Ainas Nº2_09.2016 | SPECIALE OPEN

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ISSUE Nº2 . 09/2016




AINAS ISSUE Nº2 . 09/2016 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Comunicazione Maria Victoria Gomez, Lucía Vaca Foto di copertina, Pechino n.7 (La Città Proibita) © immuro Le fotografie all’interno della rivista che trattano il tema del “muro” sono concesse da Ri.Co Immuro Pechino n.1 Pechino n.5 Pechino n.12 Venezia n.20 Pechino n.16 Copy 2016, Ainas Nº2 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.

Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AINAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu

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ISSUE Nº2 8 CHAPTER 1 . NEWS 10 nello specchio di franz 14 sotto il cielo di berlino

18 mutoid, lo stupore dei rifiuti

20 s. arcangelo, gli inganni del teatro contemporaneo 24 visioni horror di un giovane timido

28 CHAPTER 2 . SPECIAL 30 open, il mulino, il povero e l’eros

32 open - la mostra internazionale di sculture e installazioni 45 venezia e il drago 48 open corea

52 CHAPTER 3 . INTERVIEW 54 jaime iván gutiérrez

72 CHAPTER 4 . CROSSING 74 dal medio oriente

76 beirut - il pasticcio della storia 82 résonances

92 gerusalemme - il sapore del te

104 CHAPTER 5 . PATAATAP 106 ri.co immuro 108 immuro

114 CHAPTER 6 . SWALLOW 116 il carattere del cuoco 117 cucino di te

120 riso erborino per freddolosi, ipocondriaci e meteoropatici

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EDITORIAL

aínas ISSUE Nº2

A San Pedro de la Querte de los Mortorius, un piccolo villaggio quasi invisibile della Colombia orientale, si raccontava che il tempo fu il secondo regalo di Dio all’uomo. Il primo fu la felicità, che, una volta definita per vie imperscrutabili, coincideva con l’eternità. Ma non era bene: teologi dei tempi successivi citarono la pietrificazione dei matrimoni fra i motivi obbligati di una revisione celeste. Indicarono anche la noia, che si diffuse come la peste, e un’eccessiva contiguità con la realtà ultraterrena, che il creatore, pur nella sua incommensurabile bontà, non poteva concepire. Dunque Dio, narravano nel villaggio, inventò il tempo e lo offrì all’uomo insieme al terzo dono, la libertà. Ordinò però di non abusarne. Né dell’uno né dell’altra. Ma soprattutto del tempo, che, disse Dio, doveva conservare il suo ritmo naturale, possibilmente secondo l’alternarsi delle stagioni. Così fu, e la felicità potè scorrere pienamente, fino a che non comparve il demonio: disegnato secondo moduli assolutamente fantastici nelle due chiesette di San Pedro de la Querte de los Mortorius, il maligno accelerò il tempo e fece all’uomo il suo primo e unico regalo: l’orologio. Quello che molti anni dopo un poeta avrebbe definito “dieu sinistre, effrayant, impassibile”. La modernità dice “orologio”. Negli antichissimi canoni del villaggio, un arnese complicato, colmo di simboli e molto inquietante. Convinti, grazie al demonio, che il tempo per così dire ristrutturato avrebbe moltiplicato la libertà, gli abitanti del villaggio ne fecero un uso sconsiderato e persero la felicità. La decadenza cominciò e nei secoli completò il suo ciclo, per dirla con lo scrittore sudamericano James Cañón, i galli si dimenticarono di annunciare l’alba: non a caso oggi il villaggio non c’è più. Restano solo poche e indecifrabili rovine delle due chiesette. Si intuisce che non erano uguali e questo particolare getta una luce bizzarra sul destino originale di San Pedro de la Querte de los Mortorius. È possibile però che il senso della vita secondo le anime di quel piccolo villaggio si sia sparso altrove e nel tempo di altro popoli. Non si spiegherebbe altrimenti perché lo scrittore occidentale Milan Kundera si chieda, accigliato, “perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi –6–


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che vanno a zonzo da un mulino al’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, ai prati e alle radure – insieme alla natura?”. Parole che coincidono incredibilmente con i canti della tarda età di San Pedro de la Querte de los Mortorius. Noi pensiamo a Chesterton, Withman, Benjamin, e ci poniamo la stessa domanda. A dire il vero, Kundera si interroga e si risponde: “La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”. Velocità, soprattutto di bisogni, che il sociologo contemporaneo Bauman inserisce nella sua teoria (come contestarla?) della “vita liquida”. La pubblicità la esalta in una teoria di mamme felici perché indaffaratissime, ed è solo un esempio. Possiamo immaginare una strada piena di buche: se non le copriamo cadiamo. E quelle buche sono i ritagli di tempo. Non esistono più. Non devono esistere. Esiste un principio per cui “ogni epoca ha la sua forma”, e se quel principio si fosse esaurito? Si dice che il tempo a nostra disposizione è troppo breve per rinunciare a una sola emozione, ma che dire dell’intensità? Troppo liquida per non sciogliersi ancora prima di viverla, quando il tempo è un paranoico runner. Si mormora di piccole società segrete che vogliono combattere contro la velocità e i ladri del tempo. Se ne parla, ma se ne sa poco. Carbonari che sussurrano “I have a dream”. Che hanno visto il film di David Lynch “Una storia vera” dove l’anziano Alvin Straight si prende il suo (suo) tempo percorrendo poco meno di 400 chilometri a bordo un tosaerba per raggiungere il fratello. Che ricordano addirittura i versi di Baudelaire: “Souviens-toi que le Temps est un joueur avide/Qui gagne sens tricher, à tout coup! C’est la loi” e bisogna rispettarla. Come? Recuperando il tempo, si potrebbe dire. Fermandosi a guardare, semplicemente. I colori che scorrono e non meritano di finire confusi in una tavolozza gettata tra i rifiuti. I muri di città devastate dalla guerra che magari raccontano un’altra storia di vita implacabile. Un semplice the sorseggiato nel deserto. La congenita lentezza della poesia. Persino le immagini e le parole di una rivista. Roberto Cossu –7–


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CHAPTER 1 NEWS


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nello specchio di franz – 10 –


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<Teoricamente è possibile essere felici. Basta credere in un trascendente ma non aspirarvi>. Una frase, quella di Franz Kafka, che da sola merita un trattato. Ci dice molte cose, ma sono più numerose quelle che non ci dice. Che non può dirci perché la vita e l’opera del genio di Praga sono – appunto – una ricerca di conoscenza. Meglio, un disperato bisogno di sapere contro un incorruttibile potere che non vuole accettarlo. Così debole appare l’uomo che staziona davanti alla porta di Dio, nella parabola del Duomo dentro il “Processo”. Così è l’Uomo. Quella frase è una somma infinita di contraddizioni, rivela come la testa di Franz fosse il campo di battaglia di concetti drammaticamente necessari. E tanto più urgenti quanto irrisolvibili. Allora ha un senso la nuova scultura in acciaio dell’artista ceco David Cerny: una testa, appunto, alta dieci metri, del peso di 45 tonnellate, con la superfice a specchio. Troneggia nella piazza di un centro commerciale di Praga, il “Quadrio”, sopra la stazione della metropolitana Národní Trída, con le sue 42 sezioni di cui 38 ruotanti in maniera indipendente. Una teoria di anelli sovrapposti che compongono e scompongono il volto di Kafka, quell’immagine tramandata, misteriosa espressione di timidezza e profondità. Cerny è un artista che certo non si nasconde, neppure politicamente: non a caso ha assaggiato il carcere. Ha già realizzato una testa rotante, per la città statunitense di Charlotte, ma l’ultima scelta è evidentemente ancora più calzante. Da “Metalmorphosis” (il titolo dell’opera americana) all’ovvia Metamorfosi, il più famoso racconto di Kafka. Ma il merito della creazione di Cerny va ben oltre l’omaggio: quale altra combinazione di elementi è possibile per raccontare l’epoca in cui viviamo? L’idea di inafferrabilità è l’opera stessa. Il turbine continuo davanti agli occhi dei frequentatori di un “non luogo” è lancinante, in un mondo dove tutto è saltato, come un’orgia di tappi di bottiglia. Dove dovrebbero studiarsi nuove teorie del caos, per trovare una chiave d’ingresso. O di uscita. Basta una qualsiasi pagina dei nostri giorni per assodare che la frase di Kafka è un comandamento.

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fotografia tratta da pixabay.com

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MONUMENTO A KAFKA

Sculpture by David Cerny in Prague

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sotto il cielo di berlino – 14 –


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Adolf Hitler era un artista. O almeno si considerava tale. Dipingeva. Benché la scuola (con una solenne bocciatura) non ne avesse certificato il talento, lui creava. Era mediocre, ma del resto sembrava (allora e negli anni successivi) anche un mediocrissimo politico. Cosa dipingeva? Nel film di David Wnendt “Lui è tornato” è un artista di strada: per tirare su qualche soldo ritrae turisti. Poche pennellate e molte risate. La mediocrità spesso è una scienza. Ma nel film, benché si rida (anche), c’è poco da ridere. Wnendt pone una semplice domanda: se lui tornasse (e nella pellicola torna), nel mondo contorto che viviamo oggi, con le sue idee intatte, la sua oratoria, la sua arroganza, persino la sua pazienza, come verrebbe accolto? Come lo accoglierebbero i suoi connazionali, la stampa inghiottita da internet, quello strato sociale (sempre più ampio) che magari, con un modico spostamento ideologico, sostituisce gli immigrati agli ebrei? Il film racconta una possibile e plausibile risposta. Con una costruzione densa, intelligente, inquietante. Miscela il surreale al documentario e senza sforzi apparenti avvicina la finzione alla realtà. Fino a creare disagio. Forse anche per questo il film non circola troppo (anche se nasce da un romanzo di successo di Timur Vermes), in alcune città è passato solo nei giorni più caldi dell’estate con l’etichetta “proiezione speciale”. Assurdo. Vale lo sforzo di cercarlo e vederlo. Per verniciare la memoria e riflettere sulla tesi dell’autore: Hitler non si è suicidato, la sua intollerabile follia c’è sempre. È dentro di noi.

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© sofiaarangoe

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BERLIN

Metro Station by Sofía Arango

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NEWS

mutoid, lo stupore dei rifiuti – 18 –


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Ridare vita alle cose abbandonate ha in sé la magia e lo stupore. Gli enormi personaggi costruiti con materiali riciclati da abili mani convivono tra le case e le terre degli uomini. Sono imponenti, silenziosi, materici e densi: “Io ho viste cose che voi umani non potreste immaginare” è la voce che inevitabilmente risuona nella comunità di Mutonia. Intorno agli anni ‘80 a Londra nasce la Mutoid Waste Company e una piccola comunità di intellettuali, artisti, ingegneri, meccanici, costruttori e creativi transita lungo le rive del Marecchia, in Italia. A Sant’Arcangelo di Romagna esiste ancora un mondo incantato con le creature di plastica, i guerrieri, i mostri di metallo arrugginito e le persone che sanno vivere insieme pacificamente. Il cacciatore di androidi, design retrofuturista, atmosfere neo noir richiamano scene alla “Blade Runner” o forme distopiche di una post apocalittica “Mad Max”. Il disastro ambientale, l’integrazione del rifiuto nobilitato a nuova vita serpeggiano come scene di “Tank Girl” dal tratto underground. Riciclare i rifiuti organici e mutare con la trasformazione è opera dell’ingegno e dell’arte. Lo stupore e la purezza del gesto e del pensiero libero animano gli artisti mutoid che hanno creato e continuano a realizzare scenografie, performance, movimenti nelle piazze, installazioni, sculture, teatro dinamico che oscilla tra uomini e donne, lattine, pezzi meccanici, bottiglie, bidoni di plastica. Con l’alchimia fanno nascere giganti, figure spaventose e umane insieme tra corpo e meccanica. Lo stupore non si trova tra quelle meravigliose architetture inermi, ma nella forza del fare arte comunitaria, nel mettere al servizio dell’opera le proprie competenze, in una continua ricerca dell’espressione libera e autentica del pensiero. La magia rimane in chi, protagonista o spettatore, per caso o per scelta, ha partecipato al gioco di una vita mutevole.

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NEWS

s. arcangelo, impressioni dal teatro

contemporaneo

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Audio guide, talk, camminate, racconti notturni, ricevimenti: il teatro del Festival di Sant’Arcangelo edizione 2016 si dissolve nella prefigurazione di mondi, auspicata nella premessa degli organizzatori, dove gli spazi di bellezza e di meraviglia promessi, ma mai incontrati, aprono ad una visione confusa e povera, di idee ma forse anche di risorse, del contemporaneo. Occorre un attento studio per la scelta degli appuntamenti, testi complessi di impronta filosofica che richiamano linee di volo, come definite nella presentazione di Silvia Bortiroli, dove politica, sport, dj set, ricordi di gioventù, visioni ancestrali e misteriose trovano insieme un crogiolo dove forgiarsi. Un programma comunque ricco, per l’appuntamento centrale della scena nazionale, che dà spazio anche alle tradizioni locali. Siamo in Romagna e la figura più rappresentativa del nucleo familiare, l’Azdora, unica responsabile della condotta della casa, diventa oggetto di ricerca, di riti iniziatici e di processi liberatori. “Ritual #12 Dai”, di Markus Öhrn /Azdora + Stefania? Alos Pedretti più di altri spettacoli racconta il tentativo di mettere insieme percorsi da cui dovrebbero nascere processi che raccontano la realtà contemporanea. Senza dimenticare un alone di mistero, aiutato anche dall’appuntamento a mezzanotte e dalla bella scrittura della presentazione, che porta a riempire 6 pullman che conducono gli spettatori in un luogo segreto. L’attesa in pullman prima della partenza in parte contribuisce ad oscurare le aspettative, ma, ancora fiduciosi, raccogliamo l’invito della nostra Azdora/Guida a bendarci e a rimanere in silenzio fino al luogo dove si svolgerà lo spettacolo. Per fortuna il tragitto è breve, ma le operazioni di uscita dal pullman ci fanno entrare più nella dimensione della visita guidata che del rito iniziatico. Lo spazio misterioso si rivela essere villa Torlonia, già location di altre performance del festival nonché luogo segnalato su tutte le guide turistiche della zona. Rimane ancora un briciolo di speranza di vedere uno spettacolo/ concerto che corrisponda alla descrizione. Ma ancora una volta le Azdore/Guide con il viso coperto di cerone e lo scialletto d’ordinanza ci intimano di appiattirci sui muri dell’antica casa – 21 –


NEWS

padronale facendoci presagire niente di buono. Al centro della corte campeggia una torre di tre piani costruita con tubi innocenti, uno sfavillio di luci sui diversi piani della struttura ci fa intravedere altre Azdore anch’esse con cerone, matita nera, fazzoletto e l’immancabile scialletto d’ordinanza. Chitarre, sinth e voci sono gli elementi di riferimento di una lunga intro di un brano doom che non arriva mai. Per fortuna il tutto dura poco e alla fine ci avviciniamo a prendere il vinile compreso nel prezzo del biglietto con la sensazione che almeno qualcosa ci rimarrà della serata oltre l’inutile perdita di sonno. La nostalgia è una dimensione di cui in tanti siamo schiavi, questa epoca in cui viviamo ne è la testimonianza, ma quando in un festival per il contemporaneo ti assale il desiderio di vedere uno spettacolo che possa vantarsi di questa definizione, di riconoscere canoni narrativi e ritmici supportati da logiche, di qualsiasi tipo siano, la nostalgia non è più un sentimento retrogrado e reazionario: è la necessità di dare un senso, non allo spettacolo in sé, ma ad un’operazione che ha dimenticato la passione dello spettatore, il suo bisogno di emozionarsi, con una bellezza e una meraviglia che non nascono dal riconoscersi in qualcosa di già noto, ma di riscoprirsi in azioni e performance che parlano al cuore e alla testa e che entrano in risonanza con il nostro corpo. La scelta di nuovi luoghi come spazi scenici, nella ricerca di un dialogo che suggerisce nuove modalitá percettive, si perde nella fruizione prolungata, un tentativo di rendere ciclica la visione con spettacoli che nella lunga durata perdono ritmo e climax. La prima assoluta di Dewey Dell e Massimo Pupillo nello spettacolo “Prima Trasmissione Verticale” riesce se non altro a trovare un equilibrio nella proposta di una visione sfaldata senza un inizio e una fine definiti. Tanto più che, nel pieno rispetto della regola che a Sant’Arcangelo “devi soffrire”, la performance si svolge in un capannone con una temperatura da camera sudatoria senza una sedia e con una ridotta possibilità di visione se non da una posizione centrale. È però rimarcabile che nonostante l’ambiente ostile la performance tiene il pubblico per tempi superiori all’ora – 22 –


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grazie alla qualità della ricerca musicale e del movimento. Una relazione riuscita, un dialogo tra realtà e finzione, le due mappe di riferimento citate in premessa da cui tutto si evolve, che fa intravedere “nuovi inizi” e che corrisponde alle aspettative. Ma nel complesso l’avventura del festival scambia l’oracolo con l’oscurità del significato attribuendo valore a frequentazioni casuali tra elementi diversi. Tutte le relazioni possibili, tra innovazione e tradizione, tra quotidiano e straordinario, tra centro e periferia, di cui non è dato conoscere l’evoluzione e il punto d’incontro, ipotetiche sorgenti di nuovi mondi, rimangono schiacciate dal peso delle troppe forze in gioco e si disperdono nell’illusione di un’alterità purtroppo tradita. Monica Mariani

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NEWS

visioni horror di un giovane timido – 24 –


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Pochi istanti, ma in fondo il nucleo emotivo di “Cell”: sulla parete dello studio di Clay Riddel campeggiano figure velate di donne in uno scenario fra il gotico e il day after. Potrebbero essere immagini di Sheridan Le Fanu fissate nel pianeta perduto. Trasparenze sensuali e fatali sopravvissute alla Distruzione. E qualcosa di incombente, di vampiresco, di mortale, nell’evanescenza dei tratti, sullo sfondo di rovine già accumulate o imminenti. Eros e Thanatos, una coppia che non sa morire, nel mito come nella metropoli. Sotto gli occhi dei protagonisti, John Cusack e Samuel Jackson, quei disegni riassumono l’atmosfera e l’idea del film di Todd Williams (tratto dal libro di Stephen King). Nella pellicola sono creazioni di Riddel, nella realtà sono firmate dall’illustratore cagliaritano Daniele Serra. Che non ha dovuto adattare il suo universo alla pellicola: la sovrapposizione era naturale. “Ho fatto solo un disegno ad hoc. Il resto l’avevo già”, spiega. Una ventina di immagini richieste dalla produzione, che Serra ha tratto dal suo artbook “Veins and skulls”. Ovvero “figure femminili e teschi”. I tempi erano stretti, “ho deciso io”. E la scelta era giusta, per un film che inventa il cellulare-killer a dimensione di massa planando inesorabilmente fra battaglioni di zombie. Se serve uno schema per legare l’artista al film, pensiamo all’horror, ma è una nozione troppo vaga (e persino ingiusta) per Daniele Serra. La sua ispirazione, allora? Rimane enigmatica, malgrado a 39 anni abbia già un buon bagaglio di esperienze internazionali. Fra tutte quelle con lo scrittore americano Joe Lansdale: insieme al creatore di Hap e Leonard, Serra ha firmato la graphic-novel “Fidati, è amore”, uscita anche in Italia. Un altro lavoro, in Germania, dovrebbe arrivare tra breve e c’è in ballo un nuovo progetto. Come dire, una fama già consolidata e non è un caso quindi la chiamata dall’America per “Cell”. “Mi conoscevano, anche se io non sapevo niente di loro”. Sicuramente lo conosce il production designer del film di Williams, John Collins. Col quale “sono rimasto in contatto”. Il resto è nel potere di Internet. Se la domanda è girata all’illustratore sardo, la risposta è sincera ed elusiva: “Sono timido, parlo poco. Ciò che disegno? Fondamentalmente è il mio modo di comunicare. Cerco di dire quello che penso. Ecco, la mia è una ricerca di comunicazione”. Troppo poco? – 25 –


© serra

FROM THE ARTBOOK “VENIS AND SKULLS” Illustration by Serra

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© serra

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CREATED FOR THE FILM “CELL” Illustration by Serra

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Š immuro


CHAPTER 2 SPECIAL


SPECIAL

open, il mulino, il povero e l’eros – 30 –


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OPEN - LA MOSTRA INTERNAZIONALE DI SCULTURE E INSTALLAZIONI Il suo rapporto con la Biennale è cominciato <scavalcando un muretto>. Anni eroici. Paolo De Grandis ne aveva 14. Attorno a quello che sarebbe diventato il grande circo dell’arte allora c’erano appunto il circo, quello che dà il batticuore ai bambini, e la giostra. <La Biennale in fondo era tutta qui>. Nel padiglione Italia <ho visto un tipo buffo con la barba>. Dipingeva una stanza. Era Michelangelo Pistoletto. <Mi ha dato un pennellino>, come un giocattolo che si porge ai bambini. Poi il tipo ha fatto strada. É andato anche a New York con la sua arte di stracci. Uno dei pochi casi in cui la povertà è diventata uno stato nobilissimo. Per dire che De Grandis il rapporto con la Biennale l’ha coltivato sempre e di persone ad alto tasso artistico ne ha incontrato – spesso allevato – parecchie. E se si definisce un curatore, e magari un imprenditore, può vantare anche il titolo di “artista”, nato nelle atmosfere della transavanguardia e dell’arte povera. La sua creatura? OPEN. Che è qualcosa di più di un evento “collaterale”. Sono tracce di creatività planetaria oltre i Giardini, dentro la città. E, con un po’ di poesia, nel cielo e nell’acqua. Ovunque. Alla base un concetto semplicissimo che le menti migliori tentano oggi, spesso disperatamente, di sviluppare: <Portare la gente all’arte e non solo il contrario>. Sfruttare lo spazio aperto, che a Venezia è di per sé uno scrigno. <Contaminare>, quando l’idea non era ancora abusata. Il progetto, ricorda il fondatore di PDG Arte Communications, nacque 18 anni fa, a trenta metri dal Palazzo del cinema. Una sfida al buio, nel vero senso del termine. In sala l’oscurità, come deve essere, e <fuori il nulla>. Cosa c’era al di là degli spazi di proiezione? Il Casinò. E poi? E <perché allora non riempire il vuoto?>. Con quelle “cose” fascinose che De Grandis aveva cominciato a guardare a 14 anni. Dopo tutto era una strada segnata: geometra per obblighi familiari (<E quanto lo odiavo>), preferiva andare come uditore in Accademia dove signoreggiava Emilio Vedova. Bigiare per l’arte, – 31 –


SPECIAL

bei tempi. Si capisce perché Vedova <mi portava ad esempio>. Erano gli anni Ottanta e <dovevo trovare una soluzione perché la passione per l’arte mi consentisse di viaggiare>. La prima idea, lavorare col vetro di Murano. E i primi nomi: Vedova, Dalì, Masson. <Mi chiedevano disegni e dovevo venderli>. Con eque quote di divisione guadagni. Non mancavano gli intoppi: Wifredo Lam, classe cubana, <mi aveva dato quattro disegni e avevo già realizzato 150 opere, per galleristi, collezionisti. Allora si viaggiava in treno, quando arrivai a casa sua per la firma, Madame Lam mi venne incontro, vestita di nero, e scoppiò a piangere. “Wifredo è morto”, mi disse. Chiuse la porta e mi lasciò lì. Ero morto anch’io>. I viaggi arrivarono comunque. Gli Ottanta erano anche gli anni dell’America: <Ero andato ad abitarci e conoscevo persino i Kennedy, che mi avevano fatto dirigere una loro Fondazione>. Anni formidabili, con Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat e Keith Haring per <compagni di giochi>. Si andava <a ballare e sballare>. Poi la Francia. E altra gente. César, per esempio. Quando <andavamo a cena con Polansky>. C’è tanto nel racconto di De Grandis, il senso del globale che deve ancora arrivare, e c’è il rapporto strano ed elastico con la Biennale di Venezia. La collaborazione d’esordio risale al 1984, con la mostra “Quartetto” a San Giovanni Evangelista, santificata da critici come Achille Bonito Oliva, Alanna Heiss e Kaspar Koenig. In pratica, la prima della Biennale fuori della Biennale. Poi un matrimonio di fatto, persino dal sapore asiatico, se è vero che un gran numero di artisti, da Singapore all’Indonesia, ad Hong Kong, ha debuttato a OPEN per entrare poi nella Biennale. Ma l’idea che vale una vita è del 1995: espandere la rassegna oltre i cancelli. OPEN. Popolare gli spazi aperti aprendo le finestre del mondo. L’esperienza non mancava. <E visto che mi chiamo in questo modo, ho voluto iniziare in grande>. Non c’erano alternative. Se già all’origine l’etichetta era internazionale <il piccolo si escludeva da sé>. Del resto ci furono ottime levatrici attorno, come il critico Pierre Restany. E gli ospiti – Calzolari, Mitoray, per citarne qualcuno – avevano bagagli ingombranti da piazzare tra le calli. – 32 –


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Qui De Grandis non nasconde un pizzico di amarezza: <Allora la gente era diversa. Aveva più amore, più rispetto. Oggi è incazzata, è difficile pensare di mettere una scultura all’aperto, durerebbe dieci minuti>. Allora si poteva <disseminare, anzi seminare>. Oggi no. Ma nel frattempo <ho portato a OPEN 500-600 artisti, da Schnabel a Vattelapesca>, da Pistoletto <al bambino iraniano che creava chiudendo gli occhi>. Arte vera e fenomeni da baraccone, sempre a ingresso gratuito. Particolarità dal mondo. Un vortice <finanziato da nessuno: un miracolo>. E sempre in una strana simbiosi con la Biennale. Niente di istituzionale, <non sono istituzionalizzabile> evidentemente. Ma siamo lì, in una rete di collegamenti che è il significato contemporaneo della Biennale. Purtroppo non per tutti. Eh sì, <ora c’è un’enorme assenza: il Lido. Una specie di controcultura> voluta <da un sindaco che dice: più sport e meno arte>. Da qualche parte la chiamano <ignoranza>. Questione di punti di vista: <Non è che non c’è più OPEN: non c’è più il Lido>, dice De Grandis. Così trasloco all’ottocentesco Molino Stucky, che non è certo un ripiego. Un’altra storia di Venezia che ricomincia, e il privilegio di poterla raccontare. Sorridendo per l’ossimoro “OPEN al chiuso”. Roberto Cossu

Watch more here: WWW.ARTECOMMUNICATIONS.COM – 33 –


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OPEN 2000

Paolo De Grandis, Emilio Vedova and Pierre Restany at Hotel The Westin Excelsior – 34 –


OPEN1998

Sculpture by Igor Mitoraj in the garden of Hotel The Westin Excelsior

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OPEN 2005

Sculpture by Rabatama at Lungomare Marconi.

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SPECIAL

PIERRE, PAOLO & KEITH

During OPEN 2001 in front of Keith Haring’s sculpture

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OPEN

Sculpture by Chen Zhen in the lido of Venice – 39 –

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OPEN 2012

Flags by Yoko Ono at Piazzale Santa Maria Elisabetta in the Lido of Venice

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◀ OPEN 2001 Sculpture by Keith Haring in the terrace of Hotel The Westin Excelsior in the Lido of Venice

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International Exhibition of Sculptures and Installations

SPECIAL

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VENEZIA E IL DRAGO Venezia, crocevia di culture e d’idee, di merci e saperi. Una città immaginifica, di cui si raccontano storie straordinarie, meraviglie di ricchezze, palazzi dorati, tessuti e incunaboli. Una città oggi spesso priva di contorni chiari, una geografia incerta su cui fantasticare. E l’arte, altra isola dell’immaginario, ben volentieri si presta a ricostruire mondi onirici e stravaganti; allora certamente e ancora oggi, nel tentativo di far dialogare l’arte contemporanea con l’imponente bagaglio storico veneziano. Tentativo che OPEN, Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni ha trasformato anno dopo anno in una sfida costante per oltrepassare i limiti imposti da quella omologazione, così positiva e tranquillizzante, fatta di spazi neutri disponibili ad accogliere l’estetica contemporanea nel suo flusso costante. E proprio quell’intuizione semplice e di successo di esporre sculture ed installazioni in spazi pubblici all’aperto, da un’idea di Paolo De Grandis nel 1998, si è trasformata negli anni nella prova di non-omologazione, non-neutralità, non-controllabilità ma nella necessaria relazione con l’esterno per una diretta fruibilità. Un banco di prova che abbiamo affrontato anno dopo anno con repentini cambiamenti e nuovi spazi su cui testare l’interazione tra l’opera e il luogo presente. Impegno che abbiamo rilanciato mutando la configurazione teorica e pratica dello spazio espositivo in luogo di aggregazione e scambio sociale: luogo nel quale attimo per attimo pulsino le derive espressive di artisti provenienti da tutto il mondo, fucine di significati e valori. E se le opere d’arte sono dei collaudati viaggiatori, il loro sostare momentaneo in un luogo per viaggiatori è una naturale conseguenza. Così il Molino Stucky, l’unica testimonianza di archeologia industriale a Venezia, trasformato in albergo e centro culturale dalla catena Hilton, è diventato dallo scorso anno la sede eletta di OPEN nella quale far coesistere l’arte nel tentativo di integrare quelle individualità distinte, simili e differenti le une alle altre. Un’integrazione possibile proprio in virtù della scelta degli artisti che per la diciannovesima edizione creano un percorso espositivo fluido dove la scultura, la fotografia, la pittura e l’installazione si sviluppano metaforicamente su coordinate poetiche in bilico – 45 –


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tra memoria e progetto in cui tempo e spazio riflettono il senso dell’incedere collettivo. Come consuetudine ampio spazio è stato dato agli artisti asiatici e, in questa occasione, l’estetica del paesaggio si riappropria dell’antica pittura di rotolo. Quest’ultima infatti “[…] dove l’artista traccia la manifestazione dell’universo, diventa cinetica e dà la quarta dimensione contestualmente ad una coerenza spaziale e temporale insieme, perché include anche i tempi di percorrimento e di lettura da parte del fruitore. Il longmo (vene del drago), il percorso da seguire, tracciato nel rotolo più o meno tortuosamente, rappresenta il viaggio che l’uomo, impersonato dal pittore, compie nel momento della realizzazione dell’opera1”. Così nel rotolo di Lee Tsung-Jen la natura, declinata nelle infinite sfumature di verde, diviene un viaggio mistico con tutta la consapevolezza espressiva di quel segno armonico che delinea lo spazio ed il tempo in un assoluto equilibrio compositivo. E poi ancora la leggerezza dell’acquerello e dell’inchiostro possono raccontare la natura perfetta di quei silenti paesaggi lontani scanditi da una simmetria espositiva che si ripete in sequenza nell’installazione di Li Chevalier. I famosi volti ieratici del maestro taiwanese Yahon Chang si servono invece delle infinite possibilità espressive dell’inchiostro per veicolare la sua poetica narrativa mediante una tecnica dinamica ed incisiva fatta di magistrali virtuosismi che si sviluppano su vasta scala. La creatività degli artisti in mostra travalica i rispettivi ambiti espressivi con contaminazioni stilistiche come nella pratica scultorea di Stefano Bressani dove il colore imbeve il tessuto patchwork e si fa tridimensionale e poi la porta di Giuseppe Verri si apre su uno spazio aperto, non sense univoco e senza ritorno. I nuovi miti moderni profanano quelli classici nella fusione della materia di riciclo plastico del duo di artisti russi Recycle Group. L’orizzonte, il mare e le sue gradazioni convergono delicate nella tavole lignee di Carlo Nieddu Arrica riproposte per la mostra in una dimensione spaziale nuova che le farà fluttuare sulla vela di un’imbarcazione ideale. Il colore si fa esperimento spaziale nell’opera di Verteramo e trova 1 Cfr. Marco Meccarelli, “L’estetica del paesaggio nell’arte contemporanea cinese”, 2010, Roma, p. 471. – 46 –


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nuovi sviluppi interattivi nella grande tela di Tomas fruibile con un’applicazione 3D, fino ad estroflettersi in rilievo cromatico dove le piccole figure stilizzate divengono stilemi che affollano le campiture spaziali dell’artista ucraina Lina Condes. E poi gli scatti fotografici di Miresi nei quali il dettaglio architettonico evolve di scatto in scatto in un paesaggio interiore, fino alle fotografie di grande formato di Federico Nero nelle quali l’artista altera la simmetria per svelare nuovi oggetti spaziali. La materia ferrigna dell’artista taiwanese Liu Po Chun viene erosa dal tempo e muta nel movimento perpetuo di ingranaggi che si susseguono nell’incastro perfetto di quell’anelata figura umana che si sdoppia in una danza, girotondo infantile; iconografia cara al mondo dell’arte con i suoi corsi e ricorsi. E ancora i miti e gli archetipi moderni vengono scandagliati nel film PRE/POST CARDS di Antonio Falduto (UTO). Il regista si sottrae alla narrazione per concentrarsi sul portato emotivo di una materia visiva volutamente grezza in cui ogni inquadratura si appropria di una valenza estetica e semantica indipendente, vero e proprio still life, in bilico tra purezza e aberrazione. Una terra di nessuno in cui l’occhio del regista mette in scena istantanee estreme, frammenti di un’umanità oppressa e abulica. Ed è infine ancora una volta la specificità dello spazio espositivo non convenzionale ad attivare nella mostra OPEN il capovolgimento del mezzo espressivo dell’artista: da opera bidimensionale ad installazione tridimensionale sensibile, suscettibile all’ambiente circostante. Se un’opera dunque, in un contesto de-connotato, vive nei molteplici livelli di lettura che lo spettatore gli applica e la sinestesia è sottesa nella sua essenza di materia, colore, odore, suono, multimedialità, la stessa opera, in un ambiente fortemente connotato, moltiplica all’infinito i livelli di analisi e percezione. Lo spazio entra nell’opera. La sua fruizione diventa un’esperienza articolata e la modifica nella misura in cui lo sguardo non può sottrarsi ad una geografia fisica ed antropica o ad un limite, né l’orecchio alla Babele di voci, né il naso agli effluvi del tempo, né la mente alla storia di un luogo. Sinestesie d’arte che ancora oggi ad OPEN divengono i segni di un’essenza comune, radicata nelle cose stesse, nel rapporto fra l’uomo, la natura e gli altri uomini. Carlotta Scarpa – 47 –


SPECIAL

OPEN COREA L’Asia a OPEN, OPEN in Asia. Legami di vecchia data, se è vero che l’idea di esportare oltre il Bosforo lo spirito dei Giardini di Venezia risale al 1994. I primi passi della Biennale di Singapore avevano, tra gli altri, un marchio italiano. L’origine del rapporto con la Corea è di qualche anno dopo, nel 2002. Si ricorda nitidamente l’atmosfera: <Nelle notti di Seul mi avevano messo a disposizione l’esercito. Aspettavano i miei ordini per attaccare>, scherza ma non troppo Paolo De Grandis. Che a sua volta aveva sguinzagliato un paio di centinaia di artisti. Al di là dello spiegamento tecnicomilitare in quella porzione del continente <c’era e c’è rispetto per l’arte>. E non è solo questione di efficienza che fa a meno delle scartoffie sopra il minimo dettaglio. Ma questo è un altro discorso. OPEN torna in Corea il 20 settembre, per la Biennale di Changwon, <ed è un riconoscimento internazionale>. Torna con la curiosità di <capire meccanismi, segreti> di un mondo comunque distante. L‘offerta è un accostamento Italia-Sudamerica nel segno dell’installazione: una nuova versione dell’ormai celebre “Terzo Paradiso” di Pistoletto e “Architettura muda” di Jaime Arango Correa. Work in progress multimediale, l’opera del maestro italiano è un messaggio universale fissato nel simbolo del segno matematico dell’infinito: dei tre cerchi allineati quelli opposti rappresentano la natura e l’artificio, quello centrale è l’unione dei due, il grembo di una possibile nuova umanità. “Architettura muda” è una scultura dinamica composta da moduli rettangolari che fluttuano tra spazi pieni e vuoti per svilupparsi verticalmente. I materiali impiegati dal maestro colombiano, plexiglas e oli naturali, sembrano avere una vita propria, emanando un sottile profumo. L’elemento olfattivo, visivo e tattile compongono l’energia dinamica della scultura e permettono allo spettatore di interagire con essa. Un’architettura del silenzio che esige l’ascolto.

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TERZO PARADISO Michelangelo Pistoletto

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FILOS

Jaime Arango Correa

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CHAPTER 3 INTERVIEW


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jaime iván gutiérrez – 54 –


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Quest’anno il Nobel dell’Architettura, il Pritzker Prize, lo ha vinto il cileno Alejandro Aravena, che ha scelto come simbolo della 15° Biennale di Architettura di Venezia l’immagine di una signora che sale in cima ad una scala e osserva l’orizzonte più ampio. Aravena porta avanti l’idea che “l’architettura è prima di tutto qualcosa da condividere” e che deve servire a migliorare la qualità della vita. Ampliare il proprio punto di vista, confrontarsi e fare sono elementi comuni nell’architettura e nell’arte contemporanea? De alguna forma siempre he estado convencido de que desde la función práctica el diseño y la arquitectura siempre deben propender por mejorar la calidad de vida... Sin embargo cabe interpretar desde distintas perspectivas el “cómo?”. Ante los planteamientos que propone Aravena ante un problema, que no es nuevo, y en el cual hay elementos tan dispares como tener en cuenta la “incapacidad” del sistema para entregar soluciones completas, enfrentada con la realidad de la “transgresión” casi subversiva ejercida por el usuario para adaptar una solución “completa” que le han entregado pero que no suple los requerimientos propios de aquel para quien fue concebida sino que responde más bien a los imaginados por el “solucionador”. Aravena busca establecer un “dialogo” incluyente e inclusivo, dando una solución “básica” a partir de la cual el “usuario” pueda hacer una adoptación y adaptación apropiativa a sus requerimientos y posibilidades reales del momento. Se establece un cierto dialogo en el tiempo donde la modularidad y el ritmo ayudan a ajustar de manera inclusiva la solución cambiante y evolutiva a un problema igualmente cambiante y evolutivo como es el del habitar.... Pienso que ese usuario “particular” logra generar una solución igualmente “particular” que asume la riqueza de la posibilidad unida a aquella de la diversidad. Con respecto al aspecto de “ampliar” el propio horizonte al subirse a la cima de la escalera creo que es más adecuado hablar de un “observador dinámico” que debe cambiar constantemente su punto de vista para poder realmente adquirir una visión no solo más amplia sino más completa y enrriquecida. Es necesario hacer “zoom – 55 –


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in” y “zoom out”, pero a la vez hay que usar distintos “lentes” que permitan diferentes “perspectivas” y faciliten ciertos “encuadres”; pero igualmente hay que utilizar “filtros” que permitan visualizar aspectos de esa realidad, y moverse alrededor de la situación para verla desde distintos “ángulos” y con diferentes “puntos de vista” y a diferentes velocidades y aún así nuestra visión seguiría siendo pobre si no nos apoyamos en “otros” que puedan mostrarnos sus visiones particulares y diferentes de la misma situación. Cuando logramos esto las posibilidades se amplían y se enriquecen exponencialmente y la diversidad se convierte en una melodía llena de oportunidad. Ahora bien me gustaría mucho agregar un valor y una cualidad fundamental que para mi tiene la arquitectura y es la de ser recorrida. Aquí vuelve y aparece por el observador que “experiencia” esa arquitectura al recorrerla en todas sus dimensiones, descubriendo y percibiendo todos sus nichos y lugares, que produce vivencias y sensaciones al experimentarla. Disegnatore industriale e d’interni, architetto, esperto di multimedialità, direttore del Dipartimento di Disegno della facoltà di Architettura, accademico, studioso e docente, ha ricevuto numerosi premi per la sua arte e dagli anni Ottanta ha prodotto pubblicazioni scientifiche e letterarie, conferenze, esposizioni. Un percorso professionale ricco e articolato che viaggia in parallelo con la sua vocazione artistica. In che modo il suo essere artista e la sua produzione dialogano e vivono insieme alla ricerca e alla scienza? Para mi ciencia y arte de alguna forma son complementarias y no son excluyentes. En el diseño se aprende a hacerlas convivir y compartir. Como diseñador debo entender la necesidad de “otro” e interpretarla para ofrecerle una solución adecuada, como artista debo expresar “mi” visión y experiencia particular para compartirla. Y a veces coinciden y otras no y cuando no coinciden simplemente se convierten en una nueva “experiencia” que lo transforma a uno como observador y como intérprete. La doble visión lo hace a uno ser un ser humano más versátil y completo. – 56 –


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La sua attività accademica e artistica si svolge prevalentemente in Colombia: quale posizione ha l’arte contemporanea oggi nei Paesi latinoamericani e in che modo guarda all’arte europea e al resto del mondo? Como un absoluto no hago diferencia entre el arte latinoamericano y el europeo y/o mundial. Ciertamente habrán diferencias en las estéticas prevalentes y en las tendencias expresivas pero la capacidad de todos ellos es la misma. Si existen otras diferencias serán relativas al acceso a ciertos medios y tecnologías sin embargo considero que de alguna manera el arte no puede depender del medio sino de una necesidad expresiva que encontrará maneras de adaptarse a cada situación buscando universalisarse. El artista es increiblemente oportunista y siempre encontrará una manera de apropiarse de un medio hasta dominarlo para expresar lo que desea expresar. Come vede il rapporto tra l’artista e il Museo, tra l’artista, l’opera e la Galleria? Esiste un nuovo mecenatismo o l’arte, in qualunque parte del mondo, ha flussi e movimenti a se stanti? Museos y Galerías representan de alguna manera “intenciones de control” más que espacios de exhibición. Hay algo un poco macabro en cómo se está ejerciendo ese control no para facilitar la difusión del arte y de los artistas sino para crear unas corrientes y unos productos “comercializables” que como siempre a lo largo de la historia beneficiarán a algunos y perjudicarán a otros. Sin embargo el arte siempre logrará penetrar por las venas hasta apropiarse del edificio justo como lo hace el pasto al crecer entre las ruinas. La diversidad puede ocultarse pero nunca podrá impedirse. Existe otro elemento que hoy se hace muy importante y es aquella de los diferentes puntos de vista ante la obra: Por un lado la intensión original del artista (Eso que él quería expresar en su obra) Por otro lado la visión transformada por la obra que el mismo artista tiene después de realizarla. Luego en alguna parte aparece la visión del crítico, del – 57 –


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analista, del curador, del galerista, que a menudo interpreta y quiere controlar la lectura “correcta” sobre la obra. Por último aparece la visión, la experiencia, la lectura que todos y cada uno de los miembros del público hace ante la obra independientemente de todas las “pretensiones” anteriores, esa(s) lectura(s) enriquecedora(s) que hacen finalmente del la obra un ente vivo y dinámico que termina simplemente siendo libremente todo lo anterior. Que termina siendo una experiencia expresiva e imaginativa para cada lector. Lei si è occupato dell’architettura del colore e ha trattato il non colore con temi sul bianco e nero. Una scelta che proviene dalla riflessione accademica o dall’esigenza di sperimentare? Más allá de la Arquitectura del Color en algún lugar es simplemente el Color como una experiencia lo que mueve en parte mi obra y mi búsqueda. La reflexión académica es solo un trabajo que hago para entender cómo desde distintas necesidades, desde diferentes requerimientos técnicos y estéticos o culturales, desde distintas visiones especializadas se ha tratado de interpretar este fenómeno para entenderlo, reproducirlo, aprovecharlo y finalmente controlarlo. Cuando lo miro desde la pintura el experimento con el pigmento en cualquiera de sus formas es fundamental. Pero si la obra es “impresa” o para verse en medios digitales es clave experimentar con las distintas formas de especificación y las consecuencias que traen en la reproducción y las necesidades de calibración. Si es desde la cultura me interesa “entender” no exclusivamente desde lo racional sino también desde lo emotivo y desde lo meramente sensorial cómo las gentes se apropian de los colores y de los esquemas de color y cómo interactúan con ellos dependiendo de lugares, momentos y rituales... En la comunicación me interesa ver cómo el color se relaciona o no con el mensaje y cómo lo potencia o debilita. El color es todo un universo al igual que lo es el sabor y el gusto o el olfato y todos ellos son igualmente valiosos e importantes. En cuanto al Blanco y el Negro yo los veo como dos oportunidades adicionales de la forma del color que a menudo son capaces de crear algo así como un universo paralelo – 58 –


2000. Acrílico, oleo y crayón de aceite sobre madera encontrada, 64 x 18 cm

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JARRA 110


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SALCERA VERDE VIDRIO SOBRE MANTEL VERDE OPACO 2000. Acrílico y oleo sobre tela, 20 x 20 cm

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que se contrapone pero al final simplemente se complementa con ese universo policromático para fundirse en lo que los físicos hoy llamarían un “multiverso”. De hecho aquí adquiere una importancia adicional entender al observador como un sistema que cuenta con ciertas cualidades y adquiere ciertas habilidades o utiliza ciertas herramentas que le permiten diferenciar un universo más o menos amplio de “colores”. Cosa è per lei l’azione creativa? Para empezar quisiera decir que para mi la Creatividad es por encima de todo una “Actitud” que conduce a “Acciones creativas”. En español yo juego con la palabra Creatividad transformándola en “CREACTIVIDAD” al agregarle esa C al centro para expresar y enfatizar exactamente la necesidad de Acción Creativa ante la situación, cualquiera que ella sea. Como lo expresé más arriba la creatividad es fruto de ese “Observador Dinámico” capaz de moverse por toda la situación hasta hacerse uno con ella para convertirse en solución y esto enriquecido por muchas visiones genera inmediatamente “diversidad” y esa diversidad se transforma fácilmente en elección y libertad que se puede compartir (para conectar de nuevo con la visión de Aravena). Gli artisti contemporanei sentono la necessità di approfondire e sperimentare anche partecipando alle residenze artistiche, viaggiando per il mondo, acquisendo esperienze in luoghi lontani e incontrando i maestri, i curatori e gli altri artisti. Come valuta questo fenomeno? Creo que aquí retornamos a esa visión dinámica de la cuál hablo y que esta época facilita y promueve y que debía conducir a una “Edad Creativa” gracias a esa capacidad de intercambio tanto directo como indirecto, tanto real como artificial gracias a los medios y las tecnologías que hoy disponemos a nuestro alcance y la velocidad e inmediatez de su uso. Sin embargo hay que considerar también la potencial superficialidad casi visceral que se produce ante la falta de reflexión y la reacción inmediata que estos medios facilitan. Por – 61 –


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eso las “residencias” artísticas (y de otras índoles) que establecen una permanencia de tiempo deben crearse para facilitar tiempos de estadía suficientes para un intercambio reflexivo y reciproco que genere experiencias realmente constructivas y enriquecedoras en compartir. El Proyecto “Erranti” que promueven es para mí un ejemplo claro y contundente de cómo debe producirse ese intercambio colaborativo entre múltiples mundos y artistas. L’ambiente virtuale può essere un terreno fertile per l’arte contemporanea o può generare l’equivoco? Gracias a lo virtual hoy podemos entender más fácilmente la posibilidad de infinitos universos, algunos de los cuales ni siquiera requieren de un “espacio físico” para ser posibles y existir (uno de ellos nuestra imaginación). Puesto que uno de los elementos más importantes es la posibilidad expresiva de la imaginación creo que lo virtual es una oportunidad inmensa que genera nuevas oportunidades de expresión y nuevas maneras de intercambio y comunicación. No creo sin embargo que necesariamente vayan a desplazar otros medios que requieren aparentemente de más esfuerzos pues cada medio ofrece posibilidades diferentes y oportunidades distintas. Las complejidades de lo virtual pueden llegar a ser tan profundas como las de cualquier otro medio y requerirán igualmente de artistas comprometidos que deseen alcanzar las “maestrías” y competencias que este medio exige. Il rapporto dell’arte contemporanea con il mercato come viene vissuto dagli artisti latinoamericani e in quale misura si sviluppa nei luoghi canonici dell’arte come i musei, le gallerie, o esiste un approccio alternativo? El verdadero arte no depende del mercado ni de los lugares formales para su exhibición. En la medida en que haya artistas que requieran de lugares alternativos estos se darán naturalmente a pesar del establecimiento. De hecho posiblemente hoy en día será más fácil gracias a los medios de comunicación e intercambio. En países como Colombia cada día más hay espacios temporales y alternativos – 62 –


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que albergan las posibilidades expresivas de artistas que no están dentro del sistema formal de la divulgación y del comercio del arte. En la medida en que ingresar a estos sistemas se ha hecho no solo más excluyente sino más oneroso (hasta volverse casi imposible de costear por la obra del artista: Comisiones arriendos, materias primas, impuestos y supervivencia etc,...) aparecen formas de intercambio más creativas y hasta “underground” para hacer llegar la obra al público, al igual que aparecen nuevas maneras de “costear” su realización. Le figure che ruotano intorno al mondo dell’arte contemporanea come i curatori, i critici, i manager, i mecenati, gli stessi artisti, quale carattere e quale fisionomia hanno assunto nel suo Paese? Desgraciadamente muchos de ellos han asumido una actitud de poder que no democratiza las oportunidades para el artista. Muchas de estas instancias se han convertido en lugares de poder político que cuentan con acceso a los dineros públicos y sirven de intermediarios pero que de alguna forma los controlan para beneficio propio y no para beneficio del arte. Por otro lado en un mercado “pequeño” y elitista como el nuestro el arte es un producto de snobismo social y no de verdadero valor artístico especialmente ante la manipulación de galeristas y curadores y la poca educación artística de muchos de los consumidores de arte. A pesar de esto Colombia cuenta con un gran número de artistas que no tienen nada que envidiarle al arte contemporáneo ni universal y que a menudo se ven obligados a ir al extranjero para lograr ser valorados justamente. Come definirebbe l’arte contemporanea, l’artista e la sua opera contemporanea? Como ya lo he expresado, el artista no solo el contemporáneo cumple una función muy importante en la sociedad al servir como un “sensor” capaz, gracias a su sensibilidad, de “sentir” la sociedad y el contexto en el que habita y contar con la necesidad – 63 –


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◀ JARRA ROJA EN ESPACIO PURPURA 2002. Acrílico y oleo sobre tela, 70 x 80 cm

_______________________________________________ GARAFA DE VINO ENCONTRADA EN EL ATICO DE UN ANTIGUO PINTOR 2001. Acrílico y oleo sobre tela, 50 x 30 cm

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y la capacidad de expresar su vivencia particular (que puede en ocasiones ser común a muchos) para evidenciarla y compartirla con otros que no sabrían como hacerlo pero que identifican está expresión como algo valido y valioso que también los identifica y refleja o que los hace tomar consciencia de ese sentir. El arte contemporáneo cuenta simplemente con nuevos medios y posibilidades de expresión y divulgación que hacen necesario que el artista las explote y las comprenda o simplemente que se las apropie y las “madure” en su uso para crear nuevas posibilidades de reflexión y expresión. Hoy existen materiales y medios maravillosos para expresar nuevas posibilidades y para explotar las existentes de maneras infinitamente creativas.... Hoy el límite es la imaginación pero el peligro es el facilismo con el que se utilizan para expresar banalidades y servir solo a la vanidad y al ego inmediatos opacando el verdadero arte entre un pajar infinito de “selfies” y otros similares... O será que al fin, gracias a ese facilismo todos podemos ser artistas? Far parte del movimento degli Erranti significa esprimere e condividere la propria autenticità, significa avere un punto di vista differente? Ser “Erranti” significa enriquecer muchos puntos de vista diferentes, ampliar el horizonte propio e intercambiar no solo experiencias y reflexiones sino oportunidades y vivencias a través de la obra y del viaje particular (tanto físico como espiritual) del artista y de la obra. Muchos espacios de producción, muchos espacios de expresión, muchos espacios de exhibición, muchos espacios de intercambio y reflexión y finalmente, espero, muchos espacios para transformarnos y transformar el mundo en un mundo mejor. Blanca Saibante

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HAWAIAN PUNCH

2001. Acrílico y oleo sobre tela, 90 x 70 cm

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BOTELLA AZUL SOBRE YELLOW 2 2001. Acrílico y oleo sobre tela, 100 x 70 cm

___________________________________________________________ ◀ TAZA SOLITARIA BLANCO SOBRE GREEN 1999. Acrílico y oleo sobre tela, 20 x 20 cm

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CHAPTER 4 CROSSING


dal


MEDI O

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BEIRUT - IL PASTICCIO DELLA STORIA Sono ovunque sui muri i fori di proiettile. Unendone i punti si avanzerebbe di finestra in balcone, di palazzo in rione e di quartiere in ceto e religione, fino a esporre sul corpo di Beirut il geroglifico comune della sua identità divisa. Non solo il proliferare lento della storia, antico crocevia portuale d’oriente e capitale di uno Stato maldestramente assemblato dall’imperialismo decadente di Francia e Gran Bretagna, appena un secolo fa. La seconda nascita di Beirut, e del Libano tutto, è stata la guerra civile del 1975-90, violenta genesi nella genesi. Mentre lo Stato eclissava il tessuto confessionale, prima eterogeneo fra le strade, si semplificava in una diaspora interna, agglutinandosi ai lati della Green Line, la linea del fronte: Est e Ovest, cristiani contro musulmani. Non esiste una storia condivisa. Nelle scuole profondamente segnate da religione e politica il tempo per i giovani si arresta al 1943, l’anno dell’indipendenza dalla Francia. Il resto è rimozione, un quotidiano che è equilibrio sull’abisso o deriva. Per questo, se la sintesi elimina la complessità della memoria, le molte sfumature del manicheismo, si avvicina nondimeno al sentire dell’individuo, al suo presente infinito. La pace ha aperto il Libano alla stagione neo-liberista, che ha ricostruito il centro devastato secondo stilemi architettonici consoni al ruolo di fondaco internazionale. La vecchia Svizzera levantina ha spazzato via le macerie e per indossare gli abiti sgargianti dell’Abu Dhabi sunnita, i mattoni d’oro sabbioso della società Solidere e la solitudine verticale dei grattacieli. Come altrove, nel mondo arabo e mediorientale, la finzione del capitale che contiene la tradizione, la modernità di pochi piegata alla forma per tutti. Così le curve d’acciaio e vetro hanno divorato gli edifici mammelucchi, ottomani e francesi, incastonando sulla Corniche, il lungomare, un gioiello scintillante oltre il quale è il caos. La deregolamentazione liberista ha investito uno Stato inesistente, e la feudalizzazione dell’urbanistica, della burocrazia e dei servizi sociali, in mano alle milizie per 15 anni, si è cristallizzata in identità – 76 –


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e abitudini globulari, tangenti, ma separate. I vecchi autisti alla guida dei taxi collettivi, a service, tessono ragnatele di brevi tratte e sconfinano con disappunto dal loro piccolo territorio urbano. Dentro Achrafiyye, l’est cristiano, piccole madonne nelle vetrine illuminate accendono gli anfratti delle vie che portano a Mar Mikhail o Gemmayze, le vie dei locali dove scorrono alcool e musica, i corpi giovani e flessuosi segnati dai tatuaggi e un pasticcio d’inglese, francese e a’mieh, il dialetto libanese, aperto e flesso nella disinvoltura della capitale. L’occidente e le sue lingue vivono anche nelle botteghe di spezie e cornici, nelle macellerie e nei negozi d’abbigliamento dove le donne mostrano con orgoglio la tessera d’appartenenza giovanile alla Falange dei Gemayel. I palazzi bigi della piccola e media borghesia nascondono vasti appartamenti sopravvissuti al declino del dominio cristiano sul paese. Il vento che sale dal porto riempie le stanze spalancate dei piani alti, avvolge le domestiche etiopi affacciate alle finestre. Un grande murale racconta a pieni colori la voce di Fairouz, musa dell’amore e della città ferita. A pochi chilometri sono gli anashid, i canti religiosi e politici sciiti, a uscire da macchine, negozi e centri religiosi. È Dahiyeh, la campagna diventata suburra dei contadini fuggiti dal sud derelitto negli anni ’50 e ’60, oggi capitale della nazione parallela di Hezbollah. In poco più di trent’anni dalla milizia armata a un’egemonia latente, e Dahiyeh trasformata da baraccopoli proletaria in modello comunitario che filtra i veleni postmoderni, fonda sull’epica teologica le strategie politiche dell’oggi in attesa che il Mahdi, il messia occultato, torni alla fine dei tempi per restaurare la pura civiltà islamica. Nel frattempo i check-point, disseminati su tutta la città, si addensano ai confini della periferia utopica, offesa in passato dagli aerei Israeliani (ma alacremente ricostruita) e dalle autobombe dello Stato Islamico, che Hezbollah combatte ai confini del paese e in Siria. Pur nella densità umana delle strade è molto probabile che una figura estranea al mezzo milione di abitanti, un sesto della popolazione libanese, sia fermata – 77 –


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e intervistata dal proprietario di una bottega o da un barbiere sull’uscio: il bisogno di riempire l’assenza statuale tracima in alterità, e potenza. Dahiyeh non è omogenea e ragazze dai capelli sciolti fanno suonare i tacchi sul marciapiede, ma sui balconi le tende proteggono le donne allo sguardo e per le vie si susseguono le bandiere gialle e verdi del partito e i poster con i volti dei martiri della guerra o delle figure religiose, Khomeini, Khamenei, Musa al-Sadr, il leader carismatico Nasrallah. Immagini, suoni e riti stagionali che moltiplicati dai media di partito ritornano su corpi e luoghi e diventano universo semiotico. Governamentalità, direbbe Foucault. A breve distanza vive fuori dalla storia tempo, uno dei dodici campi palestinesi sparsi per il Libano. Vi abitano dieci dei quattrocentomila esiliati nel paese dei cedri dalle diaspore seguite alla Nakba (la Catastrofe) del 1948. Lo Stato presidia i campi dall’esterno, non entra fra i miserabili grumi di cemento sbilenco e i mercati oppressi da spazzatura e mosche, fra l’anomia dei partiti che li gestiscono. Città senza diritti dentro le città della capitale, luogo di memoria precaria e di futuro sospeso. Un murale ad Hamra, la via centrale del commercio, ricorda il volto insonne di Mahmoud Darwish, il più grande poeta palestinese. Fra le vetrine, i ristoranti e i locali sciamano i piccoli sciuscià siriani, neri di lucido, cuccioli bastardi della strada e apolidi fra le cicatrici di una città che resiste a se stessa, magnifico, tragico miracolo di genti che cammina sul filo della storia. Luca Foschi

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BEIRUT DREAMS Photograph by Bianca LauraPetretto

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TO BEIRUT

Photograph by Bianca LauraPetretto

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Mon corps continent Droit Au fond des mers Les villes voyagent Souterraines Incendiées Brûlantes Les histoires troublent les terres Les bruits Incandescents Au bord du rêve Les histoires renaissent sous la peau De certitudes raisonnées Frontières escroques Horizon ensablé Territoire océan Je veux être là Physique Organique Loin du blackout Des mots Pour dire la route Rym Khene – 83 –


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Photographs by Rym Khene

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GERUSALEMME - IL SAPORE DEL TE Il sapore del the nelle colline a sud di Hebron era speciale, penso improvvisamente mentre sorseggio la mia bevanda calda al bergamotto in un bar animato da vacanzieri festanti e cagnolini che annusano le infradito dei clienti. È trascorso un anno e mezzo dal viaggio in Palestina: un viaggio a piedi alternativo in cui ho cercato di catturare ogni immagine, ogni suono e ogni profumo come quando si giunge ad un luogo altro, lontano dal pianeta Terra. Gerusalemme, Betlemme, gli artigiani del legno, le donne ricamatrici, i mercati colorati brulicanti di umanità sono stati per me, in quei giorni, l’immagine di un Paese che vive a dispetto di una guerra infinita. Ma è attraversando la campagna che si ha la percezione fisica della militarizzazione quando, tra vallate e sentieri apparentemente isolati, spuntano tunnel e autostrade riservate al transito dei coloni e camion militari che presidiano le cime dell’orizzonte visivo. Sono le h. 18, manca poco all’arrivo a Hebron, la città del patriarca Abramo (letteralmente “amico”) e godiamo di un cielo limpido che rende smeraldi i campi di grano circostanti punteggiati di papaveri rubino di un’intensità mai vista prima. Rosso e verde: gli stessi colori della bandiera. Camminiamo da cinque ore e, stanchi per il carico dei nostri zaini, attraversiamo gli ultimi chilometri di una strada percorsa da carretti, asinelli silenziosi sotto il carico di ortaggi e qualche auto che sfreccia sollevando polvere. Tutti, passeggeri e autisti, guardano con curiosità la nostra piccola carovana di 15 variegati viaggiatori senza mai far mancare un sorriso e un saluto: «Salam Aleykum – la pace sia con te». Costeggiando una parete rocciosa, quando il riverbero del sole è meno intenso, noto dei fili con della biancheria e, dietro quei panni colorati, delle grotte. Ci abitano delle persone, non sono ricoveri per il bestiame, penso, e non riesco, per pudore, ad andare oltre né con lo sguardo né – 92 –


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con la mente, finchè una signora ci viene incontro quasi gridando: «Laura Laura!» . Laura è la nostra guida che ha fatto del volontariato in quei territori e la signora la saluta calorosamente, la abbraccia e ci invita a prendere un the a casa sua. Entriamo nella grotta e, in una spianata di cemento adibita a sala da ricevimento, ci fa accomodare su dei cuscini disposti in semicerchio mentre le donne della famiglia si dedicano alla cerimonia del the. Prendo posto anche io, ultima del gruppo, come sempre mi è capitato durante tutto il viaggio: ultima perché scattavo troppe foto, ultima per la lentezza del mio passo, ultima per il disorientamento del paesaggio, delle voci, delle persone. Mi guardo sbigottita per quell’invito a 15 sconosciuti, in una grotta, e penso a tutte le nostre case moderne asettiche, sempre troppo in disordine e mai disponibili per prendere insieme anche solo un bicchiere d’acqua sul tavolo di cucina. Il the ci viene servito in bicchieri di vetro con delle foglie di menta fresca, come si usa qui. Una ragazzina dallo sguardo vivace mi chiede il nome, che cosa faccio, dove vivo, e ci tiene a dirmi che lei si chiama Randa, che va a scuola, che le piace studiare e che vorrebbe proseguire all’università. Incuriosita dalla conversazione, la raggiunge la sorellina che ha in braccio il fratellino, un neonato che profuma di pulito e ride di un riso felice. Vivono tutti nella grotta: qui è vietato costruire case, sono territori occupati, e non c’è altra soluzione, per chi coltiva la terra e pascola le greggi, che di vivere in grotta con tutta la famiglia. Guardo, ascolto, bevo il mio the e mi arrampico nella più improbabile delle sfide: non piangere. Sorrido e parlo di me con la confidenza improvvisa di quegli incontri brevi ma ricchi di reciproca curiosità. In realtà sento addosso un macigno che pian piano prende il sopravvento. Randa con la franchezza dei suoi 13 anni indica le – 93 –


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mie guance rigate di lacrime e mi chiede «Perché?». Farfuglio che è colpa della luce del sole. Facciamo il bis di the e ringraziamo la padrona di casa che con tanta gaiezza ci ha accolto a casa sua. Penso a mia nonna che abitava in campagna, e quando passava un ragazzetto figlio del venditore ambulante nelle case sparse della campagna gallurese, non mancava mai di offrirgli un bicchiere d’acqua, una mela o qualcosa di buono. Mentre andiamo via mi sovviene che il famoso Salmo 23 è stato scritto dal re David nel X secolo a.C. in questi luoghi e capisco che la forza di quelle parole è viva e che oggi, in questa grotta, sento che: “Il mio calice trabocca. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghi anni”. Venerdì 27 marzo 2015 tra le 17 e le 18 - South Hebron Hills vicino al villaggio di At-Twani. Irene Melis

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CHAPTER 5 PATAATAP

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IMMURO La Città Proibita, nel cuore di Pechino, in cinese Zijinchéng, è “la città purpurea” e ad Immuro è stato concesso il permesso dall’Imperatore di visitare il “Palazzo d’Inverno”. Tra i muri laccati e le venature ha trovato il rosso, la pelle della Cina. Immuro è una specie di animale, un camaleonte metropolitano che si aggira con la sua macchina fotografica per vedere le cose. Non le cerca: “L’arte credo sia semplice - spiega - e il muro è una provocazione. Dipende da come guardiamo le cose. Tutti passano davanti ai muri. In realtà l’opera esiste già, ha una vita propria. Io cammino, mi muovo, transito, non vivo in una citta per molto tempo e cambio luogo spesso. Guardo e lo scatto è il mio occhio. Si tratta di un ritratto fedele della realtà”. Rico Immuro è un artista a cui piace la distinzione. Ri.Co sono le iniziali del suo nome e Immuro è nato a Firenze alcuni anni fa, per la pronuncia suggestiva del muro: immuro, che evoca qualcosa di orientale e di originale, utile per il suo lavoro in Giappone e negli Stati Uniti. Crea opere d’arte che si indossano. Cattura i frammenti urbani, le metamorfosi dei muri viventi e li restituisce a nuova vita attraverso la simbiosi materica e cromatica nelle sete, nei cachemire, nelle texture pulsanti dei foulard, dei drappi che divengono pelle. Architetto, viaggiatore, fotografo, interior designer, direttore artistico, svolge la sua ricerca creativa spostandosi tra l’Europa, gli Stati Uniti e l’Oriente. Nel 2015 ha inaugurato lo showroom IMMURO nel Palazzo Michiel sul Canal Grande a Venezia, dove ora vive e lavora. A Rialto, sino al 22 settembre, si può ammirare una sua mostra dove le opere si indossano. Il prossimo appuntamento è a Sydney con l’Istituto Italiano di Cultura: “City Skin”, un originale progetto con 27 fotografie di ritratti di muri veneziani, romani, francesi, londinesi, orientali, che Riccardo Coppetta (Ri. Co) realizza dal 20 al 29 settembre 2016 con una nuova proposta creativa. I quadri contengono i foulard. Non si comprende dove inizia e terminano l’oggetto e il soggetto, ma uno fa parte dell’altro. I foulard si mimetizzano con dei piccoli magneti e l’opera contiene – 108 –


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il muro che si trasforma, si muove, può essere toccato e persino vestito dall’osservatore. “Dare importanza a ciò che esiste è il mio viaggio”, racconta Immuro: “Il mio prossimo progetto è creare una nuova collezione fotografando i muri di Sidney dove la modernità incontra il vecchio. “Lo scatto è il mio occhio, è un ritratto fedele della realtà”. Per Ri.Co l’abilità sta nella sua “ignoranza”. Non conoscere alimenta nell’artista la voglia di scoprire e imparare. Immuro è come le quinte giapponesi, si compone di tele impalpabili sovrapposte che creano armonia. “Voglio creare una griglia universale che mi permetta di essere libero”. È la sua affermazione per spiegare che mette insieme materiali differenti, tecnicamente incompatibili, ma che respirano la stessa aria. Come le sue foto senza cornici, come i colori che si muovono in un contenitore non casuale, nel caos che è la foto, come l’opera d’arte, apparentemente inutile, come l’attimo che vive il click, unico e irripetibile. “Il muro che ho visto un’ora dopo non c’è più - dice perché l’arte è quell’attimo dove intercetto con lo scatto il presente. Per questo trovo le cose e non le cerco… Se le cercassi sarebbero morte”. Scorrono i dipinti carnali, le pelli rugose, arse, segnate dal cambiamento. Sono fratture, fessure, varchi, sono superfici lisce, sono pigmenti, sono l’anima del rosso, ma vibrano gli azzurri marini e i cieli plumbei, sono vite senza nome, quelle che lasciano segni, che a volte respirano. Sono opere autentiche e contemporanee quelle di Ri.Co Immuro, in trasformazione, da annusare, da toccare, da guardare, da sentire attraverso le viscere, i pori, la pelle, da lasciar andare. Ma quale è la pelle dell’artista? “Trasparente”, risponde Riccardo. Bianca Laura Petretto

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CHAPTER 6 SWALLOW


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CUCINO DI TE Ho 55 anni e faccio il cuoco giornalista e un pochino anche sommelier. Se mi cerchi su Google, mi trovi alla voce “personal chef Varese”: dovrei essere in prima pagina, quarta posizione. Se invece scrivi “personal chef Lombardia”, salgo di ben due gradini. Misteri di Google. Ma sul motore di ricerca (e sul mio sito) sono chef soltanto per farmi notare, lo riconosco. In verità, in verità ti dico che chef non lo sono e non lo sarò mai. Lo chef è un artista. Io no. Io sono soltanto uno scribacchino. E uno scribacchino può aspirare al massimo al titolo di cuoco. Cuoco a domicilio, nel mio caso, calza a pennello. Ma su Google tira poco, chissà perché. D’altra parte, il mio destino era tracciato fin dall’infanzia. Mi chiamo Giorgio Giorgetti e mi hanno già detto che, con un nome così, sono una tautologia vivente. È come se mi specchiassi in uno specchio che si specchia in uno specchio, provocando a tutti un gran mal di testa. Gertrude Stein avrebbe scritto che Giorgio è Giorgio è Giorgio, o qualcosa del genere, se mai si fosse presa il disturbo di cacciarmi a forza in qualche verso. Ma la Stein era un’artista e faceva quel che voleva, mentre io artista non lo sarò mai (repetita ecc. ecc.), perché da dentro non mi giungono grandi ispirazioni, ma solo l’eco monotono del mio nome, tipo risacca. Bello sarà bello, ma dopo un po’ rompe le balle. Così, giocoforza, giornalista sì, poeta no. Ora, c’è una cosa che differenzia i giornalisti dai poeti e i cuochi dagli chef, e sotto sotto non fa neppure schifo: siamo più incuriositi dagli altri che da noi stessi. Forse perché non abbiamo capacità transustanziali, dico io. Correggimi se sbaglio: m’immagino l’artista (e lo chef) come Gesù Cristo, che alza al cielo pane e vino, due cose banali come non mai, e li trasforma in altro, che può nutrire in tanti modi diversi. Io spezzo il pane soltanto per vedere come gli altri lo masticano. Se dobbiamo dirla tutta, non sono altro che un guardone. Da buon voyeur, ho fatto il giornalista per svariate ere geologiche fino al giorno in cui, circa quattro anni fa, mi sono ritrovato con – 117 –


un grande avvenire dietro le spalle e un presente ristretto come un consommé. Nessuno m’offriva più un lavoro che mi quietasse la fame: quella per la vita degli altri e quella del mio conto in banca. Così ho pensato ad altre mie passioni, al mio diploma di sommelier, ai corsi e agli stage di cucina che facevo per hobby. Abbiamo la tecnologia, posso trasformarmi. E così eccomi qui a confessarlo: sono frutto del riciclaggio. Faccio parte di quei tristi cinquantenni che, gettati in strada dalla crisi, alzano il capo con orgoglio e gridano al mondo di non esser ancora finiti. Di solito, ed è anche il mio caso, il mondo non risponde: è troppo preso a guardare video con i gattini su Youtube per accorgersi di un guardone semidisoccupato. Ok, non combatto contro i video dei gattini. Lo sanno tutti che è impossibile. Però provo lo stesso a spiegarmi un po’, magari ti distraggo per un attimo da tutti questi simpatici micetti. Perché cuoco a domicilio? Perché te ne vai in casa d’altri a cucinare? Ottima domanda. Mettiamola così: in un ristorante, lo chef è l’unico responsabile delle cene e dei pranzi di chiunque entrerà nel locale. La cucina è sua, l’autore è lui. Tu sei solo un cliente, uno spettatore. Lui è l’artista, tu il pubblico. Ma io non sono un artista (l’ho già scritto) e averti in platea non m’estingue la fame di te. Il giornalista che è in me vuole vederti masticare. Vuole conoscerti, indagare, portarti alla luce del giorno. Di mostrarti la mia idea di cucina (sarà che non ce l’ho) non me ne frega nulla. E così ti propongo una rivoluzione copernicana: ti racconto in un menù. Ti trasformo nell’unico ispiratore di ogni piatto che ti proporrò. Soltanto in questo modo potrai offrire a te stesso e ai tuoi ospiti non semplici pietanze, ma le tue passioni più autentiche. Come? Lasciandomi ricostruire la tua personalità in un menù nato soltanto dai tuoi gusti, dai tuoi desideri, dalle tue curiosità e dai tuoi ricordi. Descrivimi il cibo che ti piace, le pietanze che ti consolano e quelle che ti infastidiscono… Ma non darti limiti! Sfama la mia curiosità. Parlami dei tuoi ricordi, delle tue emozioni, di ciò che ti incuriosisce – 118 –


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e di ciò che ancora ti stupisce. Dei tuoi viaggi, veri o immaginari, delle tue avventure e di tutti i sapori e i profumi che ancora racchiudi dentro di te. Narrami le speranze e le ambizioni. Illustrami la tua casa e mostrami ciò che più senti tuo. Raccòntati, fatti intervistare. Io faccio questo. Chiaro, no? Non cucino per te. Cucino di te. Per questo ho chiamato così la mia atti-vità. Anche perché ho sempre pensato che non puoi portarti a casa un cuoco per cucinarti le lasagne al forno. Lo devi chiamare per ottenere ciò che un ristorante o un catering non ti offre: rivelare la tua storia un piatto dopo l’altro. Perché ognuno ha un racconto da narrare, anche se non lo sa o non lo crede. Se siamo davvero ciò che mangiamo, allora un menù può rispecchiarti l’anima. Ecco, è quanto fa un cuoco che è un giornalista che è un sommelier. Compone il tuo ritratto col cibo e col vino. E, se va bene, ti svela cose di te che neppure ci avresti creduto a raccontartele. Giorgio Giorgetti

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RISO ERBORINO PER FREDDOLOSI, IPOCONDRIACI E METEOROPATICI Che amore e desiderio siano due cose distinte, lo comprendo quando penso al riso erborino. È fin troppo facile sognare fotomodelle: ma l’amore (ah, l’amore!) è un amalgama di affetto, passione, comprensione, familiarità, ricordi, lotte e battaglie, gioie e dolori, che sembra possedere vita propria, trascendendo persino le esistenze di chi lo sperimenta. Sono quindi sicuro che, se mai un giorno dovessi giungere al divorzio, mia moglie getterà sul tavolo del giudice il mio affetto profondo per questa (così la definisce, gelosa) insulsa brodaglia. Mia moglie non comprende. E io fatico a spiegarle perché si ama qualcosa che, a prima vista, sembrerebbe attirare al massimo compassione, ma non certo desiderio. Perché, ammettiamolo, il riso erborino è davvero una povera pietanza. Soprattutto come lo faccio io, senza usare brodo perché non sempre l’ho sottomano. Un po’ d’acqua, riso, un pizzico di sale, un trito di prezzemolo. Folleggiando, un goccio d’olio. «Mi ricorda l’ospedale», dice la disgustata consorte. Beh, io di ospedali ne ho girati, ma il riso erborino non me lo hanno mai dato. Me lo faceva invece mia madre, ogni volta che stavo male, tutte le volte che l’inappetenza provocata dall’influenza m’impediva d’ingurgitare alcunché. E quella minestrina calda, che sembrava lenire i brividi della febbre, s’è impiantata nel mio cuore come il simbolo stesso del conforto, della consolazione. Anche oggi, quando qualcosa non va - non soltanto fisicamente - prendo il mio pentolino e preparo questa magica porzione, capace di ristabilire il mio equilibrio con il mondo. Ognuno di noi ha un rapporto diverso con la “cucina della malattia”, quella che un tempo veniva definita “degli stomachi deboli”. C’è chi l’odia, poiché rammenta stati di debilitazione che si preferirebbe scordare, e c’è chi l’ama, perché vi trova il conforto che il peggio è passato. Che adesso, dopo quel primo passo, sarà possibile riprendere a camminare, magari persino a correre. Io – 120 –


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sono tra questi ultimi. E così mi gusto voluttuosamente cucchiai su cucchiai di questo riso biancoverde, scrio scrio, come dice la mia mamma fiorentina: cioè così com’è, puro e semplice, senza nessun artificio per renderlo appetibile se non l’amore. Mia moglie, donna di passioni, vede nel ripristino delle sue pulsioni il ritorno della salute ed esorcizza i malanni con il desiderio smodato per cibi golosi. Io, uomo d’affetto, mi costruisco anche nella malattia una nicchia dove ritrovare sicurezze, conforti, legami tra il presente e il passato che non mi facciano sentire abbandonato. Tra i fornelli c’è posto anche per la piccola psicologia. E, se non si va cauti, anche per un divorzio. Giorgio Giorgetti

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AINAS MAGAZINE LA RICETTA . RIS ED ERBORIN Questa è una ricetta familiare lombarda, soprattutto di quella zona che sta fra la Brianza, il Comasco e il Varesotto. La zona in cui vivo, insomma. Nel dialetto locale, erborin significa “erbetta”, uno dei nomi popolari e affettuosi con cui indicare il pedersèm, il prezzemolo, probabilmente ad intendere che il prezzemolo è, appunto, l ’erbetta aromatica più comune nella cucina mediterranea.

Parlare di brodo, inoltre, è doveroso. Io, personalmente, odio quello di dado (che mi ricorda

davvero l ’ospedale), ma ognuno faccia - come sempre - ciò che vuole. Meglio sarebbe il brodo del bollito, oppure anche di fortuna, con una carcassa di pollo.

Eppure, che tu ci creda o no, piuttosto che almanaccare tanto, è meglio farlo con la semplice

acqua, magari sostituendo il burro con un fresco olio lariano, una variante comasca che accentua il verde sapore del prezzemolo. Conforta allo stesso modo. Forse di più. Preparazione per 4 persone Riso Maratelli o Balilla o Vialone nano (200 g) Formaggio Grana Padano grattugiato (20 g) Burro (20 g)

Brodo di carne (1,2 l) Prezzemolo (40 g) Esecuzione Lava e trita finemente il prezzemolo. Metti sul fuoco una casseruola con il brodo e porta

a bollore. Unisci il riso e cuoci, mescolando di tanto in tanto. Quando il riso è cotto, togli dal fuoco e incorpora il prezzemolo e il burro. Mescola bene, versa nella zuppiera e accompagna con il Grana.

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