Op. cit., 106, settembre 1999

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Op.cit. rivisla quadrimcslralc di selezione della crilica d'arte con1cmporanea Direuore: Renato Dc Fusco

'?edauori: Roberta Amirante. Alessandro Castagnaro. Alessandra dc Martini

Marina Montuori. Livio Sacchi Segreraria di redazio11e: Rosa Losito Redazio11e: 80123 Napoli. Via Vincenzo Padula. 2-Tcl. 7690783

Am111i11istrazio11e: 80122 Napoli. Via Francesco Caracciolo. 13 - Tel. 7614682

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Electa Napoli


R. DE Fusco. P. BELLI,

D. BERNAllò S1LORATA, G. D'ANGELO,

Design: de gustibus est disp11tand11111 video d'artista nello spazio del museo la Biennale delle donne e dei ,·ideo lafoto d'artefra reale e virtuale //

libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo 11wnero lw111w collaborato: Donatella Bemabò Si­

lorala, Maria Villoria Capitanucci. Domitilla Dardi.


la rivista si avvale del contrib1110 economico dei seguenti Istituti e Aziende: Alessi Camera di Commercio di Napoli Driade



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Per iniziarlo è necessario prendere in considerazione la vecchia distinzione fra le arti pure e quelle applicate, tra le quali è certamente l'architettura e il design. Non ignoro che essa è stata più volte revocata in dubbio dalle più quali fi­ cate interpretazioni estetico-filosofiche, ma se il problema della distinzione ritorna nella pratica a porsi vuol_ dire che la teoria unitaria non è riuscita a risolverlo completamente. In parte a favore di quanto ho appena espresso è la posi­ zione della Langer: sono anch'io convinta che l'arte sia sostanzialmente una, che la funzione simbolica sia la stessa in ogni genere di espressione artistica, che tutti i generi siano ugualmente grandi, e la loro logica sia tutt'una[... ] Ma per enunciare questi articoli di fede come proposizioni ragionevoli non basta asserirle enfa­ ticmnente e ripetutamente e deplorare le prove in con­ trario: occorre piuttosto esaminare le differenze e deli­ neare le distinzioni fra le arti fin dove è possibile se­ guirle. Esse sono più profonde di quanto non sia dato a tutta prima supporre. Ma c'è un livello definito in cui non è più possibile fare distinzioni: tutto ciò che può dirsi di ogni data arte, si può dire anche delle altre. /11 questo sta la foro unità. Tutte le suddivisione si arre­ stano a quel punto, che è la fondazione filosofica della teoria dell'arte [S.K. LANGER, Se11time11to e forma, Feltri­ nelli, Milano 1965, pp. 122-3 ]. Premesso che distinzione non è separatezza, proprio operando distinzioni giungiamo a cogliere la natura diversa delle arti e la loro fenomenologia sia teorica che operativa. Inoltre, qualcosa in più va detto sull'idea del design come arte applicata, nell'aggettivo concentrandosi tutta la sua problematicità e socialità. Esso non è solo arte applicata per le sue evidenti ragioni funzionali; perché solo una parte del design attiene alla sfera artistico-estetica; né in quanto pro­ duzione nella quale la tecnica gioca un ruolo rilevante, donde risulta vincente la nozione greca di tek11é che signifi­ cava insieme arte e tecnica o meglio un'arte che s'insegna con regole del mestiere; in breve, essa è applicata perché ad essa si applicano molte altre scienze e pseudo-scienze, se-



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gusto generalizzalo leoricamenle a lulla la sfera sociale. Ma ciò non dimostra a sufficienza la disputabililà o meno del concello di guslo. Meglio risponde al noslro lema la seconda causa del di­ vario fra le arti e il design. Essa dipende dalla dislinzione fra l'arlislico e l'eslelico, dove col primo lermine si indica un'esperienza che comporla un impegno di sLUdio e di co­ noscenza. un «arli licio», nell'accezione migliore del ler­ mine, sia da parle di chi opera, sia da parle di chi ne fruisce; col lermine «eslelico» s'inlende invece una qualità che dà piacere indipendentemente dalla cullura e dalla prepara­ zione; l'esletico è fenomeno nalurale e perticne ai sensi. l'arlislico, invece, pertienc alla cultura. Cosicché. l'amalore d'arte può apprezzare un'opera in senso artistico. ma non estetico. Ovviamente fra i due modi di sentire non c'è con­ traddizione: il cultore d'arte prova piacere anche nella con­ lemplazione artistica come pure il fruitore dell'oggetto di design coglie una valenza artistica anche nel piacevole og­ getto d'uso, ma perché ciò si verifichi anch'egli deve posst:­ dere una preparazione artistica. Ogni sorta di gusto può es­ sere educata, ma mentre il pubblico che frequenta i musei è intenzionato a perfezionare il suo gusto. a far coincidere ap­ punto l'artistico con l'estetico, quello interessato soprat­ tutto agli aspelli pr·atici non pensa neanche a migliorare il suo guslo, supponendo che quello che ha sia il migliore. Nel caso che invece si ponga il problema di aggiornare il suo gu­ slo, lo fa in generale ancora per pratici motivi: il possedere cose apprezzale, il rienlrare in una sfera elitaria. il prestigio sociale, ecc. Persistendo tale discrepanza, il cultore d'arte tende a superare le sue conoscenze, il fruilore del design presenta maggiori resistenze ad abbandonare i suoi pregiu­ dizi e preconcetti: deve vivere a dirello contatto con gli og­ gelli, forti rientrare nel suo habitat, esige più piacere estetico che artislico. Una terza causa della diversità fra arte e design sta in ciò che la prima gode di una lradizione auralica, di una vasla lelleratura, del fallo che masse di turisli si spostano da un paese all'altro per visitare musei e gallerie, mentre il se-



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In realtà, alcuni settori del design, segnatamente quello del mobile e dell'arredo, sono ben presenti in televisione, ma si tratta, salvo le solite eccezioni, di prodolli apparte­ nenti ad aziende più commerciali che produttrici, del tutto indifferenti al design d'autore, che smerciano mobili d'ogni stile, d'ogni tipo, tant'è che figurano prevalentemente su emittenti locali. Quello che manca nelle grandi reti televi­ sive e in internet è il design delle maggiori aziende, l'innato dai progettisti più prestigiosi, entrato ormai nella storia, in una parola il cosiddetto ltalian sryle. Alla domanda sulle motivazioni di tale assenza mi sono state date le più varie risposte: la pubblicità televisiva costa mollo: si addice a prodotti di specifiche merceologie, dalle automobili agli elettrodomestici, in sostanza ad articoli di più rapido consumo e non ad altri, come i mobili che si com­ prano una o due volte nella vita; non è escluso che le aziende di prima categoria non figurano in tv anche per non confondersi con le altre ritenute, a torto o a ragione, secon­ darie. Ho tentato di contestare una ad una tali motivazioni, ma invano, giungendo alla conclusione per cui la logica che guida le politiche aziendali è di tipo individuale, pertanto abbastanza indifferente alle sorti e all'immagine comples­ siva della cultura del design. Considero questa posizione molto rischiosa: è più facile che una produzione spregiudi­ cata, ma postasi sui canali giusti della comunicazione, at­ tinga, con l'aiuto di qualche designer, ad un livello di qua­ lità, mentre una produzione che conta solo su quest'ultimo continua a porsi fuori dagli attuali media d'informazione. Ritorniamo al tema del gusto. Di solito chi aderisce al precetto de gusti bus 11011 est dispwandum fa appello alla in­ dividualità, alla irreperibilità, all'estremo soggeuivismo delle persone che, in quanto così diverse, hanno un proprio gusto, come del resto una propria particolare visione del mondo. Già abbiamo accennato che se ciò fosse completa­ mente vero non ci sarebbe vita associata. Ma, riferendosi alla storia, chi ha espresso meglio la necessità di una coesi­ stenza tra l'individualità e la conformità è stato Kubler: non ci possono essere due cose o due eventi che occupino le



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ficato la cosa, ma lo schema preconcettuale della cosa o al più il concetto empirico della cosa; questo schema o concetto tuttavia non è un surrogato o un simulacro della cosa, rappresenta bensì il risultato gnoseologico della cosa secondo che una determinata società - quella che parla la lingua - l'ha prelevato e sintetizzato dall'e­ sperienza [C. BRANDI. Struttura e architettura, Einaudi, To­ rino 1967. p. 38]. In questo giudizio, accantonando il problema del rap­ porto fra parole e cose denotale, che non perliene al tema del gusto. c'è un'indicazione preziosa: come il significato delle parole è il risultato gnoseologico che una determinala società assegna agli oggetti - altri hanno scrillo che il signi­ ficato delle parole dipende dall"uso che di esse ra una deter­ minata società -. così il gusto è il risultato gnoseologico­ estetico della fruizione dei prodotti e/o dei comportamenti. Sintetizzando al massimo, il gusto è 1111a c:011ve11zio11e. Come tale. appartenendo cioè alla sfera culturale. nel senso antropologico del termine, esso è storicamente condizio­ nalo, relativo. mutevole, modificabile, soggcllo a numerosi altri fattori: le tendenze, le influenze, le mode, ecc. Hume notava che la convenzione deve essere intesa. non come una promessa formale, ma come «un sentimento dell'interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore» (/11q. Conc. Mo­ rals, App. 3); e aggiungeva «così due uomini muovono le vele di una barca con comune accordo per il comune inte­ resse, senza alcuna promessa o contratto; così l'oro e l'ar­ gento sono falli misure dello scambio; cosi il discorso. le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall'ac­ cordo umano» (lbid.). Si pone un ultimo quesito: il gusto come convenzione riguarda tutte le arti o solo quelle applicate? Una risposta può ricavarsi indirettamente da quanto ebbe a scrivere Pa­ nofsky: l'opera d'arte[ ...] ha per sua natura la duplice proprietà di essere, da un lato, determinata de facto dalla situazione temporale e locale, e, dall'altro, di costi­ tuire, riguardo all'idea, una soluzione atemporale, assoIuta e a priori di problemi posti - di prodursi nel flusso



una convenzione, allo stesso modo di come si forma una lin­ gua, che consente l'espressione individuale condizionata al tempo stesso da una codificazione, certo non meccanica, ma propria di una it111ere Sprachform, per dirla con Humboldt, che intende la lingua come una forma interna, espressione della visione del mondo del popolo che parla quella lingua. Da tutto quanto precede, possiamo sostenere che il gusto è una convenzione, rispetto alla quale possiamo consentire o dissentire, ma che comunque si evolve, s'impara, si cor­ regge; è soggetto ad influenze, ad alterne fortune come tutti i fenomeni storici; che soprallullo, problematico com'è, ri­ sulta materia altamente discutibile.

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al taglio che il preside della scuola o il rettore dell'univer­ sità decide di darle. La preparazione degli studenti e la loro formazione è dunque quanto mai varia, e solo dopo la laurea (Diploma) l'ente nazionale RIBA (Royal lnstitut of British Architects, una sorta di Ordine degli Architetti) attraverso un rigoroso ed accurato esame di ammissione, permelle ai neolaureati di iscriversi al suo autorevole albo, certifican­ done dunque in modo definitivo la preparazione. Questo modello organizzativo ha l'innegabile vantaggio di incorag­ giare il generarsi di una sana e stimolante concorrenza tra le varie università, che inevitabilmente ambiscono al continuo miglioramento di sé, sia per acquisire prestigio su scala na­ zionale ed internazionale. che per poter sopravvivere. Il RIBA infalli, oltre a detenere questa sorta di «albo profes­ sionale», ha il compito di eseguire annualmente un esame sugli studenti dei vari corsi per sondarne la preparazione, con la facoltà di imporre la chiusura delle scuole che non dovessero garantire la conoscenza di nozioni considerate (a seconda delle varie annualità) essenziali. Inoltre le diffe­ renze di impostazione tra le varie scuole hanno l'innegabile vantaggio di garantire a lulli la possibilità di scegliersi il modello di preparazione universitaria che si preferisce. Esi­ stono quindi nella stessa Londra università come la Wesl­ minster, che tende a fornire una preparazione più «tecnica», affiancando agli studenti, nell'elaborazione dei loro pro­ gelli, un ingegnere che li aiuti nel rendere realizzabili le loro idee; e università come le citale Bartlell e AA, più speri­ mentali ed artistiche, in cui ad esempio non esistono affauo esami dell'area scientifica. I costi annuali di iscrizione a queste facoltà sono, rispello ai parametri nazionali italiani, piuuosto elevati, intorno ai mille pounds (il minimo, per gli studenti europei). Tuttavia il livello qualitativo delle strut­ ture messe a disposizione degli studenti, volendo sempre paragonarci alla situazione italiana, risulta del tullo propor­ zionalo al prezzo che si paga. È comunque opportuno preci­ sare che, così come accade nei campus americani, anche in Gran Bretagna esistono una serie di agevolazioni finanziarie e borse di studio, che consentono agli studenti meritevoli



sul linguaggio e sulle forme che il continuo progredire della tecnica offriva, hanno lasciato un segno indelebile. Il loro impatto nella cultura dell'epoca è stato paragonato a quanto i Beatles realizzavano nel campo della musica pop negli stessi anni. Ha scritto infatti Michael Sorkin: Il 1964 fu l'anno della grande invasione britannica dell'America. Capeggiati dalla storica apparizione dei Beatles all'Ed Sullivan Show, un nutrito gruppo di musicisti rock prese il controllo delle classifiche e lo mantenne per quasi un decennio. [ ...] Nel 1960, Archigram nacque cd iniziò una corsa inventiva che avanzò parallelamente a quella dei Beatlcs, includendo in essa anche la amichevole divi­ sione cd il continuare come solisti nelle loro carriere. [ ...] Come i Bcatlcs,Archigram cercò di scoprire temati­ che abbandonate, per riesan1inare luoghi che il corso principale dell'architettura aveva omesso: macchine in giardino, la gioia del consumo, la famiglia universale dell'oggetto, il circo delle idee•. La loro produzione, quasi

esclusivamente teorica, si basava sulla realizzazione di im­ magini contraddistinte da una impressionante forza comu­ nicativa. create dalla elaborazione di disegni vivacemente colorati, fotomontaggi, fumetti e visioni fantascientiliche. Tali rappresentazioni furono sicuramente influenzate sia dalla ricerca estetica della moderna scuola britannica - ba­ sti pensare alle opere di Edoardo Paolozzi, tuttora grande amico di Peter Cook, o a quelle del Tow11scape - che dalla Pop Art (le stesse copertine della rivista Archigram potreb­ bero essere scambiate per opere di Roy Lichtenstein). Tut­ tavia questa loro ricerca non era fine a se stessa, ma era fun­ zionale alla creazione di un linguaggio dell'immagine, che fosse fortemente comunicativo. Era attraverso tali imma­ gini dunque che le loro teorie, lontane dall'avere una pre­ cisa e sistematica organizzazione, prendevano forma. Di tale componente comunicativa e della peculiarità dei loro disegni, ha così scritto Marco Porta, hanno un carattere evocativo piuttosto che descrittivo [ ...] la città è vista 18

come agglutinazione di forme, episodi e modi di essere del contemporaneo mondo della tecnica. Trasporti e co-



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Gropius non avrebbe potuto mai concepire il Cushicle (creato da Michael Webb, è un originale e non molto pratico impermeabile di materiale sinlelico, che si trasforma poi in una sorta di guscio Lrasparenle in cui dormire), poiché più di ogni altro architetto, gli Archigram fecero fare un gran balzo in avanti all'estetica della modernità, insi­ stendo sul fatto che il funzionalismo inizia sempre con il divertimento4• Oggi, a distanza di lanlo tempo, l'interesse per quelle esperienze sembra Lull'ahro che svanilo. Mostre e confe­ renze vengono organizzate in tullo il mondo per Peler Cook ed i suoi amici superslili, che, anche se in maniera auto­ noma, continuano il loro lavoro di ricerca, partecipando a numerosi concorsi internazionali e alla realizzazione di al­ cune opere sparse per il mondo. In particolare Peter Cook, oltre alla professione, in cui è da tempo affiancalo da Chri­ sline Hawley, ha canalizzalo la sua passione nell'ambito universitario, creando una scuola di avanguardia in cui la progellazione assume i caralleri della sperimentazione. in cui grosso peso è dato alla componente concettuale; ed è proprio sulla organizzazione interna di questa particolare scuola che vorrei focalizzare ora l'attenzione. I corsi di architettura alla Bartlett sono strutturati per units, classi di non più di quindici studenti, che si riuniscono con scadenza bisettimanale per lavorare, individualmente, ad un lema progelluale. È qui opportuno aprire una breve parentesi su di un malinteso che potrebbe essersi recente­ mente generalo in llalia - mi riferisco in particolare al così dello «nuovo ordinamento» - riguardante il numero di ore che gli sludenli devono seguire. Nel sistema britannico in­ fatti risulla che ogni esame comporli l'impiego di un esor­ bilanle numero di ore, cosa che non sembra trovare alcuna conferma nell'esiguo numero di ore di lezione. Ciò è spie­ gabile in ragione del fallo che nei programmi pubblicali dalle varie scuole, in genere vengono considerale come ore di studio non solo quelle di lezione, ma tulle quelle che lo studente dovrà presumibilmente impegnare nel superare un dalo esame. Ogni unir ha una sua impostazione, ma tulle



glio da superare. Gli altri esami infatti (che in media non sono più di cinque per annualità), quelli storici e tecnolo­ gici, ruotano attorno all'esame di composizione, fornendo gli strumenti e le conoscenze necessarie ad affrontare e su­ perare le dinìcoltà che il progetto, nel suo iter di elabora­ zione, presenta. Sembra quindi trovare compiutezza il mo­ dello «a triangolo» descritto su queste stesse pagine da De Fusco, secondo cui ai vertici del triangolo sono rispettiva­ mente le discipline storiche, scientifico tecnologiche e pro­ gettuali, e l'arca del triangolo rappresenterebbe appunto il progetto. La differenza tuttavia è che il modo di affrontare tali materie, mi riferisco in particolare alle discipline scien­ tifiche. non è di tipo nozionistico dimostrativo. ma intui­ tivo. li lavoro e la preparazione dell'ingegnere sono netta­ mente distinti da quelli dell'architello. Ciascuno ha il suo indispensabile ruolo. Ecco quindi che all'architello è richie­ sta una dote di creatività che costituisce la sua vera e pecu­ liare qualità professionale. Pcter Cook parLc quindi dalla concezione che l'Arte sia un fenomeno trasmissibile e tran­ sitivo, dunque oggetto di insegnamento. Ma tale insegna­ mento non è codificabile e razionalizzabile mediante un si­ stema di strumenti teorici e scienti lici, ma solo trasmissibile per «contagio», alimentando la creatività e l'intuizione, e creando il giusto ambiente per far sviluppare tali facoltà. Scriveva Karl Kraus Artista è solamente colui che sa fare di una soluzione un enigma, ed in questo senso, chi si dovesse avventurare all'interno di una delle aule adibite ai crir non si dovrà stupire di vedere disegni o mode li i del tutto enigmatici: siamo senz'altro di fronte ad opere sperimentali che stimolano fortemente la curiosità e l'interpretazione da parte dell'osservatore. È il clima stesso che si respira all'in­ terno di questo edificio ad alimentare la vena artistica po­ tenzialmente sepolta in ciascuno. Ogni settimana si susse­ guono conferenze di famosi architelli contemporanei (Da­ vid Chippcrfield, Nigel Coates, Zaha Hadid, Michael Hopkins, Kenneth Framplon, Rem Koolhaas, lo stesso Peter Cook); vi sono officine per costruire modelli e in generale 22 acquistare manualità, sale computer con lezioni periodiche



della stessa Bartlett la realizzazione dei progetti affissi dagli studenti sulle sue pareti. Ma dove, se non all'interno di una scuola di architettura, fare della ricerca ed alimentare la pro­ pria creatività dandone ampio sfogo? Altro aspetto di notevole interesse riguardante I' orga­ nizzazione di questa scuola - che purtroppo mette ancora una volta in evidenza le carenze della nostra organizzazione universitaria - è relativo allo stretto rapporto che in Inghil­ terra esiste tra l'università ed il mondo del lavoro. Oltre al giudizio strettamente legato all'esame di pro­ gettazione, ogni studente è tenuto a rielaborare il proprio progetto in un contenuto numero di tavole, inserite ali'in­ terno di un grosso album di formato standard (generalmente A2), chiamato portfolio, che lo accompagnerà durante tutto il corso della sua carriera universitaria. Questo lavoro di sintesi comunicativa dei propri lavori progettuali ha una ri­ levanza particolare ed è anch'esso, come il lavoro di pro­ gettazione, soggetto a «correzioni» ed a «giudizio» da parte dei professori. Sarà infatti il portfolio l'unico vero ed efli­ cace lasciapassare che ogni studente possiede allorquando si inoltra nel mondo del lavoro. In Inghilterra infatti ogni colloquio di lavoro in studi di architettura è proprio incen­ trato sulla discussione del portfolio. In questa operazione di rapida comunicazione grafica (ancor prima che verbale), gli studenti della Bartlett hanno la fortuna di avere a disposi­ zione la lunga e consolidata esperienza di Peter Cook e dei suoi compagni di viaggio, esperienza che oggi-· mi riferisco in particolare ai concorsi internazionali - sembra avere as­ sunto un ruolo di estrema importanza. È facile immaginare infatti che nel momento in cui si devono presentare un ri­ dotto numero di elaborati in un concorso con molti parteci­ panti, sarà più agevolato chi è riuscito a rendere palese in modo più efficace ed immediato le proprie intenzioni pro­ gettuali, rispetto a chi, pur avendo lavorato in modo accu­ rato e pignolo, non riesce ad essere facilmente comunica­ tivo, ma al contrario richiede un notevole sforzo nella com­ prensione. L'elaborazione del portfolio rappresenta dunque 24 da un lato una utile consuetudine, in quanto allena l'allievo



frequenza - è proprio quello di formare l'architetto di cui sopra, che allo stesso tempo manchi di quell'ingrediente fondamentale, che solo in ambito accademico è possibile «allenare» ed incanalare sui giusti binari, ovvero la creati­ vità, che in tale sède potrebbe, come accade alla Bartlell, as­ sumere i connotali di ricerca di un linguaggio espressivo e di sperimentazione. Ci penserà poi il mondo del lavoro, con le sue regole e le sue norme, a porre il giusto freno ad even­ tuali atteggiamenti «smodatamente» artistici. Sono certo che non lutti condivideranno una simile ana­ lisi, ma certamente il successo di scuole come la Bartlett o la AA deve porre degli interrogativi e rendere - così come accadeva al tempo degli Archigram - le nostre coscienze più vigili ed i nostri sonni meno tranquilli''.

1 Dall'introduzione a cura di Michacl Sorkin. in C,mc:eming Ar­ c:higmm.... Archigram Archives. London 1998. pag. I O. Volume eùilO in occusionc dcli.i mostm i1incr:m1e inlitolula Arc:hig ra111: l:.:,·11eri111e111al An:hitec:ture /96/-74. Munchestcr e New York 1998. 2 M. Po11TJ\, Le mw1>e tecnologie: ragioni e su gestioni.fra tecnica g ed arc:hitellura. «L"urtc moderna». 1967. voi. Xl. n ° 92. � DJ\VII> G1rnENE. Lil'ing-pod. «Archilectural Design». 1966. n ° 11. 4 M1CHJ\E1. SoRKIN. op. c:it.• pag. 11. � Cit. in A1.mE1>0 LJ\MIIElffUCCI. La c:m1ferem:.a di Peter Cook al­ l"Au/a Magna clellafac:oltà di Arc:hitellura di Roma. 25 giugno /995, ·· in «Me1amorfosi» n° 27, 1995 Roma. "lvi, pag. I O.

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diti assemblaggi, e fotografie. Ed un'attualità che guarda ol­ tre i confini tradizionali, verso il Sol Levante (la massiccia presenza di artisti cinesi è sicuramente una delle novità di questa Biennale, una novità che tuttavia lascia perplessi, salvo qualche eccezione come le fotogralie di Zhang Huan e il video di Ma Liuming Fe11-Maliuming cm111nina sulla grande Muraglia, 1998). Ma a guardarlo bene questo dap­ pertutto è più come un labirinto dai percorsi ben tracciali, facilmente riconoscibili. Un'esplorazione lenta ci fa co­ gliere i fili di questo grande e spettacolare palcoscenico e del suo burattinaio, ci rivela i protagonisti e le innumerevoli - e talvolta insignificanti - comparse. Dopo lo stordimento dei primi giorni una riflessione più lenta e meditala ci porla dunque· a mettere un ordine nel dappertutto. e a constatare che, al di là della stupefacente orchestrazione. difficile è tro­ vare forza e novità. Ciò non significa condannare 1 la Bien­ nale di Szeemann, ma riflettere sul presente. Un presente che è fallo da una folla di nomi - sono oltre trecento gli ar­ tisti invitali-. che affermano un'arte fortemente teatrale, continuamente sedotta dalla spettacolarità; ma general­ mente orientata ad eludere il problema della forma e della lingua o a considerarlo comunque in un rapporto di subordinazione rispetto al prevalere di un'urgenza comunicativa diretta e accelerata2 • Angela Yeuese ha letto nel lavoro della svizzera Pipilotti Rist una metafora di questa Biennale immense bolle di sapone dalla superficie lattiginosa e iridata escono da una macchina davanti a una darsena, fluttuano in aria, talvolta scivolano nel­ l'acqua, infine scoppiano diventando nuvolette di fumo. Potrebbe essere questa immagine la metafora dell'in­ tera Biennale�. L'urgenza di documentare il presente ha evidentemente messo da parte il passato, facendo scomparire nomi ormai troppo spesso riproposti. Unica concessione, gli omaggi a cinque artisti scomparsi recentemente: a Mario Schifano (1934-1998) e a Gino De Dominicis (1947-1998), inade­ guati e assolutamente non rappresentativi - pochi e mal se28 lezionati lavori per il primo, e troppi, relativamente alla



dell'iraniana Shirin Neshat (Turbulent 1998): due schermi, uno di fronte l'altro, due immagini in bianco e nero ritrag­ gono due cantanti, un uomo e una donna. Un pubblico di soli uomini ascolta ed applaude la prova del cantante. Poi la donna, sola nella sala, inizia il suo canto, disperato e strug­ gente, di suoni ancestrali, di dolore e solitudine. Due imma­ gini, due realtà a confronto, e l'occhio acuto dell'artista che sceglie il mezzo poetico per un'aperta denuncia sulla condi­ zione femminile nel suo paese. Induce a rillettere anche la giovanissima artista serba Vesna Vesic ( 1975), con il suo commovente autoritratto con lacrime. A telecamera lissa l'artista ha ripreso il proprio volto rigato dallo scorrere lento delle lacrime. Il volto com­ pare e scompare tra i capdli, le lacrime scivolano sul viso: è un lento lluire di emozioni, è un rituale antico di purifica­ zione. Sappiamo che prima dell'azione l'artista legge il salmo "purificami, sarò più bianco della neve". da cui il ti­ tolo del lavoro. Anche l'Italia dà il suo contributo di video arte con i due lavori della padovana Grazia Toderi (// decollo, 1998; IL fiore delle 100111011e,) al Padiglione llalia. Alle Corderie si distingue la video ambientazione di Doug Aitken ( 1968): un corridoio con otto laser disc av­ volge lo spettatore in un viaggio eccitante e coinvolgente nelle realtà metropolitane di lìne millennio (Electric Earth, 1999). Più pacato e di intima poesia il lavoro del sudafri­ cano William Kentridge ( 1955) che, con i suoi disegni ani­ mati - schizzi a carboncino e pastello su carta-. racconta storie di soliti.1dine e profonda malinconia, accompagnate da musiche e suoni straordinari. Il video presentato, Stereo­ scope ( 1999), è l'ottavo di una serie realizzata nell'arco di un decennio e che ha per protagonista sempre lo stesso per­

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sonaggio in evoh.1zione Soho Eckstein, alter ego dcli'artista. Le donne hanno dimostrato intelligenza, spirito critico ed originalità, premiate dalla critica e applaudite dal pub­ blico, si sono guadagnate il ruolo di protagoniste di questa Biennale, a cominciare da Katharina Fritsch ( 1956), che ha accolto i visitatori con i suoi giganteschi topi neri (The Rat



- tre volte al giorno per due ore-, in un anfratto misterioso alle Tese, e come il tedesco Christian Jankowski ( 1968) che ironicamente ha interrogato una serie di cartomanti della te­ levisione sul proprio lavoro, filmando e restituendoci accu­ ratamente la diretta telefonica. Una buona lezione viene an­ che dalla coppia più giovane di quest'anno, Emiliano Pe­ rino ( 1973) e Luca Vele ( 1975), della provincia di Avellino, che affermano la forza e l'espressività della materia e di una ritrovata manualità.

' Dura e senza mezzi termini la condanna di Duccio Trombadori apparsa su Pm1oruma ( 17-06-99) che definisce bravi ma replicanti

<1uesti ragazzi chiamati a popolare il palcoscenico nmlconcio del­ l'arte inlernazionale...Questa Hiennale sarà ricordata per la sua lugubre vaniti1.

2 Pier Giovanni Castagnoli. '"La Repubblica" venerdì 11 giugno 1999. � Angela Vcttese. "Il Sole 24 ore'" Domenica. 13 giugno 1999. • Unici esempi di certo rilievo sono i lavori di Gary I-lume ( 1962) al padiglione britannico e dell"olandese Daan van Goldcn ( 1936). la cui ricerca cd attivit:1 si pone come una lent;1, coerente e spesso cslre­ nmmente laboriosa ricerca dell'armonia. lontana dalle frenesie d"innovazione. in mm silenziosa aspirazione alla continuiti1 e alla stabilità. Gli spazi pillorici di Hume sono grandi superfici di allumi­ nio su cui l'a11ista traccia. a smalto. segni e figurazioni essenziali. Poco convincenti le tele del cinese Yang Shaobin ( 1963) che sembra richiamarsi alle deformazioni di Bacon senza tuttavia coglierne l"in­ quietante tragicità.

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realtà

fondamentale e presentare questa nuova crea­

zione in una forma tale che lo spettatore abbia la sensa­

zione di vedere per la prima volta non un simbolo al po­

rivelata per la prima volta-'. Così come Weslon, già Alfred Stieglilz o Paul Slrand, avevano accentualo particolari di elementi naturali, come rocce e pianle, giungendo a delle immagini fotografi­ che quasi aslralle, oltre che straniate. Così anche Karl Blos­ sfeldt, il quale aveva reperito in certi steli nervati le forme di certe colonne arcaiche - oppure - nella forma di certe felci il bastone pastorale4 • Si assiste ad un polcnzia­ menlo della spontanea e ineludibile inclinazione realista del medium che ancorandosi piì:1 saldamente al mondo fenome­ nico, si allonLUna dalle premesse nuluralisliche da cui aveva preso le mosse, reslilllendo una versione della reullà poten­ ziala, ma rivelala nella sua alienazione. D'altronde, Susan Sonlag nel suo ormai classico saggio Sulla fotografia sollolineava come Sostenere che la foto­ sto dell'oggetto, ma la cosa stessa

grafia deve essere realistjca non è incompatibile con l'a­

pertura di un· divario sempre maggiore tra immagine e

realtà, nel quale la conoscenza n1isteriosan1ente acqui­ sita e l'intensificazione della realtà che le fotografie for­ niscono

presuppongono

una

precedente

alienazione

dalla realtà stessa o una sua svalutazione5 .

Medium consideralo realistico ab origine, la fotografia, tradisce il paradosso insilo in ogni volontà programmatica di Realismo: nell'illusione di poter ottenere una fedele du­ plicazione del reale, dà luogo ad un'immagine iper-reali­ stica, ovvero ad una rappresentazione, inevitabilmente falsa. Esattamente in questo consiste la grande Hybris della

pratica

fotografica:

una· pretesa

demiurgica:

creare una realtà che ha anche caratteri della nostra realtà apparente e che, proprio perciò non ha con la no­ stra realtà apparente nessun rapporto. La fotografia abbandona ogni pratica di realismo in­ genuo: è la negazione che vi sia un linguaggio umano in grado di riflettere speculativamente, specularmente la

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realtà in quanto

to òn.

Questa la grande crisi del nostro


tempo

che

la

fotografia

rappresenta

emblematica­

Diviene, a questo punto, interessante seguire le evoluzioni di questo rapporto intrinseco e necessario della fotografia con un cancello di Reallà continuamente rinno­ vantesi. E ciò, con maggiore pregnanza, negli attuali scenari di un'era che segna l'affermazione del Virtuale e dellà Si­ mulazione. L'alluale modello di società tecnologica ha av­ viato un processo di continua fruizione di immagini artifi­ ciali, sempre più dislocate rispetto al loro referente ogget­ tuale e inevitabilmente direlle verso esiti di marcala de-rea­ lizzazione. La fotografia ha di fatto deplatonizzato la no­ menté.

stra concezione della realtà, rendendo sempre meno plausibile il riflettere sulla nostra esperienza sulla base di una distinzione tra immagini e cose, tra copie e origi­

Non può più avere luogo una concezione come quella platonica, denigratoria nei confronti dell'immagine-ombra surclassala rispcllo alla realtà di cui costituirebbe solo un flebile ed ingannevole riflesso. L'oggello scompare dinanzi alla sua manipolazione virtuale. Si afferma l'emergenza dell'a-corporale, della sparizione. È allresì fondamentale considerare il fallo che la fotografia, per quell'equivoco strano su cui si fonda la sua stessa natura, cioè il potere in­ condizionato di legillimare l'autenticità di qualsiasi sog­ gello, sia pur esso falso o contraffallo, ha finito con l'assu­ mere un'enorme responsabilità nei processi di stravolgi­ mento ontologico della realtà e del suo doppio, ovvero l'im­ magine. In ciò risiede lo strapotere della fotografia, nel fallo che la verità non pertiene al referente, ma al mezzo. Così McLuhan: Dire comunque che« la macchina fotografica nali 7 .

non può mentire» equivale semplicemente a sottolineare le numerose frodi che vengono compiute in suo nomeK .

Le simulazioni, pertanto, tramite la fotografia, ricevono, un allestato di autenticità e circolano, ormai, come vere ali' in­ terno della realtà naturale. Nota Chambers come, ormai, con la simulazione elet­

tronica dell'iper-spazio del computer e la generazione di

«realtà virtuali» tridimensionali,

è

come se l'arcaico le­

game tra conoscenza e vista, rivelato dall'etimologia

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oculare di «teoria» (tlièa), fosse minacciato e nel con­ tempo rafforzato nella complessità della cultura mo­ derna e nella chiarezza dell'immagine computerizzata''.

Emerge, nell'era del Virtuale, una filla rete di segni inter­ cambiabili, immersi in un vortice di metamorfosi continua che melle al bando la definizione del Senso e del Valore, in un perpetuo occultamento del discrimine tra realtà e suo doppio, tra artitìcio e natura, tra positivo e negativo. È evi­ dente che tullo ciò non può non comportare ripercussioni drastiche su un m.ediwn. che fonda la propria specificità sul­ l'esistenza dei due poli distinti di reale e sua riproduzione. Ma si traila di un confine sempre più labile e ambiguo. Scrive Jean Baudrillard - Ora, l'immagine non può più

immaginare il reale poiché coincide con esso. Non può

più sognarlo, poiché ne costituisce la realtà virtuale 111•

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Suona, così, vano ogni appello ali' Autenticità, non più ga­ rantita da una metafisica del reale11 ? Così, la fotografia, campo privilegiato della genesi delle immagini, assurge le­ giuimamente a paradigma di questa condizione dell'era po­ stmoderna. Gli sviluppi della fotografia alluale si innestano proprio su queste premesse che, di fatto, sono soprattutto esiti sortiti anche dall'estrinsecazione della sua essenza profonda ed equivoca (ovvero la già menzionata capacità di veicolare come autentiche anche immagini parzialmente manipolate o simulate del tulio). Ciò trova ulteriore con­ ferma nelle geniali intuizioni, pubblicate tra il 1859 e il 1863 sulla rivista At/antic Monthly di Boston, dalla polie­ drica personalità di Oliver Wendell Holmes. Come in una sorta di premonizione, infatti, Holmes, con sorprendente anticipo sui tempi, individua le origini fotografiche del Vir­ tuale. E quanto avanguardistico e controcorrente fosse il suo entusiasta pensiero a riguardo è ancora più evidente, se confrontato con le invettive scagliate dal «progressista» Baudelaire, contro la fotografia, proprio contemporanea­ mente, al Sa/011 del 1859. Holmes intuisce l'avvento di una cultura della smateria­ lizzazione e dell'artificio, la scissione dell'apparenza dall'oggetto, la cornpleta autonomia dei simulacri: D'ora in-



sebbene in presenza di eclatanti ed esplicite finzioni, l'im­ missione dell'elemento fantastico, viene assorbito e stem­ perato nel realismo dell'immagine. L'incredibile diventa più credibile. (...) Il tema della maggiore credibilità at­

tribuita alla finzione, della quale la finzione demateria­

lizzante è solo un caso, è inscindibile da quello attinente al ruolo che stanno assun1endo nella nostra cultura le

tecniche, sempre più sofisticate, della rappresentazione

del mondo visibile'"'. Si dà forma a creature impossibili, spacciate come realmente esistenti grazie alla resa fotogra­ fica. Un caso paradigmatico, in tal senso, è quello di Joan Fontcuberta. Nella serie Herbarh1111 1 \ ad esempio, presenta come naturali esemplari cli piante assolutamente inesistenti, frullo di pura invenzione. Vengono in mente per contrasto. i Photoge11ic Drawi11gs del 1840 ca., l'otogralìe di vegetali scientificamente schedati da Fox Talbot con fare botanico. Le immagini di Herbarium, richiamano soprattullo le piante di Blossfeldt, reali pur nell'incanto svelato dalle loro fanne ravvicinate. È come se, su quest'unico soggetto, fosse più agevole rintracciare tre differenti modi di rapportarsi al re­ ferente reale, tre fondamentali momenti storici di un dia­ logo incessantemente intessuto tra Fotografia e Realtà. L'ir­ ruzione sempre più massiccia nelle immagini di elementi impossibili, alterazioni di forme naturali, creazioni di ligure ibride, ha raggiunto un'entità tale da indurre a soffermarsi con maggiore attenzione sulla cogente esigenza da parte della fotografia artistica di esplorare questo particolare aspetto di un fantastico naturalizzato. Il linguaggio dell'arte si confronta (giacché, ormai, non si tratta più di precorrimenti) con sovvertimenti radicali delle definizioni basilari di Vita, di Natura, di Realtà, comu­ nica con una società che è quella degli scenari prospellali dalla manipolazione genetica, dai nuovi parametri spazio­ temporali della Simultaneità, dall'ibridazione continua di Reale e Virtuale. Viene da chiedersi, allora, se l'assunzione nell'immagine fotografica dell'irreale, perturbante proprio in quanto «normalizzato» da una resa realistica, sia sempli38 cemente l'atto di rappresentare tendenze e fenomeni della


socielà altuale oppure se l'immissione del fanlaslico nel reale intenda provocare uno spiazzamenlo, slabilendo un rapporlo critico lra arlista e osservatore. È chiaro che la dut­ lil ilà iconografica della l'olografia arlistica. sopraltutto nella sua accezione digitale, concede la possibililà di esprimere un messaggio che è tanto più incisivo quanto più, nono­ stante la sua vesle realistico- fotografica. deborda dall'am­ bito della realtà vera. La capacità della l'olografia auuale di sintetizzare o inlegrare un qualsiasi referenle offre all'arti­ sta un'ulteriore possibilità di provocazione ed una libertà che è più tipica della pittura che della foto stessa, per sua na­ tura vincolata al dato reale. La simulazione normalizzata dal realismo fotografico, sortisce un duplice effello. Da una parte può dar luogo ad uno spiazzamento che rende più cau­ stico e provocatorio il messaggio. dall'altra fa sì che il con­ lcnuto divenga più facilmente e immediatamente assimila­ bile. In fondo il contenuto allegorico della realtà «nor­ male» così diluito è risultato più digeribile 16• Ciò che ac­ cade. però, è che proprio questa facilità e immedialezza di comunicazione, di fallo. diluiscono l'impallo straniante della dissonanza, sicché. il disturbo visivo provoca un tur­ bamento nello spellatore. ma senza più sortire grandi desta­ bilizzazioni. E tanto più se si tiene conlo dell'enorme accu­ mulo di memoria visiva tipico della cultura conlemporanea, dell'incessante fruizione di un'enorme mole di immagini, del loro indiscriminato riuso e del senso di abitudine che ne consegue. Emerge un limbo di ottundimento. insomma, in cui, in fondo. ogni proposito di destabilizzazione dell'oggetto fo­ tografato è smorzalo a priori e in cui pare prevalere, piuttoSlo, la volontà di additare una sorla di assuefazione della vi­ sione e della coscienza. A lai proposilo, così si esprime l'artisla Caroline Duglos: L'osservatore viene a trovarsi in un sistema ibrido costituito da una natura riprodotta e si­ mulata. Cammina lungo una linea divisoria tra l'ideale e

il mostruoso, e fa un passo avanti attraversando il confine tra vita naturale e quella artificiale ... Il Fantastico esiste per teatralizzare e illuminare un aspetto fittizio

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del Reale, l'osservatore dovrebbe entrare nella trappola

con gioia 17• Con gioia, ovvero in maniera indolore. Lo spet­

tatore, grazie alla legittimazione fotografica dell'irreale in­ corporato al reale, scivola quasi inavvertitamente ali' in­ terno della stessa aberrazione dell 'oggello fotografalo, os­ servandolo forse ancora con una certa sorpresa, ma, ormai, certamente senza più traumi. La commistione costante di realtà e simulazione è un dato ormai acquisito che non desta più grande meraviglia. Un caso emblematico, in questo senso, è costituito dal lavoro della giapponese Mariko Mori. Quasi un'ultima frontiera. Laddove, infaLLi, molli artisti, servendosi di im­ magini fotografiche e video. hanno additalo la contraffa­ zione del mondo. ca11u{[fa11do il reale nella grande messa in scena della Simulazione. Mariko Mori, invece. fotogn:1fa.fi­ sica111e11te il Virtuale, ormai completamente naturalizzato e divenuto parte integrante della Realtà vera. Noi tulli-so­ stienc l'artista- viviamo in luoghi artificiali. A Tokio, dove sono cresciuta, non c'è natura•x. Per meglio dire, gli sce­ nari virtuali sono diventati essi stessi Natura. L'inconscio, plasmato dai media, ha normalizzato l'allucinazione della simulazione. Tullo ciò viene ormai rect:pilo con natura­ lezza, senza più sortire alcun effeLLo di shock, di spiazza­ mento. Ecco come la stessa Mariko Mori descrive Empty Dream, una delle sue opere più rappresentative: Empty Dream, per esempio, è una spiaggia costruita artificial­

mente, costruita con sabbia e onde artificiali in un in­ terno. Tuttavia questo luogo è «vero», esiste realmente in Giappone, non creato in un laboratorio teatrale. La mia opera è la fotografia che ho scattato in quella vera spiaggia artificiale 19• Ora, nelle varie manifestazioni ciel­

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l'arte contemporanea si assiste continuamente ad una serie di sperimentazioni che fomentano un gioco ambiguo con il reale innestandosi nell'alveo della smaterializzazione che è alla base della cultura del Virtuale. In cosa si distingue, dunque, la moderna ricerca fotogralica dagli esiti raggiunti dalle altre arti ligurative? Nel fallo che, nel caso della foto-


grafia, è ineludibile l'illusione immediata di poter ripro­ durre esattamente il referente così com'è. La ragione della differenza, cioè, risiede nello specifico della fotografia, nel paradosso originario di quella perfetta capacità mimetica comunemente e spontaneamente attribuitale. Questo ele­ mento connotativo della visione fotografica naturalmente gioca un ruolo decisivo dinanzi al paradosso di una reallà divenuta virtuale. Ecco, allora, che la fotografia, può en­ trare in scena, rispello ad altri ambiti di ricerca figurativa, con maggiore pregnanza, forte di tulla quella tradizione (il­ lusoriamente) realistica che le è storicamente propria. Per sua natura, sostiene Barthes, la fotografia ... ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre una pipa, ine­ sorabilmente. Si direbbe che la fotografia porti sempre

il suo referente con séw. Ed ancora: Chiamo «referente

fotografico», non già la

cosafacoltativamente

reale a cui

rimanda un'immagine o un segno, bensì la cosa necessa­

riamente reale che è stata posta dinanzi all'obbiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna. La pittura, dal canto suo, può simulare la realtà senza averla vi­

sta ... Nella fotografia, contrariamente a quanto è per

la cosa è stata là21• Ovvero la fotografia è innanzi tutto indice e ciò tali imitazioni, io non posso mai negare che

comporta una contiguità fisica col proprio referente che è allestazione di esistenza22 • Si recupera l'idea originaria di foto come impronta lu­ minosa dell'oggello che l'emana, pertanto l'oggetto deve necessariamente esistere. Si ra leva, dunque. su quest'idea di base per far assumere alla fotografia un ruolo fondamentale nel far apparire autentica la simulazione, una simula­ zione che diviene sempre più credibile grazie anche ai per­ fezionamenti tecnici della manipolazione digitale delle im­ magini. La sua allualità si fonda sulla capacità di attagliare al nuovo la propria funzione tradizionale, servendosi anche del nuovo. In un certo senso l'atteggiamento spontanea­ mente mimetico della fotografia verso il referente è rimasto immutato persino nel caso in cui l'immagine presenta gli ar­ tifici della simulazione, giacché il messaggio consiste anche

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nel mostrare un oggetto di cui gli aspetti fittizi del virtuale sono_ divenuti ormai parte integrante. In fondo, anche in questo caso, mostrando aspetti della nuova realtà soprag­ giunta, si mostra il mondo così com'è. È come dire, ad esempio, che le manipolazioni digitali «fotografate» sono vere tanto quanto sono vere le manipolazioni genetiche. Vengono in mente i ritratti virtuali dell'artista e fotografa olandese Inez van Lamsweerde, immagini di bambine le cui mani o il sorriso vengono sostituiti con quelli di donne adulte, corpi maschili e femminili che mescolano i loro tratti con un senso di naturalezza e di autenticità conferito loro dalla resa fotografica. Le dissonanze inquietanti di creature ibride divengono incontestahilmenle reali. Il ri­ chiamo all'attualità delle manipolazioni genetiche sembra essere naturale e legittimo se la stessa artista si esprime in questi termini: Nel mio lavoro si vede come da associa­ zioni

inaspettate

possano

effettivamente

scaturire

«nuove entità umane» ·'. In un certo senso, la fotogralìa continua a registrare il reale, tenendo, però, anche conto dei processi di stravolgimento ontologico nel frattempo inter­ corsi nell'idea stessa di realtà. C'è quindi una sorta di continuità e di coerenza con la sua funzione storica nel modo di rapportarsi al referente. Una riconoscibilità propria del medium, un'identità ri­ spettata che ha consentito alla fotogralìa di non snaturarsi diventando altro da sé. Ancora oggi l'attualità e il valore del suo contributo risiedono nel rispetto della sua stessa identità storica, si fondano sulla capacità di rendere autentico, come si è visto, persino un referente fittizio, manipolato, reso tanto più straniante, quanto più normalizzato dalla visione fotogralìca. Come si è già sottolineato, però, a causa dell'e­ norme diffusione di questo tipo d'immagini e per le evidenti rispondenze con gli stravolgimenti in atto, l'allucinazione del referente virtuale non è più, di per sé, motivo di destabi­ lizzazione sufficiente su cui fondare un intento critico-ever­ sivo del messaggio fotogralìco. L'aberrazione della simula­ zione fotografata è assunta, piuttosto, come pretesto per 42 un'analisi sullo stravolgimento del sistema di percezione 2


della realtà. È in questa direzione che si recupera un polo critico molto più eflìcace, nel disvelare il mutamento dei meccanismi percettivi, e non tanto nell'indagare ancora un oggello manipolato, il cui senso di straniamento è, in buona parte, vanificato dall'abitudine visiva o da una ormai troppo plausibile prossimità al reale. La percezione veloce, l'iper­ consumo dell'immagine, la sopravvalutata e presunta maggiore veridicità dell'immagine sulla parola, la sete indotta d'informazione visiva, conducono parallela­ n1ente l'arte conten1poranea a lavorare proprio su que­

ste strutture della ipcrpercczionc2�. La normalizzazione

di soggelli simulati. di impossibili metamorfosi insinua uno strisciante senso di straniamento che non è causato tanto dalla stranezza stessa del soggello, quanto piuuosto dall'in­ quietante naturalezza della modalità di percezione aneste­ tizzata di quel soggetto stesso. Le manipolazioni presenti nelle immagini fotografiche sono, in un certo senso, equipa­ rabili a dei fotomontaggi, paradigma della deliberata com­ mistione di reale e artiliciale operato dalla fotografia. Ma si pensi, ad esempio, ai fotomontaggi di Heartfield. Il fotomontaggio riesce a provocare le reazioni più dure proprio per la sua facoltà di fare apparire vero

l'assurdo e assurdo il vero. I terrificanti commenti di Haertfield sull'estrema confusione della Germania sa­ rebbero stati troppo ridicoli e impossibili se egli li avesse espressi con il pennello o con la matita2�. Il fotomontag-

gio era il mezzo più adatto per l'anti-artista: serviva ad attaccare il realismo convenzionale col realismo stesso26 •

Nelle odierne immagini virtuali non si riscontra quasi mai il medesimo effello caustico. L'oggeuivazione fotografica non è più diretta a svelare l'assurdo nella normalità, (e si pensi anche al caso di Man Ray fotografo), ma serve ad evi­ denziare la naturalezza, l'aueggiamento di normalità con cui viene recepita l'immagine manipolata. Questo è in sé davvero molto più inquietante dello straniamento intrinseco al soggello stesso, anche a dispello delle sue più incredibili distorsioni. L'intento è (o dovrebbe essere) quello di indi­ care, ma senza le asperità della polemica o della denuncia,

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uno stravolgimento dei meccanismi della percezione. li processo non è quindi una pericolosa operazione mora­ lizzante che indica le «deviazioni» della grande comuni­ cazione visiva, al contrario, è la presa di coscienza delle potenzialità eversive di questa, attraverso la visibilità esasperata delle sue stesse immagini. Quindi di nuovo la fotografia è testimone attento e disvelatore del reale, ma non dell'accadimento o dell'oggetto reale, bensì del suo meccanismo di percezione27 . L'immagine fotografica, con

le sue propaggini digitali, tende a ricomporre gli ultimi resi­ dui di straniamento provocati dalla simulazione fotografata. stemperando eventuali spiazzamenti visivi causati da im­ probabili soggelli e concentrandosi, piullosto, sullo strania­ mento indouo dalle modalità psicologiche di percezione della realtà. Una realtà in cui ogni desiderio, pare realizzato, ogni possibilità espressa, ogni confine varcalo, in cui spazio e tempo sono dissolti nella Simultaneità. Il Reale è di per sé Virtuale. Il Virtuale è ormai Reale. Ma lo sterminio della realtà, non è compiuto, ancora, lino in fondo, o con Bau­ drillard, il Delitto non è ancora pe,ferro.

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1 Tale è il titolo del piimo libro di foto, pubblicato da William Henry Fox Talbot, a Londra. nel 1844. 2 W. BENJ/\MIN, Pic:c:ola storia della fotogrc1fia. ne L' era d'arle op . ne/1 'epoc:a della sua ripmduc:ibili1à /ec:nica. Einaudi. Torino 1991. p. 63. ·' E. WESH>N, in Fmografi sulla .f<>1ogr<1fia. Agorà Editrice. Torino 1991. p. I 88 {corsivo nostro). • W. BENJ/\MIN. op.c:it.. p. 63. � S. SoNTA<;, Sullafowgrc1fia. Einaudi. Toiino 1978. p. I 0.5. "M. CACCI/\KI in /111ervista a M. Cac:c:iari. a cura di P. Costantini. in «Fotologia». n. .5. Ferrara 1986. p. 76. 7 S. SoNT/\O, op.c:it. p. 1.55. " M. McLu1-I/\N. Gli strumenti del c:<m11111ic:are. Est. Milano 1997. p. 20.5. '' I. C1-1AMlll:RS. Le mac:c:hine del desiderio. in AA.VV. La sc:ena im­ materiale. Linguaggi ele11mnic:i e mo11di virtuali. a cura di A. Ferraro e G. Montagano. Costa e Nolan, Genova 1994. p. 168. 111 J. BAu1>1rn.1.A1m. li deli110 pe,fello. Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. p. 8.


11 Cfr. I. CH AMIIEllS, op. c:it., p. 169. 12 O. W. Ho1.M1��. Il mondo Jaffo immagine. Origini fotografiche del virtuale, a cura di G. Fiorentino. Costa e Nolan, Genova 1995, p. 30. 1� S. SK<><ll.UNI> in D. PAPAIWNI, Il corpo parlante dell'arte, Castel­ vecchi, Roma 1997. p. 155. 14 T. MAI.IX>NAIXJ, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 16-17. '-' Cfr. Histària art(ficial. El cor i le.ç tenebre.ç. Joan Fontcuberra, IYAM Centre Julio Gonzales, Yalencia nov. 1992-gen. 1993. "' S1MEN Jm1AN, Digitai image, in «Zoom», n. 156, Milano 1998. 17 C. Duw.os. Immagini senza.famiglia, tavola rotonda a cura di M. Darnianovic. in «Terna Celeste». n. 55. Milano 1995, (corsivo nostro). 1• M. Mrnu. in D. Parnparoni. op. c:it., p. 175. "' Ibidem. p. 176. 20 R. BAlffHI��. La camera chiara. Einaudi, Torino 1980. p. 7. 21 Ibidem. pp. 77-78. 22 Cfr. P. Du11rns. L ·ac:te plwtographique. Nathan-Labor. Paris­ Bruxellcs 1983. pp. 40-50. 2-' I. VAN LAMSWEEl<llli. in D. PAl'AllONI, op. c:it.• pp. 169-170. 24 V. GRAVIAN<>. L'immagine fmogrq(ica, Mimesis, Milano 1997, p. 26. 2� A. Scr-lARI'. Arte e.fotografia. Einaudi. Torino 1979, p. 30 I. lh Ibidem. p. 297. 27 V. GrtAVIAN<>. op c:it.. p. 28.

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