Pedagogika.it - Anno XV_4

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Rivista di educazione, formazione e cultura

anno XV, n째 4 Ottobre, Novembre, Dicembre 2011


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esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XV, n° 4 – Ottobre/Novembre/Dicembre 2011 Direttrice responsabile Maria Piacente maria.piacente@pedagogia.it Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes. Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa Hanno collaborato Simonetta Soldani, Giancarla Codrignani, Mariangela Giusti, Aldo Cazzullo, Silvano Calvetto, Sebastiano Vassalli, Paul Ginsborg, Loredana Sciolla, Giuliano Procacci, Eleonora Negri, Daniele Bouchard, Anna Debè, Barbara Mapelli, Maurizio Tirittico, Valeria Napolitano, Serena Bignamini, Emanuele Tramacere. Edito da Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it Direzione e Redazione Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057 e-mail: pedagogika@pedagogia.it Sito web: www.pedagogia.it FaceBook: Pedagogika Rivista

Responsabile testata on-line Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità Clara Bonfante, Daniela Colombo Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD ISSN 1593-2559 Stampa: Logo Press - Borgoricco (Pd) Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano

è possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo e-mail articoli@pedagogia.it I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio della Direzione e del Comitato di redazione e in ogni caso non saranno restituiti agli autori Questo periodico è iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana


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s o m m a r i o 5

Editoriale Maria Piacente

73 Né lingua né popolo: la Padania è un’invenzione Giuliano Procacci

../dossier/Laboratorio Italia 8

Introduzione

12 I centocinquant’anni di un paese in affanno Simonetta Soldani

76 Scuola, federalismo e Unità d’Italia Nicola D'Amico 78 L’Italia unita a scuola 90 Yallaitalia

22 Le donne e l’Italia: 150 anni di presenza Giancarla Codrignani 27 Un pedagogista innovatore dopo l’unificazione italiana: Aristide Gabelli Mariangela Giusti 38 La grande guerra. «Come fosse la culla di mio padre» Aldo Cazzullo 48 Nota sulla memoria pubblica della resistenza Silvano Calvetto

93 Laboratorio Italia: i libri

../cultura 96 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 100 Scelti per voi Libri - Ambrogio Cozzi (a cura di) Musica - Angelo Villa (a cura di) Cinema - Cristiana La Capria (a cura di) 116 Arrivati in redazione

56 Il dissidente Sebastiano Vassalli 64 Il posto dell’Italia nel mondo moderno Paul Ginsborg

../in breve 119 A rts Therapies and the Intelligence of Feeling. ../in vista

68 Familismo Loredana Sciolla

120 Italia, prove di unità

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Numero di c/c postale 36094233 intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it

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Pedagogika.it/2011/XV_4/Grande_è_il_disordine,_la_situazione_è_eccellente

Grande è il disordine, la situazione è eccellente Maria Piacente

Sono andata a letto dopo avere sentito, da un canale all’altro, ancora e sempre più frustranti notizie su quel che va succedendo. Attualità dove la politica, l’educazione, la convivenza civile non trovano spazio ed alla frustrazione si aggiunge l’angoscia per quello che sappiamo e che nessuno può far finta di non sapere: giovani, ragazzi e ragazze allo sbaraglio, senza qualità, senza desideri, senza etica, senza futuro, senza lavoro; donne, giovani e meno giovani, che tornano a casa dalle fabbriche chiuse, dagli uffici improvvisamente e inopinatamente diventati pletorici, dalle aziende in surplus di organico. Licenziate. O impossibilitate a lavorare perché senza servizi sociali, senza asili nido dove lasciare i propri bambini. Anziani, o grandi anziani, attenti al centesimo durante la spesa giornaliera al supermercato, con gli occhi incollati solo sulle offerte del giorno. Giovani cinquantenni, quando non quarantacinquenni, ex quadri ed ex dirigenti diventati, a loro insaputa, “vecchi” e non più ricollocabili. Anche negli altri paesi europei la situazione sociale ed economica è in sofferenza, ma l’Italia, tra le prime potenze industriali ed economiche del mondo, è anche più in affanno. Un Paese dove un capitalismo straccione e i disequilibri sociali la fanno da padrone, dove il desiderio di tutti, ma soprattutto dei giovani, di andare oltre per abitare il futuro, rimane prigioniero e senza voce, fino ad evaporare del tutto. Evaporazione del desiderio senza rapporto con l’individuazione di un interlocutore, con la costruzione di un futuro possibile, senza nemmeno avere il tempo di riconoscersi per tentare di diventare quello che si credeva di essere. Cosa è cambiato? Davvero oggi, in un rimescolamento di senso del concetto stesso di Etica ci tocca sorbirci ragazze, che predicano di come occorra saper mercanteggiare la propria bellezza? Vale la pena di ricordare con Michela Marzano che “ ...All’era dell’autonomia e della libertà, l’etica ci ricorda che le ‘persone’, a differenza delle ‘cose’, non hanno semplicemente un ‘prezzo’, ma hanno sempre una ‘dignità’. Che la dignità comporta il rispetto di ogni essere umano, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle sue competenze. E che per costruire una società giusta, si deve essere capaci di parlare non solo di libertà e di autonomia, ma anche di uguaglianza e di solidarietà. Il compito dell’etica oggi è in fondo semplice: insegnare a tutti come fare per proteggere i più fragili dalla violenza e dalle prepotenze dei più potenti”. Né parrebbe incoraggiare il fatto di vedere testi improbabili, da poco editi, che si ammucchiano sulle scrivanie della redazione, dai titoli piuttosto bizzarri, del genere: Come non sottostare più ai sensi di colpa; Scappate per tempo dalla vostra famiglia; La smetti di non sentirti ok?; Cosa vuoi che sia un amante?. Non ci sono domande, non si pongono alternative, dubbi, riflessioni, dialoghi. È gia tutto saputo e saturato. E non ci si aspetta nessuna risposta.

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Pedagogika.it/2011/XV_4/Grande_è_il_disordine,_la_situazione_è_eccellente

Eppure, eppure si sente che non è del tutto così, Sotto il degrado patinato ed uno strano relativismo etico, gratta gratta, c’è qualcosa. Qualcosa che si aggrappa alla nostra parte buona, alla fiducia nel genere umano. Nell’ultimo film di Crialese, Terraferma, la bella e giovane vedova che dà ospitalità alla clandestina e la aiuta a mettere al mondo la sua bambina, quando appprende che la donna ha dato alla bambina il suo stesso nome, rimane turbata. Già si era interrogata sulla sua vita da isolana oramai insoddisfacente, È un’esperienza che le cambia la vita. Forse sta ripensando ai propri valori... comunque decide di aiutare la profuga a fuggire sulla Terraferma per raggiungere il marito. È stata contaminata da un’altra vita, da un’altra cultura, pur restando sempre se stessa. Se stessa con qualche cosa in più. Nessuno perde quando aiuta qualcuno, viene da dire. Il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione dei festeggiamenti dell’Unità d’Italia ha parlato di “combinazioni prodigiose” che hanno avuto luogo durante il periodo storico dell’Unità d’Italia, di intrecci di componenti moderate, componenti democratiche e rivoluzionarie che hanno cambiato il nostro territorio, la nostra storia ed il nostro modo di vivere, Forse dovremmo ricercarle ancora queste combinazioni, imparando a muoverci tra le diversità, trasformandole in opportunità di cambiamento, in possibilità di realizzare buone contaminazioni; forse le voci discordi, le diversità di storie, di generi, di età, di etnie, invece di complicarci la vita ce la possono facilitare. Una riflessione seria ed attenta sulle cose da cambiare può perfino aiutarci a riformulare un senso e un modo nuovo di intendere anche il nostro essere italiani.. Grande è il disordine, la situazione è eccellente (Mao Tse Tung)

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Pedagogika.it/2011/XV_4/laboratorio_italia/Giogio_Napolitano

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Laboratorio Italia Ci toccava, l’abbiamo scelto, ci abbiamo lavorato e pensato molto a come affrontare un tema così pesante e impegnativo in un dossier di Pedagogika.it. E’ sembrato arduo, ad un certo punto, trovare una chiave di lettura che evidenziasse e rendesse intellegibile una “italianità”, che desse un senso alla storia di 150 anni di Stato Nazionale, soprattutto quando grandi ideali e grandi passioni sembrano appartenere ad un altro mondo e ad un altro tempo. Ci si trova, sempre più spesso, davanti a comportamenti e stili di comunicazione, anche pubblica, cinici e, per certi versi, indigeribili. Esterofilia, localismo, familismo, individualismo, refrattarietà ad ogni più o meno retorico senso di appartenenza nazionale sembrano essere i caratteri distintivi di una sia pur sommaria e riduttiva definizione delle tipicità identitarie dell’italiano medio. E tuttavia, in questi ultimi mesi, abbiamo assistito a un soprassalto di sensibilità alle tematiche del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E’ tutto spiegabile con l’altrettanto congenita (?) e provata capacità degli italiani di saper riconoscere i grandi appuntamenti? O dobbiamo ascriverne il merito al forte impulso esercitato dal Presidente Napolitano, alle indignate prese di posizione di firme importanti? Abbiamo ipotizzato che la questione sia alquanto più complessa e meriti di essere approfondita con i contributi di quanti possano proporre letture e interpretazioni dello strano rapporto che lega gli italiani ad un altalenante sentimento di amor patrio, volta a volta percepito come spirito fondativo dello stato unitario, talora enfatizzato strumentalmente per sostenere politiche di potenza, talaltra per riconquistare le energie morali e culturali per ribellarsi a decenni di depressione e repressione antidemocratica e dar vita ad un nuovo spirito costituente. Intellettuali, giovani, donne, operai con le loro organizzazioni sono stati, nelle diverse fasi, gli attori di periodiche rinascite, lasciando, ogni volta, i segni di una incoercibile volontà di democrazia e di orgoglio nazionale, eppure lasciando spazio a periodici sbandamenti, infiacchimenti, cadute di tono, atteggiamenti di delega ai poteri politici ed economici. In questo numero dedicato al 150° anniversario ci siamo sforzati di dare un contributo di chiarimento senza trascurare ambiti e contesti, storici e culturali, sociologici e pedagogici, che possano aiutare a trovare risposte e, semmai, a porsi nuove domande sul significato di Risorgimento, Unità, Resistenza e Costituzione. Ci è, infine, sembrato di buon auspicio accogliere il pensiero positivo di giovani italiani e di giovani di seconda generazione.

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Workshop Italy We had to, we chose it, we worked on it and we thought about how to deal with such an heavy and compelling subject in a dossier of Pedagogika.it. At a certain point it seemed difficult to find a key to the read highlight and to make intelligible an “Italian spirit” that makes sense of 150 years National State history, particularly when great ideals and great passions seem to belong to another world and to another time. We often find ourselves in front of behaviors and styles of communication, even the public ones, that are cynic and in certain ways indigestible. Xenomania, localism, familism, individualism, and the lack of response to any, sense of national membership, more or less rhetorical, seem to be the distinctive features of a definition, though brief and limited, of the “middle Italian” identity typicalness. Nevertheless over the last few months we witnessed a jump of sensitiveness to the themes of the 150th anniversary of the Unity of Italy. Is everything explainable with the congenital (?) and proved skill of Italian people to recognize great dates? Or do we have to ascribe the merit of this to the strong impulse exerted by the President Napolitano, and to the indignant standing of important signatures? We have assumed that the question is much more complex and that it deserves to be analyzed thoroughly with the contributions of those who can propose interpretations of the odd relationship that binds Italian people to a fluctuant feeling of love for their country. A relationship which is from time to time perceived as the founding spirit of the unitary state, or instrumentally emphasized to support power politics, sometimes the way to regain moral and cultural energy to rebel against decades of depression and antidemocratic repression and to start a new constituent spirit. In different periods, intellectuals, young people, women and workers have been with their organizations actors of recurring revivals, every time, leaving scars of an invincible will of democracy and of national pride, and yet leaving room for recurring disorientations, weakening, deteriorations and attitudes of delegation to political and economic powers. In this dedicated to the 150th anniversary issue we strove to give a clearing contribution without overlooking historical, cultural, sociological and pedagogical scopes and contexts that could help us to find answers and, maybe, to ask new questions about the meaning of Risorgimento, Unity, Resistance and Constitution. In the end, it seemed of good omen to hold the positive attitude of young Italian people and of the young second generation people.

Dossier 9


Pedagogika.it/2011/XV_4/laboratorio_italia/Disoccupazione_in_Italia

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Nota sulla memoria pubblica della Resistenza La costruzione di un’autentica coscienza storica è una operazione culturale affatto estranea al problema pedagogico, perché in gioco vi è l’idea stessa di cittadino che si intende formare. E la conoscenza del passato è sempre un capitolo decisivo di questo processo di formazione. E qui ne va del compito che si assumerà la scuola in futuro Silvano Calvetto*

Le recenti polemiche scaturite dalla proposta governativa di far slittare alla prima domenica utile le festività civili, con l’intento neanche troppo velato di decretarne, di fatto, la soppressione, e quelle maturate a suo tempo in seguito alla scomparsa di ogni riferimento alla Resistenza nelle nuove indicazioni ministeriali in merito all’insegnamento della storia contemporanea, dicono qualcosa di significativo per quel che riguarda le difficoltà con le quali da più di sessanta anni, In Italia, ci si misura con il passato, in particolar modo con la Resistenza. Al di là, infatti, delle molte strumentalizzazioni messe in atto negli ultimi anni, vale a dire da quando si è storicamente consumata l’esperienza delle forze politiche che un tempo appartenevano al cosiddetto arco costituzionale, è evidente che la memoria di quell’evento abbia costituito nei decenni dell’Italia repubblicana un problema spinoso con il quale non si sono fatti i conti sino in fondo. Fallito il tentativo di costruire una memoria condivisa nella quale tutti potessero riconoscersi, gli eventi storici del biennio 43-45 sono diventati nel tempo sempre più un terreno di contesa politica ed ideologica e sempre meno il riferimento simbolico nel quale riconoscere la radice ideale della nostra convivenza democratica. Se negli anni Cinquanta Piero Calamandrei poteva parlare della Costituzione come della trascrizione giuridica dei principi e degli ideali della Resistenza, e se per molto tempo la memoria di quell’evento è sembrata un punto fermo nella rappresentazione collettiva del paese, da molti anni si assiste ad un processo di delegittimazione che sembra investire entrambe, là dove le ragioni di tale delegittimazione, in ogni caso, vanno al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni contingenti, ma sembrano affondare le proprie radici in un passato lontano, in cui, tra rimozioni ed esaltazioni, si è vanificato il tentativo di fare della Resistenza, per dirla con le parole di Gian Enrico Rusconi, la religione civile degli italiani. Provare, quindi, a ripercorrere, seppur in modo sintetico, i passaggi tramite i quali si è costruita la memoria pubblica di quell’evento può essere utile per comprendere alcune delle ragioni della sua attuale delegittimazione, con la consapevolezza di essere di fronte ad una complessa questione che, lungi dal poter essere confinata nel mero ambito politico-ideologico, o come questione riguardante esclusivamente gli storici di professione, ha a che fare con quella che è l’autorappresentazione

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stessa di una nazione: il racconto nel quale è inscritta la radice profonda della sua identità collettiva. Una questione, evidentemente, che chiama in causa la stessa coscienza pedagogica, poiché la costruzione della memoria pubblica di quell’evento si intreccia significativamente con quel vasto ed articolato processo di formazione etico-politica tramite il quale il paese ha tentato, a partire dal secondo dopoguerra, la propria via alla democrazia. E l’ha tentata attraverso un vero e proprio processo di formazione di massa che ha visto protagonisti diversi soggetti: i partiti politici, i sindacati, la scuola, gli intellettuali e larghi settori della società civile: tutti impegnati, in un modo o nell’altro, a definire i caratteri di una nuova cittadinanza democratica che rompesse con l’esperienza del fascismo. Un percorso, tuttavia, che non era esente da inciampi e contraddizioni, dove l’eredità di un passato scomodo era destinata a pesare nelle vicende sociali, culturali, politiche della vita del paese. Nell’ordine di questo processo, la costruzione della memoria pubblica della Resistenza ha giocato un ruolo simbolico rilevante, rappresentando per lungo tempo lo sfondo ideale nel quale tutti erano chiamati a riconoscersi. Un discorso pubblico che non poteva prescindere da una sua intrinseca intenzionalità educativa, nel segno di una pedagogizzazione diffusa che si articolava in diversi momenti e in diverse strategie: le ricorrenze celebrative, la produzione culturale, il ruolo della scuola, secondo la necessità di costruire un racconto organico, unitario dell’esperienza resistenziale nel quale tutti potessero, appunto, riconoscersi. Tale costruzione, tuttavia, ha vissuto stagioni diverse e contrastanti nei decenni passati, articolandosi lungo una traiettoria tutt’altro che lineare dove il peso delle ragioni politiche e culturali è stato naturalmente preponderante nel profilarne l’identità. Se negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, infatti, la memoria della Resistenza è sostanzialmente custodita nei percorsi di parte ma sostanzialmente rimossa dal dibattito pubblico - nulla di paragonabile, infatti, a quanto avviene negli anni immediatamente successivi alla guerra del 15-18, quando cippi, obelischi, aquile “prendono possesso di quasi tutte le piazza d’Italia”, come documentò a suo tempo Mario Isnenghi - è solo con l’avvento di una nuova stagione politica, contrassegnata dal boom economico e dai primi governi di centro-sinistra, che si costruisce una narrazione pubblica di quell’evento. È lì che si consolida una memoria plebiscitaria tendente a rappresentare la Resistenza come fenomeno unitario, coeso al suo interno, senza inciampi e smagliature, tacendo sia sulle pagine critiche e talvolta oscure che l’avevano segnata, sia sui conflitti interni tra i suoi stessi protagonisti, in nome di una rappresentazione nella quale tutti potessero riconoscersi: sia le forze moderate sia quelle progressiste. È lì che si consolida quel processo di imbalsamatura istituzionale, come già osservava Mario Giovana negli anni Sessanta, che caratterizzerà per lungo tempo la memoria resistenziale. Imbalsamatura istituzionale in cui l’esaltazione degli aspetti patriottici e militari gioca un ruolo di primo piano e che consente di amputare le istanze maggiormente innovative presenti nella lotta partigiana, fornendone un’immagine accomodante e rassicurante. Un discorso pubblico che si espone, quindi, al rischio di cedere alla retorica e all’agiografia. Prende così corpo, ad esempio, una

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narrazione che privilegia quasi esclusivamente la dimensione di guerra di liberazione della Resistenza, lasciando sullo sfondo gli elementi di classe che pure l’avevano connotata, ma soprattutto si tace sulla ben più delicata e compromettente dimensione di guerra civile che le era appartenuta, finendo per rimuovere non solo la conflittualità intrinseca tra gli stessi protagonisti della lotta partigiana, in nome del mito unitario che non si può infrangere, ma, soprattutto, quella verso la parte che nella Resistenza non si era riconosciuta: quella dei vinti. A lungo bandita dalla storiografia ufficiale, la dimensione di guerra civile della Resistenza è stata un tabù difficile da abbattere, consegnandola, tale dimensione, esclusivamente alle memorie dei vinti. Qui, forse, la radice di ogni rimozione e l’apertura, al contempo, al discorso pubblico plebiscitario sulla Resistenza. E la rinuncia ad assumere pubblicamente il conflitto come elemento cruciale di tutta la vicenda resistenziale, interno e insieme esterno, sembra essere il tratto distintivo di tutto un complesso ed articolato processo politico e culturale: “Dalla rimozione al plebiscito omettendo il conflitto, che rimane consegnato ai percorsi paralleli e ai meandri delle memorie di parte”, secondo l’illuminante sintesi di Isnenghi. È quindi evidente un salto, una vera e propria cesura nell’ordine di questo processo che non può passare inosservata: il silenzio pubblico degli anni Quaranta e Cinquanta e il fiorire di una memoria pubblica, plebiscitaria, negli anni seguenti, là dove il mutato contesto politico e culturale legittima un racconto della Resistenza che deve obbligatoriamente essere esemplare, magari al costo di amputarne le istanze più radicali ed innovative o tacendo sulle sue stesse contraddizioni. Ciò che conta, appunto, è costruire un’immagine della Resistenza che sia il più possibile spendibile ai fini di un discorso pubblico, diremmo oggi, politicamente corretto, pur se gravido di ambiguità e di reticenze. Con l’avvento della contestazione, delle effervescenze culturali degli anni Settanta si apre una nuova stagione nella quale si cominciano a mettere in discussione alcune delle certezze acquisite negli anni precedenti. Se la consolidata e nobile formula della “Repubblica nata dalla Resistenza” permane come nucleo simbolico del patto antifascista che da trent’anni costituisce l’architrave della biografia nazionale, dietro la crosta del mito unitario cominciano a manifestarsi le differenze. La “Resistenza rossa”, la “Resistenza tradita” sono formule che cominciano a circolare sempre più insistentemente, soprattutto nella sinistra extraparlamentare, nel tentativo di superare le rappresentazioni un po’ levigate della lotta partigiana in nome delle istanze emancipative che l’avevano segnata socialmente e politicamente. Per altro verso, permangono, e talvolta si incrementano, rappresentazioni maggiormente tese ad evidenziare gli aspetti patriottici e militari della lotta partigiana, spesso a scapito di quelli politici e sociali, secondo il modello interpretativo della cosiddetta “Resistenza tricolore”. Con il tempo diventa sempre più problematico sostenere un discorso pubblico capace di inglobare le differenze ed essere accettato da tutti, là dove la distanza culturale e politica tra gli stessi eredi dell’esperienza resistenziale, tuttavia, è solo la manifestazione di superficie di un problema ben più complesso e delicato: la rimozione permanente del conflitto

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tra i vincitori ed i vinti. Percorsi di parte e memorie di parte, in una progressiva disarticolazione di ogni rappresentazione unitaria del racconto resistenziale che pare ormai irreversibile. Rappresentazione che resiste nella sua dimensione retorica e celebrativa, ma che è ormai incapace di arginare un processo che si trascina dal dopoguerra. Così, di rimozione in rimozione, ci si avvia inesorabilmente verso il declino della memoria pubblica della Resistenza, come è evidente nella crescente disaffezione verso le celebrazioni del 25 aprile che sin dagli anni ottanta si rende sempre più manifesta. A quattro decenni dall’evento fondativo della Repubblica la maggioranza degli italiani dimostra ormai un disincanto destinato ad incrementarsi nel tempo; il racconto resistenziale è ormai al crepuscolo: un lento oblio che è il preludio a nuovi scenari politici e culturali. Ora, infatti, l’attenzione dei mezzi di informazione è sempre più puntata sui vinti, come se il paese, d’improvviso, riscoprisse il proprio passato fascista dopo averlo a lungo rimosso. Ed ecco allora la crescente produzione di libri, documentari, film dedicati a Mussolini, alla Petacci e ai gerarchi del fascismo, entro una dimensione che privilegia il privato sul pubblico e dà l’avvio al grande amarcord allestito negli ultimi decenni: non una severa autocritica dell’esperienza della dittatura e nemmeno una matura valutazione storica del fascismo, ma una lunga sequela di storie individuali sullo sfondo di una rappresentazione storica edulcorata in cui si fa strada una strisciante apologetica. Un continuo flusso di memorie che diviene il timbro di un’inedita moda culturale: la storiografia di massa. Mai come negli ultimi anni si è assistito al proliferare di iniziative editoriali, cinematografiche, festival culturali dedicati alla storia. Ultima astuzia dell’industria culturale, la storiografia di massa si presenta buona ad ogni consumo, perché nel privato assunto a paradigma storiografico ognuno può, guardando la storia dal buco della serratura, trovare una qualche ragione di compiacimento e di gratificazione individuale, senza porsi la questione della dimensione pubblica entro cui il privato si esprime. Con questo, però, viene anche meno la possibilità di costruire un’autentica coscienza storica relativa alla biografia della nazione, sancendo, forse, l’impossibilità di una memoria condivisa della Resistenza. Concetto ambiguo, d’altra parte, quello di memoria condivisa, che sembra più vicino ad una vaga e forse auspicabile mozione di principio piuttosto che ad una vera e propria strategia politico-culturale. Per costruire una memoria condivisa è necessario che il medesimo orizzonte simbolico, fatto di eventi storici, sensibilità culturali, affinità etiche e rimandi emotivi, sia fatto proprio da tutte le parti in causa e non come il risultato di una continua, e spesso arbitraria, opera di sottrazione, come da molti anni, e da più parti, si tenta di fare. Se in chiave retrospettiva si possono comprendere le ragioni politiche che legittimavano un’interpretazione un po’ levigata della Resistenza, in una democrazia fragile e sotto tutela com’era L’Italia nel tempo della guerra fredda forse non sarebbe potuto accadere altrimenti, meno comprensibili risultano oggi i costanti tentativi di riattualizzarne il significato – contro la vasta opera di delegittimazione in atto – attraverso un continuo lavoro di depotenziamento e di annacquamento delle sue istanze emancipative e di

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rottura, come se, oggi come ieri, il problema fosse sempre il medesimo: costruire un racconto della Resistenza capace di intercettare le più diverse e spesso contrastanti sensibilità culturali e politiche. Saltati gli equilibri sui quali ha a lungo poggiato il sistema politico del paese, rotti gli indugi morali e culturali, oltre che politici, che hanno consentito ogni sorta di possibile sdoganamento fino alle più spericolate forme di revanchismo, sembra ormai difficile immaginare una qualche forma di rammemorazione capace di restituire alla Resistenza il significato etico-politico un tempo attribuito. Memorie divise di un paese diviso, dove non si comprende quale dovrebbe essere l’orizzonte simbolico capace di riunificare tutti quanti. Più che una memoria condivisa, infatti, al paese sembra essere mancata una memoria egemone, e cioè un racconto capace non già di mostrare un vago sincretismo politico e culturale, bensì un orizzonte di significati in grado di valere di per se stesso, in forza della sua intrinseca portata di rottura storica. Se questo non è avvenuto è per molteplici ragioni che qui possiamo solamente evocare: la fragilità endemica della democrazia italiana, il complesso quadro internazionale del dopoguerra, le contraddizioni interne allo stesso antifascismo, la diffusione di una mentalità apolitica in molti settori della società civile ecc... Così, nell’altalenante andirivieni fatto di rimozioni ed esaltazioni, si è finito per smarrire la possibilità di costruire una narrazione del proprio passato capace di individuare proprio nella Resistemza il momento simbolicamente più alto del riscatto morale e politico di un intero paese, consegnando in eredità lacerti di una memoria gravida di vecchie ferite. A non essere mai stata presa seriamente in considerazione, in definitiva, è stata la spinosa questione relativa alla responsabilità degli italiani rispetto al fascismo. L’immagine di un paese vittima della dittatura mussoliniana, a prescindere da quella dose di corresponsabilità che sempre accompagna simili vicende storiche, ha da tempo mostrato la corda, anche se è stata a lungo funzionale ad alimentare l’idea che proprio nella lotta al nazifascismo il paese avesse ritrovato la propria verginità perduta. È così che la Resistenza è via via diventata l’alibi, come ha lucidamente sostenuto Gianni Oliva, grazie al quale gli italiani hanno evitato di fare i conti con le proprie responsabilità storiche, la foglia di fico dietro la quale nascondere un passato imbarazzante. Ed è in questo senso che sembra legittimo insistere sul mancato confronto tra i vincitori e i vinti come la chiave di tutte le rimozioni che hanno accompagnato i decenni dell’Italia repubblicana. L’assenza di una memoria egemone di quel cruciale evento storico sembra infatti profondamente legata al vuoto che si è creato nella dialettica di rimozione ed esaltazione, e cioè l’incapacità di sostare in quello spazio intermedio tra i due estremi che altro non è se non lo spazio della critica, del confronto, della crescita, della presa di consapevolezza, anche difficile e dolorosa. Certo, come spesso si afferma, si tratta di ricondurre la Resistenza nell’alveo della storia nazionale, pur nell’avvertenza dell’eccezionalità di quel momento storico, ma non per stemperarne o peggio rimuoverne il significato, bensì per restituirgli il ruolo cruciale che gli spetta nella biografia della nazione. Se è vero, infatti, che la costruzione della memoria pubblica di quell’evento

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ha finito spesse volte per essere piegata a logiche politiche e culturali che ne hanno profondamente alterato il suo senso più profondo, ciò non toglie che la Resistenza costituisca storicamente lo scontro fondativo dal quale scaturisce la nostra recente storia nazionale. Tra la rimozione e l’esaltazione si può forse recuperare lo spazio per la costruzione della coscienza storica, nel tentativo di riconciliarci davvero con la storia d’Italia. Nella convinzione, tuttavia, che ciò sia possibile solamente a due condizioni: innanzitutto, quella affatto scontata di scegliere la memoria contro l’oblio; la seconda, non meno rilevante, di rinunciare a qualsiasi rappresentazione agiografica e rassicurante di quell’evento in nome dell’intrinseca conflittualità che lo ha segnato. “Il groviglio spinoso del 43-45” è stato davvero “la tragedia necessaria” attraverso la quale gli italiani, anche i voltagabbana, hanno avuto l’opportunità di riscattare la corresponsabilità con la dittatura fascista, il duro passaggio che avrebbe aperto nuove vie per la democratizzazione del paese. Una nuova consapevolezza capace di alimentarsi di queste esigenze sembra essere la condizione necessaria per fare i conti con un passato che continua a non passare. Nella convinzione, soprattutto, che la costruzione di un’autentica coscienza storica sia una operazione culturale affatto estranea al problema pedagogico, perché in gioco vi è l’idea stessa di cittadino che si intende formare. E la conoscenza del passato è sempre un capitolo decisivo di questo processo di formazione. E qui ne va del compito che si assumerà la scuola in futuro, quando non sarà più possibile eludere la recente storia nazionale in nome della necessità di distanziamento temporale dall’evento in oggetto: la Resistenza è già oggi un capitolo di storia anziché di cronaca e lo sarà ancora di più in futuro. E se tale vicenda storica contiene un qualche significato pedagogico esso, forse, non risiede tanto nella moralistica contemplazione di modelli ritenuti astrattamente esemplari, né, tanto meno, nel custodire un feticcio al riparo dal vaglio critico della storicità, bensì nella rappresentazione etica e insieme pedagogica che quella vicenda storica mette in scena: il tema della scelta. Tra il 43 e il 45, infatti, gli italiani, volenti o nolenti, furono costretti a scegliere, come documentò a suo tempo Claudio Pavone in quello che resta un caposaldo della storiografia resistenziale: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Sappiamo bene che solo una parte di essi prese la strada delle armi, che una parte cospicua del paese non visse direttamente quell’esperienza, e sappiamo anche che la stessa scelta partigiana fu dettata dalle ragioni e dai sentimenti più diversi, e che raramente fu accompagnata da una salda consapevolezza politica, muovendo piuttosto da un retroterra in larga parte prepolitico. Eppure proprio il tema della scelta, come anche le migliori pagine della letteratura resistenziale insegnano, non solo sta al centro di quella complessa vicenda storica, ma rappresenta un altrettanto cruciale questione pedagogica: che ne è di ognuno di noi di fronte alla responsabilità di decidere cosa diventare. Se c’è un’esemplarità pedagogica della Resistenza essa risiede proprio in questa decisiva rappresentazione. E non è cosa di poco conto.

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Se è vero, in ultimo, che scegliere è sempre questione di tipo soggettivo, ciò non esime dalla responsabilità collettiva di decidere, oggi, quale memoria pubblica del nostro passato intendiamo costruire, non per annacquarlo in un qualche sincretismo culturale politicamente corretto, o torcerlo strumentalmente alle esigenze del presente, ma per poterci misurare criticamente con esso senza indugi e senza timori. È in questo senso che il passato può insegnare qualcosa al presente. E forse solo in questo senso. * Ricercatore di Storia della Pedagogia, Università degli Studi di Torino Bibliografia Artom E., Diari. Gennaio 1940 febbraio 1944, Milano, Centro di documentazione ebraica contemporanea, 1966 Battaglia, R., Storia della Resistenza italiana, (1953) Torino, Einaudi, 1964 Bocca, G., Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943 – maggio 1945, (1966) Milano, Mondadori, 1995 Calamandrei F., La vita indivisibile. Diario 1941 – 1947, Roma, Editori Riuniti, 1984 Calamandrei P., La costituzione e le leggi per attuarla, in AA.VV., Dieci anni dopo. Saggi sula vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955 Calvetto S., Scuola ed etica della Resistenza, in “Pedagogika.it”, n. 1, 2004 Calvetto S., L’educatore Pietro. Il commissario politico come figura pedagogica della Resistenza, Torino, Tirrenia Stampatori, 2006 Cambi F., Antifascismo e pedagogia (1930-1945). Momenti e figure, Firenze, Vallecchi, 1980 Chiarini R., 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, Venezia, Marsilio, 2005. Chiodi, P., Banditi, (1960) Torino, Einaudi, 1975 De Luna G., Revelli M., Fascismo/Antifascismo: le idee, le identità, Firenze, La Nuova Italia, 1995 Erbetta A., Scuola Costituzione Resistenza, in “Pedagogika.it”, n. 1, 2004 Focardi F., La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005 Galeazzi M., (a cura di) A scuola di storia. Il Novecento tra memoria e futuro, Rho (Mi), Stripes, 2009 Giovana M., Storia di una formazione partigiana, Torino, Einaudi, 1964 Isnenghi M., Memoria pubblica della Resistenza, in AA.VV., L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella resistenza, Milano, Franco Angeli, 1988 Isnenghi M., La tragedia necessaria. Da Caporetto all’otto settembre, Bologna, Il Mulino, 1999 Madrussan E., Il bandito Valerio: educatori del tempo, in “Pedagogika.it”, n. 1, 2004 Oliva G., I vinti e i liberati. 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945, Milano, Mondadori, 1994 Oliva G., L’alibi della Resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2003 Pavone C., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 Pintor G., L’Ultima lettera, in V. Gerratana (a cura di) Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1950 Quazza G., Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976 Rusconi G., Resistenza e postfascismo, Bologna, Il Mulino, 1995 Tranfaglia N., Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo, Roma-Bari, 1996 Zorini F., La formazione del partigiano. Politica, cultura, educazione nelle Brigate Garibaldi, Vercelli, I.S.R.P., 1985

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Eh, sì. Siamo messi male, c’è poco da stare Sono cresciuto in un paese che allora era camallegri. Il Corrierone, scopiazzando un’ana- pagna, i libri che circolavano erano pochi, veloga iniziativa del “Sole 24 ore”, ha allegato nivano venduti in un negozio che tra le altre al giornale alcune brevi racconti di scrittori cose vendeva tessuti, giornali e un’altra quanitaliani. Iniziativa, per l’appunto e comun- tità di merci improbabili. I libri occupavano que, lodevole, se non fosse che ad aprire la un posto rilevante all’inizio dell’anno scolastiserie di questa piccola collana denominata co, erano soprattutto libri di testo delle scuole “Inediti d’autore” troviamo la firma di Fa- medie inferiori e delle scuole elementari. Non bio Bonetti, in arte Fabio Volo. Titolo della c’era biblioteca pubblica nel paese, la più vistoria: La mia vita. Tranquilli, non è un’au- cina era ubicata in un paese limitrofo e aveva tobiografia del celebre orari di apertura al pubconduttore televisivo blico piuttosto impro(e, per altro, bravo atbabili, al punto da rentore, quel che è giusto derne difficile l’accesso. è giusto…), ci mancheQuando si riusciva ad rebbe!, ed è pure leggientrarvi si era quasi rebile… Insomma, poteva spinti da un ambiente andarci peggio, molto freddo ed umido e da peggio. Poteva, ahinoi, una luce piuttosto fioca capitarci un testo della che rendeva difficoltoDaria Bignardi o, chissa la lettura dei titoli. sà, di Franceschini, il cui I libri erano circondati primo romanzo, udite dunque da un’aureola udite!, è stato tradotto di mistero che li rendepure in Francia, la patria va oggetti affascinanti di Proust e di Céline. E’ e lontani da un lato, inutile tuttavia che ci difficilmente collocalamentiamo! Troppo cobili dall’altro,perché modo, troppo facile! La nell’acquisto misti ad colpa è nostra, solo nostra. Lo dicono tutti, altri oggetti dagli usi più improbabili e lonlo attestano impietosatani. mente le statistiche: in D’altra parte non è che Italia non si comprano l’accesso fosse favorito e Antonio Franchini libri, si legge poco. E, incentivato dalla scuola, Memorie forse, se si dà un’occhiaanzi forse la scuola per di un venditore di libri ta alle classifiche, anche certi versi disincentiMarsilio Editori, Venezia male. Che si può fare? vava la lettura, propo2011, pp. 80, € 9,00 Diciamo che, quanto nendo al più l’accesso meno, non si può non a racconti edificanti e

Ambrogio Cozzi

Angelo Villa

A due Voci


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condividere il pessimismo di Procolo Falanga, napoletano, venditore di libri nel meridione del nostro Paese: “Sentite a me, ch’io so’ zoccola vecchia! Trent’anni di marciapiede! Sentite a me: ‘e libri nun se vendono! Ma nun è che nun se vendono mo’. ‘E libri nun se so’ venduti maie!”. Chiaro? Siamo realisti, è così! ci sono libri che escono dalla tipografia come se avessero un bollino giallo con su scritto “vado e torno”, cioè esco dal magazzino e vado a finire subito nelle rese, gli fa eco un altro collega. E ancora: quando un giovane funzionario, assunto dall’Editore (una parodia di Arnoldo Mondadori), si rivolge al nostro Procolo per chiedergli un parere sui libri dell’anno, la risposta del nostro venditore gela subito qualsiasi entusiasmo: buoni per accendere il fuoco, sentenzia, in dialetto campano. Il funzionario chiede spiegazioni. La risposta sarcastica di Procolo è implacabile: “Sentite, io capisco che scegliere libri è nu mestiere difficile. Capisco ca ccà tutti vonno scrivere e nisciuno vo’ leggere, però, dico io, primma ‘e ci presenta’ ‘sti libri passavate ‘na mano ‘ncoppa ‘a cuscienza!”. Mentre ora? Che succede? Il giovane funzionario si infervora, ma Procolo non arretra. Lui cita un poeta, Nicola Cattabiani, che definisce di culto per la sua generazione. Procolo lo conosce personalmente e racconta come in passato abbia più volte tentato di dissuaderlo: “Ero io che gli dicevo sempre Nico’ non scrivere chiù poesie! Nun te fa tentà! Ma isso niente, niente da fare. Scriveva! La vocazione! La vocazione? La vanità sentite a me, è chiù forte della vocazione!”. Voi vi starete domandando, a questo punto chi sia il lucido Procolo Falanga? E’ il protagonista dello spassoso e iperveridico racconto di Antonio Franchini: Memorie di un venditore di libri, per l’appunto. L’occasione è data da un incontro, metà lavoro metà gita premio, tra operatori del settore libra-

assurdi volti a formare il carattere e la morale di noi alunni, almeno nelle intenzioni degli insegnanti. Era difficile considerare i libri una merce tra altre merci, non fosse perché nell’immaginario sembravano garantire l’accesso ad un mondo altro, meno asfittico rispetto a quello in cui si viveva. Le Memorie di un venditore di libri di Antonio Franchini parlano di ciò che precede l’accesso ai libri da parte dei lettori. Procolo Falanga di mestiere non fa lo scrittore o il libraio, ma il venditore di libri in senso lato. E in senso strettamente commerciale, lui i libri va a proporli al libraio, a “piazzarli” anche nelle più lontane cartolibrerie o spacci del meridione d’Italia, a spingerli perché vendano. In trent’anni di mestiere lui ne ha viste di cotte e di crude girando per una serie di simillibrerie del Sud. C’è infatti da riorganizzare la rete-vendite e allora si tratta di andare a trovare i “librai” per chiudere i conti e riprendersi i volumi. Viene così descritta una nuova dantesca discesa agli inferi, tra uno che nasconde i libri del Pavone o della Stella d’oro sotto il letto “perché qua, sapete, i ragazzi se li arrubbano”, e il panettiere cui i libri erano stati dati per allargare il mercato e che li aveva bruciati nel forno, mentre un altro a Grottaminarda li teneva tra le salsicce della macelleria. Oppure in Calabria dove i libri erano affidati a chi vendeva anche i giornali, ovvero ai barbieri, e allora i libri arrivavano segnati dai luoghi che avevano attraversato, infarciti di capelli e peli che come un marchio ne segnavano la storia, oppure l’incontro a Eboli con un ragazzo che Procolo aiuta a crescere ma che poi gli si rivolta contro e arriva a dirgli “tu ti devi stare attento perché poi io sovvenzioni all’Editore”, oppure nella villona di un riccone, con la moglie incerta sugli acquisti per darsi un tono, così da proporre di attendere il rientro della figlia che sta all’università “Signò- la gela il nostro – è peggio ancora, perché vo-

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rio a Vienna. Di questo incontro, Franchini dà uno spaccato divertente raccogliendo frammenti di dibattito, scambio di battute, fotografando scenette fantozziane. Un libro breve e piacevole che disegna con ironia un quadro della nostra situazione culturale. In primo piano ci sono le amare ed esilaranti dichiarazione del “povero” Procolo, tutto impegnato a battere il territorio dell’Italia meridionale nel tentativo di piazzare qualche libro. Un “Don Chisciotte” che non ha perso il gusto di un umorismo sarcastico, profondamente antiretorico, per quanto faccia un triste mestiere. I libri non si vendono, non si sono mai venduti, è, come avrete capito, il suo motto. Non per questo, il nostro Procolo ha cambiato lavoro. Per la dedizione, per il coraggio, per la tenacia, è un eroe. L’autore, anche lui napoletano, ha ripreso il nome del personaggio dal protagonista da un racconto dal titolo Su alcuni aspetti del mercato del libro del Mezzogiorno d’Italia, comparso nell’antologia Disertori, pubblicata da Einaudi. Franchini dice d’aver voluto mettere in luce una figura poco conosciuta dell’universo librario, non il negoziante che tutti, più o meno, conoscono, quanto meno quando è una persona amante del suo lavoro, conoscitore dei testi e non un semplice e anonimo commesso, come accade nei grandi magazzini di distribuzione di “prodotti” culturali, ma sul “salesman”, cioè il primo anello della catena, l’uomo che vende i libri al libraio. Sia come sia, Procolo vi diverrà subito simpatico e vi farà sorridere amaramente sulla nostra pochezza o, se volete, sul nostro velleitarismo culturale. Leggete, leggete, dunque! Appello, invocazione che, ragioni anagrafiche, mi permettono di indirizzare in particolare ai giovani, manco fossi Napolitano o Obama. Certo, i libri costano, anche se molto meno di altri oggetti. Certo,

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stra figlia manco’e capisce. Con l’aggravante ch’è studentessa. Cuie almeno site ignorante e vabbe’”. Uno che dice le cose come stanno, che racconta cosa sia il mercato del libro con i suoi occhi esperti: una sofferenza perché “Sentite a me: e’libri nun se vendono! Ma nun è che nun se vendono mo’. E libri nun se so’ venduti maie!”. Memorabile allora l’incontro con il poeta Cattabiani “E’ l’autore della raccolta La dissimulazione del decoro. Quante copie se ne venderanno, dite!” malignano i colleghi davanti all’autore, attendendo la risposta dissacrante di don Procolo “Quante copie? Ma chistu è nu bollino giallo, direttamente. Un bollino giallo? E che cos’è un bollino giallo? Sono i libri che, appena escono dalla tipografia noi diciamo che è come se avessero sopra un bollino giallo con su scritto vado e torno, cioè esco dal magazzino delle novità e vado a finire subito in quello delle rese… Ma vuie ca parite nu bravo giovane, ma pecchè scrivite ‘sti poesie? Ma nun ce pensate a nuie che l’amma a vendere?”. Eppure diventeranno amici, e questa amicizia si riverbererà in un riconoscimento postumo a Madrid. Ironia e amarezza si mescolano in questo testo, dove si sa che il libro non è riducibile a merce, dove si cerca continuamente l’allargamento del mercato, essendo però sempre pronti alla disfatta, perché i libri non sono riducibili alla materia di cui sono fatti, eppure devono comunque stare sul mercato. Parecchi anni fa Einaudi aveva pubblicato un testo dal titolo Guida alla formazione di una biblioteca pubblica o privata, il libro suscitò un vivace dibattito sul numero 40 di Quaderni piacentini. Vorrei invitare a rileggere quel dibattito in parallelo con la lettura di questo testo. Il tema è lo stesso, a parte la differenza di stile. E’ un invito serio, a chi fosse interessato propongo di farlo sapere in redazione e farò avere


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anche se poi, per chi li frequenta, specie di questi tempi (ma Procolo obietterebbe che, comunque…), la loro lettura e la loro conoscenza non garantiscono un seppur minimo riconoscimento a livello professionale, sul piano di un adeguato riscontro economico. Ne sanno ben qualcosa i ricercatori universitari e altri disperati colti del settore. Proposte? Soluzioni? Coraggio, può darsi che da qualche parte una via d’uscita (o d’entrata?) ci sia. Per tenersi su, leggete (ancora? Ebbene sì…) il romanzo di Jess Walter, La vita finanziaria dei poeti (Guanda Editore), il titolo è tutto un programma. Un uomo di quarant’anni, giornalista economico, padre di famiglia, si trova improvvisamente sul lastrico, senza un soldo, mentre la moglie “chatta” con il fidanzato delle superiori e lui… Matt Prior, questo il nome del protagonista, avrebbe anche delle idee per risollevarsi, tipo quella alquanto bizzarra e originale di trovare un modo per sposare versi liberi e consulenze finanziarie, visto che per lui la “poesia fiscale” rappresenta l’unione perfetta tra la sovraccarica parte sinistra del cervello, quella analitica sempre impegnata a compilare liste e l’apparentemente ignorata parte destra, quella creativa. Chissà cosa ne penserebbe Procolo? I poeti, ah i poeti, la letteratura e poi, e poi: cosa tocca poi fare per campare… Il romanzo di Walter è ben scritto e gustosissimo. Non perdetevelo, anche qui vi divertirete. Un’affinità elettiva sembra legare Procolo a Matt, due gemelli lontani, armati della stessa spietata ironia. I libri, i libri non si vendono, i poeti mal sopravvivono… Non è un buon segno.

le fotocopie di quegli articoli, ormai introvabili. Si può ridere, ma il problema rimane di cosa farsene dei libri, perché la capacità ironica e lieve di don Procolo non deve andare persa, perché e’libri? …Nun se vendono… ricordatelo! E meditate sulle strategie estive degli editori e alle polemiche sui prezzi scontati, che sono sfociate in un blocco degli sconti per legge… ne abbiamo di strada da fare e forse Procolo Falanga ci può insegnare qualcosa.

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Scelti per voi

a cura di Ambrogio Cozzi

libri

libri, cinema, musica

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Elisabetta Musi Invisibili sapienze. Pratiche di cura al nido Junior, Parma 2011, pp. 200, € 20,00 I repentini cambiamenti socio-culturali che caratterizzano l’attualità hanno portato ad una “riorganizzazione complessiva delle relazioni, degli scenari di vita, dei comportamenti, che ha concorso ad una profonda trasformazione della famiglia”. Questo richiede a quanti rivestono responsabilità educative di coltivare uno sguardo critico e profondo, imparando a leggere le contraddizioni del presente e i bisogni educativi che vi sono nascosti, ripensando i luoghi tradizionalmente educativi – a partire dai servizi per l’infanzia – come occasioni formative per gli adulti, in cui stabilire alleanze, rafforzare competenze, inventare nuovi modi per crescere insieme e per sostenere i processi di crescita dei più piccoli. Alla luce di queste considerazioni, il volume di Elisabetta Musi sottolinea con chiarezza e rigore la necessità che i servizi per la prima infanzia si attivino per dare voce, rilievo, legittimità educativa ai saperi di cura, i quali rischiano di risultare non visti, intrappolati come sono nei ritmi frenetici dell’agire quotidiano che appiattisce e snatura. A questo proposito l’autrice punta a risignificare le strategie operative che vengono utilizzate con i più piccoli, e

questo a partire da un’attenzione alla vita emotiva, che implica la capacità di stare in ascolto di sé, mantenersi vigili rispetto alle proprie azioni, indagare le motivazioni che soggiacciono alla professione, abbracciare e fare proprio lo sguardo intriso di stupore e meraviglia dei bambini, interpellare tutti gli organi di senso, per riappropriarsi di un vedere privato delle lenti oscuranti dell’abitudinarietà e della frettolosità. L’invito è di sviluppare e affinare l’attitudine a interrogarsi, ad accostarsi alla relazione educativa con atteggiamento riflessivo, per rilevare quegli elementi di continua novità che si offrono all’incontro non in forza della loro evidenza ma in virtù della sensibilità dello sguardo che li coglie. A questo proposito Elisabetta Musi, esplicitando l’orientamento fenomenologica come guida per l’osservazione della realtà, suggerisce un percorso formativo sui temi della vita emotiva (a cui è dedicata la prima parte del testo) attraverso una serie di schede di lavoro e di proposte formative con cui dare concretezza agli stimoli teorici. L’idea è frutto di anni di attività di formazione con numerose educatrici di nido, i cui pensieri sono raccolti nella seconda parte del volume. Ad essi fanno seguito le testimonianze di mamme e papà incontrati dall’autrice in serate pubbliche o in gruppi di approfondimento all’interno dei nidi (terza parte). Attraversando così le affascinanti ed intricate maglie della vita emotiva di adulti e bambini, l’autrice mostra quanto il lavoro di cura abbia bisogno di essere riconosciuto attraverso le forme della parola scritta (i racconti delle educatrici sono infatti frammenti di diari professionali sca-


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turiti dai percorsi formativi). La scrittura fissa, imprime senza comprimere, libera, si estende, consente ritorni e rivisitazioni, si rende “critica” nei confronti di chi si affida ad essa, non giudica, interpella, richiama, evoca, testimonia, sottrae alla penombra, lascia traccia, ricorda, si lascia rileggere, aggiungere, cancellare, “ci rimette agli occhi quanto proviamo a scansare”, induce a riflettere… Soprattutto conferisce significato, valore, fecondità ad un lavoro che si configura come una ricerca continua, ricca, inesauribile. Un lavoro che si fonda sulla tessitura umile e paziente di dialoghi quotidiani e delicate alleanze tra educatrici e genitori. Questi primi legami, che schiudono la genitorialità al mondo esterno e stabiliscono intense complicità e sintonie, rappresentano una tappa fondamentale nella costruzione di una rete sociale che deve riportare al centro dell’attenzione collettiva l’infanzia e l’educazione, beni inestimabili, la cui difesa, promozione ed evoluzione devono configurarsi come condizione prioritaria per lo sviluppo dell’intera comunità. Eleonora Negri Stefano Ciccone Essere maschi. Tra potere e libertà Rosenberg & Sellier Torino 2009, pp. 252, € 18,00 Stefano Ciccone è impegnato da più di vent’anni nella riflessione sulla differenza di genere e in particolare nella ricerca sul maschile, dialoga con le esponenti del pensiero delle donne e si confronta all’in-

terno di gruppi di uomini, riflette su di sé con profondità e interviene in pubblico per presentare il punto di vista di un maschio critico. Nel suo libro presenta questa ricerca pluridecennale, le sue difficoltà, i risultati raggiunti e propone una serie di piste per la prosecuzione del lavoro. L’alternarsi della prima persona singolare e plurale mette in evidenza lo stretto intreccio tra percorso personale e ricerca collettiva che sta alla base del libro. Anziché nascondere il suo vissuto, come detta la tradizione maschile, dietro una pretesa di oggettività scientifica, l’autore lascia che dalla trattazione della problematica emergano a più riprese le vicende della sua storia personale, praticando nella scrittura stessa quella ricerca che, tra l’altro, vuole riscoprire la soggettività maschile, liberata dalla necessità di parlare sempre del mondo e mai di se stessa. “Questo libro non è un libro sul mondo (la guerra, la violenza, i saperi, la politica), ma sul mio essere uomo nel mondo e su come, dalla mia personale esperienza, cerco di leggere i saperi, di praticare la politica, di pormi di fronte alla violenza” (pag. 9). Con queste parole si apre il libro, che si conclude, alla fine di un capitolo sui problemi aperti, proponendo: noi uomini “dobbiamo disimparare quello che sappiamo su di noi e sul nostro stare nello spazio, che abbiamo sempre percepito come naturale, per scoprire una diversa potenzialità delle nostre relazioni e del nostro corpo, per trovare una nuova e diversa libertà” (pag. 245). L’idea fondamentale di Stefano (seguendo il suo esempio, non nasconderò di essere amico dell’autore né di aver incrociato più volte il percorso di cui il libro riferisce) è che all’origine dell’identità maschile che, attraverso una lunga evoluzione culturale, abbiamo ereditato

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c’è una scissione tra il soggetto e il suo corpo. Da tempo immemorabile l’uomo ha costruito per sé una soggettività disincarnata, condannandosi a convivere con la miseria del proprio corpo negato. Questa scissione viene attribuita allo scacco percepito confrontando il corpo femminile, centrale nel processo riproduttivo, con quello maschile che vi svolge una funzione accessoria, cui l’uomo avrebbe reagito svalutando la corporeità, luogo del primato femminile, e riducendola a strumento di una mente privata delle limitazioni fisiche. Gli uomini non soddisfatti di questa eredità dovranno quindi riscoprire la propria corporeità, reimparando a frequentare i propri limiti – fisici e non solo – e a riconoscere e valorizzare il proprio desiderio. E’ su questa strada che potranno scoprirsi capaci di prendersi cura e ritrovarsi a proprio agio nella dimensione della relazione, accedendo così a una nuova posizione nel mondo. Il sistema di potere maschile, costruito per tenere sotto controllo il corpo procreatore della donna, è anche servito – sostiene Stefano – a difendere l’uomo dalla relazione, questo luogo troppo inseparabile dalla corporeità e dall’emotività per essere frequentato impunemente da chi ha bandito queste dimensioni dalla propria consapevolezza di sé. Solo rielaborando la scissione ancestrale di sé dal proprio corpo è dunque possibile a noi uomini scoprire il mondo delle relazioni come terreno amico e provare a sentirlo nostro, un terreno sul quale è possibile la libertà di un soggetto che non si percepisca come individuo isolato. Anche la possibilità di essere padri, in un mondo in cui la paternità tradizionale si è sostanzialmente dissolta, è legata alla frequentazione del

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corpo, del proprio corpo di padre e quindi anche del corpo del figlio e della figlia, aprendo così lo spazio ad una paternità centrata sulla relazione. Si tratterebbe di una paternità non più autofondata, bensì costruita nella relazione a partire dalla condizione di terzo, di altro, rispetto alla coppia primaria madre-figlio/a. In quanto uomo, Stefano si sente chiamato ad impegnarsi in prima persona nello sforzo di comprendere le radici della violenza sulle donne; come uomini non possiamo infatti limitarci a combattere le azioni degli uomini violenti, senza riconoscere ciò che abbiamo in comune con essi e in che modo le loro azioni parlano di noi e del nostro essere uomini. Ed ecco che ci ritroviamo alle prese con la miseria del corpo maschile negato, che, impedendo agli uomini di percepirsi come desiderabili, li ha portati a costruirsi una sessualità fondata sul prendere, che sia col denaro o con la forza. Non stupisce in questo quadro che Stefano, di formazione marxista mai rinnegata, operi una critica severa della tradizione comunista da un punto di vista del genere, giungendo tra l’altro a posizioni nonviolente, per il rifiuto di quel virilismo nella cui costruzione la violenza gioca un ruolo così rilevante. Stefano Ciccone non è credente, anche se si è trovato in più occasioni a confrontarsi con dei credenti. Ma letto con gli occhi di un credente, il suo libro risulta ricco di spunti teologici. In particolare, non si può non riconoscere quanto possa essere fecondo il tema del corpo negato per una riflessione teologica critica. Nonostante al centro della fede cristiana vi sia l’incarnazione di Dio, la storia del cristianesimo. dominata dal potere maschile, potrebbe essere raccontata come la storia della ri-


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mozione di questa centralità del corpo (l’eterno ritorno del docetismo: Dio in Gesù Cristo, sembrava umano, non lo era veramente). Coerentemente, la fisicità con cui l’Antico Testamento parla di Dio è stata quasi completamente rimossa dal cristianesimo. La stessa difficoltà ad immaginare Dio al femminile è da collegare a questa non volontà di percepirne la fisicità, considerata una caratteristica femminile in conseguenza della rimozione maschile del proprio corpo. La ricerca teologica delle donne, che su questo argomento ci ha già proposto molte scoperte preziose, potrebbe essere ulteriormente arricchita da un punto di vista maschile che, mentre riscopre la propria corporeità, esplora quella di Dio. In questo percorso forse dovremo riconsiderare la squalifica protestante della rappresentazione del corpo crocifisso di Gesù. Anche la promessa della resurrezione dei corpi potrebbe essere rivisitata, scoprendone il carattere liberatorio: per gli uomini si potrebbe trattare della promessa di una liberazione dalla scissione dal proprio corpo (liberazione futura, certo, ma ricca di conseguenze sul presente). Viceversa, la consapevolezza dei propri limiti è un tema caro a noi protestanti, rispetto al quale potremmo muoverci con scioltezza anche sul terreno nuovo della ricerca maschile. Particolarmente interessante mi pare la proposta di costruire “un’etica del limite e della relazione” (pag. 75), che liberi gli uomini dalla pretesa di essere sovrani di sé e del proprio corpo e dalla conseguente solitudine, anche nell’assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, una lettura altamente raccomandabile, almeno a chi è impegnato in una riflessione sul genere o desidera

iniziarla, in particolare per gli uomini. Tra l’altro le note (ancor più della bibliografia finale) sono ricche di riferimenti bibliografici di grande interesse e mostrano come la riflessione esposta nel libro si sia svolta in dialogo innanzitutto con il pensiero delle donne, ma anche di diversi uomini che, ciascuno a suo modo, hanno iniziato ad indagare sulle contraddizioni del maschile. Un ultimo apprezzamento per la copertina, che riproduce Prigione detto Atlante, di Michelangelo, eloquentissima immagine dell’uomo che cerca di districarsi da un’identità granitica che lo ha portato e imprigionato per millenni. (Questa recensione è stata scritta e apparirà per la rivista Gioventù Evangelica n. 217) Daniele Bouchard Paola Gaiotti de Biase Passare la mano. Memorie di una donna del Novecento incompiuto Viella, Roma, pp. 352, € 28,00 Sono naturalmente molti i possibili percorsi di lettura all’interno del libro di Paola Gaiotti, eppure si compongono in una scrittura fluida, nell’armonia di pagine che raccontano una vita e le sue complessità, intrecci di piani multipli, tra loro però non separati. La scelta anzi di mantenere continuità e non separatezza tra i diversi ambiti dell’esistenza, tra pubblico e privato, appare come esplicita, dichiarata. Si tratta talvolta di una notazione rapida, su un evento, un incontro, apparentemente

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poco rilevanti, che hanno contribuito però a fissare la memoria; a volte è una breve osservazione, affettuosa, a proposito del figlio o di Angelo, il marito non solo amato ma alleato in molti progetti, propositi, scelte o delusioni politiche. Questo parlare di sé, accedere a una dimensione privata, mentre il discorso si sta svolgendo su piani diversi non coglie però di sorpresa chi conosca Paola, se ne riconosce l’intenzione e anche la capacità di tradurla in apparente semplicità nella parola scritta, ma questo non impedisce che si provi un’emozione come se si risentisse la sua voce, che si alza per esprimere un’opinione, un giudizio con quell’onestà disarmante e diretta che le è costata nella vita, ma da cui non si è mai allontanata. Una voce che però poi può abbassarsi, divenire più confidente e capace di costruire una sorta di spazio di intimità con chi ascolta, con chi legge. Dunque una scrittura che si muove continuamente, mantenendo e ricreando sempre nuovi equilibri tra pubblico e privato e nelle pagine in cui questo intreccio è dichiarato, la scrittura si affretta piacevolmente per creare un reticolo di rispondenze tra i due piani. “Non si può ricostruire tutto l’intreccio fra il pubblico di quegli anni e il privato della vita famigliare. Il pubblico andava dalla guerra di Suez e dalla rivolta d’Ungheria (…) alla morte di Pio XII e all’elezione di Giovanni XXIII (…) ma in questi stessi anni finalmente toccava a me diventare mamma. Amalia di Valmarana alla notizia della mia gravidanza, che arrivava dopo sette anni di matrimonio, in cui tutti si erano abituati alla mia disponibilità, disse: “E’ un colpo di Stato”. Eugenio nacque il 4 settembre 1958” (pag.98) D’altronde gli intenti e i significati che

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l’autrice intende attribuire al suo libro autobiografico e alla sua scrittura – ed è questo il primo percorso che ho scelto di privilegiare nella mia lettura – sono dichiarati fin dalla premessa, in cui la decisione di scrivere di sé, necessariamente anche come coprotagonista di storie collettive, politiche, ma anche di ricerca di fede e di possibili connessioni tra i due piani a un tempo pubblici ed esistenziali, questa scelta può muoversi tra un riconosciuto ‘egocentrismo’ e un ‘bisogno dell’anima’, tutti personali, che si legano però a una più generale ‘passione vera per la storia’. Paola è una storica, la sua è stata una vita anche di studio e di ricerca, di apertura di nuove possibilità, di nuove attenzioni all’interno della sua stessa disciplina e così, nella scrittura di memorie, la storia individuale prende senso, si innerva nella corrente di quella collettiva, sociale e politica, e Paola lo dichiara con la sua (abituale) perentoria autorevolezza. “Senza una consuetudine, un confronto con la storia (quella collettiva e quella personale degli altri che ci sono, in un modo o nell’altro, vicini, anche soltanto per averci appena preceduto), nessuno può apprendere pienamente e criticamente sé stesso, può guardarsi dentro per decidere consapevolmente di sé, può esercitare quella libertà che nasce solo dal capire le sue eredità, le sue risorse, le sue opportunità. Scrivere di sé, di come una fra tanti ha vissuto questo scorcio di storia, allora si giustifica come un invito e uno stimolo in più a prendere, come che sia, coscienza delle trasformazioni del nostro tempo, delle occasioni mancate, delle illusioni e degli errori che l’hanno segnato, delle forze che l’hanno animato” (pag.16). La scrittura del libro dunque si muove


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tra una centralità del soggetto mai negata e il divenire della storia, dei partiti, delle organizzazioni cattoliche, dei libri, delle riviste, cui Paola ha contribuito, talvolta tra le anime fondatrici. E tutto questo appare esplicito fin dal sottotitolo del testo, Memorie di una donna del Novecento incompiuto. E la scelta di nominarsi come donna ha evidentemente un significato, non solo perché in tutto il volume Paola non dimentica mai di esserlo, non si fa tentare da una scrittura di falsa neutralità, ma anche perché l’impegno per i percorsi delle donne – politico, intellettuale, di ricerca e riflessione – è costante, accompagna tutta la sua esistenza. Ed è questo il secondo percorso della mia lettura che intendo brevemente tracciare, anche perché è un impegno, una passione che condivido, che ho condiviso in alcuni momenti di storia comune con Paola. Eppure, benché questo tema sia senz’altro quello che ho più direttamente conosciuto nella mia amicizia con lei, la lettura delle sue memorie mi ha offerto stimoli e conoscenze ben più ricche di quanto potessi aspettarmi. E non mi aspettavo poco. Le pagine del libro offrono possibilità di lettura storica anche di un periodo precedente il Movimento delle donne anni Settanta, ingiustamente da noi allora trascurato, ad esempio nella scoperta dell’intreccio tra pubblico e privato, di cui l’autrice parla in interventi e ricostruzioni che risalgono agli anni Sessanta; la necessità di un nuovo diritto di famiglia, di rivedere le questioni della moralità sessuale, dell’organizzazione del lavoro domestico che “indebolisce l’inserimento professionale paritario” e, infine, il problematico, mai risolto accesso femminile alla politica.

Poi, proseguendo nel tempo, in quegli anni Settanta legati al Movimento, il tema dei nuovi soggetti femminili e dei diritti delle donne si impone, e la scrittura e l’attenzione dell’autrice lo sottolinea, anche come snodo cruciale che “fa emergere le radici delle insufficienze, delle ristrettezze, se non addirittura della impraticabilità di una politica di puri avvicinamenti giuridici ed economici della donna all’uomo e gli stessi limiti delle democrazie esistenti all’interno delle società industriali” (pag.166). E poi, alla fine degli anni Ottanta, un nuovo impegno, che ci ha visto vicine, lei come Presidente, nel Comitato pari opportunità presso il Ministero pubblica istruzione, per introdurre e dare valore alle tematiche di genere nella scuola. E’ stata una stagione molto breve, ma la ricordo come un periodo densissimo di idee, di proposte e di pratiche, in cui abbiamo pensato insieme, scritto, avvicinato in diversi luoghi molte, moltissime insegnanti, che non sono come scrive Paola, “per la scuola il capitolo di spesa più impegnativo, sono la sua principale risorsa”, le uniche, con i pochi uomini docenti, che, in assenza di riforma, sono riuscite e riusciti “ad adeguare la scuola italiana alle esigenze di oggi”. Ci siamo incontrate di nuovo, alcuni anni dopo, sempre sulle stesse tematiche nella Commissione ministeriale per la definizione della riforma dei cicli scolastici. Ancora abbiamo pensato e scritto insieme, con altre e altri, un documento, poi recepito in quello generale, sulle culture di genere e la scuola. E’ stata una tra le ultime volte in cui abbiamo potuto svolgere un lavoro comune, di cui Paola è stata la portavoce, autorevole, decisa, come sempre. Poi ci siamo incontrate ancora, ma in forme più private.

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Al termine di più di trecento pagine, nelle conclusioni, che l’autrice credo abbia volutamente mantenute brevi, asciutte, viene ripreso il tema della relazione tra la scrittura di sé, la storia personale e la storia delle donne. L’autrice si sente partecipe di quest’ultima, di una storia, anzi “di una straordinaria avventura che ha iniziato (…) a chiudere le pratiche di millenni di storia, la riduzione delle donne al piacere maschile e la negazione della loro piena soggettività politica”. Ed è proprio questa storia, avviata dal Novecento incompiuto, che rende un libro di memorie di una donna che vi ha partecipato, “una biografia finalmente davvero collettiva, di donne e di uomini, un intreccio di volontà, di riflessioni, di obiettivi e di progetti, in un intreccio di gratitudini” (pag.313). Barbara Mapelli Martha Nussbaum Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica Il Mulino, Bologna 2011, pp. 168, € 14,00 “I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa! Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri. La ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori concezioni di educazione alla demo-

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crazia, sia nei paesi occidentali sia in quelli orientali. Buona parte di essa deve avvenire all’interno della famiglia, ma anche la scuola e addirittura il college e l’università svolgono una funzione importante. Per assolvere a questo compito, le scuole devono assegnare un posto di rilievo nel programma di studio alle materie umanistiche, letterarie e artistiche, coltivando una partecipazione di tipo partecipativo che attivi e perfezioni la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona” (pag. 111). La citazione è lunga, ma un qualsiasi commento al pensiero della Nussbaum sarebbe o impreciso o ridondante. Chi ha già letto il suo testo ormai classico Coltivare l’umanità, i classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea”, del 2006, già sa quanto la Nussbaum si impegni perché la cultura umanistica non costituisca nelle scuole dei Paesi ad alto sviluppo – senza trascurare gli altri – una cenerentola, costretta a cedere il posto alle discipline scientifiche e tecnologiche. Se lo sviluppo economico, almeno nelle sue linee di tendenza, appare una sorta di hardcore a cui tutti i sistemi di istruzione devono piegarsi, non va dimenticato che, se scisso da un progetto educativo più ampio, rischierebbe di alienare l’essere umano dalle sue vocazioni più alte per assoggettarlo alle leggi pure e semplici dell’economia e della tecnologia con grave danno per quanto riguarda il governo stesso dei processi economici e dei successi scientifici. In effetti, un’economia scissa dall’etica e dalla politica, platonicamente intese, rischierebbe di abbattersi sui suoi stessi attori, qualora questi ne fossero dominati: un circuito irreversibile, di cui, per altro, alcune inquietanti tracce già esistono. Martha Nussbaum in tutte le sue opere denuncia questo pericolo e in quest’ulti-


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ma si affida ad autori, da Tagore a Gandhi, da Pestalozzi a Dewey, da Stuart Mill ad Amartya Sen, per non dire degli ampi richiami ai classici, Socrate e Platone, che degli studi umanistici hanno fatto sempre il centro delle loro ricerche. Tullio De Mauro nella sua articolata e convinta introduzione sottolinea come “un sistema scolastico nel mondo di oggi non può badare soltanto a far crescere il prodotto interno lordo, posto che ci riesca. Non può concentrasi solo su quelle materie che paiono in più diretto rapporto con la crescita economica. Un sistema scolastico oggi più di ieri deve educare persone capaci di vivere la vita di società democratiche. Se decide di farlo, non deve trascurare ciò che evocarono quattro secoli fa le parole famose della “Meditation 17” di John Donne: ‘Nessun umano è un’isola, intero in se stesso, ognuno è un pezzo di continente, una parte del tutto...’ ”(pag. 10). Ed è proprio l’attenzione alla complessità, alla globalizzazione, al forse troppo rapido superamento di quelle barriere spazio/temporali che per millenni ci hanno tenuti divisi, il fondamento primo di qualunque attività di insegnare e apprendere: una cultura umanistica come rinnovato studio dell’Uomo nel suo divenire in funzione di una educazione a una nuova Cittadinanza democratica; una cultura in cui trova la sua stessa ragion d’essere l’impetuoso sviluppo della scienza e delle tecnologie. Lungo questa linea di recupero dell’Umanità in qualsiasi società si viva e in qualsiasi scuola si apprenda, un filo rosso sembra, a mio vedere, legare tre donne, anche se di mondi e culture diversi, forse perché in quanto donne, sorelle, madri, hanno più spiccato il senso dell’Umanità. Agnes Heller, allieva di Lukàsc, attiva nella Scuola di Budapest, pubblicava

agli inizi degli anni Sessanta L’uomo del Rinascimento, in cui sottolinea la necessità e il primato di una cultura forte, la quale soltanto è in grado di difenderci dall’ottusità di scelte effettuate solo per obbedire al Principe di turno! Hanna Arendt con la sua Banalità del male – ancora agli inizi degli anni Sessanta – sembrava riconoscere in Eichmann non tanto un feroce assassino, quanto un essere assolutamente privo di qualsiasi briciolo di Umanità: un uomo che non sa neanche di essere tale, a cui forse nessuno ha insegnato che cosa sia l’umanesimo. E Martha Nussbaum, che in Nella fragilità del bene – siamo negli anni Ottanta – dimostra quanto sia precaria la natura degli uomini, sempre esposti a sollecitazioni a cui non sono capaci di rispondere con la dignità che sarebbe loro propria. Il fatto è che il bene non si insegna, ma si pratica, e praticarlo significa riandare fin da piccoli, e costantemente, a quelle fonti dell’essere che, prima di quelle del sapere, permettono di costruire l’uomo nell’uomo. Sono fonti importanti e implacabili che costituiscono il leitmotiv di una severa critica agli ordinamenti scolastici di tutti i Paesi a... cosiddetto alto sviluppo, nei quali la corsa alla produzione materiale, resa sempre più veloce in forza delle costanti innovazioni tecnologiche, rischia di schiacciare la possibilità e il diritto che ciascun nuovo nato deve avere di crescere come Uomo. E allora, come tradurre in reali e mirate indicazioni nazionali per le istituzioni scolastiche autonome le sollecitazioni della Nussbaum? Una sfida non da poco per chi ha il dovere di governare il nostro sistema di istruzione! Maurizio Tirittico

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Maura Striano (a cura di) Pratiche educative per l’inclusione sociale Franco Angeli, Milano 2010, pp. 144, € 17,00 Il volume edito da Franco Angeli a cura di Maura Striano rappresenta un salto di qualità nell’ambito della letteratura sulle pratiche di inclusione sociale e le emergenze educative ad esse correlate, in quanto affronta un tema di riconosciuto interesse pedagogico in un’ottica non esclusivamente territoriale ma internazionale. I contributi contenuti nel volume propongono una riflessione articolata in itinerari diversificati, nell’intento comune di rispondere in termini di prassi formativa alle sfide degli attuali cambiamenti globali. Promuovere l’inclusione vuol dire investire sulla formazione continua: questa la prospettiva sulla quale si articola il saggio introduttivo (L’inclusione sociale come problema pedagogico e come emergenza educativa) di Maura Striano, docente di Pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Striano parte dalle disposizioni di Lisbona in tema di cittadinanza attiva, per considerare poi il ruolo giocato da ciascun paese dell’Unione nell’elaborazione di mappe diversificate del rapporto tra inclusione e formazione, fino a individuare il rapporto tra inclusione, formazione, educazione e nuove tecnologie quale strumento indispensabile per il rafforzamento della coesione sociale e la definizione di un’Europa inclusiva. Tra le strategie in grado di promuovere una cittadinanza attiva, l’autrice indica quella dell’e-inclusion, che può rappresentare un

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concreto aiuto nella lotta contro la discriminazione, generalmente associata alle persone con disabilità. Persone, scrive Stefania Fiorentino nel suo saggio dal titolo Integrazione e inclusione sociale: modelli a confronto, alle quali l’articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite riconosce “il diritto a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone”. L’analisi evidenzia come, nonostante la legge quadro n. 104, e la storica Legge 517 del 1977 finalizzata all’inserimento scolastico degli alunni disabili, l’inclusione dei portatori di handicap resti nell’ottica della passività, piuttosto che in quella di una concreta partecipazione attiva. La logica dell’assistenza ha i suoi vantaggi, ma anche nei suoi pericoli: ciò anche alla luce delle trasformazioni del XXI secolo, che, sottolinea Stefano Oliverio nel suo contributo (L’inclusione interculturale come frontiera educativa), impongono un aggiornamento dell’analisi della realtà in cui si è inseriti. Lo sforzo della pedagogia interculturale deve essere quello di scongiurare il rischio di moderni apartheid, favorendo, nell’attuale scenario della globalizzazione, uno sguardo cosmopolitico fondato sulla convivenza in un medesimo spazio fisico ed esperienziale. Il saggio si impegna in un progetto educativo nel quale la coesistenza di soggetti attraversati da culture e identità multiple (Iris Marion Young) venga intesa quale base della comunicazione sociale e della democrazia (John Dewey). La nozione di democrazia non può essere disgiunta dalle questioni della cittadinanza di genere e della lotta delle donne alla discriminazione e alla sottomissione. In tal senso, il saggio di Francesca Marone (Cittadinanza di genere: le donne tra esclusione e partecipazione) si rivolge al ruolo determinante della formazione nella presa


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di coscienza da parte delle donne del contributo offerto al diffondersi del benessere sociale. Marone sottolinea come l’aumento, in Italia e nel resto d’Europa, di flussi migratori e il conseguente incontro tra soggettività femminili provenienti da altri paesi imponga una rilettura dell’appartenenza di genere, rispettosa delle differenze sociali, politiche, economiche e giuridiche. Le donne “in carne ed ossa” della mondializzazione suscitano una serie di questioni relative al loro status di soggetti sessuati altri. La diseguaglianza di genere, sottolinea l’autrice sulla scia del pensiero di Claude Lévi-Strauss, è alle origini delle sottomissioni, delle gerarchie e delle disgregazioni sociali. È qui che nasce la convinzione che bisogna promuovere strategie delle formazione in grado di combattere i rigidi schemi di rappresentazione, deleteri per le donne, tanto nella dimensione lavorativa quanto in quella privata; ciò nell’ottica delle pari opportunità e della cultura di genere, da circa un decennio colonna portante dello sviluppo della cittadinanza europea. Sempre in ambito comunitario, la lotta alla povertà e all’esclusione sociale ha posto tra le categorie ad alto rischio quella dei detenuti. Negli ultimi anni il carcere è divenuto un luogo di sperimentazione di processi formativi: è questo il filo conduttore del saggio conclusivo dal titolo Carcere e inclusione sociale, nel quale Caterina Benelli focalizza un aspetto poco evidenziato dai media, ossia il detenuto quale “soggetto attivo”, capace di “partecipare a occasioni formative in grado di contrastare il fenomeno della recidiva attraverso un trattamento rieducativo”. Il contributo è frutto della ricerca personale dell’autrice, che avvalendosi della metodologia biografica sollecita la riflessione interiore dei reclusi, valorizzandone l’esperienza e attribuendo-

vi nuovi significati finalizzati al raggiungimento della cittadinanza attiva. Valeria Napolitano Vanna Iori (a cura di) Guardiamoci in un film. Scene di famiglia per educare alla vita emotiva Franco Angeli, Milano 2011, pp. 192, € 22,00 Al centro dell’attenzione degli autori di questo testo vi è il tema dell’educazione emotiva all’interno della relazione genitoriale con bambini e ragazzi preadolescenti ed adolescenti. Non di rado negati o ignorati dalle figure parentali, i sentimenti dei figli rischiano di essere “messi a tacere”, poiché troppo difficili da interpretare e gestire, con l’esito di una mancata soddisfazione di un bisogno che si palesa già nella prima infanzia, ovvero l’arricchimento della competenza emotiva personale. La carenza di un’educazione dei sentimenti e ai sentimenti rende i giovani incapaci di riconoscere le proprie emozioni, siano esse positive o negative, la cui origine e l’eventuale sfogo fanno fatica, dunque, ad essere individuati. In tale contesto, il cinema rappresenta uno strumento di alfabetizzazione emotiva. La fragilità delle figure genitoriali nell’approcciarsi all’educazione emotiva dei giovani può trovare utile strumento di compensazione o di supporto nella cinematografia. Tramite il film, infatti, è possibile riprodurre sullo schermo il mondo interiore di una persona che, posta nella condizione di osservatrice esterna, rivive certe emozioni e le com-

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Anna Debè Neil young Le noise Warner Bros, 2010 € 20,90

Decemberist The king is dead Rough Trade, 2011 € 19,50

Cristina Donà Torno a casa a piedi Capitol, 2011 € 15,90

Ero tempo fa a un convegno di psicoanalisti quando la coordinatrice che presiedeva la tavola rotonda, introducendo un collega che si era assunto l’ingrato compito di relazionare sul contrastato rapporto tra Freud e Jung, commise un bisticcio linguistico (un lapsus?) a proposito del nome dello psichiatra svizzero chiaman-

a cura di Angelo Villa

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desiderosi di riflettere sui propri vissuti emozionali e su quelli dei ragazzi, al fine di poter guidare questi ultimi verso la coltivazione dell’intelligenza del cuore. Lo strumento operativo è rappresentato dalle schede dei film, che orientano lo spettatore verso una visione riflessiva, al fine non solo di guardare un film, ma di guardarsi in un film, per potersi ritrovare e ricomprendere.

musica

prende più chiaramente. Allo spettatore è fornita, pertanto, l’occasione di potenziare la propria consapevolezza emotiva e, di conseguenza, di dare avvio ad un processo di cambiamento e crescita personale. Gli autori (Antonella Arioli, Alessandra Augelli, Daniele Bruzzone, Isabella Casadio, Fabio Gianotti, Vanna Iori, Elisabetta Musi, Luigi Pietrocarlo, Michela Schenetti), accomunati da una visione e da un’interpretazione fenomenologica dell’esistenza e delle relazioni educative, dedicano le loro riflessioni alle tonalità emotive più diffuse e vissute nei ragazzi e negli adulti: delusione, paura, vergogna e timidezza, invidia e gelosia, noia, rabbia, tristezza e malinconia, dolore, felicità. Ad ognuna di queste emozioni è riservato un saggio, all’interno del quale si sviluppa un’approfondita riflessione pedagogica, ricca di indicazioni e suggerimenti operativi. Ogni scritto è corredato da diverse schede filmiche inerenti alla tonalità emotiva oggetto di analisi, composte da un breve riassunto della trama e dall’individuazione dei suoi momenti principali secondo un focus educativo. Al lettore sono forniti, inoltre, alcuni spunti determinati a partire dalle scene visive, per l’elaborazione di un ragionamento personale e/o condiviso sulla tonalità emotiva, nonché quesiti atti ad avviare uno scambio dialogico con gli educandi o con altri adulti, affinché le considerazioni possano essere calate nella concretezza dell’agire. Gli autori, nelle schede riservate alle pellicole cinematografiche, specificano altresì i destinatari dei film, individuati di volta in volta nei bambini dai 3 ai 5 anni, dai 6 ai 9 anni, nei preadolescenti, negli adolescenti o negli adulti. Il testo così organizzato è indirizzato prevalentemente a genitori, ma anche ad educatori, insegnanti e formatori,


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dolo Young. Ho sorriso sotto i baffi che non ho supponendo che forse, ma va?, il confronto tra il maestro viennese, e cioè simbolicamente la psicoanalisi, e il mitico rocker, nel senso, of course, di Neil Young, fosse più interessante di quello con l’infido e pallosissimo Jung. Si tratta, infatti, in quest’ultimo caso, di sviluppare un raffronto che apre a non poche prospettive inedite e originali, nella misura in cui finisce per interrogare due pratiche dell’inconscio dissimili, ma con parecchi punti in comune, quella psicoanalitica, da un lato, e quella musicale, dall’altro. Il “vecchio” Neil e la sua vasta produzione artistica si prestano bene al caso. Lui è, musicalmente parlando, uno dei grandi canadesi, come Cohen o la Mitchell. Una pietra miliare del rock, in grado di guardare dritto negli occhi sua Bobbità, senza troppi complessi di inferiorità. Un privilegio che ben pochi si possono permettere. Per Freud, l’eroe è un figlio della tragedia greca, un uomo che lotta contro un destino avverso; si batte con la fronte alta contro l’impossibile, animato da un desiderio il più delle volte oscuramente incestuoso. Come l’Edipo di Sofocle, l’esempio per antonomasia. Neil, a suo modo, anche lui è un eroe, per quanto non mi sembra corrisponda esattamente ai canoni freudiani. Varrebbe la pena di indagare la questione. In fondo, lui è stato l’unico rocker della sua generazione a venir preso come ideale riferimento per il grunge d’autore, dai Nirvana e da Kurt Cobain che fece proprio un suo celebre e, ahimè, profeticamente veridico verso, ai Pearl Jam, ai Alice in Chains, tutta gente di Seattle, la patria di Hendrix, giusto per non dimenticarlo. Neil, insomma, non può d’altronde non far simpatia. La vita lo ha messo a dura prova, lui ha toccato con mano il dolore,

la sventura, la confusione. E’ caduto e risorto. Il peso degli anni ha fatto il resto. Ma lui è lì, tenace, un resistente puro. Non sempre specie negli ultimi anni i suoi cd sono stati all’altezza della sua fama. Com’è, in fondo, in uno stile artistico che è forse, e prima di tutto, uno stile di vita. Ora, Neil ha compiuto un’opera dinnanzi alla quale scafati e celebri musicisti impallidirebbero come fantasmi, ha imbracciato la chitarra elettrica e, udite udite, da solo si è messo davanti a un microfono e ha sciorinato una manciata di bellissime canzoni. Guardate la copertina del cd, Neil in piedi, lui, la sua chitarra e la notte. Young ama incidere quando è buio e attorno lui è il silenzio, la solitudine e la musica esce da quell’anima che è così vicina al corpo, alle emozioni, a quello che le parole non sempre riescono a dire. La cornice del cd è cupa, una villa illuminata, pare quella di un film giallo. Simile in apparenza, ma solo in apparenza, a quella del meraviglioso e dolente Tonight’s the night, un capolavoro dell’arte moderna, Kurt Weil salsa rock. Neil è in gran forma, ispirato e determinato. La sua melodia, quella sua voce inconfondibile da infanzia straziata, da bambino traumatizzato fanno il resto. Insomma, chapeau. Il cd si chiama Le noise. Come dire? Azzardo il (“le”), alla francese, rumore (“noise”), all’inglese? Una sintesi canadese? Qualcuno mi aiuti, please. Il cd è prodotto da un certo Daniel Lanois, un nome una garanzia, sua Bobbità non potrebbe che approvare. Ve lo consiglio, caldamente. Unanimemente è stato, a ragione, considerato tra i migliori dischi usciti nell’anno scorso. Ma, non paghi, andiamo avanti. Vi ricordate Harvest, uno dei più celebri dischi del canadese? Quello che conteneva Heart of gold, Alabama, The Needle and The Do-

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Angelo Villa

Questo paese è devastato dal dolore Ma non vi danno un po’ di dispiacere Quei corpi in terrà senza più calore? Non cambierà, non cambierà Si che cambierà, vedrai che cambierà. Me ne vergogno un poco, e mi fa male Vedere un uomo come un animale. Non cambierà, non cambierà Si che cambierà, vedrai che cambierà. [Franco Battiato, Povera Patria] Dedicato a quest’Italia dell’altro mondo L’immigrazione massiccia e le reazioni accorate e turbolente che essa suscita è una delle linee portanti dell’identità italiana. Io propongo la visione di due film: “Cose dell’altro mondo” e “Terraferma”. Entrambi usciti per il Festival di Venezia, entrambi dedicati alla complicata rela-

a cura di Cristiana La Capria

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quanto forse velleitariamente ambizioso (intellettualmente?). I conformisti snob, oh yeah, quelli sì, hanno farneticato a dismisura sino a gridare al capolavoro. Per interesse? Per passare per critici raffinati? Per comunanza ideologica? Per… Non lo so. Il disco è piuttosto inconsistente e noiosetto. Un po’ una palla, direbbe un mio amico. Se non ci credete, fate la prova e poi mi direte. Giudicate voi, direttamente. E sì che in Miracoli, il brano che apre il cd, Cristina Donà canta: “Tu credi nei miracoli/ che la musica sola può fare,/ e canti le canzoni/ che ti han fatto sognare,/ e ti danno la forza di combattere ancora/per ogni nuova battaglia/ c’è una nota che ti canta in gola…”. Che vada meglio con il prossimo disco!

cinema

mage Done e altri brani memorabili… I Decemberists hanno prodotto un cd stupendo, forse il migliore della loro carriera. Negli States ha ottenuto un meritatissimo successo che ha riempito di gioia gli amanti della buona musica rock. Voi mi direte che c’entrano Young, che c’entra Harvest? Invece sì, c’entrano eccome! Nel disco si respira un po’ l’aria “campestre”, bucolica, folk di quella famosa opera younghiana. Per quanto, il cd abbia una sua indubbia e piacevolissima unicità. Di citazione in citazione, il titolo del cd richiama quello di un altro cd storico, quello degli Smith The Queen is dead. Qui, a risultare morto è, più realisticamente, il re e cioè: The king is dead. Più lo ascoltate, più sarà difficile sfuggire a una sindrome di gradevolissima dipendenza. I brani sono ottimamente costruiti, prendono quasi subito dopo pochi ascolti. Non perdetevi le facce simpatiche dei musicisti, niente è più lontano dall’immaginario e dalla retorica rock. Visi normalissimi, da gente comune, abbigliati alla buona senza fronzoli o manie da isteriche stelle della scena musicale. Da Young ai suoi “figli”, sparsi un po’ dovunque, veniamo nel nostro amato Paese. Gli italiani lo fanno meglio, come ipotizzava Madonna? Mah… Un’artista nei riguardi della quale nutro una certa ambivalenza è Cristina Donà. Brava è brava, un cd come La quinta stagione non mi era affatto dispiaciuto. Anche se, personalmente, nel suo insieme ho sempre la sensazione che le manchi sempre qualcosa per fare un definitivo salto di qualità, per affermare in maniera chiara un suo stile e una sua personalità artistica definita. L’impressione mi è confermata, anzi ulteriormente avvallata, dall’ascolto della sua ultima fatica: Torno a casa a piedi. Un disco così così, alquanto incolore e abbozzato nella sua sostanza,


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zione tra l’Italia e gli immigrati. Un film guarda al nord e l’altro guarda al sud. Si incastrano, si rimandano reciprocamente. Io suggerirei di vederli uno dopo l’altro. Sembrano i due tempi di uno stesso film, irrisolto, ovviamente. Qui di seguito li propongo nella successione in cui li ho visti. A voi le riflessioni sui possibili intrecci tra i due lavori. A voi. di Francesco Patierno Cose dell’altro mondo Italia 2011 Produzione Rodeo Drive In una tra le più rigogliose regioni d’Italia – il Veneto – scatta il panico quando svaniscono le nervature sociali dell’economia. Gli immigrati, sono loro a mancare all’improvviso, loro che fanno funzionare significativamente il meccanismo della società italiana, escono di scena. E, “puff ”, il sistema vacilla, chiede aiuto, non sa come fare, si inceppa, sta per rompersi. Ma allora chi sono gli italiani? Quelli che in Italia ci nascono o quelli che l’Italia la fanno vivere? Questo film è una favola nera perché inizia male e finisce peggio. Propone una carrellata panoramica sulle severe contraddizioni che vengono fuori dalla convivenza tra questo mondo e l’altro mondo. Sullo sfondo di una plumbea cittadina veneta si muovono in disordine cittadini italiani sgangherati, quasi vuoti, alleggeriti di ogni spessore morale, fino a

perdersi alla superficie dei loro stessi pregiudizi. Discorsi distribuiti a pioggia che parlano di discriminazione, di noi e loro, di questi e di quelli, di padroni e servi. Un racconto corale che ferma il suo passo su alcuni personaggi disturbanti: c’è l’industriale che lancia l’anatema sui “fondamentalisti islamici”, sui “fancazzisti albanesi” e sugli “zingari” però fa sesso con una prostituta nera; c’è l’agente di polizia che non è mai in servizio, mostra la pistola a chiunque intoppi il procedere banale del suo piccolo quotidiano e si ritrova al fianco della tanto desiderata ex fidanzata che è incinta di un africano (“quel coso nero che hai nella pancia”); c’è la giovane maestra, unica figura solida, che si ritrova appunto ad essere sia la figlia dell’industriale razzista sia la fidanzata dell’agente cinico. Un ritratto sociale e culturale graffiante, a tratti raggelante. Il contesto e i suoi abitanti sono ripresi a spot, in forma spezzata, con numerosi stacchi e montaggi alternati per riprodurre la disomogeneità distorta, irritante di una certa Italia che allontana, respinge, espelle il diverso. Ma poi ne ha bisogno. Dalla foto di gruppo, però, si distinguono alcuni spiragli. Sono soprattutto i bambini e le bambine che, alla scomparsa inspiegabile dei compagni di classe immigrati, sono tristi. Si danno da fare per cercarli. Lasciano in dono per loro lettere e disegni alla sorgente di un ruscello nel bosco. Sperando che ritornino. Ma gli immigrati non tornano. L’industriale vorrebbe andare a prenderne altri, attraversando il deserto. Ma loro non tornano. E la favola finisce così. Piuttosto male.

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di Emanuele Crialese Terraferma Italia 2011 Produzione Cattleya, in collaborazione con Rai Cinema Affondo intenso nella gola del mare. Questa è la prima inquadratura del film che ci porta all’altro capo dell’Italia, in Sicilia. Dalle onde di quest’acqua spunta all’orizzonte un’ imbarcazione con a bordo dei clandestini, tanti, troppi per starci dentro. Come se gli immigrati spariti dalla faccia della regione veneta fossero riaffiorati dall’acqua siciliana. Spariti dalla pianura del nord compaiono in un’isola del sud. Sono clandestini e sono troppo pigiati l’uno sull’altro, alcuni lasciano la barca, si gettano in mare e nuotano verso un peschereccio. Dove sono due dei personaggi della storia: il nonno, una specie di Padron ’Toni dei Malavoglia e suo nipote Filippo. Ci sono umani disperati in mare, che fare? Seguire la “legge del mare” (non si lascia mai in mezzo alle onde un essere umano) o la “legge dei clandestini” (non si presta aiuto ai naufraghi illegali)?. I due pescatori seguono la legge del mare e per questo, per aver dato respiro ad alcuni disperati, saranno puniti, perché hanno infranto quell’altra legge che li accusa di delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E così il peschereccio è sequestrato. Ma c’è chi ha una prospettiva lungimirante là, sull’isola, sono coloro che guardano al futuro, non al passato,

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aderiscono alla logica dell’economia del turismo: per fare business non si salvano i clandestini, anzi si giura ai bagnanti che sull’isola non c’è l’ombra di un clandestino, come se stessimo parlando di pescecani o di meduse. Ma il rimosso torna, eccome. I clandestini arrivano dal mare, di notte, si aggrappano alla nostra barca, chiedono di essere visti, riconosciuti, salvati. Questo film va guardato. Le parole contano assai poco. Bisogna osservare letteralmente ogni tratto di terra e di vegetazione, di acqua e di pelle su cui sosta la macchina da presa. Bisogna rimanere dentro il fotogramma di un film che non vuole mantenere le distanze dal mondo presentato, ma impone la prossimità, anche troppa. Faticosa. Lo sguardo immerge ed emerge da superfici umane e marittime di forte complessità, di enorme dolore e strabiliante bellezza. Qui pare che la fine non sia definita. La decide chi guarda. Cristiana La Capria


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stagione 11/12

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ARRIVATI_IN_REDAZIONE Aldo Cazzullo Viva l’Italia. Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione Mondadori, Milano 2010, pp. 157, € 18,50 L’Italia la si vorrebbe divisa o ridotta a Belpaese: non una nazione, ma un posto in cui non si vive poi così male. Invece l’Italia è una cosa seria. E molto più antica di 150 anni; è nata nei versi di Dante e Petrarca, nella pittura di Piero della Francesca e di Tiziano. Ed è diventata una nazione grazie a eroi spesso dimenticati. Aldo Cazzullo ne racconta la storia. Respinge l’idea leghista e la retorica del Belpaese. Prefigura la nascita di un “partito della nazione”. E avanza un’ipotesi: che in fondo gli italiani siano intimamente legati all’Italia più di quanto loro stessi pensino. Paul Ginsborg Salviamo l’Italia Einaudi, Torino 2010, pp. 136, € 10,00 Il 150° anniversario della nazione non dovrebbe essere solo l’occasione per sventolare bandiere tricolori o indulgere nella retorica: richiede invece un ripensamento profondo sulla storia d’Italia e sul contributo del Paese al futuro del mondo moderno. A tal fine si rivisitano le grandi figure del Risorgimento (da Cattaneo a Cavour, da Manin a Pisacane, da Mazzini a Garibaldi) così che le loro riflessioni si mescolano in presa diretta alle nostre. Per “salvare” l’Italia, Paul Ginsborg fa affidamento su alcuni elementi fragili ma costanti presenti nel nostro passato...

Simonetta Soldani (a cura di) L’Italia alla prova dell’unità Franco Angeli, Milano 2011, pp. 215, € 25,00 L’impressione che si ha scorrendo il fiume di pagine e di parole alimentato dal 150° anniversario dell’Italia unita è che la rivisitazione e l’interrogazione del passato siano dominate dalle aspre contese in tema di irriducibilità ad unum delle Italie reali. Di qui la scelta di puntare l’obiettivo su alcune aporie che hanno indebolito e complicato l’incontro fra Nazione e Stato. È questo il filo conduttore tanto dei contributi focalizzati su aree e fasi storiche circoscritte quanto delle riflessioni di più lungo periodo....

Sebastiano Vassalli L’italiano Einaudi, Torino 2007, pp. 140, € 14,50 Chi è l’Italiano? Sembra chiederselo persino Dio, nella cornice di questo libro, facendo i conti con il carattere nazionale di un popolo senza uguali. Infantile, opportunista, simpatico, adattabile, ingegnoso, vigliacco, furbo, egoista, generoso, narcisista. La forza del ritratto consiste nel cogliere l’essenza di un carattere. Interi discorsi sull’identità culturale e nazionale sono meno efficaci del profilo di un personaggio che le incarni in un’esperienza vissuta e soprattutto viva, come accade in questa raccolta di racconti che compongono una galleria di ritratti capaci di illuminarsi a vicenda.

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Michela Murgia Ave Mary. E la chiesa inventò la donna Einaudi, Torino 2011, pp. 166, € 16,00 Dovevo fare i conti con Maria, anche se questo non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie, sulla mia panettiera, la mia maestra e la mia postina. Su tutte le donne che conosco e riconosco. Dentro ci sono le storie di cui siamo figlie e di cui sono figli anche i nostri uomini: quelli che ci vorrebbero belle e silenti, ma soprattutto gli altri. Questo libro è anche per loro, e l’ho scritto con la consapevolezza che da questa storia falsa non esce nessuno se non ci decidiamo a uscirne insieme.

Luca Sofri Un grande paese. L’Italia tra ventanni e chi la cambierà Bur, Milano 2011, pp. 188, € 10,00 “Un grande paese” è la definizione che vorremmo poter dare dell’Italia, senza che ci scappi da ridere. È il futuro che vorremmo immaginare, il presente che invidiamo ad altre nazioni ma che non vediamo intorno a noi. Eppure, è il nostro modo di essere italiani, di sognare un grande paese, di fare come se lo fosse, disegnarlo e farlo diventare possibile: sono le nostre volontà e capacità di rendere condivise le cose di cui siamo fieri, quelle che ci sembrano giuste, quelle che ci sembrano belle.

Vito Mancuso Io e Dio. Una guida dei perplessi Garzanti, Milano 2011, pp. 488, € 18,60 “Ma che cos’è vero, alla fine, di questa vita che se ne va, nessuno sa dove? Rispondere a questa domanda significa parlare di dio.” Io e Dio di Vito Mancuso ruota intorno a questa domanda: una domanda intima, personale, che però coinvolge l’intera umanità, e dunque ciascuno di noi. In questo senso, per ogni uomo che viene sulla terra, cristiano o no, la partita della vita è sempre tra io e Dio. Tuttavia oggi tenere insieme un retto pensiero di Dio e un retto pensiero del mondo è molto difficile: così qualcuno sceglie Dio per disprezzo del mondo, qualcun altro sceglie il mondo per noia di Dio... Marcela Serrano Dieci donne Feltrinelli, Milano 2011, p. 285, € 18,00 Nove donne più una. Nove donne radunate nello studio della loro psicoterapeuta raccontano la propria storia e le ragioni per le quali sono andate in terapia. Lupe, adolescente lesbica, alla ricerca della propria identità tra feste, sesso, droghe e passioni non proprio convenzionali; Luisa, vedova di un desaparecido, che per trent’anni aspetta il ritorno del suo unico amore; Andrea, giornalista di successo che si rifugia nella solitudine di Atacama, il deserto più arido del pianeta, sono alcune delle protagoniste di questo vivace romanzo che parla di donne e di sentimenti...

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Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 468, € 25,00 Il paranoico spesso è convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l’apparenza della ragione. Questa follia “lucida” – così la definivano i vecchi manuali di psichiatria - è uno stile di pensiero privo di dimensione morale, ma con una preoccupante contagiosità sociale...

Taglietti Renzo Sulla naturale superiorità delle donne Marco Serra Tarantola Editore, Brescia 2010, pp. 126, € 17,00 Maschile e femminile sono intesi come gli “antipodi tout court” della diversità umana. Qui cercano di dialogare più che respingersi, di avvicinarsi più che allontanarsi, di alimentarsi a vicenda in un circolo virtuoso dove uno solo, su tutti, risulterà vincente e superiore: la vita stessa che li ha diversamente generati. Avvicinarsi con rispetto e apertura alla diversità, accresce la propria personale umanità, avvantaggia l’identità individuale, ci fa diventare uomini e donne migliori.

Damico Gianfranco Piantala di essere te stesso! Apogeo, Milano 2011, pp. 271, € 15,00 Come mai restiamo spesso incastrati in situazioni da cui non riusciamo a uscire? Perché spesso non otteniamo ciò che ci sta a cuore? Cosa ci impedisce quella capacità di cambiamento che ci salverebbe dall’opprimente sensazione di impotenza che spesso avvertiamo? L’ipotesi dell’autore è che alla base di ciò vi sia la nostra irriflessa e fisiologica attitudine a essere sempre “noi stessi”, prigionieri di un Io che tende a cristallizzarsi in una intricata rete di modelli, le cui pareti di vetro - interfaccia tra noi e il mondo - non riusciamo più nemmeno a scorgere. Pessina Luca Essere voce. Viaggio nella vocalità: dal gioco a Demetrio Stratos Aereostella, Milano 2011, pp. 220, € 18,00 Essere voce, ovvero tradurre sul piano pedagogico il lavoro artistico di Demetrio Stratos, dimostrando che la voce può essere usata nelle pratiche educative e nella formazione. Ecco cosa si propone questo libro, servendosi della filosofia di Stratos per affermare che una voce privata del linguaggio e innalzata a puro suono è vibrazione e moto del corpo, descrivendo diversi laboratori vocali e infine analizzando il rapporto tra voce e autobiografia. Un libro per gli insegnanti e gli educatori, ma non solo. Un libro per chi vuole imparare ad ascoltarsi e ad ascoltare oltre la soglia delle parole.

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