

ca|re
costi dell’assistenza e risorse economiche
6|2025
INCONTRI
Programma
Nazionale Esiti 2025: riflessioni su un sistema in evoluzione
A colloquio con Giovanni Baglio
Direttore scientifico Programma Nazionale Esiti, Agenas
Quali sono le principali evidenze emerse dal PNE 2025, che dimostrano l’efficacia del Programma nell’orientare le politiche sanitarie regionali e nazionali a 10 anni dal DM 70, e quali correzioni di rotta individua come necessarie per rafforzarne l’impatto sulla qualità dell’assistenza?
La pubblicazione del Programma Nazionale Esiti (PNE) cade in una congiuntura molto particolare. Sono trascorsi esattamente dieci anni dall’entrata in vigore del DM 70 ed è quasi inutile ricordare quanto tale norma abbia segnato un punto di svolta nell’organizzazione dell’assistenza ospedaliera del nostro paese. L’occasione è, dunque, propizia per tentare un bilancio attraverso una riflessione che è in parte ad extra, ossia volta a comprendere in che misura il DM 70 abbia positivamente condizionato le processualità sanitarie, indirizzando il cambiamento verso obiettivi condivisi e misurabili; ma, in parte, anche ad intra, cioè focalizzata sul ruolo che il PNE ha svolto in questi anni e sulla sua capacità di evolvere insieme al sistema, rappresentandolo al meglio e sostenendone il cambiamento.
Ora, rispetto alla riflessione ad extra, il quadro che emerge chiaramente dall’analisi dei dati è quello di un sistema sanitario che è sta-
CARE offre dal 1999 a medici, amministratori e operatori sanitari un’opportunità in più di riflessione sulle prospettive dell’assistenza al cittadino, nel tentativo di coniugare – entro severi limiti economici ed etici – autonomia decisionale di chi opera in sanità, responsabilità collettiva e dignità della persona.
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DALLA LETTERATURA
Approfondimenti su: tumori pediatrici, nuovi criteri per la medicina di precisione, sistemi di sorveglianza della salute, Cina e ricerca clinica
9 DOSSIER
Il valore dei farmaci nelle patologie rare: focus sul carcinoma delle vie biliari con Lorenza Rimassa e Carmine Pinto
13 CONFRONTI Prevenzione e governance: le riflessioni di Marco Geddes da Filicaia oltre la prospettiva della legge di bilancio
01 Incontri PROGRAMMA
NAZIONALE ESITI 2025
A colloquio con Giovanni Baglio
15 Dalla letteratura internazionale
19 Dossier
IL VALORE DEI FARMACI
NELLE PATOLOGIE RARE: FOCUS SUL CARCINOMA
DELLE VIE BILIARI
METASTATICO
A colloquio con Lorenza R imassa
e Carmine Pinto
13 Confronti
PREVENZIONE E GOVERNANCE: OLTRE
GLI ANNUNCI DELLA
LEGGE DI BILANCIO
A colloquio con Marco Geddes da Filicaia
FARMACI SALVAVITA E RESPONSABILITÀ DEL FARMACISTA
OSPEDALIERO
A colloquio con Daniela Iovine
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CARE Costi dell’assistenza e risorse economiche
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Giovanni Luca De Fiore
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Giovanni Baglio è un medico epidemiologo, con specializzazioni in Igiene e in Statistica sanitaria e un Master of science in Epidemiology conseguito alla London School of Hygiene & Tropical Medicine. Attualmente in Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) ricopre il ruolo di Direttore dell’UOC Ricerca, ed è Direttore scientifico del Programma Nazionale di Valutazione degli Esiti (PNE), strumento fondamentale per la valutazione delle performance sanitarie regionali. È stato nominato Full Adjunct Professor alla Sbarro Health Research Organization presso la Temple University di Philadelphia. Durante la sua carriera si è dedicato alla valutazione dei servizi sanitari, con particolare riferimento ai temi dell’appropriatezza clinico-organizzativa e degli esiti delle cure, svolgendo la sua attività di ricerca prevalentemente presso l’Istituto Superiore di Sanità e l’Agenzia di Sanità Pubblica della Regione Lazio. Una parte significativa della sua attività è dedicata agli aspetti di sanità legati all’immigrazione, un tema su cui lavora dal 1991, avendo coordinato programmi nazionali di linee guida e reti di assistenza socio-sanitaria. È autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche e divulgative. Svolge attività di docenza in numerosi corsi e master universitari su argomenti di epidemiologia e sanità pubblica. È tra i curatori del manuale di Epidemiologia pratica - Una guida per la clinica e la sanità pubblica, edito da Il Pensiero Scientifico Editore.
to capace di evolvere e di migliorare, laddove siano state fissate delle norme chiare, ma anche laddove i sistemi di valutazione abbiano consentito di monitorare i progressi fatti, indirizzando appunto il cambiamento verso standard di qualità. Consideriamo, ad esempio, il tema della frammentazione della casistica, che assume grande rilevanza in quanto per procedure caratterizzate da elevata complessità esiste una documentata relazione tra volumi di attività ed esiti di salute. Ebbene, in ambito oncologico registriamo il caso positivo del tumore maligno della mammella, su cui il DM 70 ha fissato delle soglie e su cui c’è stata anche una grande attenzione da parte delle Regioni, della comunità scientifica e dei professionisti; e gli stessi sistemi di monitoraggio hanno accompagnato il cambiamento. Il risultato è che la casistica trattata in strutture ad alto volume è cresciuta dal 68% nel 2015 all’85% nel 2024. Questo è un esempio di processo virtuoso che è stato innescato dalle soglie e sostenuto dai dispositivi di valutazione. Non così è avvenuto per altri tumori, ad esempio il carcinoma del retto, su cui i riflettori si sono accesi tardi e male. Considerate che il tumore del retto spesso viene accomunato al tumore del colon, ma le due patologie sono molto diverse rispetto alla complessità dell’approccio chirurgico; per tale ragione, il tumore maligno del retto meriterebbe uno sforzo maggiore dal punto di vista della concentrazione della casistica in strutture qualificate. A fronte di tutto ciò, abbiamo notato un peggioramento dei dati: la percentuale di interventi effettuati in centri ad alto volume è diminuita dal 30% nel 2015 al 22% nel 2024. E questo è un dato drammatico che fa capire come a volte l’assenza di riferimenti nazionali e di una spinta virtuosa esercitata dai dispositivi di monitoraggio possano determinare un arretramento del sistema.
Se posso aggiungere ancora una battuta rispetto alla riflessione ad intra, abbiamo notato come in que-
sti anni sia cresciuta la consapevolezza di quanto il PNE sia diventato uno strumento al servizio della governance, in grado di agire ai diversi livelli del sistema. A livello nazionale, il PNE sostiene la programmazione del Ministero della salute e alimenta il Nuovo Sistema di Garanzia (NSG), che è appunto il sistema attraverso il quale le Regioni vengono monitorate rispetto agli adempimenti previsti dai Lea; ma anche a livello regionale, il Programma fornisce un riferimento importante per la definizione degli obiettivi dei direttori generali delle Aziende sanitarie; infine, a livello locale, alimenta in molte realtà i cruscotti gestionali in un’ottica di audit&feedback L’utilizzo di una stessa metrica ai tre livelli del sistema garantisce una forte coerenza tra l’azione programmatoria e le attività implementative, poiché in questo modo lo Stato centrale può orientare le Regioni verso obiettivi concordati, le Regioni a loro volta orientano le Aziende sanitarie, attraverso la valutazione del management sanitario, e le Aziende orientano i professionisti della salute verso comportamenti di buona pratica.
Sulla base dei dati 2024 del PNE 2025, quali sono gli ambiti clinici in cui si è registrata la maggiore riduzione della variabilità delle performance tra Regioni e, al contrario, quali indicatori evidenziano un persistente e preoccupante divario tra le diverse aree del paese?
Abbiamo registrato risultati molto positivi in termini di appropriatezza organizzativa su tutto l’ambito della chirurgia cosiddetta “a ciclo breve”, cioè la chirurgia che ha una minore complessità. Utilizziamo da diversi anni la colecistectomia laparoscopica come procedura tracciante rispetto appunto alla dimensione organizzativa. Abbiamo osservato un recupero di efficienza organizzativa, con il trasferimento di quote di casistica da setting
“Ancora oggi si registra un eccesso di tagli cesarei nel Sud, anche se la situazione è migliorata rispetto a ciò che accadeva 10-15 anni fa.”
più complessi, tipicamente il ricovero ordinario, verso la day surgery e la one-day surgery, in una percentuale che è cresciuta dal 22% nel 2015 al 39% nel 2024. Si era registrata una battuta d’arresto durante il periodo del Covid, in cui questa proporzione di ricoveri in day surgery si era ridotta, ma il sistema ha poi reagito e oggi siamo appunto intorno al 40%. Sempre sul versante della chirurgia a ciclo breve, abbiamo anche notato come sia diminuita nel tempo la degenza post-operatoria. Il DM 70 fissa una proporzione di colecistectomia laparoscopica con degenza post-operatoria inferiore a tre giorni pari al 70% e devo dire che il sistema negli anni è di molto migliorato. Siamo passati da un valore mediano del 74% nel 2015 a quasi il 90% nel 2024. Dove continua invece a emergere una spiccata variabilità, e soprattutto un gradiente Nord-Sud, è sul versante, ancora una volta, della frammentazione della casistica. E qui l’esempio più significativo è rappresentato dall’intervento di resezione pancreatica, che è una chirurgia tra le più complesse in ambito oncologico. Ebbene, il dato medio è in leggero miglioramento: eravamo al 38% rispetto alla capacità di concentrare casistica nel 2015, e siamo passati al 54% nel 2024. Ma se osserviamo la variabilità territoriale, emerge un dato molto critico, per cui nelle Regioni del Sud il valore, che è appunto in media del 54%, scende al 28%, mentre al Nord è del 79%.

Un altro aspetto in cui notiamo una persistente variabilità geografica e un gradiente Nord-Sud riguarda la tempestività di accesso a trattamenti importanti, come la chirurgia per frattura di femore entro le 48 ore. C’è un miglioramento nei valori mediani a livello nazionale (siamo passati dal 52% di interventi eseguiti tempestivamente nel 2015 al raggiungimento della soglia fissata dal DM 70, che è del 60%, nel 2024), ma ci sono ancora molte aree del Sud in cui i valori mediani regionali sono al di sotto dello standard.
Un ulteriore ambito nel quale abbiamo rilevato un forte gradiente Nord-Sud è quello dell’appropriatezza clinica nell’assistenza perinatale. Ancora oggi si registra un eccesso di tagli cesarei nel Sud, anche se la situazione è migliorata rispetto a ciò che accadeva 10-15 anni fa. In molte Regioni meridionali abbiamo ancora valori mediani al di sopra del 25%, che è la soglia massima ammessa dal DM 70 solo per i centri nascita con più di 1.000 parti l’anno. Ricordo che la soglia in grado di garantire il massimo beneficio complessivo per la mamma e per il bambino indicata dall’Oms già negli anni Ottanta è del 15%. L’altro aspetto critico è rappresentato dal taglio cesareo ripetuto, valutato nel PNE attraverso l’indicatore VBAC (Vaginal Birth After Caesarean), che rappresenta il numero di parti vaginali dopo taglio cesareo. Ebbene la proporzione di VBAC cre-
Epidemiologia pratica
Una guida per la clinica e la sanità pubblica
A cura di Giovanni Baglio, Salvatore De Masi, Alfonso Mele
Seconda edizione
La pandemia di Covid-19 ha riportato l’epidemiologia al centro del dibattito scientifico, riaffermandone il ruolo cruciale per la sanità pubblica e la pratica clinica dopo anni di relativa marginalizzazione.
Questa seconda edizione aggiornata nasce proprio da tale rinnovata consapevolezza e analizza il contributo essenziale dell’epidemiologia nella prevenzione e nel contrasto delle malattie.
Il manuale integra i temi fondamentali della disciplina – profondamente segnati dall’esperienza pandemica (diagnostica molecolare, farmacovigilanza, strategie vaccinali) – con le più recenti innovazioni metodologiche: trial clinici pragmatici e adattativi, programmi di screening neonatale, approcci di ricerca qualitativa. Un volume dal taglio eminentemente pratico, arricchito da numerosi approfondimenti, che si rivela strumento indispensabile per clinici e professionisti della sanità pubblica.
“Il ragionamento epidemiologico dovrebbe entrare nel modo usuale di pensare e di lavorare di tutti i professionisti sanitari.”
Dalla presentazione di Paolo Villari
Il Pensiero Scientifico Editore www.pensiero.it
“Si apre quindi un futuro promettente per l’epidemiologia dei servizi, in cui avrà uno spazio fondamentale il PNE del territorio, di cui si parla da anni e che finora non si è potuto realizzare proprio per questa mancanza di interconnessione e integrazione tra i dati.”
sce con grande lentezza nel nostro paese: eravamo all’8% nel 2015 e siamo saliti al 12%, quindi di soli quattro punti percentuali, nel 2024. In alcune Regioni del Sud questo valore è peraltro molto più basso e quindi c’è ancora ampio margine di miglioramento dal punto di vista dell’appropriatezza clinica in ambito materno-infantile.
I risultati attuali del PNE sono in grado di offrire una prima valutazione, seppure indiretta, dell’impatto dei nuovi modelli di sanità territoriale previsti dal DM 77/2022 sull’efficacia e sull’equità dei servizi? E in che modo i dati attuali del PNE possono supportare l’integrazione tra i livelli di assistenza ospedaliera e territoriale?
Questa è una delle note dolenti. Il PNE, che è basato fondamentalmente sui dati delle schede di dimissione ospedaliera (SDO), è ancora oggi purtroppo ancorato a una visione prevalentemente ospedalocentrica, e l’impossibilità di accedere a dati interconnessi a livello nazionale, in cui le SDO siano integrate con altri flussi informativi, di fatto ci impedisce di valutare appieno la componente territoriale dell’assistenza. Abbiamo introdotto nel PNE indicatori che misurano indirettamente la qualità dell’assistenza territoriale: utilizziamo indicatori di ospedalizzazione evitabile che, come è noto, riguardano prestazioni ospedaliere che sarebbero state evitate se ci fosse stata una presa in carico efficace a livello delle cure primarie e distrettuali, ma è appunto una modalità di valutazione indiretta. È come guardare il territorio dalla finestra dell’ospedale. Si apre però uno scenario positivo con la legge n. 56 del 29 aprile 2024 (art. 44), che dà il via all’interconnessione dei dati sanitari e dunque alla possibilità di integrare, ad esempio, le SDO con i dati dei registri e di altri flussi relativi all’assistenza specialistica ambulatoriale, all’assistenza distrettuale e alle cure primarie. E questo permetterà di ricostruire i percorsi diagnostico-terapeutici e di misurare indicatori importanti come l’aderenza ai trattamenti, la qualità complessiva della presa in carico e naturalmente anche i nuovi modelli messi in campo dal DM 77 sulla sanità territoriale. Si apre quindi un futuro promettente per l’epidemiologia dei servizi, in cui avrà uno spazio fondamentale il PNE del territorio, di cui si parla da anni e che finora non si è potuto realizzare proprio per questa mancanza di interconnessione e integrazione tra i dati. D’altronde l’assistenza ospedaliera, per quanto importante, riguarda solo una parte della presa in carico dei pazienti, dal momento che le patologie croniche, come sappiamo in aumento nel nostro paese, sono gestite prevalente-
mente all’interno di setting assistenziali territoriali. C’è poi l’ambito della prevenzione, che rimane attualmente al di fuori della valutazione PNE, e che invece è una parte essenziale, perché ormai abbiamo compreso che la sostenibilità dei sistemi sanitari dipenderà in larga misura da quanto sapremo investire nelle attività preventive. E dunque i nostri strumenti di monitoraggio dovranno potersi estendere anche a questi aspetti così cruciali per la tutela della salute della popolazione.
La tavola rotonda affronta il tema della transizione dal sistema di codifica ICD-9-CM all’ICD-10. In che modo il passaggio al nuovo sistema di codifica influenzerà l’accuratezza e la comparabilità futura degli indicatori del PNE, e quali saranno le principali opportunità e sfide per Agenas nell’utilizzo di questi nuovi dati per il monitoraggio della qualità e degli esiti?
Facciamo una premessa. L’Italia è tra i pochissimi paesi al mondo che ancora utilizza il sistema di codifica ICD-9-CM; a tutt’oggi da noi le SDO vengono compilate con tali codici, ma si tratta di un sistema vetusto. La buona notizia è che il Ministero della salute ha avviato una sperimentazione che porterà nel prossimo futuro alla transizione verso l’ICD-10/CIPI, con disponibilità di nuovi codici che permetteranno, ad esempio, di tracciare con maggiore facilità i dispositivi medici e, più in generale, le innovazioni tecnologiche in sanità. Si apre dunque uno scenario molto interessante, in cui potremo implementare nuovi indicatori.
Tra l’altro, consideriamo che l’adozione di un nuovo sistema di classificazione delle diagnosi e delle procedure consentirà anche di svecchiare il sistema dei DRG, introdotto in Italia nel 1995 e rimasto sostanzialmente invariato, fatte salve poche modifiche, fino a oggi. È un sistema quindi estremamente inattuale. Migrare verso sistemi più adeguati di classificazione del case-mix darà la possibilità di ritarare le tariffe su gruppi maggiormente omogenei sul versante dell’assorbimento delle risorse. Si apre una pagina interessante e ricca di grandi sfide anche per il PNE, che dovrà naturalmente implementare nuove misure, riscrivere i protocolli dei vecchi indicatori con nuove specifiche di calcolo e poi impegnarsi molto sul versante della formazione, per cercare di migliorare la qualità della codifica, che sappiamo essere così cruciale per l’affidabilità degli indicatori. Sfide che siamo pronti a raccogliere volentieri.
Intervista a cura di Mara Losi
Tumori pediatrici in Italia: un quadro stabile, ma non immobile
Santelli E, Gatta G, Savoia F et al
Incidence rates and trends of paediatric cancer in Italy, 2008-2017
Cancer Epidemiol 2025; 99: 102947
I tumori pediatrici sono rari, ma quando arrivano spezzano il ritmo delle vite più fragili e richiedono alla sanità pubblica uno sforzo di vigilanza senza distrazioni. Per questo, ogni nuovo dato su bambini e adolescenti invita a rimettere a fuoco il quadro: non per alimentare allarmi, ma per capire quali domande restano aperte.
Lo studio pubblicato su Cancer Epidemiology, condotto dal Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio – ASL Roma 1 utilizzando i dati dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM), ricostruisce un decennio di diagnosi (2008-2017) e, guardando indietro fino al 1998, cerca di individuare i trend e i cambiamenti significativi. I numeri sono chiari, dettagliati e robusti: 17.322 casi registrati in 31 aree italiane, con copertura pari al 77% della popolazione 0-19 anni. È un patrimonio informativo che pochi paesi europei possono vantare, e che permette di leggere con lucidità un fenomeno che, proprio perché raro, rischierebbe altrimenti di rimanere sfocato.
A questo patrimonio contribuisce anche il Registro tumori infantili del Lazio, un’unità centralizzata che raccoglie i dati sui tumori nella popolazione da 0 a 19 anni della Regione. I dati, armonizzati secondo gli standard dell’European Network of Cancer Registries (ENCR), sono parte integrante del Registro tumori del Lazio, istituito nel 2015 presso il Dep Lazio e fondamentale per la sorveglianza oncologica pediatrica regionale.
INCIDENZA E TENDENZE
L’incidenza osservata nel periodo più recente è pari a 166,8 casi per milione nei bambini e 294,3 per milione negli adolescenti, valori in linea con gli aggiornamenti precedenti e indicativi di sostanziale stabilità. Tuttavia collocano comunque l’Italia tra i paesi europei con i livelli più elevati, soprattutto per alcune sedi specifiche: tumori ossei nell’infanzia e, nell’adolescenza, tumori della tiroide e melanoma. Per il melanoma la letteratura evidenzia come l’aumento dell’esposizione solare sia un fattore chiave, amplificato dai cambiamenti climatici: temperature più alte e stagioni più lunghe comportano più tempo trascorso all’aperto anche in Regioni storicamente più fresche, aumentando così il rischio nei giovani. Per i tumori tiroidei, una componente rilevante potrebbe essere attribuibile alla sovradiagnosi, favorita dalla diffusione di tecniche di imaging sempre più sensibili e dall’aumento degli accertamenti effettuati per ragioni non oncologiche. Nel complesso, il trend dal 1998 al 2017 non mostra un incremento globale dei tumori pediatrici e adolescenziali, confermando la tendenza generale stabile; le differenze tra le sedi tumorali riflettono invece tendenze specifiche già evidenziate, con aumenti nei tumori tiroidei e del melanoma negli adolescenti e nei tumori ossei nei bambini più piccoli, a conferma della necessità di un monitoraggio costante e di cautela nell’interpretazione dei dati.

Le differenze territoriali rendono il quadro ancora più articolato. Il Centro Italia mostra tassi più elevati rispetto al Nord e al Sud, una peculiarità persistente da anni. Potrebbe riflettere una maggiore capacità diagnostica, fattori ambientali specifici o caratteristiche socio-demografiche differenti. Probabilmente, come spesso accade in epidemiologia, la verità sta in una combinazione di fattori – come esposizioni, servizi, struttura urbana e organizzazione sanitaria – che produce gradienti complessi, decifrabili solo con analisi mirate.
Il valore di questo lavoro non sta solo nei numeri, ma nel metodo e nella rete che lo rende possibile: il dialogo tra registri tumori, epidemiologi, pediatri, oncologi, statistici e servizi territoriali. Sta nella capacità rara di accumulare un sistema di informazioni stabile, continuo, sensibile anche ai cambiamenti più sottili. Nella rarità, non è la quantità a parlare: sono le variazioni inattese, le differenze territoriali apparentemente minime che contano davvero.
Lo studio del Dep Lazio offre un messaggio duplice. Da un lato rassicurante: non stiamo assistendo a un incremento generalizzato dei tumori pediatrici. Dall’altro impegnativo: l’Italia continua a mostrare un’incidenza superiore a quella di molti paesi europei, e alcune sedi tumorali sono in aumento. È un equilibrio delicato, fatto di stabilità e di eccezioni, di continuità e di segnali che emergono in silenzio.
LE IMPLICAZIONI PER LA SANITÀ PUBBLICA
E LA SORVEGLIANZA ONCOLOGICA
In questo equilibrio si gioca la responsabilità della sanità pubblica. Sorvegliare non significa solo contare i casi, ma leggere le tendenze, capire dove l’incidenza cresce, dove rimane stabile, dove differisce tra le Regioni. Significa interrogare l’ambiente, i contesti di vita, l’organizzazione dei servizi. Ma significa anche sostenere i registri tumori, perché senza registrazione accurata ogni interpretazione diventa fragile. Il quadro complessivo, oggi, non è un’allerta. È una richiesta di attenzione che attraversa le Regioni, si muove tra reparti pediatrici e centri di oncologia, sfida la ricerca clinica e ambientale, e chiede risorse organizzative e continuità di monitoraggio. I tumori pediatrici sono rari, sì, ma proprio per questo ogni caso, ogni variazione, ogni differenza va osservata con cura. È così che si protegge davvero l’infanzia: curando ciò che vediamo e continuando a capire ciò che ancora non vediamo. n
Tiziano Costantini
FDA: nasce il ‘plausible
mechanism pathway”. Un nuovo criterio regolatorio per le terapie geniche personalizzate?
Prasad V, Makary MA
FDA’s new plausible mechanism pathway
N Engl J Med 2025, Nov 12. doi: 10.1056/NEJMsb2512695
Un caso clinico specifico, quello del neonato ‘Baby KJ’, potrebbe portare negli Stati Uniti a un possibile cambio di paradigma per milioni di pazienti con malattie genetiche rare. Potremmo sintetizzare così il succo di un articolo molto atteso pubblicato sul New England Journal of Medicine dai due più autorevoli funzionari dell’attuale FDA, Vinay Prasad e Martin Makary. Il loro intervento delinea una proposta regolatoria destinata a cambiare il modo in cui le terapie geniche personalizzate potranno essere sviluppate e approvate. Il nuovo modello, definito ‘plausible mechanism pathway’, nasce dall’esperienza concreta di un trattamento one-patient only e punta ad aprire il mercato a terapie altamente individualizzate, costruite ex vivo o in vivo sul difetto molecolare del singolo paziente.
Il punto di partenza è l’esperienza, già divenuta emblematica, del piccolo KJ, un neonato con deficit di carbamil-fosfato sintetasi 1 (CPS1),
una grave malattia del ciclo dell’urea caratterizzata da iperammoniemia precoce e neurotossicità progressiva.
Grazie a una investigational new drug application (IND) (che regola negli Stati Uniti l’uso di un farmaco finché non ha l’autorizzazione alla commercializzazione) in expanded access (‘accesso allargato’, che corrisponde al nostro uso compassionevole) autorizzata in appena una settimana, il team clinico ha potuto produrre e somministrare tre infusioni di nanoparticelle lipidiche contenenti un mRNA per un’adenina base editor (K-ABE) e un RNA guida (gRNA) specifico per la mutazione genetica del bambino, basato appunto sul sistema di editing genomico per correggere le mutazioni.
I primi risultati clinici, riportano gli autori, mostrano una maggiore capacità di metabolizzare proteine, una riduzione del fabbisogno dei farmaci ‘nitrogen scavenger’ (spazzini dell’azoto) e un miglioramento complessivo del quadro clinico.
I CINQUE CRITERI DEL ‘PLAUSIBLE MECHANISM PATHWAY’
Prasad e Makary identificano, da questo caso, cinque nuovi criteri che la FDA intende applicare, criteri molto più aderenti alla biologia che alle tradizionali fasi di sviluppo clinico:
1. Identificazione di un’anomalia molecolare precisa
Il pathway sarà riservato a condizioni in cui esiste una relazione di-
Un nuovo strumento per la sorveglianza della salute pubblica
Oza A
NEJM and public health group are launching rival to CDC’s MMWR publication https://www.statnews.com/2025/10/21/cdc-mmwralternative-new-report-announced-by-nejm-cidrap/
Un’importante novità nel panorama della sanità pubblica globale: mentre i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) sottraggono risorse allo storico punto di riferimento, il bollettino Morbidity and Mortality Weekly Report (MMWR) – pubblicato dal 1952, il gruppo editoriale del New England Journal of Medicine (NEJM) e il Center for Infectious Disease Research and Policy (CIDRAP) hanno annunciato il lancio di una nuova iniziativa editoriale: Public health alerts, una sorta di sezione digitale ad accesso libero pensata per la diffusione rapida di dati, segnali, focolai e questioni di sanità pubblica. È un passo molto significativo perché una società scientifica (la Massachusetts Medical Society) si mette alla prova per sostituirsi – almeno in certa misura – alle istituzioni. Inoltre, il nuovo media NEJM/CIDRAP punta a una struttura più agile: non un numero settimanale fisso, ma pubblicazioni “as-needed”, aperte, digitali, pensate per stimolare la submission da parte dei clinici e dei centri che rilevano focolai o segnali di allerta. Questo cambiamento riflette una trasformazione più ampia:
meno tempo tra rilevazione e pubblicazione, maggiore trasparenza, e un modello editoriale che apparentemente supera vincoli istituzionali o burocratici che possono rallentare la diffusione. Un passaggio importante che può generare nuove opportunità – e anche nuove sfide – in termini di tempestività, reputazione e modalità di engagement.
Un sistema più rapido di segnalazione significa anche maggiore esposizione – occorre avere dati robusti, ben verificati, comunicati con rigore metodologico. I promotori dovranno valutare come integrare tempestività e qualità, anche in ottica regolatoria e di compliance. Lo strumento sarà open access, il che potrebbe favorire la disseminazione delle evidenze ma anche un forte impatto. Dunque, i contenuti dovranno essere concepiti per una fruizione più ampia, anche oltre i soli specialisti di riferimento.
NEJM/CIDRAP invitano i clinici e i centri a proporre submission di “outbreaks or data you think should be evaluated”. Anche le aziende farmaceutiche che collaborano con centri clinici o istituzioni di ricerca possono considerare questa opportunità come parte del loro ecosistema di evidenza real-world o sorveglianza.
In un momento storico in cui la velocità dell’informazione sanitaria, la sorveglianza pubblica e la fiducia nei canali istituzionali sono messi alla prova, l’alleanza tra NEJM e CIDRAP per creare un nuovo strumento – i Public health alerts – è un segnale forte. Per il mondo della clinica, delle politiche sanitarie e della ricerca rappresenta un’opportunità concreta di ripensare a come vengono generate, comunicate e diffuse le evidenze in sanità pubblica. n
Luca De Fiore
retta e consolidata tra mutazione e fenotipo, evitando ambiti diagnostici ampi o eterogenei.
2. Terapie dirette alla causa prossimale della malattia
Non saranno eleggibili trattamenti ‘a valle’ o sintomatici (come i corticosteroidi), ma solo interventi che correggono o colpiscono l’alterazione primaria.
3. Conoscenza solida della storia naturale della malattia
Condizione necessaria per valutare con rigore l’effetto clinico della terapia, anche senza gruppi di controllo randomizzati.
4. Conferma dell’effetto sul target
Ideale tramite biopsia o modelli affidabili; la FDA ammette la difficoltà di confermare l’editing in tessuti inaccessibili (come retina o sistema nervoso).
5. Evidenza clinica di beneficio
In malattie progressive, miglioramenti consistenti; in malattie episodiche, periodi prolungati di remissione. Il paziente può fungere da proprio controllo.
La novità più radicale è che in questo modo dati ricavati da trattamenti su singoli pazienti potranno contribuire direttamente a una futura domanda di autorizzazione all’immissione in commercio. Una volta dimostrata la fattibilità su più pazienti e mutazioni differenti, i produttori potranno ottenere l’approvazione su una piattaforma terapeutica, adattabile a difetti genetici diversi con modifiche puntuali del materiale di editing. Il percorso potrà utilizzare sia la via accelerata sia quella regolare, in funzione della robustezza delle evidenze e della gravità della malattia.
Il modello prevede un forte impegno nei confronti della real-world evidence, oggi di gran moda, in particolare per confermare l’assenza di off-target rilevanti, per valutare gli effetti sullo sviluppo del bambino trattato precocemente e per l’identificazione di eventuali segnali inattesi di tossicità.
L’FDA ammette che la fattibilità dipenderà dal distretto trattato: ad esempio, valutare off-target nel sistema nervoso è complesso; nel comparto ematopoietico molto più semplice.
DALLE MALATTIE GENETICHE ULTRA-RARE
ALLA PRATICA CLINICA QUOTIDIANA
Pur partendo dalle malattie genetiche ultra-rare, la FDA apre così esplicitamente alla possibilità di utilizzare questo percorso anche per patologie comuni, purché caratterizzate da cluster mutazionali funzionalmente equivalenti o da assenza di valide alternative terapeutiche. Il concetto chiave sembra la plausibilità biologica del meccanismo d’azione, unita ovviamente alla coerenza con gli outcome clinici osservati.
Questa proposta, se accolta, sembra destinata a ridefinire diversi aspetti della pratica clinica e della medicina traslazionale, favorendo un accesso più rapido a terapie individualizzate, anche in assenza di studi randomizzati tradizionali. Il peso crescente attribuito alla genetica clinica, al sequenziamento avanzato e alla caratterizzazione molecolare profonda come passaggi standard dell’iter diagnostico, probabilmente comporterà una maggiore integrazione tra centri clinici, laboratori di genomica e produttori di terapie personalizzate, aprendo una prospettiva innovativa per i circa 300 milioni di pazienti nel mondo affetti da malattie genetiche rare, spesso senza alternative terapeutiche.
OPPORTUNITÀ E CRITICITÀ
DEL NUOVO MODELLO REGOLATORIO
Il nuovo ‘plausible mechanism pathway’ proposto da Prasad e Makary apre prospettive notevoli per l’accesso a terapie geniche personalizzate, ma porta con sé un insieme di criticità che meritano attenzione. Il primo nodo riguarda il grado di certezza scientifica: senza studi randomizzati tradizionali diventa più difficile distinguere l’effetto reale della terapia dall’evoluzione naturale della malattia, soprattutto in condizioni rare e fluttuanti. Questo si lega al rischio più generale di sovrastimare benefici iniziali osservati su uno o pochissimi pazienti, generando dei veri e propri ‘falsi positivi clinici’ che, ampliati a piattaforme di trattamento destinate a molteplici mutazioni, possono rivelarsi meno solidi del previsto.
C’è poi la questione della sicurezza a lungo termine. Le terapie di editing sono interventi irreversibili e gli effetti collaterali off-target possono emergere anni dopo, magari in tessuti difficilmente monitorabili come il sistema nervoso o in fasi cruciali dello sviluppo. Un altro aspetto controverso riguarda il rischio di accentuare oltremodo le diseguaglianze di accesso: terapie così personalizzate tendono a concentrarsi in pochi centri altamente specializzati, lasciando i sistemi sanitari meno attrezzati – Italia compresa – in una posizione vulnerabile, sia in termini organizzativi sia economici. E il costo, altissimo, di questi nuovi farmaci non sarebbe più ricavabile in funzione del volume delle loro vendite, evidentemente.
L’approccio potrebbe favorire inoltre la proliferazione incontrollata di micro-terapie, ognuna ritagliata attorno a una singola mutazione. È in effetti una rivoluzione concettuale, ma potrebbe congestionare il sistema regolatorio e creare un mercato frammentato e difficile da valutare in maniera omogenea. In parallelo, il percorso si regge su un forte affidamento alla fase post-marketing, che rischia di essere sovraccaricata: raccogliere evidenze robuste nel mondo reale è difficile, soprattutto per malattie ultra-rare con pochissimi pazienti disponibili.
LA NOZIONE DI ‘PLAUSIBILITÀ’
Non va sottovalutata neppure l’ambiguità della nozione di ‘plausibilità biologica’. Stabilire quando un meccanismo d’azione è sufficientemente ‘plausibile’ per sostenere una richiesta di autorizzazione non è semplice e rischia di diventare una categoria elastica, lasciata alla sensibilità e all’interpretazione di chi valuta. Infine, l’intero impianto può essere spinto da dinamiche emotive molto forti, soprattutto nei casi pediatrici: la pressione sociale e familiare (e delle associazioni di pazienti) per tentare qualunque opzione disponibile può creare un clima difficile da governare, in cui la speranza rischia di precedere la verifica rigorosa.
In sostanza, il nuovo percorso proposto dalla FDA rappresenta un passo audace verso una medicina di precisione – per così dire estrema, ma espone a un sistema più fragile, più diseguale e potenzialmente più permeabile a errori di valutazione. Una sfida che richiederà, più che mai, rigore scientifico, trasparenza e un forte presidio etico. Nel frattempo, ci sembra che il tema si presti a un ampio confronto. n
Luciano
De Fiore
La rivoluzione cinese della ricerca clinica: dall’oncologia alle nuove frontiere del farmaco
Citeline
The Annual Clinical Trials Roundup, 2025 Edition: Innovation, regulation, and preservation https://www.citeline.com/en/resources/the-annualclinical-trials-roundup-2025
La mappa della ricerca farmaceutica mondiale sta vivendo una trasformazione profonda, e il nuovo baricentro dell’innovazione sembra spostarsi sempre più a est, e in particolare verso la Cina. Il Clinical Trials Roundup 2025 di Citeline fotografa un dato emblematico: Jiangsu Hengrui Pharmaceuticals ha superato AstraZeneca, diventando il primo sponsor di studi clinici al mondo. Con oltre 400 trial attivi, di cui più di 20 internazionali, e una crescita del 19% del portafoglio R&D nel 2024, Hengrui incarna l’ascesa dell’industria e della ricerca biofarmaceutica cinese, passata in pochi anni da semplice fornitore di principi attivi per le Big Pharma occidentali a competitor diretto sul terreno dell’innovazione. Secondo osservatori accreditati, alla base del cambiamento e dell’accelerazione c’è la rivoluzione regolatoria cinese dell’ultimo decennio che ha dato un impulso decisivo alla ricerca, favorendo tempi più rapidi e costi competitivi rispetto agli Stati Uniti e al resto dell’Occidente.
Sul fronte industriale, l’azienda di Lianyungang ha stretto accordi miliardari con i maggiori gruppi occidentali: nel marzo 2025 con Merck & Co. (1,7 miliardi di dollari per un farmaco cardiovascolare innovativo), in luglio con GSK (fino a 12 miliardi di dollari per dodici programmi di sviluppo, incluso un inibitore PDE3/4 per la BPCO), e a settembre con Glenmark (1 miliardo di dollari per un anticorpo coniugato oncologico in potenziale competizione con trastuzumab deruxtecan di AstraZeneca e Daiichi Sankyo).
Il rapporto Citeline mostra che l’oncologia resta la regina indiscussa della sperimentazione clinica, rappresentando oltre il 37% dei nuovi trial avviati nel 2024. A trainare il settore sono le nuove classi di farmaci
– terapie CAR-T, anticorpi coniugati, anticorpi bispecifici e radiofarmaci – che stanno ridefinendo le frontiere terapeutiche.
Subito dietro l’oncologia si colloca il sistema nervoso centrale, con un aumento del 14,7% dei nuovi studi nel 2024. La crescita è alimentata dal successo di nuovi farmaci anti-Alzheimer, che hanno in qualche misura riacceso la fiducia nel settore e moltiplicato i trial su dolore, depressione e decadimento cognitivo.
Altro comparto in forte espansione è quello delle malattie autoimmuni, che registra un incremento del 14,6%, sostenuto dallo sviluppo delle terapie cellulari e geniche. Dopo i risultati sorprendenti di uno studio su piccoli numeri nel lupus, in cui cinque pazienti hanno raggiunto la remissione completa e libera da farmaci grazie a una terapia CAR-T, l’interesse si è esteso anche ad altre patologie come la sclerodermia. Le malattie cardiovascolari restano una priorità, con un aumento del 15,6% dei trial (pur in rallentamento rispetto al 2023), trainato dall’invecchiamento della popolazione e dall’uso crescente di tecnologie avanzate come le terapie a RNA. Anche la ricerca sulle malattie rare continua a crescere, favorita da un quadro regolatorio più flessibile: la FDA consente ora l’uso esteso di real-world data e dataset più piccoli per le approvazioni. Particolarmente vivace il settore dedicato alla sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che ha raddoppiato i nuovi studi rispetto al 2023.
Infine, va rilevato un altro motore del cambiamento nell’intelligenza artificiale e nelle tecnologie digitali, sempre più integrate nel ciclo di sviluppo dei farmaci e che è presumibile favoriranno partnership non solo commerciali, ma anche scientifiche e di condivisione dei dati. Nel complesso, la Cina e le sue aziende biotech sembrano in grado di ridisegnare la geografia globale della ricerca clinica, imponendosi come hub di innovazione capace di competere alla pari con un Occidente per molti versi sulla difensiva, alle prese anche con dissidi interni, causati dall’imposizione dei dazi da parte dell’amministrazione americana attuale.
L’oncologia resta il cuore pulsante, ma il futuro – digitale, cellulare e molecolare – parla ormai anche cinese, il che è sempre più apprezzabile anche nei congressi internazionali, nei quali le comunicazioni di clinici e ricercatori cinesi sono sempre più numerose e qualificate. n
Luciano De Fiore

BIBLIOGRAFIA
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Il valore dei farmaci nelle patologie rare: focus sul carcinoma delle vie biliari metastatico
Il carcinoma delle vie biliari (BTC, biliary tract cancer), che comprende il carcinoma della colecisti (GBC) e il colangiocarcinoma (CCA) intra ed extraepatico, rappresenta una delle sfide oncologiche più complesse. È una malattia rara, con una incidenza globale che va da 1-3 fino a 10 casi per 100.000 persone per anno, anche se in alcune aree endemiche (come il Sud-est asiatico) i tassi sono anche più alti per fattori ambientali e infettivi1, 2 Poiché i sintomi iniziali sono spesso vaghi o aspecifici, la maggior parte dei BTC viene diagnosticata in uno stadio avanzato, quando la chirurgia curativa non è più un’opzione. La prognosi è quindi infausta, con una sopravvivenza mediana globale di circa 12 mesi per le forme avanzate o metastatiche. Il tasso di sopravvivenza a 5 anni per il BTC metastatico rimane inferiore al 10% e scende fino al 3-2% nelle forme più avanzate3,4 Sebbene la chemioterapia e, più recentemente, le combinazioni basate sull’immunoterapia siano utilizzate in prima linea, la progressione della malattia è comune e, in assenza di una adeguata profilazione molecolare, le opzioni terapeutiche successive alla prima linea sono in gran parte limitate alla chemioterapia. La profilazione molecolare gioca quindi un ruolo chiave nella gestione di questi pazienti perché consente di individuare alcuni sottogruppi con determinate alterazioni molecolari eleggibili a trattamenti a bersaglio molecolare specifici in seconda linea.
IL RUOLO DI HER2 COME TARGET TERAPEUTICO
Un esempio significativo è rappresentato dai pazienti che presentano un’iperespressione del recettore HER2, alterazione associata a una prognosi peggiore rispetto alla malattia HER2 negativa. Questa alterazione molecolare è divenuta un target terapeutico promettente, aprendo nuove prospettive terapeutiche in questo sottogruppo di pazienti finora trattati in maniera subottimale con il regime FOLFOX, unico regime approvato e rimborsato in Italia in questo setting di pazienti HER2+ dopo fallimento della prima linea sistemica, il cui beneficio in termini di sopravvivenza non supera i 6,2 mesi5,6.
LO STUDIO HERIZON-BTC-01
Lo studio HERIZON-BTC-01 rappresenta il più ampio studio clinico condotto ad oggi su pazienti con
BTC HER2+. Si tratta di uno studio di fase II a braccio singolo che ha coinvolto 87 pazienti adulti con BTC localmente avanzato non resecabile o metastatico HER2+ precedentemente trattati con una terapia sistemica. Questo studio ha dimostrato l’efficacia di zanidatamab, un innovativo anticorpo bispecifico umanizzato, su questo sottogruppo di pazienti, che hanno ottenuto una sopravvivenza globale mediana di 18,1 mesi (IC 95%: da 12,2 a 22,9 mesi) e una sopravvivenza libera da progressione mediana di 7,2 mesi (IC 95%: da 5,3 a 9,4 mesi) nei pazienti IHC3+; questi valori si differenziano in modo significativo rispetto a una OS mediana di soli 6,2 mesi e una PFS mediana di soli 4,0 mesi ottenute con l’attuale standard di cura di seconda linea rappresentato da FOLFOX. Si tratta di risultati significativi che costituiscono un motivo di speranza per un numero di pazienti indubbiamente limitato ma che al momento non ha altre opzioni terapeutiche altrettanto efficaci.
SVILUPPI REGOLATORI E PROSPETTIVE FUTURE
La FDA ha concesso l’approvazione accelerata a zanidatamab, primo farmaco specificatamente sviluppato per i BTC HER2+, a novembre 2024 e a giugno 2025 la Commissione Europea ha concesso l’autorizzazione condizionata all’immissione in commercio in tutta Europa, rispondendo al bisogno clinico ancora insoddisfatto dei pazienti che affrontano questa forma rara e aggressiva di tumore e offrendo ai medici un ulteriore trattamento che amplia la possibilità di intervento in un ambito a oggi caratterizzato da limitate opzioni terapeutiche. A luglio 2024 è stato inoltre avviato lo studio HERIZON-BTC-302 di fase III randomizzato e in aperto con reclutamento attivo che confronta zanidatamab in combinazione con la terapia standard rispetto alla sola terapia standard, in prima linea. Da questo studio si attendono risultati che potrebbero consolidare ulteriormente il ruolo di zanidatamab nel trattamento del BTC HER2+. Intanto le linee guida ESMO, presentate nel congresso di ottobre 2024, hanno inserito zanidatamab come trattamento raccomandato in pazienti con BTC HER2+ pretrattato. Le interviste a Lorenza Rimassa e a Carmine Pinto che proponiamo ai nostri lettori mettono a fuoco, da prospettive complementari, gli aspetti più significativi della gestione clinica e organizzativa dei pazienti affetti da carcinoma delle vie biliari metastatico. n
Gestione dei carcinomi delle vie biliari metastatici: progressi nella medicina di precisione e nuove prospettive terapeutiche
A colloquio con Lorenza Rimassa
Professore associato di Oncologia Medica, Humanitas University e Capo
Sezione Autonoma Oncologia Epatobiliopancreatica dell’Irccs Istituto Clinico
Humanitas di Rozzano, Milano
Quali sono l’incidenza e il tasso di mortalità dei carcinomi delle vie biliari?
I carcinomi delle vie biliari sono tumori rari che rappresentano circa il 3% dei tumori del tratto gastroenterico. Secondo i dati pubblicati in I numeri del cancro in Italia, nel 2024 sono state stimate 4.971 nuove diagnosi (2.451 uomini e 2.520 donne), con un’incidenza in aumento rispetto agli anni precedenti, soprattutto tra i giovani. In passato, infatti, questi tumori interessavano prevalentemente persone nel sesto o settimo decennio di vita. Purtroppo, la mortalità rimane estremamente elevata. Si tratta di una patologia rara ma molto aggressiva, con una prognosi tuttora infausta, nonostante i significativi miglioramenti terapeutici ottenuti negli ultimi anni e quelli attualmente in fase di sviluppo.
Quali sono le principali criticità nella gestione del carcinoma delle vie biliari e qual è il ruolo dell’anatomopatologo nel processo diagnostico?
Le criticità sono molteplici. Innanzitutto, essendo una patologia rara, persiste una conoscenza limitata della malattia non solo nella popolazione generale, ma anche in ambito sanitario, sia nel contesto medico non specialistico sia, in parte, in quello oncologico. Nei centri periferici, l’oncologo tratta prevalentemente i tumori a più alta incidenza come i tumori della mammella, del colon e del polmone, e incontra raramente pazienti con tumori delle vie biliari. Esistono inoltre criticità intrinseche alla patologia stessa. I tumori delle vie biliari non rappresentano un’unica entità, ma comprendono forme diverse: i colangiocarcinomi e i tumori della colecisti. I colangiocarcinomi si distinguono in intraepatici ed extraepatici, questi ultimi a loro volta classificati in peri-ilari e distali. Anche i tumori dell’ampolla di Vater rientrano in parte in questa categoria, pur costituendo un capitolo a sè. Ciascuna forma presenta caratteristiche specifiche per sede di insorgenza e sintomatologia, rendendo il percorso diagnostico complesso e spesso tardivo. Nella maggior parte dei casi i pazienti ricevono la diagnosi quando la malattia è già in fase avanzata o metastatica. A questo punto diventa essenziale identificare le alterazioni molecolari che caratterizzano i vari sottogruppi di pazienti, poiché alcune di queste possono costituire il bersaglio di farmaci a target molecolare, offrendo un’alternativa alla chemioterapia nelle linee successive di trattamento, mentre ad oggi la prima linea di trattamento standard è rappresentata dalla combinazione di chemioterapia e immunoterapia. È quindi fondamentale una diagnosi istologica accompagnata da un’adeguata profilazione molecolare, in grado di ricercare le alterazioni specifiche di ciascun sottogruppo. Nei colangiocarcinomi intraepatici,
per esempio, le alterazioni più frequenti sono la traslocazione di FGFR2 e le mutazioni di IDH1; negli extraepatici e nei tumori della colecisti sono più comuni altre alterazioni, tra cui l’iperespressione di HER2. L’anatomopatologo e il biologo molecolare rivestono quindi un ruolo cruciale nel processo diagnostico.
La criticità maggiore, soprattutto nelle forme extraepatiche, consiste nella difficoltà di prelevare tessuto in quantità e qualità adeguate per confermare la diagnosi istologica ed eseguire gli approfondimenti immunoistochimici e molecolari necessari, inclusa la profilazione genomica tramite NGS.
Per questo motivo, l’approccio multidisciplinare – fondamentale in oncologia e ancor più nelle patologie rare – deve essere implementato fin dall’inizio. Dal radiologo interventista all’oncologo, dal gastroenterologo all’anatomopatologo fino al biologo molecolare, tutti devono essere consapevoli della necessità di raccogliere e preparare correttamente una quantità adeguata di tessuto, affinché sia possibile eseguire le analisi necessarie a guidare la scelta terapeutica ottimale.
Come è cambiato l’approccio terapeutico nel trattamento del tumore delle vie biliari avanzato o metastatico e in che modo la profilazione molecolare sta modificando l’approccio clinico a questi pazienti?
La prima linea di trattamento nella malattia metastatica o avanzata è rappresentata dalla combinazione di chemioterapia e immunoterapia, ovvero cisplatino, gemcitabina e durvalumab o pembrolizumab, indipendentemente dai diversi sottotipi. Attualmente, quindi, la prima linea è uniforme per tutti i pazienti.
La scelta della terapia di seconda linea dipende invece dalla profilazione molecolare, oggi rimborsata dal Servizio sanitario nazionale. Nei pazienti in cui non si riscontrano alterazioni molecolari, o quando queste non sono ‘targettabili’ con i farmaci disponibili, la chemioterapia rimane lo standard di cura. Lo schema con dati più solidi è FOLFOX ma viene utilizzato anche FOLFIRI, con risultati purtroppo non particolarmente significativi per entrambi i regimi.
Se invece è presente un’alterazione molecolare per la quale esiste un farmaco a bersaglio specifico, la terapia target rappresenta la scelta ottimale. I dati della letteratura indicano che globalmente fino al 44% dei pazienti presenta almeno un’alterazione molecolare targettabile. Nella pratica clinica queste percentuali risultano spesso inferiori, ma anche considerando quote limitate, è evidente che per questi pazienti la prognosi può cambiare radicalmente se viene offerta l’opportunità di una terapia mirata rispetto alla chemioterapia.
La profilazione molecolare sta quindi trasformando completamente l’approccio terapeutico: da una chemioterapia “uguale per tutti” in seconda o terza linea, si passa – quando possibile – all’identificazione di bersagli molecolari specifici e all’utilizzo di terapie personalizzate.
Quali sottogruppi stanno beneficiando maggiormente di questa svolta verso un’oncologia di precisione?
Alcune alterazioni molecolari, come la traslocazione di FGFR2, sono associate a una prognosi migliore. Quando questi pazienti vengono però trattati con un farmaco a bersaglio specifico, il beneficio risulta ulteriormente amplificato.
Per quanto riguarda i tumori extraepatici e della colecisti, l’iperespressione di HER2 è l’alterazione più frequente e associata a una prognosi
più sfavorevole. Tuttavia, quando è possibile utilizzare un farmaco a bersaglio specifico, il decorso della malattia può essere modificato significativamente, e in questi pazienti il beneficio è ancora maggiore, poiché si parte da una condizione prognostica più compromessa che può essere sostanzialmente migliorata dal trattamento mirato.
Quali sono le principali novità nel trattamento in seconda linea dei pazienti con iperespressione di HER2?
Nei pazienti con iperespressione di HER2 disponiamo di dati per due farmaci: un anticorpo bispecifico, zanidatamab, e un anticorpo farmaco-coniugato, trastuzumab deruxtecan. Per entrambi abbiamo attualmente solo dati di fase II in seconda linea, non ancora di fase III, ma si tratta di risultati molto promettenti. Zanidatamab è stato approvato da EMA per i BTC HER2+, mentre trastuzumab deruxtecan, già approvato per altre sedi tumorali HER+, è in attesa di approvazione. Lo studio HERIZON-BTC-01, condotto con zanidatamab, ha mostrato risultati estremamente interessanti. Con la sola chemioterapia, le sopravvivenze medie si attestano globalmente intorno all’anno in prima linea, mentre questi studi indicano outcome molto diversi. Zanidatamab è un anticorpo bispecifico che agisce contemporaneamente su due epitopi distinti di HER2, migliorando l’efficacia rispetto agli anticorpi anti-HER2 ‘classici’, come il trastuzumab. È generalmente ben tollerato, con la principale criticità rappresentata dalla tossicità cardiaca tipica degli anti-HER2, un aspetto che richiede attenta valutazione e monitoraggio ma che rientra nella normale routine clinica oncologica. L’altro farmaco disponibile, sempre con dati da studi di fase II, è trastuzumab deruxtecan. Non è possibile confrontare direttamente l’efficacia dei due farmaci, poiché i dati derivano da studi diversi, ma trastuzumab deruxtecan presenta una tossicità diversa, in particolare a livello polmonare, tipica degli anticorpi farmaco-coniugati. Attualmente nessuna delle due opzioni è rimborsata in Italia, ma in alcuni centri, come quello in cui lavoro, zanidatamab è disponibile grazie alla partecipazione allo studio di fase II, che ha permesso di manteMutazione
nere l’accesso al farmaco attraverso una sorta di early access program Nel nostro centro possiamo quindi trattare i pazienti in seconda o terza linea con zanidatamab, se presentano iperespressione di HER2. In Italia al momento sono tre i centri in grado di offrire questa opportunità, garantendo una possibilità più concreta di cura per questi pazienti. L’aggiornamento delle linee guida ESMO, presentato nel congresso di ottobre 2024, evidenzia chiaramente nell’algoritmo terapeutico che per i pazienti con marcata iperespressione di HER2 (punteggio 3+ all’immunoistochimica – diversamente, ad esempio, da quanto avviene nel tumore della mammella, dove anche l’espressione più bassa può essere targettabile), pretrattati con almeno una linea di terapia, il trattamento di scelta è rappressentato da zanidatamab o trastuzumab deruxtecan, riservando la chemioterapia solo in caso di indisponibilità di questi farmaci. Nelle precedenti versioni delle linee guida l’indicazione a questi due nuovi farmaci non era esplicitata in modo così chiaro.
Zanidatamab è un nuovo anticorpo bispecifico. Cosa caratterizza il suo meccanismo d’azione?
Zanidatamab è un anticorpo bispecifico che colpisce contemporaneamente due epitopi distinti di HER2. Questa caratteristica di legare due domini antigenici con un unico anticorpo offre risultati migliori sia in termini di efficacia sia di profilo di tossicità rispetto all’utilizzo di due anticorpi distinti, poiché si riducono i target non desiderati. Zanidatamab determina l’internalizzazione e la down-regulation di HER2, l’inibizione sia della segnalazione cellulare sia della crescita tumorale e stimola anche meccanismi immunomediati. Questo anticorpo introduce un cambiamento sostanziale nella pratica clinica, trattandosi di una molecola innovativa in un ambito in cui attualmente non disponiamo di altri anticorpi specifici per questo sottogruppo di pazienti. Quando diventerà pienamente accessibile, la pratica clinica subirà una trasformazione concreta e significativa. n
Intervista a cura di Mara Losi
GESTIONE DEL CARCINOMA DELLE VIE BILIARI AVANZATO O METASTATICO: AGGIORNAMENTO 2025 DELLE LINEE GUIDA ESMO
Dopo gemcitabina/cisplatino + durvalumab o pembrolizumab, la seconda linea di terapia si basa sulle terapie target, incluse le immunoterapie
Tutti i tumori
FOLFOX (in alternativa 5FU ± irinotecan)
BTC avanzato o metastatico
Pro lazione molecolare
Gemcitabina/cisplatino + durvalumab
Gemcitabina/cisplatino + pembrolizumab
MSI-H/dMMR Pembrolizumab HER 2 iperespressione e/o ampli cazione Zanidatamab Trastuzumabderuxtecan
▪ Zanidatamab è ora fortemente raccomandato per il BTC HER2+ non resecabile o metastatico, precedentemente trattato.
Trastuzumab deruxtecan può essere indicato nei pazienti adulti con iperespressione/ampli cazione di HER2+ in progressione o intolleranti a un precedente trattamento.
▪ Trastuzumab e pertuzumab non sono più opzioni di trattamento raccomandate
Fusione NTRK Entrectinib Larotrectinib Repotrectinib
Raccomandazione nuova o modi cata Nessun cambio di raccomandazione
Fusione RET Selpercatinib
Mutazione BRCA1/2 o PALB2 inibitori PARP
Modificata da Vogel A, Ducreux M, ESMO Guidelines Committee. ESMO clinical practice guideline interim update on the management of biliary tract cancer. ESMO Open. 2025 Jan;10(1):104003.
Tumori delle vie biliari metastatici: terapie target, PDTA e medicina di precisione
A colloquio con Carmine Pinto Direttore della SC di Oncologia Medica – Comprehensive Cancer Centre, dell’Ausl-Irccs di Reggio Emilia e Coordinatore della Rete Oncologica e Emato-oncologica dell’Emilia-Romagna
Per i tumori delle vie biliari metastatici, come per altri tipi di tumori rari, che presentano poche ed in ogni caso limitate opzioni terapeutiche, le terapie target hanno ottenuto dagli enti regolatori internazionali (FDA e EMA) approvazioni condizionate sulla base dei risultati di studi a braccio singolo. Dal suo punto di vista, quali sono i punti di forza e i limiti delle evidenze generate da questi studi?
Quando parliamo di patologie rare, parliamo di patologie per le quali è difficile condurre studi su grandi numeri e, soprattutto, studi randomizzati. Possiamo parlare di patologie rare per frequenza, ma anche di patologie rare per caratteristiche molecolari, all’interno di tumori che hanno volumi epidemiologici più ampi.
In queste situazioni, quando individuiamo – oggi lo facciamo con la profilazione molecolare, il più delle volte tramite NGS – un’alterazione ‘targettabile’, soprattutto un’alterazione per la quale siano disponibili farmaci, questo rappresenta la migliore opzione terapeutica per i pazienti. Molto spesso, infatti, questo avviene per neoplasie per le quali i trattamenti standard presentano scarsa efficacia già in prima linea, e sono sostanzialmente assenti oltre la prima linea di terapia.
In queste situazioni i nostri obiettivi sono tre:
1. definire qual è la prevalenza di un’alterazione molecolare targettabile in una specifica patologia oncologica;
2. individuare il miglior test per rilevare questa alterazione molecolare e definire i requisiti tecnici/organizzativi richiesti per l’introduzione del test in pratica clinica;
3. valutare il beneficio clinico del farmaco che interagisce con il target molecolare.
In questo contesto, un farmaco può produrre risultati importanti sia in termini di response rate, sia in termini di progression-free survival e overall survival
Tutti questi elementi li ritroviamo per i tumori delle vie biliari. Per esempio, l’indicazione allo zanidatamab nella malattia avanzata richiede l’iperespressione di HER2, utilizzando un test in immunoistochimica, già diffusamente impiegato in pratica clinica per i tumori della mammella e dello stomaco. Nello studio di fase II a singolo braccio HERIZON-BTC-01, in pazienti pretrattati con positività all’immunoistochimica per HER2 3+, questo farmaco permette di raggiungere i 18 mesi di sopravvivenza, in un setting per il quale la sopravvivenza con le seconde linee di terapia si attesta attualmente sui 3-4 mesi. I limiti degli studi su tumori rari o ultra-rari sono legati soprattutto alla numerosità dei pazienti e al fatto di non avere un braccio di controllo, e quindi del confronto possibile solo con dati clinici storici, molto spesso non ben definiti. Queste criticità vengono però superate in queste patologie ‘orfane’ dai dati di efficacia clinica, che talora possono essere molto rilevanti. Tutto questo è già avvenuto diverse volte. Basti solo
ricordare come, per esempio, i primi farmaci inibitori di ALK che avevano dimostrato un elevato beneficio clinico nell’adenocarcinoma del polmone con riarrangiamento di questo gene, siano stati così registrati e entrati in pratica clinica in una rara, ma ben selezionata con un test, popolazione di pazienti.
Quando abbiamo patologie rare, popolazioni estremamente selezionate per un target molecolare e difficoltà a costruire studi randomizzati, anche studi di fase II a braccio singolo possono quindi fornire dati consistenti per la registrazione e l’introduzione di un farmaco in pratica clinica.
Alla luce dei recenti progressi farmacologici nel trattamento dei tumori delle vie biliari in stadio avanzato, quali sono secondo lei le priorità operative per strutturare percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) omogenei, tempestivi, adeguati e efficaci?
Per quanto riguarda il tumore delle vie biliari, parliamo di una patologia rara. In Italia vengono stimate circa 5.000 nuove diagnosi per anno (suddivise nelle quattro sedi anatomiche), con una diagnosi che avviene il più delle volte in fase avanzata/metastatica e quindi non suscettibile di chirurgia, e con un 60% di recidiva dopo chirurgia. Tutto questo si riflette in una sopravvivenza a 5 anni per tutti gli stadi del 17% negli uomini e del 15% nelle donne.
Per la gestione clinica di una patologia come quella dei tumori delle vie biliari è indispensabile definire PDTA inseriti nell’ambito delle Reti oncologiche regionali. Questi PDTA devono prevedere centri di afferenza e centri di riferimento per le procedure diagnostiche e terapeutiche più complesse.
In generale il PDTA per i tumori delle vie biliari, definendo un percorso nell’ambito della Rete, deve garantire:
l un gruppo multidisciplinarie specifico di patologia con competenze adeguate nelle diverse professionalità (oncologia, chirurgia, radioterapia, radiologia, gastroenterologia/endoscopia, anatomia patologica e biologia molecolare, nutrizione e cure palliative);
l un imaging accurato per la diagnostica e la stadiazione della malattia;
l un’endoscopia diagnostica e operativa;
l una caratterizzazione patologica e molecolare;
l un adeguato accesso alle diverse possibilità e strategie di trattamento.
Nel PDTA deve anche essere previsto l’accesso alle cure palliative precoci, alla valutazione/gestione nutrizionale e al supporto psico-oncologico, nonché la partecipazione dei medici di medicina generale e delle associazioni dei pazienti.
Inoltre nel PDTA, che per una patologia rara non può che essere almeno regionale, è necessario definire, in particolare per la chirurgia, i centri di riferimento, identificati per volumi/esiti, e le risorse professionali e tecnologiche disponibili. Oltre che per la chirurgia, centri di riferimento del PDTA possono essere necessari nei diversi territori anche per le piattaforme di biologia molecolare e per le procedure endoscopiche. Realizzare un PDTA per una patologia rara significa quindi mettere insieme, all’interno di un territorio, le diverse competenze specialistiche e i diversi servizi, in una rete organizzata e strutturata che valorizzi le professionalità e i centri esistenti. Il PDTA deve definire per ogni fase del percorso i punti di accesso, le connessioni e le sedi delle prestazioni per complessità, intensità e risorse richieste.
Esistono già dei PDTA attivi per i tumori delle vie biliari?
Ad oggi i PDTA dedicati ai tumori delle vie biliari sono presenti solo in pochissimi centri di alcune Regioni. Si tratta di un PDTA che richiede elevate competenze già nella fase iniziale, spesso non semplice, che è quella della diagnostica e della stadiazione: dal prelievo bioptico, alla diagnosi patologica e alla caratterizzazione molecolare fino all’imaging. Un’adeguata e rapida diagnosi e stadiazione permette poi un’appropriata strategia terapeutica. È indispensabile non solo avere un PDTA, ma avere un PDTA che di fatto – e non solo ‘di nome’ – abbia rappresentate nell’ambito del proprio gruppo multidisciplinare tutte le discipline coinvolte e che tutte le diverse professionalità abbiano elevate competenze.
Nel trattamento del tumore delle vie biliari, l’avvio precoce di una programmazione adeguata e, in particolare, l’adozione di una corretta strategia diagnostica e terapeutica sono essenziali per massimizzare gli outcome clinici in questo specifico setting.
Quali misure sono necessarie a livello nazionale e regionale perché questi pazienti possano accedere tempestivamente ai test molecolari di nuova generazione e quindi alle terapie target specifiche, trasformando il potenziale teorico della terapia di precisione in una realtà clinica equa?
È fondamentale che esista una governance nazionale su come gestire i test di caratterizzazione bio-molecolare in tutti i tumori e, nel caso specifico, nei tumori delle vie biliari. Occorre definire linee di indirizzo non per la singola Regione, ma che rappresentino un minimo comune denominatore da adottare a livello nazionale, questo per garantire equità nell’accesso ai test che si trasferisce poi in un’equità di accesso alle terapie più appropriate e efficaci. Il percorso del paziente deve prevedere un prelievo bioptico, che permetta di ottenere un campione biologico adeguato non solo per la diagnosi istopatologica ma anche per successive analisi di caratterizzazione bio-molecolare.
Per il test per HER2 si parla di immunoistochimica, quindi di un test relativamente semplice, ma è comunque necessario prevedere una informazione/formazione per identificare correttamente lo score 3+ anche in questa patologia neoplastica, che consente poi l’accesso a terapie mirate.
C’è poi tutto l’ambito relativo alla profilazione molecolare in NGS. Sappiamo che circa il 30% dei tumori delle vie biliari presenta alterazioni molecolari targettabili, quali quelle di IDH1, FGFR2, BRAF, NTRK e MSI-H, che possono consentire trattamenti con farmaci specifici. Pertanto quando viene diagnosticata una malattia inoperabile o metastatica o una ricaduta dopo chirurgia, il paziente dovrà essere caratterizzato ab initio, già al momento dell’avvio della prima linea di terapia, anche se il trattamento mirato potrebbe poi essere introdotto solo in seconda linea. Questo vale sia per l’immunoistochimica di HER2 sia per la profilazione in NGS. È indispensabile quindi strutturare un percorso in modo che il campione biologico, anche se prelevato in un altro centro periferico, venga inviato al centro di riferimento per la caratterizzazione sia immunoistochimica per HER2 sia molecolare con NGS per gli altri target. Solo così il potenziale della terapia di precisione potrà tradursi in una realtà clinica equa e accessibile per tutti i pazienti. n
Intervista a cura di Mara Losi
Prevenzione e governance: oltre gli annunci della legge di bilancio
A colloquio con Marco Geddes da Filicaia
Medico epidemiologo ed esperto di sanità pubblica
Già direttore sanitario dell’Ospedale Centrale di Firenze e dell’Istituto Nazionale
Tumori di Genova
Già vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità
Un confronto sul contenuto della legge di bilancio 2026 e sulle ricadute concrete per la prevenzione oncologica in Italia. Tra opportunità e criticità procedurali, la prospettiva di Marco Geddes da Filicaia, medico epidemiologo esperto di sanità pubblica, aiuta a leggere il provvedimento oltre il dato contabile, interrogandosi sulla coerenza delle scelte e sull’effettiva capacità del sistema di rafforzare l’equità e l’efficacia degli screening.
La legge di bilancio 2026 porta in dote un incremento dei fondi per la prevenzione. Qual è la reale portata di questo intervento?
La manovra introduce un finanziamento di 238 milioni di euro per il potenziamento degli screening oncologici – mammella, colon-retto e polmone – e per sostenere l’acquisto di vaccini. A questo si aggiungono, per il solo 2026, ulteriori 247 milioni, più un milione destinato a campagne informative del Ministero della salute. Formalmente, la quota dedicata alla prevenzione sale dal 5% al 5,2% del Fondo sanitario nazionale: un segnale positivo non trascurabile, ma che si configura come un aumento ancora modesto e non interamente strutturale.
La scelta di intervenire sugli screening attraverso la legge di bilancio ha sollevato dubbi. Perché?
L’ampliamento dell’offerta di screening dovrebbe seguire un percorso programmatorio definito: valutazione costi-benefici, aggiornamento del Piano oncologico nazionale, revisione dei Lea con il parere delle Commissioni parlamentari e intesa in Conferenza Stato-Regioni. La legge di bilancio, invece, non è lo strumento deputato a modificare standard di cura e livelli essenziali.
Quali implicazioni concrete per le Regioni?
Sono loro a dover garantire la messa a terra: identificazione della popolazione target, inviti, percorsi diagnostici e terapeutici post-screening, dati per l’Osservatorio nazionale. Senza un aggiornamento formale dei Lea, questo ampliamento rima-
“Quando si indebolisce la capacità del pubblico di raggiungere le persone, si amplificano fragilità e divari che non sono solo sanitari ma sociali e culturali.”
ne di fatto contingente, dipendente dalla manovra annuale.
Lei richiama il tema delle disuguaglianze di adesione agli screening. Quanto è determinante? È il nodo centrale. Abbiamo Regioni con adesioni prossime o superiori al 70% e altre sotto il 35%. In questi contesti, l’urgenza non è ampliare la platea, ma riuscire a intercettare chi già oggi non partecipa. Lo screening pubblico è lo strumento più equo; ogni arretramento amplifica le disuguaglianze.
Lei sottolinea anche un fenomeno meno discusso: l’aumento di mammografie spontanee nelle Regioni con minore adesione allo screening pubblico. Che cosa racconta questo dato sulle disuguaglianze?
In molte Regioni del Sud, così come nel Lazio, Liguria e Marche, osserviamo livelli di adesione agli screening pubblici inferiori alla media nazionale, ma allo stesso tempo una maggiore diffusione di mammografie effettuate al di fuori dei programmi organizzati. Tuttavia, questo non compensa: la copertura complessiva resta comunque più bassa. E soprattutto introduce una frattura sociale evidente. Alla mammografia spontanea ricorre il 30% delle donne laureate, contro l’11% di chi ha bassi livelli di istruzione. Analogamente, il 21% delle donne italiane o provenienti da paesi

sviluppati vi accede, contro solo il 9% delle cittadine provenienti da contesti migratori. Lo screening organizzato del Ssn, invece, annulla queste differenze: è universale, proattivo, tracciabile e garantisce equità. Quando si indebolisce la capacità del pubblico di raggiungere le persone, si amplificano fragilità e divari che non sono solo sanitari ma sociali e culturali.
Quali azioni ritiene prioritarie per evitare che l’investimento perda efficacia?
Tre direzioni: un quadro strategico nazionale coerente; cooperazione interregionale; interventi dedicati ai gruppi vulnerabili. Inoltre, serve contrastare la pseudo-prevenzione privata che sottrae adesioni al pubblico e genera duplicazioni e sovraesposizione.
In conclusione, come si colloca questa manovra nel quadro più ampio delle politiche sanitarie italiane?
Accogliamo l’incremento delle risorse, ma senza coerenza programmatoria, aggiornamento trasparente dei Lea e impegno operativo delle Regioni, rischiamo un esercizio contabile. La prevenzione richiede continuità, regia pubblica e capacità di leggere le fragilità territoriali.
Intervista a cura di Federica Ciavoni
Un sistema sanitario in bilico. Continuerà a volare il calabrone?
Di Francesco Taroni
Dopo Politiche sanitarie in Italia e Il volo del calabrone, che raccontano la straordinaria storia del Servizio sanitario nazionale, Francesco Taroni torna con un nuovo volume su presente e futuro del Ssn, nel quale descrive l’attuale crisi della assistenza sanitaria, esaminando il peso crescente di spesa privata, assicurazioni e fondi integrativi, e imprese sanitarie private, fino al rischio dell’ulteriore frammentazione del Ssn attraverso l’autonomia differenziata. Il libro considera poi alcune interpretazioni della crisi che sostengono soluzioni basate sulla riduzione del ‘perimetro’ del Ssn, cioè l’abbandono dei suoi principi fondamentali di universalismo, globalità di copertura e finanziamento pubblico. A queste interpretazioni, Taroni oppone la tesi di una crisi causata dalla stasi ventennale delle politiche sanitarie, e del loro finanziamento, che ha favorito la mercificazione delle prestazioni sanitarie e la mercatizzazione dell’assistenza sanitaria.
Il Pensiero Scientifico Editore www.pensiero.it
Farmaci salvavita e responsabilità del farmacista ospedaliero
A colloquio con Daniela Iovine Farmacista dirigente dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “Antonio Cardarelli”, Napoli
In questa intervista Daniela Iovine racconta cosa significa garantire ogni giorno la disponibilità di antidoti e terapie essenziali in ospedale, tra protocolli, scorte e difficoltà di approvvigionamento. Dalla protamina agli anticorpi monoclonali, fino alle terapie avanzate, il ruolo del farmacista ospedaliero emerge come cruciale nella gestione delle urgenze e delle cronicità più complesse.
“… in definitiva, quasi tutti i farmaci possono essere definiti salvavita in relazione alle circostanze e al paziente”
Cosa intendiamo quando parliamo di ‘farmaci salvavita’?
La definizione di farmaco salvavita fa riferimento a un medicinale che “salva la vita del paziente”, ma il concetto è più ampio della sola accezione letterale del termine. Infatti, un farmaco può rientrare in questa categoria per diversi motivi o circostanze: nell’interpretazione più stretta del termine, si tratta di un farmaco al quale si ricorre quando il paziente è in condizioni critiche o compromesse. Può essere definito salvavita un farmaco che previene la morte di un paziente perché previene la compromissione degli organi vitali; oppure potremmo dire che è salvavita un farmaco che, pur non indicato per una determinata patologia, può diventare essenziale senza altre alternative terapeutiche disponibili in quella circostanza. Potremmo poi definire salvavita anche quei farmaci destinati alla cura di patologie croniche che compromettono in maniera inequivocabile la salute del paziente: per fare qualche esempio, l’insulina è sicuramente un farmaco salvavita per un paziente diabetico, ma lo sono anche i farmaci per il trattamento delle patologie infiammatorie croniche a carico delle articolazioni e della cute, in quanto determinano un allungamento della vita del paziente in associazione al miglioramento della sua qualità di vita; in definitiva, quasi tutti i farmaci possono essere definiti salvavita in relazione alle circostanze e al paziente.
In condizioni di emergenza, oltre ai farmaci classificati come antidoti, in genere disponibili nelle Aziende ospedaliere che dispongono di CAV (Centro Antiveleni), esistono molti altri farmaci salvavita: per esempio, gli antidoti per l’emorragia da NAO, come l’andexanet o il dabigatran etexilato, e la protamina solfato per il sovradosaggio da eparine; il sugammadex in caso di mancato risveglio da curaro; il dantro-
lene sale sodico per l’ipertermia maligna, ma anche il semplice sodio cloruro 2 mEq/ml in fiale per l’iposodiemia da sindrome metabolica; gli stessi farmaci cortisonici possono diventare farmaci salvavita, per esempio in caso di BPCO e asma grave; possono essere salvavita anche i farmaci rivolti alla cura di patologie rare, come il caplacizumab, indicato nella porpora trombotica trombocitopenica acquisita, o molecole come eculizumab e ravulizumab perché trattano malattie gravi e potenzialmente letali, come l’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) e la sindrome emolitico-uremica atipica (SEUa), ma di esempi ce ne sarebbero tanti altri.
Quali sono le principali categorie di farmaci salvavita che un ospedale non può assolutamente farsi mancare?
La disponibilità di farmaci salvavita in un ospedale dipende in larga misura dal profilo e dal grado di specializzazione della struttura sanitaria. Tuttavia, esistono categorie farmacologiche fondamentali che devono essere garantite in ogni contesto ospedaliero e che sono le seguenti:
l antiepilettici
l anticoagulanti
l antiemorragici
l cortisonici
l insulina
l glucagone
l tocilizumab
l farmaci per il covid
l adrenalina e noradrenalina
l emoderivati come albumina e fattori della coagulazione
l farmaci per la cura di malattie rare
Nelle Aziende ospedaliere che fungono da centri di riferimento regionale per terapie specifiche o per programmi di trapianto (fegato, midollo osseo), assumono carattere salvavita anche farmaci altamente specialistici quali:
l caplacizumab
l ecolizumab
l ravulizumab
l CAR-T
“Il farmacista ospedaliero ha il compito e il dovere di garantire la presenza della protamina solfato come scorta ospedaliera al fine di intervenire prontamente nella gestione dell’emergenza”
Tra questi farmaci, ha citato la protamina come antidoto all’eparina. Perché è così importante?
La protamina solfato è un farmaco classificato come antidoto (V03AB14): agisce infatti come antagonista dell’eparina o delle eparine a basso peso molecolare (EBPM) nel caso in cui ci sia stato un sovradosaggio della stessa, che può dar luogo a pericolosi sanguinamenti emorragici. È una proteina a basso peso molecolare e fortemente basica; il meccanismo d’azione come antidoto è quello di provocare la dissociazione del complesso eparina-antitrombina III (legame importante che favorisce la fluidificazione del sangue inibendone la coagulazione), formando un complesso eparina-protamina che rende inattivo il potere anticoagulante dell’eparina. La protamina solfato deve essere somministrata necessariamente lentamente per via ev; altre vie di somministrazione ne eliminano l’efficacia.
Come vengono gestiti in ospedale questi farmaci così critici?
La gestione della protamina solfato in ospedale è in linea con la gestione degli antidoti. Questo vuol dire che, anche se non c’è uno storico di utilizzo, una scorta minima di protamina solfato deve essere obbligatoriamente detenuta sia in farmacia sia al CAV se presente in ospedale, anche se non se ne prevede l’utilizzo e si deve ammettere la possibilità di spreco per scadenza del farmaco.
In generale la scorta minima del nostro ospedale è di circa 100 fiale da detenere in farmacia e di 30 fiale da detenere al CAV; a ogni possibile utilizzo, la scorta viene ripristinata al valore di soglia minimo; ultimamente l’approvvigionamento della protamina solfato si è reso difficoltoso per la carenza del farmaco sul territorio nazionale, così come dichiarato da Aifa, pertanto è stato necessario provvedere all’importazione del farmaco dall’estero.
Qual è il ruolo del farmacista ospedaliero in tutto questo?
Il farmacista ospedaliero ha il compito e il dovere di garantire nel migliore dei modi possibile la presenza della protamina solfato come scorta ospedaliera al fine di intervenire prontamente nella gestione dell’emergenza: deve pertanto preoccuparsi di provvedere all’acquisto del farmaco seguendone l’iter, dalla richiesta del clinico fino all’immissione contrattuale da parte dell’Ufficio Acquisti; qualora sia necessario effettuare l’acquisto all’estero, il farmacista ospedaliero deve ottenere la dichiarazione di responsabilità da parte del clinico richiedente per un farmaco con AIC non italiano, e successivamente l’autorizzazione all’importazione da parte dell’AIFA;
deve inoltre vigilare sulla gestione della scorta, sulla scadenza del farmaco e sull’appropriatezza d’uso in ospedale.
A suo avviso, quanto è importante sensibilizzare anche l’opinione pubblica sul tema dei farmaci salvavita?
Credo che sia molto importante sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza dei farmaci salvavita, poiché spesso la mancata conoscenza delle possibilità determina un rallentamento fatale degli interventi, con conseguenze anche gravi; una maggiore informazione sui percorsi da attuare in caso di emergenza, sulla disponibilità di farmaci salvavita nelle farmacie territoriali e sulle modalità di prescrizione e approvvigionamento degli stessi può accelerare un tempestivo intervento a favore del buon esito dell’evento critico; nel caso specifico, per esempio, le EBPM sono farmaci largamente prescritti a domicilio, in preparazione o a seguito di interventi chirurgici o in situazioni patologiche particolari, e spesso la loro somministrazione è autogestita dal paziente stesso; pertanto un accidentale sovradosaggio, dovuto a dosi ripetute per errore o a un arbitrario proseguimento della terapia non sostenuto dalla valutazione di esami ematochimici o ancora a sopraggiunte interazioni con altri farmaci, può dare luogo a sanguinamenti ingestibili a domicilio. Sapere cosa fare consentirebbe di arrivare tempestivamente alla disponibilità dell’antidoto, cioè della protamina solfato.
Un messaggio finale?
In ospedale ogni minuto può fare la differenza e ogni farmaco salvavita rappresenta una possibilità concreta di cambiare il destino di un paziente. La disponibilità di questi farmaci non è solo una questione logistica o amministrativa, ma un vero e proprio atto di responsabilità nei confronti della società. Il farmacista ospedaliero svolge in questo processo un ruolo spesso invisibile, ma determinante: garantire l’approvvigionamento, prevedere le emergenze, dialogare con i clinici e superare ostacoli burocratici o carenze di mercato per far sì che, quando arriva l’urgenza, l’unica cosa che conti sia la cura del paziente. Ben venga la sensibilizzazione pubblica su questo tema: secondo me servirebbe a rafforzare un’alleanza tra professionisti sanitari, cittadini e istituzioni. Conoscere l’esistenza di un farmaco salvavita e sapere che è stato previsto, controllato e reso disponibile, non solo aumenta la sicurezza del percorso di cura, ma dona al paziente una rinnovata fiducia nel nostro Servizio sanitario nazionale. n
Intervista a cura della redazione