Op. Cit. 174

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ISSN 0030-3305

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maggio 2022

numero 174

Intelligenza artificiale e architettura - La grammatica del progetto - Il labýrinthos del Minotauro e l’aulé di Arianna: dall’abisso alla danza - Euro-pólis. La città pub­ blica al centro dell’Europa - La mimesi e il binomio continuità/discrezione - Nuovo paesaggio italiano interventi artistici nel contesto pubblico e ruolo attivo del­ l’ar­te in Italia oggi - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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Selezione della critica d’arte contemporanea


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L. Sacchi C. Chirianni R. Capozzi M. Cocozza M.D. Morelli M.G. Mancini

Intelligenza artificiale e architettura La grammatica del progetto Il labýrinthos del Minotauro e l’aulé di Arianna: dall’abisso alla danza Euro-pólis. La città pubblica al centro dell’Europa La mimesi e il binomio continuità/discrezione Nuovo paesaggio italiano interventi artistici nel contesto pubblico e ruolo attivo dell’arte in Italia oggi Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Paola Buccaro, Carola D’Ambros, Chiara Pradel, Federico Turelli.



Intelligenza artificiale e architettura LIVIO SACCHI

A un intervistatore che chiedeva come fosse nato il concept dell’Holocaust Memorial a Berlino, Peter Eisenman rispose: Il computer fu un fantastico aiuto. Inserimmo un po’ di dati di base e vennero fuori due superfici, sago­ mate a caso, diverse. Provammo a sovrapporle l’una sul­ l’altra e a combinarle con le steli. Una delle superfici di­ venne il pavimento del Memorial, l’altra delimitò il bor­ do superiore delle steli [Cfr. H. Rauterberg, Talking Architecture, Interviews with architects, Prestel, Munich 2008, p. 37]. I dati di cui parla Eisenman sono importanti in architettura: che si tratti di richieste oggettive o di elementi eteronomi interni alle logiche progettuali. Big data I big data hanno rivoluzionato la scienza, l’economia, la società. Mossero i primi passi agli inizi del XXI secolo, quando la ricerca scientifica mise per la prima volta insieme alcune teorie, la raccolta di grandi quantità di dati sperimentali e l’uso di calcolatori e reti informatiche, per dare risposte a una serie di domande fondamentali. Utilizzata per la prima volta nel 1999 da Steve Bryson, David Ken­ wright, Michael Cox, David Ellsworth e Robert Haimes in un articolo pubblicato dal mensile americano “Communications of the ACM”, la locuzione indica da una parte l’im-

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pressionante quantità di dati cui siamo esposti, dall’altra il lavoro di analisi che siamo chiamati a fare. Si parla insomma di big data quando il volume di dati è talmente grande da eccedere la capacità di sistemi tradizionali di raccol­ ta, gestione e analisi [A. Di Meglio, A. Ferrari, Big data, in Enciclopedia italiana, X App., Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, Roma 2020, pp. 152]. Ciò vale in tutti i

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settori e, da un po’ di tempo, anche nella progettazione, costruzione e gestione dell’architettura e delle città. Non v’è dubbio che i dati siano utili; ma quando sono troppi possono diventare un problema. Attraverso il crowd­ sourcing, inteso come raccolta di idee, e, soprattutto, lo IoT, Internet of Things, che con i suoi “oggetti connessi” ne è diventato la fonte principale, anche gli architetti che si accingono a disegnare un edificio, un pezzo di città o, magari, una città interamente nuova, sono esposti a dati numerosi, molti di più di quelli controllabili. Per poter estrarre valo­ re, i big data hanno bisogno di essere raccolti, immagaz­ zinati, gestiti, analizzati e visualizzati [Ibidem]. Di qui la necessità di delegare a software in grado di operare al nostro posto, meglio di noi, più velocemente di noi: tali deleghe non sono che forme, più o meno evolute, di intelligenza artificiale. Intendendo per algoritmo l’insieme di istruzioni da applicare per risolvere un problema, ecco a cosa serve il potenziamento della memoria: alla costruzione di una grande officina virtuale in cui, a lavorare, saranno gli algoritmi istruiti dai nostri comportamenti, e capaci con questo di realizzare una automazione perfetta [M. Ferraris, Documanità, Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 57-58]. Anticipiamo che imparare a utilizzare l’intelligenza artificiale dal punto di vista progettuale richiederà tempo. Ma è indubitabile che essa sia entrata, in maniera massiccia quanto inavvertita, nella vita di tutti noi. La disponibilità di grandi quantità di dati (…) si sposa particolarmente bene con metodi di apprendimento automatico o machine learning. Tali metodi comprendono algoritmi che possono apprendere da un insieme di dati, trovare correlazioni e fare predizioni basate su di essi, costruendo in modo in­


duttivo un modello basato su campioni [Ivi, p. 153]. Il possesso di dati attendibili è dunque essenziale e l’intelligenza artificiale dà certamente una grossa mano per il loro impiego progettuale. Da ciò deriva una sfera della progettualità contemporanea che assume nomi diversi per designare approcci simili: data driven design, parametricismo o progettazione parametrica, progettazione generativa, form finding o form searching. Niente di nuovo: non c’è progettualità architettonica che possa fare a meno di dati di partenza. Ma questi ultimi e la loro visualizzazione, la cosiddetta dataviz, sono sempre più importanti, in particolare a fronte di insiemi edilizi complessi o alla scala urbana. Ricordiamo, tra parentesi, che qualcosa di simile fu vagheggiato negli anni sessanta dal gruppo situazionista di Guy Debord con il movimento chiamato “urbanismo unitario”. Il digital twin Possiamo definire gemello digitale la simulazione informatica di un oggetto reale complesso, per esempio un edificio o un’infrastruttura, usata per migliorarne il processo produttivo, controllarne la qualità e l’utilizzo, prevederne la manutenzione e le prestazioni nel tempo. La locuzione sem­ bra sia stata usata per la prima volta nel 2001 da Michael Grieves, Chief Scientist for Advanced Manufacturing presso il Florida Institute of Technology, durante un corso di Product Lifecycle Management alla University of Michigan. Nel 2019 il mercato globale legato al digital twin è stato valutato 4 miliardi di dollari; le proiezioni al 2025 parlano di quasi 36 miliardi [Cfr.: www.gartner.com/smarterwith gartner/prepare-for-the-impact-of-digital-twins]. Un business gi­ gantesco, che sta assumendo rilevanza sempre maggiore: difficile, dunque, sottovalutarne la portata. Il digital twin è composto da un modello formato da dati geometrici e alfanumerici e dai processi che lo riguardano (progetto, costruzione, uso, gestione e manutenzione); dalle cosiddette analitiche, algoritmi che analizzano il comportamento dell’oggetto reale, nel nostro caso l’edificio e

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l’ambiente in cui si colloca, simulandone le interazioni con gli utenti; dalla conoscenza, intesa come raccolta dati, esperienze ecc., in grado di determinarne l’ottimizzazione. Il gemello digitale rende così possibili i controlli di produzione, che verificano il corretto avanzamento del cantiere mediante sensori e IoT; i controlli di gestione, che verificano comportamenti e prestazioni dell’edificio; i controlli strategici, che ne garantiscono la tenuta nel tempo, anche rispetto alle mutevoli esigenze dell’utenza. Nella sua configurazione ottimale, il gemello digitale è insomma in grado di offrirci tutte le informazioni altrimenti desumibili dal manufatto reale. L’intelligenza artificiale Oltre a essere il titolo – AI, Artificial Intelligence – di un film di Steven Spielberg del 2001 (a partire da un’idea di Stanley Kubrick), l’intelligenza artificiale è un insieme di tecnologie avanzate che consente ai computer, o più in generale alle macchine, di comprendere, apprendere e agire di conseguenza. Oggi, la definizione di intelligenza artificiale viene usata in riferimento ad algoritmi, o a sistemi, capaci di riprodurre attività specifiche raggiungendo ri­ sultati comparabili a quelli umani (IA ristretta); oppure che sfruttano processi di apprendimento e di risoluzione dei problemi (problem-solving) simili a quelli umani (IA generale). Quest’ultimo è un concetto ancora vago e la sua definizione è oggetto di ampia discussione [A. Di Meglio, F. Fracas, S. Valecorsa, Intelligenza artificiale, in Enciclopedia italiana, X App., Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, Roma 2020, pp. 795]. C’è un momento,

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insomma, in cui l’elaboratore smette di eseguire acriticamente i comandi che gli vengono impartiti e inizia a far uso di ciò che ha appreso, mettendo in campo la sua “personale” conoscenza del fenomeno, con un processo analogo a ciò che fa l’intelligenza umana. Si tratta di una forma di deep learning che, assieme alla robotica, è destinata a cambiare gli scenari del decision-making strategico e, in parti-


colare per quanto ci riguarda, quelli progettuali e costruttivi dell’architettura. L’intelligenza artificiale ci offre dunque orizzonti nuovi. La sua capacità di manipolare forme, generare soluzioni, interagire con il committente e gestire il progetto è migliore di quella umana: le macchine automatiz­ zano qualunque processo perché registrano e classifica­ no i nostri atti, abitudini e desideri, sicché ciò che chia­ miamo «intelligenza artificiale» non è che il grande ar­ chivio della commedia umana [M. Ferraris, op. cit., pp. 61-62]. L’impatto di questo insieme di tecnologie avanzate costituisce, senza dubbio, un fatto nuovo, anche se l’intelligenza artificiale non è una novità. Un primo programma di ricerca, noto appunto come Intelligenza artificiale, fu avviato ufficialmente nel 1956 al Dartmouth College, nel New Hampshire, da John McCarthy, Marvin Minsky, Nathaniel Rochester e Claude Shannon. L’obiettivo era costruire una macchina in grado di comportarsi in modo che sarebbe considerato intelligente se fosse un essere umano. La macchina, ovviamente, era un calcolatore e il programma operativo si chiamava Urban5. Il comportamento intelligente era modellato su quello umano: ragionamento euristico, ricerca e gestione delle informazioni, capacità di pianificazione, elaborazione logico-linguistica, rappresentazione ecc. Ricordiamo, tra parentesi, che, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, che aveva comunque dato un considerevole impulso alle ricerche nel settore, si era riusciti, per la prima volta, a far giocare un calcolatore a dama e a scacchi. Oggi, come sappiamo, un computer è in grado di giocare meglio di un giocatore esperto: ricordiamo la vittoria riportata nel 1997 dal supercalcolatore Deep Blue della IBM sul maestro di scacchi Garry Kasparov. Nicholas Negroponte, che aveva seguito con attenzione le ricerche di McCarthy, Minsky, Rochester e Shannon, nel 1970 pubblicò The Architecture Machine. Alla fine degli anni settanta, Elaine Rich introdusse il concetto di user model, attraverso il quale venivano collezionati fatti, comportamenti e informazioni sull’utente. La stessa Rich introdusse poi i cosiddetti ste-

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reotipi, cioè gli attributi di un utente assunti come validi, almeno fino a prova contraria. Si trattava dei primi passi di ciò che avviene comunemente ai giorni nostri, quando la navigazione sul web raccoglie costantemente informazioni su tutti noi. In quel periodo, in alcune università americane, cominciarono ad apparire figure a metà strada fra l’architetto e il computer scientist, con l’aiuto di una disciplina chiamata Cognitive Psychology. Le applicazioni all’architettura erano tuttavia primitive: i problemi che il computer era in grado di risolvere erano limitati all’ordine strutturale o distributivo. In quegli stessi anni settanta al Massachusetts Institute of Technology, come in altre scuole americane, iniziarono le sperimentazioni sulle prime fabbriche intelligenti. Ma le applicazioni della cibernetica alla progettualità architettonica sembrarono non funzionare. Negli anni ottanta, l’ascesa del postmoderno provocò l’archiviazione di ogni sperimentazione in tal senso. Alcuni, a posteriori, parlarono di inverno dell’intelligenza artificiale [Cfr. R. Cordeschi, E. D’Avanzo, Nuove prospettive nell’Intelligenza artificiale, in XXI Secolo, Norme e idee, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, Roma 2009, p. 183].

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Oggi gli scenari sono cambiati: gli edifici intelligenti sono sempre meno delle entità autonome, funzionando invece sempre più come veri e propri hub facenti parte dei sistemi delle reti metropolitane, con i consueti obiettivi di ridurre i costi, ottimizzare l’utilizzo della manodopera e fornire servizi migliori con la loro progressiva aggregazione, integrazione e automazione. Tutto ciò vale anche per aggregati urbani più o meno estesi. I risultati o le performance di cui l’intelligenza artificiale è capace non sono né autonomi né assoluti: il loro output si basa sugli input ricevuti. Questi ultimi sono tanto più articolati quanto più sono frutto del lavoro di esperti in discipline diverse; ma, per risultare utili, devono essere chiaramente descrivibili. Quanto più i problemi da risolvere sono di ordine fisico, quantitativo, geometrico, e sono quindi misurabili e traducibili in parametri, tanto più i sistemi intelligenti sono in grado di dare buoni risultati. Per esemplifica-


re, si pensi a dati strutturali o prestazionali (energetici, acustici, illuminotecnici ecc.). Viceversa, le qualità con componenti soggettive o caotiche, cioè difficilmente descrivibili in forma parametrica, sono meno suscettibili di produrre risultati utili: si pensi agli aspetti estetici, psicologici o, più in generale, a tutto ciò che è difficile quantificare. Un ruolo fondamentale è giocato dall’apprendimento automatico, frutto di una vera e propria fase di “allenamento” dei modelli matematici. All’interno di tale apprendimento, si distinguono tre categorie: l’apprendimento supervisionato, in cui si esercita un controllo diretto sui risultati; l’apprendimento non supervisionato; l’apprendimento per rinforzo, in cui interviene un feedback utile nei processi di decision making o nella robotica. Alcuni modelli sono ispirati alle reti neuronali biologiche, di cui costituiscono una semplificazione. All’interno di tali reti, appaiono da una parte gli input, cioè i dati di allenamento, dall’altra gli output, cioè le predizioni, le scelte progettuali che ne derivano. Il funzionamento delle reti non è comprensibile, si avvale cioè di livelli nascosti chiamati black box, in analogia con quanto avviene con la mente umana che elabora pensieri e prende decisioni in maniera non sempre analiticamente spiegabile. Ma l’intelligenza artificiale funziona anche bene per la simulazione di problemi incompatibili con l’approccio algoritmico. In questo caso, il modello assume il ruolo di un simulatore probabilistico di fenomeni. Possiamo comunque affermare che le applicazioni dell’IA rientrano fra i sistemi, più o meno evoluti, di supporto alle decisioni. Nel nostro caso, il processo decisionale non è più esclusivamente nelle mani dell’architetto. Non senza rischi, anche consistenti: a partire da quelli legati alla privacy dei dati utilizzati fino al possibile peggioramento della complessiva qualità estetica dell’ambiente costruito. Abbiamo tuttavia anticipato che le soluzioni proposte possono essere migliori di quelle derivanti dalla mente umana. Perché? La ragione è che alcuni sistemi sono in grado di accumulare, in tempi brevi, l’esperienza che la mente dell’uomo accumulerebbe in centinaia di anni e di integrare gli input ricevuti con una vera e

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propria attività di data mining, cioè di ricerca di ulteriori dati utili. Strettamente legate a tali studi sono le applicazioni robotiche: in una prima fase, databile agli anni ottanta, si cercava di portare i robot dal livello semplicemente reattivo a quello segnato da più complesse interazioni con l’ambiente, attraverso forme di pianificazione e ragionamento. Seguì la robotica evoluzionista, con l’impiego di algoritmi genetici in grado di sviluppare, appunto evoluzionisticamente, le capacità di controllo con l’ambiente. Oggi l’uso di robot è diffusissimo in chirurgia, nelle ricerche marine o spaziali, nei veicoli driverless ecc. Anche nel settore edile, le applicazioni sono sempre più comuni. Tutto ciò non manca di suscitare dubbi sul piano etico e sociale: il digitale ha co­ munque creato il mito negativo di una scientificità progettuale. Molti pensano infatti che il computer abbia fi­ nalmente permesso all’architetto di svolgere il suo lavo­ ro con il massimo della precisione possibile, in quanto messo in grado di controllare tutti gli aspetti del proces­ so previsionale [F. Purini, Scrivere architettura. Alcuni temi sui quali abbiamo dovuto cambiare idea, Prospettive, Roma 2012, p. 60]. Altri dubbi riguardano il piano occupazionale: robo-

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tica e IA sono potenzialmente in grado di provocare l’espulsione dal mercato del lavoro di molti addetti (le posizioni di Domenico De Masi ci rassicurano in tal senso). Ma è anche vero che l’adozione di tali tecnologie determina una considerevole crescita economica, maggiore – secondo alcuni – di quella dovuta all’introduzione della macchina a vapore. L’intelligenza artificiale può comunque risultare di gran­de ausilio in fasi diverse. All’inizio è in grado di segnalare le maggiori difficoltà in ambito progettuale, suggerire la squadra di progettisti più adatta (presumibilmente, all’interno di uno studio abbastanza grande), ridurre il numero di opzioni possibili, identificare i rischi. In fase di progettazione, è in grado di ottimizzare le diverse ipotesi e indirizzare verso quelle più flessibili e resilienti. In fase di realizzazione può evidenziare gli eventuali errori, facendo uso di tecniche di riconoscimento delle immagini, e guidare il project


management, cioè la redazione del progetto, anche suggerendo l’uso di tecniche costruttive robotizzate. In fase di consegna e gestione dell’edificio, è infine in grado di interagire con i manutentori e utilizzare i dati forniti dagli utenti, utili per altri, futuri progetti. Lo studio di progettazione diventa anch’esso un prezioso accumulatore di dati: gli errori commessi servono a non ripeterli più. Ma nemmeno negli studi più aggiornati e competitivi si è per adesso in grado di utilizzare le pressoché infinite potenzialità dell’intelligenza artificiale. Le sue applicazioni più interessanti sono, almeno per ora, monopolizzate da grandi aziende quali, per esempio, Cisco e Nvidia. Si tratta, tuttavia, di scenari in evoluzione: sempre più numerosi sono gli architetti che hanno avviato interessanti sperimentazioni in questa direzione. Un esempio ci è offerto dallo studio statunitense Perkins & Will, dove le ricerche sull’intelligenza artificiale sono fra le più avanzate in ambito progettuale, anche se, per ora, ci si limita a parlare di EI, Extended Intelligence. Quest’ultima intesa come qualcosa di simile a una rete, composta da esseri umani e macchine, in grado di creare, insieme, una potente intelligenza collettiva. Qual è l’effettivo grado di creatività dell’intelligenza artificiale e che impatto può avere sul processo progettuale? Alcune risposte sono facilmente immaginabili: numerosi strumenti informatici, basati su operazioni di riconoscimento, valutazione, ricostruzione e generazione, ci aiutano già oggi a compiere operazioni di carattere progettuale. Non è difficile prevedere che l’architetto si occuperà sempre più della parte intuitiva e creativa del lavoro, legata alle scelte strategiche, mentre lo sviluppo del progetto, quella spesso delegata ai collaboratori, sarà portata avanti meglio, più economicamente e più rapidamente da un computer. Ma è anche facile pensare che, a mano a mano, si arriverà alla definizione di modalità più efficaci: Google, IBM, Salesforce e altre aziende del settore stanno lavorando a nuovi tool in grado di ottimizzare l’interazione e l’utilizzo del prodotto con l’utente finale. L’intelligenza artificiale aiuta il processo ma, almeno per adesso, non sembra rubare lavoro ai

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progettisti. Anzi, sotto diversi punti di vista, poter contare su di essa per risolvere tutta una serie di piccoli problemi (dal verso di apertura di una porta al grado d’insonorizzazione di una parete, dalla resistenza al fuoco alla tenuta degli infissi) libera spazi mentali per potersi meglio dedicare ai grandi problemi, di carattere sintetico, che almeno per ora nessun computer è in grado di affrontare. Nel libro The Second Digital Turn [The MIT Press, Cambridge, MA 2017] Mario Carpo cita due aneddoti in contraddizione fra loro. Il primo è la storiella del cammello che è “un cavallo disegnato da una commissione”. Dando per scontato che un cammello sia più brutto di un cavallo, ne deriva che la creatività di gruppo è frutto di compromessi difficilmente in grado di produrre qualcosa di bello. Il secondo è il cosiddetto esperimento di Galton. Matematico e scienziato del periodo vittoriano imparentato con Darwin, Francis Galton rimase colpito da un caso curioso: a una fiera di bestiame, la media delle stime a vista del peso di un bovino era più vicina al peso reale della bestia di quanto lo fosse ciascuna stima individuale. Cosa ne emerge? In primo luogo l’affermazione di una sorta di primato ante litteram del crowdsourcing; anche se non dobbiamo dimenticare che si trattava sì di un gruppo numeroso, ma non generico, in quanto formato da esperti allevatori. In secondo luogo, ed è il punto che ci interessa sottolineare, va detto che i due aneddoti, nel loro insieme, ci offrono lo spunto per riflettere sulla dicotomia che tanto preoccupa i politologi contemporanei: da una parte la fiducia nella capacità d’individuazione media dei problemi e delle loro soluzioni da parte delle masse; dall’altra i brillanti risultati raggiunti della tecnocrazia. Macchine e umani

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Per concludere, ci sembra infine utile ricordare ciò che scrive Thomas Piketty a proposito delle scienze sociali in generale e del tema delle disuguaglianze in particolare e immaginare ciò che, mutatis mutandis, ne deriva ai fini del nostro discorso sulle scelte progettuali: Quanti pensano


che un giorno sarà possibile delegare a una formula ma­ tematica, a un algoritmo o a un modello econometrico il compito di scegliere il livello ‘socialmente ottimale’ di disuguaglianza e le istituzioni che consentano di arrivar­ ci resteranno delusi. Non succederà mai ed è meglio così. Solo un’espressione aperta e democratica, formulata nel linguaggio naturale (o piuttosto nelle diverse lingue na­ turali, e non è un dettaglio da poco), può garantire le sfumature e le sottigliezze necessarie per concepire que­ sto genere di scelte [T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020, p. 63]. Un parere, tutto sommato, non dissimile da quello espresso da Carpo quando scrive: Evi­ dentemente, le tecniche numeriche mettono nuovi mezzi a disposizione degli architetti e designer dei nostri gior­ ni, e gli architetti e designer possono e devono farne il miglior uso possibile – perché se non lo fanno loro, lo faranno altri. Ma immaginare che una nuova generazio­ ne di computer possa sostituire interamente il lavoro creativo degli architetti (come Negroponte e altri imma­ ginavano alla fine degli anni Sessanta, e molti riprendo­ no a immaginare oggi) non è né utile né intellettualmen­ te interessante. Certo, l’intelligenza artificiale di oggi ha capacità stupefacenti. Ma anche se uno di questi nuovi ‘cervelli elettronici’ fosse capace di sviluppare progetti automatici (e questo giorno non sembra imminente), non vedo quale committente potrebbe preferire una di quelle macchine a uno di noi. Non foss’altro perché noi conti­ nuiamo a costar meno – purtroppo [M. Carpo, Storia brevissima, ma si spera veridica, della svolta numerica in architettura, in “Casabella”, n. 914, ottobre 2020].

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La grammatica del progetto CLAUDIA CHIRIANNI

Negli scorsi decenni gli studi sull’intelligenza artificiale hanno favorito lo sviluppo di nuovi strumenti per la progettazione architettonica, tra cui shape grammar, un sistema di calcolo basato su regole che genera forme geometriche [Y.E. Kalay, Architecture’s New Media, The MIT Press, Cambridge, MA 2004].

Introdotta da George Stiny e James Gips con l’articolo seminale, pubblicato nel 1971, Shape Grammars and the Generative Specification of Painting and Sculpture [in «IFIP congress (2)», 2 (3), 1971], shape grammar rappresenta uno dei primi sistemi generativi per la progettazione nonché uno dei primi tentativi di approccio computazionale all’arte e all’architettura. Cinque anni dopo, un altro testo di Stiny, Two exercises in formal composition, [in «Environment and Planning B: Planning and Design», 3 (2), 1976] divenne il fondamento di molte applicazioni di shape grammar in architettura. Fin dall’inizio, infatti, questo sistema ha riscosso grande successo in ambito accademico ed è stato oggetto di numerose ricerche e implementazioni. Tuttavia, la continua produzione di ricerche sul tema testimonia tanto il fatto che, a cinquant’anni dalla sua invenzione, l’interesse nei suoi confronti non sia ancora diminuito, quanto che il suo potenziale come strumento di progettazione generativa non è stato ancora pienamente sfruttato.

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Allo stesso tempo, non si può non considerare che la costruzione di una shape grammar implica la codifica, al suo interno, dell’intero insieme di requisiti di progettazione e delle conoscenze e competenze di un progettista esperto. In altre parole, la costruzione di una buona grammatica progettuale richiede contemporaneamente competenze progettuali e di programmazione piuttosto avanzate. Questo spiega anche la scarsa divulgazione di queste ricerche al di fuori di specifici istituti di istruzione e ricerca architettonica avanzata, perlopiù inglesi e americani. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, la diffusione di conoscenze informatiche tra gli architetti e lo sviluppo di linguaggi di programmazione specificamente pensati per i designer ha permesso di diffondere a scala mondiale le ricerche avviate dai pionieri degli anni ’60 e ’70, tra cui anche shape grammar, e di ibridarle e implementarle da una diversa prospettiva culturale. Metodi computazionali per l’architettura Il principale contributo di shape grammar alla ricerca architettonica è avvenuto attraverso una delle applicazioni di maggior successo dell’intelligenza artificiale, i sistemi esperti1, capaci di emulare le capacità cognitive umane nel risolvere problemi che si presume richiedano alti livelli di esperienza professionale in vari campi, dalla medicina alla progettazione [J. Fox, Expert systems and theories of knowledge, in M. Boden (a cura di), Artificial Intelligence, Academic Press, Cambridge, MA 1996, pp. 157-181].

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Lo sviluppo della programmazione informatica e degli studi sull’intelligenza artificiale, insieme ai primi studi su ricerca operativa, processi decisionali e tecniche creative, hanno infatti ispirato la ricerca, nell’ambito della progettazione architettonica, di sistemi capaci di sintetizzare soluzioni progettuali sulla base di analogie, casi studio e regole progettuali. Queste ricerche riflettono la necessità, nata con la rivoluzione industriale, di un approccio strutturato alla proget-


tazione architettonica e di una razionalizzazione del processo progettuale, sfociata, a partire dagli anni ’50 e ’60, in un crescente interesse per metodologia progettuale e pensiero creativo, come testimoniano numerose pubblicazioni di quel periodo2 e la nascita del “Design Methods Movement” [N. Cross, Forty years of design research, «Design Studies», 28, 2007]3. In questo contesto acquistano credito le prime ricerche sperimentali sui metodi computazionali per la progettazione, tra cui shape grammar, soprattutto a seguito della pubblicazione nel 1964 di Notes on the Synthesis of Form in cui Christopher Alexander, architetto e matematico, descrive l’uso sistematico di un metodo computazionale per mettere insieme ed elaborare le informazioni relative al progetto, strutturandole in modo tale da renderle immediatamente accessibili per la sintesi delle soluzioni progettuali. Shape grammar e grammatica generativa Shape grammar, nella sua forma tradizionale, è fondamentalmente un metodo per dedurre le regole compositive di una determinata opera o corpus di opere architettoniche. Il processo utilizzato si basa sulla riscrittura, un procedimento adoperato nella grammatica generativa4. Il sistema proposto da Gips e Stiny, infatti, è stato modellato su analogie linguistiche, in particolare sulla grammatica generativa di Chomsky [N. Chomsky, Syntactic Structures, ‘s Gravenhage, Mouton & Co. 1957] di cui erano stati entrambi studenti al MIT. Tuttavia, a differenza della grammatica di riscrittura classica, i simboli di shape grammar vengono riscritti per rappresentare entità geometriche. Grammatiche analitiche Una delle applicazioni più celebri di questo tipo di processo è dato dalla Palladian Grammar di G. Stiny e W. Mitchell, pubblicata nel 1978 [in «Environment and Planning B», 5, pp. 5-18], che diede inizio a una serie di ricerche

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sull’uso di shape grammar per l’analisi di opere architettoniche [T. Knight, Applications in architectural design, and education and practice, report per il NSF, in «MIT Workshop on Shape Computation», 1999]. In questo lavoro le regole grammati-

cali, basate sui Quattro Libri dell’Architettura di Palladio, rileggono il sistema di proporzioni e il linguaggio architettonico di Palladio in forma “generativa”, seguendo l’interpretazione di Wittkower [R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, Alec Tiranti, London 1952]. Nell’articolo appare chiaro che l’obiettivo principale di una grammatica analitica non risiede tanto nella modellazione di edifici geometricamente e storicamente accurati, ma nella realizzazione di modelli qualitativamente corretti che definiscono relazioni di dipendenza complesse tra elementi architettonici. I requisiti che una grammatica analitica deve soddisfare, così come espressi da da Stiny e Mit­ chell, richiedono infatti uno sforzo di astrazione da parte dell’autore che gli permette di appropriarsi completamente della struttura logica del progetto esaminato. La costruzione di una grammatica rappresenta dunque un processo di apprendimento, e questa caratteristica, del resto, attribuisce a shape grammar un grande potenziale educativo. Una grammatica ben scritta, infatti, può rivelare schemi e regolarità dietro progetti apparentemente complessi o casuali, portando alla luce la struttura concettuale e compositiva che sottende progetti che si potrebbero altrimenti considerare insondabili [T. Knight, cit.]. In questo senso, shape grammar permette un’analisi architettonica su livelli più complessi di quella tradizionale, che non potrebbero essere realizzati senza l’appropriato sfondo computazionale. Un esempio del vantaggio di shape grammar nell’analisi architettonica può essere ritrovato dal confronto tra le analisi di Casa Giuliani Frigerio di Terragni, condotte rispettivamente da Eisenman e Flemming. L’analisi di Eisenman, pubblicata nel 1971 [P. Eisen-

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man, From object to relationship 2: Giuseppe Terragni. Casa Giuliani Frigerio, «Perspecta: The Yale Architectural Journal», 13/14, 1971], si concentra sull’ambiguità “pittorica” tra vo-


lume scavato e stratificazione di piani. Questa ambiguità si evidenzia nella contraddizione tra lettura frontale delle facciate e lettura obliqua. Gli angoli disgiunti infatti negano l’interpretazione volumetrica suggerita, in particolare, dagli aggetti delle facciate nord e est; pertanto, Eisenman analizza le quattro facciate separatamente, considerandole sistemi autonomi. Si rende presto conto però del fatto che tale metodo non risulta adeguato all’analisi, arrivando alla conclusione che ciò sia da attribuirsi al ruolo dominante ricoperto dall’intuizione nella progettazione. Studi successivi, sfociati nel libro Giuseppe Terragni: Transformations, Decompositions, Critiques [Monacelli Press, New York 2003], lo portano a dare del progetto una lettura critico testuale, che nega i caratteri di stabilità, finitezza e immutabilità del­ l’architettura, fino a mettere in discussione i concetti stessi di parte e tutto. Casa Giuliani Frigerio rappresenta il banco di prova del modello linguistico proposto da Eisenman e, nel momento in questi si confronta con questo progetto, emergono con chiarezza i limiti e le incongruenze di tale approccio. Dieci anni dopo la pubblicazione dell’articolo del ’71 di Eisenman, U. Flemming conduce un’altra analisi della sintassi di Casa Giuliani Frigerio, avvalendosi dell’algoritmo di Shape Grammar [U. Flemming, The secret of the Casa Giuliani Frigerio, «Environment and Planning B», 8, 1981]. Flemming, lavorando sui singoli elementi architettonici (colonne, muri, aperture) in modo ricorsivo, identifica un pattern che sfugge a Eisenman: un’alternanza nell’articolazione dei setti orizzontali e verticali lungo le facciate. Non solo, il pattern è individuabile solo isolando i piani intermedi dell’edificio. Pertanto, la discontinuità apparente delle quattro facciate è contraddetta dal fatto che sia invece rintracciabile un pattern compositivo che le accomuna, seppure limitatamente ai tre piani intermedi. Le porzioni di facciate relative a questi piani costituiscono dunque un unico sistema governato da una precisa legge compositiva, che non emerge dalla lettura delle facciate considerate nella loro interezza. Inoltre, l’individuazione del pattern sembra essere con-

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seguenza della metodologia utilizzata, che prevede l’addizione progressiva dei sistemi di elementi architettonici sul­ l’intero perimetro dell’edificio. Grammatiche originali Come abbiamo visto, la grammatica potrebbe non avere nulla a che fare con il modo in cui l’oggetto dell’analisi è stato concepito in origine. L’analisi è quindi intesa come uno strumento critico d’indagine che presuppone un’interpretazione da parte del suo autore. Ad esempio, nel caso di Casa Giuliani Frigerio, il pattern individuato da Flemming probabilmente non è espressione di una scelta consapevole da parte di Terragni. In questo senso, anche quando usata solo per analizzare opere esistenti, la grammatica ha già un potenziale creativo. Ciò è ancor più vero quando abbiamo un’applicazione combinata di analisi/sintesi, ossia quando la grammatica desunta da opere esistenti viene utilizzata per generare progetti originali. Del resto, pur partendo da un esempio esistente, la grammatica può essere modificata fino a perdere qualunque somiglianza col riferimento iniziale. A proporre formalmente questo metodo per la prima volta fu T. Knight nel 1981 con l’articolo Languages of designs: from known to new [in «Environment and Planning B», 8], e il lavoro di Koning e Eizenberg sulle prairie houses di Wright [H. Koning, J. Eizenberg, The language of the prairie: Frank Lloyd Wright’s prairie houses, «Environment and Planning B», 8, 1981], pubblicato nello stesso anno, rappresenta una

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prima esplorazione di questa possibilità. All’inizio degli anni ’90 questo metodo è stato utilizzato soprattutto per scopi didattici. Agli studenti veniva chiesto di utilizzare shape grammar per ricavare le regole compositive di linguaggi architettonici esistenti e applicare a queste varie modifiche per generare nuovi linguaggi. Negli anni successivi, questo approccio è stato ulteriormente approfondito all’interno dei progetti di ricerca nel programma di dottorato “Design and Computation” del MIT. Di particolare rilievo, in questo


contesto, sono le ricerche condotte da Jose Duarte che ha sviluppato un sistema basato sui progetti abitativi di Malagueira di Alvaro Siza [J.P. Duarte, owards the mass customization of housing: the grammar of Siza’s houses at Malagueira, «Environment and Planning B», 32(3), 2005].

Nuove prospettive È anche possibile creare grammatiche da zero, ma ciò comporta il doversi confrontare con alcuni problemi. Senza un riferimento iniziale, infatti, la grammatica sarà tendenzialmente molto semplice e questo può portare alla generazione di molti risultati inutili. Un modo per ovviare a tale problema è sviluppare una grammatica che soddisfi gli obiettivi e i vincoli del progetto a cui si sta lavorando. In altre parole, a un certo punto del processo di sviluppo di una grammatica, se non all’inizio, è necessario stabilire una connessione tra le regole che descrivono la forma spaziale e gli obiettivi del progetto, altrimenti la grammatica potrebbe portare in qualunque direzione. Creare questa connessione non è un compito facile perché shape grammar come strumento generativo è molto potente, ma anche “imprevedibile”. Regole apparentemente semplici possono produrre risultati sorprendentemente complessi. Sono stati suggeriti diversi approcci per collegare grammatiche e obiettivi. Un approccio è diretto e implica la scrittura di regole i cui comportamenti ed esiti siano prevedibili in qualche modo. Questo però andrebbe a compromettere la creatività del progetto, limitando troppo la potenza generativa di shape grammar e rendendo il processo completamente deterministico. Un approccio alternativo prevede invece che le grammatiche vengano sviluppate senza una chiara idea dei loro risultati. Una strategia automatizzata di ricerca e verifica viene quindi utilizzata per esplorare lo spazio dei progetti generati, campionandoli e testandoli per vedere se soddisfano determinati obiettivi. Questo approccio prevede l’uso di

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tec­niche di apprendimento automatico (machine learning). L’integrazione di grammatiche semplici, facili da elaborare e comprendere, con meccanismi di controllo che ne orientano il processo generativo, permette di sfruttare appieno la potenza creativa della grammatica riuscendo al contempo a soddisfare i requisiti di progettazione. L’integrazione di shape grammar con tecniche di machine learning sembra, in questo momento, un approccio molto promettente, che riesce a sfruttare al meglio la capacità generativa di shape grammar, risolvendo i problemi che di solito si riscontrano nell’uso dei sistemi esperti. Conclusioni

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L’approccio alla progettazione rappresentato da shape grammar potrebbe apparire, a prima vista, piuttosto riduttivo e anche contraddittorio. Trattandosi di un processo squisitamente geometrico, non si può chiaramente fare affidamento esclusivamente su di esso per la definizione di un progetto architettonico nella sua interezza. Cionondimeno, bisogna considerare che, fermo restando che con questo strumento si può controllare solo una parte del processo progettuale, la formalizzazione della logica delle scelte relative al progetto offre una straordinaria possibilità in termini di “consapevolezza”: costruire una grammatica significa infatti “insegnare” al computer a progettare, il che presuppone una comprensione profonda dei propri processi creativi. È questo forse, ancor prima dell’automatizzazione dei processi di progettazione o della possibilità di una vasta esplorazione di diverse alternative progettuali, il maggior contributo che l’intelligenza artificiale, in quanto scienza cognitiva, può dare all’architettura. La possibilità di intersecare un approccio umanistico al progetto con il potenziale della sua descrizione logico-algoritmica potrebbe offrire uno strumento di innovazione della disciplina che va oltre le ricerche svolte finora nell’ambito del cosiddetto design digitale, radicandosi nel fondamento stesso del pensiero progettuale.


1 I componenti caratteristici di un sistema esperto sono la base di conoscenza, che incorpora la conoscenza dell’esperto, e il motore inferenziale, il modulo che interpreta tale conoscenza per produrre una soluzione al problema. Il formalismo di rappresentazione e di elaborazione della conoscenza più diffuso nei sistemi esperti è quello delle “regole di produzione’’; i sistemi formali di calcolo basati su di esse sono detti sistemi di produzione. Nel loro insieme le shape grammars costituiscono una classe di sistemi di produzione finalizzati alla generazione e composizione di forme geometriche. 2 Vedi ad esempio: W.J.J. Gordon, Synectics, Harper & Row, New York 1961; A D. Hall, A Methodology for Systems Engineering, Van Nostrand, Princeton, NJ 1962; M. Asimow, Introduction to Design, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ. 1962; A.F. Osborn, Applied Imagination - Principles and Procedures of Creative Thinking, Scribener’s Sons, New York 1963; C. Alexander, Notes on the Synthesis of Form, Harvard University Press, Cambridge, Ma. 1964; L.B. Archer, Systematic Method for Designers, The Design Council, London, 1965; J.C. Jones, Design Methods, John Wiley & Sons Ltd, Chichester, UK 1970; G. Broadbent, Design in Architecture, John Wiley & Sons Ltd., Chichester, UK 1973. 3 Vedi anche: N. Cross, “A History Of Design Methodology”, in M.J. de Vries, N. Cross, D. Grant (a cura di), Design Methodology and Relationships with Science, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1993, pp. 15-27. 4 Analogamente alla grammatica generativa, le regole di shape grammar includono un lato sinistro (condizione) e un lato destro (conseguenza), ma tanto le regole quanto gli oggetti su cui operano sono costrutti geometrici. In pratica, una shape grammar consiste in una forma iniziale, da cui far partire il calcolo, e un insieme di regole del tipo A → B, che sostituiscono la forma A con la forma B.

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Il labýrinthos del Minotauro e l’aulé di Arianna: dall’abisso alla danza RENATO CAPOZZI

Il mito è un racconto e un sapere [M. Bettini, Il sapere mitico. Un’antropologia del mondo antico, Einaudi, Torino 2021] nel quale vi è l’essenza di noi stessi, l’ispirazione per la vita e, al tempo stesso, per gli spazi che la accoglieranno. Il mito di Minosse [R. Graves, The Greek Myths (1955), Penguin Books, London 1990] re di Creta – l’isola dove nasce la fanciulla Europa e metonimicamente l’Occidente stesso, la terra della sera (Abend-land), ove il sole tramonta e non c’è più terra [R. Rizzi, A. Tagliapietra, Il segreto nel nome Architettura, Mimesi, Milano-Udine 2021, p. 22] – narra appunto di Minosse, che fa costruire a Knōsós il Labirinto progettato da Dedalo per imprigionarvi il figlio taurino Minotauro, e della figlia Arianna che danzando nella corte, nell’aulé, riesce a liberare l’eroe Teseo da quello stesso Labirinto. Le due figure minoiche del Minotauro e di Arianna, rispettivamente, sono all’origine di due tipi architettonici e di due paradigmi costruttivi complementari: il labirinto, ovvero della costruzione murario-stereotomica nello spazio occupato e intricato, e la corte/aula, ovvero della costruzione tettonica per consentire lo “spazio sgombrato”. Prima di chiarire questa doppia e complementare genealogia è utile sintetizzare il racconto (Mythos), provando a esplorarne i significati sottesi a partire dai due protagonisti – il Minotauro e Arianna – di vari miti intrecciati, figli del

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leggendario Minosse, re di Creta e capostipite della eponima civiltà minoica. Pasifae moglie di Minosse generò il Minotauro accoppiandosi con un toro inviato da Poseidone, oltre ad Arianna e altri figli dal marito. Il Minotauro fu quindi la punizione che Poseidone, facendo innamorare Pasifae del toro, inflisse a Minosse per aver scambiato il toro sacrificale a lui donato. I due fratelli – il mostro deforme con il corpo di un uomo e la coda e la testa di un toro e la bella Arianna “dalle bionde trecce” come l’appella Omero nell’Iliade – si combatteranno. Il Minotauro, per non nuocere, fu rinchiuso dal padre nel labirinto: una costruzione “meandrica” progettata da Dedalo, il primo architetto della corte. L’uccisione ad Atene di Androgeno, un altro figlio di Minosse, determinò l’imposizione da parte del re di Creta di sacrifici umani alla polis greca. Le giovani vergini venivano offerte nel labirinto al Minotauro, che le dilaniava. Teseo si offrì con altri giovani valenti ateniesi di andare a Creta per liberare dalla maledizione la città greca. Arianna si innamora di Teseo e lo aiuta, con lo stratagemma del filo, a ritrovare, dopo aver ucciso il mostro, coi “ciechi passi” l’uscita del labirinto. Teseo la porterà con sé ma, prima di arrivare in patria, la abbandonerà sull’isola di Nasso (da cui la famosa espressione: “piantata in Nasso”). Arianna, secondo alcune versioni, sposerà successivamente il Dio Dioniso che le regalerà una corona d’oro che poi darà il nome alla costellazione della Corona Boreale. Questo, in sintesi, il mito. Dedalo, il progettista e costruttore del Labirinto ove fu rinchiuso col figlio Icaro [M. Milani, La storia di Dedalo e Icaro, Einaudi, Torino 1999] riuscendo poi a scappare con ali di piume tenute assieme da fili di lino e dalla cera, è, nell’interpretazione offerta nel Sei­ cento da Bacone, il prototipo dello scienziato moderno, dell’inventore di ordigni pericolosi e incontrollabili (il toro fantoccio di Pasifae, il Labirinto stesso, le ali di Icaro). Come è noto, nel librarsi in volo, Icaro avvicinò troppo, incautamente, le ali cerate al sole, precipitando nel mare. Quel mare senza confini o dell’“estremo confine” dell’orizzonte,


che, per Umberto Galimberti, conosce la danza e l’abisso: l’abisso violento del Minotauro e la danza leggiadra e libera di Arianna, perché l’abisso, che tutte le cose sottende, vuole che così si ami il mondo. Le linee del mare sono infatti, la “profondità” dell’abisso e il “senza-confine” del­­l’orizzonte, due dimensioni che inquietano l’uomo [U. Galimberti, Tra calma e burrasca le metafore della vita, in: https://m.feltrinellieditore.it/news/2006/08/28/umberto-galimberti-tra-calma-e-burrasca-le-metafore-della-vita-7181/]. Qual è il

significato, la metafora sottesa alle due figure e alla storiaracconto che indissolubilmente le ha intrecciate? Vari sono i possibili sensi contenuti nel mito: il termine ‘Minosse’ indica estensivamente attraverso il prefisso minos- “i sovrani”, tutta l’isola di Creta associata al Minotauro ed è la divinizzazione del toro, mentre nel Labirinto [K. Kerèny, Nel labirinto, Bollati Boringhieri, Torino 2016] è da intravedere il simbolo dello stupore provato dai Greci nel vedere le immense costruzioni palaziali cretesi, come la Reggia di Cnosso. Alla vittoria di Teseo si attribuisce invece l’inizio del predominio dei Greci sul mar Egeo, che porta il nome del Re suo padre: scorgendo da lontano le vele ‘nere’, segno di sconfitta e morte, delle navi con cui il figlio tornava a casa (Teseo aveva dimenticato di sostituirle con quelle ‘bianche’ che avrebbero simboleggiato vittoria e sopravvivenza), Egeo, disperato, si lancia in mare da un alto promontorio. Un evento e un racconto che, in senso stretto, rappresentano la vendetta e il risarcimento tragico per l’abbandono di Arianna: il principe Teseo viene punito nel suo causare, involontariamente, il suicidio del padre che, a sua volta, si infigge nel mito dando al mare il proprio nome. La principessa Arianna è rappresentazione icastica dell’amore deluso, dell’abbandono, della leggiadria della danza, ma anche dell’ingegno e dell’astuzia contro la forza bruta. Le due figure rappresentabili dall’abisso e dalla danza hanno poi ricevuto ulteriori e molteplici significazioni, evocazioni e interpretazioni nell’arte e nella letteratura. Dante Alighieri, nell’Inferno [Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Canto XII, Firenze 1321], pone il Minotauro a

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guardia del VII cerchio dei violenti. Sul piano allegorico, il Minotauro è posto a guardia del girone dei violenti, perché nel mito simboleggia proprio la parte istintiva e bestiale della mente umana, quella che ci accomuna agli animali (la matta bestialità) e ci rende inconsapevoli. I violenti sono proprio quegli uomini che hanno peccato cedendo all’istinto e non hanno seguito la ragione. Per la teologia cristiana questo cedimento rappresenta un grave peccato: mentre agli animali non si può dare alcuna colpa perché fanno ciò che è necessario per sopravvivere e nulla di più, l’uomo dovrebbe usare la ragione per non compiere atti di pura crudeltà. La vittoria di Virgilio, che sconfigge il Minotauro che tenta di barragli la strada, rappresenta simbolicamente il trionfo della ragione sull’istinto. Anche Ovidio ne Le Metamorfosi [P. Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, Libro VII, 2 a.C. - 8 d.C.] riprende il mito arcaico e offre spunto alle interpretazioni dei grandi scultori barocchi, come Bernini, interessato a cogliere il dinamismo della lotta, ma anche alla quieta compostezza, la winkelmanniana nobile semplicità e quieta grandezza del Canova, che nel Teseo e il Minotauro raffigura il trionfo di Teseo, e quindi della ragione, sulla bestialità dell’orrido mostro. Analoga compostezza è rinvenibile nelle varie versioni di Arianna addormentata – degli Uffizi, del Louvre o dei Musei Vaticani – ove ella appare ancora serena prima dell’abbandono di Teseo e prima di essere svegliata da Dioniso che ne fece la sua sposa. Per non parlare delle raffigurazioni pittoriche che ritraggono la principessa cretese o con Dioniso-Bacco secondo differenti modelli iconografici ed espressivi – Tiziano, Carracci, Reni – o quando dona il filo a Teseo (Palagi) o quando, – Kauffmann e De Morgan – disperata e abbandonata si ritrova a Nasso [R. De Fusco, Una breve storia dell’arte. Dal Paleolitico al XX Secolo, Marsilio, Venezia 2009]. Arianna rappresenta quindi una figura dinamica, che “si muove”, che abbandona la Reggia di Minosse in cui danzava, per seguire il suo amato Teseo e approda sull’isola di Nasso, dove verrà abbandonata, ma da cui riuscirà a risorgere proprio grazie all’intervento di Dioniso che addirittura


la proietterà, come Cassiopea nel mito di Perseo, in una dimensione cosmica attraverso la omonima costellazione. Arianna allude quindi all’aperto, allo spazio non frammentato, non delimitato che può fare accadere l’“evento” della danza. Il Minotauro, di contro, rimanda a una condizione celata, delimitata, ctonia e intricata, rinviando a un fitto tessuto di luoghi concatenati e confinati. Le due figure attingono quindi a due archetipi naturali fondamentali che possiamo riconoscere da un lato nella fittezza del bosco, ove la luce non può entrare, e, dall’altro, alla radura dove la luce entra rendendone possibile il riconoscimento dei limiti. Per Vittorio Ugo, Il luogo della radura è infatti interamente concentrato, se così si può dire, nella sua frontiera, in questo elemento senza corpo fisico, che tuttavia implica la corporeità della chiusura, e dunque la forma del cam­ po che essa include e definisce e la struttura della foresta che, al contrario, essa esclude pur riconoscendola [Architettura e temporalità Unicopli, Milano 2007, pp. 208-209]. Agli “archetipi naturali” – il bosco e la radura – confitti come sono nella nostra cultura più profonda ed ancestrale, nel nostro essere umani e abitatori del «mondo esterno» [M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001] corrispondono altrettanti tipi architettonici che si incaricano di manifestare il significato essenziale di questi due modi differenti dell’abitare che da questi miti provengono e ci interpellano. Il gomitolo rosso che Arianna dona a Teseo rappresenta la logica razionale che consente all’eroe di superare le circonvoluzioni del labirinto e di preferire l’uomo all’animaledio [G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975, p. 31]. La figura di Arianna, come anticipato, si riconnette alla danza e un altro mito le attribuisce la fondazione nell’isola di Delo della danza sacra (κορóς) che nelle sue movenze contorte ricordava le involuzioni del Labirinto [Omero, Iliade, XVIII, v. 590]. Una analoga danza sarebbe stata inventata dal τεχνίτης Dedalo [V. Ugo, I luoghi di Dedalo, Dedalo, Bari 1991] a Creta, proprio per omaggiare Arianna. Omero nell’Iliade racconta che Efesto effigiò una pista da ballo, come quella che un tempo nella vasta Cnosso

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[nel cortile del palazzo] Dedalo fece per Arianna dai bei capelli [Omero, Iliade, XVIII, vv. 590-95]. Arianna danzava quindi nel cortile (aulé) del palazzo ma va segnalato che il termine greco αύλή, nel denotare sia il palazzo che la reggia, designa anzitutto la corte che, a sua volta, nella possibilità di essere coperta, stabilisce un legame tra questo antichissimo tipo e quello dell’Aula [R. Capozzi, Le architetture ad Aula: il paradigma Mies van der Rohe. Ideazione, costruzione, procedure compositive, Clean, Napoli 2011]. Del resto, come ci

ricorda Aldo Rossi a proposito della corte e della sua possibilità di trasmutarsi in aula Boullée “volta” una grande corte creando quello spazio centrale coperto che costitu­ irà la costante tipologica degli edifici pubblici moderni; la soluzione diventa esemplare nelle architetture pubbli­ che urbane [A. Rossi, Introduzione a Boullée, in E.L. Boullée, Saggio sull’arte, Marsilio, Padova 1967, pp. 17-18]. La danza ha quindi a che fare, come il Palazzo di Cnosso, sia con il labirinto di cui mima i meandri che con la corte come luogo segnato dal piano (la pista da ballo) che riproduce a sua volta il labirinto “unicursale” [P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo, Vallecchi, Firenze 1967]. Enzo Paci nell’introdurre il dialogo

di Paul Valéry, L’anima e la danza, afferma: Nella danza, di cui la musica è il principio dinamico, si crea la forma dell’architettura: le immagini si fondono e le danzatrici sembrano costruire vibranti peristili e viventi colonne, mentre il ritmo nasce direttamente dalla figura dei loro passi [E. Paci, Introduzione, in P. Valéry, Eupalinos seguito da Il dialogo dell’albero e L’anima e la danza, Mondadori, Milano 1947, pp. 15-16].

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La costituzione formale del Palazzo di Cnosso fa riferimento alla Labrys, il simbolo bifronte associato al labirinto. Il Palazzo, se offre nella sua articolazione a più livelli una possibile declinazione del Labirinto e della condizione privata e meandrica, viceversa, nel cavo determinato dalla grande corte scoperta, trattiene il senso dello spazio sgombrato, aperto e condiviso dalla moltitudine. Il sistema poroso, massivo e articolato delle stanze costituisce la condizio-


ne di possibilità per realizzare la grande pausa della aulè, della corte regia. Si potrebbe affermare che senza il labirinto che la contorna anche la corte non si dà. Creta, mitica fondazione dell’Occidente con il concepimento di Europa, accoglie quindi sia il labirinto sia la grande corte nella reggia di Cnosso. Per Fernando Espuelas il protagonismo del patio nell’ordine formale dello spazio [del Palazzo] è esclusivo, dato che esteriormente non è presente un muro che ne segnali figurativamente il peri­ metro, ed essendo anzi questo il mero risultato della pu­ ra accumulazione meccanica degli spazi secondo criteri funzionali, di orientamento ed orografici. Sembra ap­ punto che il palazzo non fosse solo la residenza del prin­ cipe, ma anche un centro produttivo, che ospitasse fun­ zioni amministrative ed avesse carattere di spazio pub­ blico per gli atti religiosi e ludici. Di tutte queste funzioni solamente riti e giochi pubblici erano esclusivi del gran­ de vuoto centrale [F. Espuelas, Il Vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti, Milano 2009, p. 117]. Dalla lettura della struttura formale del Palazzo di Cnosso, nella compresenza del recinto ispessito [labirinto], cui si può associare per analogia il tessuto urbano, e della corte che rimanda al foro e alla piazza pubblica, emerge quanto questa architettura, così ineluttabilmente intrisa del mito, sia eponima ed archetipa della città. In tal senso il labirinto evoca la densità dell’abitare privato che composto e aggregato determina il denso – poroso o meno che sia – ed è premessa del “cavato” della corte che realizza l’aperto così come, nell’archetipo naturale, la radura, la Lichtung dai contorni non precisamente definiti si realizza solo in relazione al bosco che la cinge [M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - Finitezza - Solitudine [19291930], il Melangolo, Genova 1992: Id., L’arte e lo spazio, Il Melangolo, Genova 1992; A. Di Somma, Metafisica e Lichtung nel pensiero di Martin Heidegger, Armando, Roma 2017]. La radu-

ra, inverata nel vacuo di Cnosso, è la premessa del tipo a corte nelle sue possibili articolazioni e declinazioni e poi, per la copertura e smaterializzazione o selezione del peri-

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metro – attraverso l’archetipo architettonico del riparo [R. Capozzi, L’idea di riparo, Clean, Napoli 2012] –, del tipo ad Aula: la “corte coperta della reggia”. Un tipo che declina massimamente l’idea dello spazio sgombrato, privo di ostruzione, in cui, come a Cnosso, e come ci avverte Antonio Monestiroli, è possibile radunare, per fini civili, una moltitudine di persone e che per questa evenienza diviene manifestazione condivisa di un’intera comunità. Un tipo architettonico che, dopo l’esperienza classica, diverrà la costante degli edifici pubblici urbani. Di contro la riflessione sullo spazio intricato, che trova il suo archetipo naturale nel bosco e nella caverna, a partire dalla costruzione muraria, troverà la sua verifica in re ancora nelle ricerche di Mies sulla casa a patio e sulle sue aggregazioni, o in alcuni progetti di Kahn che sperimentano la condizione dedalica, ma anche in alcuni principi insediativi fondati sull’addensamento e sulla ripetizione non isonoma come nell’unità orizzontale di Libera al Tuscolano. Il paradigma aurorale del Palazzo di Cnosso – determinato e segnato in ogni dove dal mito – la presenza simultanea delle strutture organizzative formali e spaziali del labirinto e della corte, per estensione o per concentrazione, condurranno alla definizione sia di un sistema morfologico (il tessuto urbano) sia di un tipo architettonico (l’aula) che riceverà, nella storia e nella modernità, numerose riformulazioni e declinazioni: a partire dalla ricerca di Mies e di molti altri maestri del moderno, da Le Corbusier ad Asplund, da Tessenow a Libera, da Hilberseimer a Kahn, sino ad alcune prove offerte dai maestri della seconda stagione, come Sverre Fehn e Arne Jacobsen o in lavori recenti in Italia di Giorgio Grassi e Antonio Monestiroli.

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Euro-pólis. La città pubblica al centro dell’Europa MATTIA COCOZZA

Kòsmos europeo Incerti su quale possa oggi essere la centralità dell’Europa, assorbita com’è entro inarrestabili processi di scala globale, proviamo a cercarne anzitutto il centro. Ma l’Europa ha un centro? Assistiti da ardite e artificiose costruzioni meccaniche, se ne potrebbe ricercare certamente il centro geometrico. Più difficile, oltre che insidioso, risulterebbe, per contro, individuarne un effettivo centro politico. Se guardiamo però all’Europa, non tanto come a una specifica regione geografica, o un’organizzazione comunitaria di stati, quanto piuttosto come a un cosmo culturale, sarà proprio l’ordine, il kòsmos, a guidarci nella nostra ricerca. Perché se è vero, come sosteneva Meleagro di Gadara, che un unico caos ha prodotto tutti i mortali [cfr. J. Kristeva, Strangers to ourselves, Columbia University Press, New York 1991, p. 56], è anche vero che a questo caos gli uomini hanno nel tempo fatto fronte, opponendogli forme di ordine – di natura spaziale e al contempo di organizzazione sociale – molto differenti tra loro. Questo kòsmos è in Europa, più che altrove, la pólis, la città. Cosicché il cosmopolita diviene in quest’ottica non già il cittadino di un mondo universalmente indiscriminato, bensì colui che abita la pólis figlia di un kòsmos ben preciso, definito per sua stessa natura ontologica.

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Volgiamo dunque lo sguardo alla città, alla sua multiforme e contraddittoria complessità contemporanea, per cogliere quelle “invarianti strutturali” che animano nel profondo l’intera cultura europea e che possono dunque guidarne il concreto rinnovamento. Adottiamo, in sostanza, una logica della riduzione che ci consenta di guardare all’Europa a partire dal suo ideale “centro”: la città. Pólis e Pólemos Sarà bene, a tal proposito, affermare sin da subito che non c’è pólis senza nómos, né nómos senza pólis, al punto che, nelle parole di Vincenzo Vitiello l’intera storia d’Eu­ ropa si spiega come l’incessante ricerca del fondamento di questa relazione necessaria [V. Vitiello, Pólis. “Politica e nichilismo” – per lumi sparsi, in «Bollettino Filosofico», n. 30, 2015, p. 206]. Un tale assunto ci pone nella prospettiva di

voler adottare una particolare lente di lettura critica dei fenomeni che contraddistinguono la pólis europea, invitandoci a concentrare la nostra attenzione sul rapporto tra architettura della città e politica. Nella Repubblica di Platone Polemikós è il filosofo-re – scrive Massimo Cacciari – ma nel senso che egli deve conoscere la tèchne del pólemos se vuole dar-forma alla pólis [M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 34]. Di questa medesima “tèchne”, pertanto, sembra non poter fare a meno altresì l’architetto, ieri come oggi, se vuole contribuire in maniera significativa a “dar-forma”, per l’appunto, alla città contemporanea. Abbandoniamo dunque immediatamente la formula dell’“arte per l’arte”, rinvenendo nella relazione con la politica una delle premesse connaturate all’idea stessa di architettura. D’altro canto il tessuto cittadino attraverso il suo con­ solidarsi continuo nella storia diviene inevitabilmente lo specchio delle vicende, delle lotte, delle dispute ideologi­ che via via consumate nel tempo che nella polis trovano una propria espressione formale [M. Botta, Abitare. Con-

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versazioni e scritti di architettura, Christian Marinotti Edizioni,


Milano 2017, p. 44]. E tale espressione formale si concretizza

più che mai nei vuoti della città, intesi quali “invasi-significato” ove “l’involucro-significante” è la massa dei fabbricati al contorno, composta da una pluralità di segni architettonici stratificatasi nei secoli [R. De Fusco, Che cos’è la critica in sé e quella dell’architettura, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2013]. È in questi luoghi urbani aperti, negli spazi pubblici, dove non uno è l’intendere, ma molteplice [V. Vitiello, cit., p. 209], che può giocarsi la più importante sfida europeista. Perché è solo qui – che si tratti di legittimare un ordine esistente o di prefigurarne uno nuovo – che si condensa materialmente quella tensione progettuale capace di rendere fruttuoso lo scarto tra “politicizzazioni dell’architettura” ed “estetizzazioni della politica”. Pluralità europea nella città-palinsesto La mia Europa comprende il tempio di Melkarth/He­ rakles costruito dai Cartaginesi/Fenici a Cadice e Santa Sofia; le enormi abitazioni costruite in tronchi dai Vi­ chinghi a Trellerborg in Danimarca, le chiese in legno della Rutenia e della Russia del nord; Chartres e San Pietro, Vierzehnheiligen e l’Altes Museum insieme al­ l’Ein­steinturm, naturalmente. È una nozione-collage: globale e spesso confusa, ma potente proprio perché può assorbire e alla fine armonizzare in modo creativo la di­ sparità così forte di correnti confluenti [J. Rykwert, L’Europa: una pluralità architettonica, in «Rassegna. Arcipelago Europa», n. 76, 1998, p. 65].

Così Joseph Rykwert ci racconta con inequivocabile efficacia la pluralità di immagini che anima l’architettura del vecchio continente. Una pluralità che, ancora una volta, contraddistingue con pari forza la città europea, avallando la nostra ipotesi di poterci lasciar guidare, in questa interpretazione critica fatta per analogie, da una logica della riduzione. Se attraversare i confini europei per conoscere ed esplorare, permane, oggi come nell’Ottocento, una prassi irri-

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nunciabile per la formazione di un architetto, si potrebbe, a ragion veduta, affermare che il primo viaggio da compiersi comincia nella città. Nella quotidiana esperienza odeporica, infatti, passando da un edificio del XVII secolo in uno del XVI, discendiamo a precipizio un versante del tempo, e se accanto c’è una chiesa gotica, sprofondiamo in un abisso, e risaliamo la china del tempo se qualche passo più in là ci troviamo in una strada dell’epoca della rivo­ luzione industriale. Chi entra in una città si sente come in una trama di sogno in cui il passato più lontano si in­ treccia anche all’evento di oggi. Una casa è unita all’al­ tra, senza riguardo al tempo cui esse risalgono: così sor­ ge una strada. […] Cose, che negli eventi politici non giungono affatto all’espressione, o solo a stento, si svela­ no nelle città che sono uno strumento sottilissimo e, mal­ grado il loro peso, sensibili come un’arpa eolica alle vive oscillazioni della storia [F. Lion, Geschichte biologisch gesehen, Niehans, Zürich-Leipzig 1935; cfr. W. Benjamin (1982), Opere Complete IX. I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 486].

Non dovremmo dunque fermarci qualche istante ad ascoltare la melodia emessa da queste sensibili arpe che, per loro natura, producono inevitabilmente suoni ogni volta differenti? Solo così potremo forse riconoscere e interpretare le note della contemporaneità. La rete

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Modellate dalla mano demiurgica del tempo, le città, nella loro morfologia, sembrano pertanto ricordarci l’articolazione complessa della stessa Europa, ove le tante realtà urbane costituiscono una rete affatto simile a quella dei quartieri, delle strade e delle piazze che innervano una pólis europea. L’idea di rete, e con essa azzarderei di comunità, è infatti connaturata all’idea stessa di città poiché, come sostengono Hohenberg e Hollen Lees [(1985), La città europea dal medioevo a oggi, Laterza, Bari 1990, p. 6], la città isolata è a un tempo incapace di sopravvivere ed inutile. Di con-


tro, le sue innumerevoli potenzialità si manifestano con vigore nel materializzarsi degli impulsi che corrono lungo le linee che collegano una città all’altra, travalicando qualunque confine politico. In questo senso ciascuna città si configura come un “centro” nevralgico della medesima rete e, al contempo, non c’è città o realtà urbana senza un centro [H. Lefebvre (1970), La rivoluzione urbana, tr. A. Gioia, Editore Armando, Roma 1973, p. 108]. E se nella città il centro non può che disperdersi in centralità parziali o mobili (poli­ centralità) i cui rapporti concreti sono da determinarsi congiunturalmente [ivi, p. 109], tanto più vero si dimostra questo assunto se trasposto sull’idea della rete multiscalare. È la rete prima di tutto virtuale, intellettuale, culturale a sancire inoltre un inscindibile rapporto tra città europee appartenenti a diverse nazioni, al punto che molte di esse hanno nei secoli intrecciato proficue relazioni “esterofile” ben più salde di quelle instaurate entro gli instabili perimetri dei loro stessi paesi. Complice, in questo, la continua ricerca di competitività alla scala globale da parte delle città contemporanee, capaci di ampliare a dismisura il loro raggio di influenza, polverizzando i tradizionali confini geografici e funzionali [C. Gargiulo, Città, grandi eventi e mobilità tra globale e locale, in «TeMa», n. 2, 2008, p. 21]. L’Europa nuova – tuonava d’altronde Sergio Luzzatto nel lontano 2000, prefigurando un futuro dell’Unione che i più faticano ancora oggi ad immaginare – non sarà più, come nelle carte geo­ grafiche della nostra infanzia, un variopinto collage di stati indipendenti, ma un unico tessuto innervato di re­ gioni e di città [S. Luzzatto, Storia moderna: l’Europa dei cittadini, in «L’informazione bibliografica», n. 1, 2000, p. 19]. Stiamo forse sottovalutando in tal modo il ruolo – politico, simbolico, culturale – esercitato sul vecchio continente dalle frontiere che dividono tra loro le nazioni? Direi che stiamo forse piuttosto riscoprendo il valore dei confini che percorrono parimenti le città. A suffragare quanto appena affermato sia sufficiente ricorrere alla penna brillante di Walter Benjamin, secondo il quale la città è uniforme sol­ tanto in apparenza. Perfino il suo nome assume suoni

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differenti nei diversi quartieri. In nessun luogo – se non nei sogni – il fenomeno del confine può essere esperito in forma così originaria come nelle città. Conoscerle signi­ fica avere un sapere di quelle linee che, con funzione di confini, corrono parallele ai cavalcavia, attraversano ca­ seggiati e parchi, lambiscono le rive dei fiumi; significa conoscere questi confini nonché le enclavi dei vari terri­ tori [W. Benjamin, cit., p. 94]. La città, dunque, accoglie già al suo interno numerose linee di soglia, che siano esse i confini tanto invisibili quanto difficili da valicare su cui pone l’accento Bernardo Secchi [Prima lezione di urbanistica, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 79] o, viceversa, i necessari confini di cui scrive Hannah Arendt [Vita Activa, Bompiani, Milano 1991]. Questi ultimi, in particolare, intesi quali irrinunciabili barriere virtuali volte a salvaguardare l’agire individuale e plurale sullo sfondo di territori riconoscibili [A. Besussi, L’arte dei confini. Hannah Arendt e lo spazio pubblico, in «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 2, 1997, p. 248].

Riconoscere la polisemia di tali confini significa, evidentemente, imparare ad attribuire nuovi significati anche a quelli di scala sovraordinata, europea. L’euro-pólis è un diritto

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La pólis, pertanto, come l’Europa, unisce e divide, configurandosi come un vero e proprio laboratorio sociale ove lo spazio urbano non è mero sfondo di un alternarsi intricato di vicende, bensì effettivo protagonista capace di orientare politicamente quelle medesime vicende. Ancora profondamente attuale, allora, è l’interrogativo su cui riflette Henri Lefebvre: Chi decide sulla progettazione dello spazio? Chi decide su come gli uomini devono vivere e abitare? [F. Biagi, Prefazione, in H. Lefebvre (1974), Spazio e politica. Il diritto alla città II, Ombre corte, Verona 2018, p. 12]. La città, come incubatore culturale, luogo di espressione, di scambio e di relazione, costituisce evidentemente un “diritto” da garantire all’uomo cosmopolita, ossia a colui


che decide di riconoscersi nel kòsmos della pólis. Cosicché il “diritto alla città” di Lefebvre si traduce, oggi, in misura sempre crescente, in una parola d’ordine che incarna la tendenza a ricreare uno spazio comunitario, una visione del futuro [S. Settis, Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili, Einaudi, Torino 2017, p. 79]. Da un po’ di tempo l’Europa sembra aver dimentica­ to di essere figlia dell’epopea e dell’utopia [L. Gaudé, Noi, l’Europa. Convivio di popoli, tr. A. Bracci Testasecca, Edizioni e/o, Roma 2019, p. 1], eppure inseguire alla scala urbana que-

sta “utopia concreta” – come l’avrebbe definita Lefebvre – sembra prefigurare il possibile raggiungimento della più evanescente utopia europeista. È necessario, cioè, che il concetto di comunità si consolidi con vigore nella città se vogliamo che sempre più saldi risultino i legami di quell’unica grande rete che innerva l’Europa. Costruire la città per costruire l’Europa Appare in definitiva chiaro, per dirla con Vittorio Gregotti, che la cultura architettonica europea non sia fon­ dabile né su una continuità di stile e di linguaggio, né su una unità di caratteri, anche se alcuni di questi possono essere individuati come relativamente costanti, né tan­ tomeno sull’unità di luogo geografico. Piuttosto sulla capacità di costruirsi sul dialogo (e sul conflitto) con i luoghi, con le condizioni, con l’altro [V. Gregotti, L’identità del­l’architettura europea e la sua crisi, Einaudi, Torino 1999, p. 7].

La ricchezza della cultura e della città europea risiede dunque, ancora una volta, nel concetto di differenza, come d’altro canto sostengono da tempo studiosi del calibro di Jacobs e Sennett. Entrambi, infatti, nonostante le difformi ascendenze culturali, rivedono nella diversità il connotato principale – potremmo dire l’invariante strutturale – che garantisce e alimenta gli aspetti migliore del vivere urbano [A. Signorelli, Antropologia Urbana. Introduzione alla ricerca in Italia, Guerini, Milano 1996]. Eppure le differenze segnate dai

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confini che attraversano la città finiscono, talvolta, per annullare la sua ricchezza, acuendone solo gli aspri contrasti. L’idea stessa di differenza, però, assume uno straordinario carattere, caricandosi di inedite potenzialità se, paradossalmente, la leggiamo in una prospettiva “non-europea”. Perché se la “differenza” implica necessariamente un processo di identificazione volto a segnare una distanza, lo “scarto”, così come interpretato dalla cultura cinese, apre una distanza per avviare un’esplorazione. Questa dimensione euristica del concetto di scarto/differenza, in sostanza, apre un “tra”, mettendo in tensione ciò che ha separato [F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016, p. 263] e per questo richiede un’audacia ben maggiore di quella necessaria a determinare sterili diversità. Tale riflessione mette in evidenza tutte le potenzialità insite nella pluralità che caratterizza la città, e con essa l’Europa, lasciando intuire il vasto ventaglio di possibilità che attendono di essere sondate. D’altro canto tradizionalmente l’urbano si definisce come il luogo dove le differenze si conoscono e col riconoscersi si mettono vicendevolmente alla prova [H. Lefebvre, 1973, cit., p. 108]. È proprio nei nevralgici punti di soglia delle città, allora, che dovrebbero trovare spazio gli ideali “fori” della contemporaneità. Luoghi destinati precipuamente ad alimentare la prassi di un vivace dibattito, che le generazioni nate sotto il segno dell’Europa non hanno mai proficuamente sperimentato. Reinterpretare i confini urbani, e con essi quelli europei, vorrebbe allora dire non già annullarli – perché si perderebbe evidentemente la ricchezza insita nello scarto che essi determinano – quanto piuttosto guardali con occhi nuovi, scorgendone l’inedito potenziale. Così pensare lo spazio pubblico diventa dunque pensarne le forme, nel duplice significato della sua dimensione fisica, territoriale e della sua dimensione relazionale [A. Lazzarini, Ripensare lo spa-

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zio pubblico nella sua dimensione fisica, relazionale e politica, in «Iride», n. 3, 2009, p. 645].


In questo senso, il progetto dello spazio dialettico alla scala della città diviene privilegiato campo di indagine del disegno comunitario, perché capace di condensarne concretamente i presupposti, ben più di mirabolanti – per non dire “sostenibili” – progetti di astratta integrazione culturale. Nell’Europa antica esisteva una piazza pubblica – l’Agorà dei greci, il Foro dei romani – in cui i cittadini si incontravano per discutere e prendere decisioni. E perfi­ no nei monasteri medievali è esistita una forma di demo­ crazia, se è vero che gli abati erano eletti da tutti i mona­ ci. Queste ed altre – ci ricorda Jacques Le Goff [Perché l’Europa, Laterza Notizie online, 2014; cfr. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/04/02/la-ricchezzadelleuropa-da-insegnare-nelle-scuole.html] – sono le ragioni

che la storia ci consegna per costruire la nostra Europa. In conclusione, quindi, ripartiamo dal suo centro e costruiamo la città pubblica per costruire l’Europa.

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La mimesi e il binomio continuità/discrezione MARIA DOLORES MORELLI

La storia recente del design è stata legata alla cosiddetta “teoria del quadrifoglio” articolata in progetto, produzione, vendita e consumo. Si tratta di una riduzione che oggi è meglio definita se dilatata in: progetto del progetto; progetto della produzione; progetto della vendita; progetto del consumo. Oltre al “quadrifoglio” altri fattori sono necessari per formulare un chiaro quadro sui processi del design, tra questi particolare rilievo hanno i termini che figurano nel titolo: la mimesi e il binomio continuità/discrezione [A. D’Auria, R. De Fusco, Il Progetto del design. Per una didattica del disegno industriale, ETASLIBRI, Milano 1992, p. 101]. Al mimetismo si lega il richiamo a un «referente» e

questo non può escludersi dalle forme cui si ispira tanta arte e architettura. Nell’età contemporanea, con l’affrancarsi delle arti figurative dalla rappresentazione empiriconaturalista, la figura del «referente» è apparsa eclissata. In realtà non è così: la stessa tendenza dell’astrattismo-concretismo non ha potuto fare a meno di qualcosa cui riferirsi. Infatti, se – come sostiene Giulio Carlo Argan – il concretismo (la cui anima è il «fare») non vuole essere capito, interpretato, ma solo utilizzato, c’è da chiedersi: che cos’è se non un tentativo di ritrovata referenzialità il fatto che la più pura arte astratto-concreta, tenda a tradursi in altro, quanto meno a farsi modello per l’architettura e il design? La presenza del «referente» nell’arte figurativa del con-

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cretismo e dell’architettura riceve la più convincente conferma in un saggio di Italo Calvino. Nel distinguere una linea «viscerale» dell’avanguardia da una «razionale», egli nota che quest’ultima non è più rappresentazione ma mi­ mesi formale-concettuale della realtà industriale [che] comincia dalle arti della visione e direi anzi dalle arti che cercano la forma da dare agli oggetti della vita quotidia­ na. È nella rivoluzione architettonica, da Morris e dal­ l’Art Nouveau, al costruttivismo, al Bauhaus al raziona­ lismo, all’industrial design, che possiamo trovare la sua direttrice di sviluppo più lineare. E si può subito notare che questa preminenza del visuale s’avverte anche nelle pagine dei poeti capostipiti del movimento in letteratu­ ra, come Apollinaire e Majakovskij, che sentono il biso­ gno d’esprimersi anche attraverso invenzioni tipografi­ che [I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Il Menabò», n 5, 1962]. Ora, l’ammissione che anche l’arte astratto-concreta – e per essa l’architettura che ne costituisce addirittura l’obiettivo maggiore – trovi il suo motivo ispiratore nella mimesi formale-concettuale della realtà industriale, comporta questo assunto: non si dà storiografia senza il racconto della storia, né può essere definita quest’ultima se non incarna il suo racconto. La letteratura sul design ha preferito riferirsi alla fenomenologia (cioè allo studio e alla classificazione dei fenomeni quali si manifestano nel tempo e nello spazio) per ciò che concerne il discorso sulla disciplina, piuttosto che alla storia, dal momento che quest’ultima è rimasta ferma e solida nel tempo, riducibile a pochi parametri classici, mentre il design si articola in una vasta merceologia [R. De Fusco, Design: una teoria ermeneutica del progetto, in «Op. cit.», n. 79, 1990].

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Operata questa scelta, i principi base della disciplina sono la mimesi e il binomio continuità/discrezione. Esaminiamoli in dettaglio. Anzitutto va detto che il design come l’architettura è «arte applicata», non nel senso che esso si applica a un qualcos’altro di difficile individuazione ma piuttosto che all’architettura e al design si associano molti altri fattori,


scienze e pseudo-scienze. Per giungere a tale conclusione è sufficiente ricordare Vitruvio: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata. In questa citazione v’è l’applicazione all’architettura (e al design) di vari fattori. Non solo: il cuius iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus perficiuntur opera [De arch., 1,1]. Il primo principio-base che figura nel titolo, la mimesis, appartiene alla teoria dell’imitazione, risalente alla formula di Aristotele per cui è il principio di tutte le arti [Poetica, cap. I, 1447 a-b]. È noto che nel design ogni modello comporta una replica; questo accade, oltre che per motivi pratici e operativi – l’uso dello stesso materiale, macchinari, la formazione d’una unitaria mano d’opera, ecc. – proprio perché nella storia dell’estetica si tende ad applicare il principio della «mimesi», (μιμεσισ per i greci, imitatio per i romani) soprattutto quando un artefatto, rispondendo alle esigenze dell’utenza, possiede i requisiti di bellezza e riproducibilità. Diversamente dalla fisica dove un’opera ne genera direttamente un’altra, a mo’ di rapporto di causa ed effetto, nel design quella causa-modello è più ricca di fattori, alcuni dei quali sono accolti dalle repliche mentre altri rimangono inerti. È ben vero che nel processo del design esiste una continuità così formulata: il primo modello genera una sequenza di repliche; ma essa si arresta di fronte all’emergere di un secondo modello cui fanno seguito una seconda sequenza di repliche e così continuando. Inoltre la mimesi è ciò che sollecita il primo giudizio popolare che la interpreta o meglio la “scambia”, come il valore più alto delle opere. Va riconosciuto che la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale: È essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, per­ messo la conoscenza delle cose visibili e invisibili, regola­ to l’arte di rappresentarle [M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 31]. Nelle varie correnti filosofiche succedutesi nel tempo, il concetto di mimesi ha assunto i più diversi significati: imitazione della natura, di un model-

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lo, di un’idea e simili. In ogni caso di un referente esterno tanto alla forma che al contenuto di un’opera d’arte. Nel Settecento il mito vitruviano della capanna lignea come fonte mimetica dell’architettura raggiunge il suo culmine, tant’è che il frontespizio dell’Essai sur l’architecture dell’abate Marc-Antoine Laugier ne ritrae l’effige. Notia­ mo però che, nella versione di Laugier, l’architettura mi­ metizza in un modo particolare: imita la natura solo al secondo grado, attraverso un modello che è già di per sé una costruzione [G. Teyssot, Mimesis dell’architettura, prefazione a A.C. Quatremère De Quincy, Dizionario storico dell’architettura, Marsilio, Venezia 1985, p. 16] così scrive Georges

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Teyssot, spiegando altresì i diversi gradi che nel Settecento si attribuivano all’imitazione: per riassumere, si isola il grado zero, dove l’arte è prodotta come pura imitazione. Si definisce poi il primo grado, dove si afferma che l’imi­ tazione non deve essere perfetta. Infine appare un secon­ do grado, dove ciò che si imita non è la natura in tutti i suoi aspetti, ma la natura “scelta” in funzione di un ide­ ale invisibile. Vediamo che nella teoria di Laugier il mo­ dello non riesce ad essere veramente originario. La ca­ panna non è un prodotto naturale. È già di per sé un manufatto, seppur “primitivo” [Ibid.]. Sul tema della mimesi è fondata tutta l’opera trattatistica di Quatremère de Quincy che ne fornisce un’originale versione: Bisogna dire che l’architettura imita la natura, non in un oggetto dato, non in un modello positivo, ma trasponendo nelle sue opere le leggi che la natura segue nelle sue. Quell’arte non copia un oggetto particolare, non ripete alcuna opera [ma] imita l’operaio e si regola su di lui. Imita infine, non come il pittore riproduce il modello, ma come l’allievo che coglie la maniera del suo maestro, che fa non ciò che vede, ma come vede fare. [A.C. Quatremère De Quincy, De l’Architecture égiptienne, in G. Teyssot, Mimesis, cit., p. 23]. Da sempre l’uomo ha imitato ed ha approfondito lo studio di strutture funzionali e delle forme naturali per trovare soluzioni prima adatte alla sua sopravvivenza, poi per l’ac-


crescimento del comfort e della qualità della propria vita sul pianeta. In maniera particolare, da alcuni anni, nell’am­ bito del dibattito sulla sostenibilità ambientale, si è tor­ nati a discutere e riflettere sulla natura come fonte pri­ maria di ispirazione per la risoluzione dei problemi tec­ nologici e progettuali dell’uomo; come “modello, misura e mentore” nello sviluppo di soluzioni progettuali inno­ vative e realmente sostenibili; come straordinaria bancadati di espedienti biologici e di innovazioni utili (…) è l’approccio biomimetico al design, soprattutto come con­tributo molto promettente per il raggiungimento de­ gli obiettivi della sostenibilità ambientale [L. Pietroni, Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo in «Op.cit.», n 141, 2011].

Altrettanto pertinente la teoria del design è il secondo rapporto, discrezione/continuità: Dal punto di vista filoso­ fico, una grandezza è discontinua (o discreta) se è com­ posta da elementi dati tramite i quali essa viene costruita nel pensiero [A. Lalande, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 215]. In tal senso il carattere del linguaggio verbale è «discreto». Le unità discrete – scrive Martinet – sono quelle il cui valore linguistico non è affatto toccato da variazioni di dettaglio determinate dal conte­ sto o da circostanze diverse. Tali unità sono indispensa­ bili al funzionamento di ogni lingua. I fonemi sono unità discrete [A. Martinet, Elementi di linguistica generale, Laterza, Bari 1971, p. 32]. Il Razionalismo nel campo del design si distingue per la semplificazione morfologica operata rispetto a tutti gli stili del passato, perché lega nel modo più stretto forma e funzione, per la riduzione di ogni forma alla geometria elementare, per l’uso di nuovi materiali e soprattutto perché presenta appunto due famiglie morfologiche, quella del «discreto» e quella del «continuo». Passando dalla linguistica al design, un elemento si dice discreto (o discontinuo) quando la sua forma e il suo significato non sono determinati dal contesto di cui fanno parte; più semplicemente un elemento discreto è tale quando lo si riconosce come parte

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di un tutto; viceversa, quando si fonde col tutto si dice continuo. Il processo storico contiene tanto fasi continue quanto momenti di rottura. Ricordando inoltre che nella storia delle arti gli eventi sono in praesentia, coincidono con la storia stessa, il fenomeno della continuità è contrassegnato anzitutto dalla durata degli stili; quello della coesistenza di continuo e discontinuo è reso tangibile, per chi esamina un singolo ambiente, dalla «stratificazione» storica del costruito. Questo fenomeno altro non è che la tangibile presenza di qualcosa che nel tempo è venuto a modificare le conformazioni originali senza tuttavia cancellarne la continuità. Quel­la dell’architettura è una storia speciale: in essa le opere non riguardano solo un tempo più o meno remoto, quello della loro costruzione, ma anche il presente, stan­ no là dove furono concepite e bisogna adattare ad esse le successive modificazioni dell’ambiente. Questa peculiare caratteristica impone, più che in altri campi, una distin­ zione fra storia e storiografia, recentemente ridefinite storia-realtà e storia-studio, distinzione ancora più ne­ cessaria per l’apparente contiguità dei due termini (…). Questa dialettica lega ulteriormente nel caso dell’archi­ tettura il linguaggio-oggetto, la storia incarnata in con­ crete fabbriche, al metalinguaggio, ossia la storiografia, al punto che essi si integrano, si rafforzano, si sostengo­ no vicendevolmente. Il carattere dialettico del binomio induce altresì a sostenere che la logica invocata dalla ri­ cerca storica (e da quella progettuale) non può essere so­ lo deduttiva (il che spiega il fallimento di tanti tentativi di individuare “leggi” nella storia), né solo induttiva, ma nasce da un continuo aggiustamento fra le due linee [R. De Fusco, Trattato di Architettura, Alinea Editore, 2018, p. 17]. Ci si chiede ora se è possibile individuare un criterio storiografico che consenta di distinguere le fasi continue da quelle discontinue nella vicenda architettonica e del design. La risposta è affermativa grazie a un binomio che lo stesso De Fusco ha esposto in precedenti pubblicazioni [R. De Fusco, G. Fusco, La «riduzione» culturale, in «Op.cit.», n 23, 1972].


Chiamiamo paradigmatiche quelle opere d’architettura e di design che per la loro innovazione ed originalità creano una soluzione nel processo continuo preesistente. Criterio di valutazione critica è il carattere di novità ed unicità dell’opera, ma non ogni forma unica e nuova è anche artistica. Lo è quando può essere precisata non in una dimensione strutturale ma solo in una dimensione modale: è il senso ob­ bligante, è l’anankàion, è la paradigmaticità, il privilegio assiologico che distingue quell’oggetto [G. Morpurgo-Tagliabue, Fenomenologia del giudizio estetico, in «Rivista di estetica», fasc. I, 1963].

Chiamiamo emblematiche, da ἔμβλημα, ossia «cosa inserita», «ciò che è inscritto», quelle opere d’architettura e di design che costituiscono il continuum preesistente alla nascita della fabbrica paradigmatica o che, riprendendola in qualche modo, replicano quel modello e costruiscono un continuum formato dal processo creatosi dopo il suddetto paradigma. Questa distinzione non solo ci dà conto del come avviene una rottura nel continuum della storia, ovvero ci mostra la causa del cambiamento, ma ci fornisce anche un criterio critico atto a giudicare le fabbriche e oggetti emergenti, più nuove ed originali, nel contesto formato da altre, talvolta anche pregevoli, ma che restano a testimoniare la continuità della tradizione. La teoria della storiografia è divisa fra chi ritiene il processo storico come un continuum e chi lo considera come l’insieme di tante soluzioni di continuità a seconda dell’innovazione delle opere, delle mutate condizioni storico-sociali, del più generale variare dei contesti epocali. La dicotomia discreto-continuo è utile per meglio descrivere la morfologia degli oggetti. Ad essa si associano altri parametri che contribuiscono all’identificazione dei paradigmi: il fondamento antropocentrico, la dicotomia invaso-involucro, le valenze ottico-percettive, funzionali, mor­ fologiche, ergonomiche, di fruibilità. Tutto quanto precede ha per presupposto il valore del progetto. Questo ha la sua ragion d’essere perché, quasi obbligatoriamente, introduce nella realtà progetti ed oggetti

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radicalmente nuovi, altrimenti non di produttività dell’inedito si tratterebbe, ma di semplici replicazioni. Muoviamo da alcuni esempi: le prime automobili, i primi treni, i primi aeroplani erano caratterizzati dalla discrezione perché le loro parti erano chiaramente distinte e magari ognuna indicativa della propria funzione. Viceversa, gli stessi prodotti di più recente fabbricazione, a cominciare dalla tecnica e dalla moda dell’aerodinamismo, sono ca­ ratterizzati dalla continuità: le loro parti tendono ad es­ sere indistinte a confermare addirittura una unità. (…) E tuttavia la linea dell’unitario o del continuo non ha debellato quella del molteplice o del discreto; pri­ mo, perché la logica dei «pezzi» distinti ed angolati a 90° s’è rivelata indispensabile per alcuni tipi di prodotti; se­ condo perché il continuo è sempre riducibile al discreto. Interviene qui l’aspetto progettuale della dicotomia in esame (…) Posto che ogni prodotto, sia esso composto da pezzi o caratterizzato dall’unità, può sempre conside­ rarsi un «continuo», al pari della lingua, dell’architettu­ ra, della musica o di qualunque sistema organizzato di segni, il luogo della sua riduzione al discreto è quello del progetto. Qui troviamo infatti tratti verticali, orizzontali, obli­ qui e curvilinei, in quanto tali commensurabili e distinti, costanti e pertinenti l’opera da realizzare, nonché rap­ presentabili e riproducibili in questa o in quella scala metrica o antropometrica. È proprio grazie a queste pro­ prietà degli elementi discreti che la conformazione di un simulacro grafico dell’oggetto diventa gradualmente, passando attraverso fasi e scale via via crescenti, vero e proprio artefatto di design [A. D’Auria, R. De Fusco, Una tassonomia per il design, in «Op.cit», n 85, 1992]. Come la mimesi è entrata attualmente in crisi, soprattutto per ragioni tecnologiche, così è avvenuto per la vecchia distinzione fra arti pure ed applicate, distinzione che si associa all’altra tra arti libere e meccaniche che richiama una citazione di Gombrich: Aristotele aveva codificato lo sno­ bismo dell’antichità classica, distinguendo fra certe arti


compatibili con una “educazione liberale” (le così dette arti liberali, come la retorica, la grammatica, la filosofia e la dialettica) e lavori che richiedevano l’opera delle mani, “manuali” e quindi servili, inadatti a un gentiluo­ mo» [E.H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Einaudi, Torino 1966, p. 286]. Sulla base di queste riflessioni, appare chiaro che il design e l’architettura appartengono alle arti, perché ad esse «si applicano», ovvero in esse convergono più interessi, temi e problemi che non nelle altre arti visive. Il primo di tali interessi sta in ciò che il design tende a tenere uniti nei prodotti industriali le necessità primarie delle persone: la qualità, la quantità e, originariamente, il basso prezzo (caposaldo più tardi trascurato). Se prendiamo il più semplice prodotto del design, una confezione per conservare il cibo, esso risulta più indispensabile di molti altri oggetti sofisticati. Non solo: il design è presente in ogni articolo della nostra vita quotidiana. Inteso il valore come la proprietà di soddisfare determinati bisogni, tra i quali quello del piacere estetico, il design è un valore e pertanto un’arte “super applicata”. Peter Behrens, uno dei primi architettidesigner del ’900, ricorda un’espressione di Paul Jordan, dirigente dell’A.E.G.: Non pensi che anche un ingegnere quando acquista un motore si metta a smontarlo per controllarne le parti. Anche il tecnico compera secondo l’impressione che ne riceve. Un motore deve essere bello come un regalo per il compleanno [P. Behrens, Zur Asthetik des Fabrikaus, in «Gewerbefleiss», nn. 7-9, a. 1929]. Volendo motivare l’accostamento tra la mimesi e il binomio continuità/discrezione, diciamo che la prima è una concezione che lega il fare a una realtà diversa da esso; mentre la continuità e la discrezione sono proprietà insite nell’oggetto, sia esso realizzato o semplicemente progettato. Beninteso, non è escluso il loro intreccio, cosa che risponde spesso a un dato di fatto.

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Nuovo paesaggio italiano, interventi artistici nel contesto pubblico e ruolo attivo dell’arte in Italia oggi MARIA GIOVANNA MANCINI

Nel 1972 la mostra Italy: The New Domestic Landscape a cura di E. Ambasz al MoMA proponeva una doppia traiettoria nel design italiano, l’una «capace di formulare, in termini fisici, soluzioni ai problemi incontrati nell’ambiente naturale e socioculturale» e l’altra rappresentata dal coun­ terdesign che nella relazione con la sfera politica e sociale agiva per realizzare cambiamenti strutturali nella nostra società [Italy: the new domestic landscape achievements and problems of Italian design, edited by E. Ambasz, MoMA, New York 1972].

Quest’ultima proposta, che vedeva le partecipazioni di Ugo La Pietra, Superstudio, Archizoom tra gli altri, sosteneva l’idea che nessuna soluzione sarebbe potuta emergere dalla progettazione in relazione allo spazio esclusivamente inteso per i suoi caratteri fisici ma esclusivamente da un progetto che si misurasse con questioni sociali e politiche. Nella mostra, benché fossero esposti oggetti non legati esclusivamente alle idee più radicali e agli esiti più ideologicamente orientati, veniva tracciato un panorama del design italiano che non fosse in alcun modo riducibile al prodotto. A partire da questa idea di progetto credo si debba intendere il lavoro di una generazione ampia di artisti che in Italia negli ultimi anni lavora intorno e dentro al paesaggio, a cui sto dedicando alcune riflessioni che confluiranno in un

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ampio saggio che aggiorna e approfondisce le mie ricerche sull’arte pubblica. La scelta di inquadrare in una pratica che trova nel counter design e nella proposta radicale degli anni ’70 un precedente è strumentale a evidenziare la specificità teorica della pratica di alcuni artisti che attribuiscono un ruolo trasformativo alla loro arte, perché politica, perché critica e perché orientata consapevolmente a una proposta complessa sull’esistente, che si offre al pubblico negli spazi del sistema dell’arte, ma anche in luoghi marginali, o addirittura del tutto estranei al circuito ufficiale delle gallerie e degli spazi espositivi, finanche nello spazio pubblico, senza che la loro proposta perda mai di forza, dettagli e acume critico. Paolo D’Angelo di recente compie una corposa e allo stesso tempo godibile panoramica teorico-critica sul paesaggio, senza definirlo direttamente ma costruendo la storia e la pratica di un’idea di paesaggio attraverso coppie significanti, differenze e somiglianze [P. D’Angelo, Il paesaggio, Laterza, Bari 2021]. All’attraversamento estetologico più tradizionale, però, è opportuno oggi affiancare una riflessione che proviene dalla prospettiva critica di alcuni geografi che molto precocemente rispetto ai recenti interessi riservati alla transizione ecologica e ai disparati temi che – non senza ambiguità – vanno sotto l’ampio campo del green, si sono interessati in termini complessi al paesaggio. In particolare penso alla proposta di Gilles Clément che in Italia ha trovato negli ultimi anni un’importante cassa di risonanza non solo grazie alla pubblicazione in traduzione dei suoi scritti [si veda per esempio, Manifesto del Terzo Paesaggio, trad. it., Quodlibet, Macerata 2005], ma anche con la partecipazione a eventi come l’edizione palermitana di Manifesta in cui, insieme allo studio Coloco, ha realizzato un giardino comunitario nel quartiere ZEN [Manifesta 12, a cura di I. Pestellini Laparelli, M. Varadinis, B. Van Der Haak, A. Jaque, Palermo 2018]. A partire da progetti che rispondono a un’idea socia-

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le, a volte partecipativa, ma che in ogni caso riflettono una funzione pubblica e collettiva dell’intervento dell’arte, non del tutto scontata nelle pratiche attuali, credo che sia inte-


ressante aggiornare la riflessione sull’arte nello spazio pubblico guardando all’attività degli artisti che oggi in Italia si interrogano sul paesaggio, adottando la riflessione di filosofi e geografi come Jean-Marc Besse che contribuiscono a smentire l’idea rassicurante e decorativa del paesaggio come oggetto estetico [J.M. Besse, Paesaggio ambiente. Natura, territorio, percezione, trad. it., Derive Approdi, Roma 2020]. Il paesaggio, tema tradizionale negli studi di storia dell’arte, trova in Italia uno spazio separato nel dibattito attuale, in particolare negli studi di progettazione che sviluppano da un lato la proposta di una metropoli orizzontale capace di organizzare la “mixité” delle differenti tessiture urbane [P. Viganò, Vi spiego la città orizzontale, in «Il giornale dell’architettura», 2018, disponibile online] e dall’altro intorno all’idea, di stampo britannico, di re-immaginare la ruralità attraverso un processo multidisciplinare di trasformazione urbana e sociale. Dell’ampio panorama artistico italiano arricchitosi nell’ultima decade, dove l’interesse per il paesaggio non è declinato nei termini della tradizionale veduta ma in termini propositivi come riflessione sull’immaginario attuale, sulle implicazioni economiche e sociali, in questa occasione intendo mettere in rassegna alcune delle esperienze più significative che, persino attraverso i linguaggi tradizionali dell’arte, oppure attraverso pratiche collettive che scelgono ambiti rurali di intervento, rinnovano nei termini critici il rapporto tra artista e ambiente e anche un modello oggi forse un po’ stereotipato dell’arte pubblica. Il mio interesse per il paesaggio è certamente debitore nei confronti del progetto che Domenico Antonio Mancini ha realizzato nel 2019 nella galleria di Lia Rumma a Napoli [Landscapes, 4 maggio - 20 giugno 2019, Galleria Lia Rumma, Napoli] che senza dubbio potremmo definire “esperienziale”. La mostra ha offerto un itinerario complesso all’interno del paesaggio, esemplificando la complessità di una definizione che non può essere intesa come univoca. Il paesaggio è irrimediabilmente compromesso con la prospettiva culturale collettiva, ma è anche il luogo di proiezioni individuali, emotive, sociali, e la mostra napoletana di Mancini lo ha

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messo in scena, anzi lo ha messo in spazio. In quell’occasione, infatti, l’artista ha presentato non solo i suoi dipinti, in cui su un fondo bianco, con la pittura a olio, ha pazientemente riportato l’url di significative street view consultabili sul sito google maps, ma ha anche costruito un confronto con dipinti ottocenteschi presi in prestito dalla collezione del Museo Filangieri, che rappresentano la tradizione figurativa e l’idea di paesaggio condivisa collettivamente, benché oramai obsoleta. Nella sala principale della galleria, il percorso parallelo svolto attraverso il prelievo dell’immagine tradizionale del paesaggio e l’impossibile unità dell’esperienza attuale declinata nella doppia rappresentazione, tecnologica di google e analogica del pittore, e le due singolari visioni del paesaggio collidono sul piano sociale: un neon che riporta la scritta “La periferia vi guarda con odio” proietta il suo colore rosso proprio sui dipinti storici la cui visione viene totalmente alterata. Mancini distingue tra veduta e paesaggio: La veduta era una visione di ciò che il pittore aveva innanzi; il pae­ saggio era una sua interpretazione. Nel paesaggio con­ temporaneo, fruibile tramite street view, non c’è più l’oc­ chio e la mente di un autore, si tratta di pura rilevazione, è in buona sostanza una macchina che si sposta sul terri­ torio e rileva una serie di immagini del territorio stesso. Si aprono così, una serie di riflessioni relative alla produ­ zione e fruizione dell’immagine, dichiara l’artista [M. Guida, Domenico Antonio Mancini. Arte e Politica, social-controllo e periferie, in «Art part of culture», 14 giugno 2019, disponibile online].

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La supposta oggettività dello sguardo meccanico della rilevazione tecnologica è tutt’altro, però, che un punto di vista neutrale sul paesaggio. Prodotto da un soggetto non umano, l’ambito tecnologico esercita sull’immaginario collettivo un potere talmente pervasivo da condizionare l’idea di paesaggio che ciascuno possiede, divenendo esso stesso uno degli elementi del paesaggio reale. Una visione stereotipata del paesaggio si infrange nella condizione politico


sociale attuale in cui il binomio natura-cultura non esaurisce i termini della questione. Cosa sia oggi il paesaggio e quale sia la relazione tra il paesaggio e il singolo individuo, in una condizione di moltiplicazione dei piani di realtà anche grazie alla pervasività dei sistemi tecnologici di connessione e rappresentazione dell’esistente, è una questione che esercita un effetto dirompente su molti livelli fino a riflettersi sulla forma dello spazio che abitiamo. Lo spazio, secondo la celebre idea di Lefebvre, trascrive i desideri individuali e collettivi e processi politico-sociali sempre più complessi. In questo senso, il lavoro sul paesaggio inteso nel solco di una critica istituzionale ed estetica, così come realizzato da Domenico Antonio Mancini e condiviso da un’intera generazione di artisti in Italia, è connotato da una coscienza politica acuta. Marzia Migliora, di recente, con grande raffinatezza, sta lavorando ad acquerelli, disegni e collage su temi ecologici e naturalistici. A partire dalla serie di disegni e papier collé che l’artista ha realizzato tra il 2017 e 2019 con la serie Paradossi dell’abbondanza, combinando insieme immagini prelevate da volumi sulle tecniche agricole pubblicati negli anni ’60 in Italia e immagini tratte da cartoline che negli anni ’50 celebravano l’industrializzazione dei sistemi di coltivazione. In questo modo, Marzia Migliora mette in stretta relazione la produzione agricola con le dinamiche del capitalismo globale [si veda l’intervista Marzia Migliora on extractive capitalism and the agrarian imaginary, in «Artforum», 6 novembre 2020, disponibile online], temi che sviluppa insie-

me all’individuazione di una molteplicità di soggetti vittime di sfruttamento e del riconoscimento di un’ideologia dello sfruttamento delle risorse. Tali temi ricorrono nei lavori che l’artista ha realizzato negli ultimi anni, si pensi al­ l’installazione Stilleven, presentata in occasione della Biennale di Venezia - Padiglione Italia nel 2015 in cui l’artista crea un dispositivo della visione che ricorda la celebre installazione Etant donné di Duchamp, in cui ricostruisce un’am­ bientazione che vent’anni prima aveva fotografato nella casa colonica dove viveva il padre. Una dimensione

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emotiva e privata, attraversata da memorie familiari, a cui fa eco l’immaginario di un paese agricolo segnato dalla fatica del lavoro e dallo sfruttamento della terra. Problematizzando attraverso l’opera d’arte un parallelo, su cui i critici e gli artisti a lungo hanno dibattuto negli anni ’70, tra il lavoro artistico e il lavoro operaio, Marzia Migliora ri-costruisce un’immagine allegorica – secondo la tradizione della natura morta di cui l’opera porta il titolo – del lavoro che vede nella classe dei lavoratori l’anello debole della catena. Nel 2018 l’artista con il finanziamento del premio Italian Council realizza al museo MAGA di Gallarate una mostra molto complessa che sviluppa i presupposti teorici su cui aveva lavorato in Paradossi dell’abbondanza [Lo spettro di Malthus, a cura di M. Lucchetti, 10 ottobre 2020 - 12 marzo 2021, MAGA - Museo Arte Gallarate]. A partire dalla tesi di

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Thomas Robert Malthus che alla fine del XVIII secolo avvertiva del preoccupante squilibrio tra la crescita geometrica della popolazione e quella aritmetica degli strumenti di sfruttamento delle risorse, l’artista costruisce un percorso che si snoda intorno a dispositivi di visione che da un lato fanno assumere allo spettatore la posizione dello sfruttato e dall’altro mostrano la centralità del sale (che allude al denaro, al salario, da sale appunto) come sistema di sfruttamento incontrollato delle risorse che sono prossime all’esaurirsi. Ambientazioni digitali, video animazioni, disegni, collage e installazioni abitabili compongono l’itinerario della mostra. La dimensione agricola e rurale è uno dei punti nodali dell’indagine artistica sul paesaggio, probabilmente perché insieme a quello urbano è esito di uno stretto intreccio di questioni socio-politiche e riferimenti individuali, spesso legati alle singole biografie e alle storie personali di ciascun artista. Il cibo e le colture ricorrono nel lavoro di molti artisti per la loro natura di nutrimento e allo stesso tempo perché sinteticamente rappresentano la catena di sfruttamento sia delle risorse naturali sia di quelle umane e permettono un continuo passaggio da un punto di vista locale a un punto di vista globale. Il giardino realizzato con piante commestibili diviene il luogo emblematico in cui il passaggio di


scala dal locale al globale assume forza significante e chiarezza. Il giardino, inoltre, inconsciamente predispone l’osservatore a un’esperienza estatica e connette il micro al macro proprio come avveniva nella tradizione dei giardini all’italiana. Nella pratica contemporanea spesso diviene una forma simbolica utile a costruire uno spazio conclusus che è allo stesso tempo aperto alle dinamiche sociali esterne; negli ultimi anni alcuni artisti hanno infatti programmaticamente scelto la forma del giardino per avviare un lavoro con le comunità locali. Leone Contini in occasione dell’edizione palermitana di Manifesta, che si è detto ospitava anche il progetto di giardino comunitario di Coloco & Gilles Clément, ha realizzato il Foreing Farmers già presentato precedentemente a Prato. Negli spazi dell’Orto Botanico di Palermo, l’artista realizza una pergola in cui mette a dimora piantine di cucuzze, meloncelli, zucchette di semi provenienti da molti luoghi (e tradizioni agricole) italiani e stranieri. L’idea dell’estraneità a un ambiente si combina con riflessioni sui sistemi ambientali e climatici che nell’attuale emergenza non possono essere più rimandate. Con la collaborazione di persone appartenenti a diverse comunità locali e provenienti da paesi diversi, l’artista è riuscito a coltivare piante di origini disparate. Segnata da storie di migrazioni, l’installazione è un dispositivo di condivisione di competenze e di racconti. L’artista riflettendo sulla natura dei semi e sulla creazione di nuovi spazi afferma: d’altronde nessun seme appartie­ ne a un luogo specifico, essendo per sua natura un va­ scello per trasportare informazioni attraverso nuove ge­ ografie [press release, Lecture-performance e visita guidata di Foreing Farmers con Leone Contini, in Manifesta 12, disponibile online].

Il lavoro degli artisti sul paesaggio contribuisce a rappresentare, attraverso gli svariati livelli che queste opere evidenziano, nuove geografie fatte di scambi sociali e culturali che l’arte incrementa. La metafora del seme quale “vascello” per lo scambio di informazioni e sapiente tramite per il meticciato culturale, nella prospettiva dell’analisi sul

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paesaggio nei termini complessi con cui ho voluto declinarla in quest’occasione è, a mio avviso, decisamente utile per esprimere una prospettiva condivisa da una generazione ampia di artisti. Il tema del giardino è centrale nel lavoro di Michele Guido. Registra i differenti riferimenti al giardino sia come metafora sia come spazio reale di lavoro la retrospettiva, a lui dedicata e inaugurata lo scorso marzo, che raccoglie la ricerca ventennale dell’artista sul giardino [M. Guido, Giardino in quattro atti 2001|2021, 8-27 marzo 2022, Casa degli artisti, Milano]. Al di là dei raffinatissimi progetti, che sono allo

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stesso tempo un’indagine sulla scultura e sulla fotografia, che l’artista realizza a partire da un suo personale sofisticato pensiero intorno allo spazio naturale declinato nella forma giardino e condotto attraverso l’osservazione fotografica di segni e malformazioni escrescenti delle piante che assumono un carattere estetico e architettonico nella ripetizione della forma, oppure sulle strutture regolari delle radici o degli organi delle piante, nella riflessione sul paesaggio su cui sto lavorando due lavori condotti con la partecipazione delle comunità locali assumono una rilevanza particolare. Cosmos Seeds Garden Project 2014-2019 è il giardino partecipato che Michele Guido ha realizzato presso il PAV di Torino, in cui ha messo in coltura piante provenienti da sementi antiche della Banca dei Semi del Salento. La struttura del giardino riprende la forma “disegnata” su una foglia dagli insetti che l’hanno attaccata, l’artista la ridisegna e l’ingrandisce a dimensione urbana, costituendo in questo modo le singole aiuole in cui sono state messe a dimora le piantine germinate dai semi ad alta produttività, selezionati tra quelli più adattabili a condizioni climatiche diverse da quelle originarie del Sud Italia. Ogni fase della realizzazione del giardino è stata condotta dall’artista con gli abitanti dei quartieri limitrofi al museo. Ad Aradeo, piccolo paese salentino, nell’ambito di una commissione pubblica, l’artista in questi giorni sta realizzando Aradeo Garden Project, con la decorazione del soffitto di un portico nei pressi del Palazzo Comunale. Ribal-


tando idealmente la prospettiva celeste con uno sguardo al basso e alla terra, insieme con gli abitanti del quartiere l’artista ha realizzato la decorazione delle unghie delle volte del portico con immagini che sono tratte dai manuali di botanica antica. Le piante selezionate sono quelle che nascono spontanee nel territorio e le cui proprietà costituivano la sapienza condivisa per generazioni. Nel portico trovano posto alcune sculture di terracotta che riprendono – integrandole nella decorazione – le forme dei nidi delle vespe va­ saio, che dice l’artista, hanno la funzione di rappresentare l’integrazione degli elementi che in natura lavorano alla propagazione delle specie. Il vocabolario di Michele Guido attinge da linguaggi solo superficialmente distinti, da un lato da una sofisticata conoscenza dell’arte e della botanica antica, e dall’altro da una dimensione rurale e agricola. Quella agricola, infatti, è una sapienza che contribuisce a progettare il paesaggio tanto che oggi in Puglia, grazie anche alla crescente consapevolezza dell’enorme valore della dimensione rurale, anche da un punto di vista amministrativo, si stanno facendo molti sforzi per tutelare quel patrimonio intangibile che non è ancora del tutto scomparso. In questo senso è esemplificativo in Puglia il progetto Casa delle Agriculture portato avanti da un collettivo che vede la partecipazione di figure di diversa provenienza professionale sotto la guida dell’artista Luigi Coppola. Nato nel 2013 a Castiglione d’Otranto in provincia di Lecce come risposta al degrado del territorio in termini ambientali e sociali, il progetto ha lo scopo di ricostituire una comunità coesa, aggiornando tecniche agricole alla sensibilità e ai problemi contemporanei e mettendo a valore il patrimonio di conoscenze tradizionale della cultura contadina. Il collettivo è guidato dall’idea della “restanza”, che allude alla scelta di restare ad abitare una regione spopolata come forma di resistenza a processi economici che agiscono distruggendo le strutture sociali, ma anche adottare un approccio olistico ed estraneo alle logiche locali. Conservare questo sguardo straniero e dinamico che mette anche in crisi i

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concetti di antico e tradizione per trovare una strada contemporanea nell’azione e nel pensiero, dove la cultu­ ra è una chiave possibile, scrive l’artista. Oltre all’evento sociale della Notte Verde: agriculture, utopie e comunità che da 10 anni dà visibilità, in forma di festival, all’attività del progetto di difesa del paesaggio e del territorio, la Casa delle Agriculture ha al suo interno attività produttive come il Vivaio dell’inclusione che include il lavoro di migranti, anziani e persone diversamente abili e il Mulino di Comunità [L. Coppola, Immersi con sguardo straniero, in «Salgemma», 21 marzo 2021, disponibile online]. In questo itinerario tra le proposte di artisti che utilizzano linguaggi differenti, ho scelto di privilegiare opere ed esperienze che contribuiscono a offrire un’idea trasformativa dell’intervento dell’arte sul paesaggio sia quando realizzano progetti per lo spazio pubblico sia quando contribuiscono a sviluppare una consapevolezza delle dinamiche sociali e politiche che nel paesaggio trovano una spazializzazione. Infine lo stretto rapporto che alcuni di questi artisti istituiscono con una radice rurale offre una proposta proattiva necessaria e improcrastinabile per ripensare il nostro presente.

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Libri, riviste e mostre

A. Aveta, A. Castagnaro, F. Mangone (a cura di), La Mostra d’Oltremare. Ricerche storiche e restauro del moderno, fedOAPress-editori paparo, Napoli 2021. Ai due espliciti contenuti presenti nel sottotitolo e che rinviano rispettivamente ad una (generale e attesa) ricognizione storica e storiografica sull’argomento e ad una riflessione (sempre attuale e sempre problematica) sul restauro del moderno, occorre aggiungere un terzo e implicito con­tenuto riassunto nel più classico degli interrogativi: che fare? La risposta c’è ed è positiva perché è lo stesso saggio a indicare criteri, metodi e azioni da attivare per garantire un futuro dignitoso – che oggi non ha per mille ragioni – a questo rilevante documento di urbanistica-architettura-arte figurativa moderno e italiano. Lo scrivono i curatori stessi nelle primissime battute, superando un’immotivata ritrosia che in genere coglie uno studioso nel­l’ammettere che il suo studio possa essere utilizzato in sede

politica. Dopo aver delineato in estrema sintesi nella loro introduzione i problemi più recenti del complesso, Aveta, Castagnaro e Mangone concludono scrivendo che questo lavoro compa­ re nel momento giusto, come presupposto scientifico di un ripensamento del ruolo della Mostra. Libro utile, dunque, se la proprietà pubblica della Mostra, vincolata come bene culturale, coglierà il significato anche politico e la direzione operativa di questa poderosa intrapresa storiografica (630 pagine, 70 autori, cospicua quantità di disegni e foto) che va oltre i meriti scientifici che gli saranno riconosciuti in questa nota critica. La precedenza al libro con i suoi argomenti e le sue novità critiche. Quattro capitoli con i tradizionali temi della storia, delle varie edizioni nel tempo, delle schede critiche degli edifici e delle singole parti, dall’impianto urbanistico al progetto botanico alle presenze artistiche come mosaici, affreschi, sculture. Bibliografia (di Alberto Terminio e Massimo Visone) probabilmente

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esaustiva, come potrà giudicare chi segue da tempo la fortuna critica del complesso fieristicoespositivo. Poi, le novità critiche: più d’una e tutte meritevoli d’essere qui commentate, a partire da quella più interessante e riassuntiva, la “discontinuità” con la tradizione che qui, per l’ampiezza d’adozione da parte dei curatori e le tesi di molti autori dei saggi prende i caratteri d’un vero e proprio revisionismo storiografico incentrato prevalentemente su due piani, quello urbanistico e quello linguistico. (Di revisionismo, ma in altra accezione, parla anche Giovanni Menna in un uno dei suoi tre interventi). La Mostra come oggetto autonomo dell’area occidentale della città è stata la visione costante e prevalente che ha impedito nel corso dei decenni di conferire respiro territoriale a piani e progetti, con l’unica eccezione della monografia di Uberto Siola del 1990 che auspicava un raccordo alla scala almeno metropolitana. Tentativo fallito, scrive esplicitamente lo stesso autore nell’intervento introduttivo di questo volume a quasi trent’anni di distanza dal suo saggio. La città si è pre­ occupata di isolare la Mostra chiudendole molti dei varchi che aprivano su un sistema di strade aperte a 360 gradi e cer­ cando una e una sola funzione che potesse giustificarne l’esi­ stenza. Dimenticando così il carattere di parte urbana che avrebbe potuto consentire alla città al suo esterno di crescere. Tutto ciò è nella responsabilità di chi ha governato l’Ente negli ultimi decenni ma la cultura urbanistica poco ha fatto per denunziare e contrastare l’isolamento

del complesso insistendo nell’errore di programmare sulla Mostra fermandosi sul suo perimetro catastale. Una scelta severamente sanzionata in tutti i saggi presenti nel libro nei quali è presente la dimensione urbanistico-territoriale del tema. Sempre su questo piano, va segnalata una questione aperta: la titolarità del Piano generale della Mostra, da sempre e da tutti riconosciuta a Canino, ma sono state avanzate anche ipotesi non immotivate che anche Piccinato possa essere stato un deuteragonista nella definizione dello schema urbanistico. L’attribuzione al solo Canino ha retto fin quando i primi approfondimenti di Lilia Pagano e poi quelli di Andrea Maglio (che con Gemma Belli ha scandagliato l’archivio Piccinato scoprendo e pubblicando inedite planimetrie generali del complesso fieristico) hanno fatto emergere l’indubbia connessione dell’impianto generale della Mostra con le soluzioni presenti nel PRG del 1939 di Piccinato e con il precedente Piano di bonifica e ampliamento di Fuorigrotta. Questione aperta, si diceva, che qui viene confermata ma attende ulteriori indagini per una sua definizione. L’obiettivo è importante e travalica il dualismo CaninoPiccinato. Un ripensamento del ruolo della Mostra – come scrivono i curatori, confermano tutti gli autori e la città reclama – non può che partire dai caratteri identitari originari dell’insediamento pensato come dialogante con l’immediato contesto e il territorio. Era la visione certamente di Piccinato, condivisa da Canino, e successivamente mortificata, da un recinto, per necessità funzio-


nali e di sicurezza. Riprenderla oggi come iniziale e fondante ipotesi di studio è indispensabile. Ma la discontinuità più interessante si registra sul piano linguistico. Dalle origini della Mostra nel 1940 e fino alla pubblicazione di questo saggio, i temi dello “stile” e quelli ideologici hanno avuto una loro declinazione radicale e criticamente riduttiva, eco locale d’un atteggiamento più generale della storiografia italiana sull’architettura del fascismo. A latere, si potrebbe osservare che il pregiudizio stilistico è stato per certi versi più forte, e ostinato a non essere rimosso, di quello ideologico. Da un lato, e con riferimento alla Mostra, c’è stato un favore critico generalizzato per le architetture e gli autori di militanza razionalista, da Piccinato a Cocchia, De Luca, Filo Speziale, Amicarelli, Sepe. Dall’altro, è calato un imbarazzato silenzio su tutti gli altri edifici. Nei pochi casi di una loro citazione obbligata, il problema è stato risolto con il ricorso alla generica e per nulla favorevole espressione “architetture storiciste” o definizioni analoghe, con la sola eccezione, ancora una volta, del citato saggio di Siola nel quale le schede di Lilia Pagano mostrano un’esemplare misura critica nel trattare le architetture “in stile”. Allora come ora, il problema non consiste nel rivalutare il denso capitolo delle architetture storiciste ma di conferire al revisionismo storiografico il compito di portare in emersione il complesso mixage di temi e iconografie tanto all’avanguar­ dia quanto regressive presenti sia nell’edizione del 1940 che in quella del Dopoguerra. La parola

“regressive” usata dai curatori ras­ sicura sulla correttezza del­ l’in­ tera impostazione critica del libro che non spinge il revisionismo al ribaltamento di giudizi consolidati – un’architettura ingenuamente esotica resta un’opera regressiva – ma alla necessità di valutare nel significato ur­ banistico, amministrativo e po­ litico tanto la fondazione, quanto la rifondazione dell’im­ pianto espositivo. Questa acquisizione è il segno più importante d’una maturità critica sulla Mostra attinta dalla Scuola napoletana con un ritardo non addebitabile all’attuale generazione di studiosi. Altre importanti novità critiche vengono dai saggi sul restauro. Si tratta d’un fondamentale argomento-ponte tra il capitolo delle ricerche storiche e quello del “che fare”. È del tutto evidente, infatti, che il futuro della Mostra dipenderà anche in larga parte dalla capacità di conferire vitalità funzionale, sicurezza, nuova significazione e rinnovata bellezza alle architetture esistenti, non di prolungare semplicemente la loro esistenza fisica. Trattandosi poi di strutture del moderno realizzate in molti casi in fretta e con materiali autarchici, è altrettanto evidente che il loro restauro presenta non principi teorici nuovi ma problematiche tecniche e materiche molto complesse dovendosi applicare a uno di quelli che Renata Picone definisce “patrimoni fragili”. Il governo di questo processo è descritto nel capitolo più denso del libro con venti interventi e un Portfolio dei progetti di restauro più recentemente realizzati. Particolarmente efficace dal punto

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di vista metodologico ed editoriale è stata la scelta di associare in sequenza un saggio storico su un edificio paradigmatico del complesso con un saggio sul suo restauro, preparando così la base conoscitiva e programmatica per ulteriori, auspicabili, futuri interventi. Per i quali, occorre aggiungere, risulterà fondamentale il ricorso all’iconografia del libro sbrigativamente risolta in precedenza con la semplice espressione di “cospicua quantità di disegni e foto”. In realtà, alla base ci sono attente ricerche in archivi pubblici e privati, tutte documentate da Visone in un suo intervento. Piccole ma importanti scoperte come quella fatta da Castagnaro di un fondo di disegni e immagini esistente presso la diocesi di Pozzuoli relativo al Padiglione della Civiltà Cristiana in Africa di Roberto Pane, occasione per un’interessante rilettura dell’edificio da parte dello stesso autore, ripresa da Aveta per una sua ipotesi di restauro. Persino dalla fotografia aerea (in realtà con un drone) si possono intravedere spunti per conferme e modificazioni di assunti critici. Il Portfolio fotografico di Paolo De Stefano e quello di Florian Castiglione con foto d’insieme e di dettaglio ci convincono con icasticità che la Mostra non è un insieme di edifici con verde e giardini al contorno, ma un parco con architetture al suo interno. Lo aveva precisato più volte Piccinato ma senza esito operativo, considerata la scarsa attenzione dedicata da sempre al patrimonio arboreo. Ancora una volta, perciò, proposizioni progettuali utili che vengono da questo libro, ora in forma più

meditata con la parola, ora con un disegno inedito, ora con una foto significativa. È tuttavia inevitabile che parlando più volte in questa nota di proposizioni, proiezioni, prolungamenti progettuali, emerga con un certo imbarazzo l’assenza pressocché totale nel libro di contributi provenienti dall’area progettuale. La sola presenza di Uberto Siola e Lilia Pagano (Corvino e Multari vi rientrano come autori del restauro della Torre del PNF, non ancora realizzato) è il doveroso riconoscimento a chi ha studiato con metodo e raccolto documenti sulla Mostra per dar vita alla prima monografia del complesso. Nessuno ha decretato l’ostracismo della cultura compositiva; essa piuttosto s’è resa estranea a questo importante capitolo della storia urbana del Novecento napoletano non producendo studi e letture orientati, documenti, presenze pubbliche tali da rientrare a pieno titolo in questa complessa intrapresa storiografica. Forse, come si suole dire in casi del genere, è necessario aprire una riflessione all’interno della cultura progettuale napoletana, per questa e altre omissioni. Infine, un riconoscimento, irrituale in una recensione. Dopo aver dato atto ai curatori Aveta, Castagnaro e Mangone d’aver svolto molto bene il loro ruolo, una citazione meritano gli editori e soprattutto, il Comitato redazionale con Raffaele Amore, Francesca Capano, Valeria Pagnini e Alberto Terminio, autori anche di saggi nel libro. Come ben sa chi ha dimestichezza con il lavoro editoriale, la qualità di un libro è anche merito d’un paziente e pro-


fessionale impegno redazionale, quasi sempre non riconosciuto. P. B. V.

Magnago Lampugnani, Fram­menti urbani. I piccoli oggetti che raccontano le città, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.

Il volume di Vittorio Magnago Lampugnani, pubblicato nel 2019 per i tipi di Verlag Klaus Wagenbach e oggi edito in Italia da Bollati Boringhieri, è frutto di una ricerca condotta dall’autore durante l’insegnamento presso il Politecnico Federale di Zurigo, approfondita in occasione del convegno StadtRaumDetail, e completata nell’ambito di una fellowship presso il Collegio delle Scienze di Berlino. Il testo si compone altresì di alcuni contributi comparsi come scritti autonomi nell’inserto del Tagesanzeiger di Zurigo. Il titolo, Frammenti urbani, è già evocativo, e il sottotitolo contribuisce ad evidenziare e circoscrivere esaustivamente il tema. Si tratta di un’ampia e approfondita disamina di piccoli oggetti e microarchitetture che hanno segnato la storia della città europea (questo è l’ambito geografico entro cui la ricerca si muove, con rare eccezioni) dalle origini ad oggi, nei casi più felici con continuità e sviluppi fecondi, in altri casi con interruzioni ed oblii conseguenti. L’attenzione ad elementi unici e ‘minori’, quasi invisibili o comunque raramente oggetto di attenzioni e di ricerche, accademiche o meno, connette la matrice

del saggio all’ambito della Microstoria, intendendo con essa quella pratica che interpreta l’individuale nella rete di relazioni con elementi altri, ed il contesto nel significato formale, comparativo, fatto dall’inserimento di un avvenimento, comportamento o concetto nella serie di avvenimenti, comportamenti, concetti simili, anche se lontani nello spazio e nel tempo (G. Levi). Attraverso i frammenti della complessità urbana, il testo delinea un processo storico ed evolutivo di forme, intenzioni e prassi, che molto informano delle nostre città e del modo di abitarle. In merito ai singoli temi, in linea con l’indirizzo microstorico, l’autore avverte nell’Introduzione che la scelta – non potrebbe essere altrimenti – è soggettiva e alquanto arbitraria. Si va dal chiosco per i giornali al tombino, dai semafori alle panchine, dalle Trinkhalle ai cestini dei rifiuti, ricostruendo la genesi, le variazioni, le declinazioni formali e talvolta ideologiche di ventidue microelementi dell’ambiente urbano. I relativi capitoli sono a loro volta suddivisi in tre sezioni: Microarchitetture; Oggetti; Elementi. Magnago Lampugnani si concentra consapevolmente e convintamente su casi singolari ma, come avveniva nel metodo storiografico di Giovanni Morelli, noto storico dell’arte citato nel testo, che riusciva a desumere da dettagli come mani, orec­ chie o pieghe dei tessuti infor­ mazioni sull’intero dipinto, identificandone l’autore con sorprendente precisione, così l’accostamento dei frammenti urbani, puntualmente collocati

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geograficamente e proiettati nelle direzioni temporali che ne ricostruiscono varianze ed evoluzioni, plasma nella mente del lettore il carattere, o addirittura l’identità visiva e culturale, delle città europee. I piccoli oggetti dello spazio urbano sono in ef­ fetti frammenti, indizi attraver­ so cui si può ricostruire in ma­ niera emblematica lo sviluppo della città nella sua interezza. Si potrebbe pensare a L’immagine della città di Kevin Lynch, ma se nel testo dello studioso americano l’intenzione era quella di individuare categorie che permettessero sì di leggere il fatto urbano, ma anche di astrarre un sistema di interpretazione e lettura, e poi di disegno, adeguatamente generalizzabile per tutte le realtà urbane, in questo caso la prospettiva è rovesciata, ed è partendo dall’eccezionale normale dei singoli casi concreti che si compone una storia comune. Dalla trattazione emerge con chiarezza anche un altro aspetto dell’urbano, oltre alla natura dialettica che lo vede intrinsecamente definito dal rapporto con l’architettura che ne segna i confini, la struttura, le matrici; emerge cioè un’autonomia che, lungi dall’essere meramente tecnica e funzionale, assume un ruolo determinante nella rappresentazione mnemonica e sensoriale della città da parte del visitatore o dell’abitante. Prendete una fo­ tografia di un boulevard parigi­ no. Anche se non conoscete quella strada in particolare, in­ dovinerete subito in quale città si trova. Com’è possibile? In­ nanzitutto grazie alle architet­ ture che contornano strade e piazze […]. Ma ci sono altri ele­

menti, piccoli ed apparente­ mente insignificanti, che ugual­ mente servono a identificare le città e gli spazi ritratti nelle fo­ tografie. Ad esempio il modo in cui è realizzata la pavimenta­ zione: il manto stradale, il mar­ ciapiede, il cordolo ma, prosegue l’autore si può scendere an­ cora di più nel dettaglio, perché a contraddistinguere le città sono anche gli scoli dell’acqua, i tombini, le griglie di areazio­ ne, le indicazioni o scritte sulla pavimentazione. I singoli elementi sono affrontati con una dedizione e un’accuratezza che l’ampia Bibliografia testimonia, nonostante le difficoltà di reperimento di una documentazione soddisfacente ed approfondita in merito a qualche voce meno ‘nobile’. Alcuni capitoli più di altri possono esemplificare la complessità dei piani che ogni singolo frammento urbano è in grado di evocare. Nella sezione Microarchitettura, fra gli altri, emerge il capitolo relativo alla stazione della metropolitana. Dal celebre concorso parigino che vide affermarsi la proposta di un Hector Guimard ventitreenne, le cui fermate in ghisa ed in stile Art Nouveau sono oggi oggetto di salvaguardia, oltreché elemento iconico della capitale francese, si passa a Milano, in tempi più recenti, la cui immagine urbana deve molto al progetto rigoroso di Franco Albini e Franca Helg, in un perfetto connubio con la grafica di Bob Noorda. E non possono essere ignorate le più recenti esperienze di Bilbao, con le stazioni opera di Sir Norman Foster, e la grande operazione delle stazioni metropolitane di Napoli. La


narrazione piacevolmente condotta e la necessaria aneddotica non distraggono però dalla presa di coscienza dell’importanza del tema. E lo ricorda lo stesso autore: Nel suo libro Un etnologo nel metrò, del 1986, seguito nel 2006 da Il metrò rivisitato, l’et­ nologo e antropologo Marc Augé sottolinea come il mondo sotterraneo della metropolita­ na sia legato a quello della su­ perficie urbana da un’incoeren­ za solo apparente, e richiama l’attenzione del lettore sulle complesse associazioni storiche evocate anche solo dai nomi delle stazioni. Altro esempio di grande rilievo, collocato nella sezione ‘Oggetti’, è il monumento: il termine latino monumentum è derivato dall’unione del verbo monere (ricordare, ammonire) e dal so­ stantivo mens (pensiero, men­ te). Dalle origini dei monumenti funebri, passando per la lunga fase di celebrazione del potere, si approda dapprima alla svolta Illuminista che dedica il monumento anche ad altre personalità, pensatori ed artisti su tutti, per terminare, dopo una prima messa in discussione databile intorno all’inizio del XX secolo, quando il protagonista principale era lo spazio, e il monumento ne era solo un ornamento, alla crisi profonda affermatasi a seguito del primo conflitto mondiale, anticipata con acume da uno scrittore come Robert Musil. Da sempre la città è anche luogo di memoria. Essa racconta la pro­ pria storia e quella della comu­ nità che la abita. Questo vale anche per la città moderna, all’interno della quale i monu­ menti possono e devono trovare

il loro posto. Ma come per tutto nelle città, anche per i monu­ menti la scelta non può essere arbitraria e il posizionamento non può essere dettato dal caso o dal semplice fatto che in un determinato punto c’è ancora del posto libero. Il tono amareggiato di questa chiosa accomuna svariati capitoli del libro a denuncia non tanto, o non solo, di una scarsa attenzione al disegno urbano nell’ambito della contemporaneità, ma di una oggettiva difficoltà a cogliere il fenomeno urbano come unità plurisemantica e multiscalare. Si ribadisce cioè quanto affermato in precedenza, e che costituisce anche la latente intenzione del saggio, ossia che attraverso la narrazione di un sistema degli oggetti urbano se ne possa cogliere la dialettica nell’ambito di una ragione di grado superiore. Di assoluto interesse, poi, la connotazione politica di molti degli elementi urbani trattati nel testo, dimensione che non può non far pensare ad una microfisica del potere di foucaultiana memoria: ricorre spesso, tra le pagine, e non casualmente, la figura del prefetto George-Eugène Haussmann; significativi sono i tentativi dei funzionari del Terzo Reich di modificare le numerazioni civiche delle abitazioni per renderle più razionali e adatte alla grande capitale dell’Impero, Germania, come si sarebbe chiamata Berlino nei progetti hitleriani, oppure la battaglia sulla font dei cartelli stradali berlinesi; le recinzioni dei parchi londinesi diventano, non solo metaforicamente, le soglie ai lati delle quali si affrontano interessi privati e pubblica utilità, capacità di man-

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tenimento e cura del bene pubblico, educazione civica ed interessi commerciali; le Trinkhalle pensate in origine per offrire al popolo acqua potabile gratuita che ponesse fine ad un alcolismo generalizzato e socialmente problematico, furono avversate dal governo nazista per motivi di decoro del regime; le prime colonne per orinatoi pubblici a Parigi, sorte attorno al 1830, furono ben presto utilizzate a rinforzo delle barricate rivoluzionarie; infine non è possibile non citare l’ana­ lisi relativa all’orologio pubblico: Dal XVII secolo le meccani­ che divennero sufficientemente precise da permettere l’intro­ duzione della lancetta dei mi­ nuti. Ormai lo scorrere del tem­ po non era più scandito dalla religione, ma dall’economia. La società urbana, composta di commercianti ed artigiani, si emancipò dal potere ecclesia­ stico e l’orologio pubblico di­ venne lo strumento e il simbolo di quegli schemi temporali sempre più esatti che sarebbero diventati il presupposto del si­ stema di produzione e di mer­ cato capitalista. Come anticipato, la bibliografia è ampia e deve molto a manuali di costruzione e cultura dei singoli elementi. Costituiscono però un riferimento costante lungo tutti i capitoli tre opere fondative degli studi urbani quali: Mémoires sur les objets les plus importants de l’architecture, di Pierre Patte, del 1769; Les promenades de Paris, testo dell’ingegnere capo agli ordini di Eu­ gène Haussmann, Jean-Charles Adolphe Alphand, del 1867; Der Städtebau, manuale di urbanistica opera di Joseph Stübben, del

1890. Non mancano inoltre riferimenti a testi letterari e film, ormai patrimonio culturale comune, che hanno saputo leggere, forse meglio degli stessi architetti, i dettagli urbani come chiavi interpretative e talvolta propositive per la società, cogliendone spesso gli intrecci con ambiti altri rispetto alle precipue funzioni per cui erano stati pensati in origine. Il libro ha, in sintesi, il pregio di affrontare il comune, l’apparentemente ovvio quotidiano, destrutturandolo e ricomponendolo pagina dopo pagina, conferendo dignità a prodotti dell’agire umano che, paradossalmente, diventano invisibili proprio quando funzionali e adeguatamente progettati. E, come raramente accade, produzione e costruzione dei luoghi vengono qui affrontate unitariamente, in una dialettica comparativa che unisce storia del­l’architettura e storia urbana. F. T. M. Bottero (a cura di), Incursioni oltre il moderno. L’architettura di Umberto Riva, Éditions Cosa Mentale-Caryatide, Paris 2021. Pubblicato solo un mese prima della scomparsa dell’architetto e pittore Umberto Riva, avvenuta nel giugno 2021, il testo viene dichiarato dalla direttrice editoriale, Claudia Mion, come un boléro di idee, colori, forme luce. È un collage temporale e spaziale. È la sovrapposizione di tanti ritratti di Umberto Ri­ va. In un momento che conduce a puntare i riflettori sull’universo


creativo di una figura fondamentale del panorama architettonico italiano, il libro si propone come un’antologia critica, volta non tanto a consolidare la personalità e le opere dell’architetto quanto a diffondere la sua portata storica e culturale, riconosciuta troppo tardi dalla storiografia italiana e spesso sconosciuta all’estero. Tale intento è evidenziato e dimostrato dalla volontà di pubblicare i vari contributi tradotti in tre lingue, francese, inglese e italiano, rendendoli accessibili a un pubblico internazionale con lo scopo di fornire uno spunto a studiare la figura di Riva in modo ap­ profondito. I tre apparati critici, ciascuno in una delle suddette lingue, spezzano il flusso iconografico che si focalizza sulle principali opere di Riva alternando, in ordine cronologico, disegni tecnici eseguiti a mano dallo stesso architetto e custoditi al Canadian Centre for Architecture di Montreal – che ha ricevuto l’intero archivio Riva tra il 2014 e il 2016 –, foto d’epoca e attuali, pagine di riviste storiche come Domus e Zodiac – quest’ultima in particolare vede come capo redattore dal 1963 al 1974 la stessa curatrice del volume, Maria Bottero – e di pubblicazioni più recenti. La varietà del medium rappresentativo mira a trasmettere il polimorfismo della creatività di Riva. Il corpus di opere mostrate nel testo, considerate quali più significative in un arco temporale che va dal 1958 a oggi, è infatti appartenente al campo urbanistico, architettonico, pittorico e del design. Pur essendo la pubblicazione dichiaratamente un input provocatorio e non un’opera mono-

grafica sull’autore, è un peccato non abbiano trovato posto tra questi filoni anche le opere di allestimento, vero e proprio campo di prova di quel metodo sperimentalista che caratterizza il fare progettuale di Riva. Il cerchio entro cui è racchiusa la serie di contributi critici ha un perimetro delimitato dalle riflessioni storiche della curatrice sulla situazione pandemica attuale e sui disastri ecologici, a partire dalle quali essa arriva a definire il valore e la dimensione del paesaggio come naturale elemento percettivo di unità ecologica e vitale con la natura cui appar­ teniamo […] come luogo che cerchiamo nel mondo per dare forme e colori a qualcosa che è già in noi. Tali considerazioni non sono peregrine: offrono infatti un parallelo storico con la tabula rasa di cui parla Riva in corrispondenza dello scoppio della bomba di Hiroshima. Dal­ l’architetto stesso definito momento cruciale nella sua vita, tale evento è la radice di una riflessione secondo cui si può comincia­ re a lavorare o a dipingere solo essendo consapevoli dell’emoti­ vità di quanto si sta facendo: ci si sta creando le condizioni per vivere. Suddetto perimetro, determinato dall’accezione di paesaggio come «spazio della vita», diventa anche involucro di una «triangolazione», cara a Riva, di paesaggi entro i quali il lavoro dell’architetto è mostrato dai critici: paesaggio urbano, domestico e pittorico. La prefazione di Bottero, vademecum schematico e organizzato per concetti chiave, anticipa gli argomenti ricorrenti nei vari saggi con cui è approcciata la fi-

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gura di Riva: la formazione, i maestri, la pittura, l’architettura, il design, le ideologie, il metodo. I contributi – che di fatto sono stralci di interviste e una selezione di testi estrapolati da volumi, cataloghi e riviste pubblicati tra il 1989 e il 2015, oggi quasi tutti fuori stampa – sono accorpati in due assi tematici: il primo indaga il rapporto tra architettura, materia, luogo e paesaggio, il secondo si focalizza invece sull’interrelazione tra architettura, pittura, geometria e colore. Il primo testo, quello di Bottero (1989), è fondamentale per la prospettiva che la curatrice apre sul modus operandi di Riva e grazie alla quale è più semplice comprendere anche gli interventi successivi. Essa parla di un metodo di lavoro libero da prefigurazioni, modelli e preconcetti, un metodo empirico e «a posterio­ ri» […] un processo poietico di continui aggiustamenti […] un processo progettuale che sposta l’accento sulla materialità del fare e sull’importanza del det­ taglio costruttivo e tecnologico preferendo la sperimentazione alla speculazione. Un metodo per approssimazioni, ripensamenti e approfondimenti sulla materia e sulla forma che Riva ricava dal suo maestro Carlo Scarpa. Da quest’ultimo egli desume anche l’idea del «non finito», di un’evoluzione progressiva nel tempo, o più precisamente di una «progettazione aperta come stratificazione» di segni, che si relazionano nel disegno e trovano un loro contrappunto nella percezione dell’immagine costruita. Tale metodo, che Riva usa tanto in architettura quanto in pittura, produce «sequenze nar-

rative che si generano dalla soluzione del dettaglio». È in que­ st’ottica che Bottero prosegue analizzando alcune delle principali opere dell’architetto tracciando ricorrenze e variazioni tematiche. Mirko Zardini, partendo anch’egli dall’evidenza di un occhio sensibile al dettaglio e di un approccio al progetto che si trasforma in una continua rimessa in discussione, individua nel suo testo (1993) come le opere di Riva siano operazioni di «decostruzione e ripensamento degli elementi […] manipolazione di certe componenti degli edifici» dove «l’immagine, il tipo, il carattere sono messi radicalmente in questione». Ciò riconfigura completamente la percezione dell’abitante di usuali paesaggi urbani e domestici, ora convertiti in paesaggi abitati sensibilmente provocatori e sorprendenti. Nel suo saggio (1993), Pierluigi Nicolin afferma che sono proprio questi capovolgimenti e queste deformazioni, [come] prodotto di un’interpretazione fenomenologica dello spazio […] [dove] gli elementi che compongono la spazialità de­ scrittiva di Riva (porte, fine­ stre, pareti, pavimenti, tetti) vengono investiti da inaspetta­ te tensioni, che creano attrito nella comprensione dell’opera dell’architetto e lo rendono a lungo «una figura patologicamente marginale». Ugualmente Francesco Cellini, in un testo (1993) che esamina quattro casi di restauro urbano «praticato innovando ed inventando» – la diga e la discesa al mare di Castellammare, lo spazio pubblico di Vita, lo sperone del Guasco a Ancona, piazza San Nazaro a Milano – ri-


conosce come filo conduttore tra essi un fare progettuale di Riva in grado di modificare la percezione e la fruizione dei luoghi: i suoi progetti ci spiegano le nascoste qualità delle cose, le illustrano, ce le fanno capire. […] Progetti fatti di poche cose, minimalisti­ ci, economici, pragmatici, amo­ rosi, attenti, rispettosi della profonda realtà delle cose, ma anche capaci di trasformarle senza complessi, di riconnetter­ le, di risignificarle. Progetti ca­ paci cioè di essere restauro nel senso più profondo del termine: restauro dell’uso del senso, del­ la vita della civiltà. Come questi luoghi urbani sono dimostrazione di un progetto che si rispecchia nella realtà sia fisica che percettiva di un paesaggio, allo stesso modo gli edifici e gli interni di Riva aspirano alla relazio­ ne piuttosto che all’identità: aspirano a disegnare un pae­ saggio […] per cui ogni elemen­ to o oggetto è disposto a cedere parte della propria identità a favore dell’unita formale del­ l’insieme. Così, analizzando Casa Insinga, Casa Frea e il negozio di Padova, Marco Raposelli evidenzia nel suo testo (2007) questa intricata rete di relazioni dove ogni dettaglio acquista significato come parte di una sequenza volta a «trasformare un inerte vuoto in uno spazio teso ed intenso, amplificarne i limiti». Una ricerca progettuale fondata quindi sulle percezioni e sulle sensazioni che si riflette anche nell’opera pittorica. Giovanni Raboni, nel saggio estrapolato dal testo di accompagnamento alla mostra sulla ricerca pittorica di Riva (1997), parla di un’immagine di un pae­ saggio che muta incessante­

mente senza mai mutare […] A scovarla, quel­l’immagine, è sta­ to soprattutto il sentimento. Viene evidenziata pertanto una connessione tra campo architettonico e pittorico che per Bottero stabilisce una serie di rimandi reciproci in grado di potenziare la ricerca progettuale. Lo stesso Raboni, indagando il rapporto tra le due discipline, parla di un legame paratattico, ossia una com­ plessa, sottile trama di relazio­ ni, convergenze e scambi reci­ proci […] una completa, asso­ luta complementarità. Connessione confermata dallo stesso Ri­ va nel testo che riporta la sua intervista con Marco Romanelli in­ centrata proprio sul collegamen­ to architettura-pittura (1997): ho fatto l’architetto trasformando­ lo il più possibile in un mestiere che avesse attinenza con la pit­ tura, con il disegno. Non solo per la resa che do ai progetti […] ma proprio nell’approccio alla forma architettonica. Il mio modo di capire l’architet­ tura passa attraverso un pro­ cesso di visualizzazione che ve­ rifica, appunto nel disegno, le ipotesi del progetto. Disegno che, anche per Mirko Zardini, nel testo estratto dalla presentazione della mostra Rooms You May Have Missed (2015), risulta essere uno strumento fondamentale della progettazione di Riva e testimonianza degli echi formali, metodologici e processuali tra pittura e architettura: gli schemi irre­ golari e angolari sviluppati nelle pitture permettono a Riva di definire e ridefinire spazial­ mente appartamenti e case tra­ sformando vincoli banali in parti significative di un più grande insieme.

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Le fila di tutti i contributi sono tenute dall’intervento finale della curatrice che, in postfazione, riassume – utilizzando la stessa struttura della prefazione – i concetti chiave più metodologici che contenutistici, a riprova del fatto che i due assi di ricerca inizialmente menzionati non corrono in parallelo ma si compenetrano in un metodo progettuale come poiesis. A completare la ricercata «immagine critica dell’arte di Riva» e per comprenderne il grado contemporaneo di ricezione e consapevolezza, mancano forse alcuni testi più recenti di autori che si sono cimentati nell’interpretazione dell’operato dell’architetto ma, attraverso questa prospettiva, il testo permette comunque la creazione di una visione di Umberto Riva e delle sue opere derivata dalla coralità delle voci in gioco, dei critici e di Riva stesso. C. D’A. B. Bonfantini, I. Forino (a cura di), Urban Interstices in Italy. Design Experiences, Let­ teraVentidue, Siracusa 2021.

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Urban Interstices in Italy. Design Experiences indaga le identità degli interstizi urbani contemporanei, individuando un numero considerevole di esperienze progettuali (settanta casi) che hanno interessato parchi, giardini pubblici non utilizzati, spazi degradati, aree vuote e marginali di piccole, medie e grandi realtà urbane in Italia. Come evidenzia Sergio Lopez-Pineiro nel testo introduttivo, è a partire dalla seconda metà del secolo scorso che inizia a for-

marsi la consapevolezza dell’esistenza e della diffusione di luoghi, per lo più di piccole dimensioni, che sfuggono alle maglie della pianificazione ufficiale e che sono esclusi dalle dinamiche formali e dai dogmi dell’architettura. Si tratta degli esiti imprevisti di zonizzazioni, di eccezioni o di spazi residui creati da azioni progettuali macroscopiche che avanzano, sia nel tempo che nello spazio, in modo discontinuo. Anche la dismissione di servizi e di attività produttive a seguito di crisi economiche e sanitarie, rileva Bertrando Bonfantini, ha prodotto – e tuttora produce – un numero crescente di non-luoghi urbani e di vuoti diffusi, che corrodono dall’interno la città. Pur riconoscendo l’esistenza di simili terrain vague, scrive Lopez-Pineiro, non è tuttavia semplice provare a immaginare una loro trasformazione. Diversamente da quanto accade per la pianificazione e per il disegno dei «pieni», è necessario infatti soffermarsi sulla loro ambigui­ tà, resistere alla tendenza all’astrazione o al tentativo di riferirsi a criteri estetici già noti; infine è importante cercare di «catturare l’assenza che essi rivelano». Questi «vuoti», dunque, non solo possono emergere con forza dai piani urbani – si pensi al masterplan per Melun Senart (1987) proposto da OMA e Yves Brunier o alla mappa di Roma tracciata dal collettivo Stalker nell’ottobre 1995, dove i territori attuali, ovvero le aree abbandonate, metamorfiche e marginali, penetrano come un grande magma e attraversano gli spazi noti e codificati della capitale –, ma essi possono e devono anche esse­


re progettati. Esemplare, in questo senso, è ancora l’approccio puntuale che ha dato origine al ridisegno reiterato e sistemico degli «spazi rarefatti», ovvero poveri di elementi, di attività e di significati, nelle città di Barcellona e Lione tra gli anni Ottanta e Novanta. Instaurando una ideale continuità con queste esperienze, che hanno contribuito a spostare l’interesse da un tipo di progetto normativo e fisso a uno aperto e versatile, e con le numerose fonti citate e ben illustrate all’interno della bibliografia annotata, il libro Urban Interstices in Italy si propone dunque di indagare l’aspetto «episodico e accidentale» degli interstizi e «l’irriducibile individualità che appartiene al loro disegno». Dalla riflessione su una condizione universale del progetto, l’attenzione scivola verso il particolare, dalla «mondializzazione» – per riprendere un celebre e denso termine di Jean Baudrillard – si va verso la singolarità, da un’architettura che impiega enormi quantità di energia e risorse si passa, piuttosto, alla ricerca del­ l’autonomia, della leggerezza, del­l’azione momentanea. E proprio quei luoghi che costituiscono in genere lo sfondo sfocato delle (grandi) opere, e dunque abitualmente non vengono considerati o sono persino nascosti allo sguardo – poiché, come sostiene Lucius Burckhardt, quantunque il singolo progetto non preveda un resto, nel punto di contatto con il progetto adiacente un resto si viene sempre a creare –, qui diventano il fulcro della ricerca e dell’invenzione progettuale. Muovendo da un principio com-

positivo che, per citare de Ignasi Solà-Morales i Rubio, può essere considerato debole, gli interventi considerati formano un interessante arcipelago che mette in luce non tanto l’aspetto risolto, positivista dell’architettura, ma che interroga piuttosto la forma «arresa» delle aree non pianificate. È, si può dire, un’altra forma di radicalità, quella che ci viene proposta dai casi studio e, soprattutto, dai testi che danno inizio a ciascuno dei cinque capitoli di Urban Interstices in Italy. Gli spazi interstiziali si trasformano, di volta in volta, da siti indefiniti in contenitori di sinapsi urbane e sociali, dove micro-interventi si sovrappongono e sovrascrivono realtà esistenti per introdurre nuovi significati, in spazi-soglia, nei quali è possibile instaurare inedite relazioni con altre presenze urbane, in stanze verdi, che – scrive Imma Forino – supporta­ no la vita di persone, animali e piante e diventano preziose occasioni di incontro all’aria aperta, in punti di connessione e attivazione di nuove geografie, sospese tra spazio fisico e di pensiero, in contenitori di dispositivi effimeri, per i quali è possibile e necessario identificare nuove me­ todologie di progetto. Il racconto per immagini di Marco Introini e l’analisi di azioni formali e informali, mappate e approfondite anche grazie a brevi dialoghi con gli autori dei progetti selezionati (curati da Michela Bassanelli e Madalina Ghibusi), conducono il lettore ben dentro alla trasformazione dei luoghi, portandolo a soffermarsi sulle dinamiche che consentono di estrarre il potenziale per lo sviluppo di nuovi processi e forme

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urbane. Così spazi che sono inizialmente senza nome e non hanno finalità precise – dove quindi l’identità può essere facilmente assorbita dall’ambiente limitrofo – si aprono alla possibilità di rigenerazione, spesso grazie a interventi semplici, essenziali. Viene in mente, a tal proposito, una immagine più volte citata da Bernard Lassus per spiegare l’essenza delicata e potente del «progetto minimo»: in un calice di papavero rosso è sufficiente inserire una piccola striscia di carta bianca perché questa, dopo pochi secondi e senza alcuna ulteriore modifica, riceva il colore rosso. Analogamente, alcuni degli spazi presi in considerazione si avvalgono di poche interazioni – create anche solo nel breve tempo di un workshop – e cambiano grazie a lievi gesti – come il tracciare una linea grafica a terra o il disporre, all’ombra di una pergola, sedute ricavate da materiali di recupero. Nel caso di progetti di spazi espositivi vissuti o, meglio, interpretati dalla cittadinanza, o di programmi nei quali la parte principale è costituita dalla cura attiva del luogo e dalla sua manutenzione nel tempo, il ruolo del progettista e quello dei fruitori chiaramente si sovrappongono. Tutti i casi illustrati nel libro infine attuano un mutamento concreto, ma anche, e soprattutto, suggeriscono un cambiamento di visione per chi di questi luoghi fa esperienza, innescando da un lato una forma di «impegno» progettuale che risiede soprattutto nell’osservazione, come scrive Jacopo Leveratto, e dall’altro provocando una visione fluida del reale, che Pierluigi Salvadeo

definisce efficacemente come «filmica», in grado di catturare […] gli aspetti più eterogenei dello spazio urbano. L’eterogeneità del tema trattato in Urban Interstices in Italy si evince, coerentemente, anche dalla struttura del libro: i cinque approcci presentati dagli autori e il conseguente approfondimento di aspetti diversi e, a volte, alternativi degli spazi interstiziali – insieme alla restituzione critica dei progetti attraverso immagini, schede e mappe sintetiche – ci autorizzano ad aprire traiettorie di lettura che non devono necessariamente seguire percorsi lineari o proseguire dall’inizio alla fine del testo, e permettono invece anche sguardi orizzontali, obliqui, frammentati. In un momento storico in cui urbanizzazione incontrollata, crisi ecologica, cambiamento climatico e processi di esclusione sociale, politica, economica e culturale costituiscono alcune delle sfide che ci portano a interrogare con forza il senso dell’azione progettuale e la sua dimensione, sollevando enormi questioni di carattere non solo (e non tanto) tecnico, ma anche e soprattutto sociale e culturale, il tentativo di fornire risposte che capovolgano il destino di alcuni tra gli spazi che «sono tra i più potenti mezzi di distanziamento ed esclusione» trasmette insieme una spinta a rinnovare il significato del progetto urbano e una idea profonda di accoglienza. Come sottolineato da Ali Madanipour, lo spazio pubblico può tornare a essere luogo di innovazione e speri­ mentazione, di espressione libe­ ra, di protesta e dibattito, di eventi politici e culturali e pro-


prio gli interstizi urbani possono offrire in questo senso nuove occasioni per realizzare spazi aper­ ti, accessibili e inclusivi. C. P. Jago. The exhibition, a cura di M.T. Benedetti, Palazzo Bonaparte, Roma, 12 marzo - 3 luglio 2022. Dopo due anni di pandemia, Palazzo Bonaparte apre le porte e ospita dal 12 marzo al 3 luglio 2022 la prima grande mostra dedicata a Jago, scultore italiano di fama internazionale noto per il suo stile figurativo e per le straordinarie capacità comunicative. L’esposizione, prodotta e organizzata da Arthemisia, celebra il processo creativo di un giovane artista dalla personalità dirompente, che guarda ai modelli del passato ma senza tentare in alcun modo di imitarli. La mia scultu­ ra è lingua viva. Utilizzare una lingua non significa copiarla. Mi riconosco in un linguaggio e lo adotto: sento l’esigenza di re­ alizzare un collegamento con quello che vedo, senza spirito di emulazione. Jago si cimenta infatti nell’utilizzo del marmo, un materiale notoriamente legato alla tradizione, che ha raggiunto le sue più alte potenzialità espressive con grandi artisti del passato, quali Michelangelo o Canova e tuttavia il suo lavoro scardina l’idea dell’esistenza di una scultura ‘anacronistica’, mettendo in luce la forte potenza evocativa che essa assume ancora oggi. La mostra è introdotta da un breve video in cui Maria Teresa Benedetti, curatrice della rasse-

gna, descrive la figura dell’artista: figlio dei tempi dei social network, egli intuisce le potenzialità della condivisione dei processi creativi e del coinvolgimento attivo di chi osserva le sue opere, ma al tempo stesso avverte un forte legame con la storia, pur senza adottarlo fino in fondo. Il percorso espositivo parte con la ‘sala dei sassi’, ambiente che racconta degli esordi di Jago: egli, non potendo permettersi ancora blocchi di marmo, sceglie di utilizzare grandi sassi che il corso del fiume Serra in Toscana aveva levigato, riconoscendo in essi forme potenziali, invisibili a chiunque altro. È qui che si trovano opere come Excalibur, Sphynx e Memoria di sé, da cui si evince subito la sensibilità di Jago per le tematiche del suo tempo e la capacità di ridurre la com­ plessità all’essenza. Molte di queste opere d’esordio risultano essere degli autoritratti, in cui si riconosce tuttavia non tanto una volontà di autocelebrazione, quanto quella di una continua ricerca e indagine su se stesso prima che sul mondo circostante. È evidente e manifesto in queste opere il processo di sottrazione di materia che caratterizza la lavorazione del marmo e che nel caso di Jago svela concetti e temi della contemporaneità con un’onestà disarmante. Alcune immagini diffuse da uno schermo accompagnano la visita e raccontano di un giovane scultore che sin da subito sente l’esigenza di registrare e condividere le immagini delle principali fasi del proprio lavoro: è solo il primo dei contenuti multimediali che arricchiscono il percorso espositivo e favoriscono l’interazione tra visita-

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tore e artista. Il legame con il mondo è fortissimo: guardo a ciò che mi circonda, dò ad esso forma e lo condivido. Il secondo ambiente è quello che più coinvolge i sensi: l’audio profondo del battito di un cuore accompagna il visitatore nella scoperta di Apparato Circolatorio. Si tratta dell’unica opera in ceramica esposta, in cui l’artista ferma in trenta sculture dalle modeste dimensioni le fasi del battito cardiaco, per poi ricomporle attraverso uno stopmotion proiettato in loop su tre schermi. Le trenta opere all’apparenza simili, ma in realtà tutte diverse, sono esposte in circolo su piedistalli rosso-sangue e sembrano ricordare a tutti il senso di comunità e partecipazione necessari per la realizzazione di uno scopo condiviso. Questa stanza filtra il passaggio alla seconda parte della mostra, che vede al centro le opere in marmo che meglio esprimono il talento e le finalità del giovane artista: ad ognuna di queste è riservato un ambiente, allestito ad hoc per esaltare l’esperienza immersiva dell’esposizione. La prima scultura marmorea in cui ci si imbatte è Habemus Hominem: si tratta di un busto di Papa Benedetto XVI. Quest’opera, nota precedentemente come Habemus Papam, fu realizzata nel 2009 su commissione del Vaticano, ma non venne accettata poiché non rispettava i canoni prestabiliti. Tuttavia nel 2016, in seguito alle dimissioni del pontefice, Jago sente di dover rappresentare questo evento con un gesto altrettanto radicale: decide dunque di spogliare il busto del papa emerito e di rivelare la nu-

dità dell’uomo che il blocco di marmo e le vesti papali avevano celato per lungo tempo. La scultura è immersa nell’oscurità della sala, illuminata da un teatrale ‘occhio di bue’ che esalta la rappresentazione della pelle, di cui Jago è maestro. Di fianco, un reliquiario espone i frammenti di marmo, residuo del processo di trasformazione dell’opera e metafora dell’evento a cui è legata. Sul soffitto di questo ambiente, distesi su un lungo divano, possiamo osservare la proiezione del video che documenta il gesto di svestimento del busto. Il percorso espositivo procede poi con una infinity room in cui è esposta la Venere: le pareti, interamente rivestite di specchi, riflettono una moltitudine infinita di immagini della scultura e dell’osservatore, reso partecipe di un momento di intimità. In que­st’opera Jago racchiude un’inedita femminilità senile che rompe gli schemi classici e comunica una sensualità senza età e senza tempo. Usciti da questo spazio, si entra in quello cosmico di First Baby, un feto marmoreo di duecento grammi che l’astronauta Luca Parmitano ha portato con sé nella missione Beyond dell’ESA e fotografato in assenza di gravità con l’orbita terrestre che fa da sfondo. Nelle ultime due sale riecheggia forte l’eco dell’esperienza napoletana di Jago: egli infatti nel 2020 sceglie di tornare in Italia da New York e di passare un periodo della sua carriera nella città di Napoli, da lui definita il regno dello spontaneismo, dove ad ogni passo succede tutto e il contrario di tutto.


Per la città di Napoli, Jago realizza il Figlio Velato, reinterpretazione contemporanea dell’iconico Cristo Velato del Sammartino: il soggetto, stavolta, è un bambino che reca i tipici segni dell’annegamento, metafora drammatica di mancati approdi. L’inevitabile confronto con l’opera settecentesca si traduce tuttavia in una riuscita citazione che non lascia spazio a critiche, ma solo a nuove interpretazioni. Durante il soggiorno napoletano, Jago installa il suo laboratorio nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, all’ingresso della Sanità: qui, durante i mesi della pandemia, l’artista scolpisce la sua Pietà, con l’intento, purtroppo mai concretizzato a causa dell’epidemia, di realizzare una mostra-laboratorio durante la quale poter osservare il processo di realizzazione di quest’opera. Il soggetto, di ispirazione michelangiolesca, è privato della religiosità e adattato alle atrocità della guerra, ispirandosi l’artista

a una fotografia iconica del conflitto in Siria, in cui un padre sorregge il corpo ormai inanimato del giovane figlio. Queste due opere sono esposte nelle sale di Palazzo Bonaparte che affacciano su piazza Venezia e recano dunque come sfondo l’Altare della Patria, a dimostrazione che è possibile realizzare opere contemporanee che non siano in contrasto con la tradizione. In definitiva, l’esposizione pre­ senta il lavoro di Jago senza limitarsi a progettare la contemplazione delle sue sculture, ma favorendo l’interazione tra artista e osservatore. Le opere dell’autore laziale, infatti, sono vere e proprie performance artistiche che, seppur apprezzabili per le qualità formali già attraverso una mera osservazione, acquistano ulteriore valore e significato alla luce del processo che ha portato alla loro creazione. P. B.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre


N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre


N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre


N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre


N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre


N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre


N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre


N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre


N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradig-


ma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 164. Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia - Arte di ieri, oggi e forse anche domani - L’arte del XXI secolo - Il Teatro grottesco di Mejerchol’d - Industrialismo e archeologia industriale - Convergenze tra design e bioscienze - Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre


N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e mul­ticulturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre N. 168. Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa - Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre N. 169. Chi parla inventa e chi ascolta indovina - Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Moderno - Soglie critiche. Sulla trasformazione come perdita e recupero Tra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre N. 170. L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design - La città in quanto software - Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura - New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza - Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein - Il lato buono degli Scandinavi - Bisogni e desideri - Libri, riviste e mostre N. 171. Dall’industrial design all’interaction e social design - Il pensiero come corpo. Per una concezione empatica dell’architettura - Soft skills e consapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? - Teoria e pratica del dissenso in Giovanni Klaus Koenig - Arte Ricerca Scienza: per una visione palindroma della conoscenza - Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) - Ambientalismo e Design - Libri, riviste e mostre N. 172. Landmark e patrimonio: architetture tra cronache e storia - Pas de tubes? Corpi moderni e infrastrutture domestiche - Interno parallelo e continuo. Il Manierismo nel Barocco - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - La ferrea delicatezza. Il cammino di Muky attraverso arte, poesia e socialità - Libri, riviste e mostre N. 173. L’esperienza della soglia: progetto minore per luoghi-di-non - Roma protorazionalista - Ambientalismo e Design - Oltre il quadrifoglio - Esperienze di coabitazione. Inclusioni spaziali, sociali e di genere alla XVII Biennale di Venezia - Libri, riviste e mostre


Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli



ISSN 0030-3305

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