sono motivati, cosa che agevola il rispetto dei patti sociali», sottolinea il presidente di CIRIEC-Spagna. Pedreno ha utilizzato anche la parola “missione”: «I soci fanno di tutto per portare avanti il loro progetto, spesso visto come una missione». E lui sa di cosa parla: quando nel 1982 ha dato vita alla sua cooperativa di formazione a Murcia tutti dicevano che era meglio lasciar perdere. «I soci della cooperativa hanno lavorato tre anni senza stipendio, ma oggi la Società Cooperativa Severo Ochoa è una realtà costituita da 140 lavoratori». Questo modello di governance, per definizione più democratico e trasparente, con i lavoratori nella stanza dei bottoni, impedisce stratosferiche differenze salariali, una delle ragioni che contribuisce a spiegare la crisi. Uno studio del sindacato americano AFL-CIO pone a 354 il parametro della differenza retributiva tra dirigenti e lavoratori nelle grandi aziende americane. Vale a dire che il Ceo prende 354 volte più che il lavoratore. In Spagna lo stesso studio ha stabilito in 127 volte il divario retributivo delle imprese quotate alla Borsa spagnola, mentre le cooperative si attestano intorno a 3 volte e solo eccezionalmente raggiungono le 8. SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

CREAZIONE DI COOPERATIVE DI LAVORO Nuove cooperative di lavoro costituite in Spagna FONTE: MINISTERO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE

1.000

950

800

656

698 633 733

600 400

572

200 0 2008

2009

2010

2011

2012

2013

ICON: MODELLO COOPERATIVO È stata proprio la possibilità di partecipare a un’economia più democratica che ha portato Eduard Castellà a scegliere l’assetto cooperativo quando la società di ingegneria dove lavorava ha chiuso nel 2007. «Tutto fu travolto da una pessima gestione e direzione che non ascoltava né rispettava i lavoratori», spiega. Al momento del licenziamento, con tre colleghi costituì la Incod, con sede a Mataró (Barcellona), basata su una filosofia diametralmente opposta. Hanno sudato le classiche sette camicie, perché Incod è nata nel bel mezzo dello tsunami della crisi, ma ora prevedono di aggregare, a breve, altri quattro soci. Castellà e i suoi colleghi hanno potuto iniziare la loro avventura capitalizzando il sussidio di disoccupazione, che può essere destinato a creare una cooperativa. Nel 2013 fino a 3.612 persone hanno capitalizzato tale prestazione per crearne una o partecipare a una già esistente, il 6,5% in più rispetto al 2012. Icon ha scelto di non chiedere prestiti per evitare di nascere già indebitata, cosa che comunque sarebbe stata oltremodo difficile dato che la crisi aveva prosciugato il mondo del credito. E lo smantellamento delle Casse si è rivelato un’ulteriore problema, perciò il settore dipende più che mai dalle cooperative di credito e dalle Casse Rurali, che in generale sono in buona salute, con una quota di mercato del 6% e un patrimonio di oltre 130 miliardi di euro.

ARRIVA BANCA ETICA Ma la grande novità è l’arrivo di nuovi attori diretti a base cooperativa, come Banca Etica, che ha l’obiettivo di essere «il lubrificante per far funzionare tutti gli ingranaggi del mercato sociale», secondo le parole di Xavi Teis di Coop57, cooperativa di servizi finanziari in piena espansione: nel 2008 contava su quattro milioni di euro conferiti dai soci e 3,5 milioni di euro di prestiti concessi; oggi il capitale conferito supera i 21 milioni e si avvia a raggiungere i 10 milioni di credito erogato. 9


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS IL PESO DELL’ECONOMIA SOCIALE NELLA UE

Percentuali dei posti di lavoro nell’economia sociale rispetto al totale di ogni paese

FONTE: CIRIEC

Finlandia

Svezia

Estonia

Danimarca Irlanda

Lettonia

Germania Regno Unito

Lituania

Polonia Rep. Ceca

Paesi Bassi

Slovacchia

Austria Belgio

Ungheria

Lussemburgo Slovenia Croazia

Bulgaria

Francia Grecia

Italia Portogallo Spagna Percentuale Svezia Belgio Paesi Bassi Italia Francia Finlandia Lussemburgo Danimarca Spagna Estonia UE 28 Germania Austria Regno Unito Irlanda Portogallo Ungheria Bulgaria Polonia Repubblica Ceca Grecia Slovacchia Romania Cipro Malta Slovenia Lituania Croazia Lettonia

P

11,16 10,30 10,23 9,74 9,02 7,65 7,3 7,22 6,74 6,63 6,53 6,35 5,70 5,64 5,34 5,04 4,71 3,97 3,71 3,28 2,67 1,94 1,77 1,32 1,02 0,73 0,67 0,59 0,05

Romania

Cipro

Malta

Fiare, il progetto di cooperazione più ambizioso di Banca Etica, ha concluso lo scorso autunno la sua strada verso la costituzione come banca, che offrirà un ventaglio di servizi: banca on line, conto deposito, carte di credito. L’istituto è registrato come banca a partire dall’estate. Finora Fiare aveva limitato la sua azione al finanziamento di progetti per l’economia sociale, spesso esercitando funzioni di salvataggio prima del blocco del credito da parte delle banche convenzionali. Un esempio concreto: il gruppo Peñascal, cooperativa basca per la formazione occupazionale e incubatore di progetti d’impresa per l’inserimento di gruppi a rischio di esclusione, non riusciva ad avviare il suo grande progetto strategico della costruzione di una sede polifunzionale a Bilbao fino a che non è intervenuta Fiare, come dice il suo manager Santi Membibre. Il gruppo ha tre decenni di straordinario lavoro, conti in ordine, 160 dipendenti e ogni anno forma più di 2.500 persone, ma non aveva avuto modo di coinvolgere nessuna banca in questo suo grande progetto.

NUOVI TERRENI FERTILI L’emergere di alternative dell’economia sociale in settori chiave va ben al di là del comparto bancario e s’inoltra in terreni ancora vergini e ambiziosi, come le telecomunicazioni, con l’emergente Eticom-Somo Connexio, e nell’energia, con Som Energia come simbolo consolidato: cooperativa di energia verde, nata nel dicembre 2010, con 150 soci, che ora supera i 15mila. La sua previsione è 10

chiudere il 2014 con nove milioni di fatturato e fornire energia elettrica a 22mila famiglie. Molte di queste nuove esperienze rientrano nella “economia solidale” (vedi articolo alla pag. accanto), il segmento dell’economia sociale con gli standard più elevati in materia di democrazia, utilità sociale e trasparenza. Si tratta di un settore militante – ma non per questo meno efficiente – che si raggruppa attorno alla Rete delle Reti dell’Economia Alternativa e Solidale (REAS). I dati in questo segmento sono ancora modesti, ma sono cresciuti nonostante la crisi: i posti di lavoro retribuiti sono aumentati da 3.300 a 7.300, tra il 2006 e il 2013, e il fatturato da 171 a 261 milioni, cioè un +52%. «La gente si avvicina in cerca di valori e non di buoni affari, però poi scopre prodotti e servizi di alta qualità», spiega Charles King, della segreteria tecnica del REAS.

ALLA FIERA DELL’ECONOMIA SOLIDALE Un indicatore del boom di questo settore sono le Fiere dell’Economia Solidale, un’iniziativa della Xarxa dell’Economia Solidale, organizzazione catalana collegata al REAS, che ha iniziato a Barcellona nel 2012 con un format poi replicato con successo anche a Madrid, Saragozza, Bilbao e Pamplona. Il primo anno esposero alla fiera di Barcellona 120 organizzazioni e settemila persone, numero salito nel 2013 a 184 e 12mila rispettivamente. Quest’anno si è tenuta dal 24 al 26 ottobre e il suo coordinatore, Xavi Palos, ha rilevato una presenza di circa 200 organizzazioni. La Fiera è cresciuta tanto che ottobre è stato proclamato il mese dell’Economia Solidale, con eventi in tutta la Catalogna. «La gente è stanca di protestare e cerca alternative concrete», ha dichiarato Palos. Tutto questo entusiasmo è visto con soddisfazione da Josep Soriano, uno dei padri delle cooperative a Valencia, che negli anni della transizione ha contribuito a creare cooperative molto affermate come la Caixa Popular, Consum e Florida. Soriano, sempre con i piedi per terra, avverte che da oltre tre decenni rimane lo stesso “punto critico”: «È difficile trovare persone con spirito imprenditoriale e, allo stesso tempo, con una prospettiva di distribuire la ricchezza». Tuttavia, la cooperativa Florida universitaria inizia quest’anno un corso di imprenditorialità basato sulla metodologia finlandese LEINN, che fin dal primo giorno simula la creazione di un’impresa, programma già testato con successo presso l’Università di Mondragon. Il mondo dell’economia tradizionale dovrebbe ammettere che gli hippy sono cambiati davvero. ✱ SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Parlando di solidarietà Un settore con quasi 20mila addetti, 70% dei quali volontari. 347 realtà che offrono servizi sociali fondamentali, ma dal ridotto ritorno economico. Il bilancio sociale per verificare l’operato delle aziende

L’

economia solidale è parte dell’economia sociale, ma ha caratteristiche proprie. Si tratta di aziende senza scopo di lucro, che garantiscono il rispetto dei principi che le governano, con una loro organizzazione rappresentativa, la Rete delle Reti per l’Economia Sociale e Solidale (REAS), e lavorano insieme per conseguire gli obiettivi prefissati, con particolare attenzione per il termine che le contraddistingue: la “solidarietà”. Attingono al mondo del non-profit: in questo settore lavorano più volontari che dipendenti: 19.195 rispetto ai 7.340 assunti, come riportano i dati della REAS, organizzazione che raccoglie il 95% delle imprese del settore. Molto del lavoro svolto dall’economia solidale consiste in attività con un ridotto ritorno economico: servizi alle persone (come la riabilitazione dal gioco compulsivo), tutela dell’ambiente, riciclaggio di materiali, finanza etica, cooperazione internazionale, commercio equo e solidale. 347 realtà (cooperative, associazioni, imprese d’inserimento) raggruppate in 15 organizzazioni settoriali o geografiche che costituiscono la REAS. Fanno parte dell’economia solidale anche forme di cooperazione mutualistica e senza scambi monetari: le valute sociali come l’Ecosol in Catalogna o il Boniato di Madrid; le banche del tempo e altre forme di baratto. Un valore chiave per queste aziende è la trasparenza: il bilancio comprende i ricavi da sovvenzioni che nel 2013 sono stati di 77 milioni di euro (29,5%) rispetto a un fatturato complessivo di 157 milioni. In totale, considerando anche altri introiti, ammontano, nel 2013, a 262 milioni di euro. Si tratta, ovviamente, di cifre assai minori rispetto al resto dell’economia sociale, se conSUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

di Mariana Vilnitzky*

frontate ad esempio con quelle del gruppo Mondragon che nel 2013 ha fatturato 14 miliardi di euro e che ha consentito la creazione di 80.000 posti di lavoro. Ma sono numeri cresciuti a un ritmo veloce: dal 2006, i ricavi sono aumentati del 65%, passando da 171 a 261 milioni di euro, ed è più che raddoppiato il numero di persone assunte, da 3.314 alle attuali 7.339, il 64% delle quali donne. L’economia solidale non è un movimento esclusivamente spagnolo, infatti in America Latina c’è un’importante presenza di una rete di grandi dimensioni: la Rete Intercontinentale per la Promozione dell’Economia Sociale e Solidale (RIPESS). Ogni quattro anni organizza un forum mondiale, l’ultimo a Manila nel 2013.

IL BILANCIO SOCIALE Uno degli strumenti utilizzati per fare un’autovalutazione del rispetto dei valori fondanti è il “bilancio sociale”, strumenti gratuiti che la REAS cerca di diffondere e promuovere per una concreta applicazione in ognuna delle organizzazioni aderenti. Audit incentrato su democrazia, uguaglianza, tutela dell’ambiente, impegno sociale, qualità del lavoro. I criteri di bilancio sono stati applicati dalla Commissione per l’Accoglienza per quei soggetti che potrebbero entrare a far parte del Mercato Sociale di Madrid. Al di fuori dell’economia solidale, ci sono più sistemi di audit, e molte imprese dell’economia sociale a scopo di lucro pubblicano un rapporto annuale di sostenibilità. Ad esempio, la Confederazione Spagnola delle Cooperative di Lavoro (COCETA) offre lo strumento RSCoop per l’applicazione della responsabilità sociale nelle cooperative. ✱

* traduzione di Silvina Dell’Isola 11


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Culture diverse, obiettivi comuni di Matteo Cavallito

L’opinione di Pedro Sasia (Fiare): «Parliamo quattro lingue differenti, ma con lo stesso orientamento verso lo sviluppo locale e la prossimità»

«O

rganizzazioni locali di solidarietà, circuiti economici di prossimità a base cooperativa, piccole attività di microfinanza». Secondo il presidente di Fiare Pedro “Peru” Manuel Sasia Santos, il punto di partenza sarebbe essenzialmente questo, un «sostrato dell’economia alternativa» in cui la Spagna ha familiarizzato con il concetto di finanza responsabile. La storia prende il via alla fine degli anni ’90 per proseguire quindi nel decennio successivo, iniziato, come noto, con l’ennesimo boom immobiliare e conclusosi con i default di massa e gli indignados. Un disastro totale, ovviamente, ma anche, ricorda Sasia, una spirale di crisi e protesta «che ha indotto sempre più persone a comprendere la necessità di una finanza etica e alternativa». Quali sono i principali promotori della finanza etica in Spagna? Tanti, a partire dai sindacati e dai movimenti sociali. Ma anche le piccole cooperative locali, la stessa Chiesa cattolica e ovviamente Fiare, che fin dagli anni 2000 si pone l’obiettivo di creare una rete di organizzazioni a partire dalle reti locali esistenti. Il terreno in cui raccogliere il capitale sociale. Tante culture differenti insomma. È un punto di forza? Sì, uno dei maggiori successi di Fiare consiste nella possibilità di far confluire in un 12

mando oggi in banche tradizionali. Il loro modello originale è definitivamente sepolto.

PEDRO “PERU” MANUEL SASIA SANTOS presidente di Fiare

unico progetto persone e organizzazioni sociali caratterizzate da culture molto diverse. Insomma, un progetto statale composto da attori con diversi interessi locali. Parliamo quattro lingue – castigliano, galiziano, basco e catalano – proveniamo da culture diverse, ma abbiamo un orientamento comune verso lo sviluppo locale e la cultura territoriale di prossimità. Ricorda molto la tradizione delle cajas, che però hanno fatto una brutta fine. Perché? Perché hanno perso la loro identità. Vede, in Spagna esistono storicamente tre modelli finanziari: quello delle grandi banche, che in definitiva hanno sostenuto la crisi, quello delle cooperative di credito, anch’esse capaci di reggere bene, e quello delle cosiddette cajas de ahorro, le casse di risparmio: in origine condividevano molti elementi base della finanza etica, a partire dall’interesse per lo sviluppo locale, ma col tempo hanno iniziato a caratterizzarsi per gli investimenti rischiosi, la diffusa corruzione e l’uso irresponsabile dei fondi. Le poche che sopravvivono si stanno trasfor-

Gli stress test europei hanno promosso le banche spagnole… Già, siamo i primi della classe! (Ride) … e noi italiani gli ultimi. Ma i dati macroeconomici della Spagna non sono ancora confortanti. Grecia a parte, avete il tasso di disoccupazione più alto d’Europa Non è poi così difficile superare gli stress test, basta mantenere una strategia di rischio adeguata. Il problema, oggi, è che i nostri istituti saranno pure i più virtuosi ma non collaborano alla risoluzione dei problemi principali del Paese, a cominciare dalla mancanza di lavoro. Le grandi entità bancarie sviluppano strategie difensive di contrazione del credito che sono valutate bene dagli analisti ma che in definitiva non servono a niente. Per questo aumenta lo spazio a disposizione della finanza etica? Sì, la finanza etica contribuisce allo sviluppo e quindi anche alla riduzione della disoccupazione, finanziando progetti che hanno un impatto sociale e ambientale positivo. Ma il suo, è bene ricordarlo, non è uno spazio “residuale” bensì permanente. Uno spazio, insomma, in cui trovare soluzioni alternative che passano attraverso la finanza etica e solidale. ✱ SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


RADIOGRAFIA DELL’ECONOMIA SOCIALE

FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

5

Le cooperative sono il gruppo più numeroso, seguite dalle società a partecipazione operaia e dalle associazioni. Il resto delle imprese raggiunge a malapena il 3% del totale 2

55% 3%

24.597 COOPERATIVE Rappresentano la più grande famiglia dell’economia sociale. Operano sulla base dei principi di cooperazione: adesione volontaria e aperta dei soci, gestione democratica, partecipazione economica dei soci, istruzione, aggiornamento, informazione e interesse per il bene comune.

74%

12,6%

Lavoro

Agroalimentare

26%1

16%

11.322 SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE OPERAIA

7.212

AIn questo tipo d’impresa, più del 50% del capitale sociale è detenuto dai lavoratori. 8,7%

2,4%

Edile

Insegnamento

0,8%

0,6%

Consumo

Trasporti

0,4%

0,3%

Servizi

Credito

0,2%

Marittime

* traduzione di Silvina Dell’Isola

Si distinguono dalle cooperative di lavoro perché non necessariamente tutti i lavoratori fanno parte della società. Ci sono due tipi di società a partecipazione operaia: le società anonime a partecipazione operaia e le società consortili a responsabilità limitata (forme societarie spagnole prive di corrispondenza univoca nell’ordinamento giuridico italiano).

ASSOCIAZIONI Sono associazioni per lo più collegate ai movimenti a tutela dei disabili e per l’inserimento delle persone escluse. Agiscono principalmente dove il for-profit non funziona, che di solito coincide con quei settori dove devono essere soddisfatti diritti fondamentali delle persone.

205

391

450 CENTRI SPECIALI PER L’IMPIEGO

ASSOCIAZIONI MUTUALISTICHE

IMPRESE DI INSERIMENTO LAVORATIVO

Si tratta di aziende che uniscono la fattibilità economica e la loro partecipazione al mercato con un impegno per i gruppi sociali più svantaggiati sul mercato del lavoro. Il personale è costituito da una quota elevata di disabili (il cui numero non può essere inferiore al 70% del totale dei lavoratori).

Si tratta di società di persone, senza scopo di lucro, con struttura e gestione democratica, che gestiscono un’attività di assicurazione volontaria integrativa rispetto al sistema di previdenza sociale.

Sono strutture di apprendistato, il cui scopo è quello di facilitare l’accesso al lavoro per i gruppi più svantaggiati. In organico devono avere una percentuale di lavoratori in corso di apprendistato che, a seconda di ogni comunità autonoma, è compresa tra il 30% e il 60%. L’80% del reddito d’impresa viene reinvestito nell’azienda.

198

ASSOCIAZIONI DI PESCATORI

FONDAZIONI

Sono associazioni pubbliche di categoria, senza scopo di lucro, rappresentative degli interessi economici dei proprietari di pescherecci e dei lavoratori del settore peschiero. Operano come organi di consulenza e collaborazione delle amministrazioni competenti in materia di pesca e di regolamentazione del settore della pesca.

Organizzazioni senza scopo di lucro che, per volontà dei loro fondatori, destinano il loro patrimonio, in modo duraturo, alla realizzazione di un progetto d’interesse generale.

SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

64

13


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Banche spagnole la quiete dopo la tempesta L’Europa promuove lo status patrimoniale delle banche spagnole. Un risultato lusinghiero, figlio del maxi intervento di ristrutturazione realizzato dopo lo scoppio della bolla immobiliare

di Matteo Cavallito

Z

ero euro. È il risultato perfetto, centrato dalle principali banche spagnole in occasione dell’ultimo esame europeo sull’eventuale carenza di capitale. Lo certificano gli stress test della Bce che ad ottobre hanno promosso senza riserva i 15 istituti del Paese analizzati nell’occasione. Un successo, insomma, in un sistema bancario continentale tuttora soggetto a criticità (13 le banche bocciate nella Ue), nonché un motivo d’orgoglio per Madrid, protagonista nel corso degli ultimi anni di un processo di ristrutturazione doloroso quanto necessario per il superamento della colossale crisi sistemica.

DALLA BOLLA IMMOBILIARE… Una crisi, come noto, scatenata dalla proliferazione degli asset tossici del mercato immobiliare, ovvero dei titoli e dei prestiti diretti bruciati dalla spirale ribassista (default, pignoramenti, svalutazioni delle garanzie, crollo dei prezzi) di un comparto su cui lo L’ASCESA DEI CREDITI NON PERFORMANTI (NPL): 2005-13 FONTE: WORLD BANK (HTTP://DATA.WORLDBANK.ORG), 2014

[NPL/prestiti totali - in percentuale] 10

8,2 7,5

8 6

6,0

… AL SALVATAGGIO

2011

È in questo contesto che matura il maxi piano di salvataggio orchestrato da Madrid con il sostegno (per 41,4 miliardi) dell’Unione europea. La prima operazione di soccorso – leggasi nazionalizzazione – risale al marzo 2009 quando i contribuenti si prendono carico di CCM, banca di risparmio troppo esposta sul fronte immobiliare e sepolta sotto il peso di un’ormai incolmabile carenza di capitale.

4,7 4,1

4 2 0

14

2,8 0,8

0,7

0,9

2005

2006

2007

2008

2009

2010

stesso sistema bancario aveva scommesso incautamente per anni, se è vero – come notava la Reuters – che alla fine del 2008 il controvalore dei prestiti circolanti nel settore costruzioni aveva ormai raggiunto i 300 miliardi di euro (quasi un terzo del Pil nazionale). La recessione, che investe la Spagna a partire dal 2009, è il risultato, ma anche la concausa, del circolo vizioso innestatosi nel comparto real estate con effetti, numeri alla mano, semplicemente impressionanti. Nel 2007, notava lo scorso febbraio William Chislett, ricercatore presso il Real Instituto Elcano, un think tank economico di base a Madrid, il tasso di default sui debiti del settore immobiliare (operatori del settore e costruttori) si collocava allo 0,6%, come a dire 6 casi di insolvenza ogni 1.000 prestiti. Con lo scoppio della crisi si arriva a quota 25%. Tradotto: fallisce 1 su 4. Ma il problema, dicono i dati della World Bank, non resta confinato al solo settore immobiliare: l’incidenza dei crediti non performanti (non-performing loans, ovvero le attività non più in grado di ripagare capitale e interessi) sul totale dei prestiti passa dallo 0,7% pre-crisi al 4,1% registrato nel 2009 (vedi GRAFICo a lato). Nei quattro anni successivi, evidenziano ancora i dati, il livello di incidenza raddoppia toccando quota 8,2 alla fine del 2013.

2012

2013

SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015


FINANZA ETICA PER INDIGNADOS

Ma il piano vero e proprio scatta circa tre mesi dopo con la creazione del Frob, il fondo pubblico istituito per scorporare gli asset tossici (costituendo una bad bank ad hoc) e sostenere il processo di aggregazione delle banche locali e regionali, le cosiddette cajas (“casse”, vedi Box ) che, in quel momento, ammontano a 45 unità dotate di svariate filiali. La strategia, attraverso processi di fusione e acquisizione prevede la loro riduzione a un terzo del totale originario con l’obiettivo di incrementarne l’efficienza riducendo i costi eccessivi. Nel giugno 2011 il Governo di Madrid modifica i poteri di intervento del Frob permettendo a quest’ultimo di fornire direttamente liquidità agli istituti per garantirne la ricapitalizzazione. A proseguire, nel frattempo, sono le operazioni di nazionalizzazione che porteranno sotto il controllo diretto del Frob banche come CAM, NovaCaixaGalicia, Catalunya Caixa, Unnim, Banco de Valencia e, soprattutto, Bankia, nata dalla fusione tra Caja Madrid e altre sei banche più piccole. Quotato in borsa nel luglio del 2011, rastrellando buona parte del capitale dai piccoli risparmiatori, l’istituto sarà nazionalizzato dieci mesi dopo tramite la conversione in azioni delle sue obbligazioni acquistati in precedenza dallo Stato per 4,5 miliardi di euro. Un’operazione, nota la Reuters, che nel migliore dei casi costerà agli investitori retail una perdita minima del 70% sul valore dei titoli acquistati.

IL FUTURO A conti fatti, notano oggi gli osservatori, il salvataggio del sistema bancario è sembrato funzionare. «I processi di fusione delle banche spagnole sono stati intensi e persino dolorosi, ma hanno dato indubbiamente i loro frutti in termini di profittabilità», ha spiegato recentemente a Valori Silvia Merler, ex analista della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari (EN) della Commissione Europea (ECFIN) e attualmente Affiliate Fellow presso il think tank economico Bruegel di Bruxelles. «Il risultato è che dal 2012 ad oggi la Spagna ha ridotto l’uso dei fondi della Banca centrale più velocemente e i suoi istituti hanno sperimentato un aumento del return on equity (Roe, il rapporto percentuale tra il reddito netto e il capitale proprio, in sostanza un indice di redditività, ndr) oltre a una riduzione significativa dei costi di finanziamento dei depositi retail». Le banche italiane, per fare un paragone, «hanno avuto nello stesso periodo un Roe negativo e sostengono costi maggiori sui depositi rispetto alle omologhe spagnole». Le prospettive, in generale, sono buone. Ma sul definitivo buon esito dell’operazione peseranno va da sé le variabili macroeconomiche. Il SUPPLEMENTO A valori / ANNO 14 N. 124 / DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015

L’ANDAMENTO DEL PIL SPAGNOLO (2002-16)

FONTI: EUROSTAT (HTTP://EPP.EUROSTAT.EC.EUROPA.EU/) NOVEMBRE 2014, EUROPEAN COMMISSION, 4 NOVEMBRE 2014. *PREVISIONI.

[variazione annuale Pil - in percentuale] 5 4 3

2,7

3,1

3,3

3,6

4,1 3,5

2 1

1,2

0,9 -0,2

-1 -2

-4

2,2

0,1

0

-3

1,7

-1,6

-1,2

-3,8 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014* 2015* 2016*

La filiale di Fiare a Bilbao

Pil spagnolo, dicono le stime Eurostat, dovrebbe centrare una crescita dell’1,2% entro la fine di quest’anno accelerando ulteriormente nel biennio seguente (vedi GRAFICo sopra). La disoccupazione, tuttavia, resterà forse il principale problema del Paese. I più recenti dati Eurostat (settembre 2014) collocano il tasso dei senza lavoro a quota 24% (2 punti percentuali in meno rispetto a dodici mesi prima), il livello più alto della Ue, Grecia esclusa. Il tasso medio registrato nell’Eurozona si ferma all’11,5%. ✱

INEFFICIENTE, OSCURO, SPAVALDO: IL MONDO DELLE CAJAS

Banche di risparmio a vocazione locale legate a doppio filo con il sistema politico regionale – responsabile in parte delle nomine dei vari board – e rigorosamente unlisted, vale a dire non quotate in Borsa e, per questo, non soggette alla regolamentazione più stringente che accompagna le public companies. Sono le cajas, “casse”, ovvero gli istituti di credito collocatisi al centro della crisi finanziaria spagnola. Confinate per anni alla loro dimensione locale – fino al 1989 vigeva il divieto di aprire filiali al di fuori della regione di origine – le cajas prendono il volo a partire dagli anni ’90. Tra il 1990 e il 2008, nota William Chislett, ricercatore presso il Real Instituto Elcano, in una ricerca pubblicata lo scorso febbraio, il numero delle filiali delle banche di risparmio passa da 13.650 a 25.035. Quello delle omologhe delle banche commerciali si riduce da 17.075 a 15.617. Sommando le due categorie si arriva in pratica a una filiale ogni mille abitanti, una densità doppia rispetto alla media europea. Con inevitabilii conseguenze negative in termini di costi e inefficienze. 15



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