Pedagogika.it - Anno XVI_3

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L’educazione in materia di protezione

Diritti senza confini

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Pedagogika.it 2012

XVI_3

Diritti senza confini

Rivista di educazione, formazione e cultura 2012_XVI_3 - € 9

Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559 In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Padova che si impegna a pagare la tassa di restituzione


Rivista di educazione, formazione e cultura

anno XVI, n째 3 Luglio, Agosto, Settembre 2012


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Rivista di educazione, formazione e cultura

esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XVI, n° 3 – Luglio/Agosto/Settembre Direttrice responsabile Maria Piacente - maria.piacente@pedagogia.it

Responsabile testata on-line Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it

Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Serena Bignamini, Emanuele Tramacere, Massimo, Jannone Coordinamento pedagogico Coop. Stripes.

Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it

Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa

Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità advertising@pedagogia.it Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Stampa: Logo Press - Borgoricco (Pd)

Hanno collaborato Paola Gandolfi, Mariateresa Muraca, Camila Munarini, Marco Benini, Roberta Sala, Giancarla Codrignani, Mariangela Giusti, Giuseppe Vico, Sergio Tramma, Cristiana La Capria, Paola Zaretti, Eugenio Rossi, Eleonora Viganò, Gennaro Tedesco, Marco Taddei, Nicoletta Mandaradoni, Maurizio Tiriticco. Fotografie: www.sxc.hu Edito da StripesNetwork s.r.l - www.stripes.it Direzione e Redazione Via G. Rossini n. 16 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/45500911 e-mail: pedagogika@pedagogia.it Sito web: www.pedagogia.it FaceBook: Pedagogika Rivista

Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano Distribuzione biblioteche, scuole e altri enti: Ls Distribuzione - Servizio Biblioteche Via Badini 17, Quarto Inferiore (BO) è possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo e-mail articoli@pedagogia.it I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio della Direzione e del Comitato di redazione e in ogni caso non saranno restituiti agli autori Questo periodico è iscritto a Unione Stampa Periodica Italiana Coordinamento Riviste italiane di cultura

Errata Corrige Su Pedagogika.it, Anno XVI n. 2, a pagina 113 nella recensione sul libro di Giovanna Providenti, La porta è aperta, per un errore di stampa è stato attribuito all'autrice il romanzo "La porta è aperta". Trattasi invece di L'arte della gioia. Ce ne scusiamo con le lettrici ed i lettori.


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Editoriale Salvatore Guida

../Dossier/Diritti senza confini 8 Introduzione 10 I giovani maghrebini scolarizzati: la forza dell'immaginazione, i luoghi del cambiamento Paola Gandolfi

59 L 'educazione al mondo è tra i compiti assegnabili alla scuola? Sergio Tramma 64 Diritti umani ../Temi ed esperienze 68 Io mangio. Le abitudini alimentari dell'adolescente Cristiana La Capria 74 Gli anziani e la paura del crimine Eugenio Rossi

18 Educação do campo. Reinventare la scuola, trasformare la realtà Mariateresa Muraca, Camila Munarini

82 Conversione al genere femminile Paola Zaretti

24 La nostra Africa: una scuola di frontiera ai margini della guerra civile Marco Benini

88 Diritto di credito e dovere di riparazione contro le ingiustizie globali Eleonora Viganò

31 Diventare donne. L'educazione delle bambine come educazione alla propria libertà Roberta Sala

94 Bingo Bongo nel Congo Gennaro Tedesco

40 L'istruzione dei bambini e delle bambine Giancarla Codrignani 46 Il diritto all'istruzione e all'educazione dei ragazzi rumeni in Italia Marian gela Giusti 54 L'istruzione tra solitudine e migranti Giuseppe Vico

../Cultura 101 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 105 Scelti per voi, Libri - Ambrogio Cozzi (a cura di) Musica - Angelo Villa (a cura di) Cinema - Cristiana La Capria (a cura di) 115 Arrivati in redazione 117 ../In vista 118 ../In breve 119 Carnet - La redazione consiglia

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Piano editoriale 2012 Il futuro tra paure e speranze Spazi geografici e psichici del mutamento Desideri, diritti e doveri Educare al tempo della crisi

Rivista di educazione, formazione e cultura

Numero di c/c postale 001003749668 intestato a Stripes Network s.r.l via Marziale, 9 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it

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A buon diritto Salvatore Guida

“Occorre prender atto che la storia, soprattutto quella dei poveri, ci sta incalzando e, forse, sul piano degli ideali e dei valori ci ha già superato e ci sta insegnando che il mondo si estende ben oltre quei confini che noi, per secoli, abbiamo costruito. Cosa aspettiamo, allora, a cambiare la scuola, i metodi, la formazione dei docenti, i rapporti scuola-territorio e quando riusciremo a fare coscienza che la stessa istruzione va colta in orizzonti più generosi, solidali e accoglienti?...”. “L’ingresso del mondo e del molteplice pone localmente e globalmente questioni complesse quali, per esempio, quelle dei diritti, delle pari opportunità, dell’attivazione di prassi di riconoscimento reciproco, del riequilibrio economico e di potere”. Già forse, a partire da queste parole di Giuseppe Vico e Sergio Tramma, è possibile rimettere in discussione lo stesso sistema di interrogazioni che il pedagogista - e la pedagogia in atto - si fanno o, perlomeno, dovrebbero farsi quando vogliano cogliere il senso ed il verso del cosa significhi oggi educare, di chi e verso cosa, a favore di cosa educare bambine e bambini. E’ normale ed è - e deve essere - eticamente desiderabile, chiedersi come rifondare se stessi e le proprie convinzioni se si assumono parole d’ordine come educare al mondo, al cambiamento, al superamento di stereotipie e culture di appartenenza quando queste palesemente confliggano con l’idea stessa di diritto e di libertà, quando stentino ad astrarsi dalla schiavitù dell’assenza, della mancanza, non solo della scuole o dell’insegnante, ma dello stesso cibo e della stessa acqua, dell’igiene e della salute e, per contro, eccedano in abuso di potere, in endemica corruzione, in sottovalutazione della vita stessa, in pervicaci attaccamenti a moduli e pratiche di mutilazione identitaria, di militarizzazione dell’infanzia, di indifferenza ad ogni statistica di mortalità infantile. La stampa, conservatrice o progressista ormai solo per autodefinizione e non perché fattivamente come tale riconoscibile, non aiuta certo a fare chiarezza: ad ogni appuntamento internazionale sotto le varie species dell’ONU, della FAO, del WTO, GATT, TRIPS, gli allarmi si susseguono senza che poi seguano concreti sviluppi ed evoluzioni; le notizie e le statistiche agghiaccianti conquistano per qualche giorno una qualche evidenza e poi cala su di esse un coltre di oblio, l’opinione pubblica rafforza sempre di più il proprio processo di mitridatizzazione, ognuno viene ripreso dalle proprie quotidiane angustie, sospende ogni indignazione, pronto a rispolverarla alla prossima notizia di catastrofe umanitaria e figurarsi se i destini dei diritti negati – quelli all’istruzione poi! - riescono a pesare più di tanto sulle coscienze. Che non vi siano speranze non è, tuttavia, assodato: tante piccole esperienze e tante pratiche ultralocali di cambiamento riescono – possono riuscire – a far

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ripartire, senza indulgere a retoriche caritative, un’idea di umanità diversa, nuova, condivisa, solidale; un’idea di solidarietà che abbia anche risvolti di interesse da parte di chi vive nella parte “buona” del mondo. Vogliamo dire che sostenere il diritto all’istruzione significa poter riaffidare ai popoli il diritto e il dovere di farsi artefici delle proprie sorti e della propria rivalsa e che, alla lunga, il conto potrebbe tornare in attivo anche per chi, oggi, ritiene che sia troppo oneroso ed eccessivamente volontaristico ed oblativo occuparsi, un po’ meno egoisticamente, delle ragioni e dei diritti dei meno fortunati Di queste esperienze vogliamo dare conto e di queste storie vogliamo far tesoro perché chi ci legge vi trovi spunto per nuove riflessioni, per nuove prese di coscienza

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Dossier 7


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Diritti negati: l’istruzione In un periodo in cui tutti ci invitano al dovere abbiamo ritenuto necessario non dimenticarci dei diritti. Diritti che per noi non hanno neanche più il “sapore dei diritti” ma che, per molte persone nel mondo, rappresentano ancora qualcosa di lontano e irraggiungibile. Avrebbe forse senso, allora, pensare a quel Mondo in cui le persone godono ancora di troppi pochi diritti per poter permettersi “il lusso” di pensare ai propri doveri in quanto cittadini e lavoratori. Essendo questo un percorso troppo ampio per poterne darne conto in maniera dignitosa in un dossier di Pedagogika.it, abbiamo ristretto il campo ad uno dei tanti diritti che vengono negati ai bambini nel Sud del Mondo: il diritto all’istruzione. Più di 100 milioni di minori nel mondo non godono, a dispetto dell’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di quel diritto che recita: “l’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. In particolare, per il mondo femminile, le donne, le ragazze e le bambine dei paesi in via di sviluppo l’istruzione è fondamentale per intraprendere percorsi che le portino ad essere parte attiva nelle famiglie e nelle società in cui vivono. In questo dossier di Pedagogika.it vogliamo indagare quanto le piccole realtà siano importanti ed efficaci in tali contesti e quanto si faccia invece sentire l’inefficacia di grandi organizzazioni non governative: centrali sono le testimonianze di chi ha avuto esperienza diretta nel promuovere la diffusione di un’istruzione per tutti. Altrettanto importante è il modo in cui, nella nostra società, l’istruzione pubblica ed ogni altro contesto educativo vivono la responsabilità di risvegliare le coscienze ed educarci a valori comunitari di solidarietà, giustizia ed equità.

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Denied rights: education In a period in which everyone invites us to duty we think it is necessary not to forget rights. Rights that for us don’t even have the “taste of rights” anymore, but that represent something far and unreachable for many people around the world. It would make sense, therefore, to think about that World in which people still enjoy too few rights to afford “the luxury” to think about their own duties as citizens and workers. Being it too wide an issue to deal with properly in a dossier of Pedagogika.it, we reduced the field to one of the many rights that are denied to children in the South of the World: the right to education. In spite of the Article 26 of the Universal Declaration of Human Rights, more than 100 million minors around the world don’t enjoy that right that reads: “Education shall be directed to the full development of the human personality and to the strengthening of respect for human rights and fundamental freedoms”. Particularly, for female world, women and girls education in developing countries is fundamental to start paths leading them to be an active part in their families and in the societies in which they live. In this dossier of Pedagogika.it we would like to investigate how important and effective are small realities in these settings and how ineffective big non-governmental organizations are: central is the account of people who have had personal experience in promoting the diffusion of an education for everyone. Equally important it’s the way in which, in our society, public education and other educational setting live the responsibility to awake consciences and to educate us to the social values of solidarity, justice and equity.

Dossier 9


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I giovani maghrebini scolarizzati: la forza dell’immaginazione, i luoghi del cambiamento Maghreb: tra diritto all’educazione e processi di rivoluzione

Dove si realizza, di cosa si nutre il diritto all’immaginazione se non attraverso il più elementare diritto all’educazione e alla formazione nel loro senso più profondo? E come non poter pensare quanto il diritto all’educazione sia il diritto alla scolarizzazione, ma anche il diritto all’educazione informale che, anche al di là delle scuole, si costruisce negli spazi e nei tempi della società civile, dei mass media e dei nuovi media, delle attività quotidiane coi pari? Paola Gandolfi*

Insegnando “Politiche educative nei paesi arabo-islamici del Mediterraneo” e avendo svolto da diversi anni ricerche pedagogiche e antropologiche in alcuni paesi arabi e in particolare in Maghreb, mi sono ritrovata spesso dinnanzi alla difficoltà di dover aiutare i miei studenti e i miei interlocutori a decostruire rappresentazioni diffuse sulle società arabo-islamiche e, nello specifico, sulle società maghrebine contemporanee. Negli ultimi dieci anni le società maghrebine sono state attraversate da importanti e delicati processi di cambiamento. Eppure, nella percezione diffusa, dalla vicina riva nord del Mediterraneo i paesi del Maghreb apparivano spesso monolitici, statici, rigidamente chiusi nelle loro strutture socio-politiche e socio-antropologiche, quando non ingarbugliati in stereotipi intrisi di fondamentalismo religioso o di minacce terroristiche. Con queste premesse, è impresa complessa provare a decostruire rappresentazioni e proporre griglie di lettura di una realtà così complessa ed eterogenea come quella di società come quella marocchina, tunisina, algerina. Quando mi trovavo (fino a poco più di un anno fa) a spiegare che la Tunisia ha portato avanti un progetto educativo impegnativo e singolare da molti anni e che è stato uno dei paesi arabi con il più importante tasso di scolarizzazione e di giovani formati nei gradi di scuola inferiore e superiore, e ancora, che la riforma educativa tunisina già all’epoca di Mohamed Charfi1 ha costituito un oggetto di studio e di dibattito pedagogico e 1  Mohamed Charfi, all’epoca presidente fondatore della Lega tunisina per i diritti dell’uomo, fu nominato già nei primi anni del governo di Ben Ali (dal 1989) Ministro dell’Educazione Nazionale, dell’Insegnamento Superiore e della Ricerca Scientifica, con l’incarico di riformare l’insegnamento alla luce dei “valori”della modernità e della cittadinanza. Le prime misure simboliche da lui adottate furono il ritiro di manuali scolastici di ispirazione islamista, il divieto di portare il velo a scuola, l’obbligo della mescolanza dei sessi nelle scuole, la riforma dei manuali e di cicli di insegnamento, la separazione tra educazione civica e educazione religiosa, l’insegnamento dei diritti dell’uomo come materia nelle scuole secondarie, e molto altro ancora (che sarebbe degno di un’attenzione molto più vasta).

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culturale non indifferente, per molti la Tunisia era un piccolo paradiso turistico a basso costo o coincideva quasi esclusivamente con l’idilliaca isola di Djerba. Oppure quando cercavo di dare delle coordinate per la comprensione di quella che chiamavo “la sfida dell’educazione nel Marocco contemporaneo”2 e di come il paese avesse per la prima volta nella sua storia recente scelto come priorità politica3 per il decennio 2000-2010 l’educazione, quasi nessuno sapeva che il Marocco era al centro di un difficile, lento, molto discutibile eppure significativo processo di riforme. Tale processo aveva incluso: cambiamenti nel Codice della famiglia e della persona (Moudawwana), il tentativo di valorizzare la più importante componente linguistica e culturale minoritaria nel paese (la lingua e la cultura amazighe – o berbera – riconoscendola come parte integrante dello storico patrimonio culturale del Marocco, rendendola oggetto di ricerche4 e finanche dal 2003 lingua di insegnamento obbligatorio per tutti nelle scuole primarie) e infine un processo di riconciliazione nazionale5 (unico nel mondo arabo-islamico) che ha cercato di fare luce sugli anni di piombo della dittatura del Re Hassan II. Quando spiegavo quanto numerosa fosse la componente giovanile in queste società maghrebine e come si esprimesse talora in forme artistiche e culturali underground con originalità, la reazione più ricorrente dei miei interlocutori stava nello scoprire, con stupore, che la stragrande maggioranza di questi giovani usava quotidianamente internet e i social network. La rappresentazione dominante voleva questi giovani fissi nel tempo e nello spazio, quasi senza tecnologie e senza competenze. Bisognava far capire che non solo i satelliti, le parabole, la telefonia mobile erano pressoché ovunque, ma anche che da anni questi giovani erano assidui navigatori del web e costruivano e comunicavano i loro desideri e i loro sogni tra i loro quartieri e la rete delle loro fitte connessioni e dei loro “paesaggi elettronici”6. Ebbene, ora, il susseguirsi degli eventi che hanno segnato il Maghreb e il mondo arabo in questo ultimo anno hanno decisamente contribuito a ribaltare alcune rappresentazioni prevalenti e recidive e a mostrare al mondo intero la presenza e la forza dei giovani nelle società arabo-islamiche e il loro livello di conoscenza, di competenza tecnologica, di consapevolezza socio-politica. Gli eventi delle rivolte e delle rivoluzioni in Maghreb (e poi altrove nel mondo arabo) hanno segnato una svolta storica, epocale, per i processi di cambiamento che hanno rappresentato e messo in moto, per la rottura che hanno segnato rispetto a “ciò che era”. Eppure, a mio parere, hanno significato una svolta anche per la rottura che hanno scalfito rispetto al passato in merito ad alcuni dati relativi alla realtà giovanile maghrebina 2  Cfr. P.Gandolfi, La sfida dell’educazione nel Marocco contemporaneo. Complessità e criticità dall’altra sponda del Mediterraneo, Sestante, Bergamo 2011. 3  Naturalmente immediatamente dopo quella che è sempre rimasta da decenni la prima preoccupazione politica nazionale ovvero l’integrità territoriale. 4  In particolare con la creazione nel 2002 dell’IRCAM – Istituto Reale di Ricerche per la Lingua e la Cultura Amazighe. 5  Per realizzare il quale è stata istituita la commissione IER – Istance Equité et Reconciliation nel 2004. 6  A. Appadurai (1996), Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001.

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contemporanea e ai processi di educazione e formazione che li riguardano. Oggi è sapere condiviso da tutti che tra i primissimi e più attivi protagonisti delle dinamiche di rivolta, di protesta e di rivoluzione ci siano stati i giovani, molti dei quali formati e diplomati, e che una buona parte delle dinamiche rivoluzionarie è stata possibile grazie all’abilità e alla facilità da parte di questi giovani contemporanei di comunicare e di agire tramite il web e i social network. Una mia prima considerazione che propongo è quindi nella direzione di un diritto all’educazione che trovi un’eco nella reciprocità o nel rapporto con l’alterità e che permetta ai giovani al centro di un processo educativo di essere rappresentati per quello che sono. Con questa premessa intorno all’idea di rottura con “ciò che era” e di rottura con le rappresentazioni dominanti fino al passato più recente, credo che i discorsi che si potrebbero aprire sono molteplici. Se il focus dell’analisi si ponesse intorno ai diritti e ai diritti negati credo ci sarebbe un complesso discorso da fare – e che ho già proposto altrove7 – che mette in stretta connessione queste dinamiche di trasformazione epocale e alcuni diritti fondamentali a lungo negati quali il diritto dei giovani maghrebini ad esprimersi, il diritto a trasgredire le norme esplicite ed implicite, il diritto a non aver più paura, il diritto a re-inventare la propria storia, il diritto ad essere giovani (o donne o adulti) e a partecipare, il diritto a pensarsi e ad agire come collettività. Ma anche, forse prima di tutto, il diritto a immaginare e immaginarsi altrimenti. Ma dove si realizza, di cosa si nutre il diritto all’immaginazione se non attraverso in primis il più elementare diritto all’educazione e alla formazione nel loro senso più profondo? E come non poter pensare quanto il diritto all’educazione sia il diritto alla scolarizzazione, ma anche il diritto all’educazione informale che, anche al di là delle scuole, si costruisce negli spazi e nei tempi della società civile, dei mass media e dei nuovi media, delle attività quotidiane coi pari? Credo che esistano due livelli di diritto all’educazione che sempre più nelle società maghrebine contemporanee si sono ampliati in questo decennio abbondante: a) il diritto all’educazione inteso come diritto alla scolarizzazione e che ha visto un aumento graduale e significativo del numero di giovani diplomati e formati; b) i processi educativi e formativi diretti e indiretti messi in atto dai mass media e dai nuovi media, dalla società civile, dalle istituzioni e dagli organismi religiosi, dai luoghi (anche i più informali e underground) di espressione artistica e culturale. Da un lato, allora, il processo di scolarizzazione e di educazione a livello“istituzionale” dei giovani è diventato sempre più importante nei paesi maghrebini degli ultimi 10-15 anni e a questo si è andato affiancando un dato di costante crescita demografica. La crescita esponenziale dei giovani ha cioè riguardato giovani formati, diplomati, laureati. Tutte le società maghrebine contemporanee sono però 7  Cfr. P. Gandolfi, “Quali diritti? Il diritto di trasgredire e di re-inventare la propria storia. Frammenti di storie e di inedite rivoluzioni in Maghreb”, DEP, n.18-19, 2012. http:www.unive.it/ media/allegato/dep/n18.2012/Finestra/Definitivi/18_Gandolfi_c.pdf

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da troppo tempo al centro di una crisi economica nazionale e regionale molto grave per cui questi giovani formati sin dagli anni ’90, e soprattutto negli ultimi 10 anni, sono andati a costituire la comunità dei cosiddetti diplomés-chomeurs (diplomatidisoccupati)8 che da sempre hanno rivendicato e lottato per i loro diritti e che hanno poi avuto un ruolo importante nei recenti processi di rivolta e di rivoluzione. Per quanto il singolo contesto delle società maghrebine sia molto diverso l’uno dall’altro, il tasso di scolarizzazione e di giovani laureati è andato aumentando ovunque in questo ultimo decennio. In un paese come il Marocco che a lungo è stato uno dei paesi con il più alto tasso di analfabetismo, è importante ricordare non solo significativi processi di alfabetizzazione in particolare nelle regioni svantaggiate e nelle zone rurali, ma anche quanto l’avvento della Carta per l’Educazione e la Formazione (1999) abbia segnato una sorta di spartiacque tra un prima e un dopo, mettendo in atto un processo di riforma e una politica educativa nazionale in cui per la prima volta assieme ai valori islamici e all’identità culturale della civiltà marocchina (i valori della monarchia e i valori nazionali), entravano ufficialmente a pieno titolo anche i valori della cittadinanza e quelli dei diritti dell’uomo nella loro accezione universale9. Il che ci racconta quanto la cittadinanza in ambito pedagogico, anche in Marocco, abbia cominciato ad essere pensata rispetto a un percorso che, accanto alla riaffermata realtà della nazione, ha visto diffondersi un processo di appropriazione dei diritti dell’uomo come metro di lettura della realtà, in una delicata interazione con altri processi quali la coesione sociale, le appartenenze comunitarie, i processi di individualizzazione, ma anche processi di partecipazione attiva alla vita sociale e culturale. La pedagogia marocchina contemporanea si interroga, quindi, sul senso dell’educare alla cittadinanza che sia un educare ai diritti e ai doveri, ma anche un educare ad essere attori partecipi nella complessa società marocchina contemporanea. Lungo e complesso sarebbe il discorso della corrispondenza tra principi e prassi, che ancora fa trapelare molte falle (e che richiederebbe un altro contributo); ma quel che mi pare interessante in questa sede è capire come ci sia stata una mutazione dei metri di lettura delle realtà che se ancora nelle pratiche pedagogiche e didattiche (oltre che nelle pratiche culturali e socio-politiche) si rivela contraddittoria, incerta e ambigua, ci suggerisce quanto le società maghrebine contemporanee siano pienamente e continuamente a confronto con questi parametri, a più livelli e in più contesti. 8  E. Montserrat Badimon, «Diplômés chômeurs au Maroc: dynamiques de pérennisation d’une action collective plurielle», L’année du Maghreb, III, 2007, pp. 297-311. S. Mazzella (dir.), La mondialisation étudiante. Le Maghreb entre Nord et Sud, Karthala, Paris 2009. 9  Come abbiamo visto la Tunisia aveva già cercato molti anni prima di introdurre ufficialmente nella propria politica educativa i parametri della cittadinanza e dei diritti dell’uomo, ma lo scarto tra la dichiarazione di principi e le prassi quotidiane socioculturali e sociopolitiche è stato così evidente nei decenni da risultare paradossale. Il discorso andrebbe anche a questo livello ampliato, al fine di comprendere quali siano i nessi sottili tra le strategie politiche, le modalità di mantenimento del potere e dello stato di polizia e le ufficiali aperture dichiarate nell’ambito politico e nello specifico nel contesto della politica educativa nazionale.

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L’altro livello di educazione e formazione, abbiamo visto, si gioca al di fuori della scuola ed è da analizzare in relazione all’appartenenza dei giovani ad un’eterogeneità, costruita intorno a immaginari locali e diasporici che hanno portato alla produzione di nuove soggettività. L’emergenza massiva della società civile in paesi come il Marocco e l’Algeria ha permesso alla vita associativa di questi ultimi anni di sbocciare e di partecipare alla produzione di tali soggettività. I mass media, le possibilità di comunicazioni elettroniche, l’apertura dei mercati nazionali a imprese transnazionali hanno ugualmente contribuito a ridurre le distanze e a trasformare le rappresentazioni del tempo. Ciò ha favorito delle interconnessioni complesse che hanno talora reinventato i legami tra i maghrebini e la loro appartenenza locale, creando trasformazioni culturali locali nutrite da un sentimento di de-territorializzazione10. Anche la cultura politica è stata colpita da queste mutazioni e si interroga sulla natura del locale in un mondo globalizzato e de-territorializzato11. La risposta a tali situazioni e interrogazioni passa in gran parte per il ruolo dell’immaginazione nella vita sociale, in ragione del fatto che le persone vedono sempre più la loro esistenza attraverso il prisma delle vite e dei mondi possibili offerti dalla diverse immagini, anche mediatiche, che circolano attraverso il mondo. L’immaginazione come pratica sociale passa attraverso l’immagine, l’immaginato e l’immaginario. L’immaginazione occupa dunque un posto essenziale nel rapporto degli individui con la globalizzazione e con la loro appartenenza nazionale, ma anche con i processi di cambiamento. Un flusso di movimento umano e culturale trasforma continuamente le comunità e la distribuzione e la disseminazione dell’informazione rendono la configurazione dell’immaginario nazionale e locale molto mobile. Uno sguardo trasversale sull’“essere maghrebini” nell’epoca della globalizzazione permette di rimettere in questione il compromesso tra ciò che un individuo può immaginare e ciò che la vita sociale gli permette. Ci si può ritrovare, cioè, ad immaginare la propria vita in funzione dei “paesaggi elettronici” ma anche dei molti altri paesaggi – “scapes”12 – con cui si entra in relazione13. Ne risulta un processo di soggettivazione che permette all’“essere marocchini” o “tunisini” o “maghrebini”, in quanto maniera di essere al mondo, di costituirsi come soggetto individuale e riflessivo e di relazionarsi in modo molteplice con gli obblighi collettivi, con le norme culturali, sociali, politiche, religiose. Ne deriva un continuo riposizionamento ovvero 10  Cfr. Bhabha H. (1994), I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001. Vertovec S., Cohen R., Migration, Diasporas, and Transnationalism, Elgar Reference Collection, Cheltenham 1999. Hannerz U., Transnational connections. Culture, People, Places, Columbia University Press, New York 1996. 11  Cfr.Basch L., Glick Schiller N., Szanton-Blanc C. (a cura di), Nations unbound: Transnational projects, postcolonial predicaments and deterritorialized nation-states, Gordon and Breach, New York 1994. 12  A. Appadurai (1996), Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001. 13  Il che potrebbe anche portare a forgiare un’appartenenza “rizomatica” (Cfr. G.Deleuze, F.Guattari., Rizoma, Edizioni Pratiche, Parma 1978). Ci si può allora domandare: cosa significa educare ad un’appartenenza caratterizzata da immaginari locali e diasporici? Al di là delle teorizzazioni, non si tratterebbe poi nel concreto di scegliere per una pedagogia che includa nel suo lessico e nelle sue prassi la mobilità, la de-territorializzazione, l’attraversamento di frontiere?

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una rielaborazione delle norme che si realizza dapprima a livello individuale e che poi, con la forza dell’immaginazione, riesce a costruire l’appartenenza ad una comunità che includa in modo costruttivo l’inedito. È sull’idea di immaginazione come forza creatrice, sulla creatività e quindi sul diritto alla re-invenzione della propria storia individuale e collettiva che si delinea una prassi di cambiamento. Da un lato, quindi, il diritto all’informazione e alla formazione dei giovani maghrebini si è andato moltiplicando negli spazi e nei tempi delle società globalizzate di cui anche questi giovani della riva sul del Mediterraneo sono parte e, dall’altro, nei luoghi dell’associazionismo e della società civile (in modi diversi da stato a stato, spesso anche in forme sotterranee e difficili). I luoghi e i modi dell’informazione e dalla formazione si sono moltiplicati e i nuovi media hanno portato ad una lenta frammentazione e contestazione delle autorità culturali, politiche e religiose convenzionali. Si è andata creando, da anni, una nuova sfera pubblica e la fruizione dei mass media e dei nuovi mezzi tecnologici ha creato spazi di informazione altra o alternativa, agendo sulla riformulazione delle norme. E’ tramite questi complessi ed eterogenei immaginari locali e transazionali che si è agito gradualmente sulla rielaborazione della propria storia individuale e poi collettiva. Credo dunque che bisognerebbe parlare di almeno due livelli inscindibili di diritto all’educazione e alla formazione, quello di politiche educative che negli anni hanno garantito un sempre maggiore accesso all’istruzione alla popolazione14 e quello che (in maniera talora indiretta) anche le società maghrebine contemporanee globalizzate hanno inevitabilmente contemplato nell’ambito dei nuovi media, dell’associazionismo, della produzione artistica e culturale underground e in tutti quei luoghi che gradualmente hanno costituito dei luoghi di educazione e formazione alla “cultura del cambiamento”. A conferma che un processo di rivolta, di rivoluzione, di profonda trasformazione passa attraverso una lenta e complessa “cultura del cambiamento” che si apprende e si mastica nei luoghi e nelle forme più molteplici ed eterogenee (anche informali) dell’educazione e della formazione, nel quotidiano. *Docente di Politiche educative nei paesi arabo-islamici del Mediterraneo e di Migrazioni e cooperazione internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo

14 Per quanto in questo momento in paesi come il Marocco il discorso non vada ancora nell’ordine di un’offerta formativa qualitativa, ma nella promozione dell’alfabetizzazione e della scolarizzazione.

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Scrive Mia Couto nel suo, forse non del tut- Avevo già ammirato la capacità di Atxaga di to imprevedibile, Veleni di Dio, medicine del descrivere delle deflagrazioni all’interno dei diavolo (ed. Voland): “Un europeo che cam- gruppi. Nel suo precedente romanzo Il libro mina nell’Africa profonda salta agli occhi. Si di mio fratello riusciva a descrivere la violenza muove a passi misurati, quasi troppo lenti, lo trattenuta e il clima claustrofobico all’interno sguardo cauto ad esplorare il cammino. Non si di una cellula dell’ETA. Lì la rottura avveniva fida, la sua ombra non gli ubbidisce. Passa per in modo netto, contrapposta ai capitoli preceil mercato, evita i venditori, i mendicanti, gli denti in cui si viveva immersi nella natura, in ubriachi. «Vita di merda» pensa, «Chi viene una progressiva quanto in parte inconsapevole da me non mi cerca come persona. Uno ha escalation si veniva calati all’interno della vita qualcosa da vendere, un quotidiana in un grupaltro qualcosa da rubapo separatista basco re. Nessuno mi avvicina che viveva sul confine in modo disinteressato. francese. La tensione si Dio, quanto me la fanno innalzava, fino a portapagare la razza!»”. re alla dissoluzione del E’ l’Africa, l’Africa gruppo e all’arresto dei nera, per quanto al membri come una sorta fondo, meno cupa e di liberazione. misteriosa di quella In questo nuovo roimmortalata dal granmanzo la scelta è dide Conrad nel suo ceversa come ambienlebre Cuore di tenebra. tazione. Potremmo La Couto narra del dire che dove Cuore di Mozambico, l’inquietenebra termina con to Conrad del Congo Kurz che nomina l’orche ispirò anche alcune rore, il testo di Axtaga memorabili scene Apoinizia rappresentandoci calypse now di Coppola. quello stesso orrore, veVi ricordate l’incipit: niamo trascinati in una “The Nellie, a cruising zona d’ombra dove il yawl, swung to her antempo si è fermato, in chor without a flutter cui domina l’immobiBernardo Atxaga of the sails, and was the lità anche delle cose, e L'ottava casa rest…”. Tranquilli, non proprio qui trova casa Passigli, lo conosco a memoria! l’orrore, come stravolBagno a Ripoli (FI) 2011, Lo riprendo dal testo gimento della quotipp. 225, € 16,50 con edizione originale dianità, arresto delle a fronte pubblicato nelancette dell’orologio,

Ambrogio Cozzi

Angelo Villa

A due Voci

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gli Oscar Mondadori e che si avvale di una puntuta introduzione del burbero e polemico Naipaul, un autore mai banale, non sempre (e per fortuna!) politicamente corretto. Già, il Congo, per l’appunto, al centro del continente africano, il suo lato meno turistico e più caotico. Una terra ricchissima, un Paese in miseria. Pinol, un antropologo e romanziere catalano, ha scritto un libro di enorme successo, quanto meno all’estero, dal titolo Congo. Inferno verde (ed. Fazi). Una storia d’avventura, estremamente appassionante. Il Congo, annota Pinol, è un oceano verde: “E, sotto gli alberi, il nulla”. Leggetelo, vi catturerà sin dalla prima pagina. Tuttavia non è di Pinol che voglio parlare, ma di un altro suo conterraneo, non oserei mai dire un suo connazionale, cioè uno spagnolo. Lo scrittore cui mi riferisco è infatti basco, si chiama Bernardo Axtaga ed è l’autore di L’ottava casa, edito da Passigli. Anch’esso ambientato, of course, in Congo. L’ottava casa narra le vicende di un distaccamento dell’esercito privato di Leopoldo II nel Congo belga, a Yagambi, all’inizio del secolo. Romanzo ottimamente scritto, di piacevolissima lettura. La storia ha come suoi protagonisti: il capitano della legione, un uomo dall’animo poetico maritato con una donna avida, rimasta (sic!) in Europa, che vuole possedere ben sette case, richiesta che lo costringe a trafficare in mogano e avorio per soddisfare tale esigenza; il suo rozzo luogotenente Van Thiegel che vuole edipicamente rubargli la moglie, la seducente (da foto) Christine, la duecentesima preda del suo carniere; Chrisostome, sospettato di omosessualità, gran tiratore che spara ai mandrilli… E’ il racconto d’un tempo che sembra bloccato come in una palla di vetro, fermo, parassitario, ma, in un certo senso, a suo modo, non immobi-

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apertura su un’altra scena dominata dalla violenza e dalla stupidità. Non ci si attendano scene pulp alla Tarantino, o vicine a certi finali hard boiled di gialli che vanno per la maggiore, qui la violenza si insinua piano, nelle fessure minime delle giornate immobili, in intolleranze e maldicenze che molto dicono sulla difficoltà e a volte addirittura l’impossibilità di condividere qualcosa che esca da uno stupido formalismo rituale. La storia è quella di un avamposto militare nel Congo durante la colonizzazione belga, un avamposto sperduto, sembra l’ultimo prima che la foresta pluviale invada e inghiotta tutto. Il lavoro di estrazione della gomma e del taglio degli alberi viene rappresentato come una fatica immensa, un corpo a corpo con la natura che sullo sfondo appare vincente e sfuggente, animata quasi da una volontà di non farsi conquistare, di opporsi al lavoro degli uomini. Qui la situazione si biforca narrativamente, dall’arrivo il luogo dominante diventa l’interno dell’avamposto, le relazioni tra i militari che vi vivono, trascinando giornate sempre uguali che sfociano in rivalità e aggressività giocate su più piani dalla maldicenza a trame più o meno infide. Ma c’è un tema che accomuna sia le figure che ci appaiono positive (come Chrisostome), sia quelle negative (come il capitano Lalande Biran, corrotto che cerca solo di accumulare denaro per regalare alla moglie la settima casa da comprare in Costa Azzurra): il tema è quello della paura del contagio, metaforizzato come contagio sessuale che spinge l’uno a stuprare vergini e l’altro a rifiutare ogni contatto sessuale mediante una religiosità colpevolizzante e ossessiva. Ma il contagio è quello che altri come Richardson e Van Thiegel hanno invece contratto perdendosi, trovando in questa perdizione un alibi, un modo comunque per evitare il contatto con l’altro. L’altro sono gli indigeni che appaio-


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le. Tutto sembra assurdo e, nel contempo, iperreale. In particolare, è il tema della distanza ad apparire trasfigurato nella storia. I bianchi lontani dall’Europa, ma anche da sé stessi. Gli africani che guardano, subiscono. Paiono mondi che si riaprono all’interno di mondi che, a loro volta, si dischiudono a cascata su altri… Come se si alzasse un velo dietro al quale se ne dispone un altro e così via. Una sensazione appare chiara, quella di una separazione tra uomini e culture diverse, anche se risulta poi difficile cogliere il senso preciso di questa differenza. Il Kurtz conradiano era più immaginifico, evocativo. Qui, invece, una linea sottile si sdoppia, si rarefa, si dissolve e puntualmente ricompare. Lasciando ciascuno prigioniero della sua storia. Non è allora curioso che Pinol, un catalano, e Atxaga, un basco, scrivano di quel Paese africano? Due spagnoli, controvoglia? Tocca forse a loro riproporre su una scena più vasta la complessa questione di un’identità alienata, di uno sguardo orfano di uno specchio? Ma cos’è allora il Congo? Una regione dell’Africa o, anche, e soprattutto un luogo della mente, uno stato improbabile dell’essere? Lo spazio di un’eterna sospensione dell’accader soggettivo, dove la vita passa, anche brutalmente, senza che mai avvenga? Ritorno sulle parole di Mia Couto che ben si addicono al sentimento di estraneità che può assalire un europeo, un bianco in quelle terre. Come se l’umano, con la sua unificante pretesa di omogeneità, si smarrisse questa volta in mille rivoli, in un agglomerato di frammenti, di pezzi contrapposti, incapace di ritrovarsi in un sentire comune. Perché Congo significa poi, alla fin fine, dietro le maschere o le recite di convenienze, violenza, sopraffazione, incomunicabilità… Bianchi su neri, ma anche neri su bianchi e poi bianchi su bianchi, neri su neri… Il

no sullo sfondo come protagonisti secondari, schiavi al lavoro protagonisti di sporadiche e perdenti ribellioni o fughe, o come oggetti sessuali. Lontani eppure così vicini, lì dietro la svolta di un sentiero della foresta, eppure per certi versi imprendibili e incomprensibili. Questo è l’orrore che si scatenerà in una catastrofe finale senza redenzione dove più piani di vendetta si incrociano. Quello del padrone bianco che possiede tutte le donne e non può permettere che altri cerchino di impossessarsene, che giocherà la vendetta tramite un sotterfugio, senza esporsi, approfittando di tensioni già esistenti che lui decide di sfruttare. Quello dei neri che attraverso i serpenti raggiungeranno una mezza vendetta, mandando Lalande Biran nell’ottava casa. Serpenti che si possono liberare ora che la Madonna che giaceva sulla riva è stata portata via, posta su un’altura a vigilare sul continente. L’assenza delle donne, che appaiono solo saltuariamente come oggetti è ciò che scatena la progressiva follia? Dall’immagine della Madonna che schiaccia la testa dei serpenti si arriva ai serpenti che si scatenano nella sua assenza? Ma vi è un altro tema dominante, ed è quello di un’Europa lontana e persa nei traffici e nella cupidigia, nello spreco dell’accumulo di case disabitate, nella stupidità di una poesia senza dove le parole non si stringono al mondo, sono anzi usate per eluderlo. Lontananza che è ben rappresentata da Lassalle, il giornalista inviato a scrivere il reportage e che si trova a scrivere lettere di condoglianze al posto di chi “non vede”. Vorrei chiudere con una citazione tratta da Il sogno del Celta, la biografia di Roger Casement (figura allo stesso tempo ambigua e limpida dell’anticolonialismo, tralascio qui altre informazioni per ragioni di spazio), anche lui funzionario coloniale in Congo, è rinchiuso in cella alla viglia dell’esecuzione «Steso sulla branda di spalle, con gli occhi

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razzismo è solo una forma “socializzata” di quella insensata distruttività che ogni essere umano porta dentro di sé. L’inferno (verde?), cioè il Congo, Pinol dixit, sono gli altri, diceva Sartre. Occorre correggere la formula: l’inferno è dentro di noi. E il Congo è solo la cartina di tornasole di una realtà che l’esotismo dilata, confonde. O che forse gli regala una equivoca libertà di manovra, d’azione. Un’apparente messa tra parentesi delle regole che presiedono alla cosiddetta civile convivenza, ma che probabilmente tanto civile non lo è mai. Il Congo, quel Congo è un po’ ovunque. La geografia inventa poco, spesso inganna. Ricorda saggiamente Marlow in Cuore di tenebra, riferendosi a… Londra: “E anche questo è stato un angolo tenebroso della terra”. E, forse, lo è ancora. A presto, dunque, alla foce del Tamigi, in una città qualsiasi o, senza scomodarsi molto, alla prossima assemblea di condominio… La tenebra ci assilla, ci distrugge e, nel contempo, domanda la luce. Anche nel Congo, vero e proprio. Imparassimo a riconoscere con onestà la verità della prima, il bisogno carnale della seconda…

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chiusi, gli tornò alla memoria Joseph Conrad. Si sarebbe sentito meglio se il marinaio avesse firmato la sua petizione? Forse sì, forse no. Che cosa gli aveva voluto dire, quella notte, nella sua villetta nel Kent, quando affermò “Prima di recarmi nel Congo io non ero altro che un povero animale”? La frase l’aveva impressionato, anche senza comprenderla del tutto. Che cosa significava? Forse che, quello che fece, quello che smise di fare, vide e udì in quei sei mesi nel Medio e Alto Congo gli aveva ridestato inquietudini più profonde e trascendenti sulla condizione umana, sul peccato originale, sul male, sulla Storia. Roger poteva capirlo molto bene. Anche a lui il Congo l’aveva reso più umano, se essere umano significava conoscere gli estremi cui potevano arrivare la cupidigia, l’avarizia, i pregiudizi, la crudeltà. La corruzione morale era proprio questo, sì: qualcosa che fra gli animali non esisteva, una esclusività degli umani… Per lottare contro l’avvilimento che lo stava invadendo tentò d’immaginare il piacere che sarebbe stato farsi un lungo bagno in una vasca, con molta acqua e molto sapone, stringendo contro il suo un altro corpo nudo”. P.S. Conrad non firmò la petizione per salvare Casement dal patibolo. Come scrive Vargas Llosa per Casement “Gli eroi non sono statue, non sono esseri perfetti”, forse è più vero di quello che riusciamo ad immaginare.


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Scelti per voi

a cura di Ambrogio Cozzi

libri

libri, cinema, musica

Paolo Mottana Piccolo manuale di controeducazione Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2012, pp. 122, € 12,00 Nostalgia e invidia: sono le parole chiave che nominano, dopo la lettura di questo atipico manuale, i sentimenti di chi, come me, ha attraversato stagioni dell’educazione, belle e fertili alcune, bruttine e deprimenti molte altre, compresa la presente. Nostalgia per quei tempi in cui bambini che ha in mente l’autore davvero sono esistiti, davvero scorrazzavano per piazze, campetti e sterpaglie facendo delle loro giornate luogo e tempo dell’esperienza avventurosa del crescere. Invidia per non aver saputo cogliere da educatore e pedagogista, con altrettanta sensibilità, quel che stava accadendo, tra un tentativo di riforma e l’altro, alla scuola e all’educazione, nella seconda metà dell’appena trascorso secolo breve. Paolo Mottana traccia, con poche ma intense pagine, una sorta di foto senza veli di quel che è diventata la nostra scuola in termini di educatività, della vita quotidiana di bambini e ragazzi in termini di sostenibilità, degli insegnanti in termini di frustrazione e decadimento professionale. Non vi sono, come lui stesso dice nel suo “barbarico incipit”, puntuali istruzioni su come salvare i bambini dall’educa-

strazione né su come scatenarli contro l’ortometria pedagogica, calcolata e disciplinata. Ma, certamente, si evidenzia la necessità di farlo, e presto, per dare senso ad una disciplina che non voglia limitarsi a officiare ieratici e consunti riti pedagogici. Si tratta anche di recuperare suggestioni antiche di vecchie battaglie, di valorizzarne di nuove, ancora in corso, nella direzione del ribaltamento e della rifondazione radicale della scuola; vi si riparla di Steiner e di Ilich, di Schérer e di Naranjo, contro “la bruttezza, la noia, la trascuratezza diffuse in ogni dove”. Soprattutto viene stigmatizzato il continuo ricorso, in educazione, alle logiche sacrificali dei sacerdoti del martirio e della fatica; la domanda – semplice e terribile nella sua crudezza, nuova nello stile enunciativo, alieno da accademici e raffinati stilemi – che si fa e ci fa Mottana, può essere ricondotta, anche se con diversi e dissacranti accenti, a quella che, cento anni fa, nel 1912, nel suo Chiudiamo le scuole, pronunciava Giovanni Papini: “Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello?”. Non a caso lo stile è volutamente caustico e le parole, intenzionalmente graffianti, non concedono sconti: barbari, incendi, braci, pervertita, strali, contumelie, livorosi, ossessioni, ubbìe, borborigmi, dispendio. Ma anche, sul versante di una riscossa possibile, iniziazioni e restituzioni, espansioni e liberazioni, esuberanza, sgorgare, scaturire per arrivare a definire, con estrema e inusuale efficacia, il compito controeducativo: “occorre ripensare lo spazio, il tessuto fisico dell’esperienza gio-

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vanile, sgomberarlo, liberarlo, disseminarlo di opportunità di nuovo cimento, di nuova sperimentazione”. Questo libro si può amarlo come tutte le cose che hanno il pregio della chiarezza o odiarlo, magari per la stessa ragione, perché ti toglie ogni alibi! Certamente non si può ignorarlo: può essere un seme o una bomba, dipende da chi lo legge. Per mio conto sono curioso di sapere se la palude del paludato sapere ne sarà scossa o se riuscirà ad ingoiare ed omologare anche questo grido di amore per l’educazione. Un’ultima chiosa merita il suo Post-sfizio. Oracoli e ascendenti. Non è una bibliografia quella che ha scritto Paolo Mottana, è qualcosa di più: vi sono, piuttosto, raccontati e descritti – con le loro opere e in un simpatico rovesciamento del loro ruolo di mentori, alcuni inconsapevoli, altri suoi veri e diretti maestri – coloro che ne hanno ispirato, in varia misura, l’ermeneutica pedagogica, accompagnato le intuizioni fondative, condiviso tappe e percorsi del suo crescere professionale e scientifico. Da leggere, da studiare, questo manuale. Salvatore Guida Gail E. Dennison, Paul E. Dennison, Jerry V. Teplitz Brain Gym® per l'impresa. Una fonte di energia immediata per il cervello per stare bene e lavorare meglio InfinitiForm Edizioni, Pavia 2011, pp. 128, € 24.00

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Durante gli anni ‘70 Paul E. Dennison, pedagogista americano, ha sviluppato una disciplina, la Kinesiologia Educativa, con l’obiettivo di migliorare l’apprendimento e le potenzialità di ognuno a scuola e al lavoro mediante l’integrazione e il riequilibrio degli emisferi cerebrali e dell’intero sistema corporeo, disciplina i cui studi sono ancora oggi in continua evoluzione presso l’EDU-K Foundation, in California. All’interno della Kinesiologia Educativa il Brain Gym® rappresenta un programma, basato su semplici movimenti corporei che attivano la mente, che ha ancora ampi margini di divulgazione nel nostro Paese. A diffondere una maggiore conoscenza di questo metodo, si dedica la società “InfinitiForm” di P. Salvi e di M. P. Casali, pedagogista e Brain Gym® Teacher, tramite corsi individuali e di gruppo nella sua sede di Pavia e nel resto d’Italia (vedi www.infinitiform.it). La versione italiana di questo manuale di Paul E. Dennison, di sua moglie Gail E. Dennison e di Jerry V. Teplitz, tradotto da S. Loos, curato dalla stessa Casali e contenente dei bei disegni inediti di M. Brancaforte, rappresenta un ulteriore tassello nella divulgazione a tutto campo di questa pratica: il metodo e, naturalmente, buona parte degli esercizi che vengono descritti sono rivolti infatti ad un pubblico ben più vasto di quello dell’impresa, si potrebbe dire a tutti coloro che necessitano, come recita il sottotitolo, di “una fonte di energia immediata per il cervello per stare bene e lavorare meglio”. E chi non ne ha bisogno? Così viene illustrata la procedura per ri-accordarsi in 7 minuti, una semplice sequenza di attività di Brain Gym® che possono essere fatte ogni mattina. Scrivono Salvi e Casali


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nella nota a pag. 15: «Abbiamo scelto di tradurre “The Seven-Minute Tune-up” con ri-accordarsi perché [questa espressione] vuol dire predisporre le nostre ‘corde’ per la musica che vogliamo o dobbiamo suonare, individualmente o ‘in orchestra’. Vuol dire prendere atto che ci scordiamo di noi e continuiamo a suonare ‘scordati’: un invito a ri-cordarci di quello che siamo e che stiamo facendo nel presente, qui ed ora, per una lettura proficua del passato e una pianificazione attenta del futuro [...] Questo ri-accordarsi è un’opportunità per cominciare facilmente e con successo la giornata, assicurandoti che il tuo cervello – in realtà il tuo intero sistema – riceva il sangue, l’ossigeno e l’elettricità di cui hai bisogno. Eseguendo questo ciclo tutti i giorni ti sentirai meglio e decisamente più efficiente”. Il libro contiene poi degli indici minuziosi e specifici delle “Aree di lavoro” e delle “Competenze” che guidano le attività di Brain Gym® con le quali si possono individuare le abilità che si intendono migliorare. Il metodo Brain Gym® è e rimane comunque una pratica educativa ed autoeducativa: per questo la lettura del manuale mi sembra particolarmente consigliata a chi opera in questo settore, nel sociale, in quello delle relazioni umane. Marco Taddei Michela Marzano Volevo essere una farfalla. Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere Mondadori, Milano 2011, pp. 208, € 17,50

Di ritorno da Milano, passo alla stazione da Feltrinelli e, invece di curiosare tra la saggistica psicopedagogica, sociale, politica, vado alla sezione narrativa e novità e mi colpiscono questo titolo, Volevo essere una farfalla, e l’autrice, Michela Marzano, una filosofa ex normalista, docente a Paris Descartes, autrice di saggi di filosofia, morale, sociopolitica, quindi non una scrittrice a tutto tondo. E sono stato premiato! Tre ore di viaggio, tre ore di lettura intensa, appassionante, interessata e veloce! Era tempo che non leggevo un romanzo con tanto interesse! Ma il libro che ho acquistato, più per impulso che per scelta ragionata, in effetti non è un romanzo! Non è un’autobiografia, non sono memorie, non è una ricerca sociologica, non è un saggio, non è uno scritto di autoanalisi… eppure è tutte queste cose insieme, una chiave narrativa assolutamente originale e nel contempo assolutamente avvincente! Il “come l’anoressia mi ha insegnato a vivere”, che compare in copertina, non giustifica affatto il libro né ne costituisce l’hard core! Non è un libro sull’anoressia, questa è solo l’aspetto esteriore di un male profondo che è di una bambina, di una ragazza, che vuole solo vivere, comprendere, gioire e crescere in una situazione in cui un padre, severo docente universitario, e una madre amorevole non sono affatto la ragione scatenante di ciò che la affligge. È la fatica di vivere, o meglio la fatica di voler capire tutto, afferrare tutto che aggredisce e attanaglia la piccola Michela, il conflitto tra un dover essere atteso e perseguito con ostinazione e un essere fragile, indife-

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so, forse insufficientemente protetto da un calore famigliare, che in effetti non le manca. Di qui si snoda tutta la sua vita che non è un racconto lineare e puntuale, cronologicamente condotto: si tratta di una serie di flash come “confessioni” rese sul lettino dell’analista, che si susseguono come in una serie di foto e di videoclip, sostenute e “commentate” da spunti di analisi sempre puntuali e sottili. Michela costruisce la sua storia con criteri atemporali perché non è lo scorrere del tempo che caratterizza il suo crescere e maturarsi! È come se la variabile essere, il dipanarsi dell’essere, ammortizzasse la variabile tempo: è l’inquietudine costante e insoddisfatta di Michela bambina, giovinetta, adulta, studentessa, professore, filosofo, che tesse il filo della narrazione, una sorta di diario che, però, non afferisce al susseguirsi dei giorni, ma è scandito per dolori e gioie, pensieri di morte e inni alla vita. Si tratta di 62 capitoletti, di 3 o 4 pagine ciascuno… e ciascuno ha la sua autonomia. Piccoli medaglioni, direi! E allora sono divagazioni? No! Ricordi? No! Commenti? No! Eppure sono tutte queste cose insieme… la sua vita, le sue gioie, i suoi dolori, i suoi studi, i suoi amori, i suoi interessi, la sua caparbietà nel conoscere e amare ogni cosa che fa con un’onestà profonda, sostenuta da curiosità, voglia di capire, di mettere ordine, di scazzi furenti a volte, e di grandi empiti di felicità. Ma è la sua vita stessa che è un insieme di cammei, non c’è un inizio, non c’è una fine, soprattutto non c’è un fine… Ciò che conta e vive da bam-

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bina ha la stessa forza di ciò che sente da studentessa, da normalista, da docente universitaria, da ricercatrice, da filosofa… Non è un romanzo perché non c’è una storia, un inizio, una fine, un fine, non c’è neanche una narrazione distesa, ma una serie infinita di eventi e di riflessioni. Il richiamo che Michela fa a Nelly Arcan, la putain suicida a soli 34 anni, dà il senso del travaglio lancinante di una donna, di un mondo al femminile di oggi, tuttora alla ricerca di un posto in una società forse ancora immatura per capirla e accoglierla. Michela ci ricorda che dopo Putain Nelly aveva scritto Folle, pazza: la paura di una donna non tanto di essere abbandonata, quanto di non essere, forse perché si è, se si è in due! E la disperazione assoluta ricordata in quarta di copertina dall’editore francese divenne una buona ricetta per vendere! E Michela sottolinea il cinismo di una società che strumentalizza tutto, anche la disperazione e la morte! “Imparare a vivere significa accettare l’attesa, la sospensione, l’incertezza. Integrare lentamente l’idea che, nonostante tutto, il vuoto che ci portiamo dentro non potrà mai essere del tutto colmato. Che ci sarà sempre qualcosa che ci manca. E che è proprio questa assenza che caratterizza il nostro rapporto con il tempo, con lo spazio, con l’amore… E che gli altri non sono ‘cattivi’ se non sono sempre lì, pronti a intervenire, pronti a fare qualcosa perché il vuoto faccia meno male”: una delle tante perle di saggezza con cui Michela ama chiosare le pagine del suo libro! Da non perdere! Maurizio Tiriticco


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Ramona Parenzan Babel Hotel. Vite migranti nel condominio più controverso d'Italia Infinito Edizioni, Castel Gandolfo (RM) 2011, pp. 192, € 17,00 Leggere Babel Hotel vuol dire prendere coscienza di una realtà che cerchiamo di ignorare, ma che è più vicina di quanto non immaginiamo. Ogni giorno ci imbattiamo in individui, che chiamiamo immigrati, extracomunitari o genericamente marocchini, senza considerare la loro reale provenienza. Chiusi nella nostra indifferenza e nella presunzione di trovarci a casa nostra, in un mondo civile ed evoluto, non intendiamo aprirci ad uomini che consideriamo privi di cultura e arretrati, anche se ci preoccupiamo di negare d’essere razzisti. Noi ci rifiutiamo di conoscere questi migranti, la loro storia, i loro bisogni e ci lasciamo guidare dai pregiudizi che li dipingono come delinquenti, incivili, sporchi e privi di valori. Così sono visti gli abitanti dell’Hotel House, una costruzione enorme che accoglie circa tremila persone provenienti dai luoghi più disparati della terra, che sono riuscite a creare una sorta di convivenza civile nel rispetto delle diverse abitudini di vita. Certo la mescolanza di etnie e idiomi diversi evoca la confusione e la difficoltà di comprendersi, simboleggiate dalla Torre di Babele di biblica memoria, ma se, superando i pregiudizi e la diffidenza da cui l’Hotel House è avvolto, ci

addentriamo in quello che gli abitanti di Porto Recanati definiscono con gli epiteti più offensivi, quali gigante di cemento, mostro, isola, ci accorgiamo che i diciassette piani che lo compongono brulicano di una umanità viva, uomini, donne, bambini, animati da sogni e speranze, determinati a realizzarli in una terra che hanno imparato ad amare sin da quando hanno deciso di lasciare il paese natio per raggiungere quella che ai loro occhi appariva come il mitico “Eldorado” o l’America. I protagonisti dei racconti di Babel Hotel sono ispirati a persone reali che, si possono incontrare nell’Hotel House e che vivono la loro vita dedite ai lavori più umili, che gli Italiani rifiutano di svolgere e, pur attraverso le mille rinunce a cui si sottopongono, continuano a coltivare i loro sogni. Tra questi potremmo trovare Lerato Mokhine, una cantante hip hop sudafricana portata in Italia all’età di sedici anni, autrice di due CD e di un libro non ancora pubblicato. Viene arrestata nel corso di un’operazione di polizia in seguito ad una denuncia di ignoti. Portata su un velivolo da trasporto con una trentina di donne e bambini, sogna una partita di basket tra gli ospiti dell’Hotel House e il resto dell’Italia iniziata da due millenni, alla quale assistono i nomi più importanti della lotta per i diritti umani. Potremmo incontrare il senegalese che ha affrontato le peripezie del viaggio verso la libertà e, dopo dieci giorni dal suo arrivo, trova lavoro in un cantiere edile. Deluso dalla scarsa paga ricevuta, decide di studiare per uscire dall’ignoranza e combattere l’ingiustizia, ma, a causa di un incidente sul lavoro, che gli

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causa la perdita di un braccio, perde, con la possibilità di ricominciare un’altra vita e lavorare, la dignità. Kiki, una ragazza senegalese di sedici anni, da poco arrivata in Italia, rimpiange la sua terra, i parenti lasciati là, e ha difficoltà di inserimento nella realtà scolastica, ma non può gridare il suo odio per l’Italia. Sono alcuni dei personaggi che popolano l’Hotel House, accomunati da identiche storie di sofferenza, di miseria, di guerra, che si sentono a proprio agio solo all’interno di questo condominio, nonostante l’evidente stato di degrado e di abbandono in cui l’edificio è lasciato dal Comune e dagli Organi competenti, in quanto solo qui si riappropriano della loro identità, di cui si sentono defraudati in una società che non li vede, non li considera come uomini, ma degli invisibili. Un elemento che li accomuna è infatti la perdita identitaria: l’identità dell’immigrato è definita in base alle apparenze e la loro immagine appare sfocata sia agli occhi degli autoctoni, che a quelli dei migranti stessi. Appaiono come alieni all’interno della società italiana, privi persino del diritto di dissentire, che è prerogativa di chi è riuscito ad ottenere il riconoscimento della propria identità, come sogna Pedrafà, un uomo colto che ha affrontato un viaggio massacrante per giungere in Italia e, di fronte al degrado dell’Hotel House, non si perde d’animo, si rimbocca le maniche per fare dell’Hotel House un luogo collegato con il centro, ben organizzato, in cui si possono ascoltare echi di Paesi lontani. Possiamo condividere questo sogno e auspicare che si creino in Italia e nel

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mondo realtà in cui ci si senta tutti cittadini con gli stessi diritti e doveri, indipendentemente dal Paese di provenienza, visto che la condizione umana è caratterizzata proprio dalla mobilità e la vita stessa può essere immaginata come un’esperienza migratoria continua. Nicoletta Mandaradoni Richard David Precht L’arte di non essere egoisti. Perché vorremmo tanto essere buoni e cosa ci impedisce di farlo Garzanti, Milano 2012, pp. 514, € 28,00 “L’uomo è buono, è la gente che è bastarda”. È questa celebre frase del drammaturgo ottocentesco Nestroy ad aprire il libro L’arte di non essere egoisti di Richard David Precht, un giovane filosofo, scrittore e giornalista tedesco formatosi all’Università di Colonia e collaboratore di quasi tutte le più importanti testate e reti televisive tedesche. Il libro, a prima vista imponente con le sue cinquecento pagine, si pone un fine tutt’altro che semplice; rispondere a domande quali: «Che cosa sappiamo nel XXI secolo della natura morale dell’uomo? […] Quando agiamo moralmente e quando no? Perché non siamo tutti buoni come vorremmo? Come potremmo cambiare la nostra società per renderla “migliore” a lungo termine?». La risposta di Precht si sviluppa raccogliendo nel testo materiale proveniente da discipline diverse, dalla


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sociobiologia alla filosofia, dall’empirismo inglese alle scienze cognitive, il tutto con un solo imperativo: evitare il settorialismo e la parcellizzazione del sapere così da poter presentare il concetto di morale nel modo meno particolare e limitato possibile. Il volume è diviso in tre parti. La prima, partendo da Platone e Aristotele, passando da Hobbes e Huxley e arrivando agli studi di neuroscienze sui primati, pone l’attenzione su alcuni punti critici dell’idea di Bene come l’impossibilità di darne una definizione precisa o come la difficoltà di scegliere tra tanti buoni propositi quale sia il migliore. Il bene, sostiene Precht, non è un’idea assoluta, non esiste al di là delle persone e la stessa morale non è qualcosa di separabile dall’uomo. La capacità morale è, infatti, innata e si sviluppa influenzata dall’educazione e dalla società fino a raggiungere il livello di un elaborato senso di giustizia. L’essere umano agisce sì in base al proprio interesse, ma ciò non vuol dire che sia uno spietato egoista anzi il più delle volte il suo interesse coincide con l’avere fiducia, affetto e amore e il benessere che si prova nell’essere buoni. Ma se ciò è vero, perché, allora nel mondo esiste così tanto male? Perché non esistono solo cose belle nella natura morale umana, ma anche cose brutte ed è a esse che è dedicata la seconda parte del libro. Nonostante le nostre “armi razionali” siano in grado di formulare massime universali e ci spingano a voler essere buoni, esserlo veramente è un compito molto arduo. Ciò, è dovuto soprattutto al fatto che i comportamenti altrui influenzano il

nostro modo di pensare e comportarci e al fatto che mostriamo totale disinteresse per quei problemi che vanno al di là della nostra sfera morale perlopiù limitata alla comunità in cui viviamo. A questo si aggiungono, nella terza parte del libro, il nostro morboso attaccamento al denaro, il dilagante consumismo e la competizione economica che hanno provocato un progressivo peggioramento della coesione sociale. Come fare in una tale situazione a riportare le virtù morali all’interno della società? Il filosofo tedesco sembra avere le idee molto chiare a riguardo fornendo al lettore soluzioni non solo teoriche, ma anche pratiche. Chi pensa di trovarsi di fronte al solito incomprensibile saggio di filosofia si sbaglia di grosso. I massimi sistemi di etica teorica vengono affrontati da Precht con un linguaggio sobrio e comprensibile adatto al grande pubblico e non necessariamente ristretto agli addetti ai lavori. Fanno sorridere le descrizioni di Platone come l’inventore dei talk show, di Socrate come “un vagabondo senza arte né parte, un senzatetto, […] dall’ingegno sopraffino” e di Aristotele come “un uomo che andò a riprendersi l’etica in cielo per radicarla nel cuore umano”. Che dire allora di questo testo? Niente di meno che un esperimento ben riuscito di come la filosofia possa mescolarsi nella società tra noi “comuni mortali” per indicarci il cammino verso il Bene nella convinzione che “chi ci considera cattivi per natura […] si preclude la strada per educarci ad essere migliori”. Serena Bignamini

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musica

The Black Keys El Camino Nonesuch, 2011, € 19,90

a cura di Angelo Villa

Tom Waits Bad as me Anti-, 2011, € 19,50

Vinicio Capossela Marinai, profeti e balene Atlantic, 2011, € 22,50 Steven Wilson Grace for Drowning K-scope, 2011, € 15,90 Ben più dei gatti che, di vite, si dice che abbiano appena sette, il rock ne possiede tante da garantirgli un indiscusso attributo, quello dell’immortalità. Non è del tutto sicuro che ciò comporti necessariamente un privilegio, forse la vita sogna anche di potersi concedere un meritato riposo, forse, ancora, ciò condanna un genere musicale a una ripetizione infinita, snervante, in definitiva noiosa… Ma poi che importa? E’ solo rock and roll, come cantavano i Rolling Stones. Meglio lasciar cader questioni eccessivamente oziose o cerebrali e arrendersi a una

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piacevole constatazione: il rock non muore. Mai, almeno per il momento. Una conferma in tal senso viene dall’ottavo cd, il migliore a detta degli esperti più raffinati, di un duo di ragazzotti dell’Ohio che si fanno chiamare The Black Keys. Uno suona la chitarra, l’altro la batteria: in una parola, l’essenziale ridotto ai suoi minimi termini. Ovviamente, nell’incisione altri gli danno una mano, per quanto il suono degli strumenti dei due titolari della premiata ditta siano spesso in primo piano. Il titolo dell’album è El Camino. E’ rock, per l’appunto, ma per nulla scontato. Le undici canzoni sono davvero belle, vive. Sprizzano energie. Dispiace che il cd finisca, troppo presto, ahimè, perché si vorrebbe continuasse ancora un po’… Ma è così. Tra i brani ascoltati mi ha impressionato “Little Black Submarine”, lirica e trascinante. Una canzone quasi divisa in due, tra una parte iniziale dolce, accattivante, stile ballata acustica, e una successiva dominata da un vertiginoso crescendo elettrico. Un brano che non può far a meno di ricordare la celebre “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin. Brothers, il loro cd uscito nel 2010, ha venduto milioni copie e sbancato i grammys. E’ facile profezia ipotizzare che El Camino imbocchi la medesima strada, come recita opportunamente il titolo. Rock on, dunque. Passo oltre. Ammetto che d’istinto ho (mentalmente) storto il naso quando mi è stato regalato l’ultimo cd di Tom Waits. Chi me lo stava regalando mi era troppo caro perché potessi obiettare o sollevare chissà quali perplessità. Nel mio intimo, liberando quella supponenza che non aspettava altro che di prender voce, mi ero, infatti, detto: “Tom, ormai, ha già dato tutto quel che poteva dare, sarà solo un cd inutile, rantoli rauchi più qualche


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di Tate Taylor The Help Usa 2011 Produzione: Paramount Vantage, 1492 Pictures, DreamWorks Pictures, Harbinger Pictures, Imagenation Abu Dhabi FZ, Participant Media Distribuzione: Walt Disney Pictures Sapere è potere “Non hai diritto a rilasciare i tuoi escrementi nelle stesse tubature in cui lo faccio io. Sei una negra pericolosa, difetto-

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di Vinicio mi è parso, soggettivamente, insopportabile. Avrei voluto stordirmi con un greatest hits di Little Tony, sparato a palla! Continuando, di tanto in tanto, ad abbassare il volume per chiedermi ad alta voce: “Ma, soprattutto, perché?”. E, per finire, l’oggetto misterioso: questo, l’ho proprio comprato. Sapete quanta fatica ho nel resistere alle offerte che il mio pusher di fiducia mi propina. Come al solito, lui ha insistito, assicurandomi che il cd era un capolavoro e l’artista un genio. Da bravo boccalone ho accettato e ora non ne saprei dire di più. Non proprio capito... Un po’ ricorda Mike Oldfied, quello di Tabular bells, un po’ i Pink Floyd e boh. Se vi capita di ascoltarlo fatemi sapere un vostro parere, magari con un piccione viaggiatore o affidandolo a un pony express. Lui, il cantante e compositore, si chiama Steven Wilson. E il cd, mannaggia, anche questo doppio: Grace for Drowning. Mah, doppio mah. Angelo Villa

a cura di Cristiana La Capria

sonorità strampalata, stereotipate prostitute e alcool a gogò… Solita roba, insomma… Non c’è più niente da aspettarsi del vecchio Tom (“sottile” gioco di parole per i lettori anglofili sul cognome dell’autore!!!)”. E invece no, alla faccia della mia solerte presunzione. Tom mi ha sorpreso e mi ha fregato! Bad as me è veramente bello, toccante. Quando la voce sofferta di Tom si inerpica lungo ballate come “Pay me” o “Last leaf” è il dolore del mondo, assurdo e incontenibile che prende voce, al di là di ogni ragione, di ogni utopia, di ogni chiacchera. Nessuno riesce a cantare in quel modo, sgraziato e pieno di grazia al contempo. Le parole vi arrivano dirette giù nell’anima. E’ l’angolo, in disparte nel mondo, quelle delle canzoni di Waits, che raccoglie la poesia, l’unica poesia di cui questo stesso mondo è capace. Grandioso, superbo. Grazie, di cuore. Da Waits a Vinicio Capossela, il passo è breve. O, almeno, una volta era tale. Il nostro Vinicio lo scimmiottava parecchio. Ora, francamente, non so cosa abbia preso all’autore di “Che cos’è l’amor” ma passare da Tom a lui è come andare dall’Everest alla collinetta di san Siro. Non so, ripeto, non so quale supposizione maniacale l’abbia catturato e rapito, come fa il vento con gli aquiloni quando si rompe il filo che li tiene legati a una mano. E’ l’ombra del fantasma di Melville, lo scrittore di Moby Dick; come lascia credere il suo ultimo doppio (sic! E quindi doppio sic!) dal titolo: Marinai, profeti e balene. Me l’hanno regalato e sono riuscito a ascoltarlo una sola volta. Poi, francamente, non ne potevo più. La straziante pesantezza dell’album mi ha sopraffatto, peggio di una giornata trascorsa all’Asl a inserire dati nel computer. Il tono orante, supplicante, profetizzante

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sa, infetta. Va fuori in giardino dove ti ho fatto costruire un apposito water. Qui comando io, questa è casa mia. Io sono bella, bianca, bionda, giovane, ricca. Mi sento rivoluzionaria ad avere proposto una così raffinata soluzione per le signore educate della mia città: una casa con due bagni, uno interno per la famiglia e uno esterno per te, domestica nera. Tu ti devi lavare spesso le mani con il sapone e mangiare con le tue posate. I rischi di infezione si annidano per ogni dove. Tu stai dietro la mia figlia, le cambi i pannolini e le canti la ninna nanna: io, donna elegante e sposata, devo occuparmi del marito e delle amiche con cui gioco a carte; non mi macchio di certo le mani con le feci dei bebè, non perdo di certo il sonno dietro a sciocche cantilene notturne. Puah!” Odioso appare il ritratto della donna bianca alto-borghese che viene presentato da questo film. Le belle signore americane con i bei vestiti nelle belle case sono impegnate nel nulla della loro vanità mentre le rotonde signore africane con i brutti vestiti sfangano tutto il giorno per abbellire le superfici dell’anima delle loro padrone. Molti sono i lavori sul tema razziale. Interessa molto che il contesto americano di quarant’anni fa torni alla ribalta proprio adesso. Perché ci riguarda molto da vicino, noi donne occidentali. Perché in questa storia sono messe in primo piano le donne che sfruttano e maltrattano altre donne, quelle che sembrano la feccia dell’umanità più bassa, un concentrato di categorie perdenti: povere, africane, poco istruite e femmine. Talmente è ridicolo il problema del gabinetto separato da procurare fastidio allo stomaco. Quasi iperbolico nelle sue sfaccettature: una domestica nera viene

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licenziata per avere inquinato le stesse tubature della padrona con i propri escrementi; che vergogna! Il film riporta su una superficie dai colori pastello un quadro sociale buio e tetro che quasi non si può vedere tanto è fosco. Donne nere con il grembiulino bianco servono donne bianche con l’abito di seta. Ma quando il gioco si fa duro le vittime reagiscono e raccontano le piaghe morali e politiche della upper class americana. E siccome ciò che cacci dalla porta rientra dalla finestra, ecco la sagace sequenza che mostra la domestica nera licenziata portare in dono alla sua ex padrona una torta fatta con suoi escrementi, quegli stessi escrementi che la signora perbene aveva snobbato, come a dire: cara padrone, se non vuoi la mia cacca nel tuo gabinetto, allora te la mangi tanto, malgrado la differenza di pelle, il colore della cacca è universale, no? E il primo piano del godimento orale della donna bianca che - ignara - assapora dal piatto quella pasta friabile di colore marrone è davvero esilarante. Un quadro di potere tra donne di razze diverse montato secondo lo stile del vecchio Altman, con una ripresa alternata e distribuita in tante caselle colorate che incorniciano donne isteriche e velenose che parlano un linguaggio fatto di una specie di ironia noir ereditata dalla più giovane serie televisiva Desperate housewives. E se le vittime non vincono sulle carnefici, di certo si prendono una bella rivincita con un libro, The help, scritto a più mani e capace di togliere il sonno alle belle signore bianche. Perché ciò che di male si nasconde va detto e va saputo; riuscirci è una grande forma di potere. Da vedere per non dimenticare. Cristiana La Capria


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ARRIVATI_IN_REDAZIONE Angela Lanza (a cura di) Ho fame di giustizia. La rivolta delle donne a Palermo contro la mafia Narrativa editore, Marsala-Palermo 2011, pp. 141, € 12,00 Nel 1992, a seguito della Strage di via D'Amelio, le donne del digiuno decidono di non rassegnarsi all'isolamento delle proprie case ma di dar voce, insieme, al desiderio di cambiamento che le accomuna: occupano per un mese piazza Castelnuovo, al centro della città, attuando a turno tre giorni di sciopero della fame. Angela Lanza, protagonista di quell'esperienza, attraverso i ricordi delle donne del digiuno, ci racconta quelle settimane, trascorse nella consapevolezza che riappropriarsi del proprio corpo e di uno spazio collettivo significa proporre un'alternativa sociale e politica. Maria Grazia Battistoni, Rita Giomprini, Anna Paola Moretti, Mirella Moretti La deportazione femminile. Incontro con Irene Kriwcenko Assemblea Legislativa delle Marche, Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino, 2010 In coincidenza della celebrazione del giorno della memoria l'Assemblea Legislativa delle Marche promuove la pubblicazione di questo lavoro realizzato dall'Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino che ha permesso di portare alla luce la storia di Irene Kriwcenko, ucraina di nascita, ma marchigiana di adozione perché da molti anni vive a Pesaro: è la storia della deportazione di una donna che, arrestata nel 1942, viene costretta al lavoro coatto a Magdeburgo Nathalie de Salzmann de Etievan Non sapere è formidabile! Il modello formativo Etievan Bonanno Editore, Roma 2012, pp. 240, € 18,00 Questo volume raccoglie e ordina varie conferenze e incontri tenuti dall'autrice in molti paesi, nel corso di vari anni, così come resoconti di riunioni sostenute con i gruppi di insegnanti e genitori. Il metodo pedagogico emerge in tal modo sempre in intima e proficua relazione con le realtà educative concrete, non come una fredda teoria applicata dogmaticamente ai rapporti con i ragazzi. Educare significa innanzi tutto condividere una ricerca attenta, attiva, entusiasta con i propri allievi. Fabio Dovigo Guida alla mediazione e alla conciliazione professionale Carocci, Milano 2011, pp. 200, € 16,00 Negli ultimi anni la mediazione si è andata affermando anche in Italia come uno strumento importante di risoluzione delle controversie, al pari di quanto già da tempo avviene in altri paesi dell'Europa e del Nord America. Il suo scopo è aiutare le persone a recuperare e sviluppare le risorse necessarie ad affrontare i conflitti e a trovare una soluzione equa e condivisa da entrambe le parti.

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Serena Giordano Disimparare l'arte. Manuale di antididattica Il Mulino, Bologna 2012, pp. 210, € 15,00 Perché di fronte alle “immortali” opere d'arte del passato il pubblico comune nutre sentimenti di deferenza? E perché in quello stesso pubblico gli “incomprensibili” capolavori contemporanei suscitano invece diffidenza? Dalla prima infanzia all'età adulta, lo spettatore si sente sempre giudicato dall'arte: a partire dalla scuola, che utilizza l'espressione creativa come indicatore dello sviluppo cognitivo o persino morale del bambino, per giungere al museo, in cui bambini e adulti sono spesso vittime di un'ossessione per l'assistenza e la cura. Carlo Scataglini Il sostegno è un caos calmo e io non cambio mestiere Erickson, Trento 2012, pp. 112, € 13,00 Mi piace l'idea di provare a raccontare alcune esperienze che mi sono capitate in più di vent'anni di lavoro, di incontri, di emozioni. Di spiegare le ragioni per cui, secondo me, il mondo del sostegno è una specie di “caos calmo”, un ossimoro disordinato e lento, generativo e immobile, difficile da vivere e magnifico, spaventoso e intrigante, per il quale niente è semplice o scontato, niente è uguale due volte di seguito. Nemmeno aprire la porta ed entrare in classe al mattino: tutto è sempre una nuova scoperta.

Anna Oliviero Ferraris Padri alla riscossa. Crescere un figlio oggi Giunti, Firenze 2012, pp. 208, € 16,00 Dalla psicologa più autorevole e più seguita dai media, una guida sicura per imparare a star bene insieme ai propri figli. A cosa serve un padre? Che importanza riveste in famiglia e nella crescita di un figlio? Un padre può essere intransigente, dominatore, impaurito o smarrito. A dispetto dell'opinione comune, oggi molti padri rivendicano il diritto di esercitare un ruolo attivo sia all'interno della famiglia tradizionale, sia in caso di separazione.

Julia Kristeva, Jean Vanier Il loro sguardo buca le nostre ombre Donzelli, Roma 2011, pp. 221, € 16,00 Cos'hanno in comune una delle voci più autorevoli del pensiero laico occidentale contemporaneo come Julia Kristeva e Jean Vanier, il filosofo cattolico fondatore dell'Arca? Lo si scopre nel fitto dialogo che i due intrecciano in queste pagine, nate da uno scambio epistolare durato oltre un anno e incentrato sulle loro rispettive esperienze: quella di psicanalista, scrittrice e soprattutto madre, che vede Julia Kristeva impegnata da anni in una battaglia politica per assicurare ai disabili una vita dignitosa nella società, e quella di Vanier, che da quarantasei anni pratica e predica il vivere insieme alle persone portatrici di handicap

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Il sorriso dei miei Bimbi Onlus. Il Progetto giovani Rocinha Helena Bastos Wittlin*, Barbara Pascali**

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Il Progetto Giovani, fondato nel 2004, ha sviluppato le proprie attività sulla base degli orientamenti e delle fondamenta giuridiche dello Statuto del Bambino e dell’Adolescente. Prima di iniziare le attività del Progetto, l’anno scorso, abbiamo tenuto quattro incontri con lo staff al fine di delineare le linee guida pedagogiche che sarebbero state adottate durante l’intero processo educativo. In questi incontri sono stati discussi temi come la vita quotidiana (le abitudini culturali della popolazione giovanile), le condizioni socio-economiche (alloggi inadeguati, scarsa istruzione, la violenza sociale), le condizioni ambientali (rifiuti, servizi igienici), gli aspetti biologici (elaborazione del corpo di un adolescente) e gli aspetti psicologici (bassa autostima, sentimento di impotenza, debolezza di identità individuale, problemi emotivi legati alla droga...). Il nostro team ha come riferimento principale la metodologia partecipativa, nella quale i giovani sono incoraggiati ad intervenire nella scelta dei contenuti dell’insegnamento trasmesso in aula, durante tutti i 10 mesi di attività del progetto. Uno degli obiettivi principali di questo lavoro sociale, è appunto quello di sviluppare la capacità intellettuale, lo sviluppo creativo, critico ed emotivo dei giovani partecipanti. Attraverso i vari incontri, i partecipanti hanno avuto l’opportunità di entrare in contatto con le discipline artistiche, le lingue straniere, il teatro, l’educazione alla salute, l’educazione civica, il cinema e il jiu-jitzu. Il Projeto Jovem continua inoltre ad offrire l’accompagnamento psicologico, individuale e facoltativo. In questo lavoro clinico che stiamo realizzando assieme ai giovani della Rocinha, sono stati trattati problemi legati alla scarsa preparazione che gli adolescenti in generale elaborano circa lo stato di abbandono e desolazione (del vivere in favela), sia all’interno della famiglia che nella società; il disorientamento soggettivo, l’indebolimento dell’identità individuale e la loro vita sociale. *Coordinatrice Progetto Giovani, Psicologa Senior Casa Giovani – ONG Amigos da Vida **Progetto Giovani Bahia, Comunicazione e Web Editing – Onlus Il Sorriso dei miei Bimbi

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Uomini in educazione: la scomparsa di un genere Uomini in educazione è il titolo provvisorio di un volume di prossima pubblicazione presso Stripes Edizioni. Il libro sarà disponibile a partire dalla fine di ottobre e può già essere prenotato direttamente all’indirizzo e-mail ordini@pedagogia.it

Se si parla di uomini in educazione1, si parla, soprattutto, di un’assenza. Scrive Andrea Marchesi, educatore e supervisore pedagogico. “Un collega mi racconta che si sono dimessi tre educatori nel giro di poche settimane e nella sua cooperativa sono disperati perché non riescono a trovare figure maschili (…). Entro in un’aula universitaria, corso di laurea in scienze dell’educazione, 200 persone circa: mi bastano le dita per contare gli uomini presenti. Mi chiamano per una consulenza pedagogica in una scuola primaria (…) partecipo al collegio docenti: incontro solo donne... Dall’università ai servizi territoriali fino alla scuola (almeno tra scuola dell’infanzia e secondaria di primo grado) sembra di assistere all’evaporazione degli educatori, alla progressiva scomparsa di uomini professionisti dell’educazione”. Questa la situazione, eppure non se ne parla o se ne parla troppo poco: si tratta di un’evidenza invisibile, una realtà così nota, così scontata al punto da non vederla più e si legittima così, col quasi-silenzio, un fenomeno preoccupante, si impedisce di prefigurare interventi e non si lascia spazio neppure alla possibilità di nominare i danni che ne derivano (...) Se ne parla poco o nulla... anche perché le professioni educative appartengono a quell’area di lavori definiti lavori di cura e della cura se ne occupano le donne. E ciò che avviene da sempre appare naturale, non vi si applica né riflessione né critica: è così ed è giusto che sia così. Eppure ora gli uomini mostrano desideri fino a poco tempo fa impensati: desiderano essere padri nuovi, desiderano – e lo fanno in molti – prendersi cura dei loro figli e figlie... Perché, allora, questo desiderio maschile di cura non si trasferisce negli ambiti professionali? (…) Si tratta di un problema culturale... e, come tale, superabile, perché le culture, anche le più tenaci, si possono trasformare, adeguare alle nuove domande. Basta che queste domande si cominci finalmente a porsele. Domande serie, che chiedono lo sforzo di superare l’ovvio, il già dato, l’invisibilità delle evidenze. Ed è urgente farlo perché le assenze maschili in educazione creano problemi gravi, soprattutto tra chi è più giovane e viene educato o educata in un mondo tutto femminile e cresce nella convinzione che a prendersi cura siano sempre e soltanto le donne, che gli uomini non sanno, possono o vogliono farlo...

1  Estratto parziale dell’articolo Uomini in educazione di Barbara Mapelli sull'omonimo convegno dell'Università Bicocca del 14 marzo 2012, pubblicato su http://www.arcipelagomilano.org/archives/20033 il 26 giugno 2012.

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Carnet - La redazione consiglia Eventi, festival, incontri di interesse in giro per l'Italia Popsophia Festival Civitanova Marche (MC), 12-30 luglio 2012 Popsophia è il primo appuntamento nazionale della filosofia che si trasforma in filosofia popolare o pop filosofia. Il format del festival rende l’intrattenimento cultura. Attraverso la voce di pensatori illustri, critici, opinionisti e personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura Civitanova diventa un laboratorio per capire, declinare e approfondire il mondo della contemporaneità. Info: http://www.popsophia.it Lago Film Festival, Festival Internazionale di Cortometraggi, Documentari e Sceneggiature - Revine Lago (TV), 20-28 Luglio 2012 Saranno Alberto Nerazzini di Report, autore delle inchieste più clamorose della trasmissione TV di “culto” Report, e Angela Rafanelli, volto de Le Iene di Italia Uno, gli ospiti d’onore dell’ottava edizione del Lago Film Fest che si svolgerà dal 20 al 28 luglio sulle rive del Lago trevigiano e tra i vicoli del borgo in pietra, con un programma imponente per proposte e numeri (oltre cento i film in concorso da tutto il mondo, selezionati su 2000). Con tantissime novità, eventi speciali, ospiti nazionali e internazionali, anteprime, mostre d’arte, il Lago Film Fest, regalerà al pubblico un’edizione strepitosa. Tema forte di quest’anno sarà l’inchiesta giornalistica. Info: http://www.lagofest.org Giffoni Film Festival Giffoni Valle Piana (SA), 14-24 luglio 2012 Il Giffoni Film Festival (GFF) nasce nel 1971 da un’idea di Claudio Gubitosi: promuovere e

far conoscere il cinema per ragazzi, elevandolo dalla posizione marginale che occupava al tempo, ai ranghi più consoni di un “genere” di grande qualità e capacità di penetrazione del mercato. nel vasto calendario d’eventi (fra cui segnaliamo la serata “omaggio a Tim Burton”), numerosi saranno anche gli ospiti internazionali alla manifestazione. Oltre alla Agron, è stato confermato anche il nome di Jessica Alba, altra famosissima attrice di film e telefilm d’olteroceano come “Dark Angel” o “Sin City” (2003). Info: http://www.giffonifilmfestival.it 9° Convegno SIPSCO “Rilanciare i legami sociali, attivare partecipazione, promuovere cambiamenti” 27-29 settembre 2012, Milano E’ disponibile il primo annuncio del nono convegno nazionale della Società Italiana di Psicologia di Comunità che si terrà il prossimo settembre presso l’Università Cattolica di Milano. Il Convegno che sarà articolato in sessioni tematiche e simposi e vede programmate per il momento le lezioni magistrali di Maritza Montero dell’Università Centrale di Caracas e di William Doherty dell’ Università del Minnesota. Nelle prossime settimane sarà attivato un sito dedicato all’evento e seguirà un secondo annuncio con informazioni più dettagliate. http:// http://www.sipco.it/index.php Interventi intensivi e precoci per l’autismo Evidenze scientifiche e sostenibilità Esperienze internazionali a confronto. 13-14 settembre 2012 - Brescia Centro Paolo VI Si terrà presso il centro paolo IV il convegno internazionale sponsorizzato dall’ Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano. - www.iescum.org

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Congresso Nazionale delle Sezioni AIP 20-23 settembre 2012 Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara “AIP 1992-2012: Psicologia, Scienza, Società” In occasione del ventennale dell’Associazione Italiana di Psicologia, i Congressi delle cinque Sezioni si svolgeranno in parallelo presso il campus dell’Università di Chieti. Sarà un’occasione eccezionale che, oltre a permettere di celebrare i vent’anni di attività dell’AIP, vedrà la partecipazione, nello stesso luogo e negli stessi giorni, di tanti psicologi italiani provenienti dal mondo accademico e della ricerca. L’evento, già di per sé unico per il suo formato, verrà ulteriormente arricchito dall’organizzazione di tavole rotonde comuni alle Sezioni, riguardanti le dimensioni cruciali della psicologia accademica (ricerca, rapporto con la società, internazionalizzazione) e da simposi riguardanti tematiche di interesse comune. L’Università di Chieti, immersa tra le colline d’Abruzzo e situata a breve distanza dal mare e dalle montagne, è lieta e orgogliosa di ospitare questo grande evento. www.aipass.org Giornata mondiale del software libero 2012 15 Settembre 2012 / In tutto il mondo - Congresso/Giornate tematiche Questa manifestazione si svolge annualmente in tutto il mondo. Da quest’anno gli organizzatori vogliono coinvolgere maggiormente i comitati locali, ai quali si chiede di inviare la propria candidatura per ospitare il summit di settembre. softwarefreedomday.org Primo “Convegno europeo sul pragmatismo” - Roma, Università di Roma Tre 19-21 Settembre 2012 Dal 19 al 21 settembre 2012 si terrà all’Università di Roma Tre il primo “Convegno europeo sul pragmatismo”, organizzato dall’Associazione Pragma in collaborazione con il Nordic Pragmatist Network e patrocinato dal dipartimento di Filosofia dell’U120

niversità di Roma Tre, dal dipartimento di Scienze umane, storiche e sociali dell’Università del Molise, dalla Fulbright Commission e dalla U.S.-Italy Fulbright Commission. Il convegno riunirà un gran numero di eminenti studiosi europei e americani che parteciperanno alla sessione plenaria introduttiva e alle 15 sessioni parallele che si succederanno nei tre giorni del convegno. http://www.uniroma3.it/ XXVI Convegno SISP 13 - 15 settembre 2012 Università Roma Tre - Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Studi Internazionali e Dipartimento di Istituzioni pubbliche, Economia e Società Il congresso annuale della SISP offre l’occasione di esplorare e discutere temi di interesse per la disciplina, nuove prospettive teoriche e metodologiche e recenti risultati di ricerche di scienza politica. Il programma comprende sessioni plenarie, l’Assemblea dei soci e numerosi gruppi di studio, riuniti in sezioni tematiche, nei quali i partecipanti presentano e discutono ricerche ed analisi che mirano a un alto livello scientifico. http://www.sisp.it/convegno 3rd International conference on degrowth for ecological sustainability Venezia dal 19 al 23 settembre La 3a Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre 2012. Dopo Parigi (2008) e Barcellona (2010), Venezia è stata selezionata per ospitare un importante momento di approfondimento e di divulgazione della nozione di decrescita per la sostenibilità ambientale e l’equità sociale. In occasione della Conferenza, alcuni grandi critici dell’economia convenzionale – tra cui Serge Latouche e Joan Martínez Alier – si alterneranno con laboratori e workshop sulle “buone pratiche” di governo e gestione dei beni comuni a livello globale. http://www.venezia2012.it/


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