Op. cit. 170

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ISSN 0030-3305

gennaio 2021

numero 170

L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design - La città in quanto software Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura - New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza - Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein - Il lato buono degli Scandinavi - Bisogni e desideri - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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Selezione della critica d’arte contemporanea


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M. Zambelli

L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design 5 A. Ariano La città in quanto software 15 M. Pone Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura 25 A.L. De Simone New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza 38 E. Bistagnino, Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design 47 C. Pirozzi Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere 69 G. De Fusco Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein 79 L. Chimenz M.B. Spadolini Il lato buono degli Scandinavi 88 G. Cutolo Bisogni e desideri 99 Libri, riviste e mostre 106

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michela Bassanelli, Renato Capozzi, Alessandro Castagnaro, Santo Giunta, Luca Guido, Alberto Terminio.



L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design MATTEO ZAMBELLI

Pensare da progettisti? Bryan Lawson, studioso di design methods laureato in architettura e psicologia, ha condotto un esperimento per verificare se ci siano delle differenze nel modo di pensare degli architetti rispetto agli studiosi di discipline scientifiche e, in caso positivo, se queste differenze riflettano lo stile cognitivo delle persone o se, al contrario, rispecchino il tipo di formazione che viene loro impartita a livello universitario [B. Lawson, How Designers Think. The design process demystified, Architectural Press, Oxford 2006, pp. 41-44].

Per riuscire a rispondere ai due interrogativi, Lawson ha ideato un esperimento finalizzato alla soluzione di un problema senza che i soggetti coinvolti (studenti dell’ultimo anno di architettura e studenti universitari di materie scientifiche) avessero la necessità di possedere competenze specialistiche per poterlo risolvere. A tutti venivano dati dei blocchi modulari di legno, di forme geometriche e colori diversi, in numero superiore a quello necessario per formare un parallelepipedo a base rettangolare di 3 × 4 unità. Le facce verticali erano colorate di rosso e di blu, mentre quelle orizzontali di bianco e di nero. Ai soggetti veniva chiesto di costruire il perimetro verticale del parallelepipedo in modo che fosse il più rosso o il più blu possibile; il compito veniva complicato dall’introduzione di alcune regole combinatorie nascoste (variate per ogni ripetizione del problema) che norma-

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vano le possibili relazioni tra i blocchi. Per evitare che i soggetti fossero in qualche modo intimiditi dai valutatori, i partecipanti all’esperimento risolvevano i problemi al computer, ed era ancora il computer a proporre i diversi problemi e a confermare se la soluzione proposta fosse ammissibile. Il risultato della ricerca fu sorprendente, perché confermava l’intuizione di Lawson: le due tipologie di soggetti utilizzavano strategie risolutive completamente diverse. Gli studenti di materie scientifiche adottavano una tecnica finalizzata a provare una serie di combinazioni in modo da utilizzare il più rapidamente possibile il maggior numero di pezzi, cercavano così di massimizzare le informazioni sulle combinazioni consentite e nel momento in cui scoprivano la regola nascosta, solo allora impiegavano le combinazioni capaci di ottimizzare il colore del perimetro del parallelepipedo. Gli studenti di architettura, invece, selezionavano i blocchi in modo da risolvere subito il problema e, se una combinazione non funzionava, passavano a un’altra fino a trovare quella giusta. Secondo Lawson, l’esperimento dimostrava che gli scienziati sono orientati a capire le regole che governano un fenomeno, mentre gli architetti sono ossessionati dal risultato, perché è questo che gli viene chiesto, non la definizione di metodo universalmente applicabile. Lawson ha interpretato una simile differenza affermando che gli scienziati adottano strategie orientate al problema, mentre gli architetti alla soluzione [Ivi, p. 43]. Oltre a dimostrare la diversità dell’approccio al problem-solving l’esperimento metteva in luce un’altra questione, quella relativa al rapporto fra analisi e sintesi, perché risultava che gli studenti di architettura, a differenza di quelli di materie scientifiche, conoscevano il problema attraverso dei tentativi finalizzati a proporre delle soluzioni piuttosto che attraverso uno studio deliberato e separato del problema stesso [Ivi, p. 44]. Per quanto riguarda la risposta alla seconda domanda, Lawson ha riproposto lo stesso esperimento però coinvolgendo studenti di architettura neo-iscritti e studenti all’ultimo anno di diversi tipi di scuole superiori. Entrambi i gruppi si sono dimostrati molto meno abili nel risolvere i problemi e non sono emerse strategie comuni e coerenti. Quindi, la risposta alla seconda domanda è che il tipo di


approccio messo in atto per risolvere un problema dipende dagli studi intrapresi; è questo che rende gli studenti di architettura diversi dagli studenti di altre materie, in particolare quelle scientifiche, non gli stili cognitivi della persona. Problemi ‘ben definiti’ e ‘mal definiti’ Per quale ragione gli architetti vanno dritti alla soluzione? Perché la progettazione e il design risolvono problemi mal definiti. Nel problem-solving si distingue fra ‘problemi ben definiti’ e ‘problemi mal definiti’1. Sono ‘ben definiti’ i problemi enigmistici, di aritmetica, di geometria e, in una certa qual misura, quelli di chimica. ‘Ben definiti’ sono i problemi chiaramente formulati, ovvero quando siamo in grado di rappresentarci senza ambiguità gli stati iniziali, i finali e quelli intermedi. Inoltre le trasformazioni che portano da uno stato all’altro devono essere non solo chiare, ma anche controllabili, ovvero ci deve essere un criterio per sapere se la differenza tra due stati è stata superata e se ci stiamo avvicinando alla soluzione finale [E. Arielli, Pensiero e progettazione. La psicologia cognitiva applicata al design e all’architettura, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 104]. Un esempio di problema ben definito è calcolare l’area di un quadrato. I problemi mal definiti sono tutti quelli che rappresentano l’esatto opposto. A tal proposito Herbert Simon2 fa l’esempio di un architetto che deve progettare una casa, un tipico problema mal definito perché il compito iniziale dà troppo poche specificazioni (le richieste del cliente e la vaghezza delle sue idee ed esigenze) e il numero di possibili soluzioni è infinito. Inoltre non tutti gli effetti di una mossa e delle soluzioni ideate sono controllabili: spesso la bontà del prodotto finale è valutabile solo una volta che è stato realizzato. Può succedere per esempio che la focalizzazione su certi aspetti e vincoli faccia perdere di vista altri fattori, generando imperfezioni [E. Arielli, op. cit., p. 104]. La differenza fra i problemi ben definiti e mal definiti può essere spiegata con l’esempio del gioco degli scacchi. Il gioco degli scacchi è un problema ben definito, perché le condizioni di

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partenza sono sempre le stesse, le mosse consentite sono definite ed è chiaro quando un giocatore ha vinto (o c’è una patta). Il modo in cui si può dare forma ai pedoni, al contrario, è mal definito, perché la gamma di soluzioni possibili è praticamente infinita3. Algoritmi vs euristiche Se nell’ambito del problem-solving si distingue fra problemi ben definiti e mal definiti, a questa distinzione ne segue un’altra: quella fra algoritmi ed euristiche. Gli algoritmi vengono utilizzati per risolvere i problemi ben definiti. Sono procedure di calcolo che dopo un certo numero di passaggi assicurano il raggiungimento del risultato corretto. Le euristiche vengono utilizzate nell’ambito dei problemi mal definiti. Diversamente dagli algoritmi, non sono sistematiche, sono procedure rischiose che possono portare all’insuccesso e, ovviamente, vengono applicate quando non ci sono algoritmi disponibili, come nel caso dell’architettura e del design, e nei processi artistici in genere. Peter Rowe – autore di Design Thinking [The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, London, England, 1987], un testo pioniere nell’ambito dei design studies – afferma che per affrontare un problema mal definito sono necessarie alcune intuizioni iniziali e l’impiego di un qualche insieme provvisorio di regole o di strategie plausibili, ovvero la messa in atto di un ragionamento euristico [Id., A Priori Knowledge and Heuristic Reasoning in Architectural Design, in «Journal of Architectural Education» vol. 36, n. 1, 1982, p. 18]. Nel recente Design Thinking in the Digital Age, Rowe pro-

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pone le seguenti definizioni di euristica: per Newel, Shaw e Simon un’euristica è ‘qualsiasi principio, procedura o altro strumento che contribuisce alla riduzione finalizzata alla ricerca di una soluzione soddisfacente nello spazio del problema’. O, dando meno enfasi al risultato, secondo David Perkins […] ‘un’euristica è la regola del pollice che spesso aiuta a risolvere una certa classe di problemi, ma che non offre garanzie’. Il matematico György Pólya dà una definizione ancora più semplice: le euristiche sono ‘procedure provvisorie utili


per risolvere un problema’. Quindi, il ragionamento euristico è un processo di problem-solving dove non si può sapere in anticipo se una certa sequenza di passi o di decisioni porterà a una soluzione soddisfacente. Inoltre, la qualità di questo risultato non potrà essere completamente valutata fintantoché la linea di ragionamento non sia stata completata [The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, London, England 2017, pp. 31-35]. Emanuele Arielli descrive le euristiche come regole imperfette, [op. cit., p. 104] utilizzate perché consentono analisi e decisioni semplificate, e come regole d’uso pratiche che non aspirano ad affrontare un problema in tutti i suoi aspetti, ma a offrire soluzioni collaudate [Ivi, p. 117]. Il designer ricorre quindi alle euristiche per riuscire a sondare lo spazio del problema mal definito della progettazione. Il designer non solo esplora lo spazio del problema, ma attraverso le euristiche lo circoscrive, lo riduce e gli dà struttura. Le euristiche convertono i problemi mal definiti in problemi gestibili; sono fondamentali per minimizzare lo spettro delle scelte praticabili così da evitare la paralisi per le troppe possibilità e consentire di dare avvio al processo progettuale seguendo una linea guida. Utilizzare un’euristica significa discriminare preventivamente fra gli infiniti possibili che, se non venissero ridotti, porterebbero alla stagnazione ideativa: le euristiche sono la finestra arbitrariamente delimitata attraverso la quale inquadrare lo spazio del problema. Esse possiedono caratteristiche apparentemente contraddittorie: devono essere orientate ma sufficientemente vaghe e imprecise. All’inizio operano selettivamente, per delimitare il campo del problema, poi possiedono un effetto moltiplicatore all’interno dello spazio del problema ormai circoscritto. La loro azione sembra incoerente, nel senso che da principio riducono, riuscendo a organizzare o facendo emergere dal magmatico magazzino della memoria del progettista alcuni materiali appena predisposti, dopo di che diventano un catalizzatore-moltiplicatore capace di suscitare questioni nuove (ovviamente all’interno del percorso vagamente predisposto e articolato nella prima fase), di attirare nuove relazioni strutturate fra pezzi di conoscenze che giacciono ancora immerse nella memoria del progettista e quindi di guidare il progetto alla sua conclusione.

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L’elezione di una specifica euristica porta a un’aporia, perché da una parte la sua scelta è un atto del progettista pressoché arbitrario (difficile da spiegare, se non a posteriori), autoimposto, autosufficiente, rispondente solo a se stesso, dall’altra, l’elezione di una certa euristica può dipendere dall’esperienza passata. In questo caso l’euristica fornisce ‘l’esperienza contestuale’, ossia la conoscenza di ciò che è ragionevole utilizzare in un determinato contesto. Le euristiche sono fondamentali sia per dare avvio alle prime fasi del processo di progettazione, attraverso l’identificazione di un concept, sia per governare l’intero iter, dando coerenza e ‘logica’ a tutte le scelte. Una fantastica euristica: l’analogia Un’euristica potente per dare avvio al processo progettuale e guidarlo nelle sue diverse fasi è l’analogia. L’analogia permea tutto il nostro pensiero, ogni nostro discorso e qualsiasi nostra semplice conclusione, così come i modi artistici di espressione e le più grandi conquiste scientifiche [cit. in K.J. Holyoak, P. Thagard, Mental Leaps. Analogy in the Creative Thought, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, London, England, 1999, p. 13]. L’a-

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nalogia si basa sulla mappatura di relazioni fra due domini, che possono essere anche molto distanti tra loro. L’analogia consente di comprendere o di spiegare una situazione nuova nei termini di un’altra conosciuta, ma può servire anche per risolvere un problema, perché nell’ambito del problem-solving il ragionamento analogico rende possibile il trasferimento di una soluzione di un problema noto a uno nuovo da risolvere, se il nuovo problema viene identificato come analogo a quello conosciuto. Una definizione più tecnica del ragionamento analogico è: l’analogia è il trasferimento di informazioni relazionali da un dominio (o situazione nota o campo o soggetto specifico), definito ‘fonte’ o ‘base’ (source o base) dell’analogia, a un altro dominio (o situazione nota o campo o soggetto specifico), definito ‘obiettivo’ (target) dell’analogia, per il quale è necessaria una spiegazione o una comprensione o una risposta o un’invenzione. Il processo di trasferimento è ottenuto mappando le relazioni corrispondenti che


sono state astratte nel passaggio dalla sorgente al target. L’analogia fra il sole e i pianeti e l’atomo e gli elettroni funziona non certo per le somiglianze formali, ma perché sono simili le relazioni strutturali, ossia i pianeti ruotano attorno al sole come gli elettroni attorno al nucleo. Stabilire delle relazioni fra quanto si conosce in un dominio per proiettarlo su un altro, al fine di comprenderlo o spiegarlo, richiede, come riconoscono Keith Holyoak e Paul Thagard, due psicologici cognitivisti di riferimento nell’ambito degli studi sul ragionamento analogico, un salto mentale (mental leaps) lo slanciarsi senza sapere come andrà a finire. Il proiettarsi nel vuoto è proprio del progettare, il cui significato etimologico è infatti ‘gettare in avanti’. L’analogia nell’architettura e nel design Dalla lettura o dall’ascolto di molte relazioni di progetto emerge che, in modo più o meno consapevole, architetti e designer di qualsiasi corrente o stile ricorrono, anche se spesso inconsciamente, alle analogie. Prova ne siano i due prossimi esempi fra i molti possibili. Zaha Hadid spiegava il progetto per la Nuova stazione dell’alta velocità di Firenze (2002) utilizzando termini presi a prestito dal vocabolario di un geologo, parlava di canyon, faglia nel terreno, frattura tettonica, slittamento tettonico, strati. Scorrendo le pagine del libro Floating Images: Eduardo Souto De Moura’s Wall Atlas (2012), ci si accorge che l’architetto portoghese confronta le fotografie da lui collezionate con le proprie architetture, e non si può non notare come i contenuti delle immagini siano stati utilizzati come fonti analogiche per le soluzioni di progetto. I due esempi rivelano le due possibili macro-categorie di analogie: verbali e visive. Segue a questa un’altra importante distinzione, quella fra le analogie interdisciplinari (within-domain), in cui la fonte e la sorgente messi in corrispondenza condividono lo stesso dominio, e le analogie extradisciplinari (between-domain), in cui i due sistemi messi in corrispondenza appartengono a domini concettualmente diversi o distanti, per esempio: arte, ingegneria, natura e scienze.

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Se l’impiego dell’analogia da parte di architetti e designer può avere un carattere aneddotico, Hernan Casakin e Gabriella Goldschmidt4 due riconosciuti studiosi nell’ambito dei design methods, hanno dimostrato “scientificamente” il ruolo fondamentale dell’analogia verbale e visiva nella progettazione architettonica e nel design. Dai loro esperimenti è emerso che: l’analogia funziona quando viene esplicitamente detto di utilizzarla (un importante memento per i docenti di materie progettuali); le analogie verbali e quelle visive hanno pari importanza e il loro impiego dipende dallo stile cognitivo dei progetti, perché alcune persone sono “verbalizzatori” mentre altri sono “visualizzatori”5. Gli esperimenti hanno evidenziato due differenze fra stimoli verbali e gli stimoli visivi. La prima differenza: ci sono idee che possono essere espresse a parole, ma non possono venire rappresentate con immagini visive. La seconda: alcune volte l’esposizione agli stimoli visivi ostacola o limita la ricerca di nuove immagini (in questo caso si parla del problema della fissità), mentre l’ascolto o la lettura di testi lascia uno spazio di manipolazione maggiore nel processo di traduzione delle parole in immagini. Infatti le parole, possedendo un certo grado di ambiguità e non avendo contenuti formali espressi figurativamente, possono essere lette, interpretate e comprese in molti modi; gli stimoli visivi presentano però il vantaggio di sollevare i progettisti dalla necessità di dover spendere tempo nella traduzione di un’analogia da una modalità verbale a una visiva. Quattro tipi di analogia per l’architettura e il design

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Williams Gordon in Synectics. The Development of Creative Capacity [Harper & Brothers Publishers, New York 1961, p. 44] definisce quattro tipi di analogia: personale, diretta, simbolica, fantastica. L’analogia personale consiste nel mettersi nei panni di qualcosa identificandosi con il problema da risolvere o con i suoi elementi. La forma più semplice per mettere in pratica questa analogia è porsi la domanda: ‘E se io fossi…?’ In questo modo si produce una fusione immaginaria tra una persona, un oggetto o una situazione [E. Cogno, Tecniche di creatività. La sinetti-


ca di Gordon, in «Justbaked», 2016, https://www.justbaked.it/2016/01/ 08/tecniche-di-creativita-la-sinettica-di-gordon_ultimo accesso 10/ 2019]. Come ci si mette a favore di vento per sentire i profumi di

un roseto, allo stesso modo si potrebbe pensare di posizionare la casa in prossimità di un gruppo di tigli cosicché, quando soffia il vento, attraverso opportune aperture si possano creare delle correnti d’aria capaci di aromatizzare le stanze con gli effluvi primaverili degli alberi. Le mani esili giunte in atto di preghiera, come quelle di molti quadri rinascimentali raffiguranti la Madonna, ricordano le slanciate coperture della Chiesa Unitariana di Wright a Madison, nel Wisconsin. Rientrano in questa categoria anche le analogie definibili come autobiografiche, basate su ricordi ed esperienze passate, che rivivono e riemergono nel momento della elaborazione creativa di un progetto. Un esempio tipico è quello di Le Corbusier, che ha tratto l’idea strutturale per la copertura della cappella di Ronchamp dall’osservazione di un guscio di granchio che teneva sul tavolo [A. Ponsi, L’analogia dell’architettura, LetteraVentidue, Siracusa 2013, p. 23]. L’analogia diretta stabilisce relazioni con fatti, conoscenze, tecnologie, oggetti e organismi che hanno una somiglianza immediatamente evidente e di facile interpretazione. Nella analogia diretta il problema viene messo in relazione con ‘altri mondi’, di solito il mondo vegetale, minerale, animale, elettronico, meccanico o altro ancora [E. Cogno, op. cit.]. Sir March Isumbard Brunel ha risolto il problema della costruzione sott’acqua con il cassone pneumatico guardando come un tarlo scavava il proprio buco in un tronco. La Villa Girasole dell’ingegner Angelo Invernizzi e dell’architetto Ettore Fagiuoli ruota seguendo il percorso del sole come fanno i girasoli; l’accesso alle Grotte preistoriche di Niaux di Massimiliano Fuksas sembra ispirato a una falena; la Città della musica di Renzo Piano a Roma pare una composizione di tre scarabei; diversi aeroporti di Santiago Calatrava assomigliano a grandi uccelli rapaci; il progetto di Toyo Ito per la biblioteca dell’Università di Parigi Jussieu si basa sull’analogia con un circuito stampato. L’analogia simbolica utilizza un’immagine obiettiva e impersonale per descrivere il problema. L’analogia simbolica è quella che si stabilisce tra la croce della passione di Cristo e la

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planimetria di una chiesa, tra la cupola in vetro sovrastante la sala plenaria del Reichstag di Berlino, progettata da Norman Foster, e l’idea di una comunicazione trasparente tra Stato e cittadini, tra la mano aperta e l’estensione o l’organizzazione planimetrica di una casa o di un museo. OFIS Arhitekti progettano lo spiraliforme Museo della città di Lubiana basandosi sull’idea della spirale della storia, allo stesso modo in cui fa BIG con il Museo del brand Audemars Piguet. L’analogia fantastica stabilisce relazioni con elementi disparati e/o appartenenti a campi diversi. Essa viene utilizzata con importanti esiti nel campo del design e dell’architettura. In architettura è tipico il ricorso a diagrammi o concetti scientifici come nel caso del progetto di Steven Holl per l’addizione al Cranbrook Institute of Science basato sul ‘fattore anomalo di attrazione’, la cui rappresentazione grafica diventa il diagramma di progetto; la Casa Möbius di Ben Van Berkel ha come fonte analogica l’omonimo anello, che ne definisce la volumetria e i flussi di movimento all’interno dell’abitazione.

1   Il concetto di problema mal definito è stato elaborato per la prima volta da M.M. Webber e H.W.J. Rittel in Dilemmas in a General Theory of Planning, in «Policy Sciences» n. 4, 1973. 2   Herbert Simon è stato un importante economista, psicologo e informatico statunitense, che, fra gli altri, ha lavorato nell’ambito del problemsolving e ha definito il concetto di “razionalità limitata” secondo cui non si può parlare di soluzioni ottimali, ma satisficing, un neologismo quest’ultimo nato dalla crasi delle parole inglesi satisfy (soddisfare) e suffice (essere sufficiente, bastare). 3   Questo esempio mi è stato suggerito da Niccolò Oliva, un mio studente del corso di laurea in Disegno industriale del DIDA. 4   Si rimanda per una descrizione dettagliata degli esperimenti a: H. Casakin, G. Goldschmidt, Reasoning by visual analogy in design problemsolving: the role of guidance, in «Journal of Planning and Design: Environment & Planning B» n. 27, 2000; G. Goldschmidt, M. Smolkov, Variances in the impact of visual stimuli on design problem-solving performance, in «Design Studies» n. 27, 2006; G. Goldschmidt, Inspiring design ideas with texts, in «Design Studies» n. 32, 2011. 5   La distinzione è stata introdotta da S.A. Mednick in The associative basis of the creative process, in «Psychological Review» n. 69 (3), 1962.

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La città in quanto software ANDREA ARIANO

Introduzione Il passaggio “dalla seconda alla terza ondata” [A. Toffler, Third Wave, Morrow, New York 1980], vale a dire da una società industriale ad una dell’informazione ha avuto importanti ricadute sullo sviluppo della città contemporanea. La sovrapposizione del layer informatico alla città fisica non rappresenta semplicemente un’ibridazione di quest’ultima. Il linguaggio degli ibridi è parte del problema. Quando qualcosa di nuovo appare, siamo portati ad intenderlo come una combinazione di cose familiari. Una macchina è una “carrozza senza cavalli”. Un computer portatile + una fotocamera + una connessione wireless è un “telefono cellulare”. Una metropoli intrecciata con una rete di sensori e information technology è chiamata “smart city” … I nostri linguaggi formali e vernacolari sono disseminati di metafore come quella della carrozza senza cavalli. Nel breve periodo, gli ibridi possono avere senso mediante analogie e continuità, ma ben presto essi creano confusione, e perfino paura, poiché il nuovo evolve e assomiglia sempre meno e a ciò che ci è familiare. I termini ibridi ritardano il riconoscimento e differiscono la comprensione di ciò che richiede la nostra più audace attenzione [B. Bratton, New Normal, Strelka Press 2017, trad. dell’autore]. Per chi scrive è chiaro che la pervasività dell’informazione nella società contemporanea abbia significato un salto di paradig-

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ma e che la città dell’informazione sia qualcosa di completamente nuovo rispetto alla città sottesa al paradigma industriale, in particolar modo perché le componenti di maggiore interesse sono nel suo essere software più che hardware, poiché è proprio il primo che ha permeato tutti i livelli della nostra esistenza. La città è software e tutto diventa informazione. Se tutto è informazione, allora i colossi informatici possono conquistare anche lo spazio fisico delle nostre città: con nuovi prodotti e servizi o attraverso la progettazione, costruzione e gestione di nuovi quartieri intelligenti. Le corporation informatiche stanno trasformando il volto delle nostre città un bit alla volta, con azioni spesso immateriali, ma che hanno conseguenze enormi sul loro sviluppo. Gli impatti non sono solo sulla città fisica, ma anche a livello politico, economico e sociale. Quando Amazon, la più grande catena di retail al mondo non ha negozi, quando Airbnb, la più grande catena di alloggi turistici non possiede neanche un hotel, quando Uber, la più grande compagnia di taxi non possiede autovetture, è chiaro che non possiamo più far riferimento ai vecchi modelli. Il paradigma Smart City

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Come riportato sulle pagine di questa rivista nel numero 167 di gennaio 2020 da Livio Sacchi, il tema delle cosiddette smart cities è più attuale che mai. Nonostante si tratti di una definizione non univoca e in qualche modo consumata, l’applicazione delle tecnologie informatiche alla città è un ambito a cui si guarda con grande interesse, se non altro per i risvolti economici di tutta l’operazione. La smartness di una città è un indicatore importante per misurarne la competitività e nonostante sinora il paradigma smart city sia stato adottato in special modo per giustificare grandi operazioni immobiliari e speculative, le tecnologie informatiche in ambito urbano hanno un grande potenziale, sinora rimasto inespresso, in special modo nella sfida per il raggiungimento della sostenibilità, intesa qui nelle sue tre accezioni ambientale, sociale ed economica. Uno degli esempi più avanzati al mondo del paradigma smart city è rappresentato dal Songdo International Business District,


hub dell’high tech in cui ogni aspetto della vita è mediato dalle tecnologie informatiche, tanto alla scala domestica che a quella urbana. Songdo è stata progettata da zero come un sistema integrato di hardware e software, in grado di monitorare e controllare tutto, dal trasporto ai servizi pubblici. Indipendentemente dagli esiti del progetto, Songdo ha acceso grande interesse ed è servita da modello per molti progetti successivi. La smart city possiede il fascino a lungo subito dagli urbanisti: se ogni elemento di una città è progettato con coerenza, tutto l’insieme può funzionare alla perfezione. Invece che una «macchina da abitare», oggi si punta a creare un circuito stampato o un computer a cielo aperto. La smart city di oggi è il sogno di molti tecnici e ingegneri informatici. Ogni singola informazione è disponibile immediatamente e il meccanismo urbano è controllabile e ottimizzabile [M. Claudel, C. Ratti, La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, Einaudi, Torino 2017].

Nell’ottobre del 2017, Sidewalks Lab, società sussidiaria di Alphabet, la compagnia che controlla Google, ha annunciato lo sviluppo di un progetto innovativo per la progettazione e costruzione di un nuovo quartiere sul waterfront di Toronto. Sidewalks Lab, guidata da Dan Doctoroff, ex deputy mayor di New York durante l’amministrazione Bloomberg, lavora all’intersezione tra urban design e nuove tecnologie, e promette visioni innovative per le città del futuro: intelligenti, sostenibili e, in generale, più vivibili. Il piano per il Quayside project, realizzato in collaborazione con gli studi di architettura Snøhetta e Heatherwick Studio, prevede la costruzione di un nuovo quartiere in cui le nuove tecnologie, in particolare quelle informatiche, giocano un ruolo fondamentale, migliorando la vita dei cittadini e riducendo le emissioni di CO2 fino all’80%. Questo progetto è un caso di sicuro interesse a cui guardare per diverse ragioni: è uno dei primi esempi di quartiere intelligente di nuova costruzione nel mondo occidentale, è un prototipo figlio dell’approccio tipico della Silicon Valley, ma soprattutto rappresenta quella che potremmo definire la seconda generazione di smart city, meno stupide e più attente ai bisogni dei cittadini. Le innovazioni introdotte nel progetto

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Quay­side si suddividono in cinque grandi ambiti: mobilità, spazio pubblico, costruzione, sostenibilità e innovazione digitale. Il grande tema della mobilità è al centro del progetto e mira ad incrementare tutte le alternative possibili alla macchina, dallo sviluppo di infrastrutture per la mobilità lenta all’ampliamento della rete tramviaria. Inoltre, l’utilizzo del car-sharing, e presto, l’introduzione delle auto a guida autonoma, riducono considerevolmente lo spazio destinato ai parcheggi, che può essere impiegato per offrire uno spazio pubblico di qualità. Spazio pubblico che fa della versatilità la sua caratteristica principale. Inoltre, per rispondere ai rigidi inverni canadesi, sono previsti dei sistemi di riscaldamento esterni e delle strutture “paravento”, allo scopo di creare dei microclimi temperati che permettano di fruire degli spazi esterni anche nella stagione invernale. Quayside promette una costruzione rapida ed ecologica grazie all’utilizzo del legno lamellare e di tecnologie avanzate di prefabbricazione. La flessibilità insita nelle tecnologie adottate prevede la possibilità di riconfigurare facilmente gli spazi interni a seconda delle esigenze degli occupanti e dell’evoluzione del quartiere. Per quanto riguarda la sostenibilità, il progetto tenta di rispondere a due dei maggiori problemi urbani: la produzione e il consumo di energia e lo smaltimento e il riciclo dei rifiuti. Gli edifici sono progettati per essere passivi, la maggior parte dell’energia utilizzata è da fonti geotermiche e un software gestisce l’intera rete, al fine di ottimizzare l’uso dell’energia ed evitare gli sprechi. Condotte pressurizzate disponibili in ogni abitazione permettono un riciclo totale dei rifiuti inorganici, mentre quelli organici sono utilizzati per la produzione di biogas. Trattandosi di una città informatica il tema dell’innovazione digitale è al centro del discorso. L’infrastruttura digitale è pressoché ubiqua e tutto viene trasformato in informazione al fine di ottimizzare i processi e garantire un alto tasso di produttività e innovazione. Il cuore del progetto è proprio il sistema informatico centrale che gestisce l’intero quartiere, dalla mobilità alla raccolta dei rifiuti, dalla produzione e distribuzione dell’energia al controllo della temperatura degli edifici.


Songdo vs Quayside: stesso paradigma, due generazioni a confronto A questo punto, dopo aver brevemente presentato i due esempi, credo sia interessante metterli a confronto e leggerli sotto la lente di cinque categorie ritenute significative. Urbanità. Sinora il modello smart city non ha avuto molto successo anche perché manca di urbanità. Come argomentato da Saskia Sassen, Songdo, più che a uno spazio urbano, sembra assomigliare a una piattaforma, dove tutto funziona ed è efficiente: un sistema chiuso e perfetto che è l’opposto di una città, per sua natura incompleta e imperfetta. Uno dei problemi principali del paradigma smart city è che le tecnologie molto spesso vengono viste come fine e non come mezzo, e di conseguenza gli esseri umani passano in secondo piano. Un esempio eclatante di questo approccio è il progetto “Light Traffic” del Senseable City Lab del MIT, in cui i ricercatori dimostrano come in un futuro prossimo le auto a guida autonoma decreteranno la fine dei semafori, poiché queste ultime saranno connesse tra loro e potranno interagire e accordare le precedenze di conseguenza. Nella simulazione proposta tuttavia non vi è la componente umana: non vengono assolutamente presi in considerazione i pedoni o i ciclisti, che, una volta inseriti nella simulazione, comporterebbero il fallimento della tecnologia proposta. Quayside, almeno in teoria, sembrerebbe aver fatto tesoro di questi fallimenti: mette infatti l’idea di comunità al centro dello sviluppo del progetto, e questo è molto evidente nella narrazione che il progetto propone e quindi attraverso la rappresentazione utilizzata. Rappresentazione. La rappresentazione di una smart city è un tema complesso per diverse ragioni. Il concetto stesso di smart city è legato a doppio filo a quello di informazione, che è per sua natura immateriale. Certo gli effetti e le conseguenze urbane sono fisiche e tangibili, ma sinora le smart city non hanno prodotto alcuna estetica, hanno semplicemente replicato quella delle città contemporanee più avanzate. La stessa Songdo appare più legata a una progettazione di stampo funzionalista che a una progettazione complessa e integrata che sia all’altezza delle sfide del XXI

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secolo. Il progetto Quayside, a partire dallo stile scelto per i render, propone una rappresentazione colorata e gioiosa dai toni pastello, i droni vengono rimpiazzati dagli aquiloni, le famigliole passeggiano scalze in quello che appare come un vero e proprio paradiso urbano. Il messaggio che deriva da questo tipo di rappresentazione è che la tecnologia, quando molto evoluta, non si vede! Sostenibilità. Sinora le smart city hanno puntato tutto sull’informazione, tralasciando in qualche modo il piano fisico. La differenza tra Songdo e un altro nuovo quartiere coreano non intelligente risiede unicamente nell’infrastruttura informatica. Gli edifici o gli spazi pubblici non presentano alcuna sostanziale innovazione, ma sono semplicemente cablati e dotati di sensori. Il fine ultimo è ottimizzare i processi sull’intero sistema e raggiungere la massima efficienza possibile. Il concetto di efficienza è molto distante da quello di sostenibilità, poiché a differenza di quest’ultimo non tiene conto delle conseguenze sistemiche. Lo stesso fatto che Songdo sia stata costruita su terra sottratta al mare, con la conseguenza di aver alterato profondamente l’ecosistema marino, dovrebbe metterci in guardia dalla sostenibilità complessiva di tutta l’operazione. Purtroppo, molto spesso, le operazioni legate allo sviluppo di una smart city risultano essere vere e proprie operazioni di greenwashing, in cui la presunta intelligenza e sostenibilità sono etichette molto utili nel marketing e nella promozione del progetto, più che principi direttamente applicati nello sviluppo dello stesso. Tecnologia. In un certo senso la storia dell’uomo, e quindi dell’architettura, è la storia della relazione che esso ha avuto con le tecnologie di cui disponeva. Così, come il mondo industriale ha piantato i germi del funzionalismo, oggi il rischio concreto è che il mondo informatico pecchi di “soluzionismo” [E. Morozov, Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano 2014], pensando che una nuova tecnologia o un nuovo servizio possano risolvere qualsiasi tipo di problema. Nella logica positivista della Silicon Valley, ogni problema, per quanto complesso, può essere analizzato e risolto se si è in possesso di un adeguato numero di big data. Una prima conseguenza di questo approccio è il guardare agli effetti e non alle cause dei problemi contemporanei: così la


soluzione al traffico o alla mancanza di parcheggi non è la diminuzione delle macchine in circolazione e lo sviluppo di un trasporto pubblico puntuale ed efficiente, ma l’acquisizione di più dati e la creazione di un algoritmo più sofisticato. In questo senso, la più grande sfida per le città intelligenti come Songdo sarà progettare i propri servizi in modo che la tecnologia possa essere utilizzata dai cittadini e non il contrario [S. Sassen, 2012 trad. dell’autore]. Songdo e Quayside, da questo punto di vista, sono molto simili: come sottolineato in precedenza, in questi esempi molto spesso le tecnologie stesse diventano il fine e non il mezzo per raggiungere un obiettivo, ma soprattutto, i cittadini svolgono un vero e proprio lavoro che non gli è riconosciuto, sono allo stesso tempo consumatori e produttori di dati. Se il fatto di consumare i dati è abbastanza ovvio e di facile comprensione, in pochi sono coscienti del fatto che essi stessi sono produttori di dati, dai quali le corporation informatiche estraggono valore. In una città tradizionale la maggior parte dei dati vengono prodotti attraverso i nostri smartphone, in particolare grazie ai sensori in grado di rilevare la nostra posizione, ma in una città informatica tutto è informazione: la temperatura della nostra casa, quanti e quali tipi di rifiuti produciamo, in che modo ci spostiamo e perfino quanti pacchi riceviamo al giorno. Nel progetto Quayside, nonostante le continue rassicurazione da parte della società promotrice, il progetto è stato fin dall’inizio osteggiato proprio a causa del suo essere software: l’enorme quantità di dati prodotti dal quartiere avrebbero potuto costituire per Google una possibilità concreta di trasformare questo quartiere in un esperimento di sorveglianza massiva. In una città informatica le informazioni sono al centro del discorso e finché non si troverà una soluzione per la loro gestione ogni sviluppo futuro appare difficile, almeno nelle democrazie liberali. Top-down. Songdo e Quayside sono, almeno da questo punto di vista, molto più simili di quanto non si pensi a un primo sguardo. Entrambe condividono un approccio verticale top-down, in cui le società tecnologiche progettano, costruiscono e gestiscono il nuovo insediamento. I cittadini diventano utenti, i bisogni – che in una città ideale dovrebbero essere diritti – nei due esempi

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proposti si trasformano in servizi. Nonostante sia difficile paragonare questi due progetti, essi di sicuro condividono un approccio poco collaborativo, in cui i cittadini ricoprono un ruolo marginale. Nel maggio 2020 la società Sidewalk Lab ha fatto sapere che il progetto Quayside sul waterfront di Toronto è stato annullato a causa dell’incertezza derivante dalla crisi globale legata alla diffusione del Coronavirus. Tuttavia, in molti credono che la grande attenzione e le forti critiche che il progetto aveva ricevuto – e le conseguenti misure più stringenti nell’ambito della privacy e dell’utilizzo dei dati imposte dalla municipalità avessero ridotto sostanzialmente l’interesse della società nel perseguimento del progetto. Questo esempio mostra chiaramente i limiti di una società tecnocratica: se è vero che da una parte la scienza e la conoscenza possono aiutarci a risolvere molti problemi concreti grazie alle nuove tecnologie, dall’altra una chiara visione politica deve orientarci nelle decisioni. Si potrebbe dire che la scienza ci fornisce gli strumenti per raggiungere un obiettivo, mentre la politica, intesa qui nella sua accezione più nobile, dovrebbe indicare gli obiettivi che vogliamo raggiungere in quanto società. Conclusioni. Non sprechiamo questa crisi

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Credo che questo ultimo punto sia quello più significativo in questo particolare momento storico. La crisi legata alla diffusione del COVID-19 ha agito, a livello mondiale, come un grande destabilizzatore, facendo emergere molte storture e paradossi della società contemporanea. Con il termine crisi si indica generalmente una perturbazione o improvvisa modificazione nella normalità di un individuo o di una collettività. Nonostante la connotazione negativa che oggigiorno attribuiamo alla parola crisi, la sua etimologia greca ed il suo significato in tutte le lingue moderne è quello di ‘scelta’, ‘cambiamento’ o ‘punto di svolta’. La crisi globale legata alla diffusione del COVID-19 ha riportato al centro del dibattito i temi legati allo sviluppo urbano e ai modelli politici, economici e sociali sinora perpetuati. Mentre in molti auspicano un rapido ritorno alla normalità grazie alla disponibilità di un vaccino, alcuni commentatori ritengono che fosse pro-


prio la presunta normalità il problema, e che come spesso accade, rispondere agli effetti più immediati senza agire sulle cause profonde di questa crisi, non risolverà il problema. Nelle prossime decadi ci aspetta una tempesta perfetta di crisi sociali, politiche, economiche e ambientali. A ben vedere, per scongiurare una sesta estinzione di massa, la crisi dovrà diventare lo scenario cronico del nostro futuro. Se abbracciamo la definizione di crisi in quanto punto di svolta, non possiamo non riconoscere la grande opportunità che abbiamo di fronte. Oggi ci troviamo di fronte a un vero e proprio bivio, e come noi le nostre città, in particolare quelle intelligenti. Come emerso dall’analisi dei due casi studio presentati, appare chiaro come sinora le nuove tecnologie, in particolare quelle informatiche, siano state utilizzate principalmente per replicare le strutture proprie del capitalismo e del mondo industriale. Per chi scrive, esse non hanno ancora svelato del tutto il loro enorme potenziale: l’opportunità che ci troviamo davanti è propria questa, utilizzare le tecnologie che abbiamo a disposizione in modo radicalmente nuovo, al fine di costruire città (e società) più eque, più inclusive e più sostenibili. In quanto architetti e designer, la responsabilità che avremo è enorme. Come già sottolineato, oggi la pervasività dell’informazione nella città contemporanea è tale che non è possibile immaginare sviluppo urbano senza prima aver compreso come questi nuovi processi funzionino. Per esempio, cosa significa diritto alla città nel contesto di una città digitale, gestita dalle aziende tecnologiche e governata dal diritto privato, in cui i cittadini e i gruppi sociali non siano messi in condizione di avere libero accesso a quelle risorse chiave (connettività, dati e reti) che gli permetterebbero di amministrarsi in maniera autonoma? [F. Bria, E. Morozov, Ripensare la smart city, Codice Edizioni, Torino 2018]. La sovranità tecnologica, l’adozione degli Open Data, la

privacy dei cittadini e una regolamentazione dei monopoli delle corporation informatiche sono tutti temi che dovrebbero essere al centro dell’agenda di ogni città contemporanea. Poiché oggi il ruolo dell’informazione è strutturale, qualsiasi discorso, incluso quello sulla città, non può prescindere da una discussione su come queste informazioni vengono prodotte, distribuite e utilizzate.

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Il modello neoliberista si è sinora rivelato il più efficiente nel distribuire risorse scarse, tuttavia l’informazione (così come la conoscenza), a differenza del cibo, il petrolio o l’acqua è una risorsa abbondante e potenzialmente infinita: sinora la scarsità è stata creata artificialmente e a vantaggio di pochi. Senza un vero e proprio cambio di paradigma, tanto operativo che cognitivo, ogni ulteriore sviluppo delle città informatiche sembra destinato a fallire in partenza.

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Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura MARIA PONE

Credere nel mondo vuole anche dire suscitare eventi, per piccoli che siano, che sfuggono al controllo, oppure dare vita a nuovi spazi-tempo, anche di superfici e volume ridotti (…). La capacità di resistenza o, al contrario, la sottomissione al controllo si giudicano a livello di ciascun tentativo. Occorrono al tempo stesso creazione e popolo [G. Deleuze, (1990), Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000]. C’è stato un tempo in cui architetti e urbanisti avevano nelle proprie mani e sulla punta delle loro matite il potere di disegnare destini di città e territori, quasi senza mediazioni. Un tempo in cui il compito fondamentale e più elevato per la disciplina del progetto era quello di definire il “tracciato regolatore” che ordinava e disponeva, che orientava e governava. Ma non è questo il tempo. La contemporaneità è il tempo della complessità e dell’entropia, il tempo in cui mediazioni e parentele non sono più indispensabili ma inevitabili [D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Produzioni Nero, Roma 2019]. La vita di comunità multiple e mutevoli, che esprimono necessità diverse e spesso contraddittorie, ha messo il progetto di fronte a sfide nuove. Come la questione dei cambiamenti climatici, paradigma della crisi del rapporto natura-non natura, la condizione pandemica che viviamo in questi mesi è un’espressione particolarmente chiara e dolorosa di questo presente di incertezza ad alta velocità. Per un attimo abbiamo distolto lo sguardo dagli spazi che

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per un certo tempo sono stati il centro delle nostre attenzioni, perché oggetto dei cambiamenti più significativi – la strada, la piazza, i nuovi luoghi collettivi per il lavoro … Oggi siamo tornati a guardare alla casa come luogo (quasi unico) per l’abitare. Questo, che potrebbe apparire per certi versi un “passo indietro” rispetto allo stato di avanzamento del pensiero critico sull’architettura e sugli habitat, rappresenta in verità un momento di un’alternanza ritmica che caratterizza la storia dell’architettura, potremmo dire, dalla sua origine. Casa, città. Ma oggi, quando, dopo anni di “domesticizzazione” degli spazi collettivi, lo spazio privato della casa torna al centro dell’attenzione pubblica, la progressiva irriconoscibilità della soglia di distinzione tra la sfera pubblica e quella domestica, tra oikos e polis [E. Fabbri, L’architettura come archè. Appunti sull’hortus apertus, Edizioni Efesto, Roma 2020], raggiunge probabilmente il suo apice. Il rapporto

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tra questi due “poli” che, tenendosi in tensione, individuano il campo dell’abitare è questione politica fondamentale e determina il perimetro all’interno del quale è necessario muoversi. E il progetto, disposto dentro questo perimetro sfocato e discontinuo, viene chiamato a modificare il proprio habitus, per adattarsi alle nuove condizioni senza smentire la propria natura di strumento per l’interpretazione e la costruzione dello spazio materiale. Parole come effimero, debole, poroso, metabolico, fluido, multiscalare, interrotto, incompiuto, trasformabile, accompagnano una complessa transizione dell’architettura, chiamata a farsi “infrastruttura per abitare” la città: una città che è allo stesso tempo macchina produttiva e grembo materno, “dimora” e “spazio di negotium” [M. Cacciari, La città, Pazzini editore, Villa Verrucchio 2012], nodo strategico nella griglia globale della geografia economica contemporanea [S. Sassen (1991), Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2003] e habitat delle comunità residenti che esprimono necessità minute e locali [R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018]. Per ricapitolare le fasi di questa transizione, bisognerebbe attraversare buona parte del dibattito disciplinare degli ultimi sessant’anni, a partire dall’idea che architettura e città fossero cose omologhe o analoghe, commensurabili, leggibili con una


strumentazione autonoma; passando per l’immaginario megastrutturale e le sperimentazioni radical; percorrendo le strade che da Habraken e dal piano di Lima giungono fino ad Aravena; incrociando Banham, gli Smithson, Price, i Metabolisti fino alla Bigness di Koolhaas; o, per altri versi, accostandosi alla discussione sulla natura dei non-luoghi, superluoghi, infraluoghi e iperluoghi, o ancora seguendo gli sviluppi del tema della dismissione e il suo fertile accostamento con le tecniche del recycle e dell’upcycle, fino ad arrivare a esperienze come il DAI (Decolonizing Architecture Institute) di Alessandro Petti, Sandi Hilal e Eyal Weizman o a recenti e stimolanti “invenzioni” come la città selvatica [A. Metta, M.L. Olivetti, La città selvatica. Paesaggi urbani contemporanei, Libria, Melfi 2020] e il progetto minore [C. Boa­no, Progetto Minore. Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico e architettonico, LetteraVentidue, Siracusa 2020].

L’accostamento semantico mira da una parte a ricondurre i due termini del binomio ai propri significati originari (architettura come disciplina capace di leggere e modificare lo spazio fisico e infrastruttura come base di sostegno, supporto per altre strutture), dall’altra a formulare un’ipotesi circa la sostanza di questa connessione. L’architettura come infrastruttura è quella che cerca nuovi spazi di utilità, più aderenti alle condizioni contemporanee, con la totale consapevolezza che la portata di queste possibili utilità è, e sarà sempre, soprattutto politica e che è quindi necessario assumersene ogni responsabilità. L’ipotesi può essere facilmente tradotta in domanda: può, in sostanza, l’architettura essere efficacemente un’infrastruttura per l’abitare? può, cioè, imparare a cogliere, come facevano gli strateghi cinesi, il potenziale della situazione per costruire le condizioni affinché altre cose nascano, crescano, vivano? [F. Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2006]. Per avviare il ragionamento su queste ipotesi e verificarne la fecondità è necessario effettuare un piccolo scarto interpretativo. Spostarsi leggermente per osservare fenomeni noti e questioni consolidate, con uno sguardo un po’ diverso, capace di intravedere i contesti, i caratteri, le vocazioni che possono qualificare l’architettura come infrastruttura.

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Contesti

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Raramente si vuole accettare e capire che le nuove forme di occupazione del territorio, nelle diverse parti del pianeta, segnano una rottura definitiva con le forme di organizzazione politica, economica e sociale del passato. Raramente si vuole accettare che le politiche urbane e del territorio sono ovunque parte ineludibile di più ampie visioni e azioni “biopolitiche”; che la città, da sempre immaginata come lo spazio dell’integrazione sociale e culturale per eccellenza, è divenuta, negli ultimi decenni del ventesimo secolo, potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e del loro insieme. Questa politica, come tutte le politiche, ha richiesto un’ideologia e una retorica: l’ideologia del mercato e la retorica della sicurezza. Esse hanno pervaso gli ultimi decenni del secolo scorso e hanno dovuto rappresentarsi anche in una coerente politica spaziale, in un insieme di dispositivi fisici che rendano concretamente visibile, alle diverse scale, la separazione; che facciano sì che essa si veda, come si vedeva la separazione tra fabbrica e quartiere operaio e tra uffici e quartieri alti [B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2013]. “Ideologia del mercato” e “retorica della sicurezza” sono, secondo Bernardo Secchi, le logiche che guidano il disegno del territorio e ne impongono le forme di occupazione. “La città dei ricchi e la città dei poveri” è un luogo che vede rafforzati i propri confini interni, in un sistema che produce reclusione ed esclusione, invece di favorire integrazione e scambio, in cui le diseguaglianze sociali si rivelano sempre più spesso sotto forma di “ingiustizie spaziali”. Muri, recinti, cancelli, ma anche strade ad alta percorribilità, viadotti, tunnel e ferrovie, sono quei “dispositivi fisici” che popolano gli spazi urbani costruendo divisioni e fratture. Al rafforzamento dei confini interni corrisponde oggi la totale dissoluzione dei confini esterni che delimitano la metropoli contemporanea: una metropoli “erratica, pulviscolare, veicolare” [P. Desideri, La città di latta, Costa & Nolan, Genova 1995] in cui lo spazio urbano si estende, sconfina dai suoi limiti tradizionali, occupa il territorio fino a rendere indistinguibile la città dalla non-


città; lo spazio urbano, “habitat naturale dell’uomo” [E. Turpin, Architecture in the Anthropocene, encounters among design, deep time, science and philosophy, Ann Arbor, Michigan Publishing, 2013], si disperde, in varie forme e con diversi gradi di materialità e di densità, su tutta la superficie del pianeta. L’occupazione materiale dello spazio sulla terra compiuto dall’uomo negli ultimi decenni ha esteso la sua impronta ben oltre i luoghi della sua azione diretta. Unicity, la città ovunque, è in questo senso, immagine incompiuta e densa di minacce di un’umanità che, da agente biologico si è trasformata in forza geologica, inaugurando l’epoca dell’Antropocene [J. Reed, Unicity, in T. Cohen, Telemorphosis. Theory in the Era of Climate Change, vol. I, Open Humanities Press, 2012]. L’uomo, come ricorda Latour, deve

vedersela oggi con un pianeta che non può più essere considerato materia inerte, ma corpo vivente, indocile rispetto alle pretese dell’antropocentrismo e alla sua oggettiva violenza [B. Latour, Facing Gaia, Six lectures on the political theology of nature, Polity Press., Cambridge 2017] di cui l’architettura, nella sua natura fon-

dativa, è parte. La logica “ordinatrice” dell’organizzazione del territorio abitato, che presenta il suo elemento paradigmatico nelle opere di infrastrutturazione “pesante” (ponti, viadotti, autostrade, ecc), rivela progressivamente la sua violenta natura separatrice, come sottolinea Alessandro Petti: lo spazio contemporaneo può essere descritto e interpretato attraverso la contrapposizione di due figure: l’arcipelago (lo spazio liscio dei flussi) e l’enclave (lo spazio dell’eccezione). Queste due figure convivono ma la loro convivenza è asimmetrica. Se da un lato vi è un’élite che gestisce lo spazio dei flussi, vivendo in un mondo arcipelago che percepisce come unico e privo di esterno, dall’altro la sospensione delle regole dell’arcipelago produce vuoti giuridici ed economici, che fanno del sistema di enclave un buco nero, una zona d’ombra. L’arcipelago è un sistema di isole connesse, le enclave sono semplici isole [A. Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Mondadori, Milano 2007, p. 22]; secondo la sua interpretazione, il “mare” (lo spazio

“tra” le isole che lui stesso identifica con quello delle reti infrastrutturali) è l’elemento che da una parte consente di connettere e

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nutrire alcune isole (rendendole parte del “mondo arcipelago”, dello spazio dei flussi) dall’altra ha il potere di isolare e separare, di costruire quindi quelle enclave che assumono di volta in volta la forma di “abitazioni di lusso” (quando la reclusione è “volontaria” come nel caso delle Gated Communities) o quella di “campo” (quando la reclusione è forzata e si trasforma in esclusione). Questo “mare” che connette e separa, che garantisce e organizza lo spazio dei flussi non è quindi una superficie omogenea ma il dispositivo che costruisce, rispondendo all’“ideologia del mercato”, una asimmetrica permeabilità degli spazi che, a sua volta, sostiene e favorisce il funzionamento del sistema economico; così come l’immagine di questo spazio puntinato, sconnesso, fatto di “isole” di diversa natura è il prodotto della “retorica della sicurezza” e del “demone della paura” [Z. Bauman, Il demone della paura, Laterza, Roma 2014]. Evidentemente, la descrizione di questo ordinamento spaziale così rigido e normalizzato è a sua volta una semplificazione che di certo non esaurisce la complessità della realtà. È uno sguardo a volo d’uccello su un mondo che, guardato da vicino, è invece saturo di eccezionalità, di specificità, di esperienze, di crepe. Spiragli attraverso cui può valer la pena guardare, perché mostrano le realtà delle tante, diverse, forme di vita che popolano la città, con i loro desideri e le loro necessità, spesso contrastanti, spesso contraddittori e conflittuali. Ed è proprio a partire da questi spiragli che è forse possibile identificare alcuni dei caratteri di un progetto capace di proporre operazioni e azioni, magari piccole (come suggerisce Deleuze), apparentemente inconsistenti, ma che abbiano invece la potenza del cambiamento. Caratteri

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L’architettura è protagonista, più o meno consapevole, di un esercizio “violento” del potere che trova nella forma degli edifici e della città alcuni dei suoi dispositivi più efficaci; lo dice chiaramente Foucault in uno dei paragrafi più citati di Sorvegliare e punire, quello dedicato al Panopticon, in cui si legge: Bentham si meravigliava che le istituzioni panoptiche potessero essere così lievi: non più inferriate, catene, pesanti serrature; basta


che le separazioni siano nette e le aperture ben disposte. Alla potenza delle vecchie “case di sicurezza”, con la loro architettura da fortezza, si può sostituire la geometria semplice ed economica di una “casa di certezza” [M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 221]. Il tentativo di riprendere un discorso sulla modernità, lontano dalle sue “certezze” e quindi dalle sue “case”, a cui stiamo assistendo da qualche decennio, passa in gran parte per l’individuazione dei caratteri necessari a mettere in crisi, non solo simbolicamente ma anche materialmente, proprio le separazioni nette e le aperture ben disposte delle case di certezza. Si tratta di immaginare un’architettura non impegnata nel realizzare progetti definitivi, tipici della modernità classica, ma sotto-sistemi imperfetti e incompleti, tipici della nuova modernità del XXI secolo [A. Branzi, Modernità debole e diffusa, il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira editore, Milano 2006, p. 10]. Un terreno molto scivoloso per l’architettura che, con il rifiuto delle separazioni, viene indebolita nel suo statuto spazio-temporale: in un certo senso il tempo torna a essere ellittico, reversibile, stagionale; e lo spazio diventa illimitato, naturale, attraversabile in tutte le direzioni [A. Branzi, op. cit., p. 88]; e, con la critica alle “aperture ben disposte”, viene messa in crisi nella sua identità materiale, fino a essere vista non più come arte del costruire, ma come pensiero conoscitivo complesso e mutante, che non fa più riferimento all’unità delle tecnologie e dei linguaggi, ma alle energie deboli e diffuse di trasformazione del territorio [Ivi, p. 16]. Ma, per quanto scivoloso, questo terreno è quello su cui si sta muovendo una parte consistente dell’architettura contemporanea. O perché spinta da ragioni politiche che mettono in primo piano collettività a geometria variabile, non più ispirate solo dal “diritto alla città” di cui parlava Harvey, ma pronte a spingersi verso nuove forme di coinvolgimento e quindi sempre più orientate all’auto-costruzione di processi e di forme. O perché pressata da ragioni economiche che “riducono” la dimensione e la potenza delle trasformazioni. O perché sorretta da ragioni culturali (in nome della post-modernità e di tutte le sue articolazioni, la più significativa delle quali, per l’architettura è la questione am-

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bientale) che vedono il peso dell’architettura come una potenziale minaccia Leggerezza è in questo senso uno dei primi caratteri sperimentati dai progettisti degli ultimi decenni; liberarsi della “massa”, concretamente e simbolicamente, provando a “toccare la terra con leggerezza” e rinunciando al dominio anche fisico sui luoghi, non solo affidandosi alla scelta organicista che rifiuta la separazione tra “interno” ed “esterno”, ma soprattutto cercando di minare il potere delle nette separazioni che la “grande architettura” può produrre. La leggerezza intercetta e assorbe la “porosità” di Benjamin assumendo le connotazioni, non solo formali ma anche funzionali e simboliche, che arricchivano, fin dall’origine, il suo discorso. In questa prospettiva, sul banco degli imputati non sale solo il “volume chiuso”, ma la specializzazione funzionale degli edifici e degli spazi urbani che aveva connotato la città modernista e, ancora una volta, il ruolo separatore che, nella città contemporanea è affidato al dispositivo infrastrutturale guardato questa volta nella sua “violenta” dimensione archetipica. Fin dalla “fondazione” del mondo […] la costituzione di vie, ponti, archi, acquedotti, cioè delle infrastrutture, appartiene al sacro e sappiamo che un nesso tragico unisce la violenza al sacro. La violenza che avrebbe portato, dall’origine (ma ancora oggi questa minaccia permane), alla distruzione dell’umanità viene ricomposta nell’atto sacrificale [A. Isola, Infra Esperienze. Forme insediative e infrastrutture, Marsilio, Venezia 2006], scrive Isola nella sua introduzione a uno dei volumi che raccoglie la ricerca “Infra”, sottolineando anche che questa inevitabile violenza archetipica, soprattutto per la differenziazione e la specializzazione sempre più spinta delle opere in cui si è materializzata, ha perso nel tempo il suo senso di “costruzione del territorio”: ognuna si appoggia su un sostrato storico ancora evidente senza però tramandarne il senso profondo di un’opera collettiva e comprensiva di costruzione del territorio, ma senza neppure mostrare segni di messa in forma di nuove ‘ecologie’ emergenti, che pure una lettura dei modi d’uso degli spazi segnala [A.

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Isola, Infra Atlante. Forme insediative e infrastrutture, Marsilio, Venezia 2003].


Il tentativo di sottrarre, alla parola infrastruttura, questa violenta logica separatoria dà ragione dell’interesse per gli esempi di costruzione informale degli insediamenti o per le esperienze di ephemeral urbanism, in cui il tema dell’effimero acquista una valenza operativa di grande intensità e di straordinario, seppure transitorio, impatto materiale. Cosa che ha portato alcuni a parlare di una “città cinetica”, in continua metamorfosi, molto lontana dalla separatezza e dalla rigidezza apparente della città contemporanea: la struttura fisica delle città del mondo sta evolvendo, cambiando e diventando più malleabile, fluida e aperta al cambiamento rispetto a quanto non lo faccia la tecnologia o le istituzioni sociali dalle quali sono generate. Oggi, gli ambienti urbani si trovano ad affrontare flussi sempre maggiori di movimenti umani, nonché un’accelerazione della frequenza dei disastri naturali e delle crisi economiche iterative che impongono l’indirizzo dei capitali verso le componenti fisiche delle città. Di conseguenza, gli ambienti urbani devono essere più flessibili per essere meglio preparati a rispondere, organizzare e resistere alle pressioni esterne ed interne. In un momento in cui l’incertezza è la nuova norma, attributi urbani come la reversibilità e l’apertura sembrano essere fondamentali per una forma più sostenibile di sviluppo urbano. Pertanto, per l’urbanistica contemporanea in tutto il mondo, è chiaro che, per essere sostenibili, le città devono assomigliare e facilitare i flussi attivi in movimento, piuttosto che essere limitate a una configurazione statica e materiale [R. Mehrotra, F. Vera, Ephemeral Urbanism: Cities in constant flux, ARQ ediciones, Santiago 2016, pp. 18-19].

Effimero è un altro degli aggettivi che accompagna la transizione di cui proviamo a individuare il processo; per certi versi si tratta dell’aggettivo più estremo, quello che mette in discussione uno dei caratteri più tipici dell’architettura: la durata. Ma, forse proprio per questo, le esperienze raccolte sotto questa definizione possono offrire degli spunti di grande interesse. Già da tempo, infatti, a un’idea di effimero legata alla dimensione spettacolare della performance, o ad architetture che dietro la loro veste spesso appariscente mostrano una volontaria inconsistenza, si è affiancata – e in parte sostituita – un’idea di effimero decisamente

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potenziata: da un lato nella capacità di rispondere alle logiche processuali di gran parte delle trasformazioni contemporanee; dall’altro in quella di rispondere a bisogni e desideri dotati di una particolare consistenza materiale e di un grande rilievo simbolico. I casi raccontati nel volume curato da Mehrotra e Vera, presentato alla Biennale di architettura di Venezia del 2016, sono molto utili a dare forza a questa diversa interpretazione: la loro condizione di temporaneità non indebolisce il significato delle singolari opere di urbanizzazione che il piccolo libro descrive, ma per certi versi lo potenzia. Il noto e meraviglioso caso del Kumbh Mela è solo la punta di un iceberg che, quando la rete ha cominciato a globalizzare le esperienze e le conoscenze, ha finito con lo speronare il vascello, ormai fantasma, su cui gli architetti dei CIAM avevano messo a punto la Carta di Atene, convinti di poter dettare i destini di crescita della città contemporanea. La potenza delle piccole immagini contenute nel libro Ephemeral Urbanism (il cui sottotitolo recita: Città in flusso costante) apre uno squarcio sull’idea di infrastruttura come sistema stabile, violento e definitivo. Nelle immagini che mostrano come si realizzano, in tanti luoghi del mondo, gigantesche urbanizzazioni temporanee e in quelle che raccontano casi più minuti, ma altrettanto potenti, in cui questa temporaneità assume nuove forme di stabilità, l’idea di infrastruttura, senza perdere il suo carattere di sistema organizzatore, acquista una nuova leggerezza, mostra la sua capacità di lasciare tracce labili sui territori che investe, espone la sua disponibilità a una potenziale crescita e decrescita continue. Ne mostra un’altra faccia, una versione “indebolita”, che si propone come “base di sostegno” capace di produrre “altro”: che siano modificazioni, completamenti, aggiunte, sottrazioni, ma anche forme di uso impreviste e significati complessi e perfino contraddittori. E proprio debole è un altro dei termini su cui si continua a ragionare. Un altro aggettivo ostico per l’architettura. Andrea Branzi lo spiega così, richiamando l’ermeneutica di Vattimo: Il concetto di debolezza, di cui parliamo, non sottintende nessun valore negativo: di inefficienza o di incapacità; esso indica piuttosto un processo particolare di modificazione e conoscenza che segue logiche naturali, non geometriche, processi


diffusi e non concentrati, strategie reversibili e auto-equilibranti [A. Branzi, op. cit., p. 14]. Le parole del teorico e praticante della modernità debole e diffusa propongono un’interpretazione “attiva” del concetto, che più che essere “condizione” diventa “azione”: non debolezza ma indebolimento. L’architettura indebolita non è rinunciataria e timida, ma è adattabile, flessibile, soft. È, per ricorrere a termini oramai abusati, resiliente. Per questo sa essere resistente. “Debole” diventa il contrario di “possente”, “muscoloso”, “autoritario” e non il contrario di “valido” o “efficace”. Un’idea di efficacia, distante dall’efficienza del pensiero occidentale e vicina alla cultura orientale, come spiega François Jullien: di fronte all’eroismo dell’azione, legato alla volontà – lo stesso dio greco è “demiurgo” e in Platone modellizza (geometrizza) – tutti conoscono la grande risposta del pensiero cinese, che attraversa tutte le scuole e che senza dubbio lo simboleggia: il “non agire” (wu wei). Il non agire cinese è tuttavia da noi spesso mal compreso, in quanto lo leggiamo a partire da noi, considerandolo qualcosa che ha a che fare con il disimpegno, la rinuncia, la passività: in sintesi il “distacco orientale” … chiunque abbia avuto modo di frequentare anche solo qualche cinese, tuttavia, sa benissimo che essi non sono affatto passivi, rinunciatari o disimpegnati. E che negli affari sono i migliori, come aveva già notato Montesquieu. Il non agire deve quindi essere considerato prendendo la formula nella sua interezza: “non fare nulla, ma che niente non sia fatto” (wu wei er wu bu wei) [F. Jullien, op. cit., p. 47]. Vocazioni Con il “non agire” dei cinesi risuona forte il concetto di “potenza di non” che Giorgio Agamben estrae dal personaggio melvilliano di Bartleby, con il suo “I would prefer not to” [G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 2011]. Una potenza che l’architettura non ha (quasi) mai

preso in considerazione (rarissima eccezione, il progetto per Place Léon Aucoc di Lacaton e Vassal). I caratteri tratteggiati nel paragrafo precedente lasciano intravedere un’idea di progetto la cui principale vocazione muove da qui, dalla “potenza di non”,

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purché “niente non sia fatto”. NON proporre risposte univoche a domande necessariamente semplificate, NON pensarsi come mezzo per un fine preciso, provare invece a cogliere “il potenziale della situazione”, comprendere e assecondare “le pendenze”, le inclinazioni, dei territori e delle persone che li abitano, per aiutare e consentire che le cose accadano. Essere infrastruttura, nel senso più proprio della parola. Per essere infrastruttura, l’architettura deve essere un’opera aperta, proprio nei termini in cui ne parlava orami quasi sessant’anni fa, nel suo famoso volume, Umberto Eco: Fare i conti con il Disordine; che non è il disordine, cieco e insanabile, lo scacco di ogni possibilità ordinatrice, ma il disordine fecondo di cui la cultura moderna ci ha mostrato la possibilità; la rottura di un Ordine tradizionale che l’uomo occidentale credeva immutabile e identificava con la struttura oggettiva del mondo. Questo, per Eco, era il punto di partenza di un’azione che provava a “dare forma” a quel disordine appoggiandosi all’ambiguità come pluralità di significati, a ideali di informalità, disordine, aleatorietà, indeterminazione degli esiti e soprattutto alla dialettica tra ‘forma’ e ‘apertura’: investigando cioè i limiti entro i quali un’opera possa realizzare la massima ambiguità e dipendere dall’intervento attivo del consumatore, senza peraltro cessare di essere ‘opera’. Intendendo per opera un oggetto dotato di proprietà strutturali definite, che permettano ma coordinino l’avvicendarsi delle interpretazioni, lo spostarsi delle prospettive [U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, (1962), Bompiani, Milano 2016, p. 16].

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Si tratta di temi, che hanno avuto recentemente molta fortuna, ripresi in particolare da Richard Sennett: il loro insieme serve a ricordare che lo scarto interpretativo proposto in premessa non implica una rinuncia alla materialità dell’architettura e alla concretezza delle trasformazioni che essa può produrre, ma porta a fortificare lo status del progetto come pensiero conoscitivo, complesso e mutante e a considerare l’“ambiguità” un valore. Una produttiva ambiguità è tra le vocazioni dell’architettura che si fa infrastruttura: opere porose e incomplete, che rifiutano di essere separazioni nette e che non esibiscono aperture ben disposte; che


ambiguamente contaminano natura e non natura; che ambiguamente costruiscono domesticità negli spazi pubblici; che ambiguamente intaccano la propria finitezza di edifici per far trasparire il proprio potenziale infrastrutturale, la propria capacità di offrirsi come base di supporto per una molteplicità di usi, per una molteplicità di comportamenti, per una molteplicità di modificazioni e di integrazioni: insomma per la produzione di effetti diversi. L’architettura come infrastruttura non può essere formalmente modellizzabile; deve saper produrre oggetti differenti che sappiano però rispondere in modo “analogo” al disordine delle condizioni contemporanee che hanno messo in crisi gli assunti della “modernità”. Queste opere contano non per “come sono” ma per “quello che fanno”: per rispondere ai loro nuovi compiti, le architetture-infrastrutture non potranno che essere devianti rispetto alle tipologie che la modernità aveva modellizzato. Quello che viene messo in discussione non è quindi la forma, quanto il ricorso a rassicuranti e comode “tipologie formali” (con tutto il loro portato simbolico e significante e i loro valori “estetici”, ma ormai sempre più lontane dalla vita del mondo). L’aspirazione connaturata all’architettura (come all’arte) a dare forma deve anch’essa effettuare il suo scarto: abbandonare la fissità del risultato oggettuale, tipizzabile e riproducibile, a favore di una possibilità di disseminazione di una serie di modalità trasformatrici. “Chi cerca la forma trova la morte, chi cerca la vita trova la forma” diceva Eduardo De Filippo. E la sfida è quella di dargli ascolto: il problema non è la forma in sé, ma la ricerca. Smettendo di cercare la forma, e provando a “cercare la vita”, l’architettura potrebbe forse riscoprirsi più bella di quanto non si immagini.

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New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza ANNA LUIGIA DE SIMONE

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In che modo l’uomo, nel tempo del Covid-19, può incontrare l’arte? Tra febbraio e aprile 2020, tutti noi ci siamo riparati in un rifugio sicuro. Nella “capanna”. Nella nostra casa d’origine. Varcando il confine. Isolandoci in una bolla esistenziale grazie alla televisione e al web [F. Casetti, Mediascapes: A Decalogue, in “Perspecta”, n. 51, ottobre 2018, pp. 21-44]. Abbiamo tentato ogni strategia per uscire dal mondo. A volte, negando la realtà stessa che ancora ci circonda. Oggi, forse, la fine della catastrofe si avvicina. Eppure, nessuno sa per quale sentiero sia possibile ritrovare la normalità smarrita. Continuiamo a vivere nel cuore di un’imminente apocalisse, angosciati da un oggetto – avrebbe detto Freud – non localizzabile [S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (1926), Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 310]. Mentre il nostro destino sembra compiersi lungo le coordinate di una geografia estrema. In uno spazio sempre più confuso tra il qui e l’ovunque. A rimanere coinvolti nell’emergenza sanitaria insieme a noi anche scrittori, pensatori, poeti, artisti, urbanisti, architetti. Se molti hanno preferito non esprimersi dinanzi all’orrore, altri si sono sentiti di condividere riflessioni e appunti visivi sui rispettivi profili Twitter e Instagram o hanno deciso di affidare immagini e idee sul presente e sul futuro dell’arte alla stampa e alla tv. Si pensi a tanti critici d’arte e d’architettura internazionali (come Hans-Ulrich Obrist e Stefano Boeri) che, interrogandosi sulle implicazioni politiche e culturali dovute alla chiusura dei musei


e alla messa in lockdown delle città, si sono trovati a ragionare sui confini toccati dalla sfera pubblica nella contemporaneità. E si pensi ad artisti, come Ai Weiwei, Damien Hirst, Shirin Neshat, che pur di arrivare alla community dei reclusi hanno aperto un dibattito interplanetario nei commenti in calce ai loro interventi sui social. In questo scenario, per un verso, sono state invocate le istituzioni, chiamate a uscire dalle proprie mura e a porsi quali protagoniste di un nuovo corso teso a fare arte al di fuori dei musei. Così da raggiungere i centri abitati, le periferie, il territorio, con investimenti finalizzati allo spazio pubblico tradizionale e con opere capaci di avviare uno scambio vivo e attivo con le persone. Per l’altro, si è riconosciuta la dimensione comunicativa che oramai abitiamo nell’epoca degli smartphones. L’agorà immateriale: uno spazio pubblico disponibile ad accogliere contributi artistici, elementi semiotici, visivi, auditivi, emotivi che riescono a stimolare la partecipazione su piattaforme web e social media. Per l’altro ancora, seppur in vista del prevedibile fenomeno post-Covid di ritorno alla corporeità, si è presa coscienza di un cambiamento epocale in corso da tempo che lega, sempre di più, la vita pubblica fisica e mediale in maniera reciproca e indissolubile. Esemplare di questa trasformazione silenziosa nel panorama delle arti, una delle immagini pubblicate da Banksy il 14 aprile 2020. My wife hates it when I work from home è un atto civile compiuto dallo street artist in un interno domestico divenuto spazio pubblico grazie all’uso disinvolto dei dispositivi tecnologici. Conferma la convinzione che tanti interventi condotti dall’artista sulla pelle della città prima della crisi fossero stati concepiti in una dimensione a metà tra ambiente fisico e mediale. L’immagine che appare sui telefonini raggiungendo le nostre case, le nostre vite, risponde a un approccio creativo comune ai protagonisti del XXI secolo che ritengono l’opera d’arte d’oggi un’entità disseminata [V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Einaudi, Torino 2019, p. 501]. Organismo che si rivolge a un pubblico coinvolto come interlocutore nel processo creativo. A una comunità che può incontrare l’opera in più momenti, per parti e in una qualsiasi delle sue estensioni poste dentro e fuori dallo schermo.

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E ha il potere di farla viaggiare, modificarla, manipolarla milioni di volte. Si delinea il profilo di un’arte che – rifacendoci alla New Genre Public Art teorizzata da Suzanne Lacy per un genere di opere degli anni Ottanta a matrice partecipativa – potremmo definire New Media Public Art [S. Lacy, Mapping the Terrain: New Genre Public Art, Bay Press, Washington 1995]. Si tratta di una tendenza in grado di spingersi oltre l’emergenza segnata dal presente in un territorio ibrido nel quale spazio tradizionale e virtuale confluiscono. Un’esperienza connotata da dinamiche partecipative materiali e digitali dove le azioni di artista e spettatori si confondono, nella quale il principio “social” di condivisione smette di guidare un gesto passivo e si fa interconnessione sociale, attivismo, scambio, incontro, costruzione di senso. Verso un manifesto per l’arte pubblica

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Si è verificato spesso, nel corso della storia. che catastrofi, guerre e periodi di profonda crisi si siano dimostrati, a distanza, opportunità di rinascita culturale, economica e sociale. È accaduto in occasione delle ricostruzioni post-belliche internazionali, del New Deal americano succeduto alla Grande Depressione, del miracolo italiano degli anni Sessanta, della riprogettazione di Gibellina (1968) dopo il disastro, della riqualificazione di Tirana sotto la guida di Edi Rama (2000). Eventi del tutto differenti caratterizzati da un presupposto comune: il raggiungimento di uno stadio estremamente negativo del quale costituiscono il sorprendente momento di ripresa. Pensando ai possibili scenari per il mondo post Covid-19, alcune voci della critica a livello internazionale si sono levate interrogandosi sul compito dell’arte e sul ruolo delle istituzioni in questo frangente e nel prossimo futuro. A essere presi in esame sono stati: il contraccolpo di un lungo periodo di restrizioni e di difficoltà d’accesso agli spazi dell’arte e della cultura sulle persone e sugli operatori del settore; la risposta del pubblico nei confronti dei palinsesti digitali predisposti dai musei; la modifica delle abitudini e l’efficacia di erogazione e fruizione dei prodotti artistici e culturali; le reazioni degli artisti.


Nel Regno Unito, Obrist, il direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, è stato tra i primi a esprimersi in merito, lanciando un appello ai rappresentanti del Governo. Nelle sue intenzioni, scongiurare la crisi economica dovuta alla pandemia, sostenere la definizione di una nuova generazione di artisti, colmare il vuoto di cultura creatosi per la sospensione delle attività culturali. Dalle pagine del quotidiano britannico “The Guardian”, il “Dontstopcurator” dell’arte contemporanea ha invocato l’impegno dalla nazione a predisporre fondi e idee per un imponente progetto d’arte pubblica. L’idea di Obrist si ispira al modello del PWPA (Public Works of Art Project) istituito dal Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta. Una poderosa iniziativa dedicata all’arte destinata allo spazio pubblico che, nel periodo della Grande Depressione, aveva visto all’opera più di 3.700 artisti (tra cui Jackson Pollock e Mark Rothko) e la produzione di circa 15.000 opere. Obrist afferma che gli Stati Uniti con il WPA si rivolsero alla comunità: gli artisti ricevettero stipendi e vennero messi in grado di fare ricerca e creare lavoro durante l’era del New Deal. Molte persone ebbero, così, il loro primo vero posto di lavoro e le prime commesse. E aggiunge: È un progetto così affascinante se si considera dove ci troviamo ora, sia in termini di supporto all’economia che di importanza nell’aiutare e prendersi cura degli artisti [H.-U. Obrist, in L. Bakare, UK gallery curator calls for public art project in response to Covid-19, in «The Guardian», 30 marzo 2020]. Ma non è solo la ca-

renza di finanziamenti a favore della produzione artistica a preoccupare Obrist. Il suo richiamo, rivolto direttamente alle istituzioni, mira al consolidamento del rapporto tra società e arte e intende rispondere al crescente bisogno di cultura, colmato in questi mesi dal web, con un ambizioso obiettivo: far arrivare l’arte contemporanea a un pubblico sempre più vasto tale da poter gareggiare con il popolo della rete. Ha spiegato: Quando la situazione sarà sotto controllo, bisognerà far entrare l’arte nelle comunità che non vi hanno normalmente accesso. In questo tempo di crisi, è importante che i musei pensino a come andare oltre i confini delle loro mura per incontrare la gente [Ibidem]. Anche in Italia istanze simili sono state difese da figure auto-

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revoli del sistema dell’arte e della cultura. In particolare, sul “Corriere della Sera” sono stati raccolti gli inviti di architetti, urbanisti, artisti e critici d’arte a “portare l’arte in strada”, a creare “inciampi visivi” con lo scopo di “ri-arredare e ri-estetizzare le città” (dal centro alle periferie) [V. Trione, L’arte è pubblica, in «La Lettura-Corriere della Sera», n. 444, 31 maggio, 2020]. Tra questi, Boeri, Vincenzo Trione, Odile Decq, Emilio Isgrò e molti altri. Boeri, in particolare ha caldeggiato quelle operazioni tese a rivolgere all’esterno attività collettive che di solito si svolgono all’interno. Così che la cultura, lo sport, l’intrattenimento trovino una nuova geografia all’esterno [S. Boeri, in A. Rastelli (a cura di), Coloriamo i muri delle città, in «La Lettura-Corriere della Sera», n. 442, 17 maggio 2020]. Mentre, nella convinzione che le

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grandi cattedrali dell’arte abbiano il dovere di andare incontro alle persone al di fuori degli spazi espositivi tradizionali, per Trione, i musei dovrebbero uscire dai propri confini. Abbandonare la cornice dentro cui tendono a iscrivere le proprie iniziative. Per aprirsi al mondo della vita. E dissolversi nel gran teatro delle città [V. Trione, op. cit.]. Dovrebbero collaborare alla realizzazione di opere capaci di sovvertire l’urbanistica: Non ‘semplici’ sculture da contemplare, ma installazioni in grado di confrontarsi in modo problematico con gli ambienti, di cui possono diventare parte integrante, ristrutturandone l’organizzazione e la percezione (anche se in maniera provvisoria). Trione si riferisce a costruzioni di public art, in grado di favorire il possibile rinnovamento antropologico di intere comunità, alimentando, in chi vive in un determinato quartiere, senso delle radici e dell’appartenenza, coscienza civile, rinnovata dignità. Dunque, inattese occasioni di partecipazione diffusa: consapevole e ludica. Nel complesso, emergono le esortazioni ai cittadini a riappropriarsi dell’arte e alle istituzioni a non rimanere indifferenti. Nate, forse, dal timore di una sostituzione dell’esperienza diretta e corporea – resa sempre più difficoltosa e meno confortevole dalle oramai familiari restrizioni imposte dalle regole di distanziamento – con quella mediata dal web, che ha conosciuto un boom inatteso durante l’isolamento. A farsi strada, la previsione, o meglio la speranza, di un ritorno all’umano, al corpo, al conte-


sto. Eppure l’attuale indigestione digitale sembra averci liberati almeno per un po’ dal dover ricorrere alla suspension of disbelief per negare la separazione tra sfera fisica e digitale. Ora, ad apparire evidente sembra solo il provvisorio spazio dell’esistenza nel quale da tempo siamo immersi. Quella dimensione espansa nella quale l’arte ha già il suo spazio. Dove se il divario c’è non è più percepibile. New Media Public Art Sin dai primi mesi dell’emergenza sanitaria, alla logica delle commesse pubbliche per lo spazio pubblico, auspicate dal mondo della cultura, ha fatto da contrappunto la mobilitazione degli artisti caratterizzata da interventi davvero “pubblici”, “spontanei”, “offerti alla libera visione” e “aperti alla contaminazione” proposti durante il loro personale periodo di lockdown. Lavori che mettono in connessione, e spesso ribaltano, categorie come esterno-interno, privato-pubblico, fisico-virtuale e si servono della mediasfera per provare a saldare esperienza on-line ed esperienza off-line. In linea con quanto affermato da Boris Groys, per il quale: internet è un mezzo d’informazione, ma l’informazione è sempre informazione di qualcosa e questo qualcosa si trova sempre al di fuori di internet, ovvero off-line [B. Groys, In the Flow (2016), Postmedia Books, Milano 2018, p. 155]. Innanzitutto, Banksy che, dopo My wife hates it when I work from home e la sequenza di fotogrammi legata a questo stesso post, ha continuato a dedicare opere al racconto della pandemia per poi caricarne foto e video, enfatizzando quel cortocircuito tra fisico e mediale al quale ci ha abituato, usando i social come compimento, rivelazione, rivendicazione di dipinti e murales sparsi per il mondo (ad es. Love is in the Bin, 2018; Venice in Oil, 2019; God bless Birmingham, 2020). Tra le immagini ispirate al Covid-19: il 6 maggio 2020, il disegno, dal titolo Game Changer, in cui un bambino rimpiazza Batman e Spiderman, riposti nella cesta dei giocattoli, con il pupazzo del suo nuovo supereroe, un’infermiera con mantello e mascherina; il 14 luglio, If You Don’t Mask - You Don’t Get, la serie di ratti raffigurati nella metropolitana di Londra che indossano mascherine, le usano come

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paracadute, starnutiscono, spruzzano gel antibatterico come testimonia il video London Underground - undergoes deep clean sul canale Instagram dell’artista che termina con la scritta “I get lockdown, but I get up again”; l’11 dicembre 2020, Aachoo!! il murale con una vecchietta che starnutisce apparso in un sobborgo di Bristol e completato dallo scatto condiviso su Instagram nel quale un uomo con un ombrello in mano viene quasi scaraventato via dalla forza dello starnuto (nel post, dove l’immagine è raddrizzata, lo starnuto sembra piegare anche i palazzi, in realtà, posti lungo una strada ripida). Ma sono tanti i protagonisti dell’arte che hanno dato seguito alle esternazioni rilasciate sui propri profili social con installazioni site specific. Zehra Dog¨an, l’artista curda condannata nel 2016 per aver postato un suo dipinto che raffigurava la distruzione della città turca di Nusaybin, dopo aver condiviso foto dei suoi connazionali con cartelli a favore dell’Italia (#resistiAMOItalia), ha donato una sua opera d’arte pubblica a Brescia. Dog¨an, la cui pratica artistica è inscindibile da una profonda militanza, ha voluto celebrare una tra le città italiane più colpite dalla prima ondata di Covid-19 per la sua resistenza contro il virus invasore: come confermano i versi di Bella ciao, riportati nell’immagine digitale inviata dalla sua quarantena a Ginevra e fatta stampare su un telo di 130 mq installato lungo Piazza del Foro il 20 luglio 2020. Nell’opera, compare la stessa Dog¨an nelle vesti di infermiera: una moderna combattente che lotta brandendo lo stetoscopio come fionda per colpire il mostro, il Coronavirus, a terra sotto di lei. Anche la statunitense Jenny Holzer, che aveva postato sul suo profilo Instagram video con messaggi come “We Want to Live” e “Protect Nurses Doctors Yourself” nei mesi più difficili della pandemia, ha scelto di indirizzare a coloro che vivono lo spazio pubblico un messaggio inequivocabile: prestare attenzione alle misure di sicurezza igienico-sanitarie. Dear Essential Workers: Wash and Protect (2020) è parte del progetto Messages for the City in cui 12 artisti, tra cui Pedro Reyes, Mel Chin e Christine Sun Kim, sono stati invitati a presentare opere in grado di sensibilizzare la popolazione americana, fortemente divisa su come affrontare l’emergenza.


La paura mangia l’anima di Rirkrit Tiravanija è accomunata dallo stesso intento a voler incitare i cittadini al coraggio e alla resistenza come indica il titolo e la scritta apparsa su una bandiera affissa sulla facciata della chiesa milanese di San Paolo Converso, il 5 marzo 2020, dopo il commento lasciato dall’artista sul profilo Instagram di Obrist: “I never seen it like this”. Mentre alcuni urban artist, come Vhils e JR, hanno ricondotto alla riflessione sul Covid-19 le rispettive poetiche, già in origine situate in un orizzonte ipermediale e non indirizzate alla semplice realizzazione dell’oggetto artistico, ma all’attivazione di processi relazionali. Vhils, grazie alla sua tecnica di bassorilievo (scratching the surface) ha fatto emergere i volti di 10 operatori sanitari dinanzi al Centro Ospedaliero Universitario di São João a Porto, coinvolgendo nelle fasi di lavorazione i follower tramite Instagram. JR ha applicato le sue illusioni, leggibili solo attraverso l’obiettivo e aperte all’interazione con il pubblico, a Finding Hope, realizzato sul suolo stradale di Parigi e visibile esclusivamente dalle finestre delle case1. L’intervento raffigura un occhio che scruta da una tendina (costituita dalle strisce pedonali) simbolo dell’angoscia e del desiderio di accedere allo spazio esterno o di spiarlo attraverso uno schermo2. Indicano una progressiva autonomia dei social media, divenuti luogo di un’attiva vita sociale degli abitanti della rete, territorio aperto alla libera interazione on-media (acuitasi nel periodo della pandemia), quegli interventi diretti in maniera specifica alla community dei follower e per lo più indipendenti dalla necessità di avere un seguito nello spazio reale, che di fatto tendono a doppiare o a surrogare. Numerosi gli esempi: Ai Weiwei, dopo aver pubblicato su Instagram (5 marzo 2020) il contestato post satirico, in cui accostava il Covid-19 alla pasta: di “invenzione” cinese, ma esportato e diffuso dagli italiani, si è ricreduto, iniziando a repostare, come fossero ready-made, le pagine delle testate giornalistiche riportate su Twitter e Instagram e dedicate al virus (ad es. la copertina del «The Guardian», che mostra un operatore civile mentre misura la temperatura a un passante, o i necrologi usciti su «L’eco di Bergamo», che attestano l’inesorabile perdita di vite umane); Takashi Murakami che, per esorcizzare la crisi propone Flower Mask, la serie di mascherine decorate con il suo

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tipico motivo floreale (la celebre icona kawaii), poi, messa in vendita sul suo e-shop; Butterfly Rainbow e Butterfly Heart, le opere di Damien Hirst scaricabili gratuitamente dagli utenti in formato pdf (poster A3), che raffigurano un cuore e un arcobaleno, simboli di solidarietà e speranza realizzati con farfalle vive incollate su tela (riferimento alla morte ricorrente nel suo lavoro)3; inoltre, Stay apart together che testimonia il trasferimento della ricerca di Spencer Tunick nel laboratorio smaterializzato del web. L’artista ripensando il proprio metodo creativo, consistente nel ritrarre masse di corpi nudi nella città, ha coinvolto a distanza decine di volontari, finendo per riconoscere pienamente i social come i nuovi spazi pubblici da riempire per ricreare quel senso di collettività caratteristico delle sue foto. Infine, i social vengono riconosciuti come mura cittadine dove lasciare messaggi alla comunità, sembra suggerire dal suo isolamento in Normandia, David Hockney, nel far postare (sul profilo del Louisiana Museum of Modern Art di Fredensborg) il suo nuovo I-pad drawing che recita: Do remember they can’t cancel the spring! O come piedistalli sui quali poter rendere tributo alla memoria. Lo fa Shirin Neshat che accende una candela, “per tutti coloro che hanno perso la vita combattendo il Coronavirus nel mondo” e per “quelli che si sono ripresi”, in un breve video: un monumento postato esclusivamente su Instagram il 28 marzo 2020. Nello spazio dove, al tempo del Covid-19, l’uomo può incontrare l’arte.

L’opera è stata pubblicata sulla copertina del «Time» il 27 aprile 2020.   È ispirato alla pandemia anche il murale The creation of a new world? («Vanity Fair», 20 maggio 2020), omaggio alla Creazione di Adamo di Michelangelo, che ritrae una giovane donna in pantofole mentre con un dito prova a entrare in contatto con il Creatore. 3   Le versioni originali del lavoro sono state vendute in edizione limitata e il ricavato devoluto in favore del National Health Service inglese. 1 2

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Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design ENRICA BISTAGNINO

Nel contesto attuale – scenario di una continuità di cambiamenti e trasformazioni pervasivi di moltissimi ambiti, in cui troviamo una complessità e vastità di media e tecnologie, di sistemi di comunicazione, di prodotti, di forme di realtà, di figure professionali, di istanze formative, di bisogni emozionali – il design, nelle sue molteplici declinazioni e finalità, sembra essere sempre più centrale. Trasversalità e una sorta di attitudine all’auto-rigenerazione sono alcuni degli elementi che contribuiscono a rendere questa sfera del progetto adeguata a intervenire nelle dinamiche della complessità contemporanea, nelle eventuali disarmonie, nelle crisi sempre più frequenti e multiscalari, nella frenetica necessità di elaborare continue idee. Articolato, capillare ed evolutivo, il design sta sempre più manifestando una vistosa eterogeneità di questioni teorico-disciplinari che, inevitabilmente, si confrontano, in modo più o meno intenzionale ed esplicito, con l’idea di design maturata nelle esperienze del secolo scorso che sono certamente esperienze progettuali, ma sono anche esperienze pedagogiche. Di conseguenza, per provare a comprendere la contemporaneità del design e delinearne una prospettiva futura, sembra fondamentale continuare a rintracciare degli elementi di continuità o discontinuità con il passato, in modo da individuare una successione di cause ed effetti da cui traguardare il presente e, appunto, prefigurare scenari successivi. In questa ricostruzione, almeno fino ad oggi, i capisaldi teo-

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rici si trovano soprattutto, nelle Scuole del Novecento dove, in una sostanziale ed efficace sovrapposizione fra teoria e prassi, sono stati sviluppati differenti impianti formativi, articolate visioni e metodologie progettuali, importanti questioni disciplinari. Sembra importante, quindi, continuare a raccontare la storia delle Scuole; precisarne, volta per volta, questioni di dettaglio spesso tralasciate da letture di carattere complessivo; rivelare, attraverso i protagonisti, le ‘storie’ degli accadimenti omessi dalla ricostruzione ufficiale – episodi secondari, talvolta privati, ma con grande valore di precisazione del clima culturale, relazionale ecc. In questa direzione, desidero proporre alcune considerazioni sulla Hochschule für Gestaltung di Ulm (1953-1968), uno tra i riferimenti principali rispetto a quanto sopra esposto, almeno per tre ragioni. La prima riguarda la vicinanza fra l’impianto didattico e l’articolazione disciplinare definiti a Ulm, con quanto ancora oggi proposto nei principali percorsi formativi del design – penso, ad esempio, all’organizzazione didattica in percorsi formativi autonomi relazionati a differenti ambiti e tipologie di progetto; penso agli insegnamenti inerenti l’estetica, la semiotica, la sociologia; penso all’insegnamento della matematica finalizzata alla modellazione di forme geometriche e free-form ecc. La seconda riguarda la visione del design come forma di espressione autonoma dalla sfera dell’arte e dell’architettura, resa possibile a partire dalla messa in discussione della valenza simbolica dei prodotti a favore di valori d’uso legati alla funzione. Una trasformazione radicale e fondamentale ai fini della definizione di uno statuto disciplinare autonomo che certamente ha favorito lo sviluppo di gran parte del design così come lo intendiamo oggi. La terza riguarda le eccezionali personalità che, come docenti e studenti, hanno partecipato a tale esperienza. Considerando la complessità dei molti temi rispetto ai quali è possibile approfondire l’argomento, credo interessante, e utile dal punto di vista dell’attualizzazione dei fenomeni, circoscrivere la riflessione ad almeno tre parole chiave: didattica, estetica, disegno.


Didattica Un tema primario del dibattito intellettuale maturato nella HfG è certamente quello inerente la formazione, che, in parte per la natura stessa dell’argomento, in parte per la peculiare propensione del corpo docente della Scuola al confronto e alla sperimentazione, risulta fondamentalmente caratterizzato da una dinamica articolazione di ipotesi aperte a ulteriori verifiche e variazioni. L’istanza formativa a fondamento dell’impostazione didattica è quella di preparare progettisti in grado di operare in modo responsabile nel complesso contesto socio-economico del dopoguerra, andando anche a contrastare la prorompente tendenza, messa in atto dalla politica ‘produttivistica’ sostenuta da Konrad Adenauer, verso livelli incontrollati di produzione e consumo, da più parti considerati responsabili di assurde anomalie sociali1. Per la HfG ricostruire non significa solo ri-edificare e ri-produrre, ma ricercare, attraverso l’analisi delle nuove esigenze, quelle condizioni necessarie per dare nuove ragioni e vigore al­ l’intervento di progetto, per mettere al servizio dell’uomo i progressi della tecnica, per creare un legame tra l’intelligenza critica e l’attività creativa [T. Maldonado, Tre lezioni americane, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 70-71]. In questa direzione il rinnovamento didattico prende forma attraverso un assiduo confronto critico sulle principali teorie ed esperienze educative maturate nel Novecento; grazie a un corpo docente di altissima qualità, caratterizzato da una significativa eterogeneità culturale che contribuisce ampiamente ad alimentare la discussione critica, viene sviluppato un modello che abbraccia l’aggiornamento delle discipline e dei metodi di insegnamento in relazione al perfezionamento del processo progettuale e alla diffusione di un atteggiamento etico nell’esercizio della professione. Attraverso la logica inesorabile, il metodo dialettico, il rigore scettico del pensiero [R. Banham, Retrospettiva, in H. Lindinger (a cura di), La Scuola di Ulm, Costa & Nolan, Genova 1988, pp. 57-60] la HfG avvia un vero e proprio processo di rifondazione

filosofica dell’educazione che, prima di inasprirsi e atrofizzarsi nella contrapposizione ad oltranza che caratterizza l’ultima fase

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della Scuola, genera una rilevante dinamica pedagogica contraddistinta, a volte, da una componente pragmatica, sostenuta dai «pratici» – Gugelot, Aicher –, a volte, da una componente teorica sostenuta dai «metodologi puri» – Rittel, Archer –, a volte, dall’integrazione di queste due componenti, voluta dal gruppo dei mediatori – Maldonado, Bonsiepe, Schnaidt [M. Bistolfi, L’HfG di Ulm: speranze, sviluppo e crisi, in «Rassegna», n. 19, settembre 1984, p. 14].

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In questo articolato scenario, la vitalità intellettuale e operativa di Tomás Maldonado – a partire dal 1956, e con sostanziale continuità, rettore, pro-rettore e membro dei Collegi rettorali – è ancora una volta fondamentale soprattutto rispetto al significativo superamento dell’enfasi attribuita all’espressività e all’intuizione di impronta Bauhaus, che la HfG aveva adottato in fase di avvio. Per superare il learning by doing portato da Max Bill a Ulm, che, per l’indeterminatezza didattica, viene presto considerato un modello didattico inadeguato, Maldonado, introduce campi di conoscenza astratti – pensiamo, ad esempio, nell’ambito della comunicazione visiva, alla teoria della simmetria, alla topologia visiva e alla teoria della percezione – ed elabora una filosofia dell’educazione di tipo scientifico, cioè una teoria capace di finalizzare e, pertanto, intenzionalizzare l’attività dell’educatore orientandolo, nello specifico, a integrare una realtà (quella della teoria e della prassi) artificiosamente bipolarizzata [T. Maldonado, Educazione e filosofia dell’educazione, in T. Maldonado, Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974, p. 91]. Soprattutto a partire dal Collegio rettorale del 1958 (Aicher, Gugelot, Maldonado) Ulm designa la centralità della scienza e del metodo, che risultano così tra i principali tratti della cultura formativa della Scuola. All’interno di un modello educativo dinamico, rigoroso, ma flessibile, un modello in cui sia contenuto il criterio della correggibilità, composto da una periferia ricettiva e adattabile e un nucleo stabile, definito attraverso i contributi preziosi della filosofia della scienza [Ibidem], la HfG cerca di aprire la strada ad una creatività intesa come pratica razionale che abbia, come osserva Gui Bonsiepe, la ‘rispettabilità della scienza’. L’insegnamento del metodo è, quindi, fondamentale per dotare i futuri progettisti di uno strumento per controllare, secon-


do criteri ‘oggettivi’, il complesso processo decisionale del progetto e dare fondamento alle scelte operate. La metodologia ulmiana risulta, quindi, sinonimo di ragione strumentale (…), insieme di strumenti di navigazione, che rendono più agevole l’orientamento durante il processo progettuale [G. Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale, Feltrinelli, Milano 1993, I ed. 1975, pp. 67-68].

Tuttavia, l’ampio entusiasmo verso la metodologia, non deve far pensare che la sua attuazione, nel progetto, sia sempre stata lineare. È rintracciabile, infatti, una certa ‘distanza’ tra il generale valore metalinguistico del metodo e la sua adattabilità alla prassi progettuale, in particolare ai suoi differenti livelli di complessità e problematicità. In relazione a queste ‘anomalie’ applicative, la questione metodologica sembra assumere la fisionomia di una sorta di esercizio critico, una modalità di ragionamento, potremmo dire una ‘tecnica intellettuale’ che tende a perfezionarsi attraverso il suo stesso utilizzo, proponendo nodi problematici, orientamenti di indagine, conferme e smentite che, in modo sinergico, contribuiscono a perfezionare e rinnovare le procedure metodologiche. D’altra parte la distinzione fra la metodologia scientifica del design e quella delle scienze esatte è evidente e chiaramente sottolineata da Maldonado il quale afferma che il progetto non può essere risolto mediante l’uso di un costrutto matematico o logico che funge da modello euristico [T. Maldonado, Scienza e progettazione, in Avanguardia e razionalità, cit.] (8) e non deve basarsi solo su uno strumentario di “problem-solving” estraneo a qualsiasi riferimento antropocentrico [T. Maldonado, Diagnosi del disegno, in Avanguardia e razionalità, cit.]. Ricordando che proprio l’imperfetta conoscenza nel modo di procedere costituisce l’essenza della problematicità (10) in quanto chi risolve un problema desidera raggiungere un certo risultato o una certa situazione, senza tuttavia sapere in che modo [A. Newell, J.C. Simon, Report on a General Problemsolving Program, Proceedings of International Conference on Information Processing, 256-264 (Unesco House, France, June 13-23, 1959)], la meto-

dologia progettuale sembra dover mantenere un ruolo strumentale per la descrizione delle fasi, delle operazioni e delle modalità

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tecniche funzionali allo sviluppo del progetto, senza tuttavia elaborare un processo unico e definitivo che, appunto, sarebbe inefficace e in contraddizione con la natura variabile delle diverse situazioni problematiche. In altre parole, il metodologismo ulmiano sembra riferibile a un complesso di criteri per comprendere le criticità dei problemi progettuali e per impostare sistematicamente delle risposte razionali, nella moderna consapevolezza, però, che le soluzioni proposte non derivano da un processo selettivo ‘automatico’, ma da un articolato susseguirsi di scelte. Ecco, allora, che la metodologia progettuale elaborata a Ulm, fluida e trasformativa, in un certo senso fornisce un’apertura al ‘ragionamento intuitivo’ come momento di sintesi, di svolta nello sviluppo del progetto. A tale riguardo, Andries van Onck ricorda che a Ulm si cercava di circoscrivere la tematica del design in modo sistematico, ma nelle soluzioni singole dei problemi progettuali, soprattutto della fase finale, si poggiava sempre, con un salto qualitativo, sull’intuizione [A. Van Onck, La perfezione, in «Rassegna», cit., p. 31]. Il rigore ‘logico-formale’ alla base del processo metodologico rappresenta, per molti ulmiani, un atteggiamento fondativo e imprescindibile del progetto così come della sua didattica, al punto da considerare eventuali procedure orientate a una maggiore soggettività una sorta di contraffazione, un’operazione eticamente condannabile [R. Antonucci, Arte e/o design, Mimesis edizioni, Milano 2016, p. 225]. Significativo di questa insofferenza, un fatto raccontato dallo studente Klauss Krippendorff relativamente a un acceso confronto fra Mervyn W. Percine (direttore del Laboratorio di Percezione Visiva), Aicher, e Maldonado in merito ai criteri adottati per lo svolgimento di una ricerca sul colore coordinata da Percine. Nonostante Aicher sostenesse che la procedura ‘empirica’ utilizzata da Percine non andasse a inficiare la generale impostazione metodologica, Maldonado manifestò un’in­ tolleranza assoluta nei confronti dell’episodio, arrivando addirittura a mettere in discussione lo stesso Laboratorio di Percezione Visiva [K. Krippendorff, The semantic turn. A new foundation for design, CRC Press, Stati Uniti 2006, p. 306]. Sullo sfondo di questa visione generale della didattica, l’impianto pedagogico prevedeva un passaggio progressivo da conte-


nuti teorici a tematiche progettuali. Giovanni Anceschi ricorda che Maldonado illustrava questo modello concettuale attraverso uno schema grafico particolarmente efficace: quattro colonne rappresentavano i quattro anni di svolgimento della didattica; la diagonale ascendente del rettangolo formato dalle colonne demarcava due macro-categorie di insegnamenti – le discipline teoriche, della rappresentazione, del basic ecc. (a sinistra) e quelle del progetto (a destra). Nel primo anno, la proporzione era tutta a favore delle materie di base, nel quarto il rapporto si ribaltava a favore del progetto, nel secondo e nel terzo si attuava questo graduale spostamento formativo [Conversazione sul Disegno a Ulm con Giovanni Anceschi, in E. Bistagnino, Il Disegno nella Scuola di Ulm, FrancoAngeli, Milano 2018, p. 114].

Una fra le azioni paradigmatiche di questo modello è la revisione del Corso Fondamentale ereditato dal Bauhaus, che abbandona l’originaria natura sperimentale finalizzata a stimolare la propensione creativa degli studenti, per acquisire contenuti teorico-scientifici e sviluppare esercitazioni prevalentemente concettuali2 in modo da evitare argomenti quali uso, produzione, costi, caratteristiche dei materiali [G. Bonsiepe, Teoria e pratica… cit., p. 120], inadeguati rispetto alle conoscenze anche eterogenee degli studenti del primo anno. Ricordo, per fare qualche esempio, le esercitazioni di basic design svolte nell’ambito della Sezione Comunicazioni visive, nelle quali si rileva una spiccata propensione verso processi configurativi di matrice matematica – penso alle rappresentazioni delle curve di Peano, penso al riferimento ai modelli elaborati da David Hilbert per la gestione di esercizi di riempimento di una superficie piana delimitata, attraverso operazioni di iterazione su una curva piana –, analogamente ricordo gli studi sulla topologia, sviluppati nella Sezione di Design del prodotto, come quelli relativi alle superfici non orientabili. In generale, poi, rispetto a questo discorso sulla formazione, in una conversazione con Giovanni Anceschi [Conversazione sul Disegno, cit., pp. 90-128] è stato rimarcato che nella Scuola gli studenti, anche nella didattica, facevano un lavoro di frontiera, di ricerca, talvolta perfino condotto in collaborazione con le aziende. Come nella ricerca coordinata da Gui Bonsiepe, in un corso

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di Basic Design, sulla retorica verbo-visiva: Senz’altro uno dei pilastri della produzione teorica ulmiana, che poi si è concretizzata in un testo, Verbal-visuelle Rhetorik comparso appunto sulla rivista “Ulm” nel 1966. Per inciso, testo tradotto subito anche in italiano; questo, bisogna dirlo, a merito della linea dell’avanguardia artistica italiana perché era stato pubblicato su “Marcatre”3 [Ivi, p. 116]. Attività di ricerca in cui, appunto, gli studenti erano ampiamente attivi e non solo sul piano dell’esecuzione: agli studenti veniva consentito di avanzare robuste congetture teoriche. Questa pratica – e cioè che gli studenti, in una certa misura, producessero ricerca dentro alla didattica – è, in effetti, molto particolare. Ma non era un caso isolato, anche Albers a Yale, per quanto riguarda la ricerca sul colore, si muoveva in questa direzione sperimentale [Ibidem]. Una collaborazione alla ricerca che produceva conoscenze empiriche dalle quali, poi, poteva prendere forma un sapere più solido e formalizzato. Ciò generava negli studenti un atteggiamento di consapevolezza che sfociava anche nella costituzione di organizzazioni autonome, orientate a ideare e sviluppare iniziative di ricerca autogestite, magari anche piccole, ma di particolare interesse. Giovanni Anceschi ricorda, a tale riguardo, che due singoli studenti (uno di loro, Hartmut Kovalke dopo Ulm, è andato in Olanda dove ha collaborato con lo studio Total Design, l’altro – mi pare – era Rolf Müller che ha collaborato al progetto per le olimpiadi di Monaco e più tardi ha diretto la leggendaria rivista “HQ”, High Quality) organizzarono diskussion plakat, un’iniziativa finalizzata a condividere una riflessione sul design di manifesti. Avevano distribuito un invito, un cartoncino, che segnalava l’argomento dell’incontro: “Primo tentativo di comunicazione visiva”. Un invito fatto agli studenti da due singoli studenti. Anche due soli ragazzi erano in grado di ideare, elaborare e coordinare questo genere di attività. Significativo è che alla discussione andarono anche i docenti. Anche Maldonado ci andò. E questo è un dato interessante [Ibidem]. Altri elementi di interesse sono la rivista gestita dagli studenti, molto ulmiana, poverissima: immagini piccole, rappresen-


tazioni schematiche estremamente austere [Ivi, p. 118] e la messa in mostra che costituiva un ulteriore efficace strumento pedagogico estremamente utile per selezionare gli studenti in funzione dell’ammissione definitiva alla Scuola: Il primo anno era di prova per gli studenti: […] già alla fine del primo trimestre – ma la cosa si ripeteva alla fine del primo anno – era fissato un momento in cui negli spazi della scuola gli studenti esponevano i loro lavori. Una mostra conclusiva che potesse servire ai docenti per verificare il livello qualitativo dei risultati raggiunti, le attitudini e gli interessi e poi prendere una decisione. Nelle mostre, che consistevano nell’esporre i lavori svolti durante la didattica, oltre ai materiali visivi (disegni, fotografie, schemi, ecc.), venivano presentati anche i dossier delle lezioni – gli appunti – opportunamente rielaborati in testi e immagini descrittivi dei contenuti svolti [Ibidem]. Quindi, per chiudere, se volessimo segnalare i tratti principali della didattica della HfG potremmo certamente affermare che le materie scientifiche, contribuendo al processo di sviluppo della Hochschule für Gestaltung, “hanno fatto scuola” nel vero senso della parola [M. Krampen, Il contributo dell’insegnamento scientifico alla HfG, in «Rassegna», n. 19, settembre 1984, p. 20] e che la rivoluzione del complessivo corso di studi, a partire dal Basic, operata da Maldonado è stata davvero una delle cose più importanti che ha fatto [G. Anceschi, Conversazione sul Disegno, cit., p. 122]. Estetica Senza ambizioni di esaustività, trovo importante accennare alla riflessione sviluppata dalla HfG intorno alla questione estetica del design, che oltre ad essere stata uno dei temi centrali nel dibattito della Scuola può rappresentare un interessante riferimento anche per la contemporaneità. In un crescente proliferare di oggetti, materiali e ‘immateriali’, e in un altrettanto proliferare di forme, sembra infatti ancora utile, oggi, riconsiderare la radicale posizione teorica elaborata a Ulm che, in risposta ai repertori formali di derivazione artistica proposti dal design tardo ottocentesco e, pur se in un aggiornamento estetico di tipo razionali-

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sta, in parte ulteriormente confermati dal Bauhaus, ha formulato, soprattutto grazie a Tomás Maldonado e Max Bense, docente a Ulm di Filosofia e Semiotica dal 1954 al 1958 e nel 1966, una sorta di estetica scientifica del design. Si tratta di un cambiamento fondamentale: per la prima volta sembra essere teorizzata in modo esplicito la diversità ontologica tra design e arte. Se, come affermato nella teoria estetica di Max Bense, la condizione che può accomunare sia gli oggetti tecnici, sia gli oggetti estetici, si attua nel raggiungimento della perfezione, che ovviamente è pensabile soltanto come approssimazione relativa [M. Bense, Estetica, Bompiani, Milano 1974, p. 50], tuttavia ciò avviene su correaltà (la correaltà include tutto ciò che è realizzato grazie a un processo di creazione o costruzione, quindi opere d’arte e oggetti tecnici) differenti. Per gli oggetti estetici si tratta di perfezione rispetto alla bellezza (correaltà casuale), per gli oggetti tecnici si tratta di perfezione rispetto allo scopo (correaltà necessarie). La modalità della correaltà, infatti, è propria di tutto ciò che non è ‘dato’, ma ‘fatto’ mediante un processo di costruzione o creazione e comprende pertanto, oltre alle opere d’arte, anche tutti gli oggetti tecnici e tecnologici, nei quali, oltre alla dimensione puramente materiale, si manifesta quella della funzione che sostituisce la bellezza dell’oggetto estetico. Un rinnovamento culturale profondo, quindi, in cui i prodotti di design non sono considerati opere, ma oggetti, e il progetto non è interpretato come un problema di creazione, ma di metodo. Questo cambiamento teorico, è rintracciabile, pur se in modo indiretto, nella definizione di disegno industriale proposta da Tomás Maldonado al Congresso dell’International Council of Societies of Industrial Design (ICSID) tenutosi a Venezia nel 1961, che andrà a sostituire quella ratificata a Stoccolma nel 1959 in occasione del primo Congresso dell’ICSID: Il disegno industriale è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente […] ovvero le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore che dell’utente [T. Maldonado, Aktuelle Probleme der Pro-

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duktgestaltung, manoscritto per la conferenza Education for Design, 1961]. Un’idea di design, quindi, in cui la forma è considerata


come possibilità della struttura, espressione delle proprietà interne dell’oggetto, dei requisiti tecnologici e funzionali, ovvero esito visivo della qualità progettuale. Le ricadute di questa nuova visione del design sono molteplici. Innanzitutto, viene favorita la formazione di un’autonomia disciplinare che una concezione progettuale di natura artistica avrebbe certamente limitato; viene poi reso possibile l’ampliamento del repertorio degli oggetti appartenenti alla sfera del design con prodotti che per struttura e funzione sono estranei all’idea di abbellimento (mezzi di trasporto, elettrodomestici, apparecchi medicali, nonché sistemi di informazione, ecc.); infine, anche in rapporto alla forte dimensione etica attribuita al progetto, viene alimentata la ricerca verso la definizione di processi di analisi e gestione dei dati, funzionali alla soluzione di molteplici livelli di complessità progettuale, che mettano in atto l’acquisizione di una metodologia progettuale di natura scientifica. Questo approccio ha, evidentemente, un importante riflesso in ambito formativo dove vengono attivati insegnamenti su temi scientifico-metodologici, tenuti da matematici e filosofi. Ricordo, a titolo d’esempio, corsi quali Analisi combinatoria, Teoria dei giochi, Teoria dell’informazione, Logica Matematica, Algebra commutativa, Programmazione lineare, Teoria dei sistemi, Teoria delle code, Topologia, che affrontano argomenti legati alla definizione di procedimenti utili al processo progettuale. Coerentemente con questo orientamento metodologico, nella fase di definizione delle possibili configurazioni relative a un certo contenuto di progetto, si rileva l’integrazione di una serie articolata di rappresentazioni schematiche e di proposizioni logicolinguistiche, quindi di diversi linguaggi di scrittura progettuale (rappresentativo e testuale), che sinergicamente e secondo formule espressive particolarmente asciutte, depurate da segni superflui, elaborano una sorta di tassonomia degli elementi del progetto, dei loro nodi problematici e delle possibili soluzioni. Gui Bonsiepe parla di morfogrammi funzionali a ‘reticolare’ l’oggetto in esame in una serie di sezioni caratterizzanti4 e, per ognuna di queste aree, segnala la descrizione di criteri per l’analisi delle principali possibilità formali da scegliere sulla base di requisiti d’uso articolati in differenti gradi di classi: requisiti da soddisfare

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tassativamente, requisiti desiderabili, requisiti opzionali. In altri termini il progetto, luogo della riduzione al discreto [A. D’Auria, R. De Fusco, Una tassonomia per il design, in «Op.cit.» n. 85, settembre 1992, p. 85] del prodotto, momento preliminare e impre-

scindibile all’evento realizzativo, è il fondamento della scomposizione sistematica dell’oggetto, per descriverne la complessità e scriverne le soluzioni. Nella specificità del design grafico, poi, i riferimenti teorici alle ricerche sviluppate da Bense in collaborazione con Abraham Moles, pure presente alla HfG come docente di Sociologia, sono decisamente importanti ed evidenti. Mi riferisco alle ricerche sulla grafica generativa maturate anche nell’attività svolta da Bense presso l’Università di Stoccarda, che era il centro europeo di avanguardia in questo settore, dove, fra l’altro, ebbe luogo la prima mostra in “computer art” (dal 5 al 19 febbraio 1965) con i lavori di Georg Nees (PhD in Philosophy, 1969) – insieme a Frieder Nake (PhD in Probability Theory, 1965) uno dei ricercatori attivi nella teorizzazione e sperimentazione sull’arte generativa. Furono infatti i loro studi, pubblicati fra l’altro nelle riviste «New Tendencies» e «Bit International», che implicarono una nuova idea di opera e di oggetto come espressione di un processo. Sono abbastanza evidenti le affinità tra alcune realizzazioni dell’arte cinetica e certe configurazioni di progetto elaborate nella HfG, ma nella rinnovata prospettiva teorica, di matrice matematica, i rapporti fra gli oggetti artistici e quelli di design sono ribaltati, ovvero i primi sembrano appropriarsi del linguaggio dei secondi. Ciò dipende dal fatto che se al giudizio estetico rappresentato dal binomio ‘Bello / Non Bello’ corrisponde il giudizio logico rappresentato dal binomio ‘Vero / Falso’ e se al giudizio logico si possono far corrispondere le bipolarità ‘Sì/No’, ‘O/1’, ‘Chiuso/Aperto’, ‘Entrata/Non entrata’, proprie di un meccanismo elettronico, ecco che il giudizio estetico, per secoli rimasto chiuso nelle recondite alchimie della creazione artistica, viene ora ricondotto a una semplicissima operazione ‘logica’ [G. Pasqualotto, Avanguardia e tecnologia. Walter Benjamin, Max Bense e i problemi dell’estetica tecnologica, Officina, Roma 1971, p. 26]. Si tratta, quindi, di un processo generativo basato su ope-

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razioni, regole e teoremi per produrre stati estetici in modo meto-


dico. Una prima attestazione della creatività degli algoritmi, ovvero della produzione di probabilità su base razionale, per la realizzazione di forme esteticamente equilibrate. Disegno Propongo il tema del Disegno a Ulm, in quanto si tratta di un argomento originale e pochissimo frequentato [G. Anceschi, prefazione a E. Bistagnino, op. cit., p. 9] da parte della storia critica sulla HfG; un vuoto, quindi, che è opportuno colmare in quanto il tema della rappresentazione è sempre importante per precisare la riflessione intorno alle attività creative. Leggere il progetto attraverso il disegno, nella consapevolezza del ruolo metodologico e culturale ad esso attribuito nel tempo, permette infatti di comprendere le relazioni tra l’idea, la sua immagine e la sua esecuzione, ma anche, ragionando sul solo piano rappresentativo, permette di motivare eventuali predilezioni di tecniche, metodi, segni, e, nel caso l’analisi sia condotta, come in questa sede, su episodi riferiti al passato, di rilevare altresì possibili anticipazioni rispetto all’attualità, in particolare rispetto al tema della rappresentazione digitale. Per quanto concerne l’analisi del Disegno così come concepito, insegnato e praticato alla HfG, quindi, con riferimento all’ambito generale della cultura tedesca, appare opportuno iniziare dalla questione lessicale e precisare che la prossimità operativa e concettuale fra disegno e progetto, diffusa nell’ambito della tradizione architettonica ed esplicita in area anglosassone nella sovrapposizione terminologica tra le espressioni disegno e design, non sembra invece pienamente confermata dalla lingua tedesca che distingue fra darstellung e gestaltung, ovvero tra il raffigurare e il configurare. Su questa distinzione si sofferma particolarmente Giovanni Anceschi che, pur riconoscendo un ruolo rilevantissimo ai processi di rappresentazione associati ai flussi di comunicazione che innervano l’attività professionale [Conversazione sul Disegno, cit., p. 125] pur riconoscendo al disegno uno straordinario spessore culturale, una formidabile fertilità concettuale e anche una eccezionale attualità tecnologica [Ivi, p. 128] considera, tuttavia, che il cuore della disciplina del design

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sia la configurazione (gestaltung), ovvero l’autonoma attività di progetto capace di attribuire una forma agli oggetti. Ma la dualità concettuale sottesa nella varietà del lessico, di fatto in parte ridimensionata dalla prassi, dove diventa complesso, forse anche superfluo, individuare in modo distinto le perimetrazioni tra disegno e progetto, risulta poi ulteriormente sfumata da colui che è considerato il teorico più rilevante della Scuola. Mi riferisco a Tomás Maldonado, il quale, ragionando sul disegno, identifica nel processo rappresentativo, funzionale a organizzare e precisare il pensiero di progetto, quel disegno con la D maiuscola, per usare una sua espressione, la fondamentale e complessa attività di testualizzazione progettuale. Una forma di linguaggio, quindi, che, in quanto tale, è funzionale a formalizzare, ma anche, come la scrittura, a formare il pensiero. Un vero e proprio intreccio che si attua sul piano del processo grafico-elaborativo, su cui Maldonado è esplicito: disegnare, soprattutto “disegnare per progettare”, è un tipo di modellazione che, come ci insegna oggi la psicologia cognitivista, pone una serie di domande tutt’altro che semplici. Perché disegnare per progettare si manifesta al contempo disegnare durante il progettare e progettare durante il disegnare. È questa compresenza interagente fra il mezzo (disegnare) e il fine (progettare) che consente di avanzare verso la soluzione cercata [T. Maldonado, Reale e Virtuale, Feltrinelli, Milano 1993, p. 102]. Ecco, allora, che chiarire le connotazioni e l’articolazione del disegno a Ulm significa comprendere in modo più profondo l’approccio al progetto e i suoi esiti. In questa prospettiva, credo utile iniziare la riflessione ricordando subito che sotto la denominazione disegno, la Scuola di Ulm raccoglieva un interessante ventaglio di declinazioni concettuali e operative, una vera e propria integrazione di più forme di visualizzazione e formazione delle idee riferibile, con qualche semplificazione, al tema del disegno per il progetto. Un ampio repertorio di segni, strumenti, tecniche e metodi per produrre immagini, dal disegno a mano all’olografia, per ricordare un’efficace sintesi di Maldonado nel saggio Appunti sull’iconicità [in T. Maldonado, Avanguardia e razionalità, cit., p. 297] un’integrazione che prefigura il ruolo attribuito al disegno proprio dalle successive Scuole di Design, sviluppate soprattutto


dal finire del secolo scorso, e che tuttora, pur se con un importante rinnovamento di tecnologie, trova conferma e applicazione. È quindi un fascio di tecniche di rappresentazione (darstellungtechniken) [Conversazione sul Disegno, cit., p. 99] per il progetto, quello delineato a Ulm, che qui propongo in elenco, ovvero ricorrendo a una forma di esposizione che, secondo Giovanni Anceschi [Maldonado semiotico della conoscenza, in Il discorso del design. Pratiche di progetto e saper-fare semiotico, in www.ec-aiss.it, rivista on-line dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, Anno III, nn. 3/4 2009, p. 208], Maldonado prediligeva sia per l’ampiezza

della visione che una lista evidentemente propone, sia per l’interessante questione selettiva – relativa a inclusioni ed esclusioni – che è fondamentale per precisare il proprio punto di osservazione: Zeichnung (disegno, letteralmente segnificare, tradurre in tratti), Freihandzeichnung (Disegno a mano libera), Technische o Konstruktive zeichnung (Disegno tecnico), Geometria descrittiva, Rappresentazioni del cinetismo, adottando modalità esplorate dai futuristi, Schrift (Scrittura), Sprache (Lingua/linguaggio), Modellistica tridimensionale, Sistemi notazionali del progetto (schizzi per grafica), Timone, menabo, gabbia, storyboard, mochup, Fotografia. Un elenco in cui compaiono veri e propri insegnamenti, ma anche, più in generale, temi e processi rappresentativi messi in campo, volta per volta, attraverso esercitazioni progettuali. Un elenco in cui sono rintracciabili molti punti di interesse; ne segnalo alcuni che ho avuto modo di affrontare proprio con Giovanni Anceschi e Tomás Maldonado [cfr. Conversazione sul Disegno con Tomás Maldonado, Conversazione sul Disegno a Ulm con Giovanni Anceschi, cit.]. Preziosa e fondamentale l’acquisizione di

una tecnica funzionale alla produzione di segni – che Maldonado preferiva asciutti, filiformi, privi di effetti chiaroscurali – e alla loro fissazione su un supporto; una tecnica preliminare al disegno a mano libera, ovvero a quella operazione complessa che, come afferma Maldonado, dipende da un atto corporeo che vive in una dimensione spaziale, una pratica che richiede un “tecnica del corpo” per dirla con Marcel Mauss [Conversazione sul Disegno con T. Maldonado, cit., p. 89]. Un’evidente valorizzazione del disegno libero ed esplorativo che si attua, fra l’altro, anche in una

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pratica esercitativa, “Scioltezza gestuale”, di cui è stato testimone diretto Giovanni Anceschi nel Corso tenuto da Herbert Lindinger, a sua volta allievo diretto di Johannes Itten che ideò l’esercitazione al Bauhaus. Una pratica che poneva l’allievo in un confronto libero con un grande foglio di carta sul quale era chiesto di descrivere volute a mano libera, tracciamenti che coinvolgevano, in una sorta di danza, il polso, il braccio, la spalla, il corpo. Risulta altrettanto evidente, scorrendo l’elenco delle discipline rappresentative, che questa fase libera ed espressiva del disegno, viene integrata da procedure di visualizzazione di derivazione matematica. In particolare, l’impostazione scientifica e metodologica della Scuola favorì l’utilizzo del disegno tecnico basato sull’acquisizione dei metodi proiettivi, con una particolare predilezione verso le proiezioni ortogonali e assonometriche in quanto forme proiettive di grado basso e quindi caratterizzate da un alto coefficiente di operabilità, a scapito della loro immediatezza interpretativa [Conversazione sul Disegno a Ulm con Giovanni Anceschi, cit., p. 112]. Si tratta infatti di metodi di rappresentazione fondamentali per sviluppare operazioni di configurazione quali, ad esempio, la descrizione grafica degli elementi riferibili a diverse classi di uguaglianza o somiglianza (isometria, omeometria, singenometria, catametria, eterometria, ametria) o le trasformazioni geometriche di elementi formali in composizioni lineari, piane o spaziali. Penso alle elaborazioni proposte nelle esercizi didattici sviluppati negli insegnamenti di Metodica della visione, che sono una cosa un po’ al confine fra Basic Design e una più generale disciplina delle Teorie e Tecniche della Rappresentazione», una connessione, appunto, tra configurazione e rappresentazione [Ivi, p. 118]. Ricordo gli interessanti esercizi di simmetria realizzati attraverso operazioni geometriche elementari di traslazione, rotazione, riflessione speculare e dilatazione sviluppati nel Corso fondamentale da William Huff, e gli studi sulle curve di Peano, proposti proprio da Tomás Maldonado; ricordo i procedimenti per la creazione controllata di forme come, ad esempio, nell’individuazione delle reti di punti per suddividere una superficie piana in elementi isomorfi e nelle reti di figure piane usate per la scomposizione regolare di una superficie in configurazioni piane isomor-


fe, senza interstizi [cfr. G. Bonsiepe, Teoria e pratica…, cit., pp. 169173]. Esercizi di tassellazione, che riguardano la creazione di forme geometriche con proprietà di collegamento senza soluzione di continuità in una ripetizione congruente (come quadrati o esagoni regolari). Esercizi astratti solo nei principi geometrici generativi, concreti invece nelle applicazioni: penso al tracciamento di una pavimentazione o alla suddivisione di una superficie in sezioni congruenti ottenendo quindi una suddivisione senza sprechi. Nel complesso, quindi, una visione della geometria come codice per l’organizzazione di segni bi/tridimensionali, che, in larga misura, viene introdotta da Maldonado sulla base di alcune linee teoriche con cui entrò in contatto già prima dell’esperienza della HfG. Fra i testi che hanno orientato la sua attenzione verso le tematiche geometrico-scientifiche segnalo: The Crisis in Intuition di Hans Hahn (1949), La Topologie di André Sainte-Laguë (1949), Anschauliche Topologie di Walther Lietzmann, Gestalt und Symmetrie di Karl Lothar Wolf e Dorothea Kuhn e Was ist eine Kurve? di A.S. Parchomenko, oltre alle edizioni di Scientific American; ma ricordo anche il testo Flächenschluß. System der Formen lückenlos aneinanderschließender Flachteile di Heinrich Heesch e Otto Kienzle, alla base di molti argomenti teorici proposti da Gui Bonsiepe. In generale, si rileva la predilezione di metodi di rappresentazione fortemente astratti e concettuali – insegnati da matematici quali ad esempio Fritz Emde, una delizia pedagogica secondo Giovanni Anceschi [Conversazione sul Disegno cit., p. 112] e studiati su testi quali Raumbild Lehrbuch der arstellenden Geometrie di Ernst Schorner – che, da un lato, assolvono a questioni funzionali legate alla visualizzazione di problemi progettuali di diversi ordini di complessità, e dall’altro, partecipano a interpretare l’idea di estetica scientifica maturata nella Scuola, che si sottrae alla retorica manipolatoria implicita nella grande prospettiva [Ivi, p. 112]. Su questo impianto rappresentativo, appunto di matrice scientifica, intervenivano poi i docenti di progetto, che, di fatto, facevano utilizzare il linguaggio grafico in funzione di specifiche esigenze progettuali. Ad esempio Otl Aicher, il quale aveva una

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visione, una poetica o un’ideologia che lo portava a sentire quali metodi, quali tecniche utilizzare per disegnare il design nel modo più adeguato [Ibidem] si interrogava sulle trasformazioni procedurali delle forme di rappresentazione analizzate in relazione all’ideazione del progetto, stimolando, quindi, negli studenti l’acquisizione di una sensibilità e di una consapevolezza culturale fondamentali per applicare in modo pertinente ed efficace i metodi e le tecniche di rappresentazione. Alla HfG, quindi, l’astrazione scientifica e la concretezza progettuale sembrano incontrarsi nel disegno dove, in certe soluzioni procedurali, arrivano a proporre anche una sorta di avanguardia informatica, un digitale ante litteram realizzato, appunto, attraverso una dimensione scientifica e artigianale allo stesso tempo. Penso ai raster, configurazioni a cui fa riferimento Maldonado, contraddistinte da una natura digitale, manifestata senza computer: Il raster, termine traducibile in italiano con l’espressione retino o trama, è infatti una successione di pixel, un plottaggio di punti. Ogni punto viene ridotto o ingrandito, schiarito o scurito, colorato, ecc. come avviene con i pixel […]. Quindi un digitale un po’ metaforico che si propone in una dimensione estremamente artigianale, una pratica a cui Herbert Lindinger attribuiva perfino un valore meditativo [Ivi, p. 120]. Da un altro punto di vista, i raster, in quanto pratica configurativa inserita in un’ideologia anti-arte [Ivi, p. 123] sembrano rappresentare, come gli esercizi di simmetria, un’attività metaprogettuale con cui produrre forme non immediatamente utilitaristiche, nelle quali esplorare trame e spazialità. Voglio poi segnalare l’interessante uso della tecnica fotografica quale integrazione per la rappresentazione del progetto, in cui si registra ancora un utilizzo prevalentemente descrittivo e metalinguistico funzionale allo sviluppo e alla comunicazione delle idee, che, pure, risulta ben lontano da effetti artistici. Trovo innanzitutto significativo il fatto che nelle molte immagini fotografiche realizzate alla HfG, la rappresentazione sia spesso associabile a viste assonometriche o a proiezioni ortogonali, come se la preferenza accordata a questi metodi proiettivi fosse l’espressione di una generale teoria dell’immagine basata sulla raziona-


lità, trasversale rispetto alle diverse tecniche rappresentative al punto, proprio come nel caso della fotografia, di violarne la ‘natura’ prospettica. Sono molte le immagini in cui il punto di vista finito, proprio della rappresentazione fotografica, risulta ‘costretto’ a descrizioni in pianta e in alzato – come nel caso della rappresentazione della vista dall’alto del proiettore per diapositive “Carousel S” progettato da Hans Gugelot per la Kodak AG (1963) –, o assonometriche – come, per esempio, nella composizione di ‘fotografie assonometriche’ per rappresentare la formazione di giunti costituititi da due o più elementi in alluminio nel progetto “Flexible House System with a Tension Roof Construction” di Willi Ramstein (1963). Viene messa in campo una sorta di sperimentazione sulle “figure del mostrare” in cui prendono forma anche le cosiddette ‘fotografie esplose’ – immagini concepite e realizzate in modo da rappresentare le componenti smontate di un oggetto fra loro separate, ma visivamente contigue – e le rappresentazioni fotocinetiche di memoria futurista; penso, a titolo d’esempio, all’immagine per l’unità dentistica progettata da Peter Emmer, Peter Beck, Reinhold Deckelmann, Dieter Reich nell’ambito del corso tenuto da Walter Zeischegg. Trovo poi interessante il cenno ai sistemi notazionali del progetto che raccoglie quella gamma di segni e di tecniche specifici per il design grafico: timone, menabò, storyboard e infine mockup ovvero una autentica prefigurazione del prodotto finale, resa possibile dall’innovazione tecnica determinata, in quegli anni, dai caratteri trasferibili e dalla fotocopiatura. Fu proprio il montaggio di elementi quasi finiti, infatti, che produsse un cambiamento significativo nella comunicazione del progetto. Il passaggio è stato da un processo progettuale che implicava un completamento percettivo e cognitivo del destinatario, alla produzione di visualizzazioni esaustive e dettagliate del prodotto di comunicazione attraverso appunto autentici modelli. Ma la descrizione delle modalità di rappresentazione del progetto degli artefatti grafici appare anche significativa su un piano più generale, in quanto segnala, seppur indirettamente, la necessità di declinare le tecniche e i procedimenti rappresentativi in relazione ai diversi ambiti e scale del progetto. Penso, nell’ambito della progettazione del prodotto, alla raffinatissima modellistica tridimensionale

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nella quale il destinatario comprendeva l’oggetto e si sentiva in grado di manipolarlo. Una specificazione dei metodi e delle tecniche di rappresentazione che sembra alludere a una sorta di tassonomia del disegno, ancora oggi implementabile con ulteriori peculiarità in relazione ai crescenti ambiti del design. Per concludere, una nota sugli insegnamenti di scrittura che hanno una doppia connotazione: quella legata alla forma visiva (schrift) che, quindi, implica il controllo della geometria, della proporzione, della composizione, delle relazioni intrasegniche, intersegniche ecc. dei segni grafici; quella legata alla forma letteraria (sprache) che, invece, riguarda la sintassi del testo, i suoi valori denotativi e connotativi, il lessico e molto altro ancora. Un insegnamento, quindi, rivolto a fornire le conoscenze fondamentali per l’ideazione dei contenuti letterari dei messaggi comunicativi, ma anche per sostenere lo sviluppo del progetto – penso, ad esempio alla definizione di riflessioni e annotazioni funzionali a completare la rappresentazione nelle sue diverse forme (dal disegno tradizionale, allo schema, al diagramma ecc.). Chiudo queste note sul disegno a Ulm con alcune ‘indicazioni d’uso’ formulate da Gui Bonsiepe, un’ulteriore testimonianza diretta sul ruolo del disegno alla HfG. Trovo, nelle sue parole, l’efficace sintesi che deriva dalla conoscenza teorica del disegno e dalla sua pratica applicativa: gli schizzi sono dunque finalizzati a visualizzare l’idea progettuale (senza fornire precise indicazioni dimensionali); i diagrammi strutturali e funzionali sono finalizzati a chiarire i rapporti funzionali e strutturali di un compito progettuale; i diagrammi in esploso sono finalizzati a visualizzare la struttura di un prodotto tramite una prospettiva nella quale i componenti principali del prodotto sono disarticolati e localizzati parallelamente alle tre coordinate spaziali; sezioni e varie viste schematiche devono fornire una visualizzazione semplificata di un oggetto, e mostrarne le caratteristiche formali essenziali; il rendering deve visualizzare l’idea progettuale con dei mezzi altamente iconici (colori, riflessi, ombre, tesatura, prospettiva); il diagramma in movimento deve visualizzare il comportamento cinematico di componenti di un meccanismo; i diagrammi ergonomici devono visualizzare le dimensioni e gli ambiti di movimento di


un operatore e della zona intermedia (“interface”); la fotografia serve per riprodurre un modello, per analizzare il comportamento d’uso (istogrammi) e per visualizzare dei fenomeni difficilmente percettibili (macro-fotografia); i disegni tecnici devono comunicare le caratteristiche precise dimensionali, materiali e delle superfici di un prodotto per fini di fabbricazione [G. Bonsiepe, Teoria e pratica…, cit., pp. 194-195]. Conclusioni Che cosa rimane, quindi, dell’esperienza culturale e pedagogica della HfG? Quale insegnamento possono trarre i numerosi corsi di Design, sia quelli pubblici, sia quelli privati che, sempre più, entrano in quello che Giovanni Anceschi ha definito come il succulento mercato della didattica del design? [G. Anceschi, Fondamenta del design, in www.doppiozero.com, aprile 2011, tratto da «Il Verri», n. 43, giugno 2010].

Sicuramente il tema interessante del ‘conflitto’ intellettuale che è fondamentale per alimentare una sorta di democrazia delle idee. Lo era allora, nella Germania post-bellica, proprio nel delicato processo di rieducazione democratica a cui la Scuola di Ulm ha partecipato; lo è oggi, in un contesto profondamente diverso, ma altrettanto complesso, fluido, soggetto a fuggevoli processi di trasformazione sempre più rapidi e continui, dove il concetto di crisi, in tutte le sue manifestazioni e sfumature, sembra diventare un connotato stabile della contemporaneità. Sicuramente il tema della conservazione e allo stesso tempo del superamento di questa importante Scuola, conservazione e superamento che, peraltro, hanno caratterizzato la stessa posizione di Ulm nei confronti del Bauhaus. D’altra parte, non potrebbe essere altrimenti: conservazione e superamento sono due concetti imprescindibili; ricordando, ad esempio, le parole di Edgar Morin, superamento significa non solo che ciò che deve essere superato deve essere anche conservato, ma anche che tutto ciò che deve essere conservato deve essere rivitalizzato [E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, p. 7]. Una visione simile è quella che

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Maldonado ha espresso durante una conversazione sul significato culturale e didattico della HfG. Nella Scuola i giovani docenti – me compreso – ricercavano un nuovo modo di intervenire, adeguato alla situazione della Germania. E questo fu un processo doloroso e complesso, un momento di grande rottura nei confronti delle università europee (…). Che cosa significa, quindi, Ulm? È stata una scuola di design, un modello per ipotizzare nuove scuole di design a livello universitario, il che non significa rifare Ulm [Conversazione sul Disegno con T. Maldonado, cit., p. 26].

1   Ricordo che gli eccezionali risultati di produzione, resi possibili dalla politica economica di Konrad Adenauer il quale favorì i rapporti con il sistema capitalistico per cercare di portare il Paese a una nuova potenza economica, ebbero un’incidenza particolarmente disomogenea dal punto di vista dell’incremento del reddito. La Repubblica Federale produrrà più frigoriferi e macchine lavatrici della Francia e dell’Italia messe insieme; quattro volte più aspirapolveri e pari numero di cucine economiche. […] La repubblica federale diventa creditrice di tutta Europa, ma mentre (…) il reddito medio degli imprenditori quasi raddoppiava, quello dei lavoratori saliva solo del 54,5%. C. Schnaidt, Ulm, in «Casabella» n. 435, aprile 1978, p. 62. 2   Si riportano alcune considerazioni critiche di Maldonado relativamente al programma pedagogico del Bauhaus: Il contributo pedagogico del Bauhaus non nasce ‘ex nihilo’ […] si riconosce ad esempio l’influenza del ‘movimento di formazione artistica’ fondato da Marées e da Hildebrandt, del ‘movimento della scuola attiva’ di Kerschensteiner, dell’‘attivismo’ di Maria Montessori e del ‘progressivismo’ americano di Dewey. […] questo approccio didattico […] anziché preparare al superamento delle inibizioni creative, come ritenevano i ‘maestri’ del Bauhaus, finiva per favorirle […]. Il gesto disarticolato si sostituiva al pensiero articolato; l’azione gratuita all’azione finalizzata. T. Maldonado, Bauhaus Vchutemas - Ulm, in «Casabella» n. 435, aprile, 1978, p. 16. 3   L’articolo a cui fa riferimento Giovanni Anceschi è G. Bonsiepe, Visuell/verbale Rhetorik, in «Ulm», Zeitschrift der Hochschule für Gestaltung, n. 14, 1966. 4   Gui Bonsiepe, ad esempio, nella descrizione delle aree caratterizzanti un cucchiaio individua quattro zone di significanza formale: la paletta, il manico, la zona di transizione dal manico alla paletta, il dettaglio formale della parte terminale del manico. Per approfondimenti cfr. G. Bonsiepe, Teo­ria e pratica…, cit., pp. 174-175.

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Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere CHIARA PIROZZI

La definizione dei concetti di spazio reale e di spazio mentale rappresenta una sfida per svariati campi del sapere, dalla scienza alla filosofia, che da sempre cercano di delimitarne i confini o, viceversa, di interpretarne le influenze. L’illogicità insita nella nozione di immaginazione ha vissuto nel corso della storia momenti di illuminante funzionalità, rispetto alla pratica della conoscenza razionale, e periodi nei quali è stata interpretata come un elemento disturbante e ostativo rispetto alla definizione della realtà. Impossibile in questa sede ripercorrere le teorie filosofiche, antiche e moderne, che hanno trattato il tema dell’immaginazione e dell’immaginario ma è possibile affrontare una breve disanima su alcuni fra gli artisti visivi che nell’epoca contemporanea hanno formalizzato nelle proprie opere la relazione fra la descrizione della realtà e lo strumento dell’immaginazione. L’arte si è sempre posta al limite fra reale e immaginario, utilizzando quest’ultimo per offrire una rappresentazione delle cose del mondo filtrata dalla visionarietà dell’artista, per giungere così a un’interpretazione di questioni sociali, politiche o di cronaca svincolate dalla mera documentazione degli avvenimenti, al fine di sublimarne il senso e la percezione dell’osservatore. La relazione fra immaginazione e analisi della contingenza rappresenta per gli artisti uno strumento per avviare un processo di ricerca visionaria, in grado non solo di giungere a un’interpretazione personale e autoriale degli eventi ma anche di offrire al ricevente del messaggio dell’opera, così elaborata, una conoscenza

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della stessa filtrata dalla mente rivoluzionaria dell’artista. In questo modo, l’immaginazione offre la possibilità di indagare questioni sociali, culturali e politiche del proprio tempo che, per alcuni artisti, si trasforma in capacità anticipatoria verso temi e problematiche, altrettanto attuali, anche a distanza di tempo. Gli artisti riescono a figurare mondi futuribili, esperienze collettive in grado di proiettarsi in avanti, restituendo un’interpretazione sempre viva dell’opera. Ciò accade soprattutto per gli artisti che nella propria pratica trattano temi d’interesse pubblico senza limitarsi a una descrizione pedissequa dei fatti, ma concepiscono opere e progetti utilizzando il medium dell’immaginazione al fine di elaborare ed evocare spazi ancora inesistenti, in grado però di profetizzare contesti non ancora presenti. Se tale paradigma può essere applicato cronologicamente e concettualmente a innumerevoli casi, nella necessità di restringere il campo a una serie di artisti attivi negli ultimi decenni, un primo esempio di autore che ha spinto la propria pratica al limite fra realtà e immaginazione è il tedesco Gregor Schneider (1969). L’artista nel 2007 ha realizzato sulla spiaggia australiana di Bondi Beach di Sydney l’installazione ambientale dal titolo 21 Beach Cells, trasformando di fatto l’arenile in una gabbia costruita con reti metalliche, all’interno della quale era possibile accedere per trascorrere del tempo libero, con ombrelloni e lettini. L’opera si poneva al limite fra la percezione di ritrovarsi liberi di godersi il sole all’aria aperta e la sensazione di essere costretti, come in uno stato di prigionia1. Tale paradosso esperienziale e psicologico ritorna di urgente modernità a distanza di tredici anni, nell’anno della pandemia da Coronavirus, all’indomani del lockdown. Dopo i mesi invernali e primaverili vissuti in regime di quarantena e di distanziamento sociale, per i vacanzieri estivi l’aspettativa è stata quella di ritrovarsi a trascorrere del tempo al mare contenuti e delimitati ciascuno nel proprio box in plexiglass; fra la ritrovata libertà e la limitazione coatta dello spazio entro cui muoversi. Gregor Schneider con questo lavoro è stato in grado di offrire una visione anticipatoria grazie alla potenza profetica insita nell’opera stessa che, all’interno delle stratificazioni di significati di cui si compone, è riuscita a riattivarsi a distanza di anni per tornare ad essere di grande attualità. L’opera visionaria 21 Beach


Cells negli ultimi mesi è entrata in relazione con un pubblico più vasto, divenendo un simbolo diffuso da una stampa generalista ed entrando così in connessione con una platea di referenti più ampia e variegata rispetto al circoscritto mondo dell’arte2. L’opera di Gregor Schneider, ai tempi del Coronavirus, è riuscita a vivificare e a diffondere il suo percepito, arrivando a interpretare stati d’animo collettivi e incombenti. La costruzione di uno spazio immaginario in grado di decodificare e anticipare la realtà ha in Schneider l’esempio più recente da cui partire per analizzare l’opera di alcuni artisti che, dalla seconda metà del secolo scorso in poi, hanno concepito opere e progetti con uno sguardo visionario che li ha resi pietre miliari della storia dell’arte e ha consentito loro di precorrere tematiche, criticità e storie di straordinaria attualità con decenni di anticipo e a renderli delle Artista nodale di tale indagine è Joseph Beuys (1921-1986) che, negli anni Settanta del secolo scorso, con la sua pratica sociale e partecipata non solo ha fatto da apripista a esperienze successive nel campo dell’arte relazionale grazie al coinvolgimento di comunità, ma ha anche anticipato riflessioni su argomenti che oggi rappresentano urgenze collettive. Sebbene l’attività artistica di Joseph Beuys sia protagonista di una letteratura critica estremamente ricca e approfondita, l’artista “sciamano” resta spesso confinato a una lettura trascendentale del concetto di “natura”, soprattutto per quanto attiene al suo impegno politico di stampo ecologista. Su tale piano contestuale, nel 2016 il PAV, Parco Arte Vivente di Torino, ha realizzato una mostra a cura di Marco Scotini dal titolo La Tenda Verde (Das Grüne Zelt); l’esposizione si strutturava per essere il terzo capitolo di una trilogia dedicata al rapporto fra le pratiche artistiche e la coscienza ecologica in Europa negli anni Settanta. La mostra La Tenda Verde (Das Grüne Zelt) era dedicata alla figura di Joseph Beuys e poneva l’accento sulla visione pre-ecologista che caratterizzava l’artista tedesco, sia nella sua pratica di autore concettuale sia come cittadino attivo politicamente nella creazione del partito dei Verdi in Germania per il quale, nel 1980, fu candidato. La mostra aveva lo scopo di sottolineare, attraverso la presentazione di azioni come U…berwin-

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det endlich die Parteienddiktatur (Superate una volta per tutte la dittatura dei partiti) e Aktion im Moor (Azione nella palude), come la ricerca espressiva dell’artista tedesco fosse intrisa di attivismo sociale e politico nei confronti di temi, come quelli della difesa della natura e del rispetto per gli ecologismi, ancora oggi estremamente attuali e vivi nel dibattito pubblico e nella riflessione e sperimentazione degli artisti attivi negli ultimi anni3. L’operazione simbolo in grado di intensificare lo sguardo di Joseph Beuys verso una responsabilizzazione collettiva sul tema della salvaguardia del bene “natura” si esplicita nel celebre progetto del 1982 intitolato 7000 Querce, realizzato per la settima edizione della mostra «Documenta». L’opera, performativa e collettiva al contempo, si poneva l’obiettivo di piantare settemila querce intorno alla città di Kassel, cosa che fu realizzata nel corso degli anni a seguire, anche dopo la morte di Beuys. L’artista diviene in questo modo un catalizzatore di energie, capaci di riflettersi nello spirito del singolo individuo a cui è affidato il compito di perpetuare la buona pratica, instaurando il senso di cura per un luogo specifico e per la terra nel suo senso generale. La visionarietà di Joseph Beuys è stata proprio quella di predisporsi come artista perfettamente calato nella contingenza del suo tempo, eliminando dalla sua pratica artistica quel senso di distacco fra l’arte e la vita quotidiana, così responsabilizzata. L’artista tedesco, come sottolineato dall’attivista e fondatrice del partito dei Verdi in Germania Petra Kelly che lo definiva un “ideologo verde”, si pone come co-autore delle sue azioni, affidando al pubblico-agente il ruolo e la fiducia di completare in modo proattivo i suoi progetti. Sull’onda lunga visionaria e interpretativa delle urgenze contemporanee legate ai temi ecologisti, è utile citare l’esperienza della brasiliana Maria Thereza Alves (1961) che nel 1986 è anch’essa fra le fondatrici del partito dei Verdi in San Paolo. L’artista, attiva politicamente, realizza opere e azioni site specific dalla forte matrice ecologica, anche grazie al coinvolgimento delle comunità locali e di esperti botanici e studiosi. Un esempio può essere indentificato nel progetto in progress avviato nel 1999 e intitolato Seeds of Change, basato su una particolare indagine inerente alla flora trasportata sulle zavorre dei cargo e in grado di


portare semi di continenti diversi lungo i porti commerciali europei. L’azione, oltre al tema legato alla salvaguardia delle biodiversità, si apre anche a idee di grande attualità quali il colonialismo, le migrazioni e le diversità, attraverso un gesto artistico che racchiude in sé un aspetto altamente simbolico e poetico e un valor scientifico e storico. Le opere della Alvez, come quelle di Beuys e di Schneider finora analizzate, si formalizzato in installazioni ambientali che, se da un lato documentano processi e tematiche specifiche, dall’altro si svincolano dal dato particolare per giungere a immaginare condizioni generali; ovvero quei paradigmi che rendono l’opera una fonte generatrice di senso e di significato, anche in contesti differenti e cronologicamente successivi4. La costruzione di spazi immaginari ed evocativi di mondi possibili rappresenta uno fra i processi artistici elaborati dall’artista francese Pierre Huyghe (1962) che – attraverso la realizzazione di installazioni site specific, video e performance pubbliche – genera opere visionarie e complesse nelle quali l’autore mette in relazione identità, specie e generi dissimili. La ricerca di Pierre Huyghe si costruisce difatti attraverso l’interesse dell’artista verso discipline come l’antropologia, la scienza, il cinema e la semiologia, strutturandosi così in un teatro di riflessioni dal quale attingere per la rappresentazione d’immaginari simbolici e collettivi. All’interno della produzione di Huyghe è stimolante in questo contesto prendere in esame due fra le più rappresentative opere dell’artista francese che, in virtù della loro predisposizione formale e contenutistica, svelano letture che corrono parallele fra realtà e rappresentazione. Di grande interesse, dunque, per tale discorso è il progetto intitolato No ghost just a shell che è stato realizzato da Huyghe in collaborazione con l’artista Philippe Parreno a partire dal 1999. Il progetto prende avvio con l’acquisto, da parte dei due artisti francesi, dei diritti d’autore e d’uso dell’immagine-cartone animato di una figura femminile, chiamata Annlee, da un’agenzia giapponese specializzata nella realizzazione di immagini virtuali e in 3D. L’immagine di Annlee, svuotata di qualsiasi riferimento identitario o autoriale, viene così offerta ad altri artisti – fra i quali ricordiamo Liam Gillick, Dominique Gonzalez-Foerster e Rirkrit Tiravanija – invitati da Huyghe

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e Parreno a realizzare delle opere il cui soggetto fosse il cartone animato5. L’operazione No ghost just a shell contiene al suo interno numerosi significati e altrettante letture stratificate, come il concetto di autorialità e di spersonalizzazione, la gestione corretta dei copyright fino alla riflessione sull’uso delle immagini nel sistema della comunicazione e dello spettacolo. Il progetto No ghost just a shell, nonostante sia stato concepito più di vent’anni fa e si sia concluso nel 2003, appare estremamente attuale e anticipatore di una serie di istanze marcatamente contemporanee, sulle quali l’arte pone la sua riflessione proprio negli ultimi anni. Huyghe e Parreno hanno posto l’attenzione su di una serie di questioni che sembrano essere oggi più urgenti rispetto al passato recente: l’utilizzo coatto e collettivo di informazioni e dati personali, il concetto di iper-realtà, il tema del controllo e della gestione della privacy. Diversa e più recente opera visionaria di Pierre Huyghe è l’installazione site specific realizzata in occasione della quinta edizione dello Skulptur Projekte di Münster6 (2017) dal titolo After Alife Ahead. L’opera ambientale è una struttura complessa realizzata all’interno di un palazzetto dello sport in disuso nella periferia della cittadina tedesca, nel quale l’artista realizza uno scavo a pavimento, permettendo al fruitore di “scendere” fra i canyon così costruiti fra terra, alghe, api, argilla e un acquario, posto al centro dello scavo, con all’interno batteri, cellule umane cancerose e una lumaca di mare velenosa. After Alife Ahead si completa con un intervento al soffitto nel quale l’artista costruisce delle botole che, grazie a un complesso sistema digitale e interattivo con il resto dell’opera, si aprono e si chiudono consentendo un costante scambio fra interno ed esterno. L’opera di Pierre Huyghe pur non prevedendo un’azione partecipata con lo spettatore, nei fatti si attiva attraverso l’esperienza vissuta nello spazio così connotato, nel quale il visitatore si sente catapultato in una realtà altra. After Alife Ahead è un’opera visionaria in cui l’artista riesce a immaginare un mondo sospeso fra un passato archeologico e un futuro post apocalittico, Pierre Huyghe costruisce un’ambiente devastato, in cui gli organismi vitali e gli ecosistemi posticci ricostruiti dall’artista vivono in costante ricerca di una forma d’equilibrio per la sopravvivenza. L’installazione qui descritta rappresenta appieno una pratica d’immaginario ad ope-


ra dell’artista il cui interesse non è slegarsi dall’analisi della realtà e delle cose ivi esistenti, ma consiste piuttosto nell’evocare suggestioni in grado di sublimare la riflessione sul mondo tangibile. Anche l’apertura verso il mondo digitale, virtuale e dell’informazione svuotata da un processo identitario, costituisce in Pierre Huyghe uno sguardo anticipatorio verso istanze spiccatamente contemporanee. Nella struttura rizomatica del discorso qui proposto, un ruolo centrale nella connessione fra realtà e immaginazione può essere dato alla ricerca dell’artista afroamericana Kara Walker (1969) che, grazie a una cifra stilistica ben riconoscibile, riesce a tessere un legame profondo fra la critica politico-sociale e l’illusione della visione proposta nei suoi lavori. Kara Walker vive la sua adolescenza nel Sudest degli Stati Uniti, in Georgia, subendo sulla sua pelle l’emarginazione e il razzismo; un’esperienza biografica, quest’ultima, che si fonderà con la ricerca artistica, insieme a temi collettivi come la violenza di genere, la guerra, la schiavitù e le ingiustizie sociali. La Walker formalizza il suo lavoro principalmente con la realizzazione di silhouette nere posizionate su fondi bianchi, utilizzando proiezioni, ombre, ritagli o wall paintings. Le sue sagome stilizzate, come fosse un piano sequenza cinematografico, raccontano storie di uomini e donne vittime di soprusi, di violenze sessuali ed etniche, descrivono scenari di guerra e di schiavitù attraverso un corto circuito costante fra le atrocità narrate, l’ironia e l’immaginazione. Un’opera esemplificativa di Kara Walker è Gone, An Historical Romance of a Civil War as It Occurred Between the Dusky Thighs of One Young Negress and Her Heart del 19947, il cui titolo trae ispirazione dal romanzo di Margaret Mitchell, Gone with the Wind. La narrativa proposta nell’opera di Kara Walker è basata, come per il romanzo del 1936, sulla guerra di Secessione americana e le immagini proposte sotto forma di sagome si conformano allo stereotipo duale del potere e dell’oppressione, così come raccontato nelle storie “ufficiali” di guerra. L’artista utilizza la leva della comicità e della satira per traslare le sue storie in contesti universali e senza tempo, giungendo a una narrazione sempre al limite fra realtà e fiction, fra specificità di contesto e fantasia infantile. Le scene di violenza sessuale, di sopruso e di guerra interpretate da Kara

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Walker sono spesso realizzate in larga scala, ciò consente al visitatore di ottenere una doppia prospettiva di osservazione; la prima allargata e d’insieme, dove il dettaglio si perde a favore di un aspetto ludico; la seconda puntuale e dettagliata, nella quale l’occhio riesce a cogliere i violenti significati politici, sociali e razziali di cui concettualmente si riempie l’opera. L’artista costruisce spazi e storie reali servendosi dell’immaginazione, al fine di rendere i suoi personaggi dei protagonisti di una mitologia sempre contemporanea. Fantasia, fiaba e immaginazione utilizzati per descrivere eventi storici rappresentano i cardini della ricerca dell’artista egiziano Wael Shawky (1971) che, attraverso una produzione multimediale – che procede dal disegno alla scultura, dallo storytelling alla performance – realizza opere in cui riesce a mescolare le esperienze personali, le tradizioni culturali del suo paese d’origine e la storia antica e recente di popoli e nazioni. Wael Shawky vivifica gli accadimenti storici attraverso l’uso di marionette e burattini che l’artista realizza grazie al coinvolgimento di maestranze artigiane in differenti paesi. Gli esseri inanimati protagonisti delle storie proposte nelle sue opere video o nelle sue installazioni sono frutto dell’immaginazione dell’artista ma sono anche un pretesto per analizzare i cambiamenti della società contemporanea, nell’epoca di internet e nel post-internet, nella quale l’individuo è sempre più indirizzato e manipolato nei gusti, negli usi e nei comportamenti. L’artista egiziano, attraverso l’utilizzo di differenti media, crea ambienti abitati da marionette governate da mani invisibili, conducendo in questo modo una ricerca visiva e concettuale basata sull’immaginazione e sulla finzione, entrambe poste al servizio dell’interpretazione di storie politiche, culturali e sociali appartenenti al passato ma in grado di relazionare a fenomeni contemporanei. Per definire al meglio la speculazione di Wael Shawky è possibile prendere in analisi l’opera filmica, sviluppata come una trilogia, composta dai lavori intitolati Cabaret Crusades - The Horror Show File (2010), The Path to Cairo (2012) e The Secrets of Karbala (2015). La trilogia – esposta per la prima volta in Italia nel 2016 in occasione della retrospettiva dedicata all’artista, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, negli spazi della Manica Lunga del Castello di


Rivoli – ripercorre la storia delle Crociate medievali assecondando una prospettiva storiografica dal punto di vista del popolo arabo e proponendo in questo modo uno sguardo alternativo rispetto alla storia di stampo occidentale. I film sono concepiti per creare negli occhi di chi osserva un corto circuito fra la leggerezza ludica e fantasiosa con la quale le scene sono elaborate – approccio enfatizzato anche da un uso sapiente di colori, colonne sonore e dialoghi – e le storie di terrore, di guerra e di soprusi che, in realtà, la narrativa espone. In definitiva, le opere di Wael Shawky, partendo da un racconto favolistico e creativo sulle storie dell’uomo, si allargano e inglobano i modelli secolari di contrapposizione fra il mondo occidentale e il mondo islamico, proponendo paradigmi comportamentali, culturali e sociali – come la brama di potere, rivalità e la violenza – universali e ricorsivi. Gli autori e le opere proposte all’interno di tale percorso costituiscono solo alcuni esempi di un discorso sull’utilizzo fatto dagli artisti contemporanei dell’immaginazione, un processo di ricerca quest’ultimo che, rispetto alla fetta temporale qui proposta, può essere riposizionato indietro, fino alle Avanguardie storiche, o in avanti, ovvero alla generazione più giovane di artisti. La ricerca artistica che è stata qui definita come visionaria è trasversale rispetto ai temi trattati dai singoli artisti, da specifici movimenti o tendenze, e anche rispetto alle forme che l’opera acquisisce o ai media in cui si sviluppa. Esiste però un denominatore comune che lega sottotraccia questi artisti così apparentemente distanti per stile, metodologie e tecniche e cioè la capacità di valicare con la loro immaginazione storie e temi documentati e analizzati, facendo in modo da rendere le proprie opere dei simboli di significati stratificati nei quali l’individuo può continuare a riconoscersi nel tempo presente e in quello futuro.   Per un approfondimento sul lavoro di Gregor Schneider si consiglia il catalogo monografico a cura U. Loock, Gregor Schneider. Wand vor Wand / Wall Before Wall, Berlino, Distanz Verlag, 2017. 2   Un esempio di riattualizzazione dell’opera di Schneider in epoca di pandemia da Coronavirus è fornito dall’articolo di Carla Amarillis pubblicato il 14 aprile 2020 sull’edizione on line della rivista «Elle Decor» e consultabile al link https://www.elledecor.com/it/viaggi/a32155930/coronavirusbox-spiaggia-gregor-schneider/. 1

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3   Per maggiori dettagli sul progetto di mostra: http://parcoartevivente.it/ mostre/archivio/mostre-2016/la-tenda-verde/. 4   Per un approfondimento sull’opera di Maria Thereza Alvez si consiglia la monografia a cura di P. de llano, El Largo Camino a Xico. / The Long Road to Xico. Maria Thereza Alves: 1991-2015, Berlino, Sternberg Press, 2017. 5   Al progetto, presentato in diverse mostre, è dedicato il volume a cura di P. Huyghe e P. Parreno, No ghost just a shell, edito da Walther König nel 2003. 6   Il catalogo dell’edizione del 2017, a cura di Kasper König, Britta Peters e Marianne Wagner e pubblicato da Spector Books, contiene gli approfondimenti sui progetti e le immagini delle opere. 7   L’opera è fra i primi lavori della Walker ed è stato esposto nel 1994 presso il Moma di New York dove è in collezione.

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Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein GIACOMO DE FUSCO

Nel 1962 l’artista francese Yves Klein vendette a Dino Buzzati una delle sue Zone di sensibilità pittorica immateriale, ossia uno spazio vuoto, intriso della sua essenza artistica, che egli cedette allo scrittore italiano in cambio di sottili lamine d’oro, successivamente gettate nella Senna come conclusione della performance. Un racconto-testimonianza di Buzzati, Sortilegio a Notre-Dame, narra di questo evento, e la fotografia dei due artisti intenti a buttar l’oro nel fiume di fronte alla cattedrale francese divenne poi celebre. Per Klein tale atto costituì un momento di cruciale importanza per raggiungere uno dei grandi obiettivi della sua opera artistica: il desiderio di conquista dell’immateriale, di concretizzazione dall’astratto, iniziato pochi anni prima con l’esposizione dei suoi quadri monocromi dipinti di un blu elettrico (il celebre IKB, International Klein Blue), esposti nel gennaio del 1957 alla galleria Apollinaire di Milano e recensiti in quell’occasione proprio da Buzzati. Già da quelle prime opere poteva emergere chiaramente l’intento dell’artista. La scelta del colore lascia trasparire un desiderio preciso: attraverso un particolare uso della resina Rhodopas M, diluita in una soluzione alcolica, Klein crea una tonalità di blu lucente che deve richiamare alla mente la brillantezza del cielo o quella del mare. Ciò è teso a riprodurre il senso dell’illimitato e dell’indefinito che si prova solitamente osservando la sconfinata grandezza dei due elementi in questione. Delimitare un blu monocromo all’interno di una piccola cornice denota dun-

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que la volontà di appropriarsi di ciò che per natura è inafferrabile, il tentativo di conquista dello spazio infinito. Recensiti positivamente da Buzzati, i dodici quadri esposti in quell’occasione suscitarono opinioni molto discordanti: ironiche e sprezzanti per conto dei più scettici, ma di profonda ammirazione da parte di importanti personalità del mondo dell’arte (Piero Manzoni e Lucio Fontana furono tra i primi in Italia ad acquistare i monocromi di Klein). Alla recensione di quella prima mostra ne seguirono altre. Buzzati si interessò molto alla produzione dell’artista francese, malgrado fosse solitamente scettico nei confronti di questa tipologia di opere astratte. Presto tra i due nacque una reciproca stima e quasi un’amicizia, portata avanti negli anni e testimoniata da diversi articoli e recensioni, fino alla precoce morte di Klein. Ma cosa unì due figure tanto differenti? Per quale motivo una personalità come quella di Klein, visionario artista sempre sopra le righe, eccentrico, campione di arti marziali, attirò un artista come Buzzati, introverso e solitario, che sembra per certi versi l’opposto del pittore francese? È doveroso sottolineare che oltre a essere stato uno dei più importanti scrittori del Novecento italiano, Dino Buzzati è stato anche e, almeno a detta sua, soprattutto, un pittore. Celebre infatti la sua riflessione a riguardo: Il fatto è questo: io sono vittima di un crudele equivoco, sono un pittore il quale per hobby ha fatto lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa, e non può prendere sul serio le mie pitture. […] Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie [D. Buzzati, Un equivoco, in Dino Buzzati, pittore, Alfieri, Milano 1967, p. 7]. Le storie che raccontò, sia con la penna che con il pennello, ben rappresentarono la sua visione del mondo ed espressero la sua angoscia esistenziale, emblematica dello stato d’animo dell’uomo novecentesco. Tuttavia la sua produzione artistica, seppur in continuo dialogo con la parola scritta presente in diverse forme all’interno dei suoi dipinti, resta prevalentemente di stampo figurativo, e in più di un’occasione egli non ha mancato di esternare le proprie perplessità circa le forme più spregiudicate dell’arte contempora-


nea, arrivando a mettere in discussione nomi della caratura di Mondrian. Proprio nei confronti di Klein, invece, si possono rintracciare diverse testimonianze di stima, già a partire da quella prima recensione in cui, pur di fronte al più totale astrattismo dei monocromi del pittore, Buzzati riesce a comprendere e giustificare il valore dell’opera. Nel descrivere la mostra, egli scrive: Quante volte, dinanzi alle sfrenatezze dell’arte moderna, si è sentito dire: ormai tutto è stato sovvertito, più in là di cosi non si può andare. Eppure più in là si è andati sempre. Ebbene, nel caso di Yves Klein è impossibile sbagliarsi. In fatto di rinuncia figurativa, di purità formale, di astrattismo, più in là di così non si potrà andare nei secoli dei secoli. Non manca però di riportare alla fine dell’articolo l’opinione del critico Pierre Restany, il quale definisce il blu dei quadri come questo vuoto colmo, questo Niente che afferma il Tutto Possibile, questo soprannaturale silenzio astenico del colore [D. Buzzati, Un fenomeno alla galleria Apollinaire, «Corriere d’informazione», 10 gennaio 1957]. È in queste parole che va rintracciata l’origine dell’interes-

se di Buzzati per Klein. Il “vuoto colmo”, il desiderio di racchiudere, tramite la rinuncia al figurativo, tutto il possibile, il potenziale, l’indefinito, con una semplice distesa di colore, sono il trionfo dell’assenza sulla presenza, il nulla che diviene denso, e ciò affascina Buzzati poiché egli stesso, seppure in modi molto diversi, ha voluto rappresentare un analogo concetto nella sua produzione. L’opera di Klein proseguì in quella stessa direzione, raggiungendo più alti livelli di vuoto, creato per sottrazione di sempre più elementi. A Buzzati tale meccanismo non sfuggì, né gli fu estraneo il pensiero alla base di una tanto ardita operazione. In una successiva recensione datata 5 dicembre 1961, tornando sui monocromi, Buzzati scrive: se si volesse andare ancora più innanzi, bisognerebbe abolire anche le tele e raggiungere il vuoto integrale [D. Buzzati, Un piccolo cagliostro della pittura, «Corriere d’informazione», 5 dicembre 1961]. Non è a caso che pronuncia queste parole: sa bene che dopo aver eliminato la rappresentazione figurativa attraverso il soggetto aniconico della monocromia, Klein proseguì rinunciando anche al pennello, sostituendolo con

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il concetto di “pinceau vivant” (pennello vivente), ovverosia corpi di donne nude intrisi del colore IKB, i cui movimenti erano dettati dall’artista per creare impronte umane sulla tela, le cosiddette antropometrie, i cui primi esemplari risalgono al maggio del 1958, anticipando di oltre dieci anni quella che diventerà in seguito la body art. Quasi in contemporanea, con la mostra “Le vide” (Il vuoto), tenutasi alla galleria Iris Clert di Parigi tra l’aprile e il maggio del 1958, venne compiuto un ulteriore passo verso l’astratto. Klein elimina infatti l’oggetto stesso della mostra, presentata priva di qualsiasi opera. In tale occasione lo spazio della galleria fu dipinto di bianco e le sue vetrine e finestre ricoperte di blu; al suo interno non fu esposto assolutamente nulla. Protagonista dell’esposizione era lo spazio vuoto intriso della sensibilità pittorica del­ l’artista. La chiusura della mostra fu sancita da una performance ancora più eterea, un ulteriore tentativo di conquista dello spazio vuoto: la cosiddetta scultura aerostatica, caratterizzata dal lancio di 1001 palloncini intrisi di International Klein Blue liberati nel cielo di Parigi. Parlando di questo suo periodo, Klein riferisce a Buzzati di rifarsi al concetto greco di pneuma. Esso è traducibile come “aria” ma anche come “respiro”, “soffio vitale”, “anima”. Indica qualcosa che, pur essendo invisibile ed impalpabile, ha una sua materialità, come dimostra il gonfiarsi e sgonfiarsi del ventre durante la respirazione (emblematico è il fatto che Buzzati si appropri del termine “pneumatico” inserendolo nel romanzo Un amore, con l’accezione di “vivo”) [D. Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano 1963, p. 70]. Questo contrasto tra materiale ed immateriale è un terreno assai fertile per Klein, che individua nel vuoto una densità che è possibile modellare e governare. La produzione di Klein procedette dunque per sottrazione, eliminando prima la rappresentazione attraverso la scelta della monocromia, poi il pennello, in seguito la tela stessa, sostituita dal vuoto, dall’immaterialità. Infine nel 1960, Klein eliminò anche lo “spazio” artistico, abbandonando la galleria e mettendo in scena una performance che lo vide protagonista di un vero e proprio “salto nel vuoto”. Il salto, a onor del vero, avvenne dalla finestra di un primo piano e i sup-


porti sottostanti vennero poi eliminati dalla fotografia per conferirle un’impressione di maggior profondità, dando così l’impressione che il corpo dell’artista fosse in volo. Il tutto venne immortalato e poi ingegnosamente costruito dal fotografo Harry Shunk, per poi essere riportato in un’apposita pubblicazione, il Giornale di un solo giorno, con il titolo Un uomo nello spazio, accanto al più grande articolo denominato Il teatro del vuoto. Tale atto è un’ulteriore conferma di quanto in là si sia spinto il desiderio di conquista del vuoto dell’artista francese, deciso di fatto a sconfiggere persino la gravità, dando l’impressione di poter far levitare il proprio corpo. Seppur rappresentato in termini assai diversi, il vuoto è uno dei grandi protagonisti dell’opera buzzatiana. Esso è emblema della morte onnipresente, ma anche dell’insensatezza della vita umana, dell’impossibilità di comprendere la realtà, di colmare un senso di mancanza, tutti temi cardine del pensiero dello scrittore e pittore bellunese. Buzzati non tenta di “racchiudere” il vuoto, né di entrarci dentro o di conquistarlo. Si limita piuttosto a metterlo in evidenza, ad esaltarlo. Tanto nella sua produzione artistica, sempre di stampo figurativo, attingente ora al simbolismo ora al surrealismo, quanto all’interno dell’opera letteraria, il “fantastico” e l’assurdo dialogano e si creano proprio a partire dalla rappresentazione del vuoto. Esso emerge spesso tramite lampante omissione di un elemento strutturale teso a rendere atmosfere surreali, la cui comprensione risulta impossibile: rappresentando ad esempio uomini privi di tratti connotativi, simili a manichini, o lasciando spazi bianchi nel testo dovuti a una parola “proibita”, o ancora costruendo la narrazione intorno a un elemento o una notizia il cui contenuto non viene mai rivelato. In questo modo, Buzzati mette su carta e su tela un assurdo sui generis, una realtà caricaturale i cui tratti sono costruiti per elisione e contrazione di alcuni elementi che restituiscono un’atmosfera straniante e spesso angosciante. Anche la dimensione spaziale di numerose ambientazioni, sia pittoriche che romanzesche, è emblematica per questo tipo di lettura. In primo luogo, la desolazione, l’assenza di confini, la mancanza di un orizzonte fisso e raggiungibile, che rende lo spa-

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zio amorfo, non inquadrabile, incomprensibile, rispecchiano l’in­capacità dell’uomo di individuare una forma dell’esistenza. Ciò risulta evidente tanto nei testi, si pensi allo stesso Deserto o al racconto I sette messaggeri, in cui un principe parte alla ricerca dei confini della propria terra senza mai raggiungerli, quanto nelle realizzazioni pittoriche, a partire dai paesaggi di montagna, stilizzati tanto da sembrare edifici o grattacieli, e fino alla desolazione infernale presente nel Poema a fumetti, versione rielaborata del mito di Orfeo e Euridice nella chiave pop della graphic novel. In secondo luogo, le costanti di verticalità (fortezze, montagne, castelli arroccati, grattacieli, ascensori, cliniche di sette piani, discese negli inferi) e le conseguenti vertigini trasmesse al destinatario dell’opera evocano implicitamente o esplicitamente il vuoto, e sottolineano la paura che esso può incutere. Sia nella dimensione orizzontale che in quella verticale, lo spazio subisce una dilatazione parossistica, costruita per estensione del vuoto: un’ampia spianata diventa un deserto, un regno di vaste dimensioni diviene privo di confini, l’ascensore di un grattacielo può scendere fino alle porte dell’inferno. È dunque evidente la volontà di esaltare, di esasperare questi elementi per sottolinearne la valenza simbolica, tesa ad esprimere la perdita del senso dell’orientamento dell’uomo nel mondo, ossia il suo smarrimento esistenziale. D’altra parte, non stupisce la programmatica operazione di dislocazione, di sottrazione di un elemento dal suo contesto, operata in numerose opere, che ricorda quanto fatto da De Chirico per le sue “piazze metafisiche”: in una delle più celebri opere pittoriche di Buzzati, Il Duomo di Milano, la maestosa cattedrale, stilizzata fino a renderla quasi un ammasso di rocce e pinnacoli, appare nel mezzo di quella che sembra una prateria desolata, circondata da alte montagne. Nell’omettere nella didascalia la palese dislocazione, che rende quasi irriconoscibile la cattedrale milanese, Buzzati vuole sottolineare il contrasto tra la linearità del titolo e l’anomalia della rappresentazione. Altre volte, addirittura, le didascalie delle opere non corrispondono affatto a quanto raffigurato. Tale mancata corrispondenza tra opera e didascalia è un’evidente forma di volontaria elisione logica tesa a spiazzare il destinatario dell’opera, a restituirla carica di un senso di assurdo,


quasi anticipando figurativamente quei dialoghi caratteristici del teatro dell’assurdo di Beckett o Ionesco in cui non c’è connessione fra domanda e risposta. Una lettura di questo tipo permette, forse, di comprendere su cosa si fondò il sodalizio artistico tra i due artisti in questione, e di capire come mai Buzzati, solitamente scettico nei confronti di queste forme d’arte contemporanea più innovative ed audaci, riconobbe sempre a Klein la genialità della sua intuizione senza mai ridurla a una semplice trovata avanguardista, e ne restò tanto affascinato da acquistare una Zona di sensibilità pittorica immateriale. Probabilmente il grande merito che l’artista veneto riconobbe a Klein fu quello di essere riuscito non solo a evidenziare il vuoto, ma anche a colmarlo, facendo dell’immaterialità un oggetto quasi tangibile. A tanto Buzzati non arrivò. Si pensi in questo senso al romanzo capolavoro Il deserto dei Tartari, in cui il vuoto, oltre a risultare evidente dall’ambientazione di una landa desolata, lontana da tutto e da tutti, emerge anche nella trama, che si regge di fatto sull’assenza del nemico, in una continua tensione verso qualcosa che non c’è. Il vuoto si fa dunque denso, la mancanza del nemico diviene una snervante attesa infinita che occuperà e consumerà l’intera vita del protagonista, inerme di fronte a questo nulla. Buzzati assume dunque un atteggiamento rinunciatario, diametralmente opposto a quello pugnace di Klein, decidendo di non combattere la battaglia contro l’immateriale, contro il nulla, e arrendendosi al suo inesorabile incombere. Tuttavia i due artisti condividono evidentemente l’idea di focalizzare lo sguardo verso ciò che non si vede, di esaltare l’immateriale, l’intangibile. Assenza, nel loro vocabolario, non equivale a non-presenza, ma piuttosto a presenza di assenza. È qualcosa che reclama il proprio spazio, il proprio diritto ontologico. Un tentativo (quasi) impossibile di mettere in evidenza il nulla. A tal proposito, è doveroso sottolineare un ulteriore legame presente tra queste due personalità. Nizza, città natale di Klein, ospita un monastero dedicato a Santa Rita da Cascia, avvocatessa delle cause disperate. L’artista francese, profondamente religioso, fu molto legato a questa figura, un po’ per ragioni territoriali,

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un po’ per simpatia verso una Santa chiamata a proteggere chi, come lui, cercava di compiere azioni al limite del possibile. Nel febbraio 1961 egli lasciò un ex-voto presso il santuario, una tavoletta di 22 × 15 cm contenente tre quadrati monocromi (blu, oro e rosa) e un’iscrizione interpretabile come una sorta di inno al vuoto e all’immateriale. Lasciato presso il Santuario in forma anonima, l’ex-voto venne di fatto ignorato fino al dicembre del 1979, quando, con i lavori di restauro del Monastero, l’occhio attento del pittore Armando Marrocco si rese conto che quella tavoletta era chiaramente opera del celebre pittore francese, all’epoca già deceduto da oltre quindici anni. Per un curioso gioco del caso, anche Buzzati fu molto vicino al culto della Santa. Nel 1971, infatti, pubblicò un’opera nella quale sono narrati e illustrati alcuni miracoli attribuiti a Santa Rita, I miracoli di Val Morel. In questa opera doppia, emblematica di come l’artista amasse e sapesse esprimersi sia tramite le immagini che con le parole, l’assurdo buzzatiano si esprime liberamente proprio grazie all’impossibilità degli atti attribuiti a Santa Rita, capace di sorreggere un edificio che crolla o di domare un mostro marino intento a divorare una nave. Un simile tema offre l’occasione di rappresentare una realtà inverosimile, dai tratti caricaturali, come sottolinea lo stile adottato. Alterando le proporzioni di oggetti, animali e persone, ed estrapolandole dal loro abituale contesto spaziale, l’autore snaturalizza la realtà e toglie al lettore-osservatore qualsiasi punto di riferimento, in un’operazione di marcato simbolismo simile ai meccanismi utilizzati da Magritte. Ciò, ancora una volta, è in contrasto con le didascalie, sintetiche e asciutte, quasi tese ad attribuire un valore di testimonianza storica oggettiva all’incredibile fatto rappresentato, accrescendo così il valore paradossale del dipinto. Presente anche in quest’opera il tema del vuoto, inteso in particolar modo come solitudine e desolazione. Emblematico in questo senso soprattutto l’ex-voto Il labirinto, in cui un uomo solo, smarrito nel dedalo il cui suolo è cosparso ai lati di ossa e scheletri, viene soccorso dalla Santa che lo salva dalla sua condizione di smarrimento. Come uniti da un doppio filo di impossibilità, per la sfida proposta di mettere in risalto l’invisibile e per la comune devozione a Santa Rita, Buzzati e Klein seguirono percorsi artistici


molto diversi fra loro, ma per certi versi paralleli. Essi avevano individuato nel vuoto un comune nemico, ma se il primo si limitò a descriverlo, proclamando una resa incondizionata a priori, il secondo si incaricò del compito quasi donchisciottesco di vincerlo e annientarlo, di appropriarsene. In questo senso va interpretato anche il celebre gesto di gettarsi da una finestra nel già citato “saut dans le vide”: circondato ed oppresso dal vuoto, Klein decise di riempirlo con la sua presenza corporea, sostituendosi fisicamente a tale spazio e vincendo quella sfida impossibile, quella che Buzzati, forse troppo legato a canoni “razionali”, decise di non combattere.

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Il lato buono degli Scandinavi LUISA CHIMENZ, MARIA BENEDETTA SPADOLINI

Nel 1940 si tiene al MoMA di New York la mostra Organic Design in Home Furnishing. Si configura, di fatto, un cambio radicale nelle tendenze considerate vincenti e influenti negli Stati Uniti in quegli anni. Gli storici, più o meno, univocamente, mettono in relazione gli esiti della mostra con successivi avvenimenti che si verificheranno pochi anni dopo oltreoceano, nella nuova Germania, con la generazione di ciò che viene definito “Die Gute Industrieform” presso la Hochschule für Gestaltung di Ulm. Sono davvero nuovi i contenuti che daranno poi esito al giudizio positivo rispetto alle progettazioni di Eero Saarinen e Charles Eames? O sono, piuttosto, frutto di una lenta e lunga evoluzione che negli Stati Uniti arriva da lontano, da paesi dove il design ha sempre tenuto insieme in modo fluido l’estetica con la funzionalità? Il contributo prende in esame la relazione che esiste intrinsecamente – poco celata – nelle pieghe della storia tra gli ineluttabili principi del design Scandinavo, in grado di ‘aggettivare’ e oggettivare i prodotti di significati caratterizzanti, rivolti anche alla comunicazione con il lato emozionale proprio degli esseri umani, con l’esperienza del Good Design statunitense e la ricerca della Gute Form in Ulm.

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Quando immaginiamo gli interni caldi, arredati in legno naturale, con tavole imbandite e apparecchiate, bambini urlanti e genitori indolenti e sorridenti, tutto fa immaginare gioia e casa. Tutto parla di buoni sentimenti e di momenti semplici, da ri-


cordare. È facile richiamare alla mente una pubblicità del colosso svedese IKEA: corretto, ma non completo. Lo stile, la radice, viene da più lontano – poco più di cinquanta anni prima della fondazione di IKEA stessa – questo senso di intima domesticità è reso nei disegni di Karin e Carl Larson, nel loro libro Ett Hem, Una casa [G. D’Amato, Storia del design. Dal Novecento al terzo millennio, Pearson, Milano 2020]. Si fissa così un indelebile marchio (qui inteso non come trasposizione italiana della parola inglese brand, ma proprio espressione del concetto “segno indelebile di riconoscimento”), innegabile, incontrovertibile. Questo è il segreto del design Scandinavo: un design fatto di dettagli, di oggetti, di istanti lievi e di grande sostanza, di qualità e di materia: tutte piccole cose che assumono e conferiscono grande significato, a un design poetico e democratico per il futuro. Tomas Maldonado parla di ‘design caldo’ connettendolo alle modalità di produzione e all’artigianato: è immediato il collegamento trasversale con il design dei paesi Scandinavi, ove il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale avviene in modo fluido e mantiene inalterate alcune cure e attenzioni che si manifestano al consumatore nel prodotto finale ma anche in tutto il processo generativo dell’artefatto. Innanzi tutto, va fatta una precisazione: dal punto di vista geografico si possono computare all’interno del territorio della penisola scandinava soltanto Svezia, Norvegia e parte della Finlandia. Tuttavia, è ormai prassi consolidata includere nel discorso che riguarda il design Scandinavo – soprattutto – la Danimarca e in tempi più recenti l’Islanda. Più esattamente – dicono Charlotte e Peter Fiell – all’interno della regione i cinque paesi vengono chiamati Norden, letteralmente ‘il Nord’ [C. & P. Fiell, Scandinavian design: design in scandinavia, Taschen, Köln, 2002]. Rispetto a loro, proprio la Danimarca sarà nazione cardine nello sviluppo di alcuni discorsi che perfettamente incorporano l’unione tra funzione ed estetica, arricchendo le progettazioni e i loro esiti di contenuti emozionali. È, inoltre, danese il concetto di “hygge”, che perfettamente incorpora il design Scandinavo: è la vera e non celata motivazione che ci fa sentire accolti sempre e in alcun modo giudicati negli ambienti costruiti con questo tipo di mobili.

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Il design nel Norden assume, a seconda dei luoghi in cui si situa, caratteristiche vernacolari e regionali. Inoltre, sembra ineludibilmente rispondere a tre dettami, tre invarianti, che forse sono più difficili da indentificare così seccamente per altre locazioni geografiche o altri movimenti: la cura dell’infanzia come tale, la difesa della capacità del bambino di immaginare, di provare sentimenti estremi quale paura o gioia senza motivo, di essere creativo e libero; il legame contrastato che gli individui sviluppano con il territorio naturale e con l’ambiente esterno, accompagnato dalla consapevolezza circa la caducità della posizione dell’uomo, che porta a curare minuziosamente la decorazione di interni ed esterni di pertinenza, realizzando il massimo comfort (anche visivo) possibile; infine, il legame con forme fluide e funzionali e – per lo più – con i materiali ‘naturali’, per quanto sarebbe più opportuno dire vernacolari – il legno, il vetro, la ceramica, i metalli smaltati – e in continuità in termini materici e realizzativi con la produzione artigianale. Il design Scandinavo, di fatto, genera un movimento composito e unitario allo stesso tempo, dove aziende, designer e prodotti, pur appartenenti a nazionalità diverse sembrano parlare un linguaggio di semplicità, di calda funzionalità, di soddisfazione e protezione del cliente: è un design sociale, consapevole del valore che gli oggetti e gli artefatti apportano nella vita quotidiana di tutti noi. Tra i caratteri diversi, locali, sviluppati secondo regole considerabili come univoche, tuttavia ecco i meravigliosi ribelli del design danese, Verner Panton e Eero Aarnio, che ‘tradiscono’ i materiali tradizionali e le modalità produttive tipiche di questi luoghi dilettandosi con polimeri ai quali pure regalano forme fluide funzionali e – incredibilmente – ‘scandinave’. Così, pur se prodotta da Herman Miller e esposta sulla Fifth Avenue di New York, la Panton chair resta indissolubilmente legata alle derivazioni organiche che nutriranno il design americano degli anni Quaranta-Cinquanta: impossibile realizzarle diversamente, le creazioni di questi due designer tengono conto dell’ergonomia, della funzionalità, della capacità di ricreare convivialità e calore, anche se utilizzano materiali per il contesto inusuali e ‘bizzarri’. Il design danese, poi, è indissolubilmente legato all’ambito del


lighting design con Louis Poulsen e Poul Henningsen e una lunga trattazione sulla luce che è chiamata a dare calore, a vestire gli ambienti; quasi in contrapposizione, l’atteggiamento del lighting design italiano sarà di rivelare, rispondendo a una più solare mediterraneità. Principalmente, è importante ricordare come nei paesi all’interno dei quali si attua il design Scandinavo il senso ultimo del singolo all’interno della collettività è molto più forte che altrove. In tal senso è giusto chiarire che il senso dell’Uno nella collettività non provoca nel territorio Scandinavo perdita del Sé come per esempio accade nel Sol Levante o in Cina, ma piuttosto meglio si adatta alla definizione e al concetto di ‘sostenibile’: parafrasando e ampliando il concetto al prossimo, al vicino, anche temporalmente. Sostanzialmente, una regola di profonda autodeterminazione e rispetto in questi Paesi fa veramente sì che si cerchi di armonizzare le proprie libertà con quelle altrui e con un senso profondo di comunità e collettività, senza detrimento della propria espressione. Non è quindi un caso che il design Scandinavo si affermi tra le due Guerre, pur essendo presente da prima, anche in ragione della popolarità nascente e crescente del Good Design americano – che ne ha introdotto i motivi estetici, linguistici e semantici – ma anche in risposta a un desiderio condiviso da parte di utenti e designer di prodotti che uniscano – certamente – innovazione tecnica, funzionalità, economia, carattere estetico e cura del dettaglio, ma anche un quid indefinibile di familiarità, di calore emotivo trasmesso dall’oggetto. È come se, in qualche modo, i dolorosi trascorsi e le ristrettezze imponessero un ritorno alla verità negli artefatti, tuttavia capaci di portare con sé contenuti immateriali semplici. A tutto ciò, contribuisce – ancora una volta – una mostra, Design in Scandinavia, organizzata dal Museo di Brooklyn nel 1954, che presenterà la bontà delle progettazioni scandinave agli USA attraverso più di settecento esempi e sarà in tour tra Stati Uniti e Canada per tre anni. Con tutto il tempo per affermarsi e farsi desiderare, dopo decenni di appar(isc)enza dello Styling, gli oggetti scandinavi si presentano come veri [brooklynmuseum.org/opencollection/exhibitions/1092, 2020]. Nel novembre del 1950 si tiene per la prima volta al MoMA,

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The Museum of Modern Art di New York, una mostra intitolata (semplicemente) Good Design. Quello che è presentato al mondo, il movimento del Good Design, si afferma nel mondo in maniera incontrovertibile come il miglior design possibile. Questa è una stagione memorabile per il design degli USA, che non soltanto sale sul più importante palcoscenico del design a partire della sua fondazione ma allo stesso modo imprime un cambiamento epocale nel design a livello mondiale con la sua affermazione. Il MoMA di fatto, a partire dalla sua apertura, con le mostre che vengono ospitate nella sezione di design in qualche modo soppianta il ruolo delle Esposizioni Universali dal punto di vista dell’affermazione di un concetto su un altro come vincente e predominante nel mondo del design, dell’arredo, del mobile, degli oggetti. Con i concorsi o le scelte curatoriali che qui si operano, tuttavia, non è più la società a decretare i trend e le mode a partire da un confronto, anche critico e spesso a posteriori. Tutto è iniziato, tuttavia, almeno dieci anni prima con quella che correttamente potrebbe essere considerata come la prima1 di queste importanti occasioni di confronto, la mostra Organic Design in Home Furnishing, tenutasi nel 1940 e curata da Eliot F. Noyes. La mostra segue Machine Art del 1934 e Bauhaus: 19191928, del 1938: in tal senso, però, queste due precedenti mostre non presentano il tema e il concetto del valore sociale del buon design degli oggetti, largamente intesi. Va ravvisato che la principale differenza tra le due è che la mostra del 1940 è in realtà un concorso mentre quella del 1950, dedicata al Good Design, un’oc­casione per presentare a visitatori e produttori oggetti realmente acquistabili nei negozi, ancora una volta sancendo la continuità storica con le Esposizioni Universali. In quell’occasione il mondo conosce Charles Eames e Eero Saarinen, e il loro successo accende i riflettori su una Scuola, la Cranbrook Academy, fondamentale per il cambiamento di rotta che finalmente avviene nel mondo del design. Le personalità che ruotano intorno alla Cranbrook – Charles e Ray Eames innanzitutto ma anche certamente Eliel Saarinen e il figlio Eero, Harry Bertoia, George Nelson e Florence Schust – e che sono a essa a vario titolo collegati, permettono di trasporre negli Stati Uniti


un’importante eredità che non è solo fatta di un bagaglio culturale, spostatosi in luoghi meno ostili a causa del conflitto mondiale che si sta svolgendo sul territorio europeo, ma anche di imprenditorialità e di visione, di volontà di conservazione di una cultura in qualche modo antica. Così, risulta vincente la commistione di tutto questo, coraggiosamente unito a una creativa determinazione e propensione alla sperimentazione funzionale. I mobili di Charles Eames e Eero Saarinen che vengono premiati alla mostra sono funzionali, sono innovativi, sono per gli americani moderni – progressisti direbbe il Direttore del MoMA – definiscono interni da vivere, non soltanto da mostrare o nei quali diventare parte dell’esposizione di un panorama di fascinazione: vogliono essere contemporanei, affabili e affidabili, più veri di uno stile che ha lasciato il segno nel Paese e, giunto qui già ampiamente indagato, si è nutrito di un carattere tutto locale di apparenza senza sostanza. Sono belli, con un carattere democratico, secondo lo spirito dei loro ideatori: sono, si potrebbe dire, l’inizio di una rivoluzione. La nuova generazione di architetti e designer americani, che si afferma a cavallo del secondo conflitto bellico, senza ombra di dubbio attraverso la Cranbrook Academy, ma anche in virtù del fermento culturale di cui il MoMA è certamente promotore così come di favorevoli circostanze sociopolitiche, coglie virtualmente la continuazione di molti discorsi iniziati sul Vecchio Continente e trasposti nel Nuovo anche grazie agli émigré. In tal senso è proprio la scuola privata di istruzione superiore a essere un minimo comune denominatore di tante personalità così diverse. Qui, negli USA, i designer americani fondono quanto si è studiato e insegnato nel Bauhaus con la tradizione scandinava, le disquisizioni vittoriane e quelle del Deutscher Werkbund, e vanno oltre nelle proposizioni concettuali e nei risultati. Non sembra esserci traccia, nel loro design, di questo appesantimento tipico della storia e della conoscenza: perché negli Stati Uniti il design diventa impresa e vendita [R. De Fusco, Storia del design, Editori Laterza, Roma-Bari 2005]. Due saranno le aziende che fortemente, seppur differentemente, supporteranno la diffusione del design moderno negli Stati Uniti: Knoll International e Herman Miller. La prima, grazie al

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fortuito incontro tra Hans Knoll e Florence Schust, porterà negli Stati uniti le produzioni del Bauhaus, in particolare quello del periodo fino al ’28: le sedie di Mies van der Rohe, le poltrone di Gropius, che negli Stati Uniti fonderà The Architect Collaborative. Accanto a ciò, tuttavia, si declineranno certe progettazioni eu­ ropeisticamente moderniste – forse troppo – proprio della Schust, ex-studente della Cranbrook; e, quando questa – rimasta vedova – si troverà alla guida dell’azienda, la coraggiosa produzione della notissima serie Pedestal Group, di Saarinen, anche nota come Tulip (pur rivisitata rispetto al progetto originale, per adattarla alla tecnologia produttiva del tempo). Da Knoll verranno prodotte anche altre sedute iconiche del tempo e già classici, meravigliosamente organiche, sposate con la tradizione del tubolare metallico europeo, come accade per la poltrona n. 70 Womb o la Diamond chair di Bertoia, dove il tubolare diventa sottilissimo tondino che disegna il movimento di un fazzoletto mosso dal­ l’aria. Il collegamento tra Herman Miller e la Cranbrook è, invece, George Nelson, art director e fecondo progettista, che pur non avendo mai studiato alla scuola ne segue con fervore la linea ideologica chiamando a collaborare per l’azienda i coniugi Eames, Charles e Ray, accanto a progettisti di fama internazionale che ben incarnano lo spirito della casa produttrice. quali Isamu Noguchi e il danese Verner Panton. L’azienda è, infatti, già da qualche tempo attiva nel mondo del Good Design: Nelson, in tal senso, è una conseguenza di scelte fatte dalla direzione all’indomani della crisi del 1929, di produrre mobili non più orientati a soddisfare il gusto del momento o le mode, ma piuttosto le esigenze delle persone. Quanto fin qui espresso è copiosamente e diffusamente avvalorato, in uno scritto divulgativo all’interno di una sezione che presenta le tappe fondamentali ed emergenti della storia del design. Circa il design americano e in particolare Knoll International e Herman Miller si dice: Il modo di concepire il design da questi due marchi nasce dalla profonda influenza del design europeo sul tradizionale modo americano di concepire il design come processo progettuale totalmente asservito alle logiche produttive e commerciali [museiitaliani.org, 2020].


Infine, per inquadrare correttamente il periodo, un discorso a parte merita Isamu Noguchi, che pure sarebbe parimenti corretto trattare in un capitolo sul design giapponese. Noguchi, figlio illegittimo di un poeta giapponese e una scrittrice americana, con la sua doppia nazionalità si lega al momento in essere negli USA nel modo più semplice: oltre che per la sua nascita, per il fatto di essere prodotto da Herman Miller come altri già citati in questo gruppo. Per quanto, tuttavia, le opere di Noguchi siano meravigliosamente funzionali nella loro incomparabile pulizia estetica, egli è e resta uno scultore. “Tutto è scultura. Qualsiasi materiale, qualsiasi idea senza ostacoli è concepita nello spazio: questa per me è la scultura”. Come Bertoia, Noguchi è uno scultore che si approccia al design con la volontà di creare oggetti esteticamente iper-qualificanti rispetto all’ambiente domestico. Nella sua relazione libera con i materiali nella produzione di design, Noguchi è come se non abbandonasse mai una compassata reazione all’emozione che il materiale stesso gli genera. Lo rispetta, lo piega e sembra con esso avere un dialogo maieutico, che esprime nel prodotto finito giapponese semplicità. Per questa ragione è difficile considerarlo completamente americano. È vero che le forme scultoree e l’amore per i materiali, la loro naturale tendenza a essere letti, indagati, valorizzati e compresi caratterizza spesso in modo trasversale e diretto allo stesso tempo grande parte della produzione afferente al Good Design, a partire dalla celeberrima La Chaise di Charles e Ray Eames fino alla poltrona Womb di Eero Saarinen; tuttavia Noguchi resta giapponese, in parte, e scultore, completamente. Il suo sofà Freeform ha tutta la poesia del rapporto con la natura che si tramanda nel paese del Sol Levante, e che è stato tanto sognato, prefigurato, desiderato attraverso i prodotti d’arte di natura varia arrivati nel Vecchio Continente a partire dal­ l’apertura delle frontiere giapponesi. Rispetto al Japonisme d’importazione, Noguchi propone un aggiornamento, un rimando pacato e innegabile ai momenti di pace nei giardini giapponesi. Cosa arriva di tutto ciò all’oggi? Quale lezione per il futuro ci viene dal passato? La tedesca Vitra è certamente erede del Good Design oggi ma pur connessa a tutto il bagaglio culturale che questo porta con sé,

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nel suo heritage e nell’offerta, si tiene lontana da un’empatia naturale che, differentemente, Ittala e Marimekko continuano a offrire. È forse questa la ragione che porta Vitra ad assumere quale art director per i materiali e i colori la designer olandese Hella Jongerius, o forse semplicemente questo dimostra quanto fin qui assunto. Il design “buono” – quello nato nel Norden, con le sue evoluzioni americane e implementazioni tedesche – è il più vicino alla vita quotidiana dei nostri giorni, e pertanto il più desiderabile. Efficace, gradevole, affidabile e bello: i prodotti, serenamente e semplicemente, si offrono a fasce di popolazione dal punto anagrafico differenti e a differenti target e non richiedono una scelta mutualmente esclusiva. Forse, non è facile dire lo stesso di Vitra, la cui constatazione dell’identità dipende – anche – da un discreto bagaglio di conoscenza personale: diversamente, è difficile apprezzare i loro prodotti nel loro pieno valore. Certo è, tuttavia, che l’azienda non è solo produzione, ma molto di più: è un fulcro per la diffusione della cultura del prodotto, con un centro studi e ricerche, un’affascinante esposizione sullo sviluppo della storia del design e un archivio di materiali sconfinato; in tal senso, la vendita è solo l’ultima parte dell’esperienza da fare nella sede sul Reno. Questa artefazione, tutta tedesca nell’approccio, però può talvolta rendere elitario il riconoscimento del suo valore intrinseco. È, dunque, solo questo il lascito del Good Design oggi? Da una parte, gli elitari prodotti, qualitativamente ineffabili, di Vitra, insieme ad altre – più o meno – conosciute aziende afferenti al territorio Scandinavo, dall’altra il molto diffuso design a buon mercato di IKEA e sue imitazioni e concorrenti? Decisamente, no. GOOD DESIGN® è un premio: istituito nel 1950, a partire dalla prima mostra presentata a Chicago, è giunto ora alla sua settantesima edizione: patrocinato dal Chicago Athenaeum Museum of Architecture and Design e dal Metropolitan Arts Press Ltd, il programma del premio presenta ogni anno i design di prodotto e grafici più innovativi e all’avanguardia, provenienti da ogni dove in giro per il mondo [good-designawards.com/ about.html, 2020]. Ma non è tutto qui.


Vi è arte in una scopa? Sì, secondo il Manhattan’s Museum of Modern Art, se è disegnata sia per la sua utilità, sia per apparire esteticamente qualificata. Con questa citazione estratta da una recensione dedicata a una delle mostre sul Good Design del MoMA, riportata su un numero di Time del 1953, velocemente si giunge al cuore di una domanda che il Museo si è posto dall’inizio della sua esistenza. Cosa è il buon design e come può migliorare la vita di ogni giorno? [moma.org/calendar/ exhibitions/5032, 2020]. Ancora una volta, dunque, è un museo, con una mostra, che tratta il tema in oggetto, virtualmente chiudendo e fornendo una parziale risposta a questa parte di digressione – aperta, appunto, con un’altra mostra la cui eredità evidentemente non si è ancora esaurita. I curatori, Juliet Kinchin e Andrew Gardner, afferenti al Dipartimento di Architettura e Design del MoMA – attraverso pezzi iconici, quali per esempio la già citata La Chaise dei coniugi Eames, e simboli del mercato di massa, quali la Nuova Fiat 500 di Dante Giacosa – si interrogano su cosa Good Design possa voler dire oggi, e se i valori della metà del secolo scorso possano essere tradotti e implementati oggi per i consumatori contemporanei. La domanda, apparentemente semplice, purtroppo rivela tortuose trattazioni. Lontano da falsi pregiudizi e da larghe classificazioni generaliste in realtà il nostro giudizio è influenzato dal quel concetto che Deyan Sudjic definisce “Autenticità”: non è solo per la scelta del materiale, o per la finitezza dell’oggetto. Seguendo Sudjic, non ha niente a che vedere con la bellezza, né dice alcunché a proposito della performance dell’oggetto [D. Sudjic, B is for Bauhaus. An A-Z of the Modern World, Penguin Books, London 2014]. L’oggetto dal sapore ‘scandinavo-americano’, rispondente a osservabili e valutabili qualità di semplicità e funzionalità, è un monito e un testimone circa la possibilità di avere un pezzetto di quel paradiso a casa nostra, alla nostra tavola, sulla nostra scrivania, sotto i nostri occhi. Il concetto di autenticità – continua Sudjic – è difficile da sostenere e pertanto va fatto con regole che vanno ben oltre il prodotto. In tal senso, tutto ciò che è riconducibile formalmente al design di derivazione “scandinava” ha una naturale predisposizione a portare lo spirito hygge nelle nostre vite.

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Tuttavia, quanto fin qui espresso, le digressioni che normalmente si situano nelle pieghe della Storia, il desiderio di intimità materiale, di reale funzionalità degli oggetti dovrebbe portare a riflettere, in un momento in cui le case sono chiamate a svolgere molto più delle loro funzioni abituali. È stato scritto qualche tempo fa, in occasione del centenario della scuola del Bauhaus, che la sua ideale continuazione possa essere ravvisata in IKEA. Non può essere così, per quanto una fortissima connessione tra il design Scandinavo, il Good Design Americano e la scuola di Ulm possa essere, invece, azzardata. IKEA, nel bene e nel male, cerca di non tradire le sue origini: è business-oriented, naturalmente, ma è anche risposta a esigenze e bisogni. Possa dare prova di ciò l’introduzione, già nel mese di giugno 2020, di possibili pareti divisorie per ufficio: morbide alla vista, schermanti, fonoassorbenti, e certamente rispondenti alle nuove necessità del momento storico attuale. Un bel design, caldo e semplice, fatto da persone per le persone.

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Bisogni e desideri GIOVANNI CUTOLO

Il mercato dei bisogni Gli psicologi intendono per “bisogno” la percezione della mancanza totale o parziale di uno o più elementi che consentono alla persona la sensazione di benessere. Secondo Agnes Heller (1929-2019) tutte le specie viventi, siano esse un fanciullo, un animale o una pianta, condividono il bisogno della nutrizione e della procreazione. Ma vi sono bisogni prettamente umani sui quali occorre azzardare una teoria più soddisfacente di quelle in voga. Quando la Heller cominciò a esplorare questo problema, nelle facoltà di psicologia e soprattutto nelle business school, la figura e la teoria di Abraham Maslow (1908-1970) stavano scalzando quelle di Henry Murray (1893-1988) espresse nel suo testo fondamentale Exploration in Personality del 1938. Murray divide i bisogni in manifesti e latenti, proattivi interni e reattivi esterni, focali e diffusi, viscerogeni – cioè fisici e comuni a tutti gli individui – e psicogeni – cioè psicologici e diversi da individuo a individuo. La teoria di Murray aveva preso piede soprattutto perché egli ne aveva ricavato un test proiettivo tuttora in voga: il Thematic Apperception Test, applicato anche da Edward C. Banfield in Lucania per studiare il tanto discusso familismo amorale. Ma nel 1954 Abraham Maslow scalzò Murray pubblicando Motivation and Personality in cui cercava di dimostrare

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che ogni individuo è unico e irripetibile mentre i bisogni sono comuni a tutti e sono collocati in strati come una piramide. In ognuno di noi scattano per primi i bisogni fisiologici (respiro, fame, sete, sonno e omeostasi) e solo quando questi sono sufficientemente soddisfatti scatta una seconda categoria costituita dai bisogni di sicurezza e protezione (sicurezza fisica, occupazionale, morale, familiare, di salute e proprietà). Quando anche questo secondo livello è soddisfatto, scatta il terzo costituito dai bisogni di appartenenza (amicizia, affetto, intimità). Gli ulteriori due gradini, che rappresentano il vertice della piramide, sono i bisogni di stima (autostima, autocontrollo, prestigio, realizzazione, rispetto) e sopra a tutti gli altri, i bisogni di autorealizzazione (identità, spontaneità, creatività, problem solving, successo). A questa teoria schematica, che dominava ormai incontrastata nelle facoltà di psicologia e soprattutto nelle business schools, la Heller ne contrappose una molto più articolata, pur nella sua semplicità. A suo avviso i bisogni umani sono di due tipi. Vi sono quelli “alienati”, che Kant aveva definito Süchte, e consistono nella sete di ricchezza, di potere e di beni materiali. Si tratta, dunque, di bisogni quantitativi, che tendono a beni che si prestano a essere misurati e paragonati, per cui c’è sempre qualcuno che ne ha più di noi, destando in noi l’invidia che ci aliena. Ma vi è una seconda categoria di bisogni umani, che la Heller chiama “radicali” perché consustanziali alla radice squisitamente umana della nostra personalità. Si tratta dei bisogni d’introspezione, di amicizia, di amore, di gioco e di convivialità: tutti accomunati dalla loro essenza qualitativa, che non si presta a essere misurata né mercificata. Per tutta la vita Agnes Heller ha lottato affinché i bisogni radicali trionfassero su quelli alienati e la bellezza potesse intrecciarsi con la bontà: “La bellezza – amava dire – non salverà l’Europa, si può essere amanti delle cose belle (Hitler amava Beethoven e Stalin la poesia sublime) e non agire di conseguenza [D. De Masi, Newsletter n. 20, 29 luglio 2019].

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Il mercato dei desideri Ritengo che, all’interno del Sistema delle merci, una posizione centrale e potenzialmente rivoluzionaria sarà affidata all’Edonista virtuoso, inteso come il nuovo consumatore attrezzato a orientarsi e superare le sempre nuove barriere del gusto. Va registrato qui il rischio politico e sociale che comporta l’approfondirsi del solco che separa quella parte di umanità che ancora vive all’interno di un Mercato dei Bisogni, dove è tuttora quotidiana la dura lotta per procurarsi l’indispensabile, da quella che invece partecipa al Mercato dei Desideri, dove la presenza del superfluo altera il funzionamento dell’analisi economica classica, formatasi soprattutto sullo studio dei bisogni. Dedicarsi allo studio di queste alterazioni non deve far dimenticare la spada di Damocle che pende su di un mondo nel quale, per la prima volta nella storia dell’umanità, i valori di una sola comune volontà sembrano imporsi. Tutti vogliono consumare, a oriente come a occidente, le merci miracolose inventate e prodotte all’inizio dalla tecnologia occidentale. Con l’aiuto decisivo della propaganda pubblicitaria il sistema di produzione trasforma e impone il consumo come “culto coatto”. Si distruggono antichi ordini sociali, sostituendo un’economia autoctona – arcaica ma reale – con una nuova economia organizzata a tavolino dalle grandi imprese industriali. Una nuova economia che porta con sé l’insidia dei bisogni indotti, quei bisogni falsi che però sono ormai profondamente radicati nella dilagante e – almeno finora – vittoriosa “economia del superfluo”. Un’economia messa a punto negli Stati Uniti d’America allo scopo di trovare sbocchi civili per le enormi capacità produttive di cui l’industria USA si era dotata durante la prima guerra mondiale. Secondo André Gorz la pubblicità, che abitualmente dispone di una cospicua parte del capitale fisso immateriale di ogni industria di produzione, da molto tempo ormai funziona come un mezzo per produrre i consumatori. In altri termini, funziona per produrre desideri, voglie, immagini di sé e stili di vita che, fatti propri e interiorizzati dagli individui, li trasformeranno in quella nuova specie di acquirenti che non hanno bisogno di quel che desiderano e non desiderano ciò di cui hanno bisogno 101


[A. Gorz, L’Immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003]. La trasformazione della “propaganda” in “pubblicità” si deve a Edward Louis Bernays (1891-1995), statunitense di origine austriaca, celebre fra l’altro per la sua parentela con Sigmund Freud. Bernays fu uno dei primi a utililizzare metodi derivati dalla “psicologia del subconscio” al fine di manipolare l’opinione pubblica. A lui si devono le locuzioni “mente collettiva” e “fabbrica del consenso”. Bernays è comunemente considerato uno dei padri delle moderne “relazioni pubbliche”, delle quali ha teorizzato le principali regole fondanti in un libro pubblicato negli USA nel 1928 [E.L. Bernays, Propaganda, Lupetti editore, Milano 2008]. Acclamato inventore della “ingegneria del consenso” Bernays ha teorizzato e poi spiegato che, se i bisogni delle persone sono “limitati per natura”, i loro desideri sono invece “illimitati per essenza”. Per farli crescere basta sbarazzarsi dell’idea, sbagliata, che gli acquisti degli individui debbano corrispondere a bisogni pratici e a considerazioni razionali. La sua profonda convinzione è che occorra fare appello alle spinte inconsce, alle motivazioni irrazionali, ai fantasmi e ai desideri inconfessati e rimossi. Manifesta ed evidente qui l’influenza dello zio famoso. Verrebbe da dire che buon sangue non mente, ma sarebbe un ingiustificato e immeritato vulnus alla ben diversa qualità etica del pensiero freudiano. Secondo Bernays invece di rivolgersi al senso pratico degli acquirenti, come si limitava a fare la propaganda dei bisogni, per sviluppare i desideri occorre fare ricorso alla pubblicità e alle public relations, formulando messaggi capaci di trasformare anche i prodotti più banali in vettori di senso simbolico. Bisogna fare appello alle emozioni irrazionali, con l’obiettivo di creare il consumatore-tipo, un consumatore convinto di trovare nel consumo un mezzo per esprimere sé stesso, un consumatore vittima di una deviante cultura del consumo, una sedicente cultura volgare, veicolata surrettiziamente mediante la pubblicità, il cosiddetto messaggio pubblicitario. Un messaggio rivolto al consumatore potenziale per indurlo a esprimere il “suo io più intimo”, come suggeriva una pubblicità degli anni Venti del secolo scorso, sollecitando la gente a dare libero sfogo a quello che, presuntamente, 102 aveva in sé di unico e prezioso, ma che restava nascosto.


I mandanti del progetto condotto a buon fine da Bernays furono comprovatamente i capi delle corporations americane, i quali intendevano trasformare il modo in cui la maggior parte degli americani pensava ai prodotti. Uno dei banchieri più in vista di Wall Street, Paul Mazur della Lehman Brothers, non lascia dubbi di sorta esprimendo con estrema chiarezza cosa fosse necessario fare per dilatare i consumi al fine di sostenere i livelli della produzione industriale. Dobbiamo cambiare l’America da cultura dei bisogni a cultura dei desideri. (…) Bisogna insegnare alla gente a volere cose nuove, anche prima che le cose vecchie siano state consumate del tutto. Dobbiamo formare una nuova mentalità in America. Occorre che i desideri dell’uomo mettano in ombra le sue necessità [N. Häring, N. Douglas, Economists and the Powerful: Convenient Theories, Distorted Facts, Ample Rewards, Anthem Press, London 2012].

Va ricordato che, fino a quel momento, il consumatore americano non esisteva. Esistevano il lavoratore americano e il proprietario americano e questi producevano, risparmiavano e consumavano ciò che era necessario. Solamente i ricchi acquistavano beni di cui non avevano bisogno. Mazur – il grande banchiere visionario – immaginò di rompere con tutto questo, proponendo di creare un mondo in cui non si compravano le cose che servivano, delle quali si aveva bisogno, ma quelle che si desideravano. L’uomo che, al servizio delle corporations americane, sarebbe stato l’artefice di questo cambio di mentalità fu appunto Edward Bernays. Egli fu sicuramente l’uomo che più di ogni altro seppe, rielaborando le riflessioni dello zio Sigmund, mettere in pratica le teorie psicologiche essenziali per consentire alle corporations di affascinare e manipolare le masse, quelle americane prima e quelle del resto del mondo poi. Merita una ultima riflessione il fatto che Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich hitleriano, abbia confessato a un giornalista americano che, tra le cose che lo avevano ispirato, c’erano anche gli scritti del nipote di Freud, Edward Bernays. Per liberarsi dei mortificanti abiti di consumatore predisposti dal grande sarto Bernays, per poter resistere, sussistere e sostenere il proprio equilibrio, l’Edonista virtuoso ha bisogno allora di 103


una visione d’insieme, di una comprensione del mondo reale che gli consenta di uscire dall’Ego, di tener conto del Noi come essenziale vincolo di difesa e riscatto, vincolo pratico ed etico al contempo. E non è casuale che questa ipotetica conciliazione tra pratica egoistica e riflessione etica sia proprio ciò che si ritrova sempre in maniera costante nell’insegnamento di tutte le grandi religioni. Malgrado l’importanza e l’assennatezza di queste considerazioni, si può cautamente concedere spazio anche all’ottimismo positivista, immaginando che questa evoluzione culturale e sociale dell’edonista sia possibile e che sia addirittura già in corso, non per cambiare il mondo ma piuttosto per favorirne un uso più assennato. Se da un lato appare evidente l’immutabilità di taluni elementi costitutivi e caratteristici dell’uomo, che nessun cambiamento o evoluzione è riuscita nemmeno a scalfire, d’altro lato appaiono enormi le trasformazioni del mercato e dell’ambiente e la loro influenza sui rapporti e sui comportamenti. In questo senso appare assolutamente eccezionale il risultato che la Rivoluzione delle Merci, con l’evoluzione dei trasporti e lo sviluppo della produzione e della distribuzione, ha raggiunto. Oggi un semplice operaio o un modesto impiegato di un qualunque paese occidentale dispone di mezzi che possono consentirgli l’accesso all’uso di beni e di servizi che qualche secolo fa sarebbero apparsi non privilegio ma addirittura sogno, fantasia. Anche per un re o per un imperatore. Si pensi a cose come la luce elettrica, l’acqua corrente fredda e calda, il frigorifero, la lavatrice, l’aspirapolvere, l’automobile, l’aria condizionata, l’ascensore, il riscaldamento integrato e tantissime altre cose, che oggi sono ritenute “normali”. Non si deve dimenticare che solo dopo il XIII secolo i signori più ricchi costruiscono castelli dotati di camino per godere di un riscaldamento, faticoso, pericoloso e affumicante. Il desiderio di possedere tutte le merci e tutti i beni, onde godere del massimo benessere e per acquisire al tempo stesso anche uno status sociale più elevato e ambito quanto i beni materiali, sembra avere una capacità di seduzione pari a ogni altro desiderio. Il messaggio implicito nella Rivoluzione delle Merci mostra avere una forza profonda e una capacità di fascino per certi aspetti superiore ad ogni altro sistema di pensiero rivoluzio104 nario, religioso o ideologico. La definizione di un unico grande


mercato globale determina una naturale tensione dei singoli a divenire attori e protagonisti all’interno di questo nuovo scenario evolutivo. Siamo stati per millenni “abitanti” di una realtà regionale. Da qualche centinaio di anni siamo divenuti “cittadini” di un’entità definita politicamente. Da qualche decennio siamo assurti al rango di “consumatori”, classificati all’interno di questa o quella nicchia di mercato. Ci si presenta, infine, la possibilità di accedere al rango di edonisti virtuosi, di consumatori cioè capaci di conferire dignità e valore al gesto del consumare e quindi al Mercato, in virtù di una buona cultura materiale fondata sulla riflessione e sulla conoscenza.

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Libri, riviste e mostre

M. Botta, Spazio Sacro - Architetture 1966-2018, Casagrande, Bel­ linzona 2018.

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Circa trecento pagine, di grande formato, raccolte in un volume con un raffinato impaginato per raccontare la complessa e articolata produzione architettonica dello spazio sacro prodotta da Mario Botta in oltre cinquant’anni di intensa attività progettuale ed esposte in una mostra che ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica, nella Pinacoteca comunale Casa Rusca di Locarno tra marzo e agosto 2018. Un’interessante combinazione ico­nografica in cui si alternano schiz­ zi dalla grande forza espressiva, disegni tecnici caratterizzati da estrema chiarezza, immagini di plastici realizzati con materiali pregiati per raccontare, in maniera potenzialmente esaustiva, le ventidue architetture realizzate in contesti ambientali e culturali molto differenti tra loro, che gravitano attorno al sacro: dalla Cappella dei Frati Cappuccini a Bigorio (1966) progettata quando era ancora studente, a numerose chiese, alla Cattedrale della Resurrezione a Evri nell’Île de Fran­ ce

(1988-92) ad alcune cappelle funerarie ma anche alla Sinagoga Cym­ balista e al Centro dell’eredità ebraica a Tel Aviv sino alla Moschea, Yinchuan a Ningxia Hui del 2016. Ma il volume di Botta non è solo una rassegna illustrata delle sue opere: apre con sette saggi critici che affrontano, in maniera pluridisciplinare, la lettura dello spazio architettonico sul tema del sacro: Gianfranco Ravasi, Rudy Chiappini, Salvatore Veca, Pier Luigi Panza, Giorgio Ciucci, Corrado Bologna e lo stesso Botta trattano l’argomento da differenti punti di vista, fra cui il teoretico, necessari per affrontare una tematica così antica, ma complessa e articolata. Una plurima lettura che si arricchisce di una visione multiculturale e multietnica in un momento in cui, in particolare nel mondo occidentale, i valori morali e religiosi che hanno rappresentato per molti secoli un riferimento basilare, sono in profonda crisi. Importante è, infatti, la letteratura teologica dedicata allo spazio sacro che, con la categoria “tempo”, costituisce una delle due coordinate fondamentali del rapporto tra la trascendenza infinita ed eterna di


Dio e l’immanenza limitata e storica dell’uomo, secondo quanto scrive Gianfranco Ravasi. Altro apporto del volume è dato dalla raccolta antologica di articoli, saggi e recensioni che hanno accompagnato i differenti progetti pubblicati, nel tempo, sulle maggiori riviste internazionali, testi che forniscono un’ul­ teriore chiave di lettura, assieme ad apparati, nella parte terminale, regolati da un rigido rigore scientifico. Almeno in Italia, il progetto dei luoghi di culto cattolici, nonostante la complessità dovuta al rispetto di canoni liturgici, alla difficoltà di molti religiosi nel confrontarsi con linguaggi moderni, ad alcune fallimentari esperienze che hanno perso di vista prodromi rituali e simbolici, assume un’importanza notevole per le valenze sociali di cui essi si arricchiscono nel porsi, in tanti piccoli centri, come luoghi di aggregazione surrogati alle carenze delle istituzioni pubbliche, contrapposti ai “non luoghi” simbolo di forti malesseri sociali. D’altronde sulla complessità del tema nella progettazione si sono confrontati anche i grandi Maestri dell’architettura del secolo scorso, al di là del proprio credo. Le Corbusier, Aalto, Niemeyer, Tange, Michelucci, Kahn, Saarinen, fino a Rudolph Schawrz che, oltre alle sue opere, segna un momento significativo con il suo testo Costruire la Chiesa, Il senso liturgico nell’architettura sacra. Bott, che articola il suo saggio in vari capitoli: Edifici di culto in una società secolarizzata; L’architettura porta con sè l’idea del sacro; Il territorio della memoria; Liturgia e architettura; Creatività e Tradizione, Architettura e Contesto, e chiude con L’enigma della bellezza – in cui scrive: la “bellezza” si presenta come una realtà virtuale di cui non è

possibile avere conoscenza a priori. Esige una sperimentazione diretta e offre la propria identità solo a posteriori. Con approssimazione possiamo azzardare e dire che la bellezza si manifesta quando viene a crearsi un interessantissimo rapporto fra una realtà materiale (opera o evento) e un’idea immateriale di riferimento: due componenti che si relazionano fino a identificarsi in un insieme con un felice equilibrio che, silenziosamente, ci appaga e azzera tutti i problemi. Le ventidue opere presenti, come d’altronde gran parte della produzione bottiana, sono connotate da una sapiente manipolazione della materia (il mattone, la pietra, il porfido, il legno, il calcestruzzo) mentre l’intera composizione architettonica è basata sulla combinazione di morfologie elementari – talvolta di ispirazione organica come la cappella a forma di trifoglio nell’aeroporto di Milano Malpensa o la chiesa del Santo Volto a Torino a pianta eptagonale circoscritta da sette torri e con una vecchia ciminiera (memoria della cultura operaia) avvolta da una spirale d’acciaio che termina con una semplice ma ben visibile croce – che si aprono alla luce la quale assume, in ognuna di esse, una costante e basilare espressione di coerenza progettuale in linea con il pensiero dell’autore. Se nelle cappelle e nelle molteplici chiese progettate la piena massa muraria del­ l’involucro spaziale, come quella di San Rocco a San Buceto del 2006, è attraversata da fasci di luce provenienti dall’alto e/o dalle coperture con raggi che squarciano l’invaso, generando forti suggestioni, nella moschea, uno dei progetti più recenti, dalle masse murarie traforate emerge invece un moderno minareto e la luce assume una

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caratterizzazione differente. Concordiamo con Giorgio Ciucci: È il tema del sacro che emerge con forza, tema per il quale Botta architetto ricerca una immagine identitaria pur nelle storiche diversità di culto, simboliche e di luogo delle tre religioni monoteiste. In definitiva Mario Botta nella sua ricerca progettuale sviluppata in mezzo secolo sull’architettura sacra, mantiene una chiara costante identitaria – spesso coniugata con elementi del paesaggio, fusi nella poetica artificio-natura, come la cap­ pella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro dalla forte e nota iconografia – espressa da quelle invarianti che rappresentano una connotazione dell’autore italo-svizzero presenti anche in altre tipologie architettoniche. A. C. I. Daidone, Giancarlo De Carlo. Gli editoriali di Spazio e Società, Gangemi Editore, Roma 2017.

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L’architettura non è pensata come un punto di riferimento monumentale e statico, ma piuttosto come un supporto per i movimenti, in reazione ai flussi, alle luci e alle attività. Forse l’architettura continuerà a esistere, perché dopotutto non se ne può fare a meno. Ma al di qua del suo “fine essenziale”? nella banalità del consumo a-spaziale e atemporale?, scriveva De Carlo, scomparso nel 2005 all’età di 86 anni, nell’ultimo editoriale della rivista «Spazio e Società». A queste domande sembra rispondere il saggio di Isabella Daidone, Giancarlo De Carlo. Gli editoriali di Spazio e Società, Gangemi 2017, che ripercorrendo, con lucidità, quest’esperienza editoriale mette in moto un

processo d’analogia e d’identificazione, nonché d’apprendimento e d’elaborazione, che influenza positivamente l’inconscio del lettore attraverso le suggestioni dell’immaginario poetico di De Carlo. Con semplicità e con la forza dell’evidenza Giancarlo De Carlo stabilisce una relazione di reciprocità tra ambiente e uomo ovvero tra spazio e società, e l’autrice ci racconta una “storia” che, nella struttura, cerca di far comprendere l’importanza e l’attualità dell’architettura sociale, ovvero il riesame della contraddittoria questione riguardo allo stretto legame tra lo spazio inteso come architettura, e la società, composta dagli individui che la abitano. Il libro è una riflessione divisa in parti che, come in un racconto rizomatico – un concetto tratto dalla biologia, metafora del descrivere per nodi e diramazioni – serve per dialogare con il lettore mettendo in risalto luoghi, città e territori. Anche le riflessioni su modalità ed esperienze costruite non tralasciano le vicende biografiche. Sembra quasi apparire a un certo punto De Carlo che nel “girare” il cannocchiale avverte: Il primo scopo che ci si dovrebbe porre è dunque di ricostruire la consapevolezza del­ l’unità del territorio; dimostrando che ogni territorio ha un “disegno”, è intessuto di innumerevoli stratificazioni, percepibili una per una o nelle loro varie sovrapposizioni, dal dettaglio all’insieme e viceversa, secondo cosa e come si mette a fuoco nell’osservazione. Isabella Daidone si rivela un’attenta indagatrice dei sentimenti umani e un’abile interprete della nozione di spazio. E nel suo racconto, dal tratto accattivante, rende conto delle ricognizioni fisiche che ha compiuto den­ tro le architetture di De Carlo


rivelando le strategie di progetto che vi sono sottese. Queste rappresentano in qualche modo una questione rilevante nell’intera opera del progettista genovese, ma anche nella sua attività di fondatore e direttore di «Spazio e Società». Nato a Tunisi porterà sempre il ricordo degli anni trascorsi in Nord d’Africa. La Tunisia era un paese bellissimo. Ero incantato dalla città araba e dai villaggi della costa e dell’interno. Credo che l’architettura araba mi sia rimasta impressa nell’immaginazione: le concrezioni di spazi che si compenetrano, la non differenza di sostanza tra aperto e chiuso, tra spazio edificato e spazio aperto abitato. La città araba è composta di luoghi dove le attività sono tutte intrecciate: non fare nulla e lavorare sono quasi la stessa cosa […]. Passavo molto tempo nei souk […]. Mi incuriosivano tutti i luoghi per solo arabi, dove andavo con interesse e diffidenza. Debbo confessare che nei confronti degli arabi conservo diffidenza, insieme a curiosità. […] Ma l’architettura degli arabi senza dubbio mi ha segnato. Ora io non voglio fare quello che, essendo architetto, lo è stato sin dalla nascita perché non è per niente vero, ma posso dire che ricordo il piacere straordinario che provavo girando nei prodigiosi spazi dei souk, anche se non mi rendevo ancora conto che si trattava di emozione architettonica. L’emozione di camminare e di muovermi in un ambiente che mi sollecitava perché mi era estraneo ma anche perché era pieno di segni, di luci, di ombre, di sorprese, di gente che si immedesimava pienamente con lo spazio: quell’emozione non la provavo di certo quando giravo nella città europea.

Si sente, inoltre, l’eco di Giancarlo De Carlo che saggiamente incita l’attento lettore su storie da non dimenticare: Cos’è questo nuovo eclettismo che fa capo al Post-modernismo e si diffonde in varie diramazioni? È piuttosto superficiale, perché tende ad esaurirsi in aride esercitazioni fisionomiche senza mai venire a confronto con la realtà spaziale dell’edificio, è sostanzialmente velleitario, perché si logora nella manipolazione di pseudo concetti […] non è contemporaneo, perché ignora – si sforza di ignorare – lo stato presente del pensiero scientifico, della tecnologia, dell’economia e della lotta politica, i nuovi comportamenti individuali e sociali di una umanità che percepisce la qualità dello spazio fisico, la misura del tempo, le oscillazioni della storia, con una sensibilità del tutto diversa da quella del passato. Nei brani che l’autrice riporta è la centralità dello spazio fisico a suggerire uno specifico modo di guardare, senza tempo, il reale che ci circonda. Viene sottolineata così la loro capacità di generare, ancora oggi, dei ragionamenti sul rapporto fra uomo e ambiente per giungere alla comprensione della poetica personale di De Carlo. L’ombra di questa reazione poetica, si allarga in alcune pagine del libro dove trovano spazio alcuni disegni al tratto che fanno presagire che “l’ambiente è tutto” e che territorio, paesaggio, campagna, periferie urbane, città, centri storici, edifici, piazze, strade ecc. sono casi particolari dell’universo ambientale. Questo significa – ricorda De Carlo – sconvolgere le incastellature interpretative a senso unico per sostituirle con modi di ricerca più fluidi che possano arrivare a interpretazioni e proposizioni se-

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guendo percorsi multidirezionali, itineranti, erratici, più aderenti alla complessità ambientale. La trama del saggio si innesta senza strappi su uno schema classico per parti e ci sollecita a guardare con occhio discreto aspetti significativi della formazione di De Carlo, come le vacanze estive degli anni ’50 a Bocca di Magra. Quell’esperienza umana trascorsa con la sua compagna Giuliana è legata all’amicizia di Elio Vittorini, Italo Calvino, Giovanni Pintori, Giulio Einaudi, Vittorio Sereni, Marguerite Duras, Franco Fortini e Albe e Lica Steiner, e ha influenzato la sua produzione intellettuale: Io parlavo di città con Vittorini e Calvino e loro ne parlavano con me. Ne parlavamo insieme: ciascuno dal suo punto di vista: che cambiava parlandone. Erano tutti più o meno giovani intellettuali di differente provenienza che avevano condiviso l’esperienza drammatica della guerra nelle fila della Resistenza. Ci sedevamo su un muretto e discutevamo e parlavamo di città. Dopo sono uscite Le città del mondo di Vittorini e Le città invisibili di Calvino. In quel periodo stavo realizzando i miei lavori di Urbino. Era un grande nutrimento, credo per tutti, parlavamo di città da punti di vista completamente diversi, io parlavo della complessità delle città, Calvino parlava di fili e del suo modo di vedere questa complessità e Vittorini delle città del Sud, di Scicli, di questi tessuti urbani densi. Qui Isabella Daidone scopre le sue carte con una ricognizione mirata, una narrazione composta che svela la trama di relazioni fra la rivista e il contesto storico degli avvenimenti. Emerge, in questa costruzione intrecciata che attraversa i decenni della vita di De Carlo, il suo ruolo

chiave nel dibattito culturale dell’architettura non solo italiana. In questo studio sulla complessità dell’uomo, dell’architetto, del docente, del direttore emerge il tema della partecipazione, dizione oggi comunemente accettata per designare, nel processo del fare, l’architettura come progetto comune. Per De Carlo, in un processo di conoscenza, la partecipazione diventa, per gli eventi spaziali significativi, un monito a esprimere il tempo in cui viviamo [e per stimolarlo] ad essere migliore. E la bellezza? La bellezza – ricorda De Carlo – è lo scopo, ma quello che conta è il processo che la produce. Il saggio si conclude con la pubblicazione degli editoriali di «Spazio e Società». In questi De Carlo propone un modo diverso di pervenire all’architettura, le cui filiazioni consentono, ancora oggi, punti di vista differenti e disegnano nuove forme di spazio sociale. Nella pratica corrente della osservazione e dell’intervento architettonico, le conseguenze vengono soltanto – e neppure sempre – descritte in termini numerali; mentre le motivazioni non vengono neppure menzionate perché sono prese come un dato di fatto che è superfluo discutere. Il punto è che le motivazioni sono spesso inconfessabili e le conseguenze sono spesso disastrose […]. La Rivista – scrive De Carlo nel primo numero – si propone di svelare l’intero percorso generativo, perché l’occultamento delle motivazioni e delle conseguenze mistifica la comunicazione e perciò rende impossibile di ricavarne esperienza. Nelle pagine di «Spazio e Società» De Carlo ha dato voce a percorsi di ricerca e sperimentazioni costruite che si confrontavano con ambien-


te e umanità. L’architettura contemporanea tende a produrre oggetti – scrive De Carlo – mentre la sua più concreta destinazione è quella di generare processi. Si tratta di una contraffazione densa di conseguenze perché confina l’architettura in una banda assai limitata del suo intero spettro; perciò la isola, la espone ai rischi della subordinazione e delle manie di grandezza, la spinge verso l’irresponsabilità sociale e politica. La trasformazione dell’ambiente fisico passa attraverso una sequenza di eventi: la decisione di dar luogo a nuovo spazio organizzato, la rivelazione, il reperimento delle risorse necessarie, la definizione del sistema organizzativo, la definizione del sistema formale, le scelte tecnologiche, l’uso, la gestione, l’obsolescenza tecnica, il riuso, l’obsolescenza fisica. Questa concatenazione è l’intero spettro dell’architettura e ogni sua banda risente di quanto si verifica in tutte le altre. Accade anche che la cadenza, l’ampiezza e l’intensità delle varie bande siano diverse secondo le circostanze e in relazione agli equilibri o agli squilibri dei contesti ai quali lo spettro corrisponde. Per di più ogni spettro non si esaurisce al termine della concatenazione dell’evento, perché i segni della sua esistenza – rovine e memoria – si proiettano su ulteriori eventi. L’architettura è coinvolta con la totalità di questo complesso svolgimento: il progetto che esprime è lo spunto di un processo di lunga portata e di rilevanti conseguenze. La ricchezza e fecondità dell’impostazione, che emerge nella redazione di «Spazio e Società» – scrive Isabella Daidone nella quarta di copertina –, mette a disposizione del

pubblico la dinamica in atto di una visione critica che riflette, nel farsi stesso dei contenuti e delle posizioni esposte, una capacità di dibattito che aiuta la crescita del lettore, invitato a paragonare e a riflettere su punti di vista differenti. Non sono tanto importanti le risposte da raggiungere nella fretta delle occasioni, quanto l’esibizione del metodo della riflessione, l’individuazione di tracciati da perlustrare, l’apertura alle avventure del pensiero. Il libro si distingue per l’accurata veste editoriale e trova spazio nella collana Città, Territorio, Piano, diretta da Giuseppe Imbesi che scrive: È stata un’affermazione che introduce il secondo capitolo di questo libro (“Narrazione e progetto nella ricerca della città ideale”), nel bel racconto che ne fa Isabelle Daidone, a suggerirmi il titolo di questo corsivo e a orientarne i contenuti. “De Carlo – scrive l’autrice – per avendo abitato in più città, sembra non riconoscersi cittadino di nessuna, fino a definirsi un apolide e scruta ognuna di esse con lo sguardo di chi vorrebbe farne parte”. È questa – continua Imbesi – un’espressione di sentimenti contrastanti. Da una parte prevale il distacco, quasi razionale, del ricercatore dall’oggetto città. ciò sembra spingere De Carlo a sentirsi un estraneo, un freddo osservatore dei fenomeni che questa manifesta per andare oltre, conoscere altro, consentire una sintesi più soddisfacente del rapporto tra teoria e prassi progettuale che gli editoriali di «Spazio e Società» rappresentano compiutamente. C’è in questi il desiderio di rinvenire la “città ideale” in terra o, al contrario, la negazione della sua essenza e l’invito a riconoscersi

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nella prassi progettuale in una parte urbana? Dall’altra parte, “con lo sguardo” si manifesta l’aspirazione, quasi inconsulta, all’“appartenenza” di qualcosa che forse ritiene di per sé inafferrabile: non è questa una delle caratteristiche formative e indissolubili del­ l’amore? E non è da qui che scaturiscono altre manifestazioni nel­ l’appartenenza complementari: l’esaltazione, l’attesa, la speranza, la delusione e forse l’abbandono che si proiettano in questo caso nel rapporto che si vuol determinare con la città? Per queste ragion ho trovato un disperato bisogno di “amore” in questa affermazione, l’espressione di un sentimento nobile che si ha troppo spesso difficoltà di manifestare ma che non è isolabile dalla figura di De Carlo: un sentimento che, peraltro, permea gran parte della cultura architettonica e urbana della seconda metà del Novecento e non solo di questa. […] Negli editoriali di «Spazio e Società» città, ambienti, luoghi sono animati e animano quel sentimento di “amore”, cui ho fatto riferimento e lo fanno momento della storia del nostro Paese. Le riflessioni di Isabella Daidone riguardano una comprensione sequenziale, ma non lineare, dell’uomo De Carlo. Esse svelano, attraverso il testo scritto degli editoriali, il suo portato di progettista con il convincimento che l’architettura racconti se stessa. Semplificando, la relazione fra gli editoriali di De Carlo, la narrazione del suo fare architettura e l’essere il direttore della sua rivista è facilmente descrivibile. Questi sono sempre luoghi, fisici e narrati, che sono misurabili nel rapporto fra l’uomo e le cose. Questi scritti invitano alla sosta (non solo alla let-

tura) verso un processo razionale da percorrere a tappe, in un proficuo percorso d’identificazione in fieri con l’opera costruita di De Carlo. Emerge da questi editoriali l’impronta antiretorica, pragmatica, non ideologica, ma ricca di concetto e metodo – scrive nella postfazione Marcello Panzarella – con cui De Carlo – unico rappresentante italiano del Team X – si rapporta costantemente al portato sociologico e culturale della contemporaneità, con un’attenzione particolare alla dimensione pedagogica, e alla variegatura, al rinnovamento e alla ripresa di precedenti mai soltanto formali, in funzione delle necessità materiali emergenti, e di modi di mettere assieme le questioni esplorando altri paradigmi, oltre la linea e la griglia che sottendono tutto, e oltre ogni principio di centralità unica o egemone, tanto nella società quanto nell’architettura. Focalizzare questi aspetti, anche con l’integrazione di altri ambiti disciplinari, è utile per indicare nuove opportunità di ricerca. Isabella Daidone ha infatti posto in risalto con questo studio sugli editoriali di «Spazio e Società» una base originale forse per tentare di reinventare, in un tempo non solo sincronico, diversi orizzonti. Questo lavoro di ricerca rende tangibile i luoghi della città dentro una dinamica dell’abitare, fra società e spazio costruito. S. G. P.B. Preciado, Pornotopia. Playboy: Architettura e sessualità, Fandango Libri, Roma 2020. Immergersi nella lettura del saggio di Paul B. Preciado, in particola-


re durante il periodo di confinamento scaturito dalla pandemia di Covid-19, appare profetico sotto molti punti di vista. Primo fra tutti, la perdita di confine tra la sfera pubblica e quella privata a favore di una interiorizzazione sempre più accentuata del mondo domestico, destinato a diventare nell’immaginario del celebre Hugh Hefner – il fondatore e deus ex machina della nota rivista americana «Playboy» – luogo dove si uniscono lavoro e piacere, sistema iperconnesso e progetto comunicativo voyeuristico. Il saggio ha le sue radici nell’approfondita tesi di dottorato dell’autore, Gender, Sexuality, and the Biopolitics of Architecture: From the Secret Museum to Playboy (2013, Princeton University) che, a partire dallo studio dei meccanismi di controllo condotti da Michel Foucault e dalla questione identitaria indagata da Jaques Derrida, esplora il modo in cui la politica e le identità sessuali si sono forgiate attraverso l’architettura. Preciado analizza una serie di casi di studio – tra cui gli spazi di Playboy Enterprises (azienda americana di media e lifestyle fondata da Hugh Hefner) – che delineano una genealogia dei regimi moderni di spazializzazione del genere e della sessualità. È esplicita l’influenza di alcuni testi fondanti di Beatrix Colomina, come Sexuality and Space (Princeton Architectural Press, 1992) e Privacy and Publicity. Architecture as Mass Media (The MIT Press, 1996), in cui l’autrice affrontava la questione del rapporto produttivo tra architettura, cultura popolare, tecnologie e mass media. La stessa parola pornotopia, di cui l’autore offre una definizione solo verso la fine del libro, non è altro che un’evoluzione dell’“eterotopia foucaultiana”, propria del tardo-

capitalismo delle società di sovraconsumo della Guerra fredda. Tra il 1975 e il 1976 Foucault nei testi Surveiller et punir: Naissance de la prison (1975) e Histoire de la sexualité (4 voll., 1976-1984, e postumo 2018) si serve della nozione di biopolitica per definire il rapporto che il potere decreta con il corpo sociale nella modernità. La pornotopia si caratterizza, invece, per la capacità di stabilire relazioni tra spazio, piacere e tecnologia in quello che Preciado definisce come «sistema capitalistico farmacopornografico». La rivoluzione Playboy si colloca al­ l’interno della stagione postfordista, postindustriale, postdomestica in una forma nuova di capitalismo, farmacopornografico per l’appunto, apparso nella metà degli anni Quaranta e che trova una piena affermazione nel mondo occidentale dopo la crisi economica del 1973. L’autore conduce nell’immaginario di Play­boy attraverso un’operazione di disvelamento che procede seguendo dieci capitoli, dalla nascita del manifesto dell’«uomo da interno», che trova nella «cella postdomestica» il suo rifugio urbano, fino alla Playboy Mansion o bordello multimediale e alla sua sovraesposizione mediatica che si diffonde nella rete. Il volume si apre con la descrizione dell’immagine di Hugh Hef­ ner intento a mostrare il modello del primo Playboy Club, in una posa simile a quella che Mies van der Rohe o Le Corbusier assumevano accanto ai loro edifici. L’immagine rappresenta l’emblema della costruzione del progetto, non solo come un banale piano di stampa a contenuto erotico ma con profondi legami al modo architettonico e comunicativo. Nel novembre del 1953, in piena Guerra fredda, appare il primo numero della rivista «Playboy», sen­

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za data né numero sulla copertina, poiché nessuno credeva che tale periodico avrebbe trovato un seguito. Contro ogni aspettativa furono vendute 54.000 copie, dando avvio a una rivoluzione concettuale che trasformò i paradigmi e gli stereotipi domestici e sessuali del «maschio eterosessuale». La rivista definisce i caratteri del nuovo «uomo da interno», sostenendo una diversa identità maschile basata sulla riappropriazione della dimensione domestica, che fino ad allora era stata il regno indiscusso e intoccabile della donna. Al regime spaziale della scala suburbana, che si impone negli Stati Uniti durante la Guerra fredda, si contrappone il «rifugio in città» per l’uomo eterosessuale, scapolo o divorziato, il cui emblema è l’attico urbano, di cui cura dettagli e arredo. A partire dal 1953 ogni numero di «Playboy» affronterà un tema specifico di questi nuovi interni: l’affascinante casa vacanze per i fine settimana, lo yatch, lo studio, il letto, l’ufficio o l’auto si convertono in momenti di un programma di riconquista. Nella ridefinizione dell’uomo playboy anche la donna subisce un cambiamento: madri, mogli e casalinghe vengono escluse da questo nuovo campo post-domestico aprendo la strada alla playmate o «ragazza della porta accanto», giovane e non desiderosa di sposarsi e costruire una famiglia. Quando nel 1955 vengono pubblicate alcune foto di Janet Pilgrim, efficiente segretaria del settore abbonamenti di «Playboy» (nonché amante di Hefner, che accetta di posare nuda perché sa che aumenterà gli abbonamenti al periodico) si palesa la chiara fusione tra lavoro e sesso, pubblico e privato. Non solo, la rivista di Hefner trasforma la vita privata – spazio domestico, corpo, comu-

nicazione – in un processo produttivo e lavorativo: la trasformazione della segretaria e amante in «ragazza del mese», e il rendere pubblica la sua vita privata, è in realtà un processo di capitalizzazione e privatizzazione della vita caratteristico dei processi produttivi nel postfordismo. Lo spazio interno diventa l’emblema del luogo dove si attua la pornotopia: la produzione di una domesticità orchestrata e coreografata con dispositivi tecnici di controllo e di riproduzione audiovisiva. Hefner propone una domesticità rappresentata attraverso i mezzi di comunicazione come la scrittura, la televisione, il video. In questa azione si colloca la «de-domesticazione dell’interno borghese» a favore di uno postdomestico, caratterizzato dalla perdita della privacy e dove gli abitanti sono attori e spettatori della loro scena. L’appartamento dello scapolo urbano è costellato da arredi eterotopici come le sedie Tulip di Eero Saarinen, il bar girevole, gli schermi scorrevoli, le tende trasparenti: dispositivi che funzionano come meccanismi di conversione in grado di ridefinire continuamente l’appartamento in uno spazio di conquista. Nel numero di settembre 1956 il divano D70 di Osvaldo Borsani viene esaltato per la sua mobilità e trasversalità: basta spingere un bottone a uno dei due lati perché lo schienale si trasformi in seduta, e viceversa, di modo che ci troviamo orientati dal­l’altra parte. La classica cucina dell’alloggio suburbano diventa in città «la cucina senza cucina», un dispositivo tecnologico e compatto dotato di tutti gli utensili e oggetti per la pulizia che eliminano definitivamente lo spettro della donna di casa. L’arredo è separato dal resto dell’ambiente unica-


mente da pannelli Shoji di stile giapponese, che trasformano l’atto del cucinare in un vero e proprio showcooking, in cui la donna diventa spettatrice del «teatro della mascolinità» e non più protagonista della casa. Due spazi dell’appartamento dello scapolo urbano sono negati alla playmate: lo studio e il bagno, che comprende wc, bidet, portariviste, portacenere e telefono. Nel dicembre del 1959 Hefner acquista un palazzo signorile a Chicago che trasforma per se stesso in quella che definirà la Playboy Mansion, un insieme architettonico multimediale, una nuova macchina per la produzione di informazione, piacere e soggettività. Tra gli spazi centrali, il salone, posto al secondo piano, è completamente introverso, senza finestre e dotato di dispositivi di proiezione multimediali e di ripresa. Il terzo piano ospita invece la camera da letto caratterizzata dal famoso letto girevole, luogo di lavoro, piacere, ozio e controllo. Proprio grazie a questo dispositivo si colloca la concezione del «lavoratore orizzontale», emblema della nuova etica antiweberiana del capitalismo, nella quale il lavoro e il sesso rappresentano le uniche variabili per il successo economico. Il letto girevole è un centro operativo che funge da tavolo da lavoro, studio televisivo, divano per vedere la televisione, scenario teatrale e fotografico, luogo di incontri sessuali, spazio per orge, superficie per dormire e persino luogo di riunione familiare. Questo arredo diventa la principale pornotopia del sistema articolato che si estende intorno alla Playboy Mansion, nuovo centro di produzione economica e sessuale. Preciado considera il composito sistema comunicativo e architettonico generato dalla rivista come l’ulti-

ma rielaborazione delle utopie sessuali rivoluzionarie configurate, fra gli altri da De Sade e Claude Nicolas Ledoux, inserite all’interno del tardo capitalismo americano. La differenza tra le proposte delle case di piacere francesi del XVIII secolo e l’universo Playboy risiede nelle diverse tecniche di produzione e controllo dell’identità sessuale e nei sistemi economici e produttivi di potere e piacere. La Playboy Mansion è in grado di riunire nello stesso edificio spazi incompatibili: l’appartamento da scapolo, l’ufficio centrale, lo studio televisivo, il set cinematografico, il centro di sorveglianza audiovisiva, la residenza da signorine e il bordello, e in questo risiede l’essenza della pornotopia. Il letto girevole diventa la protesi del corpo del nuovo soggetto iperconnesso, in grado di amplificare le esperienze e collegarsi al mondo esterno restando incapsulato nella dimensione dell’internità. La capacità visionaria di Hefner investe poi altri scenari architettonici – l’aereo DC 9 chiamato Big Bunny e la Mansion Playboy West, una vera e propria versione americanizzata delle folies della fine del XVIII secolo – fino alla sua smaterializzazione virtuale. Il testo di Preciado offre una lettura illuminante del sistema Playboy, non solo per la definizione di una diversa identità maschile, ma perché ha aperto la strada a tutte quelle forme di nuovo capitalismo legate all’individuo e allo spazio interno come oggetto di consumo. Nella costruzione di questa parabola, che Preciado conduce con acutezza e precisione, la visione di Hefner in pigiama sul suo letto girevole, collegato a una videocamera, a una linea telefonica diretta, alla radio e a un impianto stereo, non può

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che diventare una visione profetica di un prossimo futuro sempre più postdomestico, decollettivizzato e telecontrollato. In Italia, colui che ha colto maggiormente il portato profetico di Hefner in chiave progettuale è Ettore Sottsass, che nel­ l’allestimento Arredo per una stanza (mostra Oltre il letto: i luoghi e le macchine del sonno, Triennale Milano, 1986) concepisce intorno a un letto matrimoniale un mondo onirico e iperconnesso a quanto accade fuori, i cui allora indispensabili legami (i cavi elettrici) attraversavano indiscriminatamente la stanza disegnandone l’intricato pavimento. Unica nota negativa all’edizione italiana edita da Fandango è l’assenza delle immagini citate nel testo, diversamente dall’edizione inglese pubblicata da Zone Books (2014), arricchita da un cospicuo apparato iconografico e da un approfondimento contenutistico maggiore. M. B. C. Gandolfi­, Matter of space. Città e architettura in Paulo Mendes da Rocha, Accademia University Press, Torino 2018.

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Nonostante l’importanza e l’indubbia qualità dell’opera dell’architetto brasiliano, la sua ricezione in Italia risulta ancora inferiore rispetto, ad esempio, a quella di molti suoi colleghi vincitori del Pritzker Prize, forse anche per la sua distanza dalle mode e dalle dinamiche del cosiddetto star system, a favore di una dimensione più locale, poiché è nel suo contesto di appartenenza che Paulo Mendes da Rocha ha realizzato la stragrande maggioranza delle sue opere. Volgendo lo sguardo alle trattazioni di carattere generale sul­

l’architettura contemporanea – quel­ le più diffuse, soprattutto tra i giovani – si riscontra una sorta di diminutio, che in realtà investe tutta la scuola paulista, assumendo in molti casi la forma di una vera e propria lacuna. E ciò si verifica sia nella manualistica italiana, da Benevolo a Biraghi, sia in quella straniera, come nelle «storie» di Curtis o di Cohen, in cui Mendes da Rocha, quando non compare affatto, viene appena citato. In definitiva, nell’ambito di questa tipologia di pubblicazioni è quasi impossibile trovare un paragrafo specificamente dedicato all’opera dell’architetto brasiliano. Eppure gli apprezzamenti della critica sono giunti da più parti, come dimostrano i numerosi riconoscimenti ottenuti nell’arco della sua carriera, tra cui il Professional Ca­ reer Award alla I Biennale di architettura ibero-americana (1998), il Mies van der Rohe Award for Latin American Architecture (vinto due volte, nel 1999 e nel 2000), il già accennato Pritzker Prize (ricevuto nel 2006, che lo rende così il secondo brasiliano, dopo Oscar Niemeyer – che lo ottenne nel 1988 – insignito di questo riconoscimento) e la Royal Gold Medal del RIBA (2017). In questo panorama poco generoso – specie fino al conferimento del Pritzker –, il volume monografico di Daniele Pisani pubblicato nella celebre collana «Architetti moderni» della Electa (Paulo Mendes da Rocha. Tutte le opere, Milano 2013) rappresenta di certo un contributo fondamentale nell’ambito degli studi storiografici italiani su Mendes da Rocha, che prima di allora si erano concretizzati in qualche articolo, apparso perlopiù su «Casabella». Se dunque da questo punto di vista, nonostante le carenze rilevate, l’opera dell’architetto brasiliano ha rag-


giunto un momento di affermazione, l’apporto di Carlo Gandolfi produce un avanzamento in un altro genere di studi: quelli propri di un architetto accademicamente dedito alla composizione architettonica. Ed è appunto in tale direzione che si sostanzia il suo merito. L’interesse di Gandolfi per la figura di Paulo Mendes da Rocha si sviluppa nel­ l’ambito del suo percorso dottorale, di cui questo libro è frutto. Ma prima di questa pubblicazione, già due contributi – editi dalla Clean – specificamente dedicati alla sua opera, hanno cominciato a tratteggiare la prospettiva d’indagine di Gandolfi e la sua predilezione per alcune opere: Quarantacinque domande a Paulo Mendes Da Rocha (Napoli 2016) e Il Padiglione del Brasile a Osaka. Tra terra e cielo, lo spazio (2017, in coll. con M. Russo). È opportuno precisare che il volume in possiede tutti i connotati di una ricerca dottorale – come si evince dalla sua mole: il prodotto editoriale ripercorre gli esiti di una ricerca sperimentale senza condensarli, come spesso accade, in un formato tascabile che rende poca giustizia della ricchezza del lavoro svolto: in questo caso, il merito è della Accademia University Press che ha istituito la collana «AAC Arti Architettura Città - studi, temi, ricerche» appunto con questo scopo. Per addentrarci nella specificità del volume, è possibile partire proprio da una parte delle motivazioni pronunciate in occasione del conferimento del premio Pritzker: Paulo Mendes da Rocha of Sao Paulo, Brazil, inspired by the principles and language of modernism, as well as through his bold use of simple materials, has over the past six decades produced buildings with a deep understanding of the poetics of space. He modifies the

landscape and space with his architecture, striving to meet both social and aesthetic human needs. Si tratta del concetto di spazio come essenza dell’architettura – come emerge dal titolo del testo, Matter of space, appunto –, della sua centralità alle diverse scale del progetto, una tesi che riconduce direttamente alla tardo-ottocentesca teoria della Raumgestaltung di August Schmarsow e che viene qui indagata in relazione a un preciso caso-studio con delle finalità che, perseguite con gli strumenti dell’analisi architettonica, l’autore pone come necessarie alla pratica progettuale: L’importanza del rapporto che lega l’edificio allo spazio aperto, ossia il rapporto tra spazio architettonico e spazio urbano, è il punto di partenza di questo lavoro di ricerca che può essere considerato l’esito di un tempo lungo di ricerca e di materiali più volte aggiornati e pronti per essere oggetto di discussione all’interno di un esercizio o tragitto continuo tra teoria e prassi. È infatti l’esperienza pratica condotta a contatto con Mendes da Rocha nel suo studio di São Paulo a nutrire questa ricerca di quegli elementi che si possono cogliere soltanto attraverso un’osservazione diretta del modus operandi. Coerentemente con questo excursus, lo scopo del libro non è di delineare un’esposizione sistematica del pensiero e dell’opera del maestro, quanto di selezionare dal bagaglio di questa esperienza teorica e pratica alcuni nodi concettuali da mettere a disposizione della teoria architettonica e, soprattutto, funzionali al progetto. Per fare ciò, le opere dell’architetto brasiliano vengono assunte quale oggetto privilegiato dell’indagine e la struttura del testo conferma tale aspetto poiché la successione

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delle sue parti definisce un passaggio di scala che va dall’analisi del tema della città contemporanea a quella dell’architettura brasiliana fino ad arrivare ai casi-studio particolari; l’intera analisi trova una sorta di sistematizzazione nella quarta e ultima parte, in cui Gandolfi prende in esame singolarmente una serie di tematiche di natura teorica, finalizzate alla costruzione di un corpus delle sue principali acquisizioni che pone opportunamente non come una sintesi definitiva, ma come punto di partenza per ulteriori sviluppi. L’impostazione generale risulta pertanto chiara e rigorosa, nonostante l’eterogeneità e la quantità dei riferimenti extra-disciplinari – musica, filosofia, letteratura, cinematografia, ecc. che puntellano in particolare la prima e la seconda parte del testo, sia in termini descrittivi che iconografici – aggiungano un grado di complessità che non sempre incrementa la qualità del discorso architettonico. Una maggiore specificità disciplinare si concretizza nella parte rivolta allo studio dei progetti di Mendes da Rocha, segnatamente il padiglione del Brasile all’Expo Internazionale di Osaka ’70 del 1969 e quello per la «piscina sospesa per un luogo qualunque» del 2000, in cui ad una lettura teorica segue la sezione documentaria dei disegni originali sulla quale poter sviluppare l’analisi compositiva del progetto, ovvero uno studio interpretativo condotto attraverso ridisegni, modelli e tomografie realizzate per evidenziare i rapporti tra pieni e vuoti. Qui prende forma uno degli aspetti salienti del testo, cioè quello di dimostrare l’intreccio indissolubile nelle opere dell’architetto brasiliano tra i presupposti teorici e gli esiti strutturali e formali attraverso una lettura tesa alla chiarifica-

zione di quelle concezioni ideologiche che sottendono la conformazione spaziale, ben espresse in questo passo relativo alla seconda delle due opere analizzate, probabilmente la più esplicativa: Questo progetto è in grado di sottolineare la capacità di Mendes di concepire il senso primo dello spazio collettivo; ancora una volta insiste sul senso del limite e sulla non esistenza del limite. Si tratta di uno degli aspetti più politici del suo pensiero sulla contemporaneità. Limite e paura del non limitato – del non recintato, del non chiuso, di ciò che divide gli ambiti dei singoli – sono una delle cifre della metropoli contemporanea. Tali affondi condotti nella terza parte dedicata alle opere giungono dopo aver fornito al lettore alcune chiavi di lettura indispensabili per attraversare appunto questa fase, come quella che mette in risalto la sezione quale chiave di accesso privilegiata per la comprensione del pensiero e dell’opera di Mendes da Rocha, il luogo del controllo spaziale e in cui si misura la coerenza del processo di reificazione dell’idea alla base del progetto. In altre parole, ciò che Gandolfi insegue costantemente è la ricerca di quella tensione ideale che anima i progetti del­ l’architetto brasiliano, una tensione che travalica lo stesso programma funzionale dell’edificio per consegnarlo alla città in tutti i suoi connotati etici e culturali. Nell’ultima parte del libro, quella dedicata al corpus teorico a cui abbiamo già accennato, l’insieme delle tematiche trattate restituisce una sorta di quadro conclusivo delle analisi precedenti che risulta più efficace dell’ultimo paragrafo intitolato «Conclusioni. La gioia del progetto urbano», in cui lo slogan citato e la successione di trame metafori-


che e di immagini poetiche risultano meno incisivi di quanto emerge dagli affondi teorici precedenti. È qui infatti che i nodi vengono sciolti e analizzati in profondità come quello, forse più emblematico, della relazione tra senso e segno che prende forma e significato nel «giunto strutturale» che, come spiega l’autore, può essere di due tipi, tettonico e concettuale/spaziale, dove il secondo isola e definisce – per mezzo di raccordi fisici o discontinuità – porzioni di suolo all’interno dell’edificio o della città; disegna e struttura soglie e descrive limiti. Esso può essere privo di finitezza e spesso viene a costituire un vero e proprio trait d’union tra edificio e città o tra edificio e spazio aperto in senso lato. In conclusione, quello di Carlo Gandolfi è un lavoro di qualità che merita una lettura attenta, poiché restituisce in maniera rigorosa la giusta attenzione e uno spazio critico adeguato a uno degli architetti più talentuosi della scena internazionale, per troppo tempo trascurato dalla storiografia architettonica. A. T. A. Maggi (a cura di), The American Journey. Bruno Morassutti e Frank Lloyd Wright. LetteraVentidue, Siracusa 2020. I rapporti tra Italia e Stati Uniti hanno caratterizzato il panorama architettonico del secondo Novecento, incentivando numerose realizzazioni e riflessioni teoriche. Tuttavia, è difficile comprenderne la portata senza tenere presente la capillarità di questi scambi culturali. Nel 1945, con la pubblicazione del libro Verso un’architettura orga-

nica, Bruno Zevi indirizza le ansie e le aspirazioni di una nuova generazione di architetti, propagandando il messaggio dell’architettura organica di Frank Lloyd Wright. Ispirati dal maestro americano, molti giovani ne condividono lo spirito di rottura e avanzamento, l’originalità delle soluzioni progettuali e l’uso dei materiali naturali, a testimonianza di una nuova e più stretta relazione con il mondo della natura. L’equazione di matrice wrightiana architettura organica = architettura della democrazia affascina e trascina. Inoltre, all’alba della ricostruzione e del boom economico era divenuto necessario tagliare i ponti con la tradizione e con le tesi, ormai vecchie, del­ l’International Style. La parola d’or­ dine è guardare oltre, per immaginare un’architettura a servizio dell’uomo e una nuova società democratica, lontana dalla retorica del regime. Zevi enfatizza il ruolo e le responsabilità dell’architetto contemporaneo, catturando adepti e suggestionando studenti. Nelle più importanti città italiane numerosi progettisti guardano con fiducia, curiosità e interesse all’architettura organica. Particolarmente suggestivo è il caso veneziano dove un gruppo di talentuosi architetti analizza e mette alla prova le idee di Wright con spirito critico e coraggio professionale. Tra i nomi impegnati su questa linea di ricerca spiccano quelli di Carlo Scarpa, Edoardo Gellner, Marcello D’Olivo, Angelo Masieri, Valeriano Pastor e Bruno Morassutti, tutti legati o formatisi nello IUAV di Giuseppe Samonà. La recente pubblicazione The American Journey. Bruno Morassutti e Frank Lloyd Wright, a cura di Angelo Maggi, pone l’accento su questo particolare quadro storico, focalizzandosi sul viaggio formati-

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vo compiuto da Morassutti negli Stati Uniti e sulla sua esperienza a Taliesin, nella fucina di Wright. La pubblicazione prende le mosse dalle mostre American Journey 19491950. Bruno Morassutti (a cura di G. Barazzetta e A. Maggi) e La linea organica a Nord-Est (a cura di R. Albiero e S. Maffioletti) organizzate nel 2018 presso l’Università Iuav di Venezia, e in parte anche da Tra paesaggi e storia: Wright e l’architettura organica allo Iuav, evento coordinato da Renzo Dubbini, in cui sono stati posti in rassegna numerosi progetti di matrice organica conservati presso l’Archivio Progetti dello stesso ateneo. A differenza di molti, Morassutti è stato tra i primi italiani a completare il proprio ciclo formativo svolgendo il suo apprendistato a Taliesin, la scuola-laboratorio allestita da Wright, e mettendo a punto un accurato reportage fotografico delle sue realizzazioni. Non a caso, gran parte del libro è dedicato a un atlante delle opere fotografate da Morassutti, organizzate attraverso schede che forniscono una breve descrizione delle realizzazioni e delle immagini. Il merito della pubblicazione non è dunque solo quello di aver evidenziato il ruolo di Morassutti alla luce dell’urgenza di un confronto con Wright per gli architetti italiani dell’immediato secondo dopoguerra, ma soprattutto quello di aver raccontato in dettaglio una pagina di storia dell’architettura poco nota al grande pubblico dei progettisti e di aver messo a disposizione degli studiosi un materiale fotografico in gran parte inedito ed estremamente importante. I saggi dei vari autori ripercorrono con dovizia di particolari l’esperienza americana e si soffermano su alcuni momenti biografici e profes-

sionali. In particolare si distingue il testo di Alessandro Colombo e Francesco Scullica per l’analisi di alcuni progetti. Apprendiamo che Morassutti parte per gli Stati Uniti nel 1949, tre anni dopo la laurea conseguita allo IUAV e si ferma a Taliesin East, nel Wisconsin, da maggio a settembre. Da ottobre dello stesso anno fino a marzo di quello successivo si trasferisce a Taliesin West, in Arizona, assieme al resto della comunità wrightiana. Durante la permanenza negli States, attratto dall’idea di compiere un grand tour dell’architettura di Wright e delle principali realizzazioni contemporanee, compra e adatta a camper un pick up Chevrolet che diviene compagno di avventure fino al rientro, avvenuto nell’autunno del 1950. Alla partenza per l’Italia, Morassutti porta con sé circa quattrocento preziose diapositive a colori. Nel suo saggio Maggi spiega come la fotografia a colori sia ancora agli esordi negli anni ’40 e lo contestualizza in quel preciso periodo storico: La rappresentazione fedele del colore in architettura era infatti a lungo voluta dagli architetti nella pratica professionale. Molti architetti viaggiavano con due macchine fotografiche: una per le riprese in bianco e nero, e un’altra per registrare superfici architettoniche colorate e interni. Il caso di Bruno Morassutti è unico perché l’architetto concentra la sua attenzione solo sulla valenza cromatica dell’architettura e del paesaggio nel suo American Journey. Inoltre, Maggi sottolinea con acume critico quanto il colore sia importante nella comprensione del pensiero di Wright, intrecciando significati di fotografia e architettura: Per Wright il colore aveva un ruolo fondamentale nella trasmis-


sione del suo pensiero sull’architettura organica. Egli attingeva da due fonti per determinare la sua tavolozza in ogni progetto: la natura del sito e la natura dei materiali da costruzione. Le immagini di Morassutti fanno subito presa in Italia e consentono a numerosi colleghi di afferrare meglio il significato del verbo wrightiano. Barazzetta evidenzia l’importanza di queste fotografie non solo per il loro valore di testimonianza unica, ma perché in queste immagini Taliesin West si presenta come un luogo in cambiamento. Morassutti ne utilizza diverse in due pubblicazioni su Domus e le mette a disposizione di Ernesto Nathan Rogers per il numero di Casabella dedicato alla scomparsa di Wright. Le diapositive gli valgono anche gli inviti per diverse conferenze, fino a quando Scarpa le trattiene in un prestito definitivo, divenendone un estimatore privilegiato e utilizzandole per le sue lezioni. Ritorneranno tra le mani di Morassutti solo dopo la morte di Scarpa e grazie al libro curato da Maggi ne conosciamo oggi la storia. Come precisato nelle note iniziali del libro, le diapositive a colori da cui è stata tratta la selezione non provengono dal fondo archivistico Bruno Morassutti, depositato presso l’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia, ma sono conservate dagli stessi eredi Morassutti che hanno trattenuto il reportage per motivi affettivi. Le immagini, attentamente selezionate, sono state per la prima volta esposte nella sopra citata mostra e oggi organizzate in questo volume dopo un attento restauro filologico-cromatico da parte del fotografo veneziano Francesco Barasciutti. La serie fotografica proietta il lettore in una sorta di archivio, mostrato a volte attraverso diapositi-

ve caratterizzate da intelaiature in cartoncino, altre volte preferendo immagini grandi e non sempre perfette, ma ancora cariche di fascino. Il tono del volume rimane in bilico tra quello di una storia visuale di stampo anglosassone e quello di un diario personale che ripercorre immagini di amori di tempi lontani. Tra le immagini pubblicate saltano all’occhio quelle che ritraggono la vita e le usanze della comunità di Taliesin, un modo forse per trasmettere e ripercorrere la pedagogia wrightiana incardinata sul motto ‘learning by doing’, e quelle dei dettagli delle opere di Wright, quasi sempre presentati in una cornice compositiva articolata e astratta. Si tratta di fotografie che fissano le tappe di un pellegrinaggio e che ricostruiscono un percorso culturale comune a diverse generazioni di architetti. Tuttavia, il fascino di questo libro non sta nel culto delle immagini, nella scoperta storiografica o nella valorizzazione archivistica, ma risiede nell’invito al viaggio. L’auspicio è che l’accurata ricostruzione degli eventi rievocati dalle fotografie possano ispirare nuove avventure, intraprese con lo stesso ardore e passione che animava Morassutti, alla ricerca di architetture e maestri lontani. L. G. LAN - B. Jallon, U. Napolitano (a cura di), Napoli. Super modern, con scritti di A. Maglio, U. Napolitano, M. Orazi, G. Freda, fotografie di C. Weiner, Quodlibet, Macerata 2020. Il 9 marzo 1958 si teneva a Napoli un convegno promosso da Roberto Pane, i cui esiti furono raccolti nel piccolo fascicolo – (44 pagine

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bianco e nero) copertina in brossura con banda gialla e foto della città dal Corso Vittorio Emanuele, formato quasi quadrato (22 × 23,6 cm) – Documento su Napoli. Edilizia e urbanistica edito da “L’arte tipografica” per le olivettiane Edizioni di Comunità. I contributi firmati da Pane, Beguinot, Di Stefano, De Fusco e De Luca, con accentuazioni diverse, erano tutti mossi dall’istanza civile di opporsi al ‘sacco di Napoli’ perpetrato in quegli anni dalle amministrazioni laurine, poi rappresentato nel 1963 in Mani sulla città di Francesco Rosi. Tra i principali bersagli di quel J’accuse, il grattacielo della “Cattolica”, due edifici di Ottieri, il “Piano di risanamento” del rione Carità oltre alle varie speculazioni dal Vomero all’area flegrea. Dopo sessantadue anni da quei contributi, che restituivano la precarietà della produzione edilizia del primo dopoguerra, con ben altre dimensioni (24,6  ×  30,6 cm per 231 pagine a colori), qualità di stampa, copertina rigida telata e corredo iconografico a colori, va alle stampe il prezioso volume prodotto dall’accorsato studio parigino LAN (Benoit Jallon e Umberto Napolitano) con numerosi contributi testuali di studiosi napoletani – Andrea Maglio, autore anche delle schede, e Gianluigi Freda – e non – Manuel Orazi, Umberto Napolitano – oltre alle belle immagini di Cyrille Weiner e ai raffinati ridisegni a corredo dell’“Atlante degli edifici”, realizzati da giovani architetti napoletani. Una squadra assortita ed eterogenea: un noto progettista operante, un fotografo dotatissimo, due stimati accademici – uno storico e un compositivo – e un critico e pubblicista tagliente. Anche Napoli. Super modern usa il colore giallo sulla copertina, nelle sottocoperte e nel segnalibro.

Quali affinità e divergenze tra questi due volumi che singolarmente osservano quasi la stessa produzione architettonica? Poche affinità, quasi limitabili al colore e alle opere illustrate, moltissime divergenze. Edifici e autori stigmatizzati (anche se mai nominati) nel Documento divengono oggetto di elogio in Napoli. Super modern. Nel primo quella produzione è emblema del saccheggio di Napoli e della perdita dei valori morfologici dei tessuti storici, nel secondo diventa paradigma di una “modernità inattuale”, per riprendere una espressione usata da Capobianco a proposito di Canino (vero eroe evocato più volte), echeggiante il Nietzsche della 2a inattuale. Napoli è una città capace, secondo LAN, di essere ‘insolitamente’ moderna riuscendo a definire architetture di ricercato adattamento col contesto. Un moderno che, come il mare, non avrebbe bagnato, se non epidermicamente, Napoli per Renato De Fusco quando, nel suo intervento a quel convegno, significativamente intitolato Napoli e il movimento moderno dell’architettura in Italia rileva che A Napoli il dopoguerra vedeva la realizzazione di alcune opere nel campo dell’edilizia popolare di indubbio interesse. Esse si riferivano ad una impostazione razionalistica del periodo 1920-1930 ed il loro rigore era almeno valido come impegno morale di rinascita. Ma ben presto la linearità di queste prime opere è divenuta un comodo e schematico cliché non privo, tra l’altro di seduzione formalistica […]. Ad un disordine più grave e generale si univa l’ingenuo disordine prodotto dalla miopia di non pochi architetti. La Napoli a suo modo anticlassica per De Fusco fu investita dal linguaggio unificato dello stile


moderno ma, in mancanza dei valori etici e sociali dei maestri, la pur necessaria adesione a quegli etimi si era rivelata solo un’insoddisfatta aspirazione. Per Napolitano e i suoi amici, invece, Napoli sarebbe “super-moderna” (leggi post-moderna?) proprio perché ha declinato con originalità i principi del moderno in senso meticcio secondo una vera e propria “resistenza urbana” che caratterizza certi edifici moderni napoletani e che personalità come Canino, Bazzani, Bosio e Berardi, Piccinato, Vaccaro e Franzi, Filo Speziale-Chiurazzi-Di Simone, Frediani, Zanetti-Racheli-Milillo, Salvatori, D’Albora, De Martino e Giametta e perfino Cosenza, con Coen e Della Sala o da solo, avrebbero incarnato nelle diciotto opere emblematiche o paradigmatiche (?) raccolte nel volume, opportunamente confrontate sinotticamente nell’atlante curato da Andrea Maglio, posto a mo’ di appendice su pagine grigie. Architetture di una rara eterogeneità linguistica e di dichiarate attitudini a relazionarsi con l’urbano, tuttavia prese nella loro singolarità oggettuale piuttosto che restituite (ad esempio con una pianta tipologica) nei rispettivi contesti. Alcune delle opere trattate si caratterizzano per la valenza monumentale, talvolta la tronfia retorica di regime, o per essere isolate come dei solitaires (il Mercato ittico, la Stazione marittima, il Teatro Mediterraneo), altre, invece, per essere ricavate nelle maglie del primo impianto del Rione Carità (non trattato in sé), come il raffinato Palazzo delle Poste, i preziosi uffici finanziari o il retorico Palazzo dell’INA (singolarmente astratto ed astratto dalla piazza, di pura fattura caniniana, osannata nel testo di Napolitano come episodio urbano unitario nonostante la eclettica differenza dei

tre fronti), o nel raddoppio laurino come il para-pontiano grattacielo della “Cattolica” o come il blocco trapezio al Ponte di Tappia con fregio d’angolo graffitico attestante per Pane una inutile presenza. Nel volume si ritrovano altre opere altrettanto eterogenee ma raggruppabili: da quelle minute – il modesto Padiglione dell’Albania o lo splendente Cubo d’oro (anche queste insolitamente estratte dal complesso della Mostra d’Oltremare) o la Stazione Fuorigrotta (che echeggiava le grandi aule romane nei Campi Flegrei) – agli edifici di cortina – quello ‘balconato’ alla Riviera di Chiaia o la ‘scattante’ Clinica Mediterranea – per finire con alcune singolarità urbane come la torre della società Sud Italia (preferita nel concorso al progetto di Cosenza) o il palazzo d’angolo di Piazza Municipio, con chiara ascendenza dalle Case Bonaiti di Muzio a Milano. Non mancano, infine, architetture di schietta modernità come Villa Oro e il Palazzo Della Morte: entrambe relazionate più che alle trame dell’urbano alla prepotente forma orografica attraverso una conquista selettiva dell’affaccio paesaggistico, ottenuta mediante calibrate sovrapposizioni di masse o di piani aggettanti, sostruzioni di acclività tufacee o introiezioni di natura addomesticata. Chiudono il campionario, le Case al Rione Cesare Battisti di cui vengono anche indagate le manomissioni, le offese, i parassitismi con una certa irriverente accondiscendenza per gli abusi. In definitiva in questo prezioso lavoro editoriale, che si aggiunge agli studi su Napoli di Cocchia, ai volumi di De Fusco, alle guide di Belfiore e Gravagnuolo, Stenti e Cappiello e a quella, tendenziosa ma convincente, di Paolo Giordano,

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sembrano (non sorprendentemente) invertirsi le scale dei valori difesi nel ’58 da Pane, in quel Documento. Un esempio su tutti per misurare questa distanza: il grattacielo della società “Cattolica” che per Pane, lungi dal poter essere difeso in nome di una “nuova cultura”, è solo l’espressione della passiva obbedienza alla speculazione. Anche prescindendo dalla già intollerabile offesa che esso apporta al paesaggio urbano, la sua intrusione, in un tessuto già tanto congestionato, costituisce un vero e proprio delitto verso il prossimo. Per conseguenza è legittimo concludere che la cultura entri, sì, in questa faccenda, ma soltanto come parte lesa, mentre per Umberto Napolitano, analogamente al Palazzo INA che contribuisce alla granulometria della città mediante l’assemblaggio dei volumi e le figure di transizione, definirebbe una composizione di volumi, pur con una scrittura architettonica eterogenea, [che] offre una sapiente messa in scena di uno dei simboli della città. Ma qual è in definitiva la tesi di Napoli. Super modern? In che senso questa città – per Luigi Compagnone “senza grazie” – sarebbe super modern, sopra (o contro?) quella modernità, e si situerebbe forse in quella di marca haussmaniana capace di ‘fare città’ (cui lo studio parigino ha dedicato una altrettanto preziosa, monografia, LAN, a cura di, Paris Haussmann: A Model’s Relevance, Park Books, Paris 2017)? Napoli. Super modern, lungi da essere soltanto un prezioso oggetto, con saggi ben scritti e illustrati con foto e attenti ridisegni, è verosimilmente per LAN, che lo ha promosso, un modo implicito di presentare il proprio lavoro parlando di una città, di fondare le proprie scelte su

un repertorio, su infinte e “sterminate analogie”. Una maniera per sottolineare le proprie modalità di costruzione dell’architettura: da un lato assumendo la città di Parigi come luogo di elezione e sperimentazione, dall’altro accostandovi Napoli, vuole consolidare una linea di ricerca proponendone una auto legittimazione scientifica e sottolineandone la marcata italophilia (peraltro autobiografica dell’autore). Una ricerca di ‘radici sospese’ che partita dalla ripresa, forse non profonda, delle tematiche aldorossiane qui si carica di ulteriori exempla cari ai LAN: un bagaglio di memorie, intraviste come repertorio di soluzioni cui attingere in una sorta di presa di coscienza – à-la Proust – delle proprie rêverie perdute. Un lavoro forse discutibile – per la collazione di opere eccellenti e prove mediocri, di autori di prima grandezza accanto a professionisti asserviti alla speculazione – ma certo meritevole di aver rimesso al centro, anche grazie al massiccio investimento promozionale (numerosissime le recensioni già apparse), la ‘nobilissima ma dolente’ città di Napoli, la sua forma, le sue architetture sempre in bilico tra una modernità conciliante segnalata da Andrea Maglio, l’antinomia arcaico-ultra moderno e la condizione destinale della morte proposte da Manuel Orazi ma, in sostanza, ancora in attesa di una risposta alla domanda posta da Gianluigi Freda: Perché moderna (?). Come diceva Arthur Rimbaud Bisogna essere assolutamente moderni, non super-, infra- o sub- ma semplicemente moderni sapendo che, come ci avverte Milan Kundera, Essere assolutamente moderni vuol dire essere [anche] alleati dei propri becchini. R. C.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopo-


guerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e mul­ticulturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre N. 168. Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa - Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre N. 169. Chi parla inventa e chi ascolta indovina - Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Moderno - Soglie critiche. Sulla trasformazione come perdita e recupero Tra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli



ISSN 0030-3305

settembre 2020

numero 169

Chi parla inventa e chi ascolta indovina Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Mo­derno - Soglie critiche. Sulla trasforma­ zione come perdita e recupero - Tra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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