Valori n°116 2014

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 14 numero 116. Febbraio Marzo 2014. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

MELISSA FAVARON

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Senza un euro Da strumento del progetto politico europeo, è diventato emblema della crisi Finanza > Strozzini allo sportello. Le banche ufficialmente sotto accusa per usura Economia solidale > La libertà delle imprese può prevalere sull’interesse comune? | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Dopo la Cina l’Etiopia: la nuova meta del capitalismo prêt-à-porter


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| editoriale |

Euro: un problema politico di Alberto Berrini

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L’AUTORE Alberto Berrini Esperto e capace divulgatore delle dinamiche dei mercati internazionali e degli effetti della globalizzazione, è consulente economico per il sindacato Fiba-Cisl nazionale. Collabora con diverse testate, è editorialista di Valori e ha pubblicato numerosi libri, tra cui Le lezioni della crisi. Agenda per una nuova politica economica (Monti, 2013), Una tempesta senza fine. Sfide globali e azione sindacale (Edizioni Lavoro, 2011) e Nel mezzo della crisi. Keynes e le conseguenze economiche della... Grecia (Diabasis, 2010).

on la caduta del muro di Berlino lo scenario mondiale cambia. Il “macro” conflitto politico, con i blocchi contrapposti Est-Ovest a cui si affiancano conflitti economici “micro” sovraregolati dalle più importanti esigenze politiche, lascia il posto al “macro” conflitto economico (la globalizzazione) a cui si abbinano “micro” conflitti politici, per lo più in aree periferiche del Pianeta. Il conflitto riguarda ora nuovi confini, le aree commerciali, e utilizza nuove armi, in particolare le valute. Il primo scontro (primi anni ’90) riguardò dollaro e marco tedesco. L’unificazione della Germania imponeva tassi di interesse alti sul marco, per evitare l’inflazione a un’economia che ne inglobava un’altra assai più debole, ma a cui concedeva la stessa moneta. Gli Usa volevano tassi bassi sul dollaro per uscire dalla recessione. Ne scaturì una “tempesta valutaria” che condusse alla fine del Sistema Monetario Europeo. L’attuale scontro, il più rilevante, coinvolge dollaro e renminbi. Il primo, reso debole dalla politica monetaria espansiva della Fed, è stato un’arma importante per portare gli Usa fuori dalla crisi. Ma si è favorita la corsa all’accreditamento della valuta cinese sui mercati mondiali. La globalizzazione è stata anche e soprattutto un fenomeno finanziario. In assenza degli Stati Uniti d’Europa (che sarebbero la prima potenza economica mondiale) ci siamo presentati al tavolo da gioco con l’euro, che in termini di transizioni finanziarie è seconda solo al dollaro, grazie alla dimensione dei mercati europei e alla credibilità della Bce. Ma al prezzo di politiche economiche, che per brevità chiameremo di austerity, che hanno danneggiato l’economia reale e provocato danni sociali inimmaginabili. Non c’è dunque da stupirsi se oggi molti cittadini europei faticano a credere al progetto europeo e percepiscono dell’euro più limiti e difetti che non la necessità e le potenzialità. Al punto che oggi si è aperto il dibattito, spesso cavalcato da forze populiste, “euro sì/euro no”. In proposito è utile richiamare il modello di Hirschman (Exit, Voice, and Loyalty), un economista sensibile alle problematiche politiche e sociali. Chi non condivide più il modo di operare dell’organizzazione in cui è coinvolto ha davanti a sé due strade. La prima è l’exit, ossia l’uscita da tale organizzazione, un modo di operare tipico delle sfera economica. La seconda strada è la voice, che consiste nel dare “voce” alla propria protesta. Appartiene all’ambito politico perché punta sull’azione collettiva per raggiungere gli obiettivi di cambiamento che ci si è prefissi. L’applicazione al dibattito sull’euro è evidente: la questione non è la valuta unica europea, ma le politiche economiche che hanno fatto seguito alla sua nascita. Il problema non è tecnico-economico, vale a dire l’uscita verso valute che magicamente risolverebbero le difficoltà economiche dei Paesi europei (crescita, debito, occupazione). La questione è politica, in quanto riguarda le decisioni soprattutto di natura fiscale (riforma del fiscal compact, eurobond, ecc.) in grado di impostare un nuovo modello di progetto europeo. In questo numero di Valori si spiegano vantaggi e svantaggi dell’euro e i rischi che comporterebbe uscirne. Ma non si tratta di confrontare i costi e benefici economici della valuta europea. Il problema, come detto, è politico. L’euro doveva essere l’ombrello monetario del modello europeo di “economia sociale di mercato”. Invece rischia di condurlo al suo fallimento. Ma, come spesso ci ricorda Amartya Sen, di meglio nel mondo non c’è.  | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 3 |


fotoracconto 02/05

“Sono troppo giovane per essere così arrabbiato”: ecco la protesta dei ragazzi di Londra durante uno sciopero contro i tagli alla scuola e alla sanità nel 2012. In base alla spending review, tra il 2011 e il 2012 la spesa britannica per l’istruzione sarebbe, infatti, scesa del 5,7% in termini reali, nonostante un precedente impegno ufficiale del governo in senso contrario. Stessa mancata promessa e medesimo destino per la sanità, con un abbattimento della spesa dello 0,9% sul bilancio 2011. Il fotoracconto di questo numero di Valori è dedicato alla protesta in Europa, che si esprime in modi diversi e in condizioni diverse. Da Paesi considerati più deboli, come la Grecia o la stessa Italia, ad altri più “forti”, come la Germania e la Gran Bretagna.

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Abbiamo scelto di dare spazio agli scatti di una fotografa non professionista, ma secondo noi di grande talento, Melissa Favaron, che negli ultimi anni ha girato l’Europa immortalando le emozioni delle persone nel momento della protesta. «Gente che cerca di ribellarsi a questa crisi opprimente», spiega Melissa. «Ho partecipato a diverse manifestazioni e ho raccolto immagini che rappresentano la disperazione e anche la speranza delle persone di riuscire a cambiare qualcosa».

MELISSA FAVARON


MELISSA FAVARON

| sommario |

febbraio/marzo 2014 mensile www.valori.it anno 14 numero 116 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Alberto Lanzavecchia, Angela Madesani, Luca Martino, Elena Meneghetti, Valentina Neri, Alessandro Santoro, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Melissa Favaron; Bee Free (Giulia Manelli per Assocalzaturifici); NOAA (http://commons.wikimedia.org); Andrea Rossetti (Courtesy Fondazione Merz); Davide Viganò

fotoracconto 01/05 A maggio del 2012, nella capitale finanziaria della Germania che guida l’imposizione del rigore all’Europa, sono migliaia in corteo per Blockupy Frankfurt e centinaia gli attivisti che si accampano per giorni con le tende davanti alla sede della Banca centrale europea (Bce).

dossier Senza un euro L’altra faccia della moneta unica La solitudine della Banca centrale europea La terza via: accanto all’euro le monete complementari Unione, spesa e concorrenza. Niente di nuovo sul fronte fiscale Fisco, uno spread si aggira per l’Europa Eurocrack Italia: non si esce vivi dalla moneta unica

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

valorifiscali finanzaetica

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I cravattari con i colletti bianchi Carry trade e speculazione. Arriva la Tobin tax cinese Se una banca finanzia il bene comune

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numeridellaterra economiasolidale

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Giustizia privata. Se la libertà delle imprese vince sull’interesse comune Pazienti e farmaci: quei quattro miliardi (quasi) sprecati Ai piedi sempre meno made in Italy

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socialinnovation internazionale

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Tutti i diamanti del presidente H&M, il capitalismo prêt-à-porter Se la Cina mette le mani sull’Etiopia

43 46 47

avvistamenti altrevoci bancor

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LE NOSTRE SCUSE Cari lettori, vi sarete accorti che a febbraio Valori non è uscito, è stato sostituito dal numero doppio febbraio/marzo che state leggendo. Ce ne scusiamo con tutti voi, ma abbiamo avuto uno stop dei lavori del giornale causato da una riorganizzazione interna. Abbiamo avvertito gli abbonati di cui avevamo l’indirizzo e-mail. Con gli altri ci è stato impossibile. Per l’editoria non è un momento facile. Anche Valori sta attraversando qualche difficoltà, ma ce la stiamo mettendo tutta per continuare a darvi la solita informazione di qualità, grazie allo sforzo di tutta la squadra di Valori, dai soci della Cooperativa editoriale al Cda a tutti i giornalisti. Ma vogliamo ringraziare soprattutto voi lettori e chiedervi di continuare a sostenerci.

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dossier

a cura di Andrea Barolini, Matteo Cavallito ed Elisabetta Tramonto

fotoracconto 03/05 La bandiera greca orgogliosamente al centro nelle manifestazioni di Atene del 2012. Il bersaglio dei cartelli di protesta era, come oggi, l’Europa a guida tedesca; e l’iconografia più gettonata quella di una troika europea “assetata di sangue”, con la Germania che, negli slogan, si accanisce invece di restituire ciò che portò via forzosamente alla Banca centrale greca nella Seconda guerra mondiale (la World War II).

L’altra faccia della moneta unica > 8 La solitudine della Bce > 10 La terza via: le monete locali > 10 Fisco: uno spread si aggira per l’Europa > 14 Non si esce vivi dall’euro > 16


MELISSA FAVARON

Senza un euro L’euro è diventato il capro espiatorio dei mali dell’Europa, ma non va confuso con l’austerity La moneta unica ha molti difetti, ma uscirne sarebbe anche peggio. Il problema è la mancanza di equilibrio

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| senza un euro |

L’altra faccia della moneta unica di Andrea Barolini

erché, a neanche dieci anni dalla sua nascita, l’euro si è trovato sull’orlo del baratro? La risposta data più di frequente è che l’euro si è trovato a fronteggiare la peggiore crisi dai tempi della Grande Depressione e che a ciò si sono aggiunte spinte speculative senza precedenti. Ora, che la crisi sia stata devastante e che la finanza abbia adottato comportamenti inqualificabili è indubitabile. Ma non è tutto. Sono, infatti, la natura stessa della moneta unica e, soprattutto, le caratteristiche della sua governance, ad averne messo davvero a rischio la tenuta. Gli stessi problemi che, allargando il discorso dalla questione puramente “monetaria” a quella più ampiamente “economica”, contribuiscono oggi ad ancorarci alla recessione.

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L’unione monetaria europea non è accompagnata da un’unione economica. Vige il pensiero unico del rigore e mancano meccanismi di compensazione per riequilibrare le differenze tra Stati ricchi e poveri | 8 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

Luci e ombre dell’euro Una premessa è d’obbligo: l’euro non è stato una iattura. La maggior parte degli economisti ne riconosce l’utilità: la moneta unica ha costituito il complemento logico del mercato interno. Aderendo a quest’ultimo, «gli Stati avevano rinunciato agli strumenti di protezione delle frontiere», ricorda l’economista Jean Pisani-

Ferry nel libro Le réveil des démons. La crise de l’euro et comment nous en sortir. Che continua: «Un partner che svalutava il proprio tasso di cambio, come fece l’Italia nel ’92-93, guadagnava, infatti, porzioni di mercato senza che alcuna barriera potesse essere opposta». Con la moneta unica ciò non è stato più possibile. L’euro, inoltre, ha permesso di indebitarsi a tassi più bassi, con un calo del costo del denaro soprattutto nei Paesi della “periferia dell’eurozona”. Ancora, gli speculatori non hanno più potuto “scommettere” su una valuta europea contro un’altra. Fin qui i lati positivi dell’Unione economica e monetaria (Uem). Sono però molte le cose che non funzionano. A partire da alcuni “peccati originali” della valuta unica. Innanzitutto, «i parametri fissati dal trattato di Maastricht non sono mai stati modificati», spiega Maria Romana Allegri, docente di diritto dell’Unione europea all’Università di Roma La Sapienza. «Nel 1997 – continua la professoressa – è stato firmato un patto di stabilità, poi ammorbidito nel 2005, e nel 2012 è arrivato il fiscal compact». Tutti documenti con i quali si è imposto il rigore di bilancio come unica ricetta per garantire il buon andamento economico dell’Unione. Al contrario, di cambiamenti ci sarebbe urgente bisogno: «Esistono due problemi principali. Il primo – spiega Francesco Saraceno, economista dell’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques) di Parigi – è legato al mandato del soggetto che governa l’euro, la Bce, che è troppo restrittivo rispetto ai compiti di una banca centrale. Il secondo


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riguarda il coordinamento tra le politiche monetarie e quelle fiscali». L’Uem, infatti, è stata concepita come un’unione molto più “monetaria” che “economica”: le decisioni sulla valuta, cioè, difficilmente sono state accompagnate da un adeguato supporto politico. «Negli Usa – prosegue il ricercatore – esiste invece un gioco di squadra tra governo e Federal Reserve. A volte esse si sostengono l’un l’altra, altre volte si compensano per essere più efficaci».

Nessuna compensazione, anzi Le politiche fiscali introdotte attraverso il bilancio federale americano, ad esempio, possono servire a ridurre le differenze regionali: si tratta di tutti quei meccanismi perequativi (trasferimenti, sussidi, politiche sociali) che consentono di sostenere chi è più in difficoltà. «Supponiamo ad esempio – prosegue Saraceno – che la Florida attraversi un periodo di crisi e che, allo stesso tempo, lo Stato di New York viva un boom. I newyorkesi pagheranno più tasse perché produrranno più reddito. Parte di tali proventi sarà destinata a trasferimenti verso la Florida, ad esempio sotto forma di sussidi di disoccupazione. Ecco, se un sistema simile fosse stato in vigore in Europa dal 2005, ci sarebbe stato un trasferimento dalla Germania alla Grecia. Ciò non significa che i greci debbano vivere sulle spalle dei tedeschi: significa che esistono cicli diversi, e la mancanza di strumenti per appianarli crea divergenze molto più problematiche che negli Usa». In Europa, invece, la Commissione gestisce un bilancio inferiore al 2% del Pil dell’area (contro il 25% circa degli Usa). Ma non è tutto: nel diritto comunitario si è perfino escluso che gli “aggiustamenti perequativi” possano risultare necessari. Può sembrare incredibile, ma il trattato sul funzionamento dell’Ue vieta esplicitamente a uno Stato di aiutarne un altro in difficoltà (art. 125). Così tutti i Paesi si sono mossi in “ordine sparso”. A partire dalla fine degli anni Novanta la Spagna ha favorito la bolla immobiliare con grandi incentivi fiscali. La Germania ha accresciuto la sua competitività sulle esportazioni, soprattutto per

IN RETE www.ecb.europa.eu www.europarl.europa.eu http://fsaraceno.wordpress.com www.ofce.sciences-po.fr

il cosiddetto Mittelstand (le piccole e medie imprese). Per non parlare delle enormi differenze sulle tassazioni: l’Irlanda applica un’aliquota del 12,5% sui profitti aziendali. E senza dimenticare che la stessa Germania, all’epoca della fondazione dell’euro, aveva guadagnato molto attraverso una svalutazione competitiva legata al tasso di cambio con il marco (“L’euro – scrive Pisani-Ferry – costituì per Helmut Kohl la contropartita rispetto all’unificazione della Germania”, che preoccupava alcuni partner europei).

Europa unica senza unione economica A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore pesante zavorra: il pensiero (quasi) unico che alberga negli organismi dirigenti. «Il Trattato di Lisbona attualmente in vigore continua a prevedere un semplice “stretto coordinamento” delle politiche economiche degli Stati membri», ricorda

Maria Romana Allegri. Si suppone ancora, dunque, che il mercato unico e l’euro, associati al controllo sul bilancio, favoriscano automaticamente la convergenza delle economie dell’area. Similmente la finanza privata è stata regolata secondo l’assunto, smentito dai fatti, secondo il quale il mercato, se lasciato libero, permette un’allocazione ottimale dei capitali. Dogmi che hanno ipnotizzato l’Europa: «Nell’Ue esistono veri e propri profeti del rigore. Al contrario, l’economia avrebbe bisogno di una potente mano pubblica, in grado di entrare in azione quando i mercati sono inefficienti», aggiunge Saraceno. Pare essersene reso conto perfino Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, che nell’ottobre 2012 ha spiegato in un rapporto come sia necessario andare «verso una vera unione economica e monetaria», sulla base di un’eurozona «dotata di una capacità di bilancio in grado di migliorare le risposte agli shock che colpiscono alcuni Paesi» e di «facilitare le riforme strutturali». Resta da chiedersi: che Europa avremo se a disegnarla saranno ancora una volta i pasdaran del pensiero unico e del rigorismo? 

L’EUROPARLAMENTO CHE VERRÀ: RISCHIO DI ESTREMISMI E SABOTAGGI POLITICI A ottobre scorso un sondaggio pubblicato dal settimanale Nouvel Observateur ha scosso l’Europa: il Fronte Nazionale, l’estrema destra francese, guidata da Marine Le Pen, potrebbe risultare il primo partito transalpino alle prossime elezioni europee (previste a maggio). Al partito ultra-conservatore potrebbe andare il 24% dei suffragi: più dei due grandi partiti di centro destra e centro sinistra (UMP e PS). La dinamica potrebbe non risultare confinata al “caso” francese. Gli estremismi sono dati in forte ascesa un po’ ovunque. Cavalcando l’euroscetticimo (alimentato a sua volta dalla crisi, dal malcontento, e dalla necessità di trovare un capro espiatorio), i partiti nazionalisti, xenofobi, anti-europei potrebbero arrivare a superare un quarto dei 751 seggi a disposizione in parlamento. Oltre al FN francese, anche Geert Wilders in Olanda potrebbe fare il pieno di voti. E così il Vlaams Belang in Belgio e la Fpo in Austria. Per non parlare, sempre in territorio austriaco, del Team Stronach guidato dall’omonimo miliardario Frank, che promette l’uscita immediata dall’euro. Programma identico ad Alternativa per la Germania, che potrebbe arrivare al 20% (secondo un sondaggio Tns-Emnid). In Finlandia, poi, i “Veri finlandesi” sono ormai la terza forza politica nazionale, mentre in Ungheria si fa largo il movimento Jobbik e nel Regno Unito aumenta i consensi l’Ukip (entrambi di estrema destra). Insomma, quello che si prospetta è un parlamento frammentato, estremizzato e, forse, pronto a rovesciare il tavolo europeo.

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dossier

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La solitudine della Banca centrale europea di Andrea Barolini

Negli Usa politica economica e monetaria collaborano per superare la crisi: il controllo dell’inflazione è importante quanto quello della disoccupazione. La Bce ha le mani legate. Risultato: i prezzi crescono poco, il lavoro per niente ono passati più di trent’anni da quando Henry Kissinger si chiedeva: «Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?». Da allora, certo, il Vecchio Continente è cambiato radicalmente. Quando l’ex segretario di Stato di Nixon e Ford lanciava la sua provocazione, non c’erano mai state neppure delle elezioni dirette per il Parlamento europeo (le prime furono nel 1979), l’Ue non esisteva (era l’epoca della Cee) e

S

la moneta unica era ancora soltanto un’ipotesi. Eppure c’è ancora qualcosa di “vero” in quella domanda. Per rendersene conto, basta mettersi nei panni (scomodi) di Mario Draghi.

Chi decide alla Bce? Premessa: alla Banca centrale europea va dato il merito di essersi “accorta” della crisi in anticipo rispetto alla solerzia pachidermica della politica comunitaria.

La Bce aveva cominciato, infatti, a iniettare massicciamente liquidità già nell’estate del 2007 (sotto la gestione di JeanClaude Trichet). Ma a mancare è stata proprio la politica. L’Eurotower non ha un interlocutore unico che sia in grado di contribuire a definire quel policy mix che, ad esempio, negli Usa, rende le politiche monetaria ed economica due redini che collaborano (almeno sulla carta) per un’unica causa: superare la crisi.

La terza via: accanto all’euro, le monete locali di Elisabetta Tramonto

Dal contagio del Sardex al via libera della Regione Lombardia. Le monete complementari spopolano. Non una alternativa all’euro, ma un modo per aumentare gli scambi Alla fine la Lombardia ce l’ha fatta. Non si chiama “lombard” (nome che piaceva al popolo leghista) e non sostituirà l’euro, ma una moneta elettronica complementare sarà ufficialmente testata nella regione. Il 21 febbraio scorso è entrata in vigore la legge regionale 11/2014, denominata “Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività”, approvata dieci giorni prima all’unanimità dal Consiglio regionale. La legge contiene anche il via libera alla sperimentazione di «un circuito di moneta complementare, da intendersi esclusivamente quale strumento elettronico di compensazione multimediale locale per lo scambio di beni e servizi». Quella di una moneta complementare è un’antica idea della Lega Nord. Se ne era discusso in modo accademico nella legislatura scorsa per iniziativa dell’allora vicegovernatore di Formigoni, Andrea Gibelli. Con il pacchetto di norme per la competitività promosso dalla

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giunta Maroni è stato individuato lo strumento legislativo per introdurre la novità nel sistema economico della Lombardia. Modelli di riferimento: naturalmente il longevo Wir (la moneta complementare svizzera che quest’anno compie 80 anni ed è usata da 60mila piccole imprese), ma anche l’ormai affermatissimo Sardex (di cui Valori ha parlato in più occasioni, l’ultima sul numero di giugno 2013), che dalla Sardegna sta contagiando diverse regioni italiane. «Che le monete complementari siano un’alternativa all’euro è un equivoco», afferma Luca Fantacci, docente all’Università Bocconi, che da anni si occupa di questi temi. «Quando è stato creato si pensava a una moneta comune per scambiarsi beni e servizi, ma non necessariamente a una moneta unica. L’euro non esclude che ci siano specificità e autonomie monetarie. Le monete locali sono una terza via, un possibile strumento per attenuare gli effetti non voluti della moneta unica, senza eliminarla». Ideato nel 2010 da un gruppo di ragazzi neanche trentenni, come strumento per rispondere alla crisi (di credito e non solo), in quattro anni ha raggiunto dimensioni impensabili. Dalle 200 aziende di fine 2010 il circuito oggi conta più 1.500 realtà iscritte, tutte sarde. Il numero di operazioni è passato da 420 a oltre 26mila (+450%


In Europa tale compito di coordinamento dovrebbe essere assolto dal consiglio Ecofin. Ma a farne parte sono sia i ministri economici dei governi che aderiscono alla moneta unica, sia quelli che non soddisfano ancora i requisiti richiesti, sia quelli che hanno scelto di evitare di farne parte sin dall’inizio (Svezia e Regno Unito, che scelsero l’opting out). Non è così semplice, dunque, mediare tra interessi così diversi (anche se l’euro è la moneta utilizzata da 18 dei 28 Stati membri). Esiste poi l’Eurogruppo, che non è altro che il consiglio Ecofin dei soli ministri dei Paesi che adottano la valuta comunitaria, ma non può prendere decisioni giuridicamente vincolanti. Ci sarebbe allora l’organismo esecutivo dell’Ue, la Commissione. Vero, ma la sua incapacità di reagire con velocità è stata del tutto evidente negli ultimi anni. Essa stessa poi è espressione di tutti gli Stati membri, dei quali è chiamata a tutelare gli interessi.

Crescita o lotta all’inflazione? «Negli Usa, invece, nel 2011 – spiega Francesco Saraceno, economista dell’OFCE (Observatoire français des conjonctures

MELISSA FAVARON

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Nello sguardo di questa donna le emozioni della Grecia alle prese con le elezioni del giugno 2012.

économiques) di Parigi – un banchiere centrale americano spiegava che un tasso di disoccupazione al 9% è grave tanto quanto un tasso di inflazione al 5%». Al contrario, prosegue il ricercatore, «in Europa l’attenzione è ancora eccessivamente concentrata sui prezzi e sui deficit pubblici piuttosto che su tutte le azioni che potrebbero consentire di contrattac-

in un anno) e gli importi transati sono arrivati quasi a quota 15 milioni di euro (+350% rispetto all’anno precedente). E ora l’esperienza del Sardex sta facendo proseliti in tutta Italia. In Sicilia e Piemonte sono già partiti i circuiti Sicanex.net e Piemex.net. Seguiti da Marchex.net, nelle Marche, e Samex.net, nel Sannio (Molise, Benevento e Avellino). Ma presto arriveranno anche Tibex.net (nel Lazio), Liberex.net (in Emilia Romagna) e Abrex.net (in Abruzzo). E sono in fase di preparazione (ma vedranno la luce entro la primavera-estate 2014) altri otto circuiti in Italia. «Ci stanno arrivando centinaia di richieste per replicare il modello», spiega Carlo Mancosu, uno dei fondatori del Sardex. «È fondamentale che partano dal basso. Noi poi ci offriamo come consulenti, ma dobbiamo fare una selezione e verificare se esistono le condizioni per creare un circuito di moneta locale. L’iniziativa deve essere gestita professionalmente, ma ha anche bisogno di una forte dose valoriale. L’impatto dell’introduzione di una moneta complementare non è solo economico, ma anche di coesione sociale». Ogni network è un circuito chiuso e la moneta locale vale solo all’interno di quell’area. «Ogni territorio ha le sue peculiarità e la moneta locale deve rispecchiarle – spiega Carlo Mancosu – ma il meccanismo è lo stesso: le aziende del circuito accettano di ricevere una quota di crediti in moneta complementare quando forniscono beni e servizi ad altre realtà aderenti. A loro volta potranno usare tali

care la crisi». Per la Fed, dunque, il rigore di bilancio e il contenimento dell’inflazione non sono necessariamente una priorità, perché «a volte conviene accentuare il carattere espansionista della politica monetaria, anche a costo di una fiammata dei prezzi nel breve termine (cosa che resta peraltro difficile in un contesto di crisi)». Un punto di vista che pare estraneo all’Ue e alla Bce: colpa di Draghi e di chi lo ha preceduto? Solo in parte. «Draghi ha provato a modificare, almeno parzialmente, le scelte monetarie attraverso l’OMT (Outright Monetary Transactions, l’acquisto di obbligazioni sovrane). Ma, per farlo, ha dovuto dare un’interpretazione nuova al diritto europeo», che ha fatto storcere il naso ad alcuni. È lo stesso trattato di Maastricht (agli articoli 119 e 127) che impone alla Bce di dare priorità all’inflazione piuttosto che alla crescita. E che, almeno sulla carta, lega le mani alla banca centrale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: in Europa, i prezzi crescono in media meno del 3%. La disoccupazione media nell’area-euro è ormai attorno al 12%. 

crediti per rifornirsi quando saranno loro ad averne bisogno». Dall’anno scorso il Sardex è utilizzabile anche dai singoli: «Molte aziende hanno accettato di distribuire moneta locale ai propri dipendenti al posto di quei benefit (bonus, indennità sostitutiva per la mensa), che con la crisi in molti casi erano stati eliminati. I dipendenti si ritrovano così ad avere dei crediti da spendere sul territorio, in qualsiasi attività del circuito. Ha permesso a molti di sostenere spese che altrimenti non avrebbero potuto affrontare, per esempio il dentista». Un notevole aumento del potere d’acquisto per i singoli. Ma quali sono i benefici per le imprese che partecipano? «Abbiamo monitorato i risultati – spiega Carlo Mancosu – e verificato che la maggior parte delle realtà del circuito vede migliorare il fatturato dal 10 al 35%. Merito anche del fatto che una parte della fornitura viene pagata in Sardex. In molti casi sono stati salvati posti di lavoro, integrando una riduzione del salario con crediti in moneta complementare. E poi c’è il grande beneficio dell’accesso al credito: aderire al circuito delle monete complementari per le imprese è un modo per finanziarsi tra loro a tasso zero». Da quest’anno il Sardex sarà studiato anche dall’Europa. È uno dei tre modelli presi in esame da un progetto europeo, insieme al Bristol Pound (bristolpound.org) e alla Catalogna, per sperimentare il ruolo della pubblica amministrazione nei circuiti di monete complementari. 

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dossier

| senza un euro |

Unione, spesa e concorrenza Niente di nuovo sul fronte fiscale di Matteo Cavallito

In Europa vigono politiche fiscali diverse tra un Paese e l’altro, come conseguenza di diverse politiche di spesa. Serve un sistema omogeneo. Ma il fiscal compact non basta chiarire il concetto, tra gli altri, ci aveva già pensato un anno e mezzo fa il Ceo di JP Morgan James E. Stanley. All’Europa, aveva spiegato in un’intervista a Il Sole 24 Ore del giugno 2012, «serve è un sistema fiscale federale». Qualcosa, insomma, che riporti le lancette dell’orologio all’era pre crisi, quando «il rischio eurozona era percepito dai mercati come un unico rischio» e la moneta unica non rappresentava, come oggi, «17 rischi diversi». La chiave del ragionamento, in fondo, è tutta qui. Quando l’euro ha iniziato a circolare gli spread tra i titoli di Stato di lungo periodo dei Paesi della mo-

A

neta unica si sono sostanzialmente azzerati. Tra il 2002 e il 2007, in altre parole, un bund tedesco a dieci anni o un’obbligazione greca di pari durata erano per il mercato all’incirca la stessa cosa. Per lo meno in termini di rischio. La crisi e l’impennata degli spread hanno cambiato le carte in tavola chiarendo così l’equivoco di fondo: l’unione monetaria, di per sé, ha perfettamente senso, ma nella sua versione attuale non può funzionare perché ogni Paese aderente conserva una piena libertà in materia fiscale, ovvero nelle scelte chiave che determinano ammontare e direzione della spesa pubblica. Una situazione carica di conseguenze.

Concorrenza fiscale Di fatto, è un problema di concorrenza. Nel febbraio 1997, la statunitense Boston

Obiettivo equilibrio. Il surplus non è una virtù di Elisabetta Tramonto

Un team di docenti della Bocconi propone una strada per riequilibrare l’eurozona. Ce ne parla Luca Fantacci La crisi dell’eurozona è dovuta a un disequilibrio tra i Paesi membri, in particolare nella bilancia dei pagamenti. Il deficit della Grecia non dovrebbe essere considerato meno virtuoso del surplus della Germania, si tratta comunque di un disequilibrio. È questa l’opinione che circola nel team di docenti della Bocconi, in particolare Luca Fantacci e Massimo Amato, che lo scorso 29 gennaio hanno organizzato il seminario intitolato “Come riequilibrare l’eurozona”. «L’Europa nel suo complesso è in equilibrio verso il resto mondo. Il disequilibrio è tutto interno. Gli Stati Uniti sono in deficit cronico, la Cina in surplus cronico. È paradossale che in difficoltà siamo solo

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noi», spiega Luca Fantacci, docente di Scenari economici internazionali alla Bocconi e Distinguished Visiting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge. Fino a pochi anni fa imputare le colpe della crisi della zona euro a un disequilibrio nella bilancia dei pagamenti non era pensabile... Oggi sta avvenendo un cambio di mentalità a livello politico ed economico. Sul finire del 2011 si è cominciato a riconoscere che gli squilibri sul saldo estero di ogni Stato membro contano all’interno dell’Ue, con l’adozione della Procedura per gli Squilibri Macroeconomici (Mip). Nell’ottobre del 2013 il Fondo monetario internazionale ha osservato che la riduzione «degli ampi squilibri esterni nell’area euro è stata asimmetrica». Lo scorso novembre la Commissione Ue ha annunciato l’intenzione di procedere a un’analisi approfondita dei persistenti surplus della bilancia commerciale


| dossier | senza un euro |

Scientific Corp, una multinazionale attiva nel settore della tecnologia medica, chiuse il suo impianto produttivo di Liegi, nel Belgio orientale, lasciando a casa 200 lavoratori. In agenda c’era il trasferimento della produzione a Galway, in Irlanda, dove l’azienda aveva già da tempo messo radici. Quando il cronista del New York Times gli chiese una spiegazione, il direttore delle operazioni della BSC non esitò a fornirla: «Le tasse sono importanti e l’Irlanda costa meno». Diciassette anni fa, la tassazione applicata alle imprese manifatturiere registrate in Belgio sfiorava il 40%, un’aliquota quattro volte superiore all’omologa irlandese. Oggi l’aliquota belga si attesta al 34%, quella di Dublino è ferma da molti anni al 12,5. La tassazione sul lavoro, poi, fa il resto. Per ogni mille euro di stipendio netto erogati a un suo lavoratore, un’impresa belga deve spenderne quasi 2.400. A parità di retribuzione la spesa per un’azienda irlandese non supera i 1.340 euro. Oggi nell’eurozona ci sono 17 diverse agenzie delle entrate che riservano alle imprese 17 diversi trattamenti (vedi MAPPA alle pag. seguenti). Per intercettare i migliori si possono creare holding ad hoc, dando vita alla celebre proliferazione delle controllanti lussemburghesi, irlandesi, olandesi o cipriote, oppure si può procedere con il trasferimento della produzione.

I Paesi con le tasse più basse attirano le imprese. Negli altri la crescita si contrae, lo stato intasca meno e l’occupazione si riduce Il risultato, per i Paesi con la tassazione più alta, è che la crescita si contrae, le casse pubbliche intascano di meno e l’occupazione si riduce. Dove le aliquote sono più basse, al contrario, la crescita si manifesta più facilmente. Dal 2011 ad oggi, unico Paese tra i “Piigs”, l’Irlanda non ha soltanto ripreso a crescere ma, dati Eurostat alla mano, ha addirittura evidenziato tassi di espansione superiori alla media dell’eurozona. Il 7 gennaio scorso i rendimenti del bond decennale irlandese sono scesi al 3,27%. Il livello di rischio più basso degli ultimi otto anni.

Equilibri di bilancio Ma il vantaggio concorrenziale, è bene ricordarlo, non nasce certo per caso. Deriva da scelte precise, i cui frutti sono colti costantemente a livello contabile. «L’Irlanda ha potuto continuare ad applicare una tassazione del 12,5% sulle imprese perché ha mantenuto una spesa pubblica molto contenuta», spiega Carlo Secchi, professore emerito di Politica economica europea ed ex rettore (2000-04) dell’Uni-

tedesca, dando inizio al primo passo della Macroeconomic Imbalance Procedure. Come siamo arrivati allo squilibrio attuale? Dall’introduzione dell’euro a oggi si è attivato un processo che ha portato a un disequilibrio di competitività tra i Paesi membri: differenze nei salari e nella produttività, non compensati da aggiustamenti del tasso di cambio reale, tra Paesi in surplus (nel centro dell’Europa) e Paesi in deficit (nella periferia). Questo processo ha portato all’attuale crisi della bilancia dei pagamenti. In più lo stop nel flusso di capitali privati verso i Paesi in deficit ha reso necessari interventi della Bce che ora si riflettono in una distribuzione asimmetrica della liquidità nell’Ue, che a sua volta amplifica il disequilibrio. Il denaro prestato dalla Bce alla “periferia dell’Europa” rifluisce verso il “Centro” e qui, anziché essere speso nuovamente all’estero, contribuendo a pareggiare la bilancia dei pagamenti, o all’interno, contribuendo ad aggiustare i tassi di cambio reali, viene ridepositato presso la Bce. E le politiche di austerity

versità Bocconi. È un nesso decisivo. L’unione fiscale («che pure non raggiunge mai la piena omogeneità delle aliquote») implica un’uniformità di spesa pubblica tra i singoli Paesi. E, per garantire quest’ultima, evidenzia il docente, «ci sono sostanzialmente due strade: un bilancio federale con un peso significativo oppure un sistema più decentrato che abbia però un nocciolo duro importante e condiviso». Sfortunatamente «noi europei non abbiamo né l’uno né l’altro». Da un lato, insomma, c’è il peso del budget a disposizione delle istituzioni europee che «arriva più o meno all’1% del Pil», un dato irrisorio rispetto a quel bilancio federale Usa, sottolinea ancora Secchi, che supera invece quota 20%. Dall’altro, c’è il contestato fiscal compact, che, al di là degli effetti recessivi riconosciuti dalla stessa Commissione europea a partire dal celebre “Rapporto Jan in ‘t Veld”, non pare in grado di modificare da solo l’attuale livello di disparità. «Un accordo sul saldo di bilancio con la regola del 3% sul deficit non basta – conclude Secchi –, occorre immaginare forme di coordinamento più strette che implichino un peso più omogeneo delle tasse sul Pil in termini percentuali. In questo modo si potrebbe evitare la concorrenza fiscale e quindi gli effetti distorsivi sui flussi degli investimenti». 

sono solo un “doloroso palliativo”: provocano effetti depressivi sia sulle economie che le “subiscono” sia sul sistema nel suo complesso. In più non curano gli squilibri strutturali delle bilance dei pagamenti. Qual è dunque la vostra proposta? Proponiamo una soluzione simile a quella ipotizzata da Keynes 70 anni fa, con la Clearing Union. Una camera di compensazione, in cui i diversi Paesi abbiano una sorta di conto dove registrare i saldi delle bilance commerciali. Quelli in deficit avranno un saldo negativo, che potranno compensare attraverso l’esportazione verso altri Paesi membri. Al contrario chi è in surplus potrà acquistare da Paesi in deficit. Per incentivare questo flusso di denaro è necessario distribuire in modo simmetrico gli oneri tra Paesi debitori e creditori, facendo pagare un interesse sia a chi è in surplus sia a chi è in deficit. Perché entrambe sono posizioni di disequilibrio, da disincentivare. La Germania non è virtuosa in quanto in surplus, perché dovrebbe usarlo per acquistare da Paesi in deficit. È questo il senso di appartenere a una comunità economica e monetaria. 

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| senza un euro |

Fisco, uno spread si aggira per l’Europa

SVEZIA 1,74

OLANDA 1,81

25% 22%

di Matteo Cavallito

2,00

25%

UE*

52%

1,34

29,55%

21,36% 22,85%

IRLANDA

REGNO UNITO

12,50% 23%

45%

37,85% 35,70%

38,70%

1,47

28,90%

20% 23%

SPAGNA 1,68 PORTOGALLO 1,60

| 14 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

18% 35% 35% 33,50%

45% 43,90%

FONTI: COMMISSIONE UE, 2013, ERNST&YOUNG IN INSTITUT ÉCONOMIQUE MOLINARI, PARIGI, 2013. *ESCLUSA CROAZIA **DATO 2006

1,39

33,33%

Costo del lavoro/ stipendio netto

52%

Gettito/Pil

MALTA

19,60%

31,40%

30%

21%

45%

48%

2,16

33,20% Corporate

Individuali

36,10%

FRANCIA

48%

Imposte indirette

56,60%

19%

38,40%

44,30%

1,73

23% 25%

N

21%

GERMANIA

el 2013, il valore delle tasse raccolte nell’Unione europea equivaleva in media al 35,7% del Pil. Nell’ultimo anno, in altre parole, poco più di un terzo della ricchezza prodotta nel Continente si è tradotta in un finanziamento per la spesa pubblica, comprese le pensioni, l’assistenza sanitaria e il welfare in generale. Ma il dato medio nasconde profonde differenze. In Danimarca, nel 2013, la pressione fiscale ha raggiunto la soglia del 47,7% in rapporto al Pil, contro il 44,3% della Svezia e il 44,1% del Belgio. Irlanda, Slovacchia, Romania, Lettonia, Bulgaria e Lituania, invece, viaggiano ampiamente sotto il limite del 30%. A incidere in modo particolare sul divario esistente tra le diverse nazioni sono soprattutto le tasse individuali e quelle sulle imprese. Nel primo caso, evidenziano i dati della Commissione europea, si passa da un’aliquota massima pari al 56,6% per la Svezia fino al 10% imposto in Bulgaria. Il governo di Sofia impone una tassa non superiore al 10% anche sui profitti delle aziende contro il 33,99% applicato in Belgio e il 35% imposto a Malta. Stesso discorso sul costo fiscale del lavoro. Mille euro di stipendio netto, segnala un’analisi di Ernst & Young, costano appena 1.180 euro a Cipro e 1.340 in Irlanda. In Germania un datore di lavoro spende a parità di stipendio esattamente 2.000 euro. In Belgio si arriva 2.340. Nel 2011, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati comparati, la pressione fiscale della Ue ha raggiunto il 38,8% del Pil contro il 28,7% del Giappone e il 25,2% degli Stati Uniti. 


| dossier | senza un euro |

FINLANDIA POLONIA AUSTRIA

ESTONIA

2,11

1,70

DANIMARCA

1,72 1,67

1,61 LITUANIA REP. CECA

23% 32% 32,40%

32,80%

LETTONIA

43,40%

26%

1,81 CROAZIA 51,13%

42%

21% 19% 22%

21%

25% 25%

15% 15%

25%

20% 21% 21%

20%

1,74

24% 24,50%

19%

1,73

15%

47,70%

34,40%

ND

50%

ND

21%

55,56%

SLOVACCHIA ROMANIA

25%

27,60%

20%

24%

1,75

1,83

SLOVENIA

16% 16% 24%

22%

28,20%

17%

28,50%

40%

20% 23% 19%

1,65

BELGIO

ITALIA

UNGHERIA

GRECIA

BULGARIA

CIPRO

1,58

2,34

1,94

1,97

1,71

1,50

1,18

12,50% 35% 35,20%

27,20%

18%

50% 20% 42%

44,10% 50%

43% 42,50%

37%

32,40%

31,40%

33,99%

43,60%

37,20%

29,22%

27%

23% 26%

22%

21%

19% 16%

15%

10% 10%

39,1%**

LUSSEMBURGO

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| senza un euro |

Eurocrack Italia: non si esce vivi dalla moneta unica di Matteo Cavallito

Abbandonare l’euro, svalutare, rilanciare la crescita. Per molti è un’equazione scontata. Ma la realtà sembrerebbe molto diversa l mito sono i favolosi anni ’80, quelli dell’ottimismo e delle svalutazioni competitive. Ma il rischio è quello dell’epica delusione, la stessa che accompagna la scoperta di un mercato globale che non lascia più spazio agli escamotages del passato. Potrebbe essere questo, a conti fatti, lo scenario di un addio all’euro, ipotesi nemmeno contemplata dai trattati continentali, eppure sempre più popolare nel dibattito politico ed economico delle periferie europee. Perché quella sul malfunzionamento dell’eurozona resta una discussione infinita e densa di aspetti del tutto condivisibili. Ma l’abbandono della moneta unica, intesa come extrema ratio del circolo vizioso austerity/recessione, MELISSA FAVARON

I

Una manifestazione a Roma a ottobre 2013. | 16 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

sembra scontrarsi fin dalla teoria con alcuni ostacoli oggettivi. E difficilmente superabili.

L’export? Non ripartirebbe «L’uscita dall’euro, di fatto, non è praticabile», sostiene Giuseppe Ragusa, docente di Economia presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma*. Perché «al di là del costo pagato in termini di inflazione», spiega, si andrebbe incontro ad almeno un paio di problemi. Da un lato la necessità di fare i conti con «un lungo periodo di transizione, due o tre anni, per riconvertire tutto quanto in lire a partire dai bilanci bancari», con inevitabile esposizione «alla speculazione internazionale e alla fuga dei capitali». Dall’altro, la scoperta di «una diversa struttura di import/export» che, a differenza di quanto accadeva negli anni ’70 e ’80, oggi «ci penalizzerebbe». La tesi era stata avanzata già nel 2012 da Confindustria, sottolineando il peso assunto negli ultimi anni

dalle importazioni di quei “beni semilavorati o finiti” che per un’economia con una valuta debole diventerebbero automaticamente più costosi. In passato, spiegava Confindustria, «quando un Paese svalutava otteneva un aumento dell’export e una riduzione dell’import di beni, sostituiti da produzione interna, senza aumento dei costi se non di quelli per le materie prime importate (…). Ma oggi le imprese esportatrici di beni, finali e non, importano, oltre alle commodity, anche molti input intermedi indispensabili per realizzare le produzioni: in Italia, Spagna e Portogallo, per esempio, intermedi e commodity sono pari a oltre il 60% dell’import totale; in Grecia poco meno. La svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni più costose, riducendo di molto il guadagno di competitività».

Svalutazione? Distorsione Una stima della rinnovata debolezza valutaria l’aveva offerta alla fine del 2011 Nomura ipotizzando una cambio lira/dollaro a quota 97 centesimi. Un dato molto significativo. Nel febbraio 2013 Morgan Stanley ha calcolato il fair value teorico dell’euro per ogni economia nazionale, vale a dire il “giusto cambio” di ogni singola valuta europea con il biglietto verde. Il risultato, per l’Italia, sarebbe pari a 1,19. Le analisi sono state elaborate in periodi diversi, ma con tassi di cambio sul mercato pressoché identici (1,34 e 1,36, quest’ultimo, per altro, tuttora corrente). Confrontando le due stime, la conclusione sembrerebbe evidente: in caso di addio all’euro, la nostra moneta nazionale si svaluterebbe più del dovuto e la distor-


L’impatto globale Difficile, infine, ipotizzare l’impatto per l’economia globale di una euro-exit italiana o, caso ancora più estremo, di una totale frantumazione dell’eurozona. Un evento, quest’ultimo, che per evidenti ragioni di peso e dimensioni costituirebbe una sostanziale novità. «Le dissoluzioni delle unioni valutarie del passato hanno riguardato tipicamente Paesi che sui

EUROPA: FAIR VALUE E SCENARI DI SVALUTAZIONE 1,7

Germania Irlanda Fair value

Euro exit

0,57

0,97

0,71

1,02 Austria

1,07

1,19 Belgio

0,7

0,5

1,19

1,22 1,25 Olanda

0,86

0,9

1,24

1,23 1,21

1,26

1,35 1,25

Finlandia Spagna Portogallo Francia

0,96

1,1

1,28 1,25

1,36

1,41

1,3

1,36

1,5

1,53

sione di mercato aumenterebbe. Un fenomeno, quest’ultimo, che colpirebbe soprattutto i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, vedi GRAFICO ). L’ipotesi è solo teorica, ma il rischio appare concreto. «In caso di uscita dalla moneta unica piomberemmo in una situazione ancora più grave rispetto a quella attuale», sostiene ancora Ragusa. «Non dimentichiamoci che siamo entrati nell’euro perché non riuscivamo più a gestire le difficoltà del circolo vizioso delle svalutazioni competitive della lira che avevano prodotto inflazione e diminuito la nostra credibilità. Si parla tanto di benefici mancati dell’euro, ma non si ricorda quasi mai che non vi abbiamo aderito per trarne benefici quanto per evitare ulteriori perdite».

Italia

Grecia

Dollaro vs Euro

mercati globali avevano un impatto inferiore rispetto a quello che avrebbero oggi le economie dell’eurozona», notava quasi due anni fa l’analista di Nomura Jens Nordvig. Tra gli esempi passati spicca soprattutto il caso dell’Unione Sovietica, che nel 1992 vantava un Pil pro capite di 5.000 dollari (cifra attualizzata al 2005), circa 1/6 della ricchezza prodotta mediamente da un singolo cittadino dei Piigs. A quei tempi il peso dell’Urss nell’econo-

mia mondiale in termini di Pil arrivava al 2,5% contro il 20% circa dell’odierna zona euro e il 6,7 dei suoi celebri “maiali”. Oggi, tra derivati, obbligazioni e prestiti internazionali, gli asset denominati in euro presenti al di fuori del Continente ammontano a 20 trilioni: più o meno 27 mila miliardi di dollari.  * L’intervista completa sarà pubblicata sul sito www.valori.it

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FONTI: NOSTRE ELABORAZIONI DA MORGAN STANLEY, FEBBRAIO 2013, E NOMURA, DICEMBRE 2011. TASSO DI CAMBIO AL 16 GENNAIO 2014 (1 EURO = 1,3624 DOLLARI)

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| valorifiscali |

Legge di stabilità

Niente cambio di rotta approvazione della legge di stabilità ha lasciato molto delusi tutti coloro che auspicavano un radicale cambio di rotta nelle politiche di bilancio e fiscali. Di fatto si tratta di una somma di interventi per i quali è sostanzialmente impossibile trovare il senso di una chiara direzione di marcia. L’unico denominatore comune sembra essere quello del rispetto

L’

dei vincoli contabili e, a dire il vero, neppure su quel fronte le previsioni appaiono del tutto solide. Per quel che riguarda, in particolare, le politiche fiscali, le risorse vengono disperse in (almeno) quattro direzioni diverse. Vi è il modesto intervento sulle detrazioni Irpef per il lavoro dipendente, che utilizza lo strumento giusto, ma con obiettivi poco chiari. Inizialmente sembrava un tentativo di ridurre i cosiddetti “salti” di aliquota marginale e, in particolare, l’aumento di prelievo che si verifica appena al di fuori della no tax area. In seguito il Parlamento ha inteso rimodularlo nell’illusione che potesse avere una finalità di riduzione del cuneo sul costo del lavoro e di redistribuzione, senza rendersi conto che ciò sarebbe stato possibile solo con un ben diverso ammontare di risorse. Il risultato è una misura sostanzialmente inutile. Vi è poi l’aumento delle detrazioni per ristrutturazioni edilizie e interventi di riqualificazione energetica, di per sé non sbagliato, ma poi contraddetto dalla clausola di salvaguardia che prevede una futura e generalizzata riduzione di tutte le detrazioni. In terzo luogo, alcune misure sono destinate alle imprese, nel tentativo di ridurre i disincentivi alle nuove assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato, di spingere le imprese a investire senza | 18 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

Un insieme di interventi per i quali è difficile trovare una chiara direzione di marcia. Una scelta minimalista che non paga neanche per la tenuta dei conti ricorrere al debito e di aiutare le banche a smaltire le sofferenze derivanti dai crediti inesigibili. Buoni propositi, ma, di nuovo, sarebbe stato necessario individuare quelli prioritari e concentrare su di essi le risorse. Infine, last but not least, la legge di stabilità ha scritto un ulteriore, ma certo non ultimo, capitolo della telenovela sulla tassazione della casa. Da un lato per le abitazioni principali, la Tasi è stata introdotta al posto dell’Imu, con un’aliquota più bassa ma senza le detrazioni. Dall’altro lato, per le seconde abitazioni non date in locazione, la Tasi

di Alessandro Santoro

viene sommata all’Imu, sebbene a parità di aliquota massima e di base imponibile, ma vi è un aggravio derivante dalla loro riconduzione parziale in Irpef, da cui erano state tolte solo due anni fa. Questo (precario) equilibrio è tuttavia di nuovo messo in discussione dalla previsione di un incremento dell’aliquota massima della Tasi che dovrebbe servire a reintrodurre, forse solo parzialmente, le detrazioni previste dall’Imu sull’abitazione principale. Come detto, la scelta minimalista non pare neppure del tutto pagante dal punto di vista della tenuta dei conti. Secondo la Nota di aggiornamento al Def, il rispetto degli accordi con l’Europa è affidato, da un lato, alla ripresa economica, e, dall’altro lato, alla forte riduzione della spesa pubblica, discutibile per opportunità e dubbia per entità. 


fotoracconto 04/05

MELISSA FAVARON

Desolata e deserta è la notte nella piazza di Francoforte davanti alla sede della Banca centrale europea. Una camionetta della polizia presidia il simbolo dell’euro. Nel maggio del 2012, nella capitale finanziaria della Germania che guida l’imposizione del rigore all’Europa, in migliaia hanno sfilato in corteo per Bloccupy Frankfurt e centinaia gli attivisti si sono accampati per giorni davanti alla sede della Bce. | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 19 |



| usura bancaria |

finanzaetica Carry trade e speculazione. Arriva la Tobin tax cinese > 25 Se una banca finanzia il bene comune > 26

I cravattari con i colletti bianchi di Paola Baiocchi

attività di prestare danaro a interesse è stata per secoli ferocemente condannata dalla Chiesa cattolica. Che poi è scesa a più miti consigli in coincidenza con l’espandersi dei monti di pietà (che controllava) e delle banche (di cui aveva bisogno). Allora l’interesse si chiamava ancora usura, dal verbo latino utor, usare. Solo più tardi, con il diffondersi della pratica di pretendere interessi sempre più esosi sui prestiti, il termine usura è andato a definire quell’odiosa speculazione su uno stato di necessità che è ormai la sua accezione. E parole come cravattaro, strozzino, sanguisuga, aguzzino, scortichino, rendono bene con quanto disgusto e riprovazione sociale è visto chi pratica l’usura. Quella di tipo criminale in Italia è in aumento, complice la stretta del credito alle famiglie e alle imprese, ed è più radicata – afferma uno stu-

L’

Non si parla più solo a mezza bocca di usura bancaria: alcune recenti sentenze hanno determinato che grandi istituti bancari del nostro Paese hanno praticato interessi usurari e devono restituire cifre importanti

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| finanzaetica |

ANATOCISMO, TI CREDEVO ANDATO VIA E INVECE SEI ANCORA QUA... Non è una malattia, ma si può soffrire di anatocismo. Il termine, di derivazione greca (da ána, di nuovo, e tokismòs, usura), spiega il meccanismo perverso con cui si capitalizzano gli interessi su un capitale affinché a loro volta producano interessi. Cioè, in parole povere, è il calcolo degli interessi sugli interessi, anche se regolarmente pagati. Chi pensa che questo trucco usuraio sia stato eliminato nell’agosto del 1999 dal primo governo D’Alema, si sbaglia. In quell’occasione se ne è molto parlato per via di una storica sentenza della Cassazione, ma poi il D’Alema I ha tutelato le banche con quello che fu chiamato, non a caso, “decreto salvabanche”. Dopo molte cause vinte da correntisti e mutuatari, che hanno costretto gli istituti bancari a restituire anche mezzo milione di euro su un mutuo, il comma 629 della legge di stabilità 2014 prova a far scomparire l’anatocismo modificando l’art. 120 del decreto legislativo n. 385/1993. Il nuovo articolo 120 attribuisce al Comitato interministeriale credito e risparmio (Cicr) il compito di determinare il criterio di produzione degli interessi nelle operazioni e stabilisce che nelle operazioni in conto corrente deve essere assicurata la stessa periodicità di conteggio; che gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre altri interessi e che, nelle operazioni contabili successive, gli interessi sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Staremo a vedere se la legge reggerà alla prova dei fatti o se italicamente le banche troveranno l’inganno per aggirare la norma. Pa. Bai.

LA SENTENZA DE MASI. PER CONOSCERE MEGLIO LE BANCHE «La Commissione di massimo scoperto deve essere tenuta in considerazione quale fattore potenzialmente produttivo di usura, essendo rilevanti ai fini della determinazione del tasso usurario tutti gli oneri che l’utente sopporta in relazione all’utilizzo del credito, indipendentemente dalle istruzioni o direttive della Banca d’Italia (circolare della Banca d’Italia 30.9.1996 e successive) in cui si prevedeva che la Cms non dovesse essere valutata ai fini della determinazione del tasso effettivo globale degli interessi, traducendosi in un aggiramento della norma penale che impone alla legge di stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Le circolari e le istruzioni della Banca d’Italia non rappresentano una fonte di diritti ed obblighi e nella ipotesi in cui gli istituti bancari si conformino ad una erronea interpretazione fornita dalla Banca d’Italia in una circolare, non può essere esclusa la sussistenza del reato sotto il profilo dell’elemento oggettivo. [...] Appare pertanto illegittimo lo scorporo dal Tegm della Cms ai fini della determinazione del tasso usuraio, indipendentemente dalle circolari e istruzioni impartite dalla Banca d’Italia al riguardo. In termini generali, quindi, l’ignoranza del tasso di usura da parte delle banche è priva di effetti e non può essere invocata quale scusante, trattandosi di ignoranza sulla legge penale (art. 5 c.p.). [...] In particolare la Circolare della Banca d’Italia del 30.9.1996, aggiornata al dicembre 2002 e in vigore fino al secondo trimestre 2009 (trattamento degli oneri e delle spese), prevede, tra l’altro, al punto C5, che la Commissione di massimo scoperto non entrava nel calcolo del TEG, venendo rilevata separatamente, espressa in termini percentuali. Tale metodologia per il calcolo del TEG applicata dalla Banca d’Italia, fin dalla prima rilevazione, è stata posta a fondamento dei decreti ministeriali nei quali è contenuta la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio in base al quale è stabilito il limite previsto dall’art. 644, comma 3, c.p., oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, ai sensi della l. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 1. Fin dal primo Decreto Ministeriale (D.M. 22 marzo 1997) il Ministro del Tesoro determinava la tabella dei tassi di interesse effettivi globali medi, precisando che “i tassi non sono comprensivi della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata”. Solamente col D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 2 bis, comma 1, convertito nella l. 28.1.2009, n. 2 si prevede che “le commissioni… comunque denominate… sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c., dell’art. 644 c.p. e della l. 7 marzo 1996, n. 108, artt. 2 e 3”. La Banca d’Italia solo nell’agosto 2009, in applicazione di tale nuova normativa ha emanato le nuove istruzioni per la rilevazione dei tassi globali medi ai sensi della legge sull’usura, ricomprendendo nel calcolo delle varie voci la Commissione di massimo scoperto, correggendo una prassi amministrativa difforme». Il pdf della sentenza integrale: www.demasi.it

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dio della Cgia di Mestre del 2013 – «in aree dove c’è più disoccupazione, alti tassi di interesse, maggiori sofferenze, pochi sportelli bancari e tanti protesti». È più diffusa, insomma, nel nostro Paese, ma il motivo per cui cresce non è solo il perdurare della crisi per artigiani e commercianti – continua il rapporto – «sono le scadenze fiscali a spingere molti operatori economici nella morsa degli usurai. Per i disoccupati o i lavoratori dipendenti, invece, sono i problemi finanziari che emergono dopo brevi malattie o infortuni».

Si punta il dito sugli intoccabili Ma è in corso anche una torsione dei soggetti che praticano l’usura: si dice sempre più spesso che siano anche banche e finanziarie, non solo la criminalità. La situazione greca, ma anche la protesta dei giovani nelle piazze finanziarie del mondo, hanno contribuito ad alzare il livello di attenzione nei confronti degli istituti di credito. Ma, per scoprire chi gioca con le carte truccate in questa partita, è stato fondamentale il ruolo di alcuni imprenditori, che hanno cercato di capire per quale motivo i loro conti non tornavano e hanno denunciato per usura gli istituti di credito. «A differenza di qualche anno fa – dice Bianca La Rocca, dell’Associazione Sos Impresa – le Procure ora non si limitano più a richiudere il fascicolo e ad archiviare, ma procedono» e contro il sistema bancario, fino a poco tempo fa insospettabile e intoccabile, si sono ottenuti importanti risultati giudiziari, come la sentenza della seconda sezione penale della Corte di Cassazione sulla vicenda De Masi (n. 46669 del 23/11/2011). Antonino De Masi è il rappresentante di un’importante realtà imprenditoriale di Gioia Tauro: un gruppo con 280 dipendenti, che opera da cinquant’anni nel settore delle macchine agricole e nelle costruzioni, che nel 2003 ha iniziato una durissima battaglia legale contro istituti di credito italiani, tra cui Antonveneta, Banca di Roma e Banca Nazionale del Lavoro, denunciando, come lui stesso dice, «la sparizione di circa 6 milioni di euro dai conti delle mie aziende, in un contesto di investimenti per la realizzazione di alcune attività imprenditoriali beneficiate anche da fondi pubblici».


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Se è usura la banca perde il mutuo Spiega Antonio Tanza, avvocato e vice presidente nazionale di Adusbef (Associazione difesa utenti servizi bancari e finanziari): «La legge 108 del 7 marzo 1996 del codice penale è chiarissima e dice che fanno parte del costo del denaro ogni remunerazione, commissione o spesa, a eccezione di imposte o tasse. Questa non è un’interpretazione giurisprudenziale, sono le parole di una legge che ha modificato l’art. 644 del codice penale e significa che non fanno parte del costo del denaro la com-

missione di massimo scoperto (Cms), i giochi di valuta fittizia, le spese forfettarie, le spese di istruttoria fido, le spese per l’assicurazione, le spese per la perizia. Ma chi non vuole capire non capisce e, dice la sentenza di Cassazione, la Banca d’Italia ha aggirato per anni la norma penale con le sue circolari». Un “aggiramento” compiuto da un organismo privato, la Banca d’Italia, che dovrebbe controllare le banche, ma che evidentemente esercita più pro domo sua. Ricordiamo che nel 2009, prima della mo-

difica della commissione di massimo scoperto, si calcolò che questa portasse 10 milioni di euro al mese al sistema bancario italiano. «Ci ha pensato poi il governo Berlusconi – riprende l’avvocato Tanza – che nel maggio 2011 con il Decreto sviluppo ha innalzato il tasso di soglia, modificando la formula con cui si calcola il tasso di soglia e assorbendo la Cms. Chi ha in corso contratti di mutuo più vecchi di quella data è meglio che li controlli, perché nel 90% dei casi sono in usura. E, se c’è usura, la banca perde tutto il suo mutuo». 

Il sistema gelatinoso che blocca le imprese: il caso della Sert srl di Leinì di Paola Baiocchi

Un’azienda solida si è trovata bloccata in una vischiosa storia fatta di interessi speculativi, burocrazia, ’ndrangheta. E dove le banche sono state denunciate per usura Il Giudice per le indagini preliminari di Firenze, indagando sul mancato svolgimento del G8 alla Maddalena e sulla Protezione civile di Bertolaso, affermò che si era instaurato un sistema “gelatinoso” di “ordinaria corruzione”. La definizione è davvero efficace per descrivere il pasticcio in cui si è trovato Riccardo Rastrelli, imprenditore di terza generazione nel settore metalmeccanico a Leinì (To), di cui abbiamo cominciato a occuparci nel dicembre del 2012 (“E la fabbrica finì al cimitero”, di Corrado Fontana, Valori n. 105). La vicenda della Sert comincia nel 2009, quando Rastrelli presenta una richiesta di finanziamento in vista dell’acquisizione di nuove commesse, portando a garanzia il terreno edificabile al confine della sua fabbrica. Il perito della banca, invece, dichiara che il terreno è inedificabile perché adiacente al cimitero di Mappano e quindi vale pochissimo. La fabbrica è preesistente al camposanto: come ha potuto il Comune costruirlo senza rispettare i vincoli che impongono vi sia una zona di rispetto di almeno 200 metri? «Semplice – risponde Rastrelli – io mi sono trovato al centro di un groviglio di interessi a cui avrebbe fatto molto comodo che sparissi e che vanno dalla pressione sull’area Bor.Se.To. limitrofa alla mia fabbrica e di proprietà della famiglia Ligresti, che per essere resa edificabile in tempi ragionevoli aveva la necessità della creazione del cimitero e con esso del nuovo Comune di Mappano. La banca che ha maggiormente ostacolato l’attività della Sert – continua Rastrelli – è stata Intesa Sanpaolo, operando in totale conflitto di interessi

perché esposta pesantemente con le aziende del Gruppo Borio-Arlotto, proprietarie della società che ha in concessione il cimitero (cioè la costruzione che ho denunciato penalmente e amministrativamente)». Intesa Sanpaolo, sentita da Valori, ha comunicato attraverso il suo ufficio rapporti con i media che: «Dall’analisi dei fatti, non sono state riscontrate irregolarità nell’operato della nostra Banca, che, anzi, ha cercato le soluzioni per dare supporto all’azienda». Con l’occasione Intesa ci anche comunicato che: «Le banche del Gruppo Intesa-Sanpaolo adottano tutte le misure necessarie per evitare che gli interessi e le altre condizioni applicate ai rapporti di conto corrente e a qualsiasi altro contratto in essere superino le cosiddette “soglie di usura”, rilevate e pubblicate tempo per tempo dai competenti organi istituzionali, in linea con le disposizioni contenute nella normativa “antiusura” (cfr. Legge 108/1996, norme di attuazione e successive variazioni)». Ma per Rastrelli le banche con le quali la Sert lavorava hanno applicato interessi usurai e per questo le ha denunciate. Mentre il Comune di Leinì è stato sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2012 e l’ex sindaco Nevio Coral, padre del sindaco in carica, è stato accusato di essere l’uomo cerniera tra la ’ndrangheta e la politica alle porte di Torino. La Sert a gennaio ha chiesto la sospensione dei termini per 300 giorni, come previsto dalla legge 44/99 per le vittime di usura, appoggiata da tutte le rappresentanze sindacali e dai suoi lavoratori, al momento senza nessuna entrata. Li sostiene anche l’Api, l’Associazione delle piccole e medie imprese di Torino e Provincia perché, ha dichiarato a Valori il vicepresidente Giuseppe Scalenghe: «Vogliamo salvare questa capacità imprenditoriale e questa fabbrica al momento completamente bloccata, che non solo aveva i conti in utile nel 2010, ma poteva continuare a produrre utili ancora per diversi anni».

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Beppe Scienza: «Le banche? Fanno quello che vogliono» di Matteo Cavallito

L’opinione del matematico torinese: la legge italiana consente al sistema “di alzare i tassi senza limiti”. Il nuovo metodo di calcolo penalizza i mutui casa a tasso variabile l sistema odierno? È autoreferenziale e, come tale, consente alle banche di fare in definitiva ciò che vogliono». Parola di Beppe Scienza, docente di Matematica finanziaria presso l’Università di Torino, che da anni si occupa di risparmio e previdenza. Il problema, sostiene, risiede proprio nella logica a monte della normativa, che prende come punto di riferimento i tassi bancari di mercato. Una scelta, ha spiegato a Valori, carica di conseguenze per i clienti.

«I

La legge sulla soglia di usura si basa sulla rilevazione del tasso medio attribuendo di fatto un potere di intervento alle banche. È un errore di impostazione?

C’è per cominciare un errore teorico, perché i tassi andrebbero confrontati per differenza e non per rapporto. Già la vecchia normativa calpestava questo principio, stabilendo che la soglia, cioè il massimo consentito, si ottenesse partendo dal tasso di interesse medio e aumentandolo della metà. Le modifiche successive non hanno eliminato questo problema. Le modifiche del 2011 introducono il criterio “1/4 + 4 punti percentuali” e il limite del +8%. Hanno migliorato, anche se in parte, la situazione? Hanno mitigato gli eccessi più gravi, fungendo da calmiere quando il tasso medio rilevato è superiore al 16% annuo, come per le carte di credito revolving. Ma hanno peggiorato la situazione per i tassi relativamente bassi, come per i mutui per la casa in particolare a tasso variabile. Con un tasso medio del 4%, con la vecchia normativa l’usura scattava dal 6% in su, ora solo sopra al 9%. In ogni caso resta il criterio del livello medio dei tassi applicati, che

IL CALCOLO DELLA SOGLIA DI USURA La legge 108 del 7 marzo 1996 collocava la soglia di usura a un livello pari al tasso medio di mercato rilevato trimestralmente dalla Banca d'Italia aumentato della metà. La legge 106 del 12 luglio 2011 ha modificato il criterio calcolando il limite consentito come tasso medio aumentato di 1/4 e sommato ad altri 4 punti percentuali. La differenza tra tasso medio e tasso limite non può in ogni caso superare gli 8 punti. In un mercato dei mutui con un tasso medio del 5%, ad esempio, il tasso soglia secondo la vecchia legge si sarebbe collocato al 7,5%. Con la nuova norma il limite sale invece al 10,25% (5 + 1,25 cioè un quarto di 5 + 4 punti). Nel caso delle carte di credito revolving, con un tasso medio al 17%, la vecchia regola avrebbe collocato il tasso soglia al 25,5%. Con la nuova legge il tasso soglia scende invece al 25% (17 + 4,25 + 4 = 25,25 che viene però ridotto a 25 per non superare il divario massimo di 8 punti percentuali tra tasso medio e tasso soglia).

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Beppe Scienza, docente di Matematica finanziaria presso l’Università di Torino.

consente al sistema bancario italiano di alzare progressivamente i tassi senza limiti. Come, ad esempio? Prendiamo il caso di Intesa Sanpaolo: nel 2012 comunicò che a fronte degli scoperti di conto corrente, senza od oltre il fido, avrebbe applicato il tasso soglia del trimestre precedente diminuito del 2%. Quindi se per esempio il tasso medio sugli scoperti è il 16%, la soglia d’usura risulta al 22% e la banca applica il 20%. Ma se molte banche si comportano analogamente – e perché non dovrebbero farlo? – il tasso medio tende al 20%. Ciò eleva il tasso soglia al 28% e Intesa Sanpaolo applicherebbe il 26% e così via a salire, senza limiti. Che forma dovrebbe avere la legge per garantire l’applicazione di tassi equi? Il discorso ovviamente è complesso. Come indicazione direi che bisognerebbe tenere conto anche di altri tassi, quali l’euribor, quelli applicati dalla Banca Centrale Europea eccetera. L’euribor è ai minimi, vicino allo 0,20%, le banche ottengono soldi dalla Bce allo 0,25%, anche i rendimenti a breve dei titoli di stato sono scesi, eppure abbiamo tassi soglia per l’usura anche superiori al 24%. C’è qualcosa che non va, anzi che va troppo bene per le banche italiane. 


| finanzaetica | rischio bolla |

Carry trade e speculazione Arriva la Tobin tax cinese di Matteo Cavallito

annuncio lo ha dato a fine gennaio Mr. Guan Tao, numero uno del Dipartimento dei Pagamenti internazionali presso l’Amministrazione statale del mercato dei cambi. Di fronte al persistente afflusso di liquidità dall’estero, Pechino potrebbe introdurre una sorta di Tobin tax per disincentivare la speculazione. Una mossa necessaria in un Paese che continua ad attrarre capitali stranieri. Nelle operazioni sul mercato dei cambi, ha rilevato il South China Morning Post, le banche cinesi hanno registrato nel 2013 un surplus di 1,68 trilioni di yuan (quasi 280 miliardi di dollari), oltre il triplo del 2012. Un trend che potrebbe essere confermato in futuro se, come ha ricordato lo stesso Guan al quotidiano Shanghai Daily, «un numero maggiore di investitori esteri vorrà acquisire asset cinesi, qualora l’economia nazionale “performasse” meglio rispetto agli altri emergenti».

L’

tobre 2013). Gli emergenti, di conseguenza, sono andati in crisi, ma la Cina, ed è questo l’aspetto chiave, ha fatto eccezione. Perché? La risposta si trova in una cifra: 3,82 trilioni di dollari, l’ammontare delle riserve estere accumulate da Pechino (vedi GRAFICO ). Con una simile dote la possibilità che la Cina possa perdere il controllo del cambio della sua moneta è praticamente nulla. Risultato: l’economia continua a crescere, i tassi di interesse restano alti e la valuta si mantiene relativamente stabile (o comunque meno instabile di rand sudafricani, lire turche e pesos vari). Un insieme di buoni motivi per continuare a investire nella seconda economia del mondo. Tutto bene? Non proprio.

Capitali e speculazione Le stesse riserve che proteggono lo yuan dalla speculazione ribassista stanno cre-

scendo in modo anomalo. Nell’ultimo semestre 2013, nota Kevin Lai, analista di Daiwa Capital Markets citato dal South China Morning Post, l’aumento è stato di 323 miliardi di dollari contro i 185 dei primi 6 mesi dell’anno e i 130 dell’intero 2012. Una crescita che si spiegherebbe in gran parte con l’afflusso dei capitali stranieri da Hong Kong, dove i tassi sono più bassi, verso la Cina, dove i rendimenti sono maggiori. Uno schema noto come carry trade, la speculazione valutaria per eccellenza. I rischi di bolle finanziarie sono evidenti, tanto più di fronte al perenne problema di un sistema bancario ombra sregolato, capace di attrarre capitali gonfiando i debiti privati e provocando instabilità. JP Morgan valuta l’intero settore 7.500 miliardi di dollari, oltre il doppio delle riserve estere nazionali. Un illustre esponente del settore, la società finanziaria Credit Equals Gold #1 (Sic), si è da poco trovato sull’orlo del default costringendo lo Stato a tappare un buco da quasi mezzo miliardo di dollari. Un’esperienza che Pechino vorrebbe evitare di ripetere. 

CINA 2013, LA CRESCITA DELLE RISERVE NEL 2013

30 giu

3.553

31 mag

3.548

3.497

3.500

3.515

3.600

3.534

3.821

3.700

3.789

3.663

3.800

3.737

3.900

3.443

Il nocciolo della questione è più o meno questo. Per combattere la recessione post crisi gli Stati Uniti hanno inondato il mercato di dollari a buon mercato. Un ciclone di liquidità a dodici zeri che è approdato in massa nei mercati emergenti creando crescita economica e rialzo borsistico. Ma la lenta exit strategy imboccata dalla Banca centrale americana ha indotto gli investitori a ritirare il denaro dai nuovi mercati avviando una speculazione al ribasso sulle valute di Brics e soci (vedi Valori di ot-

3.395

La Fed e gli emergenti

3.400 3.300

28 feb

31 mar

30 apr

31 lug

31 ago

30 set

31 ott

30 nov

31 dic

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FONTE: BLOOMBERG, FEBBRAIO 2014 (HTTP://WWW.BLOOMBERG.COM/ QUOTE/CNGFOREX:IND). DATI IN MILIARDI DI DOLLARI

La crescita degli investimenti esteri espone la Cina a un crescente rischio speculativo. Quasi 280 miliardi di dollari di surplus per le banche sul mercato dei cambi. La contromossa? Una tassa sulle transazioni finanziarie


| finanzaetica | impatto sociale |

Se una banca finanzia il bene comune di Elisabetta Tramonto

Per festeggiare i suoi 15 anni Banca Etica realizza una ricerca sull’impatto sociale dei finanziamenti concessi. Risultato: più imprese (che altrimenti non sarebbero nate), più lavoro, più assistenza sanitaria e sociale, meno inquinamento na banca che si domanda quale sia l’impatto sociale della propria attività. E che, per scoprirlo, effettua una ricerca ad hoc. Non sui risultati economici, il margine di profitto, la crescita economica, bensì sui benefici generati dai finanziamenti erogati in termini di creazione di posti di lavoro; di assistenza per le persone più fragili; di promozione dell’arte; di difesa della legalità; di riduzione delle emissioni di CO2. La prima notizia è già questa: al di là degli effettivi risultati della ricerca (condotta dal centro studi ALTIS dell’Università Cattolica di Milano), ciò che colpisce è innanzitutto il fatto che sia stata effettuata. Nessun (altro) istituto di credito pare interessarsi di misurare

U

1.800.000.000 la cifra totale erogata in 15 anni 23.500 i finanziamenti erogati in 15 anni 36.888 i soci oggi il bene comune che contribuisce a creare. In questo caso è una banca particolare, che si definisce “etica”, quindi ci sta che abbia a cuore il proprio impatto sociale, ma c’è qualcosa in più: ha voluto misurarlo, come a dire «non basta annunciarlo, vogliamo verificare se siamo davvero etici, anche nei risultati raggiunti». In 15 anni Banca Etica ha deliberato prestiti per 1 miliardo e 800 milioni di euro. Il 70% sono andati a enti non profit,

I FINANZIAMENTI DELIBERATI DA BANCA ETICA 900

813 775

761

800 700

640

600

539

500

422 370

400

322 270

300

209 200

150

100

11 0

32

69

87

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

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2007

2008 2009

2010

2011

2012

2013

un settore importante (secondo l’Istat rappresenta il 4% del Pil italiano) che però fatica a trovare credito dalle banche (il sistema bancario italiano destina solo l’1% dei prestiti al terzo settore). Banca Etica ha seguito un percorso contrario: nata per dare credito alle organizzazioni non profit, solo a partire dal 2003 e con un’accelerazione negli ultimi due anni, si è aperta anche al profit responsabile, intercettando la crescente attenzione delle aziende profit alla responsabilità sociale e ambientale. Una delle domande a cui l’indagine si proponeva di rispondere è: ho fatto davvero la banca? Identificando nel mestiere della banca quello di veicolare il risparmio di cittadini e organizzazioni verso le imprese produttive, la così detta “economia reale” contrapposta all’economia virtuale della finanza speculativa. La risposta è “sì”, Banca Etica lo fa sempre di più, in controtendenza rispetto al sistema bancario italiano. Durante la crisi ha registrato un progressivo aumento dell’incidenza dei crediti verso la clientela sul totale attivo (questo l’indicatore usato) dal 58,44% del 2010 al 63,5 del 2013. La media degli istituti di credito italiani, invece, è passato dal 62% nel 2010 all’attuale 60,8% nel primo seme-


| finanzaetica |

QUALITÀ DELLA VITA, SPORT 27% 480.609.258 €

SOCIALE 32% 582.484.448 € SÌ 18%

I SETTORI FINANZIATI

NO 82% AMBIENTE 10% 169.139.546 €

PRIVATI 11% 206.333.095 €

SENZA IL FINANZIAMENTO L’ATTIVITÀ SAREBBE PARTITA?

PROFIT RESPONSABILE 10% 181.753.689 €

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE 10% 186.213.522 €

stre dell’anno scorso (fonte KPMG: “Le banche italiane tra gestione del credito e ricerca di efficienza”, 2013). «15 anni fa in pochi credevano che una banca etica potesse stare sul mercato – ha dichiarato il presidente di Banca Etica, Ugo Biggeri – oggi abbiamo dimostrato che la finanza etica funziona ed è capace di veicolare una risorsa strategica come il risparmio di cittadini e organizzazioni verso la promozione del bene comune».

1.531 impianti a fonti rinnovabili ad oggi installati 27.892 kW di impianti ad oggi installati 48.259 MWH di energia pulita prodotta ogni anno

25.626 tonnellate di CO2 non emesse in atmosfera ogni anno 66.356 barili di petrolio non estratti ogni anno 17.584 famiglie che consumano energia pulita

410.000 euro risparmiati dalla collettività

Quale impatto sociale «Misurare l’impatto sociale significa misurare il cambiamento generato nelle organizzazioni e famiglie beneficiarie grazie al finanziamento e alla collaborazione con Banca Etica», spiegano le ricercatrici di ALTIS. E così dalla ricerca è emerso che, per l’82% delle realtà che hanno ricevuto il prestito, il finanziamento ottenuto è stato “condizione neI CREDITI CONCESSI RISPETTO ALLA RACCOLTA Dati Banca Etica 2010 58,44% 2011 63,36% 2012 63,20% 2013 63,5% SOFFERENZE PIÙ BASSE DELLA MEDIA ITALIANA Incidenza delle sofferenze lorde per Banca Etica 31.12.2013

2,02%

31.12.2012 31.12.2011 31.12.2010

1,3% 0,9% 0,8%

cessaria” per svolgere l’attività. Per il 52% rivolgersi alla banca ha permesso di creare nuovi posti di lavoro. Per il 51% il finanziamento ricevuto ha permesso di aumentare il reddito. In media le imprese sociali che offrono servizi socio-sanitari (32% dei prestiti concessi dalla banca) hanno potuto assistere il 52% in più di persone per progetto. Prestiti che hanno

Dati sistema bancario italiano 62% 64% 62% 60,8%

Incidenza delle sofferenze lorde per la media del sistema bancario 7,7% (13,4% per i piccoli operatori economici) 7,2% 6,2% 5,4%

anche fatto bene all’ambiente e all’intera collettività: i finanziamenti concessi da Banca Etica per l’installazione di impianti per le energie da fonti rinnovabili hanno permesso di evitare ogni anno l’emissione di oltre 25mila tonnellate di anidride carbonica, con un risparmio per la collettività quantificabile in 410mila euro l’anno. 

BUON COMPLEANNO BANCA ETICA Un compleanno “distribuito” e partecipato per Banca Etica. Oltre 60 iniziative in tutta Italia, dal 4 al 23 marzo, per celebrare i primi 15 anni. Si parte a Roma, il 4 marzo alla Sala delle Colonne della Camera dei Deputati, con la presentazione della ricerca, che raccontiamo in queste pagine, sull’impatto sociale di Banca Etica (la ricerca e il video della presentazione sul sito bancaetica.it). L’8 marzo a Padova una tavola rotonda sull’economia al femminile. E poi incontri, dibattiti e momenti di festa. Il calendario su www.valori.it e www.bancaetica.it

FONTE: PROSPETTO INFORMATIVO BANCA ETICA - ABI MONTHLY OUTLOOK DICEMBRE 2013

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| numeridellaterra |

Too big to fail Il debito pubblico del mondo REGNO UNITO CANADA

89,6%

ISLANDA

86,8%

USA

123,6% 105,4% 66,1%

33,9%

76,7%

68,9%

31,1%

23,3% 81,1%

1.540,4 4,5%

2.325,3 4,4%

28,9% 16,2 -4,7%

IRLANDA

17.076,0 5,4%

FRANCIA

125,7% PORTOGALLO 44,6%

55,4%

131,3%

di Matteo Cavallito

mila miliardi di dollari, il 64,5% del Pil del Pianeta. È la somma dei debiti pubblici del mondo. Il dato, del 2012, ultimo anno per il quale è disponibile una stima complessiva attendibile, evidenzia una crescita annua del 4,6%. Come a dire che l’ammontare dei prestiti contratti dai singoli governi è aumentato mediamente più della ricchezza prodotta. Il rischio default, a livello teorico, è pari a zero: in fondo si tratta di soldi che il mondo (e l’insieme delle sue banche centrali) deve a se stesso. Ma il dato è comunque rilevante, perché il debito e la sua stabilità – misurata in rapporto al Pil, ma anche in relazione al peso dei creditori esteri – condiziona le politiche di spesa e con esse la fiscalità. Due fattori, come insegna l’Europa, che hanno effetti diretti sulla crescita, ovvero sull’espansione o la recessione di un’economia. Nella mappa abbiamo preso in considerazione i dati dei Paesi del G20, Ue ed eurozona, altri casi critici europei e infine lo Zimbabwe. Che, con il 244%, evidenzia il peggior rapporto debito/Pil del mondo. 

54

| 28 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

93,5%

278,6 15,5%

33,0%

67,0%

44,0%

56,0%

2.605,1 2,7%

MESSICO

292,6 13,1%

35,9% 64,6%

425,3 16,4%

SPAGNA

92,3% 45,4%

BRASILE

54,4%

68,0%

1.285,3 14,7%

99,6% 0,4%

FONTE MAPPA: BRUEGEL DATASET OF SOVEREIGN BOND HOLDINGS, AGOSTO 2013; CIA, WORLD FACTBOOK, GENNAIO 2014, ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, GENNAIO 2014; EUROSTAT, NEWS RELEASE EURONDICATORS, OTTOBRE 2013; THE CENTRAL BANK OF THE RUSSIAN FEDERATION, NOVEMBRE 2013; U.S. DEPARTMENT OF TREASURY, OTTOBRE 2013; U.S. GOVERNMENT PRINTING OFFICE, APRILE 2013; WORLD BANK, QUARTERLY EXTERNAL DEBT STATISTICS, LUGLIO 2013; NOSTRE ELABORAZIONI. ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

1.359,1 13,0%

ARGENTINA

SUDAFRICA

43,6% 70,2%

32,0%

36,2% 29,8% 67,5%

196,1 7,3%

32,5%

150,4 20,1%


| pianeta indebitato |

GERMANIA

TURCHIA

79,8%

39,2% 73,5%

38,4% 61,6%

320,4 16,3%

EUROZONA

UNIONE EUROPEA

MONDO

93,4%

86,8%

64,5%

26,5%

nd 62,6%

2.924,8 -2,1%

nd

37,4%

ITALIA

GRECIA

133,0%

149,2%

53.961,0 4,6%

15.333,1 3,6%

12.090,8 4,2%

nd

nd

COREA DEL SUD

RUSSIA 8,2%

31,7% 59,3%

41,7%

39,1%

60,9% 85,2%

GIAPPONE CINA 15,9% nd

ARABIA SAUDITA 13,3%

224,4% nd

INDIA

1.341,8 17,9%

50,0% nd

26,1

166,5 18,6%

365,9 1,2%

431,8 19,9%

2.828,6 7,7%

73,9

14,8%

92,4%

7,6%

nd

83,9 11,4%

92,2% 7,8%

ZIMBABWE

12.578,1 -1,4%

1.009,9 22,4% INDONESIA 24,8%

244,2%

AUSTRALIA 49,9%

50,1%

27%

227,1 13,5% nd

nd 17,5 74,4%

52,5%

47,5%

395,3 0,5%

% Pil Debito [mld di dollari] Variazione annuale [%] Verso creditori interni Verso creditori esterni

Dati in mld di dollari Usa. Per Paesi euro e Regno Unito elaborazione su tasso di cambio 16 gennaio 2014 (1 euro = 1,3624 dollari; 1 sterlina = 1,635 dollari). I dati attendibili più recenti per Zimbabwe e totale mondiale sono del 2012 (in Cia, World Factbook, gennaio 2014) con il Pil calcolato a parità di potere d’acquisto. | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 29 |


| 30 | valori | ANNO 13 N. 112 | SETTEMBRE 2013 |


| bene pubblico|

economiasolidale

La lettera delle Ong: “Egregi ambasciatore e commissario...” > 33 Pazienti e farmaci: quei quattro miliardi (quasi) sprecati > 35

NATIONAL OCEANIC & ATMOSPHERIC ADMINISTRATION (NOAA) / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

Ai piedi sempre meno Made in Italy > 37

Giustizia privata Se la libertà delle imprese G vince sull’interesse comune

di Corrado Fontana e Valentina Neri

Il futuro Trattato transatlantico sul libero scambio tra Europa e Usa potrebbe permettere alle imprese di avviare costose azioni legali contro gli Stati per difendere i loro profitti. Una minaccia per la politica delle nazioni in materia ambientale e sanitaria

iù le mani dagli Stati! Il Trattato transatlantico sul libero scambio (TTIP) non è ancora nato, ma accende già gli animi sul probabile inserimento della clausola ISDS, che consente alle corporations di avviare azioni legali onerosissime contro le nazioni che minaccino il loro diritto al massimo profitto. Questo l’allarme lanciato in una lettera pubblicata in anteprima assoluta su Valori.it a fine 2013 e inviata da un centinaio di organizzazioni non governative ai negoziatori: il commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht, e l’ambasciatore Michael Froman, sua controparte americana. Intanto cresce il disappunto della società civile e di alcuni Stati (Francia, Germania), mentre la | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 31 |


| economiasolidale |

Commissione europea cerca consenso e avvia questo mese una consultazione pubblica per raccogliere proposte di miglioramento.

Stessa regola, Stati differenti La missiva – firmata da molte Ong tra cui Greenpeace, ActionAid, Attac, Slow Food, Fairwatch, WWF – chiede apertamente di escludere il meccanismo che

permette a un investitore straniero di fare causa a un ente pubblico che, sia pure per tutelare il territorio o la salute dei cittadini, adotti decisioni in danno

STATI ALLA SBARRA Il Corporate Europe Observatory (CEO), gruppo di ricerca indipendente con base a Bruxelles e attivo in campagne contro l’influenza delle grandi lobby sulla politica comunitaria, ha catalogato alcuni casi emblematici di controversie tra investitori privati e Stati: - Salute pubblica: Philip Morris contro Uruguay e Australia Sulla base di accordi bilaterali per gli investimenti (TBI), il gigante del tabacco Philip Morris ha citato in giudizio le due nazioni per opporsi alle loro leggi contro il fumo. Sostiene infatti che gli avvisi sui danni alla salute, obbligatori sui pacchetti di sigarette, impediscono una visualizzazione efficace del marchio, facendo perdere quote di mercato. - Tutela dell’ambiente: Vattenfall contro Germania (1 e 2) Nel 2009 la multinazionale svedese dell’energia Vattenfall ha citato in giudizio il governo tedesco chiedendo 1,4 miliardi di euro più gli interessi a compensazione dei vincoli ambientali imposti su una delle sue centrali a carbone. Il caso è stato risolto dopo che la Germania ha accettato di “annacquare” la normativa, a scapito dei potenziali danni ambientali sull’ecosistema del fiume Elba. Nel 2012 Vattenfall ha avviato una seconda causa, chiedendo 3,7 miliardi di euro per la perdita di profitti legata alla chiusura di due suoi impianti nucleari, in seguito alla decisione del governo di Angela Merkel di chiudere progressivamente le centrali atomiche, dopo l’incidente di Fukushima. Entrambe le azioni legali sono state avviate nel quadro di un trattato che regola gli investimenti nel settore dell'energia. - Giustizia sociale: Piero Foresti e altri contro il Sudafrica Nel 2007 alcuni investitori italiani hanno citato in giudizio il Sudafrica per una legge che mira a correggere le ingiustizie del passato regime di apartheid contro i neri. Nel Black Economic Empowerment Act – questa la normativa incriminata – si richiede ad esempio che le compagnie minerarie trasferiscano una parte delle loro quote azionarie a investitori neri. La controversia, nata nell’ambito del trattato sugli investimenti tra Sudafrica, Italia e Lussemburgo, è stata chiusa nel 2010, dopo che gli investitori hanno ricevuto nuove licenze e la riduzione significativa degli obblighi di cessione azionaria. - Crisi finanziarie: CMS e 40 altre società contro l’Argentina Quando l’Argentina congelò le tariffe di alcuni servizi pubblici (elettricità, acqua...) e svalutò la sua moneta in risposta alla crisi finanziaria del 2001-2002, venne colpita da più di 40 cause legali da parte degli investitori stranieri. Grandi aziende come CMS Energy (USA), Suez e Vivendi (Francia), Anglian Water (UK) e Aguas de Barcelona (Spagna) hanno chiesto un risarcimento multimilionario per i mancati introiti. C.F.

| 32 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

degli interessi privati. Una spada di Damocle per le istituzioni, esposte a dispute rese ulteriormente “scivolose” dal fatto che generalmente si risolvono con un arbitrato, vale a dire una commissione di tecnici e professionisti istituita ad hoc. A nominare questi esperti sono centri internazionali come «l’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes), che ha sede a Washington e fa parte del gruppo della Banca mondiale, o l’UNCITRAL (United Nations Commission on International Trade Law) delle Nazioni Unite», spiega Angelica Bonfanti, ricercatrice in Diritto internazionale all’Università di Milano. «Oppure ogni contendente può nominare il proprio arbitro e poi ne viene assegnato un terzo super partes. È un metodo che garantisce velocità, flessibilità e confidenzialità: si può anche chiedere che gli atti restino riservati». Va detto che la clausola ISDS è attualmente presente nel 93% dei 2.500 trattati bilaterali in materia di attività internazionali d’impresa, e in gran parte di quelli multilaterali. Anche nel famoso NAFTA, stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico. Questa clausola nasce infatti per proteggere gli investimenti in Stati caratterizzati da situazioni particolari, spiega Marco Contiero, responsabile prodotti chimici, Ogm e agricoltura sostenibile per Greenpeace a Bruxelles: «Ipotizziamo un accordo di libero scambio tra Ue e Iraq. In quel caso, un’impresa che vuol portare sviluppo intende essere tutelata: non si può fidare a investire denaro con l’eventualità che sei mesi dopo, magari a seguito di un colpo di Stato, il proprio stabilimento venga sequestrato». Certo Unione europea e Usa assicurano un livello di democrazia ben diverso. E in un contesto del genere, sostiene la professoressa Bonfanti, «da un lato si può dire che questa clausola sia la normalità. Ma, d’altra parte, si può discutere del fatto che sia davvero necessaria».

Se l’incubo giuridico fa scuola Così capita che l’ISDS diventi un’arma, usata dalle imprese per «attaccare politiche legate a energie pulite, attività mi-


| economiasolidale |

neraria, uso del territorio, salute, lavoro e altro», afferma la lettera delle Ong. Le multinazionali ne avrebbero già approfittato per schierarsi contro l’aumento del salario minimo in Egitto, o contro l’impegno del governo peruviano a intervenire sui rifiuti tossici e chiudere una fonderia inquinante e pericolosa. Philip Morris l’avrebbe sfruttata in azioni legali contro le leggi anti-fumo in Uruguay e Australia (vedi BOX ). E tutto ciò passando sopra alle decisioni dei tribunali nazionali. «Pensiamo – ipotizza Contiero – all’estrazione dello shale gas. Cosa potrebbe succedere se, un domani, le autorità comunitarie imponessero lo stop al fracking (la tecnica di fatturazione idraulica del terreno imputata di inquinare le falde acquifere, ndr) e un colosso statunitense dell’energia, dopo aver investito in Europa, chiedesse un risarcimento?». Si configura così quello che Cinzia Scaffidi, direttrice del Centro studi Slow Food, definisce come «un incubo giuridico, in perfetto stile kafkiano. Uno strumento nato per contrastare governi corrotti o totalitari diventa utile per ricattare governi virtuosi che vogliano arginare lo strapotere delle multinazionali». Non stupisce dunque il fatto che le dispute investitore-Stato si siano moltiplicate nell’ultimo decennio. Stando a uno studio di Gavin Thompson per il governo britannico, finora ne sono state avviate più di 500, ma non esistono veri e propri registri pubblici. Sui 244 casi riportati nell’analisi, il 31% si è concluso a favore dell’investitore, il 42% a

16 dicembre 2013

issario Karel De ael Froman e Comm ch Mi ore iat sc ba Am Egregi

Gucht,

ttato clausola ISDS nel Tra e all’inclusione della ion siz po op a str no la re Scriviamo per esprime nti a un . bio am sc ero o di presentarsi dava lib l su atlantico tion straniere il diritt ora rp co i che, a e rn all ve ce go i tis ran e le azioni de La clausola ISDS ga amente le politiche ett dir are cit e to iva ale pr tribunale internazion timenti. […] gamma valore dei loro inves il o on r opporsi a una vasta uc rid o, detta lor to l’uso della ISDS pe nta me au trattati i te en ne e am bio cis libero scam Negli anni recenti è de ione negli accordi di lus inc a su i legali La ion i. az rn 0 ve 50 dai go avanti oltre di politiche adottate aziende di portare e all so litiche es po rm le pe e o ha lic ento teresse pubb bilaterali di investim no direttamente l’in ca ac libero att l su te o es tic qu an di lte l Trattato atl contro 95 governi. Mo re la clausola ISDS da de clu es di za for n co o ambientali. Vi chiediam ragioni: ti en gu se le ire le aziende per r pe scambio ntribuenti per risarc co i de ro na de il verni a usare lavoro e altri temi La ISDS obbliga i go salute, l’ambiente, il la r pe o res rap int o cause ora pendenti i governi hann llari in gioco nelle 16 le azioni che gli stess do di rdi lia mi 14 re legate ad ambiente, o […]. Sugli olt no relativi a politiche di interesse pubblic so ti tut i, ns ite tun trasporti – e non alle ero scambio sta a, uso del territorio e sotto gli accordi di lib lic bb pu e lut sa , ria zione finanzia energia, regolamenta accare politiche di commerciali. ni tio ando la ISDS per att tradizionali ques utt sfr o nn sta so es re più sp ei hanno attaccato Le corporation semp o gli investitori europ ism an cc me to es ato la decisione del , tramite qu americana ha impugn equità. Per esempio da ien ’az e un e o itt minimo in Eg fonderia inquinante l’aumento del salario sici e chiudere una tos i iut i rif i ion re az to nta di regolame rris ha lancia l tabacco Philip Mo governo peruviano de so los l co il ne ri, lito leb fal dopo aver i casi più ce Uruguay e Australia, pericolosa. In uno de in o fum tian lità gi ibi ss leg fle avere la o contro le ] I governi devono legali investitore-Stat bunali nazionali. [… tri i ne e nza dover temere le erl se att o lic mb tentativo di co r l’interesse pubb pe te na e ch liti po a re in pratic necessaria per mette de. aziende ien az lle concede infatti alle rivalse legali de ionale democratico: cis de so le corti es oc do pr an il ss na li privati, bypa La clausola ISDS mi i di fronte a tribuna rn ve go estitori ai ] inv e [… ali rsi oppo lo a multinazion straniere il diritto di legale disponibile so a tem dare i sis sfi o o ov on nu ss po un così rporation nazionali e creando raverso la quale le co att ico r far un pe o ili ns ab se on a a rag strad titi diritti pa stranieri. […] È una ai singoli sono garan né i rn ve go ai né o, o lat governi ma, dall’altr loro azioni. ano rispondere delle bb de de sugli investimenti: ien az le sì che di gestire le dispute do gra in no so i ns ei e statunite i diritti di proprietà I sistemi legali europ iari e di protezione de diz giu i tem sis o nn è più che sufficiente ne europea ha ersie tra Stato e Stato gli Stati Uniti e l’Unio ov ntr co lle de ne zio tema di risolu molto solidi. […] Un sis sugli investimenti. te per gestire le dispu […] of matarie: umers Union, Friends Alcune delle Ong fir for Food Safety, Cons r nte Ce ), A, EB US (E id u nA , Actio mental Burea 350.org, Greenpeace e, European Environ rop Eu e. ork fic tw Of Ne n licy tio ropean Po mate Ac ce Movement, WWF Eu the Earth, ATTAC, Cli Germania, Trade Justi od Fo w Slo , lia Ita an Fairwatch, Ibf

Cinzia Scaffidi, direttrice del Centro studi Slow Food. | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 33 |


| economiasolidale |

favore dello Stato e per il 27% non è dato saperlo perché le parti hanno preferito mantenere il riserbo. Ma lo sbilanciamento nasce in origine. È solo l’investitore, infatti, a poter attaccare lo Stato. E non viceversa. Senza contare il fatto che gli eventuali risarcimenti, che finirebbero nelle casse di imprese private, sarebbero finanziati dal bilancio pubblico. Ovvero dai contribuenti. «La questione non è quella di garantire la ragionevole tutela degli investimenti, sostenibili e responsabili, anche dalla potenziale criminalità istituzionale», spiega Alberto Zoratti di Fairwatch. «Ma non si può certo lasciare carta bianca a multinazionali che spesso fanno profitti più elevati dei Pil di interi Paesi: pensiamo quale tipo di pressione possono esercitare su molte nazioni del Sud del mondo». «È come chiedere che si faccia una legge che consenta alle multinazionali una licenza speciale di inquinare, ammalare, cementificare», gli fa eco Cinzia Scaffidi. Eppure la soluzione per tutelare entrambe le parti sarebbe dietro l’angolo: «Basterebbero eccezioni molto specifiche: se una normativa è emessa per ragioni di salute pubblica e tutela

ambientale, le aziende non possono ricorrere all’arbitrato», spiega Contiero. Una strada simile, conferma Angelica Bonfanti, è percorribile, pur con tutte le incognite date dalla necessità di interpretare ogni singolo caso. Anzi, è già stata percorsa nei trattati modello di investimento bilaterale degli Stati Uniti e del Canada. 

La clausola rischia di essere usata come un’arma dalle imprese. Le Ong denunciano: è già stato fatto in Egitto contro il salario minimo e in Perù, per fermare gli interventi del governo contro i rifiuti tossici

IN NOME DEL LIBERO SCAMBIO Se ne parla almeno dagli anni Novanta, ma il via libera ufficiale al Trattato atlantico di libero scambio (TTIP) è arrivato a Washington lo scorso 8 luglio. Ciò di cui discutono in questi mesi la Commissione europea e gli Stati Uniti non è altro che un accordo per agevolare il più possibile le transazioni tra due blocchi che da soli coprono pressoché la metà del Pil mondiale e un terzo dei flussi Alberto Zoratti, Fairwatch. commerciali. Due blocchi che – riporta il sito della Commissione europea – ogni giorno già scambiano beni e servizi per un totale di quasi 2 miliardi di euro. Questo tema, all’interno della società civile, è pressoché sconosciuto, eppure in gioco non c’è solo un accordo commerciale. I dazi doganali tra Europa e Usa, infatti, sono già inferiori al 3%. «Abbassarli ancora, o azzerarli, non sarebbe un problema», afferma Marco Contiero (Greenpeace). «Le multinazionali Usa dell’energia e dell’agrochimica puntano

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ad altro: ovvero ad armonizzare i regolamenti che attuano le normative in materia di salute pubblica e ambiente». Indipendentemente dalla specificità del territorio: «Si pensi al differente approccio che ha rispetto a noi la Food and Drug Administration americana su farmaci e Ogm», ricorda Alberto Zoratti (Fair Watch). Ma «in gioco – continua Contiero – ci sono norme adottate dopo anni di lunghi e difficili accordi democratici. Non possiamo permettere che a occuparsene sia solo la Direzione generale per il commercio, senza coinvolgere tutte le altre direzioni generali, il Parlamento europeo e gli Stati membri». E se il think tank londinese Centre for Economic Policy Research arriva a dire che il TTIP porterà un beneficio economico medio di 545 euro per ogni famiglia europea e di 655 per ogni famiglia Usa, a detta di Contiero è perché «si fonda su presunzioni contestabili. Una volta stimato il totale dei benefici, infatti, non fa che dividerlo per il numero di abitanti. Trascura così il fatto che milioni di dollari andranno a un nucleo ristretto di dirigenti d’azienda e azionisti. La stragrande maggioranza della popolazione si dovrà accontentare delle briciole, oltre a dover fare i conti col vuoto dato dalle legislazioni scomparse». V.N.


| economiasolidale | spese sanitarie |

Pazienti e farmaci: quei quattro miliardi (quasi) sprecati di Emanuele Isonio

A tanto ammonta la spesa per medicine antipertensione pagate dal Servizio Sanitario Nazionale: una ricerca rivela che solo il 41% dei malati le assume correttamente. Vanificandone l’utilità e creando un danno alle casse pubbliche. Ma il problema della “bassa aderenza” si estende a molte altre malattie

Q

uello che stiamo per raccontare è un apparente controsenso. Soprattutto considerando la crisi che ancora morde il Paese e i milioni di italiani che rinunciano a farmaci e cure mediche perché non possono permettersele (sono 5 milioni secondo l’ultimo Rapporto Istat sulla povertà). Eppure allo stesso tempo c’è chi le medicine se le fa prescrivere, spesso le acquista (direttamente o, più di frequente, attraverso il Servizio Sanitario Nazionale), e poi non le usa. O almeno le usa male. In termini tecnici si parla di bassa “aderenza alle terapie”, il fenomeno che spinge molti pazienti a invocare l’aiuto del medico, ma a non rispettare poi le sue consegne. Un danno alla propria salute, ovviamente. Ma, se non si vuole continuare a gettare al vento denaro pubblico, è il caso di indagare anche quale sia l’impatto economico del fenomeno. Perché la sua portata è tutt’altro che marginale.

Un danno collettivo. Nascosto ma enorme Dati su tutte le malattie non esistono. Ma gli studi portati avanti finora da medici ed economisti su singole patologie permettono comunque di lanciare un grido d’allarme: la bassa aderenza mette a dura prova l’efficacia delle cure. Ultima in ordine di tempo l’analisi pubblicata sullo European Journal of Health Economics

da un pool di ricercatori guidati da Francesco Saverio Mennini, docente di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma. Uno studio particolarmente significativo, perché compara i risultati di cinque Stati europei e si concentra sui farmaci antipertensione: la categoria più utilizzata nel 2012, con una spesa di 4,3 mi-

TANGENTI PER AUMENTARE LE PRESCRIZIONI NOVARTIS NEL MIRINO DELLA GIUSTIZIA USA Rispettare le prescrizioni di chi ci sta curando è doveroso. Ma notizie come questa non aiutano a fidarsi della categoria (e di conseguenza ad aumentare l’aderenza ai farmaci): la Novartis, colosso svizzero con un fatturato da 50 miliardi di dollari (una cifra superiore al Pil della Slovenia), è finita nel mirino del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti per la terza volta in pochi mesi. La società di Basilea è accusata stavolta di aver spinto la catena di farmacie e servizi sanitari BioScrip ad aumentare le vendite dell’Exjade, farmaco usato per tenere sotto controllo i livelli di ferro nei pazienti emotrasfusi. Secondo il procuratore federale dello Stato di New York, Preet Bharara, Novartis ha convinto BioScrip a contattare i pazienti che non rinnovavano le prescrizioni del farmaco, promettendo quote maggiori sulle vendite. «In questo ha trasformato i farmacisti in personale di vendita del proprio farmaco», ha denunciato Bharara. La denuncia, avvenuta a inizio gennaio, è solo l’ultima di una serie di iniziative che vedono la giustizia federale Usa scontrarsi con la multinazionale elvetica, considerata come la causa dei milioni di dollari di pagamenti per prescrizioni inutili di farmaci effettuati dai programmi di assistenza sanitaria statale Medicare e Medicaid. Ad aprile 2013 erano state presentate altre due denunce. In quell’occasione Novartis fu accusata di invitare i medici a tenere conferenze, lautamente pagate, per illustrare le prestazioni di alcuni prodotti farmaceutici, come gli antipertensivi Lotrel e Valturna e l’antidiabetico Starlix durante eventi che sarebbero stati in realtà puri viaggi di piacere. Inutile dire che, in cambio, i sanitari dovevano aumentare le prescrizioni di quei medicinali.

| ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 35 |


| economiasolidale |

Germania e Svizzera calcolano gli sprechi «In Svizzera Santésuisse, associazione che riunisce le assicurazioni malattie, ha calcolato in mezzo miliardo di franchi (circa 400 milioni di euro) i costi supplementari provocati dalla bassa aderenza» ha rivelato il governo federale elvetico in risposta a un’interrogazione parlamentare. «In Germania la DGbV, Società per l’assistenza sanitaria orientata al cittadino, stima che la cifra si aggiri sui 2,3 miliardi, mentre la federazione tedesca dei farmacisti valuta in 10 miliardi le conseguenze finanziarie della cattiva assunzione dei | 36 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

INTRECCI TRA MEDICI E BIG PHARMA: ECCO IL PORTALE CHE LI SVELA Nel mondo, spesso magmatico, di legami tra industria farmaceutica e personale medico un sistema per sapere di più di chi ci sta curando c’è: l’agenzia di stampa statunitense ProPublica ha realizzato un motore di ricerca – Dollars for Docs – che permette ai cittadini di sapere se il proprio medico ha ricevuto pagamenti dalle aziende, specificando anche quando, perché e di quale importo. La creazione di Dollars for Docs è stata resa possibile dalla decisione di quindici imprese di rendere pubblici i pagamenti legati alla promozione dei loro farmaci. Una scelta dettata dal timore di iniziative legali e dall’imminente entrata in vigore del Sunshine Act, che da quest’anno renderà obbligatoria la pubblicazione di queste informazioni. Il database di ProPublica contiene per il momento due milioni di pagamenti a partire dal 2009. Per ognuno di essi è possibile risalire al farmaco oggetto della promozione e ai servizi resi dal medico. Si può scoprire per esempio che il proprio medico ha incassato centinaia di migliaia di dollari. 22 professionisti risultano aver superato i 500mila dollari ricevuti dal 2009 ad oggi. Per qualcuno le cifre toccano il miliardo.

farmaci». Comprensibile che in molti inizino a interrogarsi su cause e possibili soluzioni. «La bassa aderenza ha molti padri», spiega Graziano Onder, geriatra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «È causata da reazioni avverse al farmaco che spingono ad assumerlo controvoglia, da una decisione consapevole del paziente che, appena si sente meglio, smette di prenderlo. Ma molto spesso capita semplicemente di dimenticarsene o di non aver capito bene le indicazioni del proprio medico». Una situazione per nulla infrequente, soprattutto tra i pazienti anziani (il 20% della popolazione, ma il 60% dei consumatori di medicinali). «L’11% di loro dovrebbe ricordarsi di prendere dieci pasticche per altrettante patologie» denuncia Onder. «I comportamenti

inappropriati sono in tal caso praticamente inevitabili. Serve quindi un ripensamento radicale dell’approccio prescrittivo da parte dei medici e una revisione delle linee guida dell’Agenzia europea del farmaco. Nel caso dei medicinali spesso less is more». Oltre a questo, molte speranze sono legate all’introduzione delle “polypills”: un’unica pasticca per più patologie. «Ma vanno superate le barriere lobbistiche delle aziende che temono di perdere utili», spiega Onder. Non a caso i test più avanzati sono stati portati avanti nei Paesi più poveri, a partire dall’India. E c’è poi da responsabilizzare i pazienti, sottolineando una verità ineludibile, anche se scomoda: gli sprechi, nella sanità, non sono figli solo di manager incapaci. 

L’IPERTENSIONE CURATA MALE CI COSTA 95 MILIONI Stima dei costi evitabili incrementando l’aderenza alle terapie €0 -€ 20.000.000

-€ 26.717.962 -€ 36.183.564

-€ 40.000.000 -€ 60.000.000

-€ 80.870.816

-€ 80.000.000

-€ 94.955.280 -€ 100.000.000

-€ 93.639.503 -€ 120.000.000

Italia

Germania

Spagna

Francia

Regno Unito

FONTE: EUROPEAN JOURNAL OF HEALTH ECONOMICS

liardi di euro, dei quali quasi 4 pagati dallo Stato (68 euro a testa). I risultati sono impressionanti: solo il 41% dei pazienti rispetta le prescrizioni del medico e segue correttamente la terapia. «Le conseguenze sono gravi – spiega Mennini – sia dal punto di vista medico, perché una cura seguita male può produrre reazioni avverse o essere inefficace, sia dal punto di vista economico, perché il paziente farà nuovamente ricorso ad ambulatori e ospedali». Un costo per la collettività per nulla marginale. «Nella ricerca abbiamo calcolato solo i costi diretti per il SSN. Portare l’aderenza dal 41 al 70%, livello considerato accettabile per questo tipo di patologia, darebbe un risparmio netto di 100 milioni in 10 anni (vedi GRAFICO ). A queste cifre andrebbero poi aggiunti i costi indiretti, legati alla perdita di produttività e alla spesa previdenziale per assegni di invalidità e inabilità». Il fenomeno, a dire il vero, non è solo italiano. Il tasso di aderenza in Spagna è al 40% e in Francia al 39%. Ma mai come in questo caso il male altrui non fa il bene proprio. Anche perché lo spread con altri Stati è anche in questo caso impietoso (la Germania ha un’aderenza al 67%). E il problema non si limita agli antipertensivi. «Una ricerca del 2009 sulla sclerosi multipla calcolava nel 40% i pazienti con comportamenti discontinui», aggiunge Mennini. Peggio ancora per i farmaci antidepressione (quarta categoria più acquistata, per una spesa di 3,3 miliardi, dei quali 1,4 a carico dello Stato): l’aderenza si ferma poco sotto il 30%.


| economiasolidale | made in Italy a rischio/puntata 8 |

Ai piedi sempre meno made in Italy di Emanuele Isonio

Dal 2000 più che dimezzata la produzione e crollati gli addetti. Il comparto calzature, fiore all’occhiello del made in Italy, subisce i colpi della crisi e affronta gli scogli tipici dell’Italia. Le vie d’uscita: export e alta gamma

«Q

uando vedi il prezzo di un paio di scarpe esposte in qualche negozio di grandi griffe, dividilo per nove. Più o meno otterrai il prezzo che viene pagato al produtto-

re per realizzarlo». La notizia ce la rivela Giorgio (il nome è di fantasia. La richiesta di anonimato è sempre più frequente in questi momenti di crisi, direttamente proporzionale alla paura di perdere commit-

LE “SETTE SORELLE” DELLA SCARPA ITALIANA [dati 2013]

VENETO  

852 14.876

EMILIA ROMAGNA  

194 3.748

Minore produzione ma di maggior valore

MARCHE LOMBARDIA  

 

413 6.447

1.776 22.563

TOSCANA  

1.226 15.684

CAMPANIA 406 6.116

ALTRE REGIONI  

162 2.804

PUGLIA  Numero aziende  Numero addetti

 

327 7.016

FONTE: STIME ASSOCALZATURIFICI

 

tenze cruciali per vivere). Un pugno nello stomaco per chi non conosce le dinamiche che legano i piani alti con gli anelli inferiori della filiera calzature. Una delle più importanti del Belpaese (primo produttore europeo, decimo mondiale e quarto esportatore), tanto famosa da caratterizzare l’Italia nel mondo al pari della pizza e del calcio. Eppure anche questo settore non è immune da storture di sistema, che rendono la vita difficile a una miriade di piccoli produttori. Due dati su tutti sono lì a testimoniarlo: dal 2000 il numero di scarpe prodotte si è più che dimezzato (da 389 a 198 milioni di paia) e gli addetti sono calati da 113mila a poco più di 79mila.

A dire il vero, altri numeri consentono di delineare uno scenario a tinte meno fosche: a fronte di una produzione quasi dimezzata nell’ultimo decennio, il controvalore si è infatti ridotto del 17%. E, se confrontiamo gli ultimi 20 anni, è cresciuto di quasi il 20%. Per capire meglio tale dinamica, è utile osservare il prezzo medio di un singolo paio di scarpe: valevano 1,18 euro nel 1970, 10 euro nel 1986, 21 euro nel 2000 e quasi 36 nel 2012. In pratica produciamo meno, ma quello che realizziamo vale di più. Frutto di una profonda rivisitazione delle strategie aziendali: «Due sono le direttrici prevalenti» osserva Domenico Sturabotti, presidente di Symbola, fondazione per le Qualità italiane. «Da una parte si cerca di contenere i costi | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 37 |


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| economiasolidale |

Quando l’etica non finisce sotto le scarpe delle produzioni di media qualità anche delocalizzando all’estero. Dall’altra si punta su un’accentuata differenziazione qualitativa, supportata da investimenti in ricerca e in reti commerciali dedicate che vengono remunerati da un elevato prezzo dei prodotti». Una tendenza a orientarsi verso le produzioni di alto livello, che si riscontra in varie realtà territoriali. Ma particolarmente frequente in alcuni distretti, come quello marchigiano, il primo in Italia per numero di aziende e di addetti (seguito da Toscana e Veneto, vedi MAPPA ). «Le scarpe sono l’oro della nostra Regione», spiega con orgoglio Arturo Venanzi, titolare di un’azienda con 40 dipendenti e vicepresidente di Assocalzaturifici. «Ci sono moltissime imprese che fanno piccole quantità, ma di fascia medioalta. Poche lavorano per i grandi marchi e molti esportano per proprio conto». Tutte insieme sono le prime esportatrici in Russia e sono già da tempo partite alla conquista dei nuovi ricchi. Una scelta che aiuta a vedere la Cina come opportunità per i prodotti d’eccellenza e non come pericolo per la concorrenza a basso costo: «Ci potranno forse rubare un po’ di know how, ma non arriveranno mai a fare prodotti del nostro livello», profetizza Venanzi. Stessa analisi di Siro Badon, presidente di Acrib, associazione che riunisce i calzaturifici della riviera del Brenta: «Nella nostra zona ha una propria sede Louis Vuitton. Anche Yves Saint Laurent e Dior vengono qui a produrre. Segno che l’eccellenza esiste ed è universalmente riconosciuta». È l’export dunque il treno da cogliere al volo per salvarsi dalla crisi dei consumi interni. «Tra la domanda nazionale e quella estera si è aperta ormai una voragine e non sono solo i ceti più poveri ad | 38 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

di Emanuele Isonio

Pelli conciate al vegetale, calzature per animalisti, canali di vendita alternativi e reti di artigiani locali. Un microcosmo che rifiuta le logiche della grande distribuzione. E sta avendo un buon successo commerciale er strategia commerciale o, più spesso, per motivi etici. Quale che sia la spinta iniziale a intraprendere questa strada, rimane un fatto: quella delle scarpe “sostenibili” è ormai una nicchia consolidata nel più vasto settore delle calzature italiane. Un microcosmo di aziende piccole ma assolutamente convinte dei propri mezzi e della scelta fatta. Più che i numeri complessivi, a suffragarla ci sono migliaia di acquirenti affezionati e soddisfatti. Uno zoccolo duro importante, soprattutto in momenti di contrazione generale della spesa. L’eticità della loro proposta commerciale è il fil rouge che lega queste aziende. Ma il concetto è riempito di significato in modo diverso dai singoli imprenditori. C’è chi sceglie di produrre scarpe utilizzando pelli ottenute da sistemi di concia a basso impatto ambientale, chi sperimenta canali di vendita diretta attraverso i Gruppi d’acquisto, chi

P

aver bloccato i propri acquisti», ammette Cleto Sagripanti, presidente di Assocalzaturifici. Un problema che sarebbe criminoso sottovalutare. Perché, da sola, la crescita costante delle esportazioni (7,6 miliardi il loro valore nel 2012) non è in grado di bilanciarlo.

I problemi del sistema-Paese Su quali siano i nodi strutturali da affrontare per togliere zavorra dalle ali del settore, l’analisi è praticamente unanime. «La partita è complessa e non si gioca solo a livello della singola impresa o della categoria. Coinvolge istituzioni, banche, finanza, sindacati, scuola e università. L’Italia deve affrontare questioni strategiche come il costo del lavoro, la pressione fiscale, il peso della burocrazia», commenta Sagripanti. E a questo si aggiunge una difficoltà di accedere al [continua a pagina 40]

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Tacchificio Monti

Stf


| economiasolidale |

que, schiacciato dalle logiche del mercato tradizionale. E che ha deciso di vendere rivolgendosi soprattutto ai Gruppi d’acquisto solidale. «Avevamo davanti una realtà fatta di spinte verso la delocalizzazione, mancanza di visibilità per il vero produttore e di molte ottime aziende artigianali sottoposte al continuo ricatto di commercianti interessati solo al prezzo. Con la nostra scelta finalmente possiamo offrire ai clienti un prodotto in cui si paga la qualità e non la pubblicità o il brand». La scommessa pare funzionare: oggi si producono 12mila paia di scarpe ogni anno (dopo un momento di picco, seguito a una puntata di “Report” del 2009 in cui le vendite arrivarono a 35mila paia). «Per essere tranquilli dovremo arrivare a vendere 20 mila scarpe. Ma la cosa più importante è la stabilità negli ordini».

Lattanzi

no». Per realizzarle, viene usata pelle conciata al vegetale (un sistema antico e con molti vantaggi di cui abbiamo parlato su Valori di novembre scorso). «Ma negli ultimi tempi abbiamo iniziato a fare scarpe con materiali alternativi alla pelle, un settore in grande evoluzione». Risultato: 2.500 paia vendute ogni anno. Quello delle scarpe “vegane” è una nicchia che pare attirare sempre maggiore attenzione. Lo conferma Carolina Pini, titolare della Cammina Leggero, che da un paio d’anni ha deciso di non usare più materie prime animali. «Una scelta di coerenza rispetto ai nostri valori, che ci ha aperto un mondo fatto di clienti estremamente attenti alla componente etica e a trasferire nei loro acquisti una riflessione su propri consumi». In due anni il lavoro è quadruplicato. «Nel 2012 realizzavamo mille paia di scarpe. Oggi siamo a quattromila». Un motivo di soddisfazione, non solo commerciale: «Qualche mese fa – racconta Carolina – abbiamo vinto un bando europeo insieme al CNR di Milano e all’Università di Oporto per approfondire l’uso delle nanotecnologie alla produzione calzaturiera. Per una realtà piccola come la nostra è un mezzo miracolo». 

Concia al vegetale e scarpe vegane

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C’è chi invece l’artigiano con cui collaborare è andato a scovarlo all’estero. La Altrescarpe Bioworld propone calzature realizzate da una piccola bottega spagnola. «In pratica lavoriamo su ordinazione – spiega il titolare Giambattista Bellotti – così evitiamo costi di magazzi-

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stringe legami con gli altri anelli della filiera in modo da costruire una rete di saperi artigianali che altrimenti andrebbero perduti, chi rifiuta l’uso di pellami e decide di usare solo materiali non derivati dallo sfruttamento degli animali. Percorsi diversi che però portano al consumatore finale prodotti con una caratteristica identica: a parità di prezzo, la qualità è assolutamente maggiore rispetto alle calzature vendute da molti grandi marchi. Ma al tempo stesso assicura una remunerazione incomparabile al produttore, liberandolo dal giogo della grande distribuzione. «Quel sistema – denuncia Gigi Perinello, titolare di “Ragioniamo con i piedi”, una vita nel settore scarpe – ha costi enormi per pubblicizzare i propri prodotti, rinnovare continuamente i negozi, studiare nuove collezioni. Alla fine il più penalizzato è il produttore che lavora per le griffe al quale viene riconosciuto al massimo il 15% del prezzo finale di vendita. È un meccanismo che mangia soldi in modo perverso». La ribellione, per Gigi, ha assunto la forma di un’azienda che commercializza i prodotti della Astorflex, un calzaturificio che versava in cattive ac-

De Robert

Fratelli Rossetti | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 39 |


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Oscilla tra i 190 e i 240 milioni di euro annui il fatturato perso a causa del mercato delle calzature false. I dati sono stati presentati da Assocalzaturifici a fine gennaio insieme a una ricerca commissionata dal Ministero dello Sviluppo economico a Convey, azienda specializzata nella protezione della proprietà intellettuale. Lo studio ha permesso di approfondire il legame esistente tra contraffazione e internet, calcolando quanto è diffuso il fenomeno sulle piattaforme web 1.0, 2.0 ed e-commerce. L’analisi, condotta su oltre 700mila documenti presenti in rete, vede in prima posizione i grandi siti di commercio elettronico, in particolare quelli dell’Estremo Oriente, nei quali è risultato contraffatto il 73% delle calzature vendute. Seguono poi i siti web 1.0 (18% di prodotti falsi) e infine i social network. Un danno economico e d’immagine per i prodotti italiani. «I falsi sono realizzati senza rispettare le regole di sicurezza», commenta il presidente di Assocalzaturifici, Cleto Sagripanti. «È necessario quindi poter contare su regole efficaci contro la contraffazione on line». Tra le proposte avanzate durante il convegno: ridurre la visibilità dei siti internet e dei domini che violano i diritti di proprietà intellettuale, rimuovere in tempi rapidi i contenuti illeciti, riconoscere la corresponsabilità del provider, degli intermediari e dei fornitori dei servizi web. «Lo studio permette di capire la portata devastante della contraffazione – prosegue Sagripanti – che non vale solo per il comparto calzature, ma per tutti gli accessori moda. Il valore complessivo della merce sequestrata è di oltre 208 milioni nel solo 2012. Negli ultimi cinque anni la cifra sfiora i 2 miliardi di euro».

PRODUZIONE DI CALZATURE E OCCUPAZIONE DAL 1970 AL 2012

35,88

1995

2000

Valore [in milioni di euro] Prezzo medio [in euro]

198.523.710 79.254

1990

207.645.812 80.925

1985

202.464.291 80.153

5,60 2,37

1980

34,72

100.000

2005

2010

2011

2012

50.000

0.000

FONTE: STIME ASSOCALZATURIFICI

Paia Addetti

424.916.189

13,30 9,44

250.245.653

2.530,48

1975

33,37

97.005

1970

21,21

389.853.882 113.100

150

27,87

4.953,19

869,46 1,18

7.122,20

5.653,62

16,50

409,55

7.209,58 6.755,86

6.974,48

476.229.832 124.228

250

150.000

8.269,31 7.856,40

113.980

350

524.509.328 133.914

450

451.743.203 132.475

550 130.791

Un “fuoco amico” che rischia di essere mortale se si considera che i calzaturifici italiani devono già fronteggiare a livello europeo la potente lobby di quanti non vogliono che le peculiarità e la qualità delle produzioni tricolore vengano tutelate con l’obbligo di etichettatura. Indicare il luogo di realizzazione di un paio di scarpe è, infatti, obbligatorio in Italia, ma non nel resto della Ue: «Quella del “made in” è una battaglia epocale che stiamo combattendo – osserva Badon – ma a Bruxelles ci scontriamo con molte resistenze soprattutto dai Paesi del Nord Europa». Un percorso tra alti e bassi: nel 2012 la prima sconfitta, quando la Commissione Ue ha eliminato il tema dall’agenda 2013. Il 17 ottobre scorso la prima vittoria: la commissione Mercato interno dell’Europarlamento ha approvato la normativa sull’etichetta di origine con 27 voti a favore, 5 astenuti e 7 contrari. Ora occhi puntati sull’aula che dovrà confermare quanto deciso in commissione. Ma non sarà l’ultimo passo. La disciplina dovrà poi essere approvata dal Consiglio Ue. Avere un sistema Paese in grado di fare lobby sarà probabilmente determinante per il successo finale. 

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La lunga battaglia per il “made in”

Baldinini

132.608

credito sempre maggiore. «La disponibilità di finanziamenti diventa il primo vincolo alla crescita delle nostre aziende e il primo ostacolo all’internazionalizzazione. Il 39% delle aziende associate – prosegue Sagripanti – ha denunciato un aggravio delle garanzie richieste, il 42% ha notato la crescita dei tassi di prestito applicati e il 58% l’aumento dei costi di gestione imposti dagli istituti bancari».

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| economiasolidale |


| socialinnovation |

Case, non manette

Housing sociale per i senza fissa dimora difficile immaginare che in America chiunque abbia accesso a un’abitazione sicura e stabile. La presenza degli homeless, i senza tetto, dura da così tanto tempo che è accettata come un effetto, sgradito, ma inevitabile, della vita nella città. Così non dovrebbe essere: il fenomeno degli homeless, anche nelle nostre città, persiste perché le risposte messe in atto

È

dalla società non tendono a rimuoverne le cause originali. Alle Hawaii il politico Tom Bower perlustrava le strade del suo quartiere di Waikiki con una mazza, distruggendo carrelli della spesa utilizzati da persone senza fissa dimora. “Disgustato” dal problema cronico dei senzatetto, Bower ha deciso di prendere letteralmente in mano il problema trascinando persone senza fissa dimora lontano dai luoghi pubblici. La tattica di Bower è di dare sfogo in modo estremo alla frustrazione che ha portato le città ad approvare misure di criminalizzazione dei senzatetto. I membri del Consiglio comunale di Columbia, nella Carolina del Sud, preoccupati che la città stesse diventando una calamita per le persone senza fissa dimora, ha approvato una ordinanza che dà ai senzatetto l’opzione di trasferirsi o farsi arrestare. L’anno scorso Tampa, in Florida, una delle città con il più alto tasso di homeless, ha decretato il divieto di accumulare beni personali in pubblico, consentendo agli agenti di polizia di arrestare chiunque dorma per strada e chieda l’elemosina. La città di Philadelphia ha adottato un approccio diverso, vietando la somministrazione di cibo ai senza tetto in luoghi pubblici come i parchi, con il risultato di aver

Per i senza fissa dimora le politiche emergenziali non servono. Dallo Utah il progetto Housing First: più economico ed efficace scatenato la disobbedienza civile degli attivisti e dei gruppi religiosi che assistono gli homeless. Questa tendenza a criminalizzare il fenomeno rappresenta una disfatta per le politiche sociali: la rimozione di un problema collettivo che però non è insormontabile. Negli ultimi dieci anni nello Utah è avvenuto un mutamento di approccio che riconosce l’inefficacia delle politiche emergenziali di breve periodo promuovendo il progetto Housing First incentrato su un accesso rapido alla casa, seguito da politiche di reinserimento sociale e lavorativo. Il tasso di homeless

di Andrea Vecci

è sceso del 78%, facendo avviare lo Stato al primato di homeless zero entro il 2015. Nello Utah hanno capito che il costo annuale per i senza tetto di pronto soccorso, sanità, ordine pubblico e carcere era di 17mila dollari a persona, rispetto agli 11mila dollari per fornire un appartamento e un assistente sociale. Così, lo Stato nel 2005 ha cominciato a regalare appartamenti agli homeless, senza alcun vincolo. Ogni partecipante al programma Housing First viene abbinato a un assistente sociale con lo scopo di aiutarlo a diventare autosufficiente, ma il diritto a tenere l’appartamento non decade in mancanza di lavoro. Il programma ha avuto così tanto successo che altri Stati stanno sperando di ottenere risultati simili replicandone il modello, perseguendo un programma di Housing non solo più umano, ma anche più economico.  | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 41 |



| Zimbabwe |

internazionale H&M, capitalismo prêt-à-porter > 46 Se la Cina mette le mani sull’Etiopia > 47

Tutti i diamanti del presidente Il salotto buono abbraccia Mugabe L’Ue abolisce le sanzioni e Anversa apre le porte allo Zimbabwe. Il Kimberley Process applaude mentre le pietre preziose continuano a finanziare il regime

di Matteo Cavallito

l prezzo finale si aggira sui 10,5 milioni di dollari e, al pari dell’ammontare, è stato confermato ufficialmente. Lo scorso dicembre, nella storica Borsa di Anversa, lo Zimbabwe ha venduto all’asta circa 300mila carati di diamanti, 60 kg, celebrando così l’atteso quanto contestato evento: il rientro nel mercato europeo. L’operazione ha sancito la fine di un’epopea iniziata nel 2002 quando Bruxelles aveva reagito alle continue violazioni dei diritti umani compiute dal regime del presidente Robert Mugabe mettendo all’indice la Zimbabwe Mining Development Corporation (ZMDC), la compagnia di Stato del Paese. Nel marzo del 2013 un voto referendario aveva formalmente limitato il potere del presidente, convin-

I

| ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 43 |


FONTE: BAIN & COMPANY, THE GLOBAL DIAMOND REPORT 2013

| internazionale |

RISERVE [in milioni di carati]

1.047

145

RUSSIA

CANADA

25 CAMERUN

180 REP. DEM. CONGO 19 ALTRI

180 BRASILE

94 ANGOLA

140 200 ZIMBABWE TOTALE

2.316

cendo l’Ue a sospendere la maggior parte delle sanzioni. L’attesa riforma istituzionale, tuttavia, non ha impedito a Mugabe di consolidare ugualmente il suo potere tre mesi più tardi con l’ennesimo successo elettorale costellato di accuse di irregolarità. L’Ong Global Witness, in particolare, ha denunciato brogli e intimidazioni,

BOTSWANA

162

SUDAFRICA

sostenendo che a finanziare gli ultrà dell’anziano leader sarebbero stati proprio i proventi delle operazioni minerarie della ZMDC che opera in cinque joint venture nell’area di Marange, nella parte orientale del Paese. Secondo gli attivisti di Partnership Africa Canada, un’organizzazione con se-

MUGABE? NO GRAZIE. PER FORTUNA ESISTE IL CANADA «Siamo tuttora gli unici in Italia, il che da un punto di vista commerciale rappresenta un vantaggio. Per certi versi però si tratta davvero di una situazione clamorosa». A parlare è Francesco Belloni, titolare dell’omonima gioielleria milanese, che dal 2005 acquista le pietre in Canada, al riparo dalle infiltrazioni dei diamanti “sporchi”. Ad oggi, per quanto se ne sa, nessun altro operatore italiano ha seguito il suo esempio. Lo schema è efficace. Una volta estratto, ogni sasso diamantifero canadese viene classificato con un numero, lo stesso che lo accompagna nei laboratori esteri dove viene tagliato prima di essere rispedito in Canada dai distributori che lo venderanno direttamente alle gioiellerie. Un business che funziona, sebbene con una quota di mercato marginale. «La scelta di puntare sui diamanti etici ha indubbiamente pagato – spiega Belloni – ma la nostra attività costituisce comunque una nicchia. La verità è che al grande mercato non importa nulla». Fuori dal grande giro, insomma, ma con prezzi competitivi. «I diamanti canadesi di peso inferiore, fino a 5 o 6 punti (centesimi di carato, ndr), costano un po’ di più rispetto a quelli tradizionali – precisa – mentre quelli di livello superiore hanno un prezzo assolutamente concorrenziale. I diamanti canadesi superiori ai 30 punti, alle volte, si possono acquistare anche a prezzi più bassi rispetto a quelli tradizionali». M.Cav.

| 44 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

151 AUSTRALIA

de a Ottawa, il conto totale dei finanziamenti transitati dalla ZMDC alle casse dello Zimbabwe African National Union Patriotic Front (Zanu-Pf), il partito di governo, si aggirerebbe fino ad oggi sui due miliardi di dollari. Un’accusa pesantissima, ma non per questo sufficiente, di per sé, a far cambiare opinione all’Unione Europea. Che a settembre, tra le polemiche, ha definitivamente abolito l’embargo, riammettendo lo Zimbabwe nel salotto buono del mercato continentale.

Ripresa e diamanti Il 21 febbraio scorso Mugabe ha festeggiato il suo 90° compleanno dalla sua poltrona presidenziale occupata ininterrottamente dal 1987 e che pure sei anni fa era sembrata vacillare sotto i colpi del leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai e del disastro economico. Perduto il controllo del parlamento e incapace di gestire la riforma agraria che aveva espropriato le terre degli ex coloni e dei loro discendenti, Mugabe faceva i conti con un sistema produttivo ormai deceduto in cui il tasso di disoccupazione raggiungeva il 94% e l’inflazione toccava una quota che per esteso si scriveva così: 89.700.000.000.000.000.000.000%.


| internazionale |

in Canada (vedi BOX ), uno dei pochi Paesi capace di offrire due garanzie fondamentali: la tutela dei lavoratori e l’impossibilità delle sue pietre di mescolarsi con quelle sospette di altri mercati. L’esatto opposto, in altre parole, di quanto accadrebbe nella città indiana di Surat dove, rilevava all’inizio del 2013 un report a cura di Jason Miklian, ricercatore presso il Peace Research Institute di Oslo, passerebbe oggi circa il 90% di tutti i diamanti grezzi del mondo, oltre un terzo dei quali di provenienza illegale. A trattarli, per un salario che può attestarsi su un dollaro a pietra, mezzo milione di lavoratori (il 10% dei residenti) dalle cui mani, impegnate in turni da 14 ore, escono i diamanti lavorati di provenienza non più tracciabile diretti all’aeroporto internazionale di Mumbai dove, si stima, ne vengono imbarcati ogni giorno per 60 milioni di dollari. Con la sua adesione datata 2003, per la cronaca, l’India è tra i membri fondatori del Kimberley Process.  FONTE: CIA - WORLD FACTBOOK 2013 (WWW.CIA.GOV)

circa 200 minatori improvvisati che si erano installati nell’area di Marange accusando direttamente il governo dello Zimbabwe. Uno scandalo colossale che indusse il Kimberley ad avviare un embargo abolito però nel 2011. Da allora gli 81 Paesi dell’organizzazione invitano inutilmente gli Usa a seguire l’esempio senza preoccuparsi, evidentemente, di una credibilità ormai compromessa. Ad oggi il KP discrimina i diamanti “di guerra”, ma non necessariamente quelli prodotti dallo sfruttamento, senza contare che il suo marchio, ammesso che significhi ancora qualcosa, resta soggetto agli inevitabili rischi di ogni sistema di certificazione, a partire dalla corruzione dei funzionari governativi dei singoli Paesi. «Oggi, e a pensarci è davvero incredibile, possiamo conoscere la provenienza di un limone, ma quasi mai riusciamo a sapere con certezza quella di un diamante», spiega Francesco Belloni, gioielliere milanese che da anni ha scelto di rifornirsi soltanto

IL PAESE IN CIFRE Popolazione: 13,2 milioni Capitale: Harare Indipendenza: 1980 (dal Regno Unito) Pil: 7,17 miliardi di dollari* Pil pro capite: 600 dollari Tasso di crescita reale: 4,4% Rapporto debito Pil: 244% Tasso d’inflazione: 8,2% Disoccupazione: nd Alfabetizzazione: 90,7% Mortalità infantile: 2,73% Tasso di crescita della popolazione: 4,4% Speranza di vita: 54 anni * A parità di potere d’acquisto

LA PRODUZIONE MONDIALE DI DIAMANTI 2006-12 [in milioni di carati]

Disastro Kimberley L’abolizione delle sanzioni Ue, che secondo Bruxelles dovrebbe garantire allo Zimbabwe introiti fiscali aggiuntivi per 400 milioni di dollari l’anno, ha uno sponsor d’eccezione: il Kimberley Process. Creata nel 2003 nell’omonima città sudafricana, il KP rappresenta oggi la principale organizzazione dedita alla certificazione dei diamanti “puliti”, ovvero non coinvolti nel finanziamento dei conflitti. Nel 2008 Human Rights Watch denunciò l’eccidio di

200

176

168

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2010

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0

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2009

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FONTE: BAIN & COMPANY, THE GLOBAL DIAMOND REPORT 2013

Approssimando lievemente per eccesso faceva 90 sestilioni percentuali, il che, in termini pratici, significava che i prezzi raddoppiavano esattamente ogni 24 ore e 42 minuti. Nell’aprile del 2009 la Banca centrale sospendeva l’emissione di valuta locale, introducendo sul mercato dollari Usa e rand sudafricani e consentendo all’economia di riprendere a crescere per la prima volta in 13 anni. Oggi, con le banconote da 100 trilioni di dollari zimbabwesi, disponibili su eBay (si comprano a 99 centesimi di dollari Usa), l’inflazione viaggia a un più che dignitoso 8% mentre il Pil si mantiene in crescita. E le pietre preziose, inevitabilmente, appaiono destinate al ruolo di protagoniste. Nel corso del 2012, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati definitivi secondo il più recente rapporto di Bain & Company, la produzione mondiale di diamanti si è attestata a 128 milioni di carati (176 nel 2006, l’anno del picco) registrando una crescita annuale del 4%. Lo stesso anno lo Zimbabwe ha segnato un clamoroso +42%, sovraperformando il mercato mondiale di oltre dieci volte. Nel 2012, ha ricordato Bloomberg, lo Zimbabwe ha prodotto circa 8 milioni di carati per un controvalore di 685 milioni di dollari, una cifra enorme per un Paese caratterizzato da un Pil che a parità di potere d’acquisto supera di poco i 7 miliardi di biglietti verdi. Secondo il ministero delle Miniere di Harare l’ammontare estratto nel 2013 dovrebbe sfiorare i 17 milioni di carati. Oggi, rileva ancora Bain, l’ex Rhodesia si confermerebbe il secondo detentore mondiale di diamanti con 200 milioni di carati in riserve complessive su un totale planetario di 2,3 miliardi (vedi MAPPA ).


| internazionale | delocalizzazioni |

H&M, il capitalismo prêt-à-porter di Andrea Barolini

Dopo l’Asia, la nuova meta per le delocalizzazioni è l’Etiopia. La caccia al costo del lavoro più basso porta il colosso del tessile H&M a spostare parte della produzione ad Addis Abeba. La Cina inizia a essere troppo costosa era una volta l’industria del tessile che colonizzava l’Asia. D’accordo, è ancora presto per coniugare al passato: le multinazionali del settore sono ancora fortemente presenti in Paesi come Bangladesh, Pakistan, Vietnam o Cina. Ma nei prossimi anni qualcosa, nella geografia globale di jeans, giacche e t-shirt, potrebbe cambiare. Anche radicalmente. Il motivo? Lo stesso che ha governato le delocalizzazioni degli ultimi decenni: la rincorsa forsennata all’abbattimento dei costi. L’ipnosi della massimizzazione dei profitti sta spingendo anche il colosso svedese del tessile Hennez & Mauritz – meglio noto come H&M – a spostare parte della propria produzione in Etiopia. Ad oggi, l’80% dei capi del gruppo numero due al mondo proviene da Paesi asiatici. Ma in Cina (e non solo) i lavoratori reclamano da tempo una decisa estensione dei loro diritti e perfino (pensate un po’ che assurdità!) dei salari decenti. Così, nel settore privato le paghe del lavoratori cinesi sono aumentate del 17,1% nel 2012, dopo un +18,3% dell’anno precedente. Una dinamica evidentemente inaccettabile per la multinazionale scandinava. E allora addio, si parte. Destinazione Africa. Morto un paradiso industriale, se ne trova un altro: «Siamo una grande impresa – ha dichiarato il gruppo in un comunicato – e cerchiamo costantemente nuovi mercati per garantirci la capacità di distribuire i prodotti in tutti i negozi».

C’

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In Etiopia metà costi rispetto alla Cina Pur di continuare a (sovra?)produrre, ci si sposta dunque verso il miglior offerente: ad Addis Abeba oggi si lavora per 45 euro in media. Al mese, ben inteso. Cinque in meno del Bangladesh, dove dopo la tragedia del Rana Plaza (nell’aprile scorso il crollo dell’immobile di nove piani nei pressi di Dacca lasciò sotto le macerie 1.129 corpi) gli operai hanno ottenuto qualche timida risposta alle loro misere rivendicazioni. Assolutamente fuori mercato, poi, la Cina, dove si deve sborsare ormai la bellezza di 300 euro al mese (e dove il governo si è perfino permesso di aumentare il salario minimo, con l’obiettivo di incentivare i consumi domestici). Complessivamente, secondo quanto rivelato lo scorso agosto dal Wall Street Journal, il costo di produzione di un abito fabbricato in Etiopia è oggi la metà rispetto a quello che occorreva affrontare nel 2011 in Cina. Un conto che gli analisti finanziari delle multinazionali (non soltanto di H&M) hanno già da tempo lasciato sulle scrivanie dei dirigenti. Ad accogliere gli svedesi nel Paese africano, infatti, ci sarà una già nutrita rappresentanza di “colleghi” del settore: in Etiopia si sono già fiondati la britannica Tesco e la cinese Huajian. Quest’ultima, fornitrice di nomi ultra-noti come Guess e Tommy Hilfiger, si è installata a Dukem, 30 chilometri a Sud della capitale etiope, area industriale teatro di uno

sviluppo ampio e super-incentivato. Chi arriva qui, infatti, non soltanto può permettersi di risparmiare quanto detto sugli stipendi, ma è anche esonerato dal pagamento delle tasse e dell’energia elettrica per quattro anni. Il fatto poi che l’Etiopia, nonostante una crescita che si aggira attorno al 10%, resti ancora un Paese tra i più poveri della Terra, con un’economia estremamente arretrata e con un bisogno enorme di finanziamenti (per, ad esempio, costruire scuole e presidi sanitari), conta evidentemente molto poco. Tuttavia, immaginiamo per un attimo un mondo diverso. Non certo “ideale” quanto piuttosto “accettabile”. Nel quale H&M negozia con il governo africano un accordo con l’obiettivo di pagare ugualmente le tasse che dovrebbe, o almeno una parte. O nel quale H&M decide, autonomamente, di pagare dei salari un filo più prossimi alla decenza, in nome delle difficoltà oggettive della popolazione etiope. Eh no, questo collide con gli interessi degli azionisti. Un mondo diverso, nel capitalismo prêt-à-porter, è impossibile. Almeno per ora. 

H&M Nazionalità: svedese Anno di fondazione: 1947 Manager: Stefan Persson (presidente); Rolf Erikssn (a.d.) Impiegati: 104.000 Negozi: 2.776 Vendite (2012): 16 miliardi di euro Profitti netti (2012): 1,92 miliardi di euro


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Se la Cina mette le mani sull’Etiopia di Alberto Lanzavecchia

n Etiopia l’anno inizia l’11 settembre e le ore si contano dal sorgere del Sole: è il Ge’ez, calendario coopto, composto da dodici mesi di trenta giorni e uno di cinque. “Tredici mesi di sole all’anno”, recita uno slogan pubblicitario agli arrivi del nuovo aeroporto di Addis Abeba. Il terminal è stato costruito, e donato, dai cinesi. È non è l’unica infrastruttura made in China nel Paese africano. In pochi anni

I

Pechino ha realizzato quello che in decenni di aiuti internazionali non è stato nemmeno progettato. Gli investimenti e i legami con i cinesi sono visibili ovunque: nuove strade, la sede dell’Africa Union (un dono da 200 milioni di dollari!), i giganteschi cantieri già avviati: la nuova metropolitana di superficie nella capitale (500 milioni di dollari), la nuova linea ferroviaria da 765 km che ripristinerà il collegamento con il porto di Gibuti (oltre 3,3 miliardi di dollari), un progetto idroelettrico (da 8 miliardi di dollari) che consentirà all’Etiopia di diventare esportatore di energia pulita, seppur con enormi impatti sociali, ambientali e politici (sottraendo acqua al corso del Nilo Azzurro verso il Sudan e l’Egitto). Ma i rapporti tra le due nazioni sono

ineguali: la Cina è alla ricerca non solo di terre e materie prime, ma anche di nuovi accessi ai futuri mercati nel Continente africano verso cui far affluire le proprie esportazioni. La Cina delocalizzerà la produzione in Etiopia, sfruttando costi del lavoro, dell’energia e dei trasporti drasticamente inferiori. A questo lungimirante scopo fornisce tecnologia e capitali al Paese, storico crocevia del commercio. D’altra parte, senza il supporto della Cina, le infrastrutture in Etiopia sarebbero ancora quelle costruite dagli italiani negli anni Trenta o la linea ferroviaria completata dai francesi nel 1917, abbandonata da tempo. L’afflusso di denaro generato con le esportazioni non può consentire al governo etiope di avviare progetti così ambiziosi.

ETHIOPIAN WOMEN EXPORTER’S ASSOCIATION Ethiopian Women Exporters’ Association (EWEA) è un’associazione, fondata nel 2000, tra donne imprenditrici per supportare e favorire lo sviluppo degli affari tramite l’esportazione. Attualmente l’associazione conta circa 50 membri, a capo sia di piccole aziende con 10 persone fino a grandi aziende con più di 600 dipendenti, che operano nell’agricoltura (fiori, caffè, miele), nel tessile e nell’artigianato. In concreto EWEA fornisce servizi (informazioni per l’esportazione, su eventi o fiere favorendone la partecipazione, training e seminari specifici, servizi amministrativi, di segreteria e di promozione), advocacy (in rappresentanza degli associati, lavora per influenzare le politiche del governo e l’opinione pubblica, in particolare su temi come l’accesso al credito, le certificazioni di prodotto e di processo, i diritti di brevetto) e networking (la rete di relazioni comprende anche la camera di commercio, il ministero del commercio e istituzioni internazionali). Come afferma la presidente di EWEA, Hadia Mohammed Gondji: «Lo scopo è quello di permettere alle donne di diventare più sicure in sé stesse, di diventare forti e competitive nel mercato globale, diventando così un modello per tutte». E.Men.

IL PAESE IN CIFRE Popolazione: 93,87 milioni Capitale: Addis Abeba Pil: 47,3 mld dollari* Pil pro capite: 1.300 dollari Tasso di crescita reale: 7% Rapporto debito Pil: 50,4% Tasso d’inflazione: 8,4% Disoccupazione: 17,5% Alfabetizzazione: 39% Mortalità infantile: 5,82% Tasso di crescita della popolazione: 2,9% Speranza di vita: 60 anni

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FONTE: CIA - WORLD FACTBOOK 2013 (WWW.CIA.GOV). * A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO

La Cina ha donato al Paese africano opere e infrastrutture per miliardi di dollari. In cambio ha trovato un tesoro fatto di terra, materie prime e l’accesso verso il mercato africano dove indirizzare le esportazioni


FONTE: FAS/USDA

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PRODUZIONE DI CAFFÈ ANNO 2012-2013 [60 kg bags, m]

IL PREZZO DEL CAFFÈ [dollari Usa]

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Luci e ombre del caffè E dire che l’economia etiope è in grande crescita: in media del 10% all’anno dal 2004, con le esportazioni che valgono circa tre miliardi di dollari, il 7% del Pil. Un’economia che ruota attorno al caffè , le cui vendite rappresentano un terzo delle esportazioni del Paese. La varietà più pregiata, l’arabica, è però minacciata da fattori economici, naturali e dall’avidità dell’uomo. Il suo prezzo è ai minimi dagli ultimi quattro anni, dimezzato rispetto al picco del 2011 (vedi GRAFICO ). Il Vietnam in pochi anni è diventato il principale produttore di caffè robusta, di qualità e prezzo inferiore, che ha invaso il mercato (vedi GRAFICO ). In Europa e negli Stati Uniti la crisi globale ha fermato i consumi. Le industrie del caffè, per aumentare i margini di guadagno, stanno utilizzando maggiormente il robusta. Gli investimenti

Etiopia

India

0

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fatti in Brasile per migliorare la produttività delle piantagioni si sono così rivelate un boomerang, perché l’aumento dell’offerta di robusta ne ha depresso ulteriormente il prezzo. Il caffè per molti è solo una “commodity”, eppure la sua qualità, l’unicità della terra e dell’ambiente in cui nasce, il legame con le comunità, possono renderlo unico. Anche nel prezzo. È la strada seguita da alcuni coltivatori, non solo di caffè (vedi BOX ). L’arabica è però minacciata anche dai cambiamenti climatici: produzione ridotta, parassiti e funghi sono più frequenti a causa delle condizioni climatiche avverse. Un recente studio del Royal Botanic Gardens Kew di Londra conclude che, nel peggior scenario, entro il 2080 l’arabica sarà estinta in Etiopia. L’ultima minaccia proviene dall’uomo: incendi, deforestazione, land grab-

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Robusta

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bing. Nell’aprile dell’anno scorso un vasto incendio ha gravemente danneggiato la foresta di Yayu, nel sud ovest dell’Etiopia, biosfera protetta dall’Unesco dal 2010, la più grande foresta al mondo per la conservazione di varietà naturali di caffè. La causa dell’incendio è ignota. Noti invece i progetti di insediamenti industriali nell’area per la produzione di fertilizzanti e per lo sfruttamento minerario. Uno studio commissionato nel 2006 a un’impresa cinese ha rilevato che nel sottosuolo è presente un giacimento di carbone. Oltre 100 milioni di tonnellate. Che possono essere utilizzate per produrre fertilizzanti ed energia elettrica. Impianti che verranno realizzati dalla medesima impresa cinese. Proprio lì, nella foresta dove il caffè è nato. Anche questo è il libero scambio con la Cina.  www.kew.org - www.tinyurl.com/pqld94m

MIELE BIANCO DI WUKRO Terra Madre, progetto lanciato da Slow Food per difendere l'agricoltura sostenibile e per preservare la biodiversità del cibo, è riuscito a scovare nel nord dell’Etiopia, lungo la rotta delle carovane di dromedari che trasportano blocchi di sale estratto dalla spessa coltre che ricopre la dantesca depressione della Dancalia, un prodotto d’eccellenza: il miele bianco di Wukro. Dal miele raccolto due volte l'anno, dopo le stagioni delle piogge, si producono tre varietà, distinguibili anche dal colore: rosso, giallo e bianco (il 90% della produzione). Nel 2006 Terra Madre coinvolge Saint Gobain Vetri e CONAPI (Consorzio Nazionale Apicoltori)

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che da subito riconosce le potenzialità del prodotto e i benefici per la comunità locale. Dalla collaborazione sono migliorate notevolmente le condizioni dei 17 apicoltori e la qualità del prodotto. In particolare, è stato costruito un laboratorio di smielatura, trasferita conoscenza per allevare le api e per produrre miele rispettando l’ambiente. Il risultato più tangibile è senz’altro quello di aver creato una riconoscibilità del prodotto sul mercato. Infatti, prima gli apicoltori si limitavano a raccogliere il miele e a venderlo sfuso, spesso mischiato con altri, a prezzi molto bassi; ora invece il miele viene venduto in vasetti etichettati con un marchio che ne identifica chiaramente la provenienza e la qualità, riconosciute anche in un giusto prezzo. Diventando così un esempio per tutta l’agricoltura di qualità. Elena Meneghetti www.terramadre.info


| avvistamenti |

Echi rivoluzionari

Quando l’arte auspica il cambiamento bbiamo amato tanto la rivoluzione”: è il titolo della mostra di Alfredo Jaar alla Fondazione Merz di Torino, a cura di Claudia Gioia, (fino al 9 marzo). Il titolo ci rimanda a momenti lontani, agli anni Sessanta-Settanta, a quando gli artisti parlavano di rivoluzione, la auspicavano. Il richiamo dell’artista cileno, che ha rappresentato il suo Paese all’ulti-

“A

di Angela Madesani

ma Biennale di Venezia, con uno dei padiglioni più belli di quella manifestazione, è proprio a quel momento storico, politico, sociale. La mostra torinese è costituita da una grande installazione di pezzi di vetri a specchio rotti, che copre l’80% della superficie espositiva. Il visitatore può camminare tra i vetri, i sogni infranti (previo il rilascio di una liberatoria). Il cammino è faticoso, sembra di essere in mezzo a una neve che taglia. La riflessione è obbligata. Sul muro una grande proiezione di Jaar del 1981 “Opus 1981, Andante Desesperato”. All’epoca il Cile era nel pieno della dittatura di Augusto Pinochet. L’artista recita una sorta di mantra liberatorio. Si arriva, quindi, a un ambiente con una grande installazione di Mario Merz del 1970, il neon alle pareti e l’acqua nera per terra: “Sciopero generale azione politica relativa proclamata relativamente all’arte”. L’invito è alla partecipazione in un mondo come il nostro che talvolta

ne, Michelangelo Pistoletto – e stranieri: On Kawara, Yves Klein, Luis Camnitzer, Valie Export. Una scelta intima, personale, carica di implicazioni. È la denuncia della propria poetica, dei propri riferimenti artistici. Non è semplicemente una mostra, quella di Alfredo Jaar a Torino, è un invito a cambiare, a prendere coscienza di se stessi e del mondo. E tutto questo è possibile proprio tramite l’arte, la cultura. Un ministro della nostra “povera patria” tempo fa ha affermato che di cultura non si vive. La mostra di Torino, se ce ne fosse stato ancora bisogno, dimostra che così non è. La cultura aiuta ad andare oltre l’apparenza, a cercare di comprendere, a trovare nuove strade per essere donne e uomini e non solo avulsi consumatori di merci. 

Una mostra per pensare, quella di Alfredo Jaar. L’arte che spinge a prendere coscienza di sé e del mondo sembra accettare passivamente quanto accade giorno dopo giorno: in Italia più che altrove. Un terzo ambiente ha un rimando domestico. Come sulle pareti di una casa, in una folta quadreria sono appese le opere dell’artista, realizzate dall’inizio degli anni Settanta, dedicate a Pasolini, a Gramsci, a Ungaretti. Ma ci sono anche opere di altri artisti, italiani – Alighiero Boetti, Piero Manzoni, Fabio Mauri, Giuseppe Peno-

In basso da sinistra: Chile 1981, Before Leaving, 1981; M’illumino d’immenso, 2009; Opus 1981, Andante Desesperado, 1981; PPP, 2013 Alfredo Jaar [Courtesy of the artist, New York and Galleria Lia Rumma, Milano]

FOTO ANDREA ROSSETTI (COURTESY FONDAZIONE MERZ)

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| LASTNEWS |

altrevoci UN MILIONE DI FIRME PER LA TASSA SULLE TRANSAZIONI

Mentre in Europa si stanno definendo – evitiamo il condizionale, in uno slancio di ottimismo – i dettagli per l’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie attraverso una cooperazione rafforzata (il Commissario Ue per la Fiscalità e l’unione doganale, Algirdas Semeta, in un’intervista al quotidiano finanziario austriaco Wirtschaftsblatt ha parlato di “negoziati alla fase finale”), la campagna internazionale ha lanciato un video nel quale viene “raccontata” la TTF tra 10 anni. Cinque attori interpretano giornalisti ed esperti in un finto tg del 2024, nel quale si commentano gli effetti benefici del prelievo fiscale. Tra di loro un rappresentante del mondo bancario che fatica ad ammettere la bontà del provvedimento finché, incalzato, non finisce per gridare: «È stato un trionfo. Un trionfo! Siete soddisfatti adesso?». Il tutto per lanciare la 1 Million Petition, una raccolta di firme in tutta Europa a favore del prelievo anti-speculazione (www.robinhoodpetition.org): mentre questo numero di Valori va in stampa, sono state già superate le 650 mila adesioni. Una seconda iniziativa è stata, invece, diretta dalla Zerozerocinque (il versante italianodella campagna) al governo. Si trattava di una lettera indirizzata all’allora presidente del Consiglio Letta e all’ex-ministro Saccomanni. Nel frattempo, però, l’esecutivo è caduto e la campagna ha rilevato «l’amarezza» di trovarsi «ancora una volta senza degli interlocutori politici con cui confrontarci». La missiva è stata idealmente “rinviata” al nuovo governo, nella speranza che [A.BAR.] la prenda in seria considerazione. Gli aggiornamenti su www.valori.it

SEGRETO BANCARIO, A DANNO DEL FISCO FACEBOOK/WHATSAPP: UNA FESTA PER MOLTI 12 miliardi in azioni ordinarie, 3 in azioni preferenziali e 4 in liquidità, per un totale di 19 miliardi. Sono i numeri dell’acquisizione del colosso della messaggistica WhatsApp, perfezionata da Facebook a febbraio. Un’operazione che ha consentito al più grande social network del mondo di mettere le mani su un servizio che conta al momento qualcosa come mezzo miliardo di utenti con una crescita media pari a 1 milione di nuovi users al giorno. Zuckerberg e soci guardano avanti. Ma qualcuno, nel frattempo, ha già iniziato a festeggiare. È il caso, ad esempio, della società di consulenza Allen & Co. e della banca d’affari Morgan Stanley, i due soggetti che hanno condotto l’operazione per conto di Facebook. Secondo le stime del New York Times, i due intermediari dovrebbero incassare oltre 80 milioni di dollari di retribuzione per i servizi offerti. Ancor più significativo il guadagno dei “veterani” dell’azienda, ovvero gli impiegati della prima ora di WhatsApp che detengono azioni pari all’1% del capitale e che, a conti fatti, dovrebbero intascare qualcosa come 160 milioni di dollari. Ma il botto lo ha fatto la società di venture capital Sequoia che nell’aprile del 2011 aveva acquisito il 15% del colosso della messaggistica spendendo appena 8 milioni di dollari. Con l’acquisizione da parte di Facebook, il controvalore delle quote è salito a 3,5 miliardi. [M.CAV.] | 50 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

Credit Suisse avrebbe aiutato gli americani a evadere le tasse: questo il gravissimo capo d’imputazione contenuto in un apporto del Senato statunitense e che, secondo il Wall Street Journal, potrebbe costare alla banca svizzera un patteggiamento e 800 milioni di dollari di sanzione. A fine febbraio Brady Dougan, CEO del gruppo, interrogato dalla Senate Homeland and Governmental Affairs Investigations Subcommittee (la sottocommissione investigativa incaricata di appurare la verità), ha sostenuto che, a parte uno scontato mea culpa per mancata vigilanza, la responsabilità sarebbe di alcuni banchieri svizzeri privati. Ma il Senato contesta dichiarazioni false per la concessione di visti negli Stati Uniti, la sparizione di documenti, la creazione di un ufficio all’aeroporto di Zurigo dove 10mila clienti americani potessero avere il proprio conto e, soprattutto, l’esistenza di un sistema consolidato che coinvolgerebbe 1.800 persone e per il quale fra il 2002 e il 2008 i funzionari avrebbero effettuato 150 viaggi negli Stati Uniti, per svolgere “commissioni” negli ascensori o “recapitare” gli estratti conto nascosti tra le pagine di magazine sportivi, avvicinando gli americani più facoltosi alle feste o sui campi da golf per offrire i propri servizi. Dopo un caso analogo nel 2008 (Ubs pagò allora 780 milioni di dollari), ora Credit Suisse è nella bufera e altre tre banche sarebbero sotto indagine per simili sospetti. [C.F.]

IN GEORGIA VINCE ANCORA LA LOBBY DELLE ARMI Luoghi di culto, bar, edifici governativi senza check-point di sicurezza, addirittura (a certe condizioni) scuole elementari. Portare con sé un’arma in tutti questi luoghi, in Georgia, presto potrebbe essere lecito. Per giunta chi verrà scoperto con un’arma in aeroporto, o in un altro luogo in cui vige un divieto esplicito, non sarà più arrestato. È quanto prevede una legge che a febbraio ha passato l’esame della Camera dello Stato americano, che già si distingue per le sue leggi estremamente permissive che danno il via libera alle armi anche nei parchi o nei mezzi pubblici. La nuova norma, ora all’esame del Senato, estende ancora di più questi diritti per tutti coloro che hanno ottenuto il consenso a portare armi nascoste in pubblico: un permesso per cui bisogna far fronte a una verifica dei propri trascorsi personali, ma non a un addestramento specifico. Una svolta legislativa – inutile dirlo – fortemente voluta dalla potentissima lobby delle armi, che si è trovata contrapposta ai cittadini, che si sono dimostrati di tutt’altro parere. In un sondaggio condotto a gennaio su base locale, infatti, il 78% dei votanti si è espresso contro il diritto a portare armi nei campus scolastici e il 72% nelle chiese. [V.N.]


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

COSTRUIRE L’ECOLOGIA, MATTONCINO SU MATTONCINO Alzi la mano chi non ha mai giocato con i Lego. Ma quello che molti forse non sanno è che esistono anche dei mattoncini in Mater-Bi, completamente ecologici e biodegradabili, ma non meno versatili e colorati di quelli tradizionali. L’idea dell’EcoloGioco è di Franco Ferrario e Stefania Lucarelli ed è stata presentata ormai un decennio fa alla primissima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”. Da allora si è fatta conoscere piano piano, tramite una rete di botteghe del commercio equo e solidale, fiere e negozi sensibili al tema. E le confezioni di mattoncini sono state sfruttate anche per promuovere le campagne per l’infanzia portate avanti da Emergency come dai Padri Bianchi, senza trascurare Mani Tese e la Fondazione Preda che opera nelle Filippine. Da qualche anno Franco e Stefania si sono trasferiti in una vecchia cascina sull’Appennino, dove coltivano soprattutto piante officinali e grano tenero. Proprio dagli avanzi di produzione della farina è nato un altro progetto “fratello” dell’EcoloGioco, l’EcoloDò che, spiega Franco, «non ha nulla da invidiare al pongo industriale. L’abbiamo elaborato a partire dagli scarti anche per dare un messaggio preciso: il gioco è sicuramente un patrimonio importante, ma per costruirlo non è necessario sprecare farina che è più giusto mangiare». www.ecologioco.com

UN BLOG PER GUARDARE OLTRE LE SBARRE

IN SARDEGNA LE SPUGNE SI FANNO CON LA LUFFA Trasformare una sorta di grossa zucca in una spugna? È possibile: ce lo insegna Angelina Muzzu, che ne ha fatto una professione. Per la precisione, la pianta in questione si chiama luffa ed è tipica dei climi subtropicali. Angelina la coltiva nella sua azienda agricola biologica Luna di Coros, nel territorio della provincia di Sassari, che gode di un clima ottimale. Dopo il raccolto e la mondatura, basta lavarla ad acqua: a quel punto, «una volta rifilata e imbustata, la spugna si può vendere tal quale. Se ci sono imperfezioni, invece, si possono confezionare guanti esfolianti, spugnette per il viso o altro». Ma il laboratorio, che si trova all’interno di un grande frantoio, si occupa anche di saponi e cosmesi naturale. Tutto a base di olio d’oliva, senza paraffine e parabeni. Angelina si è imbarcata in quest’avventura dopo la laurea in Agraria, grazie a un finanziamento per start up della provincia di Sassari. E certamente non si aspettava che quest’idea le sarebbe valsa l’Oscar Green 2013 assegnato da Coldiretti. Ma la strada non è stata sempre in discesa: «All’inizio le difficoltà organizzative mi sembravano insormontabili», racconta. «Ad aiutarmi è stato il clima di solidarietà e mutualità che per fortuna qui in campagna esiste ancora». www.lunadicoros-commerce.it

«Fuori puoi camminare e correre in tutte le strade che scegli. In carcere non puoi scegliere né il luogo né il percorso». A scrivere queste parole è uno dei dodici detenuti della casa circondariale “Luigi Bodenza” di Enna che, da qualche mese, affidano a www.pensieriinliberta.it le proprie riflessioni e il resoconto dei propri ritmi di vita quotidiana. Ma non perdono l’occasione anche per descrivere le ricette che riescono a realizzare arrangiandosi con i pochi utensili che hanno a disposizione e che sono state raccolte in un libro intitolato “A tavola”. A dare il via al blog – il primo del genere in Sicilia, presentato ufficialmente lo scorso dicembre – è Spiragli, una giovane associazione che dallo scorso luglio gestisce il corso “Mi racconto” all’interno delle mura del carcere. «Ma le attività – racconta Noemi Riccobene – comprendono anche il percorso di educazione alimentare “Buoni Dentro”, il cineforum, le lezioni di lingua spagnola e il corso per conseguire la certificazione HACCP». www.pensieriinliberta.it

L’ABITARE SOCIALE A CONSUMI ZERO È A LODI Una casa che produce più energia di quella che consuma. È alla portata di tutti e per trovarla non bisogna andare troppo lontano: è il condominio Easyhome 4EQ, costruito a Lodi dalla Cooperativa Santa Francesca Cabrini Due, che in questi anni si è specializzata in alloggi per giovani, anziani e famiglie. La costruzione delle due torri da cinque piani, con venti appartamenti, è iniziata nel mese di luglio del 2012 e già lo scorso Natale le prime famiglie sono entrate nelle loro nuove case. L’intero stabile è indipendente dalle fonti fossili: non c’è nemmeno l’allacciamento al gas. Per ottimizzare i consumi, spiega Paolo Borsatti, è servito un mix di elementi: «L’impianto di climatizzazione è composto da pompe geotermiche e da pompe aria-aria: di volta in volta viene attivato il sistema più conveniente in quel momento. L’impianto fotovoltaico condominiale da 45 kWp è in grado di produrre pressoché l’intero consumo stimato. Stando ai nostri calcoli, quindi, con l’energia prodotta nell’arco di un anno dovremmo riuscire ad azzerare i consumi». Questo progetto innovativo si è aggiudicato il premio della Commissione europea come migliore idea sul clima nel concorso “Un mondo come piace a te”. E ha attirato l’attenzione di Legambiente, che ha stipulato una convenzione associativa con la cooperativa. www.caseclassea.eu

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fotoracconto 05/05

Anche Roma in piazza, il 19 ottobre 2013, alla manifestazione per la scuola e il diritto alla casa, e contro alcune opere pianificate a livello transnazionale, ma fortemente contrastate dai territori che dovranno ospitarle: la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione in Val di Susa e il MUOS (Mobile User Objective System), sistema di telecomunicazioni satellitare della marina militare statunitense per cui in Sicilia, a Niscemi, sono state installate tre grandi parabole e si teme per la salute pubblica. Le cronache parlano di una città blindata, e di tensione e scontri limitati tra manifestanti e forze dell’ordine. | 52 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

MELISSA FAVARON


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I destini della Banca d’Italia

L’importanza di batter moneta e ne è parlato per settimane, ha suscitato un confronto acceso tra gli addetti ai lavori e in larga parte dell’opinione pubblica, ha prodotto schermaglie tra i deputati e i senatori come non accadeva da anni: è il decreto “Imu-Banca d’Italia”, la normativa approvata a maggioranza dal parlamento che ridisciplina l’assetto societario della nostra Banca centrale e, al contempo

S

(miracolo degli odierni decreti legge a “largo spettro”), abolisce definitivamente la seconda rata di una delle tasse più odiate del recente passato. I fatti: il governo Letta, già nel novembre dello scorso anno, proprio per garantirsi la copertura finanziaria necessaria all’abolizione dell’Imu sulle prime case (e neanche tutte), ha disposto un aumento del capitale azionario della Banca d’Italia mediante conversione di parte delle riserve, escluse quelle valutarie e le riserve auree. Il valore di quel capitale azionario, rimasto invariato dall’atto della fondazione dell’istituto (300 milioni di lire), è stato aggiornato al livello massimo della forchetta suggerita da un comitato di esperti: 7,5 miliardi di euro. Ciò ha determinato un extra gettito di circa un miliardo (guarda caso proprio la cifra che serviva al governo per l’Imu) a carico degli azionisti della banca che, ancorché sia un’istituzione di diritto pubblico, sono in larga parte soci privati. Inoltre è stato ridotto dal 10% al 6%, rispetto però a un capitale rivalutato di 50mila volte, il tetto per l’attribuzione dei dividendi sugli utili e si è stabilito il limite del 3% alla quota partecipativa di ciascun socio, che, contrariamente a quanto inizialmente previsto, dovrà essere italiano. La Banca stessa infine potrà (dovrà) comprare,

per il controvalore aggiornato di 25mila euro ciascuna, ogni quota in eccesso rimasta eventualmente invenduta. Tali disposizioni, è giusto ricordarlo, sono da leggersi nel contesto più ampio della nuova normativa sulla tassazione delle rendite e le plusvalenze finanziarie (che prevede peraltro uno sconto dal 20% al 12.5% per le plusvalenze in conto capitale, senza cioè effettiva dismissione dei titoli) e delle disposizioni transitorie sulle aliquote fiscali a carico degli istituti di credito: addizionale Ires dell’8%, aumento degli acconti Ires e Irap al 130% e anticipo dell’imposta sul capital gain per il comparto del risparmio gestito. Questi i fatti. Ora, quali sono gli effetti di questo combinato disposto? Per le banche, visti i tempi di crisi, un ottimo affare, nonostante tutto. Gli inaspri-

dal cuore della City Luca Martino

menti fiscali comportano sì un onere di circa 3 miliardi, ma le partecipazioni in Banca d’Italia, di cui mantengono la titolarità nonostante la legge 262 del 2005 ne obbligasse la cessione allo Stato – partecipazioni peraltro pagate dalla collettività all’inizio del secolo scorso quando le banche erano società statali – gonfiano i loro attivi per 7,5 miliardi di euro al costo di 1 “solo” miliardo: magari non subito, visti i criteri prudenziali dell’Asset Quality Review stabiliti dalla Banca Centrale Europea per le prime proiezioni sugli impatti di Basilea 3, ma certo, in futuro, questo porterà benefici sostanziali sul fronte della verifica dell’adeguatezza patrimoniale e dei profili di liquidità. Inoltre, di qui ai prossimi tre anni, i costi di oggi, compresi gli oneri fiscali straordinari, verranno del tutto | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 | valori | 53 |


recuperati grazie proprio alla vendita delle quote in eccesso, di cui lo Stato si è già fatto garante nel caso non dovessero presentarsi acquirenti privati “qualificati”, e al mezzo miliardo l’anno di dividendi garantiti a fronte delle partecipazioni stesse. E per lo Stato, che effetti ci saranno sul bilancio del ministero del Tesoro? Il conto è semplice: a fronte dell’immediata operazione di cassa in entrata (del famoso miliardo necessario all’abolizione dell’Imu) e al consolidamento di un più corposo, ancorché limitato, gettito fiscale dato dall’imponibile sui dividendi futuri, si cristallizza in uscita, o meglio, in mancata entrata, proprio quell’ammontare di dividendi (questo sì significativo, soprattutto se paragonato alle cifre irrisorie erogate fino ad oggi) che ovviamente non verrà redistribuito al Tesoro né accantonato a riserva, e ci si espone al (forte) rischio entro i prossimi tre anni di dover spendere quasi il triplo di quanto incassato oggi per il riacquisto di quelle quote in eccesso con nessuna garanzia di poterle cedere di nuovo, a un prezzo almeno uguale, ad altri soci “istituzionali”. Ciò detto, le perplessità circa l’artificio contabile usato dal governo nell’ambito di una questione di interesse nazionale così delicata non si limitano a una valutazione di tipo esclusivamente economico. In primo luogo, l’aver applicato alla Banca d’Italia criteri di valutazione dei patrimoni e stime sui risultati di gestione come se si trattasse di un’azienda qualunque. Poi la tempistica dell’intera operazione, tanto rapida da far pensare a un’eccessiva disinvoltura: anche la Bce, che ha ricevuto la richiesta di parere “formale” solo pochi giorni prima dell’approvazione del decreto, non ha potuto non sottolineare il suo sconcerto. E ancora, il nodo irrisolto di un’importantissima istituzione di diritto e mandato pubblico che resta a partecipazione privata: sul punto si ricordi che | 54 | valori | ANNO 14 N. 116 | FEBBRAIO/MARZO 2014 |

La discussa operazione sulla Banca d’Italia lascia molti dubbi: accentuare la sua natura di pubblic company va davvero nell’interesse degli italiani? gli utili della nostra Banca centrale, non solo quelli derivanti dal batter moneta, ma anche quelli imputabili alla gestione dei sistemi di pagamento e di deposito e alla compravendita dei titoli di Stato, sono possibili solo dietro la garanzia dello Stato italiano, cioè di tutta la collettività, non certo per il contributo di qualche azionista. Non da ultimo, è doveroso chiedersi, in assenza di ulteriori disposizioni circa la governance aziendale e la gestione dei patrimoni separati a seguito del disposto riassetto amministrativo, che fine faranno tutte le riserve oggi escluse nella rivalutazione del capitale (si tratta di più di 100 miliardi), a partire proprio da quelle auree e valutarie che, nel tempo, si sono potute accumulare sempre grazie a operazioni svolte per conto della collettività e garantite dallo Stato. Insomma, siamo proprio sicuri che accentuare in questi termini la natura di public company della Banca d’Italia vada nell’interesse degli italiani? Se proprio si doveva far cassa, e sostenere le banche affinché supportino le esigenze di credito delle famiglie e delle imprese

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in questa fase congiunturale ancora difficile, c’erano altre strade: ad esempio, con i tassi ai minimi dal 2006, si poteva indire un’asta straordinaria di Buoni del Tesoro Pluriennali (di cui tutti in questo caso avrebbero capito l’esigenza, vista anche la modesta entità), e procedere alla nazionalizzazione completa dell’Istituto di Via Nazionale, in ragione della legislazione vigente e nel pieno rispetto del mandato costituzionale sancito dai principi fondamentali, liquidando i soci per una cifra “ragionevole” stimabile tra 1 e 2 miliardi di euro e portando nel bilancio del Tesoro quegli stessi benefici contabili, patrimoniali e di cassa, di cui invece oggi e nei prossimi anni beneficeranno solo gli istituti di credito privati. Il governo avrà sicuramente vagliato questa possibilità, ma evidentemente è mancato il coraggio, l’ambizione di dar corso a una riforma storica da portare questa sì come vanto di una nazione al semestre di presidenza italiano dell’Unione Europea. Vengono alla mente due protagonisti degli albori della storia americana, il cui confronto fa oggi riflettere su quale strada abbiano ormai intrapreso le cosiddette democrazie occidentali. Il primo è Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, che in un accorato discorso alla nazione esclamò: «Se il popolo affidasse mai il controllo della moneta a certe banche private (...) verrà inevitabilmente privato della sua prosperità e i nostri figli si risveglieranno un giorno senza casa nella terra che i nostri padri hanno conquistato al costo della vita!». Il secondo è Mayer Amschel Rothschild, fondatore della dinastia di banchieri più famosa e ricca della storia, che, più o meno in quegli stessi anni, pareva rispondergli: «Non mi preoccupo di chi fa e di cosa comportino le leggi di un Paese per il suo popolo, mi basta stampare la sua moneta!».  todebate@gmail.com


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