Il Giornale dei Biologi - N.5 - Maggio 2023

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132 Giornale dei Biologi Maggio 2023 Anno VI - N. 5 www.fnob.it Un italiano su dieci soffre di disturbo affettivo stagionale (SAD) Cause, cure e testimonianze CAMBIO DI STAGIONE E MALESSERE DELL’UMORE

NUOVE OPPORTUNITÀ PROFESSIONALI?

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PRIMO PIANO

Sad, quel malessere che arriva puntuale a ogni cambio di stagione di Rino Dazzo

Disturbo affettivo stagionale: le cure di Rino Dazzo

«In quei periodi mi sento senza forze» di Rino Dazzo

22 L’intelligenza artificiale diagnosticherà i tumori dei polmoni in anticipo di Domenico Esposito

Aritmia: lo smog può aumentarne i rischi di Domenico Esposito

Siesta pomeridiana. Occhio alla bilancia di Domenico Esposito

“Allenare” la mente per rallentare il declino cognitivo di Carmen Paradiso

Varianti genetiche e medicina personalizzata l’approccio Sting-seq per nuove terapie di Carmen Paradiso

INTERVISTE

Staminali, il gene ESRRB guida il differenziamento delle cellule pluripotenti di Ester Trevisan

Combattere ansia e stress al museo con l’arte la biologia e l’archeologia di Chiara Di Martino

Acqua, legionella tra i parametri di valutazione del rischio biologico di Ester Trevisan

Scoperta la struttura 3d delle proteine che sorvegliano il genoma di Sara Bovio

Malattia di Parkinson: alla base della rigidità la disfunzione di un circuito nervoso di Elisabetta Gramolini

La funzione della vitamina b3 per contrastare la cachessia neoplastica di Elisabetta Gramolini

Tumore al polmone. La chemio-immunoterapia adiuvante tra le speranze per il presente e il futuro di Elisabetta Gramolini

Carotenoidi, licopene e fotoprotezione, alleati della pelle in estate di Carla Cimmino

Sommario Giornale dei Biologi | Mag 2023 C 14 16
24 25 26 28 SALUTE I bambini e la timidezza di Domenico Esposito 20 30 32 34 36 8 EDITORIALE La parola torni agli elettori di Vincenzo D’Anna 3 12 38 18

AMBIENTE

Recuperare minerali e metalli dall’acqua dei nostri mari di Gianpaolo Palazzo

Riqualificazione edilizia in Italia troppi edifici energivori e climalteranti di Gianpaolo Palazzo

La vita delle batterie: una sfida da superare per la mobilità elettrica di Gianpaolo Palazzo

Altro che deserti freddi. Sui ghiacciai artici pullula la vita di Sara Bovio

INNOVAZIONE

Un biosensore per la sicurezza alimentare di Pasquale Santilio

Migliorare la tac con l’aiuto dell’IA di Pasquale Santilio

Alzheimer e alterazioni negli astrociti di Pasquale Santilio

Come recuperare il magnesio dal mare di Pasquale Santilio

BENI CULTURALI

Un violento terremoto nel cuore dell’eruzione: l’ultimo segreto di Pompei di Rino Dazzo

Agrigento capitale italiana della cultura di Eleonora Caruso

SPORT

Dalla scherma “stoccate” di vero fair play di Antonino Palumbo

Trentino volley. Una gioia doppia firmata Michieletto di Antonino Palumbo

Giro d’Italia, il covid in maglia rosa di Antonino Palumbo

Marcia, torna la regina azzurra di Antonino Palumbo

LAVORO

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE

Biomateriali per il rilascio dei farmaci nella drug delivery di Chiara D’Errico

La vita dei microrganismi di piante e vegetali nella fillosfera di Lucrezia Pinto

Le neuroscienze per predire i deficit neurologici da ictus di Cinzia Boschiero

Sommario D Giornale dei Biologi | Mag 2023
70 74
68 78
58 62 64
54 65 50 51
42 44 46 52 53 LIBRI
letteraria 66 48 57
Rubrica

La parola torni agli elettori

Per quanto pochi possano essere i lettori di questa rubrica, affido ad essi la conoscenza dei miei propositi per ciò che riguarda il futuro della FNOB. È cosa risaputa che i Biologi abbiano sempre seguito - poco o niente - le vi -

cende del proprio

Ordine professionale, preda come sono di un’apatia congenita e della vocazione a informarsi attraverso il “sentito dire”.

Sono più di diecimila coloro i quali, pur in presenza di una legge che prevede anche la sospensione dall’Albo, non si sono dotati della casella Pec

sizione di legge che prevede una multa e la sospensione dall’Albo professionale, non si sono dotati di una PEC e con il cinquanta percento degli iscritti che non legge le e-mail e le newletter che pure riceve dall’Ordine (attuale FNOB) né consulta il sito istituzionale.

D’altronde sono ancora più di diecimila coloro i quali, pur in presenza di un’impo -

Si spera, ovviamente, che questo stato di cose possa essere sovvertito dopo la nascita degli Ordini Regionali ed il più stretto contatto che questi stanno via via instaurando con i propri iscritti, an -

Editoriale Giornale dei Biologi | Mag 2023 3
di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi

che se dubito che così possa realmente essere. Gli sforzi compiuti dall’ex ONB, nell’ultimo quinquennio, di accorciare le distanze tra gli organi amministrativi e la base degli iscritti non hanno evidentemente sortito l’effetto di avvicinare tutti questi alla conoscenza dei problemi della categoria. Problemi in gran parte risolti, e naturalmente già cancellati nella memoria collettiva, ma che certo non hanno eliminato tutte le criticità esistenti.

Un duro lavoro resta da fare, affinché annosi problemi vengano a risoluzione e nuove competenze siano a disposizione della grande famiglia dei Biologi

Un duro lavoro di tipo legislativo e normativo resta ancora da realizzare, affinché annosi problemi vengano a risoluzione e nuove competenze e opportunità siano messe a disposizione della grande

famiglia dei Biologi italiani. Dalle Specializzazioni tenute presso i Dipartimenti delle Facoltà di Scienze Biologiche, alla giusta remunerazione degli stessi specializzandi, dall’ampliamento delle competenze in taluni ambiti specifici della professione, al nuovo Albo degli iscritti secondo diverse modalità di accesso al medesimo, dalla legge sulla Nutrizione all’inserimento dei Biologi negli enti locali (Biologo di Comunità), dall’ampliamento delle possibilità di inserimento dei Biologi nei nuovi campi di esercizio professionale tuttora scoperti come Ambiente, Sicurezza alimentare, Epigenetica e Genomica al completamento delle intese

Editoriale 4 Giornale dei Biologi | Mag 2023

in itinere con FAO, Federfarma ed Arpa.

A questo va aggiunto il critico e complicato rapporto venutosi a creare con alcuni Ordini Regionali che si muovono in antagonismo alla Federazione e il quadro sarà così completo. Per fare tutto questo occorrono condizioni di base senza le quali manca l’amalgama e la fiducia reciproca tra dirigenti per poter fare un lavoro per la Categoria proficuo ed in armonia. Ad oggi queste condizioni di sincera collaborazione e di armonica fusione non sussistono!

Per fare tutto questo occorrono condizioni di base senza le quali manca l’amalgama e la fiducia reciproca tra dirigenti per poter lavorare in armonia

A coloro che hanno seguito la consueta trasmissione “Il Presidente risponde” abbiamo spiegato quali siano i

fattori che hanno determinato questa situazione critica e di antagonismo tra Ordini territoriali e Federazione nazionale, quali gli esiti delle elezioni che hanno eletto i componenti del Comitato Centrale della FNOB sulla base del comportamento di taluni presidenti che hanno deviato dagli impegni “politici” assunti con gli elettori non votando la lista “Biologi per il Rinnovamento” nel suo complesso. Un siffatto comportamento ha determinato l’ingresso nel Comitato Centrale della FNOB di persone non in linea con la Presidenza né con il manifesto politico-programmatico in base al quale è stato riscosso un largo e maggioritario voto.

Editoriale Giornale dei Biologi | Mag 2023 5

Ben oltre ventimila biologi hanno conferito alla lista “Biologi per il Rinnovamento” la maggioranza assoluta degli eletti in dieci regioni su undici e tuttavia questa non si è convertita in maggioranza assoluta nella FNOB come era moralmente e politicamente giusto che avvenisse. Se si tradisce il mandato ricevuto liberamente e democraticamente dagli iscritti viene meno il mandato fiduciario tra eletti ed elettori e con esso la legittimazione a governare. Su queste basi etiche si fondano la democrazia e la legittimità a governare le istituzioni e quella che deve governare i Biologi non può e né deve fare eccezioni.

degli iscritti piegandosi al loro volere, al consenso da questi espresso e agire di conseguenza. Se così non fosse tutti gli sforzi per chiamare gli iscritti a decidere si rivelerebbero una miserabile quanto inutile messa in scena.

Se si tradisce il mandato ricevuto liberamente e democraticamente dagli iscritti viene meno il mandato fiduciario conseguentemente creato tra eletti ed elettori

Bisogna rispettare il voto

Ricapitolando: il voto difforme al mandato ricevuto dagli elettori, espresso da alcuni Presidenti regionali impedisce l’osservanza piena e coerente di quel mandato elettorale. Sia ben chiaro che non vi sono, in questo ragionamento, idiosincrasie ed antipatie personali. Si tratta bensì della mera conseguenza di quanto dovuto alle decisioni assunte dai Biologi elettori. Parimenti chiaro deve esse -

Editoriale 6 Giornale dei Biologi | Mag 2023

re il concetto che tali difformità non possono né devono rimanere occultate dentro le mura del “Palazzo”, ma essere rese note e spiegate alla base degli iscritti nella sua totalità. Una chiarezza coerente che è il presupposto per esercitare moralmente e fattualmente il potere di governare il Biologi Italiani. Innanzi a questa traumatica evenienza ciascuno ha il dovere di trarne le conseguenze ed operare perché ci sia rispondenza tra la volontà degli elettori e quella degli eletti. Niente di buono può essere costruito sull’inganno e sul trasformismo politico amministrativo e ritengo che tale comportamento non possa essere ritenuto una ba -

Pertanto, la scelta non può che essere il ritorno agli elettori, affinché si possa eleggere un nuovo Comitato Centrale, chiamando i presidenti regionali alle urne

nalità sulla quale sorvolare. Pertanto, la scelta non può che essere il ritorno agli elettori, affinché si possa eleggere un nuovo Comitato Centrale. Questo dovrà avvenire chiamando i Presidenti regionali ad esprimersi nuovamente, e si spera, stavolta, sulla scorta del mandato da questi ricevuto dai propri elettori in coerenza col programma e le liste presentate in ciascuna regione. Si perderà un poco di tempo, d’accordo, ma lo si guadagnerà in appresso amministrando in coerenza alle decisioni assunte dai Biologi che si sono recati alle urne. Che sono e restano gli unici depositari delle decisioni da assumere.

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SAD, QUEL MALESSERE CHE ARRIVA PUNTUALE A OGNI CAMBIO DI STAGIONE

Nelle sue varie forme il disturbo affettivo stagionale affligge un italiano su dieci Tristezza, stanchezza e cattivo umore sono provocati da una particolare sensibilità

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Primo piano di Rino Dazzo

Gli anglofoni la chiamano SAD, acronimo che in inglese significa «triste». E la tristezza, il cattivo umore, la stanchezza, la fiacchezza e la sensazione di non avere energie, in effetti, sono alcuni dei sintomi più caratteristici del disturbo affettivo stagionale, una malattia - o se si preferisce: un disturbo, appunto – più ricorrente di quanto si possa immaginare. Si stima, infatti, che ne soffrano il 3,5% degli italiani, mentre poco più del 10% è affetto da forme più lievi, conosciute come S-SAD. La differenza tra sindrome e sotto-sindrome? Nel primo caso si riscontrano cinque o più segni caratteristici, nel secondo al massimo quattro.

Ma in cosa consiste e perché si parla di Seasonal Affective Disorder? Conosciuta anche come depressione stagionale, insorge principalmente all’inizio dell’autunno, prolifera essenzialmente nei mesi invernali per poi scomparire progressivamente in primavera o in estate e ricomparire l’anno successivo. Più raramente si verifica il percorso opposto: il disturbo affettivo compare all’inizio della stagione calda, raggiunge il suo picco in primavera per poi attenuarsi in estate e scomparire in autunno e in inverno. E così via.

Fu un medico sudafricano, Norman Rosenthal, a sperimentare sulla propria pelle e a codificare, alla metà degli anni Ottanta, gli effetti del disturbo affettivo stagionale. Si trasferì infatti dal suo paese agli Stati Uniti ed ebbe modo di notare come, durante i mesi invernali, si sentisse molto meno attivo e produttivo, più depresso, sfiduciato e poco motivato. Insieme ad altri colleghi iniziò a sviluppare ricerche e studi su questa condizione, in particolare sul ruolo della melatonina, della serotonina e del ciclo sonno-veglia.

Quasi quarant’anni dopo sulla SAD se ne sa molto di più ed è Armando Piccinni, professore straordinario di Psichiatria alla Saint Camillus International University of Health and Medical Sciences, nonché presidente e fondatore della Brain Research Foundation – Italia, a illustrare nel dettaglio i contorni di questa condizione subdola e fastidiosa. «Si tratta di un malessere estremamente diffuso, che si può presentare in forme differenti, alcune più intense, altre lievi. Si può sospettare di avere il disturbo affettivo stagionale ogni volta che c’è alterazione del sistema vegetativo, soprattutto quando si notano cambiamenti del sonno: insonnia iniziale, terminale, centrale, diminuzio-

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Primo piano

ne delle ore complessive di sonno. E poi quando si è in presenza di incremento o riduzione dell’appetito, alterazione della pressione del sangue, fenomeni di ansia, tachicardia, giramenti di testa, oppressione al petto».

«Noi tutti avvertiamo il cambiamento di stagione», sottolinea il professor Piccinni. «Chi non ricorda il detto: aprile dolce dormire? In determinati periodi dell’anno c’è chi dorme di più o di meno, alcuni mangiano di più e altri meno. Chi soffre di disturbo affettivo stagionale in genere con l’inizio della stagione fredda lamenta una riduzione delle energie, meno iniziative, astenia, stanchezza, fiacchezza, minore voglia di costruire, intraprendere situazioni e lavori nuovi. Una condizione che si riscontra soprattutto nelle donne e più in generale in soggetti che hanno una particolare sensibilità, non si sa bene a cosa. C’è chi parla di una condizione legata all’aumento o alla diminuzione delle ore di luce, chi si sofferma sull’inclinazione dei raggi solari, chi su altro».

C’è una lontana correlazione tra la SAD e il disturbo bipolare: «Quest’ultimo ha fasi più chiare, manifeste e si verifica in soggetti che hanno maggiore sensibilità a eventi, traumi o farmaci. La SAD interessa il sistema dell’umore e riguarda persone ugualmente sensibili, che in questo periodo si scoprono più vulnerabili, an-

siose, impressionabili, o che si spaventano con maggiore facilità. Si tratta di persone che hanno un rapporto con il clima abbastanza stretto e che nelle brutte giornate spesso hanno una condizione di malessere, di demoralizzazione».

I cambiamenti ci spaventano, anche e soprattutto quelli legati al clima: «È la stabilità a darci forza e a svolgere funzioni rassicuranti. La primavera e l’autunno sono stagioni di divenire, di passaggio, di adattamento dal caldo al freddo e viceversa. In queste stagioni di mezzo il cambiamento è continuo e l’organismo deve fare sforzi per adattarsi. La perdita delle abitudini consolidate provoca stress».

Il fatto che i confini tra le stagioni siano sempre più sfumati aggrava il problema: «Il nostro cervello è settato da milioni di anni sull’alternanza stagionale, se ciò non accade produce stress», spiega il professor Piccinni. «Se ci guardiamo intorno, vediamo che comunque la natura, il mondo vegetale è assolutamente in fermento in questo periodo. Indipendentemente dalla nostra percezione, la stagione sta cambiando e lo sta facendo in una maniera traumatica per noi, visto che non è il cambio che anche psicologicamente ci aspettiamo. Questi aspetti creano a loro volta uno stress, perché gli ulteriori cambiamenti di programma fanno perdere abitudine».

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piano
Armando Piccinni è professore straordinario di Psichiatria alla Saint Camillus International University of Health and Medical Sciences, nonché presidente e fondatore della Brain Research Foundation – Italia.
Primo
© BUNDITINAY/shutterstock.com

Chi soffre di disturbo affettivo stagionale è condannato inevitabilmente a soffrire per mesi? Certo che no. Esistono rimedi e cure più o meno efficaci per questa malattia ricorrente. Tre le più utilizzate: la light therapy, l’assunzione di farmaci antidepressivi e la psicoterapia. Tutte hanno dei pro e dei contro, al professor Armando Piccinni il compito di illustrare nel dettaglio pregi e difetti di ciascun percorso terapico. «La light therapy ha il vantaggio di essere un rimedio assolutamente naturale, senza effetti collaterali. I benefici, però, sono effimeri», avvisa. «Si tratta di una terapia utilizzata soprattutto nel recente passato, che dimostra quanto la luce sia un elemento importante nell’ambito della SAD». L’obiettivo è ricreare un’atmosfera simile a quella dell’alba: «Proprio così, non a caso la lampada messa davanti agli occhi del paziente è da 10mila lux, una lunghezza d’onda particolare, quella dell’alba appunto. L’alba ha una funzione rassicurante, di ripresa della vita, di fine dei pericoli legati al buio, alla notte. C’è un problema, però: una volta sospeso il trattamento i benefici vanno subito via. Si tratta dunque di un palliativo, essenzialmente, anche se privo di controindicazioni e di pericoli. Tutti i led delle lampade luminoterapiche, infatti, sono privi di raggi ultravioletti».

Sui farmaci, invece, occorre muoversi con maggiore cautela e il professor Piccinni fa un’importante precisazione: «Devono essere prescritti sempre dal medico generico o ancor meglio da una specialista. Gli antidepressivi in questione sono i classici serotoninergici, che agiscono aumentando la quantità di neurotrasmettitore libero e favorendo quindi la stimolazione dei recettori. Questo tipo di farmaci ormai è diventato lo strumento terapico più utilizzato nell’ambito del disturbo affettivo stagionale, anche perché garantisce i risultati più stabili e duraturi».

DISTURBO AFFETTIVO

STAGIONALE: LE CURE

Gli strumenti terapici in grado di fronteggiare la SAD: light therapy, farmaci, psicoterapia e piccoli trucchetti

C’è poi la possibilità di ricorrere alla psicoterapia: «Che però ha tempi lunghi, decisamente più lunghi rispetto ai ritmi stagionali della SAD. Anche in questo caso il vantaggio è legato alla non assunzione di medicinali e all’assenza di controindicazioni, ma molto spesso nel frattempo gli effetti più evidenti della sindrome si sono attenuati col passaggio a un’altra stagione. Del resto – conclude Piccinni – parliamo di una condizione sfacciatamente biologica, non psicologica, e dunque le soluzioni più efficaci vanno evidentemente ricercate altrove».

Ci sono poi degli accorgimenti pratici che si possono adottare per mitigare o prevenire gli effetti più fastidiosi di questo tipo di disturbo, come la gestione dello stress attraverso tecniche di rilassamento, meditazione o musicoterapia, oppure rendere il proprio ambiente più luminoso o soleggiato, o ancora aumentare l’esercizio fisico svolgendo attività all’aperto e in particolare nelle ore diurne. Quasi dei trucchetti del mestiere per addolcire e rendere meno traumatico l’impatto con le manifestazioni più opprimenti di questa particolare condizione. (R. D.)

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© Image Point Fr/shutterstock.com
Primo piano
Light therapy.

«IN QUEI PERIODI MI SENTO SENZA FORZE»

Il disturbo affettivo stagionale raccontato da chi ne soffre

Quando anche le attività più comuni diventano complicate

Periodi più o meno lunghi dell’anno che diventano un’autentica via crucis, con le normali attività quotidiane trasformate in piccole imprese compiute a dispetto di stanchezza, stress e cattivo umore. Com’è la vita in autunno e in primavera (ma i confini tra le varie stagioni ormai sono sempre meno netti) per chi soffre di disturbo affettivo stagionale? Un malessere che accomuna giovani e anziani, uomini e donne, anche se queste ultime sono la categoria più colpita.

Elena, studentessa universitaria di 25 anni, vive con particolare angoscia

un determinato momento dell’anno: «L’arrivo della primavera e il passaggio all’ora legale, due condizioni che mi provocano un doppio scombussolamento sia a livello di adattamento al clima che nei ritmi quotidiani. Per diverse settimane devo fare i conti con una sonnolenza incredibile, con una sensazione di affaticamento difficile da spiegare a parole. Modificare le proprie abitudini è dura, anche se bisogna farlo per forza».

Lo è anche per Rossella, moglie e mamma 40enne, costretta a fare i conti in alcuni periodi ben definiti dell’anno con una serie di fastidio-

si compagni di viaggio: «Per quanto mi riguarda in primavera avverto un continuo senso di spossatezza, con aumento della sonnolenza non tanto di notte, quanto di giorno. In autunno, invece, un po’ meno. Anzi il problema diventa l’opposto: soffro di insonnia. Il senso di affaticamento, invece, è comune a entrambe le stagioni. Per me diventa difficile convivere con una sensazione di dolore alle articolazioni e alle cartilagini, dalle ginocchia alla cervicale. E poi con i giramenti di testa e con un fastidioso senso di inappetenza, alternato a momenti di iper appetito». Come se la stagione di passaggio sconvolgesse lo stesso metabolismo. E non solo. «Mi rendo conto da me di non essere del solito umore, se poi non ci arrivo da sola, me lo fanno notare gli altri (ride, ndr). Il nervosismo schizza ai massimi livelli e insieme al cattivo umore sono sopraffatta da un senso di cupezza che non ha spiegazione logica. Non conoscevo questo disturbo, poi mi hanno indirizzata da un medico e adesso le cose sono un po’ migliorate».

Chi fa i conti con la SAD da 83 anni è Lillo, nonno in pensione solitamente energico e pimpante. Ma non sempre: «In quei periodi mi sento senza forze, tutto il peso dell’età si fa sentire di colpo», ammette. Le sensazioni sono simili a quelle vissute dalle più giovani compagne di diagnosi: «Fatica, stress, mancanza di appetito, sonnolenza, persino sbalzi di pressione e tachicardia. All’inizio non ci facevo neppure caso, poi ho notato che erano tutti sintomi che emergevano soprattutto in autunno, ma anche in misura minore e diversa in primavera. Ne parlai col mio medico curante, mi disse che erano normali conseguenze legate ai cambiamenti di stagione. Insomma, non mi prese troppo sul serio». Ora le cose sono cambiate: «C’è maggiore consapevolezza riguardo a questa problematica, anche da parte degli specialisti. E anch’io ho imparato ad affrontare al meglio questa situazione». (R. D.)

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STAMINALI, IL GENE ESRRB

GUIDA IL DIFFERENZIAMENTO DELLE CELLULE PLURIPOTENTI

Intervista a Elena Carbognin, dell’Armenise-Harvard Pluripotent Stem cell laboratory dell’Università di Padova, prima autrice dello studio pubblicato su Nature Cell Biology

Nel differenziamento delle cellule staminali pluripotenti c’è un gene che gioca un ruolo chiave: il suo nome è Esrrb (Estrogen Related Receptor Beta) e si comporta come un Virgilio che, nella selva oscura di questo complesso processo biologico, guida il cambiamento nella fase formativa e imprime la direzione che le cellule seguono nel loro cammino.

La scoperta, realizzata dai ricercatori dell’Università di Padova in collaborazione con l’Istituto Telethon di genetica e medicina (TIGEM) di Pozzuoli e lo European Molecular Biology Laboratory (EMBL) di Roma, è avvenuta osservando le fasi iniziali del differenziamento e rilevando che cruciali sono i due giorni in cui cambiano metabolismo e organizzazione del DNA. Per risalire all’agente responsabile di questi mutamenti, il team di ricerca ha tolto il gene Esrrb e constatato che, in sua assenza, le cellule staminali pluripotenti si differenziano senza controllo.

Lo studio, intitolato “Esrrb guides naive pluripotent cells through the formative transcriptional programme” è stato pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology e finanziato dalla Fondazione Giovanni Armenise e dalla Fondazione Telethon. Ne parliamo con Elena Carbognin, prima autrice della ricerca e componente del gruppo di ricerca dell’Armenise-Harvard Pluripotent Stem cell laboratory dell’ateneo patavino.

Dottoressa Carbognin, cosa si intende per differenziamento delle cellule staminali e a cosa serve?

Durante il processo attraverso cui una cellula indifferenziata muta in una cellula differenziata, cioè adulta, in grado di assolvere specifiche funzioni, il nucleo della cellula si trasforma provocando l’accensione di una serie di geni e lo spegnimento di altri. Ciò avviene in modo diverso in base al tipo di tessuto in cui la cellula staminale si differenzia. La serie di eventi che portano al differenziamento delle cellule staminali è ancora sconosciuto. Negli ultimi anni si è ipotizzato che le cellule dovessero transitare attraverso una fase intermedia “preparatoria”, anche detta “formativa”, prima di differenziare. In cosa consistono i “poteri speciali” delle cellule staminali indagate dalla vostra ricerca?

Le cellule staminali pluripotenti oggetto del nostro studio sono in grado di generare tutti i tessuti dell’organismo adulto, dando vita, ad esempio, alle cellule del cervello, del cuore e dell’intestino, proprio come avviene durante lo sviluppo dell’embrione.

“Poteri speciali” che, però, non produrrebbero effetti altrettanto speciali se non fossero governati da una guida. Ed è qui che entra in gioco Esrrb. Come siete arrivati a identificare questo gene e la sua funzione?

Cercavamo di capire come fosse regolata la transizione attraverso la fase formativa e, dunque, comprendere come le cellule staminali si

14 Giornale dei Biologi | Mag 2023
Intervista
di Ester Trevisan

preparano al differenziamento. Abbiamo visto che togliendo il gene Esrrb, il differenziamento delle cellule staminali pluripotenti procedeva in maniera incontrollata e, soprattutto, che le cellule staminali non erano più in grado di differenziare in cellule germinali, ossia quelle cellule che, successivamente alla fecondazione, danno origine ad un nuovo organismo.

Perché è importante aver scoperto il ruolo di Esrrb?

La scoperta di questo meccanismo molecolare è di fondamentale importanza perché ora abbiamo la possibilità di utilizzare un sistema estremamente potente che sappiamo anche controllare minuziosamente.

Quali prospettive si aprono grazie ai risultati di questa ricerca?

Grazie a questa scoperta abbiamo aggiunto un tassello fondamentale per capire come è regolato il meccanismo di differenziamento cellulare. Le prospettive sono entusiasmanti, sia per la ricerca di base che per future applicazioni in medicina rigenerativa.

Da chi è composto il team di ricerca?

Lo studio è stato svolto nell’Armenise-Harvard Pluripotent Stem cell laboratory dell’Università di Padova, il laboratorio di ricerca sulle cellule staminali pluripotenti diretto dal professor Graziano Martello, grazie al contributo di un team di giovani e brillanti ricercatori e collaboratori dell’EMBL di Roma e del TIGEM di Pozzuoli.

Per risalire all’agente responsabile di questi mutamenti, il team di ricerca ha tolto il gene Esrrb e constatato che, in sua assenza, le cellule staminali pluripotenti si differenziano senza controllo.

CHI È

Elena Carbognin si è laureata all’Università di Padova dove ha ottenuto un dottorato di ricerca in Genetica e Biologia molecolare dello sviluppo. Dopo un periodo all’estero in Francia e all’Università di Cambridge, UK, è rientrata in Italia e ora, come Ricercatrice al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, si occupa di studiare le cellule staminali pluripotenti e in particolare i meccanismi molecolari e metabolici che regolano il loro mantenimento e il loro differenziamento.

” Giornale dei Biologi | Mag 2023 15
© Kateryna
Kon/shutterstock.com
Cellule staminali.

COMBATTERE ANSIA E STRESS AL MUSEO CON L’ARTE

LA BIOLOGIA E L’ARCHEOLOGIA

In caso di stress, la cura migliore è… visitare un museo. Non è un modo di dire, tutt’altro, ma il risultato di uno studio scientifico interdisciplinare che coinvolge diversi Atenei italiani. Si chiama ASBA (Anxiety, Stress Brain-friendly Museum Approach) e, attraverso l’utilizzo di tecnologie innovative come l’interfaccia cervello-computer, ha analizzato i ritmi cerebrali dei partecipanti combinandoli con le risposte a questionari sulla percezione di ansia, stress e mindfulness. Al centro, la relazione tra tali fattori psicologici e l’esperienza museale.

A parlarcene è Raffaella Folgieri, esperta di intelligenza artificiale del gruppo di ricerca CARS (Cognitive Affective Research studies) affiliato al laboratorio PhiLab del dipartimento di Filosofia Piero Martinetti dell’Università Statale di Milano, del quale fanno parte gli psicologi Claudio Lucchiari e Maria Elide Vanutelli, che in questo studio hanno curato gli aspetti legati alla psicologia cognitiva.

Da quale spunto è nato lo studio?

Da un’intuizione di Annalisa Banzi, storica dell’arte al Centro Studi sulla Storia del Pensiero Biomedico dell’Università di Milano-Bicocca e si è sviluppato con la collaborazione del nostro gruppo di ricerca. L’idea di base è comprendere come l’esperienza museale possa favorire la gestione dell’ansia e dello stress, inducendo uno stato di benessere, promuoven-

do il valore del museo come depositario di un patrimonio culturale ma anche come centro vitale delle comunità. Il progetto ha visto anche la collaborazione della Sapienza di Roma e di molti esperti.

Quando è partito?

A ottobre 2022. La fase iniziale ha richiesto un’attenta progettazione sperimentale per garantire l’accuratezza e l’affidabilità dei risultati. Poi sono stati selezionati i musei da coinvolgere, tenendo conto di criteri specifici come la varietà degli ambienti, la rappresentatività delle collezioni e l’accessibilità per i partecipanti allo studio, nonché la presenza di un’area verde intorno al museo per garantire l’esecuzione di una delle attività proposte, Green Art, totalmente sperimentale e basata sui benefici della natura su ansia e stress.

Ai fini dello studio, quali definizioni può dare di ansia, stress e mindfulness?

L’ansia viene intesa come una risposta emotiva e fisiologica caratterizzata da sentimenti di apprensione, preoccupazione e tensione che può manifestarsi in diverse forme, come ansia anticipatoria o situazionale, ansia di stato (relativa a un certo momento) o di tratto (duratura). Lo stress viene definito come una risposta psicofisiologica a stimoli o situazioni percepiti come sfidanti o minacciosi per l’equilibrio emotivo e fisico. La mindfulness, infine, rappresenta un’attitudine di consapevolezza e

“ 16 Giornale dei Biologi | Mag 2023 Intervista
Secondo lo studio ASBA l’immersione nell’arte porta a ridurre gli stati negativi fino al 25% Ne parla Raffaella Folgieri, esperta di intelligenza artificiale della Statale di Milano di Chiara Di Martino

presenza mentale durante l’esperienza museale.

La raccolta dati è terminata?

Non ancora; tuttavia, abbiamo già raccolto i dati relativi alla prima fase, che ha coinvolto la mindfulness. Ebbene: anche all’interno dei setting museali predisposti, si mostra efficace nel ridurre l’ansia e lo stress percepito. È importante sottolineare che si tratta di un progetto a lungo termine, siamo solo all’inizio.

Come avete selezionato i musei oggetto di questa prima fase? Ce ne saranno altri?

Abbiamo guardato alla diversità delle esperienze museali offerte da due luoghi: la Galleria d’Arte Moderna, che ospita una vasta collezione di dipinti e statue che abbracciano diversi periodi storici e stili artistici, e il Museo di Storia Naturale, dove è possibile conoscere la diversità biologica del nostro pianeta attraverso esemplari di animali, piante, minerali e reperti archeologici. La scelta mira a esplorare diverse tipologie di esperienze, dalle opere d’arte visiva alla divulgazione scientifica. In futuro potremmo includerne altri.

I risultati, in sintesi?

Direi promettenti. L’immersione nell’arte

visiva e nei diorami scientifici può avere un impatto significativo sullo stato emotivo e cognitivo dei visitatori. In particolare, è evidente l’effetto, misurato a breve termine, sull’ansia e lo stress percepito che arriva a diminuire anche del 25%. Aumentano invece le sensazioni di benessere e le emozioni positive. Inoltre, sembra che la pratica della mindfulness durante la visita possa favorire una maggiore consapevolezza del momento presente e un coinvolgimento più profondo nell’esperienza. Lo studio dovrebbe terminare a inizio 2024 con l’ultima fase, che prevede l’interazione tra gli effetti degli oggetti artistici e quelli della natura. Sarà inoltre costruita una rete di ricercatori e istituzioni interessati allo sviluppo del progetto.

Che impatto può avere?

Un impatto sia sul campo della psicologia cognitiva sia su quello delle neuroscienze, fornendo nuove evidenze sull’influenza dell’arte e della contemplazione artistica sulle emozioni e sui processi mentali. Inoltre, potrebbe contribuire a sviluppare interventi terapeutici basati sull’esperienza estetica per la gestione dell’ansia e dello

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Lilia
stress. “Sembra che la pratica della mindfulness durante la visita possa favorire una maggiore consapevolezza del momento presente e un coinvolgimento più profondo nell’esperienza. ”. Raffaella Folgieri Galleria degli Uffizi, Firenze.

ACQUA, LEGIONELLA TRA

I PARAMETRI DI VALUTAZIONE DEL RISCHIO BIOLOGICO

Intervista a Fiorenzo Pastoni sul D.Lgs 18/2023 che introduce novità mirate a proteggere i consumatori dagli effetti negativi prodotti dalle acque contaminate destinate al consumo umano

Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 6 marzo scorso, il 21 marzo è entrato in vigore il Decreto Legislativo numero 18 del 23 febbraio 2023 che disciplina la qualità delle acque destinate al consumo umano. Con questo provvedimento, lo Stato italiano attua la Direttiva (UE) 2020/2184 del 16 dicembre 2020.

Come specificato dall’articolo 1 della normativa, gli obiettivi concernono “la protezione della salute umana dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, assicurando che le acque siano salubri e pulite, nonché il miglioramento dell’accesso alle acque destinate al consumo umano”.

Il decreto introduce alcune novità sostanziali in materia di rischio biologico e controlli. Per capire di cosa si tratta e qual è il coinvolgimento della figura professionale del biologo, abbiamo intervistato Fiorenzo Pastoni, biologo e professore a contratto di Legislazione, Normazione Tecnica e Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi di Milano.

Professor Pastoni, quali sono le novità principali introdotte dal Dlgs 18/2023 sul versante delle analisi microbiologiche delle acque destinate al consumo umano?

Un primo punto rilevante del decreto è il concetto di “approccio alla sicurezza dell’acqua basato sul rischio”, sancito dall’articolo 6,

finalizzato a garantire la sicurezza delle acque destinate al consumo umano e l’accesso all’acqua “implementando un controllo olistico di eventi pericolosi e pericoli di diversa origine e natura”. Al proposito, un aspetto da sottolineare riguarda l’inserimento del genere batterico Legionella tra i “parametri pertinenti per la valutazione e la gestione del rischio dei sistemi di distribuzione interni”.

Perché è importante l’introduzione di questo parametro?

Legionella pneumophila è una specie batterica molto pericolosa per l’uomo, che si diffonde per via aerea e per il quale non mi risulta esserci ancora un vaccino. Dati recenti riconducibili al 2021, ricollocano in quasi 3.000 le schede di sorveglianza inviate all’Istituto Superiore di Sanità relative ad altrettanti casi di legionellosi nel nostro Paese. Aver inserito questa tipologia microbica tra i parametri, ne riconosce la presenza capillare non più soltanto nei luoghi di lavoro, come inizialmente configurata dalla legislazione italiana, ma in qualunque ambiente di vita in cui il consumo di acqua risulta, evidentemente, necessario e inevitabile.

Potremmo definirlo come un cambio di paradigma volto alla tutela della salute di ciascun cittadino?

Sì, si tratta di un passaggio fondamentale in questa direzione. E un altro aspetto importante codificato dal Decreto Legislativo 18/2023,

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Intervista

che coinvolge tutti i cittadini, riguarda l’obbligo dei gestori di fornire “a tutti gli utenti periodicamente, nella forma più appropriata e facilmente accessibile”, le informazioni concernenti, tra l’altro, la qualità delle acque destinate al consumo umano, inclusi i parametri indicatori e il prezzo dell’acqua destinata al consumo umano. Tale impostazione segue un vero e proprio orientamento della legislazione europea, introdotto dal Regolamento 1169/2011, entrato in applicazione in anni successivi, che persegue l’obiettivo di informare correttamente i consumatori affinché possano sempre adottare scelte consapevoli e diventare, quindi, protagonisti attivi della propria sicurezza.

Qual è il ruolo dei biologi in questo contesto?

L’acqua rientra tra le competenze riconosciute alla figura del biologo. Ad attribuirgliela è la legge numero 396 del 24 maggio 1967 sull’ordinamento professionale che, all’articolo 3, punto h, parla di “Analisi e controllo dal punto di vista biologico delle acque potabili e minerali”. Anche dopo l’emanazione della legge numero 3 dell’11 gennaio 2018 sul riordino delle professioni sanitarie, questo articolo è rimasto in vigore e comprova il coinvolgimento

Biologo, ha, tra l’altro, espletato la propria professione presso l’Unità Food & Drug/Consumer Protection della Commissione Europea e successivamente, in ambito italiano, presso UNICHIM. È stato presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Attualmente è Professore a contratto di Legislazione, Normazione Tecnica e Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi di Milano.

diretto dei biologi nell’evoluzione legislativa di cui parliamo.

Biologi, ma non solo. L’acqua rappresenta un tema trasversale che chiama in causa molteplici soggetti deputati a gestirla e a tutelarla.

Certo, non a caso l’acqua è definita un bene comune. È una risorsa indispensabile per la vita, ma ciononostante ne viene sprecata in quantità enormi. Secondo i dati Istat, nel 2018 in Italia è andato perso il 42 per cento del patrimonio idrico presente negli acquedotti a causa di rotture delle condutture e della vetustà degli impianti. Una situazione allarmante, alla quale bisogna assolutamente porre rimedio.

Secondo lei, la vicenda Covid ha alzato il livello di consapevolezza della popolazione sul rischio biologico?

La pandemia è stata un’esperienza brutale che, pur se a un prezzo altissimo, ha aperto gli occhi a tutti su quanto possa essere elevato il rischio biologico e dovrebbe aver migliorato la cultura della salute. A tale proposito, sarebbe di fondamentale importanza investire sulle giovani generazioni di studenti, introducendo nelle scuole l’educazione alla salute quale materia di insegnamento. (E. T.)

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Che cosa rende un bambino più timido di un altro? Quali sono i fattori che entrano in gioco nella socializzazione e nell’espressione di sé da parte dei più giovani? E quali le manifestazioni della timidezza a livello comportamentale, affettivo e fisiologico? A cercare di rispondere a tutte queste domande è stato un recente studio realizzato dagli scienziati della McMaster University e della Brock University, in Canada, pubblicato sulla rivista “Child Development”, e utile per approfondire un campo ancora poco esplorato e ricco di interrogativi.

Secondo gli esperti nordamericani, la timidezza nei bambini rappresenterebbe in parte una risposta alle novità e alle valutazioni sociali caratterizzata da nervosismo e paura, ma in parte potrebbe essere pure correlata in maniera intrinseca alla situazione affrontata. Teorie di lunga data sostengono che la timidezza possa essere concettualizzata come un tratto relativamente stabile nel corso dello sviluppo. In questi casi si è soliti parlare di timidezza di temperamento. Esiste però anche un’emozione associata a determinate situazioni sociali, e in questi casi si parla di timidezza di stato. Mettendo sotto la lente di ingrandimento le risposte affettive, comportamentali e fisiologiche di bambini ai quali era stato chiesto di svolgere alcune attività come compiti linguistici, gli studiosi hanno dedotto dai risultati emersi che nella maggior parte dei casi i più piccoli possono sperimentare uno stato emotivo caratterizzato da insicurezza.

La dottoressa Kristie Poole, che ha guidato la ricerca, ha spiegato: «Il nostro lavoro fornisce un supporto empirico all’idea secondo cui potrebbe esistere un sottogruppo di bambini timidi dal punto di vista caratteriale che manifestano una maggiore reattività comportamentale, affettiva e fisiologica in risposta a un fattore di stress sociale. Allo stesso tempo sembra che altri bimbi siano associati alla sola componente della timidezza di stato. I dati ottenuti - ha aggiunto l’esperta - sottolineano le molteplici componenti e il corso evolutivo della timidezza temperamentale».

Per realizzare lo studio, gli scienziati hanno coinvolto 152 bambini (79 maschi e 73

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femmine) di età compresa fra i sette e gli otto anni, reclutandoli da un database infantile della McMaster University. I piccoli partecipanti sono stati sottoposti ad elettrocardiogramma e hanno completato le attività richieste dagli esperti con uno sperimentatore in una stanza adiacente al caregiver, che invece ha risposto a un questionario relativo al temperamento dei propri figli con domande del tipo: “Il bambino si comporta in modo timido con le nuove persone?”. Ai piccoli è stato poi chiesto di tenere un discorso di un paio di minuti sul proprio compleanno collocandosi davanti a una videocamera e a uno specchio.

Grazie a questo escamotage, i ricercatori hanno avuto modo di codificare il loro comportamento e, in particolare, il livello di nervosismo auto-riferito e l’aritmia sinusale respiratoria sperimentati dai partecipanti quando è stato detto loro che i video sarebbero stati mostrati ai propri coetanei.

Per valutare il cambiamento riportato nel percorso di crescita dei bambini, a distanza di uno e due anni dal primo esperimento, gli scienziati hanno condotto degli esami di follow-up sui partecipanti. Come spiegato dalla stessa dottoressa Poole, all’incirca il 10% dei bambini ha mostrato una reattività allo stress sociale da un punto di vista fisiologico, comportamentale e affettivo. Il 25% dei bambini ha invece mostrato un modello di reattività allo stress sociale soltanto a livello affettivo, ri-

ferendo una sensazione di nervosismo associata alla timidezza di stato. I risultati dello studio forniscono prove empiriche rispetto ad alcuni assunti articolati per la prima volta dal defunto Jerome Kagan, diversi decenni fa. Il celebre psicologo americano in tempi non sospetti sostenne che la timidezza temperamentale può esistere come categoria distinta per alcuni bambini e che le caratteristiche che definiscono questa categoria sono relativamente stabili nel tempo e nel contesto. Poiché sappiamo che non tutti i bambini sono uguali e che la timidezza temperamentale precoce è un fattore di rischio per i problemi legati all’interiorizzazione, gli autori sottolineano che il lavoro futuro dovrebbe esaminare le conseguenze di queste scoperte per l’adattamento sociale, psicologico e scolastico dei bambini.

Secondo Poole, «è probabile che l’esperienza della timidezza di stato sia un’esperienza normativa relativamente comune per i bambini di questa età. Per un gruppo più ristretto di bambini caratterialmente timidi, tuttavia, essere al centro dell’attenzione può essere stressante nel tempo e in vari contesti. La ricerca non è conclusa: nei prossimi step, infatti, sarà interessante includere campioni più diversificati di partecipanti», essendo che lo studio ha interessato principalmente ragazzi bianchi provenienti da famiglie con status socio-economico medio-alto, rendendo difficile generalizzare i risultati.

I BAMBINI E LA TIMIDEZZA UN NUOVO STUDIO FA LUCE SULLE POSSIBILI CAUSE

Che cosa rende un bambino più timido di un altro? Ecco i molteplici fattori che entrano in gioco nella risposta dei più piccoli analizzati da un team di ricercatori canadesi

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La timidezza nei bambini rappresenterebbe in parte una risposta alle novità e alle valutazioni sociali caratterizzata da nervosismo e paura, ma in parte potrebbe essere pure correlata in maniera intrinseca alla situazione affrontata.
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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE DIAGNOSTICHERÀ I TUMORI DEI POLMONI IN ANTICIPO

La nuova tecnologia sperimentata negli Usa promette di portare una rivoluzione nel settore: in futuro consentirà ai medici di intervenire quando il cancro è ancora curabile

C’è un legame che oltrepassa secoli e secoli di storia, quasi a rappresentare un ponte verso il futurosi spera il più prossimo possibile - nel nuovo sistema di intelligenza artificiale che promette di rivoluzionare la diagnosi del tumore dei polmoni. “Sybil”, questo il nome attribuitole dagli scienziati del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) con la collaborazione di medici del Massachusetts General Hospital, rappresenta infatti l’evoluzione ideale della Sibilla dell’oracolo greco, la figura che riceveva profezie divine comunicandole agli esseri umani. In questo caso il sistema messo a punto dagli esperti statunitensi si occuperà di argomenti più “terreni”, impegnandosi a leggere le Tac ai polmoni sino ai dettagli infinitesimali, così da riuscire a prevedere le aree in cui si formerà un tumore nel giro di uno, tre o persino cinque anni. Per restare nel mito, qualcuno potrebbe domandarsi se non siano questi dei voli pindarici, ma l’impiego in via sperimentale di Sybil - non essendo stata ancora approvata dalla Food and Drug Administration - ha mostrato comunque dei risultati sorprendenti. Il sistema è stato infatti capace di prevedere la comparsa di cancro polmonare con una pre-

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cisione compresa tra l’86 e il 94%. Un dato a maggior ragione importante se si considera che il tumore non appariva sulla normale Tac. Vista l’accuratezza della previsione, trial sono già in corso per arrivare all’approvazione di Sybil nella diagnosi anticipata del tumore ai polmoni, ovvero della condizione che ad oggi rappresenta la prima causa di morte per cancro.

Lecia Sequist, oncologa del Massachusetts General Hospital e parte del team di medici e ingegneri informatici che hanno messo a punto Sybil, intervistata dalla NBC ha spiegato che al momento la maggior parte dei pazienti con tumore dei polmoni viene diagnosticata quando la malattia è già in uno stadio avanzato. «La lettura ad occhio nudo delle Tac mostra infatti soltanto la superficie dell’ammontare dei dati nascosti all’occhio umano», ha

Anant Madabhushi, professore nel dipartimento di ingegneria biomedica presso la Emory University School of Medicine di Atlanta, intervistato a sua volta da NBC, ha chiarito che ad oggi esistono oltre 300 strumenti di intelligenza artificiale approvati dalla FDA per l’uso in radiologia. La maggior parte di essi è impiegata per assistere i medici nella diagnosi e nel trattamento del cancro, ma non per prevedere il futuro rischio di tumore di qualcuno, come fa Sybil. La peculiarità di questa tecnologia è infatti la ricerca di segni di dove è probabile che il cancro si presenti, dando modo ai medici di capire dove perlustrare e di individuarlo il prima possibile, quando è più curabile.

spiegato l’esperta. Sybil è invece «un algoritmo che riesce a identificare modelli di presentazione delle cellule polmonari sulle Tac e altri fattori in grado di individuare aree a particolare rischio. Letteralmente disegna un circolo in rosso intorno alla zona in cui ci sono alte probabilità che compaia un nodulo maligno negli anni successivi. Nelle nostre sperimentazioni, Sybil ha previsto con una accuratezza del 94% la zona in cui un anno dopo si è formata la neoplasia maligna». Grande ottimismo ruota attorno a questa tecnologia, tanto che secondo l’American Cancer Society l’intelligenza artificiale è sulla buona strada per diventare il metodo per la diagnosi anticipata del tumore dei polmoni.

Allo stato attuale i Centers for Disease Control and Prevention raccomandano che gli adulti a rischio di cancro ai polmoni si sottopongano ogni anno a una Tac a basso dosaggio per lo screening della malattia. Anche così, però, nemmeno l’occhio del radiologo più esperto può individuare tutto, ed è qui che Sybil promette di fare la differenza. La dottoressa Lequist spiega: «L’occhio nudo non può vedere tutto, l’intelligenza artificiale che abbiamo sviluppato riesce a guardare la scansione in un modo completamente diverso da come la guarda un radiologo umano».

Sybil ricorre a una singola Tac. Come spiegato da uno dei ricercatori, il dottor Florian Fintelmann, radiologo presso il Mass General Cancer Center, l’IA analizza l’immagine tridimensionale, cercando non solo segni di crescita anormale nei polmoni, ma anche altri modelli o fastidi che gli scienziati non comprendono ancora del tutto. In base a ciò che visualizza, Sybil fornisce previsioni sul fatto che una persona svilupperà il cancro ai polmoni nei prossimi uno-sei anni. In alcuni casi il sistema ha rilevato segni di cancro che i radiologi non hanno rilevato fino a quando i noduli non sono stati visibili su una Tac anni dopo. Secondo Fintelmann è possibile un futuro in cui lo strumento di intelligenza artificiale aiuterà i radiologi a prendere importanti decisioni terapeutiche, ma senza sostituirli del tutto: «Il futuro della radiologia sarà assistito dall’intelligenza artificiale. Ma ci sarà comunque bisogno di un radiologo per identificare dove si trova il cancro, individuare il miglior trattamento possibile ed eseguirlo». (D. E.).

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ARITMIA: LO SMOG PUÒ AUMENTARNE I RISCHI

Uno studio cinese, dove la qualità dell’aria è compromessa, mette in evidenza una preoccupante correlazione

Sul funzionamento del cuore incidono anche l’aria che respiriamo, lo smog e l’inquinamento. Già lo scorso anno uno studio aveva evidenziato un legame tra l’inquinamento atmosferico da particolato fine e le aritmie cardiache in adolescenti altrimenti sani. Oggi una nuova ricerca conferma che l’esposizione continuativa all’aria inquinata delle nostre città può essere correlata a un incremento del rischio della patologia cardiaca.

A sostenerlo è in particolare uno studio cinese pubblicato sulla rivista CMAJ (Canadian Medical Association

Journal) che ha interessato poco meno di duecentomila pazienti (190.115) alle prese con un’aritmia sintomatica di insorgenza acuta. I partecipanti allo studio provenivano da 2.025 ospedali in 322 città della Cina. La precisazione geografica non rappresenta un dettaglio banale in ragione dell’ormai da anni preoccupante situazione dell’aria nel Paese del Dragone, caratterizzata da livelli di inquinamento stabilmente e ampiamente al di sopra dei livelli di guardia indicati dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Con l’obiettivo di dimostrare quanto sia deleterio per la salute

delle persone l’inquinamento dell’aria, i ricercatori hanno deciso di esaminare attentamente i dati forniti dalle stazioni di monitoraggio dell’aria più vicine ai centri ospedalieri. Il dottor Renjie Chen, della Scuola di Sanità Pubblica dell’Università di Fudan, a Shanghai, in qualità di coautore dello studio ha dichiarato: «Abbiamo scoperto che l’esposizione acuta all’inquinamento dell’aria è associata ad un incremento del rischio di aritmia sintomatica». Una correlazione ad alto impatto, quella registrata dagli studiosi asiatici, se è vero, come appurato dai test svolti, che «i rischi si verificano in particolare nelle prime ore dopo l’esposizione e possono persistere per 24 ore».

Il dottor Chen ha inoltre chiarito che «le relazioni esposizione-risposta tra sei inquinanti e quattro sottotipi di aritmie erano approssimativamente lineari senza soglie di concentrazione riconoscibili». Dallo studio è emerso inoltre che tra i sei inquinanti presi in considerazione, il biossido di azoto (NO2) presentava l’associazione più forte con tutti e quattro i tipi di aritmie, e maggiore è l’esposizione, più forte è l’associazione. Gli autori dello studio, alla luce delle evidenze raccolte, concludono: «Per quanto i meccanismi esatti non siano ancora del tutto chiari, l’associazione tra inquinamento atmosferico e insorgenza acuta di aritmia che abbiamo osservato è biologicamente plausibile. Alcune prove hanno indicato che l’inquinamento atmosferico altera le attività elettrofisiologiche cardiache inducendo stress ossidativo e infiammazione sistemica, colpendo più canali di membrana, oltre a compromettere la funzione nervosa autonomica. Il nostro studio si aggiunge alle prove degli effetti cardiovascolari avversi dell’inquinamento atmosferico, rimarcando importanza di diminuire ulteriormente l’esposizione all’inquinamento atmosferico e di proteggere in maniera tempestiva le popolazioni sensibili in tutto il mondo». (D. E.).

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Salute
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Li vediamo già, gli amanti del pisolino post-pranzo, sul piede di guerra rispetto all’idea che uno dei momenti preferiti della loro giornata, quello grazie al quale sono in grado di ricaricare le pile e ripartire con le attività quotidiane, venga ora messo sotto accusa da uno studio scientifico. Eppure, lascia poco spazio a dubbi il lavoro condotto dall’équipe del Brigham and Women’s Hospital, membro fondatore del sistema sanitario Mass General Brigham, su tremila soggetti adulti di nazionalità spagnola sui quali è stata analizzata la correlazione fra la cosiddetta siesta e le reazioni dell’organismo, in particolare rispetto all’obesità e al metabolismo.

Nel dettaglio, sotto la lente di ingrandimento dei ricercatori sono finiti i dati appartenenti a 3.275 adulti iberici, e più precisamente della città di Murcia. Le caratteristiche metaboliche di base dei partecipanti sono state misurate presso l’Università di Murcia. Poi è stato un sondaggio sulle sieste a raccogliere ulteriori informazioni sui loro sonnellini e altri fattori legati allo stile di vita. La dottoressa Marta Graulet, tra le autrici della ricerca, ha precisato a questo proposito che «non tutte le sieste sono uguali. La durata del tempo, la posizione del sonno e altri fattori specifici possono influenzare gli esiti per la nostra salute».

Durante il loro lavoro di ricerca, gli esperti hanno avuto modo di scoprire una sorprendente correlazione: coloro che erano soliti concedersi sonnellini di 30 minuti o più presentavano maggiori probabilità di avere un indice di massa corporea più elevato, una pressione sanguigna più alta e un gruppo di altre condizioni associate a diabete e malattie cardiache (la famosa sindrome metabolica) rispetto a coloro che, invece, non fanno la siesta quotidiana. Ma attenzione, c’è una buona notizia per coloro che non sono soliti andare oltre

SIESTA POMERIDIANA OCCHIO ALLA BILANCIA

Uno studio indaga gli effetti del pisolino: tanti i fattori da considerare prima di rinunciare al riposo quotidiano

la mezz’ora di siesta: in questo caso lo studio ha infatti evidenziato che questi pisolini energetici non presentavano alcun rischio di obesità o di alterazioni metaboliche. A sconsigliare lunghe sieste ci sono anche altri aspetti da non sottovalutare: rispetto al gruppo senza, infatti, quello che era solito riposare per un periodo di tempo maggiore presentava valori più alti di circonferenza vita, livelli di glucosio a digiuno, pressione arteriosa sistolica (Sbp) e pressione arteriosa diastolica. Si è inoltre riscontrato come le lunghe sieste fossero associate a un ritardo nell’orario di cena e di

conseguenza di sonno notturno, con un maggiore apporto energetico a pranzo unito a fumo di sigaretta. Decisiva anche la posizione delle sieste: un letto, rispetto a un divano, potrebbe spiegare i maggiori rischi associati a sieste di durata più lunga.

Per quanto si tratti di uno studio osservazionale, ed è possibile che alcuni fattori possano essere una conseguenza dell’obesità e dunque non della siesta di per sé, altri studi precedenti hanno già mostrato una relazione causale tra sonnellini e obesità, in particolare con l’obesità addominale. (D. E.).

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“ALLENARE” LA MENTE PER RALLENTARE IL DECLINO COGNITIVO

Lo studio “Train the brain” è stato condotto da Istituto di neuroscienze del Cnr, Università di Pisa, Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa e Ircss Fondazione Stella Maris

L’obiettivo dello studio “Train the brain” dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-In), in collaborazione con Università di Pisa, Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa (Cnr-Ifc) e Ircss Fondazione Stella Maris, è valutare l’efficacia di un intervento che combina esercizio fisico e training cognitivo su pazienti anziani affetti da MCI (Mild Cognitive Impairment), ossia una forma lieve di deficit cognitivo.

Lo scopo principale della ricerca, i cui risultati preliminari sono stati pubblicati sulla rivista Age and Ageing, è prevenire o rallentare lo sviluppo della malattia di Alzheimer attraverso l’allenamento cognitivo. Il programma si concentra su persone anziane con danni lievi associabili allo stadio precedente la diagnosi di Alzheimer. La prevenzione e il rallentamento della progressione della malattia possono avere un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.

Il programma di allenamento prevede una serie di esercizi e attività mirate a stimolare le funzioni cerebrali, come la memoria, l’attenzione, il linguaggio e l’elaborazione delle informazioni. Tuttavia, è importante tenere presente che questo allenamento non è una cura definitiva per la malattia di Alzheimer, ma può contribuire a migliorare le capacità mentali e a ritardare la progressione della ma-

lattia. Una componente significativa del progetto è la valutazione delle funzioni cognitive dei pazienti a distanza di sette mesi dall’interruzione dell’allenamento. Questo darà un’idea di quanto tempo gli effetti dell’allenamento possano perdurare e se c’è la necessità di eseguire sessioni di allenamento continue per mantenere i benefici nel lungo termine.

I risultati dimostrano che gli stimoli ambientali sono in grado di svolgere un ruolo significativo nell’arrestare, e talvolta persino invertire, il declino cognitivo nei partecipanti.

Questi stimoli ambientali possono assumere diverse forme, come ad esempio la partecipazione a attività sociali, l’esercizio fisico regolare o l’adeguata stimolazione mentale attraverso giochi, puzzle e altre attività. L’importante è che tali stimoli siano adeguati e personalizzati in base alle esigenze e alle capacità individuali dei partecipanti.

Ciò che rende questi risultati ancora più interessanti è la loro durata nel tempo. Gli effetti benefici degli stimoli ambientali non sembrano essere solo temporanei, ma persistono nel lungo periodo.

È importante sottolineare che gli stimoli ambientali da soli potrebbero non essere sufficienti a contrastare completamente l’invecchiamento cerebrale o le condizioni neurodegenerative. Tuttavia, possono certamente contribuire a mitigare tale declino e a migliorare la qualità della vita delle persone coinvolte.

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Il progetto, come spiega Alessandro Sale, ricercatore del Cnr-In e primo autore della ricerca, è stato avviato nel 2012 e, a differenza delle sperimentazioni precedenti in cui i risultati venivano analizzati immediatamente dopo l’addestramento, in questa sessione è stata decisa un’osservazione degli effetti a distanza di diversi mesi. I risultati ottenuti indicano che gli stimoli ambientali hanno la capacità di rallentare e talvolta invertire il declino cognitivo dei partecipanti, con benefici che si mantengono nel tempo. Questi effetti sembrano essere indipendenti dai fattori generalmente associati alla demenza, come il genere, l’età e il livello di istruzione. Inoltre, è emerso che il miglioramento è più evidente nelle donne e nei partecipanti con un livello di istruzione inferiore, i quali presentavano inizialmente una maggiore compromissione delle funzioni cognitive.

Il programma è stato condotto in una struttura appositamente attrezzata situata nell’area di ricerca del Cnr di Pisa. Questo luogo rappresenta un’innovativa palestra mentale, unico in Italia, dove è stata creata un’area dedicata

A differenza delle sperimentazioni precedenti in cui i risultati venivano analizzati immediatamente dopo l’addestramento, in questa sessione è stata decisa un’osservazione degli effetti a distanza di diversi mesi. I risultati ottenuti indicano che gli stimoli ambientali hanno la capacità di rallentare e talvolta invertire il declino cognitivo dei partecipanti.

all’esercizio di memoria, logica e attenzione. I partecipanti sono stati coinvolti in cicli di stimolazione cognitiva e motoria, che includevano anche la musicoterapia, all’interno di un contesto altamente creativo che può essere definito come un ambiente di arricchimento ambientale. Sono state svolte attività sia individuali che di gruppo.

Secondo Lamberto Maffei, ricercatore associato e precedente direttore del CnrIn, lo studio apre prospettive per un’applicazione più ampia, con l’obiettivo di determinare importanti implicazioni sociali. L’aumento costante della popolazione anziana nei paesi industrializzati comporta un incremento di persone che sviluppano forme di demenza, come l’Alzheimer. In questo contesto, una vita ricca di stimoli si dimostra un paradigma ideale per favorire la plasticità cerebrale in modo non invasivo, con effetti particolarmente significativi negli anziani. Spesso, infatti, questa fascia di popolazione si trova a vivere in condizioni di isolamento e con una carenza o assenza di stimoli. (C. P.).

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Salute

VARIANTI GENETICHE

EMEDICINA PERSONALIZZATA

L’APPROCCIO STING-SEQ PER NUOVE TERAPIE

Il metodo sfrutta la tecnologia CRISPR per indirizzare specifiche regioni dei genomi e valutare l’effetto delle varianti sulle cellule e identificare i geni coinvolti

Lo sviluppo di STING-seq rappresenta una svolta significativa nella ricerca genetica e nell’identificazione delle varianti e dei geni coinvolti nei tratti umani. Questo innovativo approccio, creato da ricercatori della New York University e del New York Genome Center, unisce diverse metodologie, quali lo studio di associazione genetica, l’editing genetico e il sequenziamento di cellule singole, per affrontare le complessità del genoma non codificante.

La sfida di comprendere il ruolo delle varianti genetiche nel 98% del genoma che non codifica proteine è stata affrontata grazie a STING-seq. Questo approccio, recentemente pubblicato su Science, permette di stabilire collegamenti diretti tra le varianti genetiche e i tratti umani, consentendo agli scienziati di identificare i meccanismi genetici sottostanti e potenziali bersagli terapeutici per le malattie a base genetica.

Negli ultimi anni, la ricerca genetica ha subito una rivoluzione grazie agli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS), portando all’identificazione di migliaia di varianti genetiche associate a diverse malattie e tratti come l’altezza. Tuttavia, la maggior parte di queste associazioni si trova nel genoma non codifican-

te, che è ancora poco compreso rispetto alla porzione del genoma (2%) che codifica per le proteine. Inoltre, la presenza di varianti genetiche vicine l’una all’altra ha reso difficile determinare quale variante abbia un effetto causale e su quale gene abbia un’influenza.

STING-seq supera queste sfide consentendo una maggiore comprensione del genoma non codificante. L’approccio combina dati da diverse fonti e tecniche avanzate per identificare le varianti causali e i geni coinvolti nei tratti delle cellule del sangue. Ciò apre nuove possibilità per comprendere meglio le basi genetiche delle malattie, per individuare possibili obiettivi terapeutici, aprendo nuove prospettive per la medicina personalizzata e la cura delle malattie genetiche.

Il metodo Systematic Targeting and Inhibition of Noncoding GWAS loci with single-cell sequencing combina il vasto insieme di dati fornito dalle GWAS su scala di biobanca con caratteristiche biochimiche ed elementi normativi per identificare le varianti causali all’interno del genoma non codificante.

Per utilizzare STING-seq, i ricercatori sfruttano la tecnologia CRISPR per indirizzare specifiche regioni dei genomi associate alle GWAS. Successivamente, utilizzano il

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di Carmen Paradiso

sequenziamento delle singole cellule per analizzare l’espressione genica e proteica nelle regioni bersaglio. In questo modo, possono valutare l’effetto delle varianti sulle cellule e identificare i geni coinvolti.

In uno studio, i ricercatori hanno applicato STING-seq per scoprire i geni bersaglio delle varianti non codificanti associate ai tratti del sangue. Poiché i tratti del sangue sono facilmente misurabili attraverso gli esami del sangue di routine, oggetto di numerosi studi GWAS, i ricercatori hanno potuto utilizzare un vasto set di dati proveniente da quasi 750mila individui di diversa estrazione per studiare tali tratti.

Dopo aver identificato 543 regioni candidate del genoma potenzialmente coinvolte nei tratti del sangue, i ricercatori hanno utilizzato una variante di CRISPR chiamata “inibizione di CRISPR” per silenziare selettivamente queste regioni specifiche. Successivamente, hanno esaminato l’espressione genica nei geni adiacenti nelle singole cellule per determinare se vi fossero differenze tra le cellule in cui le varianti erano state silenziate e quelle in cui non lo erano. In questo modo, hanno potuto stabilire una connessione tra regioni non codificanti specifiche e geni bersaglio, identificando i percorsi

Questo approccio, recentemente pubblicato su Science, permette di stabilire collegamenti diretti tra le varianti genetiche e i tratti umani, consentendo agli scienziati di identificare i meccanismi genetici sottostanti e potenziali bersagli terapeutici per le malattie a base genetica.

cellulari coinvolti nel funzionamento di queste regioni non codificanti.

Uno dei punti di forza di STING-seq è la sua applicabilità a qualsiasi malattia o tratto. I ricercatori sono in grado di testare gruppi di varianti probabili e valutarne l’impatto sui geni, eliminando così l’incertezza che spesso sorgeva in passato riguardo alla correlazione tra varianti e geni più vicini. Ad esempio, nello studio, il gene CD52 è emerso come significativamente alterato nel caso di un tratto sanguigno chiamato “conta dei monociti”, nonostante non fosse il gene più vicino alla variante di interesse. Questo dimostra come STING-seq consenta di individuare con precisione quali varianti modulino l’espressione genica dei geni coinvolti.

In un’altra analisi, i ricercatori hanno identificato il gene PTPRC associato a 10 tratti del sangue, tra cui quelli legati ai globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Tuttavia, la presenza di diverse varianti non codificanti nelle immediate vicinanze rendeva difficile comprendere quale di esse potesse influenzare l’espressione del gene PTPRC. Grazie all’applicazione di STING-seq, i ricercatori sono stati in grado di isolare le varianti causali e determinare l’effetto specifico sull’espressione di PTPRC.

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SCOPERTA LA STRUTTURA 3D DELLE PROTEINE CHE

SORVEGLIANO IL GENOMA

Sporgono come tentacoli nell’apertura centrale dei pori della membrana nucleare, aggrovigliati e in continuo movimento formano una barriera mobile che respinge gli intrusi

Èstata ricostruita per la prima volta in 3D la struttura delle proteine che proteggono le porte d’ingresso al nucleo delle cellule, i cosiddetti pori nucleari. Un team di ricercatori tedeschi del Dipartimento di Biofisica Teorica dell’Istituto Max Planck di Biofisica di Francoforte e del Gruppo di Biofisica Sintetica dell’Università Johannes Gutenberg di Mainz ha scoperto che queste molecole, caratterizzate dall’assenza di una struttura tridimensionale stabile, si muovono in modo simile a spaghetti nell’acqua bollente formando una barriera permeabile a importanti fattori cellulari ma in grado di bloccare virus o altri agenti patogeni.

Per decenni i ricercatori sono stati affascinati dalla struttura tridimensionale e dalla funzione dei pori nucleari, che agiscono come guardiani del genoma: le sostanze necessarie alla cellula possono passare, mentre gli agenti patogeni o altre sostanze che danneggiano il DNA sono bloccati all’ingresso. I pori nucleari possono quindi essere considerati dei buttafuori molecolari, ognuno dei quali controlla molte migliaia di visitatori al secondo. Solo chi ha un biglietto d’ingresso può passare.

Nella membrana nucleare sono presenti circa 2000 pori, ognuno dei quali è costituito da un migliaio di proteine. Finora però, la regione centrale del poro nucleare è stata rappresentata come un buco perché nessuno era riuscito

a determinare l’organizzazione delle proteine, dette intrinsecamente disordinate (IDP), nel poro. Con il nuovo studio, pubblicato su Nature, il team tedesco ha colmato un vuoto nella comprensione della struttura e della funzione dei pori nucleari. Gli autori hanno scoperto che le circa 300 proteine attaccate alla struttura portante del poro nucleare protrudono come tentacoli nell’apertura centrale, sono intrinsecamente disordinate, flessibili e in continuo movimento, per questo finora non era stato possibile determinare la loro organizzazione all’interno delle cellule.

Il fatto che le IDP cambino continuamente la loro struttura rende difficile per gli scienziati decifrare la loro architettura tridimensionale e la loro funzione. La maggior parte delle tecniche sperimentali che i ricercatori utilizzano abitualmente per ricostruire l’immagine delle proteine funziona solo se hanno una struttura 3D definita. Per riuscire a studiare le IDP, prive di una struttura stabile, l’équipe guidata da Gerhard Hummer, direttore dell’Istituto Max Planck di Biofisica, e da Edward Lemke, professore di Biofisica sintetica all’Università Johannes Gutenberg di Magonza e direttore aggiunto dell’Istituto di Biologia Molecolare di Magonza, ha utilizzato un’inedita combinazione di biologia sintetica, microscopia a fluorescenza multidimensionale e simulazioni al computer. «Abbiamo utilizzato moderni stru-

30 Giornale dei Biologi | Mag 2023 Salute
di Sara Bovio

menti di precisione per marcare diversi punti delle proteine che appaiono simili a spaghetti con coloranti fluorescenti che abbiamo eccitato con la luce. Ciò ci ha permesso di visualizzarli al microscopio» spiega Lemke. «In base ai modelli di bagliore e alla durata, siamo stati in grado di dedurre come devono essere disposte le proteine». Hummer aggiunge: «Abbiamo quindi utilizzato simulazioni di dinamica molecolare per calcolare come le IDP sono organizzate spazialmente nel poro, come interagiscono tra loro e come si muovono. Per la prima volta, abbiamo potuto visualizzare la porta di accesso al centro di controllo delle cellule umane».

Nello studio i ricercatori spiegano che i tentacoli nel poro assumono un comportamento completamente diverso rispetto a quello conosciuto in precedenza, perché interagiscono tra loro e con il carico. Si comportano come uno scudo di molecole agitate, simili a spaghetti, e i virus o i batteri sono troppo grandi per riuscire ad attraversare questo setaccio. Tuttavia, altre grandi molecole cellulari importanti per il nucleo possono passare perché trasportano segnali molto specifici. Queste molecole hanno

Per decenni i ricercatori sono stati affascinati dalla struttura tridimensionale e dalla funzione dei pori nucleari, che agiscono come guardiani del genoma: le sostanze necessarie alla cellula possono passare, mentre gli agenti patogeni o altre sostanze che danneggiano il DNA sono bloccati all’ingresso.

un biglietto d’ingresso, mentre gli agenti patogeni di solito non ce l’hanno.

I minuscoli pori del nucleo cellulare, oltre a controllare il passaggio delle molecole tra il nucleo e il citoplasma, proteggono e preservano il materiale genetico svolgendo così un ruolo essenziale per un invecchiamento sano. «Capire come i pori trasportano o bloccano i carichi ci aiuterà a identificare gli errori. Dopo tutto, alcuni virus riescono a entrare nel nucleo della cellula nonostante la barriera», riassume Hummer. «Con la nostra combinazione di metodi, possiamo ora studiare le IDP in modo più dettagliato per scoprire perché sono indispensabili per alcune funzioni cellulari, nonostante siano soggette a errori. Infatti, le IDP si trovano in quasi tutte le specie, anche se comportano il rischio di formare aggregati durante il processo di invecchiamento che possono portare a malattie neurodegenerative come l’Alzheimer», afferma Lemke. Imparando a conoscere il funzionamento delle IDP, i ricercatori mirano a sviluppare nuovi farmaci o vaccini che prevengano le infezioni virali e favoriscano un invecchiamento sano.

Giornale dei Biologi | Mag 2023 31
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MALATTIA DI PARKINSON ALLA BASE DELLA RIGIDITÀ LA DISFUNZIONE DI UN CIRCUITO NERVOSO

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, individua il network che include midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo

Uno dei tratti caratteristici della malattia di Parkinson è la rigidità: un aumento patologico del tono muscolare che si manifesta con una contrazione sostenuta e involontaria, talvolta associata a dolore cronico. Ad oggi sono ancora poco chiari i meccanismi alla base del fenomeno e non esiste una strumentazione affidabile per la misurazione. La patologia neurodegenerativa è oggi assai frequente nella popolazione generale. Si stima che in Italia i pazienti siano circa 300mila e, nel mondo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che il numero sia in continua crescita. Una più approfondita conoscenza della malattia, dei principali segni e sintomi clinici è fondamentale se si intendono acquisire una pianificazione e una programmazione più appropriate degli interventi specifici di sanità pubblica.

Uno studio internazionale, pubblicato sulla rivista “Brain” e coordinato dal dipartimento di Neuroscienze Umane della Università di Roma Sapienza, in collaborazione con la University College London (UK) e il National Institutes of Health (NIH) di Bethesda (Usa), suggerisce l’ipotesi che la rigidità sia legata alla disfunzione di uno specifico circuito neuronale, che include le connessioni funzionali tra midollo spinale,

cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo. Il lavoro chiarisce anche rilevanti aspetti fisiopatologici della rigidità, affrontando il problema dello studio sperimentale del segno clinico, fondamentale per la diagnosi, tramite la misurazione obiettiva che potrebbe consentire di riconoscerlo nelle fasi preliminari.

Gli autori hanno seguito un protocollo sperimentale che ha visto l’utilizzo di una innovativa strumentazione robotica, associata e sincronizzata a specifiche misure neurofisiologiche e biomeccaniche, di 20 pazienti affetti dalla Malattia di Parkinson e 25 soggetti sani di controllo con caratteristiche demografiche ed antropometriche simili. «Il principale traguardo scientifico del nostro studio consiste nella dimostrazione sperimentale che la rigidità nella Malattia di Parkinson dipende da specifiche alterazioni del controllo nervoso del tono muscolare, come per esempio l’aumento velocità-dipendente dei riflessi di lunga latenza, che a loro volta riflettono una disfunzione nelle connessioni tra midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo», spiega il professor Antonio Suppa del dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza. «Lo strumento robotico che abbiamo utilizzato è in grado di indurre estensioni controllate dell’articolazione del pol-

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di Elisabetta Gramolini

so, che a loro volta inducono uno stiramento dei principali muscoli flessori di polso e dita. Tale strumentazione robotica consente di controllare con precisione angoli articolari, picchi di velocità, accelerazione ed ampiezza del movimento. Il robot permette inoltre di misurare le resistenze offerte dall’arto all’estensione e ci restituisce dei profili di forza nel tempo».

Tramite specifico algoritmo, lo studio ha consentito di discriminare le principali componenti biomeccaniche del tono muscolare e quindi di scomporre la forza totale misurata nei suoi elementi elastici, viscosi e neurali. «Abbiamo integrato lo strumento – continua il docente – con l’elettromiografia di superficie, per registrare l’attività muscolare riflessa, per esempio i riflessi a breve e lunga latenza, in rapporto alle velocità degli stiramenti. Ulteriore elemento innovativo dello studio da un punto di vista metodologico è consistito nel fatto di aver sincronizzato tutte le misure biomeccaniche e neurofisiologiche, testandole nel corso di stiramenti di velocità variabile (da 5 a 300 gradi al secondo). Ciò ha consentito – sottolinea -, per la prima volta, di dimostrare la velocità-dipendenza di specifiche misure biomeccaniche e neurofisiologiche e di ipotizzare il circuito nervoso responsabile della rigidità nella malattia di Parkinson. Nel detta-

Lo studio suggerisce l’ipotesi che la rigidità sia legata alla disfunzione di uno specifico circuito neuronale, che include le connessioni funzionali tra midollo spinale, cervelletto e formazione reticolare del tronco dell’encefalo.

glio, tale circuito include fusi neuromuscolari, specifiche strutture del midollo, del cervelletto e della formazione reticolare. Il circuito è modulato dalla dopamina e ciò spiega il suo coinvolgimento nella malattia di Parkinson. Lo studio pone le basi per una migliore misurazione della rigidità e della sua risposta a farmaci e altri trattamenti non farmacologici».

DALLA PARTE DEL CAREGIVER

L’associazione Parkinson Italia ha fatto appello di recente alle istituzioni al fine di riconoscere la figura del caregiver dei pazienti, attraverso misure a sostegno delle famiglie. Spesso il parente che si prende cura della persona affetta dalla malattia si ritrova a gestire il delicato equilibrio fra vita lavorativa e assistenza. L’associazione ha inoltre aderito al manifesto europeo del Parkinson che ha tra gli obiettivi quello di sensibilizzare i decisori politici al fine di rendere la malattia una priorità in ambito sanitario in Europa e accrescere la consapevolezza nella popolazione in generale.

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LA FUNZIONE DELLA VITAMINA B3 PER CONTRASTARE

LA CACHESSIA NEOPLASTICA

Studio dell’Università di Torino dimostra come la niacina (B3) migliori lo stato dei mitocondri, contrasti l’atrofia muscolare e le alterazioni del metabolismo nei pazienti oncologici

Il cancro e i trattamenti antitumorali provocano spesso nei pazienti la cachessia neoplastica, una sindrome multifattoriale caratterizzata dalla perdita progressiva di massa muscolare, con o senza perdita anche di quella grassa. Uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature Communications”, dimostra l’efficacia della niacina, una forma della vitamina B3, nel contrastare la cachessia neoplastica. Il lavoro è stato condotto dal gruppo di ricerca coordinato dal professor Fabio Penna, del dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino.

La cachessia è rappresentata da infiammazione e stress metabolico in diversi organi, con conseguente compromissione della funzionalità dei tessuti, ridotta tolleranza alla chemioterapia e scarsa risposta immunitaria, fattori che contribuiscono a compromettere la qualità della vita e ridurre la sopravvivenza. Nella pratica oncologica, l’attenzione è focalizzata sulle terapie mirate al cancro, ignorando spesso lo stato generale del paziente e perdendo l’opportunità di trattare il cancro e le sindromi associate come una malattia unica. Nella ricerca attuale, volta a considerare il sistema cancro-paziente nel complesso, è stato considerato il metabolismo energetico per trovare nuove opzioni di trattamento anti-cachessia.

L’identificazione del target specifico, ovvero il metabolismo del NAD⁺ (nicotinammide adenina dinucleotide), è avvenuta studiando modelli preclinici di ricerca (topi portatori di tumori) grazie a Juha Hulmi di Jyväskylä in Finlandia, le cui analisi hanno mostrato l’associazione tra atrofia muscolare e carenza di NAD⁺. Poiché il NAD⁺ è

fondamentale per il corretto funzionamento dei mitocondri, la sua perdita può spiegare il deficit energetico che si verifica nei tessuti dei pazienti oncologici, analogamente a quanto accade nella miopatia mitocondriale primaria, dove il potenziamento del NAD⁺ con la vitamina B3 contrasta il dismetabolismo. Il contributo dell’ateneo torinese alla ricerca è stato quello di caratterizzare il metabolismo del NAD⁺ nel contesto della cachessia neoplastica e di testare l’efficacia della rigenerazione del NAD⁺ nei topi portatori di tumore, vale a dire nei modelli animali, recentemente messi a punto nel laboratorio di Torino.

Lo studio è stato preceduto dalla ricerca finlandese, condotta da Noora Pöllänen, il cui screening dei disturbi del metabolismo NAD⁺ nei nuovi modelli di cachessia ha confermato che la perdita di NAD⁺ e la ridotta espressione dei geni associati sono tratti comuni nella cachessia sperimentale, innescata da tumori intestinali e pancreatici. Nel tentativo di estendere e convalidare questa osservazione in clinica, il gruppo della professoressa Roberta Sartori del dipartimento di Scienze Biomediche presso l’Università di Padova e la Fondazione Ricerca Biomedica Avanzata VIMM, si è unito al consorzio e ha dimostrato il verificarsi delle alterazioni del NAD⁺ e del metabolismo energetico nel muscolo di pazienti oncologici affetti da tumori del colon-retto o del pancreas.

Le persone sono state reclutate presso l’unità di Chirurgia Generale 1 dell’Azienda Ospedale dell’Università di Padova in collaborazione con un team di ricercatori del dipartimento di Scienze Chirurgiche Oncologiche e Gastroenterologiche

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dell’ateneo padovano. Allo scopo di dimostrare l’importanza di queste alterazioni per la potenziale cura della cachessia, si è deciso di testare l’efficacia della niacina (vitamina B3) nell’aumentare i livelli di NAD⁺ nei topi portatori di tumore. In base ai risultati, la niacina ha prevenuto la carenza di NAD⁺ muscolare ed ha migliorato lo stato dei mitocondri, contrastando l’atrofia muscolare e le alterazioni del metabolismo energetico.

L’ulteriore buona notizia è il basso costo della niacina, già prescritta in modo sicuro per il trattamento dell’ipercolesterolemia negli esseri umani. Il suo utilizzo proposto ora grazie a questi lavori, per la gestione dei pazienti oncologici che presentano una compromissione del metabolismo energetico, potrebbe raggiungere lo scopo di migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita dei malati di cancro e di interrompere il circolo vizioso della

cachessia che spesso comporta la mancata risposta alle terapie anti-tumorali. (E. G.)

LA NIACINA

La vitamina B3 o niacina è presente nelle carni bianche, negli spinaci, nelle arachidi, nel fegato di manzo, nel lievito di birra, nel salmone, nel pesce spada e nel tonno. La B3 è una delle cosiddette vitamine idrosolubili che non sono immagazzinate dall’organismo ma devono essere assunte con l’alimentazione. La vitamina viene chiamata anche PP che corrisponde a pellagra preventive factor per la funzione preventiva della malattia.

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TUMORE AL POLMONE LA CHEMIO-IMMUNOTERAPIA

ADIUVANTE TRA LE SPERANZE PER IL PRESENTE E IL FUTURO

La terapia prima di giungere nella sala operatoria è considerata la novità più importante negli ultimi due anni. Prosegue la sperimentazione di un vaccino anti tumorale

Negli ultimi venti anni nel trattamento del tumore del polmone sono cambiate molte cose. Basti solo pensare che la terapia può essere personalizzata in base alle caratteristiche che emergono dagli esami preliminari. Siamo passati dal momento in cui veniva offerta la stessa terapia a tutti i pazienti, ad oggi, in cui vengono somministrate in maniera completamente diversa, sulla base del profilo molecolare della persona. Per individuare il trattamento giusto, occorre comprendere la biologia del tumore, attraverso l’analisi del tessuto in cui si evidenziano le alterazioni geniche. L’esame consente così di mirare meglio al target: «oggi distinguiamo il gruppo di pazienti che ricevono le terapie a bersaglio molecolare e il gruppo che riceve l’immunoterapia, come agente singolo o insieme alla chemioterapia. L’approccio ha profondamente cambiato le attese di vita dei pazienti con tumore al polmone», spiega Federico Cappuzzo, direttore della Oncologia

Medica 2 dell’Istituto nazionale tumori Regina

Elena (Irccs) a margine del “Second International Summit On Lung Cancer”, tenuto a Roma il 7 e 8 maggio.

Anche dopo la diagnosi, grazie alle innovazioni, i report epidemiologici dicono che si vive più a lungo. «A differenza del passato – continua -, anche nella fase metastatica, si parla di guarigione dalla malattia e, nelle fasi più precoci, l’integrazione dei trattamenti consente di puntare

a una guarigione definitiva. Siamo sempre prudenti, ma oggi possiamo dire che alcuni pazienti possono guarire anche dalla fase metastatica». L’impronta impressa dalle innovazioni conduce ormai a non parlare più di linea di terapia ma di strategie terapeutiche diverse: «per esempio, sappiamo che la chemio-immunoterapia adiuvante eseguita prima dell’intervento chirurgico, consente di ottenere una regressione completa del tumore e quindi di aumentare in maniera importate le chance di guarigione definitiva. All’ultimo congresso della Società americana di oncologia clinica, sono stati presentati i dati di sopravvivenza di un farmaco biologico, somministrato dopo intervento chirurgico, in pazienti con una specifica mutazione genetica. Non esistono quindi dei nuovi farmaci ma c’è la scoperta del loro uso migliore». Spesso è accaduto che la chirurgia nel tumore al polmone fallisse per colpa della diffusione delle metastasi a distanza. «Questo – sottolinea Cappuzzo - è il motivo per cui anticipiamo il trattamento prima della chirurgia, che è in particolare ciò che sta emergendo come approccio terapeutico più efficace in assoluto. Un approccio chirurgico prematuro può essere infatti controproducente mentre in base ai dati a diposizione sappiamo che è meglio far precedere l’atto chirurgico da un trattamento di chemio e immunoterapia che consente la regressione della malattia nel 25% dei casi. «La terapia definita di chemio-immunoterapia adiuvante svolta prima

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di giungere nella sala operatoria è considerata la novità più importante negli ultimi due anni».

Altro campo in grande estensione è rappresentato dai vaccini. «Grazie alle conoscenze aumentate nella immunoterapia e all’integrazione di nuovi farmaci immunoterapici, il ruolo dei vaccini è profondamente rivisto e teso alla possibilità di ottenere risultati nettamente superiori rispetto al passato. Siamo ancora in una fase preliminare su questo versante, nonostante l’entusiasmo generato da alcune notizie nei giorni scorsi, ma si può certamente affermare che i vaccini a disposizione oggi non sono gli stessi di dieci anni fa: hanno meccanismi diversi e prevediamo di utilizzarli anche in associazione ai più moderni chemioterapici proprio per aumentarne l’efficacia». Nel 2021 è stato avviato un progetto di ricerca di cui l’Ifo-Regina Elena di Roma è capofila riguardo alla sperimentazione ancora in corso di un vaccino anti tumorale. «Lo studio – precisa Cappuzzo che ha disegnato il progetto - è rivolto a pazienti che hanno già ricevuto

Riguardo alla prevenzione, in Italia è partito il progetto Risp per l’identificazione precoce mediante la Tac a basse dosi, rivolto a fasce di popolazione che comprendono i fumatori.

un trattamento, quindi non sono pazienti da cui ci si aspetta una guarigione certa. A breve però partiremo con una altra sperimentazione che coinvolge pazienti in una fase più precoce, nella cosiddetta prima linea o fase di mantenimento. Il vantaggio dei vaccini infatti ce lo aspettiamo tanto più precocemente li utilizziamo e quello che ritengo è che i vaccini possano essere più efficaci dopo l’intervento chirurgico, cioè laddove il carico della malattia è più basso».

Riguardo alla prevenzione, in Italia è partito il progetto Risp per l’identificazione precoce mediante la Tac a basse dosi, rivolto a fasce di popolazione che comprendono i fumatori. Il tumore del polmone viene considerato molto insidioso perché spesso quando compaiono i sintomi la malattia ha già raggiunto un certo grado di sviluppo. Il sintomo principale è la tosse che spesso nei fumatori viene sottovalutato ed è la conseguenza di un’irritazione del bronco quando la malattia ha raggiunto un volume in tempo variabile da persona a persona. (E. G.)

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CAROTENOIDI, LICOPENE E FOTOPROTEZIONE ALLEATI DELLA PELLE IN ESTATE

L’organo più esteso del nostro corpo che proteggere l’organismo da danni meccanici, radiazioni ultraviolette (UV), agenti microbici e contaminanti ambientali

La pelle è l’organo più esteso del corpo umano ed è la prima linea di difesa contro l’attacco di organismi patogeni ed agenti tossici, svolge un ruolo attivo nella protezione fisica, biochimica e immunologica dell’organismo, lo protegge da: danni meccanici, radiazioni ultraviolette (UV), agenti microbici e contaminanti ambientali; regola la temperatura corporea, è sede dei recettori tattili (meccanici e termici) e svolge un ruolo attivo nella biosintesi della vitamina D. Per controllare il danno foto-ossidativo bisognerebbe ridurre l’esposizione alle radiazioni UV, il tutto accompagnato da un’adeguata alimentazione, che diventa fondamentale per il mantenimento della funzionalità e della salute della pelle, e per combattere i danni fotoindotti.

Una dieta ricca di antiossidanti (vitamina C ed E) e minerali (Se, Mn, Cu e Zn) è oggetto di studio da molti anni per capire in che modo tutto ciò interferisca sulla foto-protezione della pelle, proprio perché la vitamina C e la vitamina E (soprattutto nella forma di a-tocoferolo) hanno dimostrato una efficace azione antiossidante e protettiva nei confronti dei danni indotti dall’esposizione a radiazioni UV sia attraverso applicazioni topiche che sistemiche. L’aggiunta di Sali minerali, all’alimentazione quotidiana ha avuto effetti positivi sulla salute della pelle, si suppone che questo sia conseguenza del fatto che alcuni di essi diventano il

sito reattivo di enzimi (superossido dismutasi, la glutatione perossidasi e la catalasi), capaci di detossificare le ROS. Dalla letteratura si evince che i carotenoidi, in particolare licopene e ß-carotene, hanno un importante effetto di protezione sulla pelle, e attraverso meccanismi d’azione specifici prevengono la formazione delle ROS. I carotenoidi, sono molto utili su individui sani, nella prevenzione dai danni dovuti all’eccessiva esposizione al sole (eritemi solari), l’uso di questi per la prevenzione del danno foto-ossidativo è stato studiato in vitro e in vivo anche mediante l’uso di marcatori biologici di alterazioni molecolari a livello di DNA (basi ossidate del DNA, dimeri di timina ecc), dagli studi è emerso che: un moderato effetto fotoprotettivo del ß-carotene sull’eritema solare indotto da radiazioni UV è stato evidenziato in numerosi casi ai quali è stata somministrata una dose > 20 mg/die per 10 settimane, invece i casi con la stessa somministrazione giornaliera solo per 3-8 settimane non hanno evidenziato nessun effetto significativo.

La somministrazione di ß-carotene per diversi anni in dosi di 20-30 mg/die, da solo o in associazione con a-tocoferolo o retinolo, sembra essere correlata allo sviluppo di cancro ai polmoni (+20%) in soggetti ad alto rischio di contrarre tale malattia, creando molte perplessità riguardo all’utilizzo di ß-carotene in dosi così elevate, per periodi prolungati.

Tratto da “Lycopene, photoprotection and skin care: the benefits of organic quality”, di Leonardo Rescio, Antonio Di Maio e Pietro Cazzola.

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Salute

La somministrazione per un periodo di 12 settimane di una miscela costituita da ß-carotene, luteina e licopene (8 mg/die di ognuno) ha mostrato efficacia nel contrastare il danno foto-ossidativo paragonabile a quella di dosi elevate di ß-carotene (24 mg/die) somministrate per lo stesso periodo di tempo. Effetti protettivi soddisfacenti nei confronti degli eritemi solari sono stati ottenuti anche utilizzando una miscela di ß-carotene e licopene (6 mg/die di ognuno) con l’aggiunta di 10 mg di a-tocofe-

rolo e 75 μg di selenio già dopo 7 settimane. Il licopene, è il carotenoide maggiormente presente nell’organismo umano, seguono da ß-carotene, luteina e zeaxantina, ma può essere assunto solo tramite la dieta, e l’80% di questo presente nel corpo umano deriva da consumo di pomodoro o di prodotti da esso derivati. A differenza del ß-carotene, una volta assunto dall’organismo il licopene non viene convertito in vitamina A ed esplica le sue attività benefiche con meccanismi completamente diversi. I lipidi: favoriscono la solubilizzazione del licopene durante la digestione, il suo l’assorbimento a livello della mucosa intestinale (disciolto nei chilomicroni) e il trasporto ai tessuti attraverso il circolo sanguigno. Studi su colture cellulari ed animali hanno dimostrato che il licopene previene il danno foto-ossidativo, Infatti nei fibroblasti umani esposti a radiazioni UV-A o UV-B, la formazione di malondialdeide (marker biologico della perossidazione lipidica), si riduce in presenza di licopene ed altri carotenoidi. La presenza contemporanea di α-tocoferolo aumenta la stabilità del licopene nelle colture cellulari, e l’uso topico di licopene è efficace nella prevenzione dei danni foto-ossidativi causati da radiazioni UV-B.

L’utilizzo di succo di carota (10 mg di licopene e 5,1 mg di ß-carotene /die per 12 settimane) o di un concentrato di pomodoro con l’aggiunta di olio d’oliva (16 mg di licopene/die per 10 settimane) da parte di alcuni volontari sani ha evidenziato un aumento dei livelli di carotenoidi nel plasma di circa 2 volte superiore rispetto ai livelli fisiologici e un grande effetto fotoprotettivo. La sensibilità individuale verso le radiazioni UV è stata valutata utilizzando come parametro la soglia MED (Minimal Erythema Dose), ovvero la più bassa dose di radiazioni UV in grado di determinare l’insorgenza di un eritema rilevabile 24 ore dopo l’esposizione. Nel corso di ciascun trattamento, ad intervalli di tempo predefiniti, ogni volontario è stato sottoposto a valutazione del valore MED e del livello di licopene e altri carotenoidi nel plasma e nella pelle. L’effetto foto-protettivo risultante è risultato leggermente superiore nei soggetti che avevano assunto succo di carota arricchito in licopene (+45% di soglia MED rispetto al valore base misurato prima del trattamento) rispetto a quelli che consumavano concentrato di pomodoro (+40%). Da poco

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tempo, è stata messa a confronto la capacità di prevenire o ridurre l’insorgenza di eritemi solari da parte di tre diversi integratori alimentari contenenti licopene. A volontari sani sono state somministrate giornaliermente: a) due capsule di un integratore contenente licopene estratto da pomodoro mediante l’uso di solventi organici (licopene naturale) corrispondenti ad una dose totale di 9,8 mg di licopene e0.4mgdiß-carotenedie;b)2x250mldi una bevanda arricchita in licopene naturale corrispondenti ad una dose totale di 8,1 mg di licopene e 0.4 mg di ß-carotene die; c) due compresse al giorno di un integratore alimentare contenente licopene sintetico (10,2 mg licopene/die in totale). Dopo 4 settimane di somministrazione, i livelli di licopene nel plasma risultavano aumentati da tutti e tre i trattamenti sino a valori compresi tra 0,55 e 0,84 nmol/ml, circa 2 volte superiori a quelli fisiologici. Un ulteriore graduale aumento del livello di licopene nel plasma è stato messo in evidenza tra le 4 e le 12 settimane. Anche l’incremento del livello dei carotenoidi nella pelle è stato indotto da tutti e tre i trattamenti,

Una dieta ricca di antiossidanti e minerali è oggetto di studio da molti anni per capire in che modo tutto ciò interferisca sulla foto-protezione della pelle, proprio perché la vitamina C e la vitamina E (soprattutto nella forma di a-tocoferolo) hanno dimostrato una efficace azione antiossidante e protettiva nei confronti dei danni indotti dall’esposizione a radiazioni UV sia attraverso applicazioni topiche che sistemiche.

ma in misura nettamente inferiore a quello verificatosi nel sangue aumentando di circa 1,21,4 volte rispetto al valore di base. Entrambi i trattamenti con licopene naturale e integratore alimentare e bevanda arricchita, aumentavano sebbene in misura diversa, la soglia MED in modo statisticamente significativo dopo 12 settimane dall’inizio della sperimentazione. La somministrazione dell’integratore alimentare contenente licopene sintetico, non ha mostrato effetti significativi, la differenza è stata attribuita alla presenza nei trattamenti a base di licopene naturale, oltre che del licopene, di altri carotenoidi (ß-carote- ne, fitofluene, fitoene, ecc.) e molecole bioattive coestratte dal pomodoro che potrebbero contribuire sinergicamente ai processi di foto-protezione.

Tali composti risultano ovviamente assenti nei prodotti contenenti licopene sintetico. I risultati di questi studi concordano nel dimostrare che l’assunzione per via sistemica di prodotti ricchi in licopene, in associazione ad altri componenti naturalmente presenti nel pomo- doro, migliora l’effetto di foto-protezione della pelle nei confronti dell’esposizione a radiazioni UV. La somministrazione per via sistemica di alcuni nutrienti è fondamentale per la cura e la salute della pelle. Integratori alimentari con giuste quantità di licopene assieme ad altri antiossidanti naturali estratti dal pomodoro sono utili per la protezione della pelle da una eccessiva esposizione alle radiazioni UV e ne migliorano la struttura e l’aspetto estetico. L’efficacia del trattamento dipende da: dose di licopene assunta giornalmente, dalla sua bio-disponibilità, dalla contemporanea presenza di altre molecole bio-attive, lipidi e tempo di somministrazione. Diete ricche in derivati del pomodoro e trattamenti con integratori a base di licopene naturale per periodi di 10-12 settimane hanno mostrato una riduzione significativa del danno foto-indotto.

Attualmente sul mercato è presente un licopene estratto da pomodoro biologico (NO varietà OGM e/o pesticidi) con anidride carbonica supercritica. Il licopene biologico è naturale al 100%, privo di residui di solventi chimici e di tossicità e presenta ottime caratteristiche di bio- disponibilità. Il licopene biologico costituisce una nuova materia prima fondamentale per la preparazione di integratori alimentari d’eccellenza anche mirati al benessere e alla salute della pelle.

Giornale dei Biologi | Mag 2023 41 Salute
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RECUPERARE MINERALI E METALLI DALL’ACQUA

DEI NOSTRI MARI

Recuperare il magnesio dagli scarti del processo di desalinizzazione dell’acqua di mare: è un progetto ENEA per l’economia circolare

Le tecnologie di desalinizzazione generano grandi quantità di salamoia da scartare con una concentrazione di salinità superiore a quella dell’acqua marina di alimentazione, costituendo un problema ambientale non da poco in vista del loro smaltimento. Sono, però, una fonte ricca di materiali strategici, come il magnesio e la loro valorizzazione offre l’occasione per aiutare il Pianeta. La nuova sfida della ricerca Enea in questo campo, adatta ad assecondare l’economia circolare, ha visto pubblicare i risultati sulla rivista “Environment, Development and Sustainability”.

«Considerata l’importanza strategica del tema, abbiamo aperto una linea di ricerca dedicata all’estrazione del magnesio dalle salamoie» spiega Danilo Fontana, ricercatore del Laboratorio Enea di Tecnologie

per riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali. Nel mondo sono in funzione circa 16mila impianti di desalinizzazione che, ogni giorno, forniscono pressappoco 95 milioni di metri cubi con acqua desalinizzata. Riguardo la salamoia, invece, ne abbiamo 142 milioni di metri cubi giornalmente (circa il 50% in più del volume dell’acqua totale desalinizzata). «Le attuali tecnologie di desalinizzazione - aggiunge Fontana che ha curato la pubblicazione insieme al team di ricerca composto da Federica Forte, Massimiliana Pietrantonio, Stefano Pucciarmati e

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Caterina Marcoaldi - producono grandi quantità di salamoie che hanno una salinità tre volte maggiore rispetto a quella dell’acqua di mare. Il loro smaltimento comporta una serie di problemi ambientali per l’ecosistema acquatico, nel momento in cui vengono riversate in mare. Allo stesso tempo, le salamoie rappresentano una preziosa fonte secondaria di magnesio che, se recuperato, potrebbe essere impiegato in numerosi settori industriali».

Non trovandosi in natura nella sua forma elementare, il magnesio è l’ottavo elemento più abbondante nella crosta terrestre, presente in quantità approssimativamente del 2%. Negli impianti di desalinizzazione, soprattutto quelli a osmosi inversa, la concentrazione è molto elevata, con valori compresi tra 1.860-2.880 milligrammi per litro. Tuttavia, la salamoia contiene anche altri sali disciolti in grandi quantità, come sodio (15.30025.240 mg/litro), calcio (520-960 mg/litro) e potassio (740-890 mg/litro). «È il magnesio, però, il metallo più interessante per il suo impiego a livello industriale e per questo la Commissione Europea l’ha inserito nella lista dei trentaquattro materiali definiti critici, per l’elevato rischio di approvvigionamento e valore strategico. Il maggior produttore - sottolinea Fontana - è la Cina, che fornisce circa il 90% dell’offerta mondiale; seguono la Russia (6%), il Kazakistan (2%), Israele (2%) e il Brasile (2%)».

Ha numerose applicazioni in diversi settori industriali: produzione leghe di alluminio impiegate nell’imballaggio (35%), nei trasporti (25%) e nelle costruzioni (21%). Oltre a ciò, viene adoperato come eccipiente nell’industria farmaceutica, in quella alimenta-

Le nazioni che sfornano in maggior misura sottoprodotti dal processo sono: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, che impiegano l’acqua soprattutto per il consumo umano e l’agricoltura, ma avrebbero pure bisogno di soluzioni innovative.

re e cosmetica, e per il trattamento delle acque reflue. Se ne avvantaggiano i produttori di automobili, l’aerospaziale e le attrezzature sportive, come componenti meccanici per selle da biciclette, scarponi da sci e snowboard. La sua pressofusione è, difatti, una tecnologia particolare che ne sfrutta le proprietà per realizzare componenti di forma complicata e dallo spessore sottile con immediatezza, alta precisione e a basso costo.

Tuttora, la maggior parte viene utilizzata in applicazioni a breve termine, e solo una piccola percentuale avviata al recupero e al riciclo. In Europa, il tasso di riutilizzo di ciò che è estratto da prodotti a fine vita è del 15%, però, con l’aumentare della domanda come materia prima per le batterie, è sempre più importante incrementare questa percentuale. È leggero, in grado di trasferire due elettroni per atomo, e rappresenta una promettente alternativa al litio nei futuri accumulatori elettrochimici.

«Con il nostro lavoro di ricerca - conclude Fontana - abbiamo esaminato le tecnologie di recupero del magnesio da salamoie presenti in letteratura, indentificandone criticità e potenzialità, ma la maggior parte rimane confinata nei laboratori. Pochi studi sono incentrati sulla fattibilità tecnico-economica e sulla sostenibilità ambientale dei processi proposti. Questo nostro lavoro di review tecnica può fornire ‘spunti’ per approfondire il tema di ricerca per traferire le tecnologie finora sviluppate dal laboratorio al mercato, con ricadute vantaggiose per tutti». (G. P.).

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RIQUALIFICAZIONE EDILIZIA IN ITALIA TROPPI EDIFICI

ENERGIVORI E CLIMALTERANTI

Siamo in ritardo sul fronte della riqualificazione edilizia. Lo dice Legambiente nel Rapporto “Civico 5.0: Vivere in Classe A” sulla transizione energetica del settore edilizio residenziale

Il Belpaese, sottolinea Legambiente nel suo ultimo Rapporto “Civico 5.0: Vivere in Classe A”, è in forte ritardo rispetto agli obiettivi di riqualificazione: su oltre dodici milioni di abitazioni ne è stato migliorato, attraverso il superbonus, solo il 3,1%, un risultato molto inferiore rispetto alle aspettative e alle necessità attuali. Dovremo affrontare impegni ancora più ambiziosi in futuro, frutto della “Direttiva Case Green” voluta dall’Unione Europea. Entro il 2030, ci toccherà intervenire su almeno 6,1 milioni di edifici abitativi, pari al 7,2% del residenziale. Questo obiettivo è più del doppio di quanto finora sia stato raggiunto.

Abbiamo bisogno, quindi, di una riforma che sia stabile e duratura fino al 2030 con obiettivi anche per il 2035. Tra i diversi punti chiave vengono suggeriti: un nuovo sistema d’incentivi che si concentri sull’efficienza energetica complessiva degli stabili, puntando, soprattutto, agli interventi in classi energetiche elevate; la classe D dovrebbe essere il minimo richiesto per accedere alle incentivazioni; sostegni che tengano conto della prestazione energetica ottenuta dagli ammodernamenti, del reddito familiare, della messa in sicurezza sismica, ma anche dell’abbattimento legato alle barriere architettoniche, del recupero acque piovane e dell’utilizzo di materiali innovativi e sostenibili; eliminazione di ogni tecnologia per fonti fossili dal sistema pre-

miante e introduzione del blocco alle installazioni dal 2025. Ripristino della cessione del credito, inoltre, riservata solo agli interventi di efficientamento energetico e a quelli antisismici, insieme ad altri strumenti alternativi. Un’effettiva trasformazione consentirebbe di evitare speculazioni sul mercato abitativo e accelerare la riqualificazione. Il settore è uno dei più grandi “consumatori”, responsabile della maggiore spesa energetica che incide sul bilancio economico delle famiglie e delle imprese. Per questo, è importante spingere il processo di decarbonizzazione e stimolare, sempre di più, una riconversione. In aggiunta, la revisione come quella proposta nel Rapporto permetterebbe di avere un valido strumento per rispondere alle richieste dell’Unione Europea, tra cui almeno il passaggio in Classe E al 2030 per tutti gli immobili ad esclusione di quelli tutelati e protetti, e in Classe D al 2033, insieme anche all’idea d’innalzare il livello di efficienza minima legata agli apparecchi dedicati alla produzione termica del 115%.

«È evidente che all’Italia - dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - serve con urgenza una nuova e lungimirante politica di efficienza energetica per il settore edilizio che sia al tempo stesso anche una grande politica di welfare per imprese e famiglie». Secondo l’Osservatorio di Nomisma energia sul Superbonus, il 2% di riqualificazioni ha

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permesso di far calare le emissioni di CO2 in atmosfera di 1,42 milioni di tonnellate. Il risparmio medio in bolletta, tenuto conto dei rincari nei costi dell’energia, è pari a 964 euro all’anno. Dati positivi da replicare e migliorare attraverso lavori e adeguamenti lungimiranti. Che cosa evitare? Anche quest’anno Legambiente ha controllato dispersioni termiche, consumi elettrici e inquinamento in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Sardegna e Campania. Attraverso l’utilizzo di termografie è stato possibile scoprire diverse vulnerabilità: travi, solai, infissi e mancanza d’isolamento termico. Questi elementi dissipano il calore, costringendo le persone a mantenere accesi i sistemi di riscaldamento per un periodo più lungo. Per quanto riguarda i consumi elettrici, sono stati mo -

Il 2% di riqualificazioni ha permesso di far calare le emissioni di CO2 in atmosfera di 1,42 milioni di tonnellate, con un risparmio medio in bolletta di 964 euro all’anno.

nitorati 18 diversi elettrodomestici per due settimane. È emerso che il frigorifero è l’apparecchio più energivoro, con una percentuale del 15,2% rispetto ai consumi totali casalinghi. «Oggi vivere in classe A - conclude Katiuscia Eroe, responsabile nazionale energia di Legambiente - è un’operazione tecnicamente fattibile per tutti, o quasi tutti, i nostri edifici residenziali.

Per questo è importante continuare a riqualificare quel patrimonio edilizio che non ha avuto modo di usufruire del superbonus, uno strumento che ha permesso di muovere passi importanti verso la decarbonizzazione di questo settore. Da qui ai prossimi anni sarà importante consentire soprattutto alle famiglie in difficoltà un accesso garantito a questi strumenti a costo zero, differenziando percentuali e mantenendo la cessione del credito e lo sconto in fattura per chi non ha capacità di anticipo, oltre a spingere, nelle nuove costruzioni e nelle ristrutturazioni l’utilizzo di materiali innovativi e sostenibili».

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LA VITA DELLE BATTERIE: UNA SFIDA DA SUPERARE PER LA MOBILITÀ ELETTRICA

L’Enea ha calcolato l’invecchiamento delle batterie agli ioni di litio nelle stazioni di ricarica per veicoli e l’impatto su costi di realizzazione e gestione di una colonnina stradale

La corsa alla mobilità sostenibile sta intensificando la ricerca sui sistemi di accumulo per i veicoli elettrici. Ma che cosa succede quando le batterie agli ioni di litio “incanutiscono”?

Un team di ricercatori Enea ne ha calcolato, insieme all’Università di Cassino, il logoramento all’interno delle stazioni di ricarica e il consequenziale influsso sui costi di realizzazione ed esercizio di una colonnina stradale con un impianto fotovoltaico. I risultati di questa ricerca, basata sui dati raccolti in undici stazioni pubbliche nell’area metropolitana di Barcellona, sono stati pubblicati sulla rivista open access “Energies” (https://www. mdpi.com/1996-1073/15/24/9588). Lo studio è stato condotto nell’ambito del progetto europeo User-chi (Innovative solutions for USER centric CHarging Infrastructure), che si propone di sviluppare soluzioni innovative per un’infrastruttura capace di soddisfare i bisogni dell’utente.

«Abbiamo confrontato - spiega Natascia Andrenacci del Laboratorio Enea di Sistemi e tecnologie per la mobilità sostenibile - l’impatto sui costi operativi e d’investimento con l’uso di due semplici modelli per l’invecchiamento di un pacco batterie». Uno tiene conto solo della quantità di energia scambiata dalla batteria, l’altro osserva anche la profondità di scarica. Andando più nel dettaglio, il secondo approccio (State of Charge)

vede lo stato di carica limitato dal fatto che, avvicinandosi ai limiti estremi di funzionamento (0% e 100%), il costo di utilizzo della batteria si alza. Pure nel modello lineare non viene impiegata tutta la carica disponibile, ma i “confini” sono impostati dall’utente e fissati a 10% e 90%. Pertanto, il modello State of Charge ci dà la possibilità di sfruttare maggiormente il sistema di accumulo nel suo utilizzo quotidiano, l’altro è più “conservativo”, se racchiuso tra 10-90% e consente di estendere la vita del sistema.

Far convergere i due approcci dentro una stazione di ricarica determina risultati differenti: «da una parte - prosegue Andrenacci - il modello che tiene conto della profondità di scarica permette di sfruttare meglio l’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico, con relativo vantaggio economico. D’altra, questo porta a un degrado più rapido della batteria, che è un evidente svantaggio».

Per comprendere l’effetto dato dalle ingiurie del tempo, prendiamo in considerazione un esempio. Supponiamo che una batteria abbia una durata di vita di 2.500 cicli completi e che, in base al modello di invecchiamento utilizzato, il sistema arrivi al 60% della propria capacità iniziale dopo 14 anni. In questo caso, per mantenere l’efficienza, sarebbe necessario acquistare un secondo pacco batterie, annullando, così, il profitto ottenibile dal maggiore utilizzo di energia

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rinnovabile. Se, al contrario, si considera il costo del degrado proporzionale all’energia scambiata, la batteria non raggiunge la condizione di fine vita per l’intero orizzonte d’investimento (15 anni). Questo significa che la scelta del modello e del relativo approccio alla gestione dello stato di carica sono fondamentali per garantire l’efficienza e la durata e per evitare costi aggiuntivi.

«In questo modo - sottolinea la ricercatrice Enea - dimostriamo come l’utilizzo di differenti modelli di calcolo per l’invecchiamento della batteria può influenzare e modificare in modo netto la determinazione dei reali flussi di energia, con conseguenze dirette sia sull’utilizzo che sulla durata stessa del sistema di accumulo dell’infrastruttura di ricarica. La scelta di quale modello implementare per la gestione della batteria dipende da diversi fattori, tra cui il costo della batteria: se il prezzo di acquisto è alto, risulta maggiormente conveniente il modello di utilizzo più conservativo per la batteria. Viceversa, se i prezzi di acquisto si abbattono (per incentivi, ad esempio), allora conviene sfruttare la batteria più intensamente e si può quindi utilizzare il modello di gestione operativa più ‘aggressivo».

La crescente diffusione dei veicoli elettrici richiede una corretta pianificazione delle infrastrutture per il “rifornimento”, non solo in termini di posizionamento, ma anche di dimensionamento e gestione del flusso di potenza. In particolare, l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile e sistemi di storage sollecita la messa a punto di strategie per massimizzare l’uso delle produzioni rinnovabili e, di conseguenza, del sistema di accumulo, al fine di ridurre al

minimo i costi di acquisto dalla rete elettrica. Costruire e distribuire saggiamente sono fattori cruciali per garantire un’efficienza energetica ottimale e un uso sostenibile delle risorse. Inoltre, è necessario considerare l’evoluzione delle tecnologie e l’adeguamento dei punti di approvvigionamento alle esigenze dei veicoli elettrici, con l’obiettivo di garantire un’esperienza al volante sempre più efficiente e confortevole.

Stando ai dati contenuti nel Global EV Outlook 2022 dell’Agenzia internazionale per l’energia, entro il 2030 la domanda globale generata dai veicoli a basse emissioni raggiungerà 1.100 TWh, il che corrisponde a circa il 4% della domanda totale e, approssimativamente, a due volte il consumo complessivo brasiliano. Grazie ai progressi tecnologici nell’elettrificazione dei mezzi di trasporto, la quota di veicoli sta aumentando in modo significativo. Nel 2021, la vendita a livello globale ha rappresentato quasi il 10% del totale (quattro volte la quota di mercato del 2019), portando il numero di mezzi in circolazione a circa 16,5 milioni (il triplo rispetto al 2018). Le vendite globali continuano a crescere fortemente anche nel 2022, con due milioni di nuove automobili acquistate nel primo trimestre, una crescita del 75% rispetto allo stesso periodo del 2021. Questi dati dimostrano che la transizione verso veicoli elettrici sta diventando sempre più concreta e rappresenta una soluzione efficace per ridurre le emissioni di gas serra e migliorare la qualità dell’aria in città. (G. P.).

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ALTRO CHE DESERTI FREDDI SUI GHIACCIAI ARTICI PULLULA LA VITA

Scoperte diverse migliaia di specie di microrganismi capaci di vivere in condizioni estreme Tra queste un’alga nera coinvolta nel fenomeno del riscaldamento globale

Igrandi ghiacciai della Groenlandia sono stati considerati a lungo come deserti di ghiaccio. Qui le condizioni di vita sono estremamente difficili, non si trovano piante e solo pochissimi animali. Pare però che non sia proprio così, perché da un recente studio è emerso che sui ghiacciai artici c’è molta più vita di quanto si pensasse.

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Aarhus, guidati dal professor Alexandre Anesio, ha scoperto che i ghiacciai pullulano, sopra e sotto la superficie di diverse migliaia di specie di microrganismi in grado di sopravvivere in ambienti estremi. «Una piccola pozza di acqua di fusione su un ghiacciaio può facilmente ospitare 4.000 specie diverse di microbi. Vivono di batteri, alghe, virus e funghi microscopici. È un intero ecosistema di cui non conoscevamo l’esistenza fino a poco tempo fa», spiega Anesio.

Sui ghiacciai non mancano sole, ossigeno e acqua, indispensabili per la vita, tuttavia, fino a oggi, i ricercatori ritenevano che il ghiaccio non contenesse sufficienti nutrienti. Il nuovo studio danese prova, viceversa, che il nutrimento c’è. Solo in quantità incredibilmente ridotte, spiega Alexandre Anesio.

Uno dei microrganismi che i ricercatori hanno studiato più a lungo è una piccola alga nera che, crescendo sulla superficie del ghiaccio, lo tinge di nero. Questo provoca diversi

effetti. «Quando il ghiaccio si scurisce, riflette meno la luce del sole. Il calore del sole è così assorbito dal ghiaccio, che inizia a sciogliersi. Più il ghiaccio si scioglie, più la temperatura sulla Terra si riscalda. Ne consegue che le alghe svolgono quindi un ruolo importante nel riscaldamento globale» spiega Anesio.

Secondo lo studio danese, pubblicato sulla rivista Geobiology, nel corso degli ultimi anni nelle zone artiche, aree sempre più vaste si sono macchiate di alghe, accelerando lo scioglimento dei ghiacciai. I cambiamenti climatici fanno sì che la primavera arrivi sempre prima nell’Artico e di conseguenza le alghe abbiano una stagione più lunga per crescere ed espandersi. «Le alghe si diffondono un po’ di più ogni anno. Quando vado in Groenlandia, vedo vaste aree in cui il ghiaccio è completamente scuro a causa delle alghe», continua Anesio.

Il team dei ricercatori sta anche cercando di capire se è possibile rallentare la crescita delle alghe. «Abbiamo ipotizzato che alcune spore fungine possano mangiare le alghe nere» afferma Anesio. Tuttavia, gli autori sanno bene che, anche trovando un modo per frenare la crescita delle alghe, questo non risolverà il fenomeno del cambiamento climatico, potrebbe solo rallentarlo. La presenza sempre maggiore delle alghe è una conseguenza del rilascio di troppi gas serra nell’atmosfera. Ed è qui che il problema deve essere risolto, diminuendo le nostre emissioni.

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Le alghe si trovano in pratica ovunque: nel mare, nei laghi, sugli alberi e sulle rocce e persino come piccole spore nell’aria. La maggior parte di esse è di colore verde come la clorofilla, il pigmento presente al loro interno. «Sul ghiaccio le alghe sono bombardate dalla luce solare e dalle radiazioni e per questo motivo producono una grande quantità di pigmento scuro che protegge le molecole di clorofilla dalle radiazioni pericolose», spiega il ricercatore. Quando il pigmento assorbe i raggi solari, genera calore. Questo calore fa sciogliere il ghiaccio intorno alle alghe e questo va a loro vantaggio, poiché per vivere hanno bisogno dell’acqua e dei micronutrienti presenti nel ghiaccio.

Anche la NASA ha mostrato interesse per gli studi del team di Anesio perché i risultati potrebbero essere fondamentali nella ricerca della vita nello spazio. «La NASA ci ha contattato più volte perché stiamo lavorando con forme di vita che abitano in uno dei luoghi più inospitali della Terra. Se la vita prospera sopra e sotto il ghiaccio, è probabile che troveremo forme di vita per esempio anche sulle superfici di ghiaccio di Marte o delle lune ghiacciate di

Giove e Saturno» spiega Anesio. Come spiegato nello studio, la NASA è molto interessata alla ricerca di vita nel ghiaccio perché finora non è stata trovata acqua liquida su nessun altro pianeta del sistema solare, ma c’è molto ghiaccio. Tuttavia, proseguono i ricercatori, ci sono prove che suggeriscono la presenza di oceani liquidi sotto la superficie ghiacciata di Encelado, la luna di Saturno, e di Europa, la luna di Giove, e una delle necessità della vita, come la conosciamo, è proprio l’acqua liquida. Per questo motivo, la NASA e le altre agenzie spaziali sono molto interessate a saperne di più sul tipo di vita che può vivere sopra e sotto il ghiaccio. Gli organismi che cercheranno sulle lune di ghiaccio probabilmente assomigliano a quelli scoperti in Groenlandia. «Come noi, alla NASA sono molto interessati a capire come sopravvivono i microrganismi sul ghiaccio. Di quanto nutrimento hanno bisogno? Che tipo di nutrimento? E come funziona l’ecosistema di cui fanno parte? Queste sono tutte domande alle quali speriamo di poter rispondere in futuro proseguendo le nostre ricerche» conclude Anesio.

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(S. B.) Anche la NASA ha mostrato interesse per gli studi del team di Anesio perché i risultati potrebbero essere fondamentali nella ricerca della vita nello spazio. © RAW-films/shutterstock.com Ghiacciaio Knud Rasmussen, Groenlandia orientale.

UN BIOSENSORE PER LA SICUREZZA ALIMENTARE

Pubblicata su Advanced Materials la ricerca di una nuova sensoristica per la rilevazione di contaminazioni alimentari

La presenza di contaminanti microbiologici e chimici nei prodotti alimentari può essere correlata a molteplici cause quali la contaminazione ambientale, i metodi di produzione agricola e di processo delle materie prime, il conseguente immagazzinamento, confezionamento e trasporto del prodotto finito, fino a pratiche di adulterazione fraudolenta. Inoltre, prodotti alimentari contaminati devono essere ritirati dal mercato e smaltiti in quanto non rispondenti ai criteri normativi europei o agli standard di qualità, con conseguente spreco di

cibo ed ingente perdita economica. Di conseguenza, negli ultimi anni si è di molto intensificato lo sforzo per la realizzazione di nuove tecnologie per una sensoristica non solo veloce, accurata, quantitativa e a basso costo, ma che possa anche essere facilmente trasferita dai laboratori di analisi agli ambienti di lavoro reali.

Stefano Toffanin, dirigente di ricerca presso Cnr-Ismn e coordinatore dei progetti europei H2020 MOLOKO e h-ALO, ha dichiarato: «L’attività di ricerca sviluppata da Cnr-Ismn di Bologna riporta l’innovativo approccio di utilizzare dispo -

sitivi optoelettronici organici per realizzare una nuova architettura di biosensore ottico proprio in virtù delle peculiari caratteristiche di questi dispositivi come OLED (diodi organici ad emissione di luce) e OPD (fotodiodi organici) di essere integrabili, modulari, planari e con spessore di qualche centinaio di nanometri mostrando performance ottiche ormai comparabili con le tecnologie competitive basate su semiconduttori inorganici. Nel nuovo sensore, il meccanismo di bio-riconoscimento molecolare selettivo, sensibile e multiplexing tipico di superfici nanostrutturate che sfruttano il fenomeno della risonanza plasmonica di superficie (SPR) viene abilitato in un chip di circa 1 pollice quadrato proprio grazie all’optoelettronica organica che ha sostituito le usuali componenti ottiche ingombranti e dispendiose che finora avevano impedito l’utilizzo della tecnologia SPR al di fuori dei laboratori di analisi specializzati».

Margherita Bolognesi, ricercatrice del Cnr-Ismn, ha aggiunto: «La vasta applicabilità del sensore in ambienti industrialmente rilevanti è stata dimostrata nella rilevazione di composti sia ad alto che a basso peso molecolare di interesse per la sicurezza e la qualità nella catena di produzione del latte: in particolare, la lattoferrina che è una proteina presente nel latte vaccino indicatrice di mastini ed infezioni delle mammelle nelle vacche e la streptomicina, un antibiotico tipicamente utilizzato negli allevamenti di bestiame e che può essere facilmente trasferito alla carne, al latte ed altri prodotti caseari contribuendo così al pericoloso problema di salute pubblica dell’antibiotico resistenza».

Toffanin ha concluso: «In futuro, il prototipo del sensore consentirà di effettuare le misurazioni direttamente sul campo e in tutti i punti della filiera del latte senza dover procedere all’invio dei campioni in laboratori attrezzati».

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Innovazione
di Pasquale Santilio

Un gruppo di ricercatori, fisici, medici e radiologi del Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Firenze, dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi, e dell’Azienda Usl Toscana centro, guidato dalla dottoressa Sandra Doria dell’Istituto di chimica dei composti organo metallici del Cnr di Firenze, è riuscito ad automatizzare il processo di valutazione della qualità d’immagine negli esami di tomografia computerizzata utilizzando l’intelligenza artificiale, allo scopo di ridurre le radiazioni al paziente. Al progetto, la cui modalità è stata descritta in uno studio pubblicato sul Journal of Medical Imaging hanno collaborato anche l’Istituto superiore di sanità e la Fondazione Bruno Kessler di Trento, utilizzando le risorse computazionali messe a disposizione da Uniser Pistoia.

La tomografia computerizzata è uno degli strumenti diagnostici più potenti e consolidati tra quelli a disposizione della medicina moderna. Tuttavia, l’analisi manuale delle immagini che vengono prodotte attraverso questa metodologia richiede molto tempo e la loro qualità è direttamente proporzionale alla quantità di radiazioni a raggi X a cui un paziente deve essere sottoposto per lo scopo.

Sandra Doria, coordinatrice della ricerca, ha spiegato: «Il nostro gruppo ha creato un algoritmo, analizzando i dati generali dall’esame visivo che diversi medici radiologi hanno effettuato su immagini Tc di un fantoccio, realizzato allo scopo di replicare le caratteristiche dei tessuti umani e la presenza di lesioni artificiali. Successivamente, sono stati sviluppati due modelli di intelligenza artificiale che sono stati addestrati e testati attraverso l’utilizzo delle immagini e delle risposte dei medici raccolte precedentemente».

Questi modelli potrebbero rappresentare una strategia di valutazione automatica della qualità di un’imma-

MIGLIORARE LA TAC CON L’AIUTO DELL’IA

La ricerca, pubblicata sul Journal of Medical Imaging, ha automatizzato la valutazione della qualità d’immagine

gine Tc, che consentirà di ottimizzare il dosaggio delle radiazioni, per non esporre i pazienti a una quantità di raggi X eccessiva.

La ricercatrice Sandra Doria ha concluso: «Durante i trattamenti o le procedure diagnostiche, un paziente deve essere esposto a livelli minimi di radiazioni, secondo il principio noto “a slow as reasonably achievable” (ALARA). In quest’ottica, il personale medico deve trovare un compromesso tra l’esposizione ai raggi X e l’ottenimento di immagini di buona qualità, anche per evitare diagnosi errate. I risultati che abbiamo ottenuto

attraverso questo studio sono molto promettenti: i nostri modelli possono identificare con accuratezza un oggetto inserito nel fantoccio, come sarebbe in grado di fare un medico radiologo. Auspichiamo, nel prossimo futuro, di riuscire ad applicare questi modelli su una scala più ampia e a rendere le valutazioni ancora più veloci e sicure, semplificando notevolmente il processo di ottimizzazione della dose di radiazioni utilizzata nei protocolli Tc. Questo aspetto è fondamentale per ridurre i rischi per la salute del paziente e per ottimizzare le tempistiche delle valutazioni mediche». (P. S.).

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Innovazione

ALZHEIMER E ALTERAZIONI NEGLI ASTROCITI

La ricerca, pubblicata su Nature Communications, potrà favorire la diagnosi precoce e lo sviluppo di terapie mirate

Un team di ricercatori dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Padova e Pisa (Cnr-In) e del Dipartimento di scienze biomediche dell’Università degli studi di Padova ha condotto uno studio sulle alterazioni dei segnali intracellulari nella malattia di Alzheimer, una patologia neurodegenerativa, ancora oggi incurabile, che colpisce oltre 50 milioni di persone nel mondo. L’Alzheimer si caratterizza per una progressiva atrofia cerebrale con perdita di memoria e problemi cognitivi e, nella maggior parte dei pazienti, si presenta in

forma sporadica. Solo nel 5% dei casi è possibile riscontrare una origine familiare, ovvero causata da mutazioni genetiche ereditarie.

Per questa ricerca, pubblicata su Nature Communications, sono stati utilizzati modelli murini che conservano alcune caratteristiche tipiche delle forme ereditarie della malattia. Micaela Zonta, ricercatrice del Consiglio nazionale delle ricerche dell’Istituto di neuroscienze e autrice dello studio, ha spiegato: «Sappiamo che gli animali che presentano questo tipo di mutazioni genetiche manifestano difetti di memoria. La ricerca, fino ad

oggi, si è concentrata principalmente sulle disfunzioni a carico dei neuroni, ma numerosi studi hanno evidenziato l’importanza degli astrociti, cellule che interagiscono in maniera continua e dinamica con i neuroni per un corretto funzionamento del cervello. Nel nostro progetto abbiamo rilevato una riduzione dell’attivazione degli astrociti nella corteccia cerebrale deputata alla ricezione degli stimoli sensoriali: questo difetto degli astrociti compromette la plasticità sinaptica neuronale, un fenomeno che è alla base dei processi di memoria e apprendimento. Abbiamo quindi esplorato la capacità di memoria sensoriale in questi animali, rivelando che non sono in grado di mantenere memoria del riconoscimento di un oggetto percepito con l’esplorazione tattile».

La ricerca approfondisce anche il meccanismo che è alla base della riduzione del segnale degli astrociti, dimostrando che questo deficit è causato dalla diminuzione di una particolare proteina.

La ricercatrice del Consiglio nazionale delle ricerche ha così concluso: «Abbiamo indotto la produzione della proteina STIM1 negli astrociti, ottenendo la completa riattivazione del loro segnale e il recupero della plasticità sinaptica. Questo risultato è importante perché propone un nuovo meccanismo su cui poter agire per contrastare la progressione dei sintomi cognitivi. Nelle patologie del sistema nervoso, porre l’attenzione su tutte le cellule cerebrali con un approccio integrato potrà portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche e all’identificazione di nuovi potenziali biomarcatori, allo scopo di ottenere una diagnosi precoce che consenta di intervenire nei primi stadi della malattia». Questo studio è stato dedicato alla memoria del Professor Tullio Pozzan, riconosciuto in tutta la comunità scientifica internazionale come uno dei pionieri nello studio del segnale Ca2+. (P. S.).

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Danilo Fontana, ricercatore del Laboratorio Enea di Tecnologie per riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, ha spiegato: «Considerata l’importanza strategica del tema, abbiamo aperto una linea di ricerca dedicata all’estrazione del magnesio dalle salamoie e, in questo contesto, abbiamo prodotto e pubblicato una review propedeutica alle attività in corso».

Attualmente sono operativi nel mondo quasi 16mila impianti di desalinizzazione che producono circa 95 milioni di metri cubi al giorno di acqua desalinizzata. La produzione di salamoia, invece, ammonta a 142 milioni di metri cubi al giorno con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar a guidare la classifica mondiale per generazione di scarti dalla desalinizzazione dell’acqua destinata a usi civili.

«Le attuali tecnologie di desalinizzazione producono grandi quantità di salamoie che hanno una salinità tre volte maggiore rispetto a quella dell’acqua di mare. Il loro smaltimento comporta una serie di problemi ambientali per l’ecosistema acquatico, nel momento in cui vengono riversate in mare. Nel contempo, le salamoie rappresentano una preziosa fonte secondaria di magnesio che, se recuperato, potrebbe essere impiegato in numerosi settori industriali», ha aggiunto Fontana che ha curato la pubblicazione insieme al team di ricerca composto da Federica Forte, Massimiliana Pietrantonio, Stefano Pucciarmati e Caterina Marcoaldi.

Il magnesio è un metallo che non si trova in natura nella sua forma elementare ed è l’ottavo elemento più abbondante nella crosta terrestre (circa il 2%). Nelle salamoie provenienti dagli impianti di dissalazione i valori di concentrazione del magnesio sono molto elevati (1860-2880 milligrammi per litro). Sono presenti, in grandi quantità, anche il sodio (15.300-25.240 mg/ litro), il calcio (520-960 mg/litro) e il

COME RECUPERARE IL MAGNESIO DAL MARE

Una ricerca di Enea, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environment, Development and Sustainability

potassio (740-890 mg/litro).

Fontana ha sottolineato: «Ma è il magnesio il metallo più interessante per il suo impiego a livello industriale e per questo la Commissione Europea lo ha inserito nella lista dei 34 materiali definiti critici, per l’elevato rischio di approvvigionamento e valore strategico. Il maggior produttore di magnesio è la Cina, che fornisce circa il 90% dell’offerta mondiale; seguono la Russia (6&), il Kazakistan (2%), Israele (2%) ed il Brasile (2%).

Le principali applicazioni del magnesio sono le leghe di alluminio che vengono utilizzate in particolare negli

imballaggi (35%), nei trasporti (25%) e nelle costruzioni (21%); questo elemento è impiegato anche nell’industria farmaceutica, da quella alimentare e cosmetica e per il trattamento delle acque reflue. Il magnesio trova ampia diffusione anche nei settori automobilistico, aerospaziale e della produzione di attrezzatura sportiva dove viene impiegata una particolare tecnologia, chiamata pressofusione di magnesio, che sfrutta le proprietà del magnesio per realizzare con facilità, alta precisione e bassi costi, componenti di forma complessa e dallo spessore sottile. (P. S.).

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Innovazione

UN VIOLENTO TERREMOTO NEL CUORE DELL’ERUZIONE: L’ULTIMO SEGRETO DI POMPEI

Il ritrovamento di due scheletri nell’Insula dei Casti Amanti fa luce sugli eventi Non solo lapilli e correnti di fuoco: le vittime alle prese con un’altra minaccia

54 Giornale dei Biologi | Mag 2023 Beni culturali

L’eruzione del Vesuvio, con le sue tempeste di lapilli e le terribili correnti piroclastiche. Ma anche un violento terremoto, che contribuì a far crollare molti edifici della città. Si arricchisce di nuovi e importanti scoperte la ricostruzione delle ultime, concitate fasi di vita dell’antica Pompei, grazie al rinvenimento degli scheletri di due vittime avvenuto nel corso di uno scavo nell’Insula dei Casti Amanti. I ricercatori li hanno ritrovati al di sotto di un muro crollato tra la fase finale di sedimentazione dei lapilli e prima dell’arrivo delle correnti di fuoco, nel corso del terribile evento vulcanico del 79 dopo Cristo. La prova, probabilmente decisiva, che in quell’inferno di fiamme, cenere, gas e pomici ci fu anche un’altra grave minaccia da fronteggiare per gli sventurati abitanti di una delle più importanti e fiorenti città campane di epoca imperiale: un terremoto, appunto.

Gli scheletri sono emersi durante i lavori di scavo di un cantiere di messa in sicurezza, re-

styling delle coperture e riprofilatura dei fronti di scavo dell’Insula dei Casti Amanti, così chiamata per la presenza della decorazione di un triclinio con quadri raffiguranti tre banchetti ambientati in altrettanti momenti dell’anno, tra cui quello estivo con lo scambio di un tenero bacio tra due innamorati. L’Insula poco prima dell’eruzione era interessata da lavori di ristrutturazione, molto probabilmente per riparare i danni di un sisma avvenuto qualche tempo prima, come dimostrato dai lavori di sistemazione idraulica e dalle decorazioni in rifacimento in un ambiente della Casa dei Pittori. Le due vittime hanno perso la vita, in base ai dati delle prime analisi antropologiche sul campo, a causa di trami multipli provocati dal crollo di parti dell’edificio dove si erano rifugiati. Con tutta probabilità si trattava di due individui di sesso maschile, entrambi di età superiore ai 55 anni.

Un involto di stoffa avvolgeva il cranio e il collo di uno dei due. All’interno sono stati trovati dei vaghi di collana e diverse monete, tra cui un denario repubblicano del II secolo a.C. e altre più recenti, coniate sotto l’imperatore Vespasiano. Nella stanza dove erano posizionati gli scheletri sono

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emersi altri oggetti quali un’anfora, vasi, ciotole e brocche. Ma il dettaglio più interessante è rappresentato dai danni subiti dalle due pareti, causati da un violento terremoto. La muratura della parete sud, in particolare, è crollata colpendo uno dei due uomini, che aveva il braccio alzato nel vano e disperato tentativo di proteggersi. La parete ovest, invece, ha subito il distacco della sezione superiore, che ha travolto l’altro uomo. E che l’edificio fosse interessato

“Il ritrovamento dei resti di due pompeiani dimostra quanto ancora vi sia da scoprire riguardo la terribile eruzione del 79 d.C”.

da lavori di ristrutturazione lo suggerisce anche la presenza di un mucchio di calce in polvere ritrovata in un ambiente adiacente.

«Il ritrovamento dei resti di due pompeiani avvenuto nel contesto del cantiere in opera nell’Insula dei Casti Amanti dimostra quanto ancora vi sia da scoprire riguardo la terribile eruzione del 79 d.C. e conferma l’opportunità di proseguire nelle attività scientifiche di indagine e di scavo», ha dichiarato il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dopo l’importante scoperta. «Pompei è un immenso laboratorio archeologico che negli ultimi anni ha ripreso vigore – ha aggiunto il ministro –stupendo il mondo con le continue scoperte portate alla luce e manifestando l’eccellenza italiana in questo settore». Il ritrovamento ha consentito di riscrivere la cronologia degli eventi che sconvolsero Pompei in quei giorni d’autunno del I secolo. Adesso si conosce qualche particolare in più rispetto alle pur preziosissime testimonianze di Plinio il Giovane e alla stratigrafia dei depositi venuti alla luce nel corso degli scavi.

Prima dell’eruzione si verificarono diverse scosse di terremoto, alcune di elevata intensità. L’eruzione vera e propria, invece, ha vissuto tre fasi principali: una prima di apertura, di breve durata, annunciata da un’esplosione nel cratere del Vesuvio seguita da una nube di cenere propagatasi verso est; una seconda contraddistinta dalla formazione di un’alta colonna eruttiva, con abbondante caduta di lapilli; una terza caratterizzata dal succedersi di correnti piroclastiche, micidiali misture di gas e particelle solide ad alta temperatura che scorrevano lungo il suolo con notevoli capacità distruttive. Cosa successe a Pompei nel frattempo? Nel primo giorno la città fu travolta dalle pomici piovute dal vulcano. Lo spessore del deposito raggiunse i 280 centimetri, sommergendo il piano terra degli edifici e sfondandone il tetto. Nel secondo arrivarono le correnti piroclastiche, violente e distruttive, capaci di abbattere pareti e di lasciare ampie brecce nei muri, congelando nella cenere i pochi individui sopravvissuti. Tra il primo e il secondo giorno, come dimostrato dal rinvenimento delle vittime nell’Insula dei Casti Amanti, ci fu anche un violento terremoto, ulteriore e atroce minaccia in quelle tragiche ore che hanno consegnato Pompei all’eternità.

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Beni culturali
Archeologa al lavoro sui nuovi scherletri ritrovati a Pompei. (Fonte: www.pompeiisites.org)

Pindaro l’aveva definita “La città più bella tra i mortali” e sembra proprio che questa descrizione, anche con il passare del tempo, rimanga viva per la città di Agrigento. Questa, infatti, è stata proclamata Capitale italiana della Cultura 2025.

Le città finaliste candidate, oltre alla vincitrice, erano Aosta, Assisi (Perugia), Asti, Bagnoregio (Viterbo), Monte Sant’Angelo (Foggia), Orvieto (Terni), Pescina (L’Aquila), Roccasecca (Frosinone) e Spoleto (Perugia). Ciò che ha convinto la giuria, presieduta da Davide Maria Desario, è stato il progetto presentato, il quale, oltre a esaltare i propri territori e il suo patrimonio storico, è stato reso attuale grazie all’inclusione di Lampedusa, fonte di spunti di riflessione per quanto riguarda i rapporti interculturali, l’accoglienza e la mobilità.

La giuria ha motivato così la propria scelta, annunciata dal Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano: «Agrigento assume come centro del proprio dossier di candidatura la relazione fra l’individuo, il prossimo e la natura, coinvolgendo l’isola di Lampedusa e i comuni della provincia e ponendo come fulcro il tema dell’accoglienza e della mobilità. Il progetto risponde in modo organico all’obiettivo di presentare a un pubblico vasto un programma di grande interesse a livello territoriale, ma anche nazionale e internazionale».

Situata al centro della costa meridionale della Sicilia, è capace di conquistare ogni tipo di visitatore. Ogni angolo della città rimanda alla storia, un vero e proprio viaggio nel passato. La fondarono i coloni greci nel VI secolo a. C. con il nome di Akragas. Questa città pullula di testimonianze della cultura e dell’arte greca. Qui si trova il sito archeologico più famoso della Sicilia, la Valle dei Templi, patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Si tratta di un gruppo di templi dorici risalenti al V secolo a. C. Tra i più noti trovia-

AGRIGENTO CAPITALE

ITALIANA DELLA CULTURA

Il titolo per il 2025 va alla città siciliana, che ha coinvolto anche Lampedusa. Punterà sull’interazione tra individuo e natura

mo quelli della Concordia, di Ercole, di Zeus e di Era. Il parco contiene poi il Museo Archeologico Regionale di Agrigento. E ancora nella Valle troviamo il Giardino della Kolymbetra, che si estende per cinque ettari.

Con l’arrivo dei romani, dal II-I secolo a. C. fino al IV secolo d. C., la città prese il nome di Agrigentum. Testimonianza emblematica è sicuramente quella del quartiere ellenistico romano. La città moderna vanta un centro storico interamente medievale, piacevolmente visitabile perdendosi nei suoi tipici vicoletti. Non mancano paesaggi di un mare cristallino e di

splendide spiagge, oltre ovviamente alla sua cucina caratteristica.

Agrigento ispirò scrittori come Goethe o Tomasi di Lampedusa e in più diede i natali a personaggi notissimi come Empedocle, politico e filosofo del V secolo a. C., e al celebre scrittore Luigi Pirandello, di cui è possibile visitare la casa natale, posizionata in uno strapiombo con vista sul mare. Inoltre, nella sua provincia nacquero Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Dunque, in una commistione di bellezza, cultura, arte e benessere, Agrigento dona sensazioni e ricordi, arricchendo ognuno di noi.

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Tempio della Concordia, Agrigento.
culturali
Beni
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di Eleonora Caruso

DALLA SCHERMA “STOCCATE” DI VERO FAIR PLAY

Esempi positivi anche nel volley, nell’atletica leggera e nel calcio, dalla Serie A ai Dilettanti

58 Giornale dei Biologi | Mag 2023 Sport
di Antonino Palumbo

Rinuncereste a una sicura vittoria, a una medaglia d’oro, a una maglia di campione nazionale, per un gesto di fair play? La risposta non è sempre scontata, ma a ribadire la bellezza e il valore morale della sportività ci ha pensato questa primavera Emilia Rossatti, schermitrice dell’Accademia Bernardi Ferrara, nella finale della spada femminile ai campionati italiani Under 23. In palio, fra lei e Gaia Traditi delle Fiamme Oro, c’era sia il successo sia un posto per gli Europei di Budapest. A 17 secondi dalla fine, in vantaggio 12-9, Traditi è caduta infortunandosi alla caviglia. A quel punto, dopo l’intervento medico, invece di approfittare delle condizioni dell’amica-avversaria, Rossatti ha lasciato trascorrere il tempo senza attaccare, fra gli applausi del pubblico di Vercelli. «Non provare a vincere, dinanzi a un’avversaria, ch’è prima di tutto un’amica, infortunatasi, è la cosa più giusta che ho pensato di fare, e la rifarei altre mille molte» il commento di Emilia Rossatti.

La scherma, del resto, è una vera e propria maestra di fair play. Tanto che, lo scorso febbraio, un’altra atleta italiana si era messa in luce per il suo comportamento esemplare, nella tappa di Coppa del Mondo Under 20 a Beauvais, in Francia. Dopo aver vinto il primo assalto della fase a eliminazione diretta, per 15-14 sulla francese Juliette Baudinot, la spadista Mariaclotilde Adosini è stata richiamata in direzione di torneo, per un errore dell’arbitro che le aveva assegnato due stoccate invece di una, nei momenti decisivi. Da regolamento, l’azzurra avrebbe potuto tenersi la vittoria oppure accettare di tornare in pedana sul 13-12, cancellando l’errore arbitrale. E così è stato. Adosini è stata poi battuta, ma ha ricevuto l’ovazione del pubblico e il premio Fair play. Dal volley arriva invece l’esemplare gesto di Daniela Proietti, insegnante e allenatrice dell’Under 16 eccellenza della Sinergy Roma. Nel decisivo tie-break della finale con la River Volley Piacenza, le sue ragazze erano in svantaggio di cinque punti, quando si sono

© Artur Didyk/shutterstock.com Giornale dei Biologi | Mag 2023 59
Sport

viste assegnare erroneamente un punto dagli ufficiali di gara. Ma la palla era atterrata nettamente in campo e coach Proietti non ha esitato a dirlo agli ufficiali di gara, meritandosi il premio Fair play dell’evento e contribuendo a far emergere il carattere delle proprie ragazze, poi vincitrici del set e della partita.

Fair play vuol dire anche onorare fino alla fine l’impegno agonistico e i sacrifici fatti per esserci, a prescindere dall’esito della contesa. Anche se diluvia. E stava davvero diluviando a Phnom Pen, capitale della Cambogia, quando Bou Samnang ha tagliato il traguardo dei 5.000 metri piani. In un festival di monsoni, pioggia torrenziale e pozzanghere, l’atleta di casa era abbondantemente ultima a sei minuti dalla vincitrice, ma è stata più forte della

tormenta ed è riuscita a tagliare il traguardo. Per lei, il boato del pubblico, reiterato quando Bou ha alzato la bandiera della Cambogia ricevuta dopo l’arrivo. Non sempre vince solo chi arriva primo.

Come a Doha, Mondiali di atletica leggera 2019, anche lì nei 5.000 metri. Protagonista Braima Suncar Dabo, atleta della Guinea-Bissau, che a duecento metri dal traguardo ha letteralmente “raccolto” il collega Jonathan Busby, nazionale Aruba, per consentirgli di tagliare il traguardo. «Non è arrivato fin qui per abbandonare la gara, ma per finirla. Qualsiasi atleta in quella situazione avrebbe fatto la stessa cosa: aiutare qualcuno che, come me, rappresentava il suo Paese, era la cosa da fare» le parole di Dabo.

C’è del fair play anche nel calcio, con protagonisti noti e meno noti. A metà ripresa della partita con la “nemica” Juventus, il centravanti del Napoli Victor Osimhen, ha fermato il gioco bloccando il pallone con le mani, rinunciando a una favorevole ripartenza, dopo aver visto il giovane avversario Matias Soulè a terra a centrocampo. Un gesto applaudito da gran parte dei presenti allo Juventus Stadium. Dai riflettori della Serie A ai campi di provincia, non meno significativo è il gesto di Gianluca De Sanctis, punta del Varano Calcio, girone D della Prima Categoria abruzzese. Durante il match con il Santa Croce, De Sanctis si è visto convalidare un “gol fantasma” dalla direttrice di gara, fra le proteste avversarie. Proteste che si sono trasformate in applausi quando l’attaccante si è avvicinato all’arbitro, spiegando che il pallone non aveva superato la linea di porta e che, quindi, sarebbe stato opportuno invalidare la rete.

A volte, il fair play può avere effetti... collaterali, tali da rendere necessario un ulteriore gesto di sportività per rimediare. Come nella sfida tra Masafi e Al Arabi, campionato di seconda divisione degli Emirati Arabi. Un pallone messo fuori volontariamente dagli ospiti, è stato restituito dai padroni di casa, ma la traiettoria ha ingannato il portiere dell’Al Arabi che è cascato rovinosamente causando il raddoppio dei del Masafi. Ma il 2-0 è durato pochissimo, visto che alla ripresa del gioco i calciatori del Masafi sono rimasti fermi, permettendo agli avversari di segnare il gol del definitivo 2-1.

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Sport
Abbraccio tra Traditi e Rossatti durante la gara valida per il titolo italiano della spada Under 23. La scherma è una vera e propria maestra di fair play. Tanto che, lo scorso febbraio, un’altra atleta italiana si era messa in luce per il suo comportamento esemplare, nella tappa di Coppa del Mondo Under 20 a Beauvais, in Francia. Emilia Rossatti. © Rini Kools/shutterstock.com

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TRENTINO VOLLEY UNA GIOIA DOPPIA FIRMATA MICHIELETTO

Riccardo, team manager e responsabile del settore giovanile, Alessandro, giovane stella dell’Itas maschile, Francesca e Annalisa protagoniste fra le donne tra scudetto e promozione

Nello sport ci sono momenti talmente straordinari che sembrano unici. E che apparentemente sembrano irripetibili, perché rappresentano un concentrato di felicità più grandi di qualsiasi immaginazione. Il doppio successo della Trentino Volley, scudettata fra gli uomini e promossa in A1 fra le donne, rientra a pieno titolo fra le imprese sportive memorabili, per tutti gli sportivi della città sull’Adige e in particolare per una famiglia di pallavolisti che si è ritrovata a inseguire i sogni nello stesso contesto sportivo. Team manager e responsabile del settore giovanile della Trentino Volley è infatti Riccardo Michieletto, abile dirigente e orgoglioso papà di Alessandro, 21 talento della nazionale e della squadra maschile, Francesca e Annalisa, tesserate del team femminile che alla prima stagione di attività ha conquistato l’accesso nella massima serie. «È stata un’annata meravigliosa, ancora più bella perché siamo stati vicini, assieme. Impegnativa, va detto, perché le mie ansie si sono moltiplicate. Ma visto l’esito devo dire che ne è valsa la pena» sorride Riccardo, 55 anni.

Nella Superlega maschile, Trento è stata la prima fra gli “umani” in regular season, conquistando poco meno dei due terzi dei punti (44) rispetto a una Sir Safety Perugia (65) che sembrava avere la strada spianata verso lo scudetto, dopo tre finali consecutive perse con

la Lube. L’inattesa sconfitta degli umbri con l’Allianz Milano ai quarti dei playoff ha però rimescolato tutti i pronostici, rendendo avvincente la lotta per il tricolore. L’Itas Trentino ha eliminato prima Monza, vincendo la serie per 3 partite a 1, poi Piacenza per 3-2 (dopo la rimonta degli emiliani con un doppio 3-0) e in ultimo, in finale, i campioni d’Italia in carica di Civitanova. Fattore campo rispettato in tutte e cinque le partite, con Trento abile a imporsi per 3-0 in gara-5 e a festeggiare davanti ai propri tifosi. Fra i simboli dell’Itas c’è proprio Alessandro Michieletto. «Lui con Trento ha fatto la trafila nelle giovanili per poi passare in prima squadra e ora, dopo due anni, vincere lo scudetto. Personalmente, è un doppio bel risultato e un doppio bel traguardo» spiega papà Riccardo. Parlando della squadra, Michieletto senior spiega che a far prevalere Trento, alla fine, sia stata «la compattezza del gruppo e anche la capacità di conquistare il fattore-campo per tutti i playoff, malgrado i numerosi impegni nelle coppe: abbiamo fatto pochissimo turnover, forse ci abbiamo rimesso la Champions League ma è difficile essere competitivi ovunque». Il suo, Trento l’ha fatto: finale del Mondiale per club (con Perugia) e della Coppa Italia (con Piacenza), quarti di Champions League (fuori al golden set coi futuri campioni dello Zaksa), Final Four di Supercoppa e infine, meritato, lo scudetto. «E vincerlo in casa nostra è stato meraviglioso».

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Prima della festa per il tricolore, la Trentino Volley ha celebrato la promozione in A1 femminile, autentica cavalcata dopo un avvio difficoltoso (tre sconfitte di fila). Nella Poule scudetto è arrivata solo una sconfitta, ininfluente, al tie break con la Roma prima classificata. Poi, in semifinale con Talmassons e in finale con la Valsabbina Millennium Brescia, a Trento sono bastate due partite per avere ragione delle avversarie e mettere in cassaforte il salto di categoria. Tra le ragazze allenate da Stefano Saja ci sono Francesca e Annalisa Michieletto, l’una classe 1997 l’altra classe 2000, figlie di Riccardo e sorelle di Alessandro. «Il percorso di Francesca mi ha ricordato il mio – racconta Riccardo Michieletto – visto che a 16 anni andai da Mestre a Parma, mentre lei si è spostata a Trento per fare le giovanili. Poi tre anni nella Trentino Rosa prima di iniziare a girare l’Italia. E vederci pochissimo». Con l’ingresso della Trentino Volley, Francesca è entrata nella squadra di famiglia, avvicinandosi a casa per completare gli studi in Ingegneria. Con lei, Annalisa, all’esperienza più im-

Team manager e responsabile del settore giovanile della Trentino Volley è Riccardo Michieletto, abile dirigente e orgoglioso papà di Alessandro, 21 talento della nazionale e della squadra maschile, Francesca e Annalisa, tesserate del team femminile che alla prima stagione di attività ha conquistato l’accesso nella massima serie.

portante della giovane carriera. «Avere tutti e tre qui e festeggiare assieme è stato davvero perfetto», conclude il team manager della Trentino Volley.

Reduce dalla vittoria dei playoff di A2 con Macerata, Francesca ha rinunciato alla A1 per riprovarci a Trento. «Desideravo confrontarmi con una realtà nuova, alzare un po’ il livello della sfida. Ma andare alla Trentino Volley per me ha significato tornare a casa e completare l’Università. Sin dal primo momento, però, mi son detta che ce l’avrei messa tutta per riconquistare subito la A1» le parole di Francesca. Avere la sorella accanto tutti i giorni è stata un’emozione speciale, così come ritrovarsi dopo l’allenamento col padre o nel garage del palazzetto con tutta la famiglia, dopo una partita. Un concentrato di felicità, una storia unica del suo genere che si intreccia con quella della Trento pallavolistica. La squadra maschile campione d’Italia per la quinta volta, dopo un digiuno di otto anni; le ragazze promosse al primo tentativo. Nel segno dei Michieletto. (A. P.)

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Nella foto grande, Francesca Michieletto, nel tondo, Annalisa Michieletto. Nel riquadro in basso, Riccardo e Alessandro Michieletto.

GIRO D’ITALIA, IL COVID IN MAGLIA ROSA

Il virus ha privato la gara a tappe italiana di grandi protagonisti, come l’italiano Ganna e l’iridato Evenepoel

Nelle grandi corse a tappe ciclistiche, i ritiri sono all’ordine del giorno. Un incidente con conseguenze più o meno gravi, un malessere fisico, il completamento della propria tabella di marcia anzitempo: dolorose o meno, le rinunce a gara in corso rappresentano la normalità. Al Giro d’Italia 2023, da poco concluso a Roma, a dettar legge è stato un protagonista che credevamo ormai “staccato”, per usare un termine ciclistico: il Covid. Prima Filippo Ganna, poi l’atteso Remco Evenepoel tornato in maglia rosa dopo la seconda cro -

nometro, ma non solo: fra sospetti e polemiche la Corsa Rosa ha visto ritirarsi almeno una ventina di corridori per positività al temuto virus.

Fra i ritiri più altisonanti, c’è stato quello di Filippo Ganna, proprio alla vigilia della cronometro di Cesena nella quale cercava la rivincita dopo aver mancato la vittoria al debutto nel 106° Giro d’Italia. fare notizia e ad alimentare una coda di polemiche fra Patrick Lefevere, team manager della Soudal-Quick Step, e l’organizzazione del Giro d’Italia, è stato però l’addio del grande favorito Remco Evenepoel. Lui, sì, in gara nella tappa

contro il tempo a Cesena, vinta senza troppo entusiasmo, con un margine sugli avversari assai più risicato del previsto. Dopo la tappa, nella serata di domenica 14 maggio, il campione del mondo belga ha scoperto di avere il Covid e il giorno dopo il suo team ha comunicato il suo ritiro. A breve distanza, prima dell’undicesima tappa, da Camaiore a Tortona, per la stessa ragione hanno salutato la carovana altri quattro corridori della Soudal-Quick Step: Mattia Cattaneo, Jan Hirt, Josef Cerny e Louis Vervaeke.

Per alcuni, Evenepoel avrebbe potuto aspettare e prendersi almeno il giorno di riposo per riflettere e valutare il prosieguo, considerato che il regolamento Uci sulla gestione del Covid-19 nei Grandi Giri è stato infatti alleggerito quest’anno, e non obbliga più i corridori a rinunciare a una corsa in caso di contagio. Nell’ultimo documento ad hoc, l’Unione ciclistica internazionale ha infatti spiegato che «in caso di test positivo al Covid-19 in una squadra (corridori o tesserati), la decisione di isolare e allontanare il soggetto dalla gara saranno presi collettivamente dal medico della squadra interessata, dal medico della manifestazione e dal direttore medico dell’Uci».

La Soudal Quick-Step, squadra di Evenepoel, aveva tuttavia chiarito la propria posizione sin dall’inizio della stagione: «Non sappiamo quali potrebbero essere le conseguenze per il sistema cardiaco dei corridori e il nostro ruolo è quello di impedire ai nostri atleti positivi al Covid di continuare a gareggiare. Non siamo ancora certi che non avrà effetti sulla loro salute. È solo una questione di precauzione». E il boss del team, Lefevere, in una risposta su Twitter ha confermato la linea dopo il ritiro di Remco: «Non sai mai cosa sta succedendo nel tuo corpo. Nessun rischio». I campioni, potenti macchine da competizione, sono a loro volta ragazzi fragili. Ed è meglio tutelarli. (A. P.)

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Sport
© cristian ghisla/shutterstock.com Una tappa del Giro d’Italia 2023.

Alla vigilia ha dormito poco, colta dall’emozione come fosse una debuttante. Strano, per una campionessa olimpica in carica. Normale, se non gareggiavi da 21 mesi, passati a soffrire per un guaio fisico tenace e ostinato. L’importante ora per Antonella Palmisano, 31 anni, marciatrice d’oro a Tokyo 2020, è aver raggiunto la fine di quel tunnel. Con la gara di Madrid, a fine aprile, la pugliese ha iniziato a scrivere un nuovo capitolo. Il crono finale della 10 km castigliana, 45’05”, conta relativamente poco: l’importante è averla conclusa e averlo fatto senza problemi. «All’arrivo ho provato un senso di liberazione – le parole di Antonella dopo la prova di Madrid – e non ho neanche avvertito fastidi fisici, quindi non mi sono neppure servite le soluzioni a cui avevo pensato per gestirli. Posso essere contenta, malgrado la posizione in classifica non sia certo quella a cui ero abituata, ma per ora devo saperla accettare. Mi è solo da stimolo per le prossime gare».

Dal 6 agosto 2021, giorno del suo 30° compleanno e dell’oro olimpico a Tokyo in 1h29’12’, Antonella non aveva più gareggiato. Sono passati quasi ventuno mesi, durante i quali ha operato l’anca sinistra ma ha continuato ad avere problemi, tanto da rinunciare infine anche ai campionati italiani lo scorso 19 marzo. «Avverto delle fitte - ha raccontato a marzo alla Gazzetta dello Sport - e ho la sensazione di non poter gestire l’arto inferiore. Ho autonomia per una quarantina di minuti, per 7-8 km, non certo per una 20. Poi sento male». Antonella ha anche confessato di aver pensato di smettere perché «per i miracoli non sono attrezzata».

Nella gara di fine aprile a Madrid, il ritorno. Col sorriso. La regina della marcia azzurra si è piazzata 13esima in 45’05, preceduta dall’altra azzurra Valentina Trapletti, decima in 44’53”, mentre il successo è andato alla primatista mondiale della 20 km, la ci -

MARCIA, TORNA LA REGINA AZZURRA

Dopo un calvario di 21 mesi, l’olimpionica Antonella Palmisano ha disputato la prima gara dopo l’oro di Tokyo

nese Yang Jiayu (43’20), davanti alla connazionale Wu Quanming (43’33) e alla messicana Alegna Gonzalez (43’35). Ora Palmisano può guardare di nuovo con fiducia al futuro: «Credo di valere già un crono migliore su un tracciato pianeggiante, diverso da questo – il suo commento - che ho trovato anche più duro di quanto pensassi: un conto è ascoltarlo da chi lo dice, un altro è farlo. Le gambe lo hanno sentito, ma ero qui solo per cercare sensazioni diverse, per riassaggiare la competizione, per iniziare a vedere un po’ di luce. Questo risultato, ottenuto senza aver lavorato

tanto e senza aver dato il massimo, mi fa ben sperare».

Ora l’obiettivo di Palmisano si sposta su traguardi più importanti, quelli per cui una come lei merita di lottare: “Adesso so che posso allenarmi senza paura e che agli Europei a squadre posso puntare al minimo per i Mondiali di Budapest, dove voglio arrivare in condizione”. Il tempo da timbrare nella 20 km è 1h29’20”. A patto di ritrovare il sonno: «Sarà bello anche ricominciare a gestire le gare: di solito non avevo problemi, ma la scorsa notte ho dormito poco, mi sono sentita come una ragazzina alle prime armi…». (A. P.)

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Antonella Palmisano.
Sport

ZAMBONI, FORMA E SOSTANZA DI UN BESTIARIO SELVATICO PER CHI AMA LA NATURA

Intrusi e ritorni in Italia: dal lupo appenninico alla rana toro. Il musicista (Cccp, Csi) e scrittore emiliano osserva gli animali con occhi d’artista. Illustrazioni di Stefano Schiapparelli

Massimo Zamboni

“Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi”

La Nave di Teseo, 2023 - 18 euro

Dopo aver attraversato il punk rock italiano con i Cccp e i Csi, un’intensa carriera da solista e dieci libri all’attivo, Massimo Zamboni torna in libreria.

Musicista, cantautore, naturalista e scrittore. La libertà che lo ha portato nella vita professionale a passare da un campo all’altro somiglia, in qualche modo, a quella naturale delle bestie selvatiche raccontate nel suo ultimo libro.

Affascinato fin da bambino dagli animali, li ha osservati, ammirati da lontano e cercato di scovarli attendendo in religioso silenzio nel loro habitat. È questo, l’unico modo per conoscere da vicino quegli esseri selvatici che al mistero ed allo sfuggire devono la loro esistenza.

Zamboni ha messo insieme in un piacevole volume, appunti su ritorni e intrusi. Dedicato ad una particolare categoria di animali: gli alloctoni, coloro che letteralmente provengono da altre terre. Bestie che arrivano o tornano in Italia da paesi diversi. Quelli che credevamo fossero scomparsi per sempre, sono tornati “dalle nostre parti” adeguandosi a nuovi conte-

sti. Piccoli e grandi ritorni, come quello del castoro scomparso dall’Italia quando la Cappella Sistina era stata da poco inaugurata. Scrutando l’esistenza di aironi rossi, ibis eremiti, granchi blu, cani procione e ostriche portoghesi traccia in modo singolare i rapporti tra gli animali, la vita e l’ambiente che li circonda.

L’autore chiama «favolette a sfondo morale» i suoi incontri casuali o cercati con «uccelli, mammiferi, insetti, pesci, anfibi e rettili». Senza giudizi o pregiudizi (sono utili, dannosi, commestibili, a cosa ci servono?) si ferma ad osservarli con la meraviglia della prima volta, per riportarli a noi scevri di quell’aspetto selvatico con cui negativamente siamo abituati a pensarli.

Racconta come alcune specie sono arrivate nel nostro Paese, volando, nuotando o strisciando, attraversando cieli, mari o terre per ricordarci un pensiero fondamentale: la natura non è congelata e non si può fermare a nostro piacimento con fili spinati o confini. Una pungente metafora con la condizione degli esseri umani.

Il senso di sorpresa si rinnova ad ogni pagina quando si scopre che gli sciacalli abitano

66 Giornale dei Biologi | Mag 2023
Libri
di Anna Lavinia

nella pianura vicino Reggio Emilia o che la rana toro, seppur mai avvistata viva, saltella nei dintorni del Po. Esistono tranquillamente nei bordi della nostra vita e non lo sappiamo.

Il mondo che guardiamo distrattamente è fatto di un grande equilibrio tra il naturale e il materiale, pieno di sopraffazioni e soprusi. Ma osservando gli animali nella loro purezza, ci accorgiamo quanti suoni e quanta vita c’è oltre quello che percepiamo abitualmente. Il rendersi conto delle mille sfumature che ci circondano è un monito che ci ricorda la bellezza della complessità del nostro vivere.

Ultimo ma non meno importante, l’occhio attento dell’artista che chiude le pagine di un autentico bestiario: le illustrazioni di Stefano Schiapparelli, a fine volume, danno forma a tutto ciò che la scrittura di Zamboni ha raccontato e ha lasciato immaginare. Con la sua elegante e raffinata penna in un gioco di similitudini, allegorie e metafore ci invita a riflettere sul nostro rapporto con l’altro, il forestiero, il diverso. «L’idea di essere creature elette non si può più attuare [...]. E non si scansa una domanda: siamo diventati noi, gli alloctoni?».

Francesco Morace e Marzia Tomasin

“L’alfabeto della sostenibilità”

Egea, 2023 – 30 euro

La parola sostenibilità si ritrova sempre più spesso nelle dichiarazioni di politici e organizzazioni internazionali, negli impegni dei leader d’impresa e nella pubblicità di molti prodotti. Ma una parola così tanto abusata, insieme alla discrepanza tra impegni assunti e comportamenti praticati, può “bruciarsi” sul piano culturale?

Tove Ditlevsen

“Dipendenza”

Fazi, 2023 – 15 euro

Ultima parte autobiografica che scrive la parola fine a “La trilogia di Copenaghen”. Con la sua disarmante onestà, la scrittrice mette nero su bianco la dipendenza in tutte le sue forme. Moglie di un editore e poetessa famosa a soli vent’anni, non sa che l’uomo davvero sbagliato della sua vita deve ancora incontrarlo, insieme all’anestetico. (A. L.)

Kate Summerscale

“Atlante delle fobie e delle manie”

UTET, 2023 – 25 euro

Quanti riuscirebbero ad ammettere di essere nomofobici? Così è descritta infatti la paura di perdere il telefono catalogata insieme ad altre 98 tra fobie e manie dalla giornalista inglese appassionata di stranezze umane. Affrontare una paura apparentemente insensata può rivelare la capacità di superare traumi legati alla nostra vita. (A. L.)

Giornale dei Biologi | Mag 2023 67
Libri

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI

ISTITUTO ZOOPROFILATTICO

SPERIMENTALE DELL’ABRUZZO E DEL MOLISE G. CAPORALE DI TERAMOCONCORSO

Scadenza, 8 giugno 2023

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo addetto alla ricerca, a tempo pieno e indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 09-05-2023.

AZIENDA PROVINCIALE PER I

SERVIZI SANITARI DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

Scadenza, 9 giugno 2023

Mobilità volontaria per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina laboratorio di genetica medica. Gazzetta Ufficiale n. 38 del 19-05-2023.

Scadenza, 22 giugno 2023

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale eventualmente prorogabile per ulteriori due e definito, settore concorsuale 03/B1 - Fondamenti delle scienze chimiche e sistemi inorganici, per il Dipartimento di chimica, biologia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 39 del 23-05-2023.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI FISICA APPLICATA “NELLO CARRARA” DI FIRENZE

Scadenza, 5 giugno 2023

nell’ambito del programma di ricerca “. PROGETTO SANITÀ ITALIA-CIAD FORMAZIONE E INNOVAZIONE TECNOLOGICA (PSIC-FIT) per la seguente tematica: “Sviluppo di piattaforme tecnologiche per l’identificazione e la validazione di prodotti vegetali con valore fitoterapico e nutraceutico”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA BIOECONOMIA DI CATANIA

Scadenza, 6 giugno 2023

UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA”

DI ROMA

Scadenza, 11 giugno 2023

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track, settore concorsuale 05/C1, per il Dipartimento di biologia ambientale. Gazzetta Ufficiale n. 36 del 12-05-2023.

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

“ALMA MATER STUDIORUM”

Scadenza, 13 giugno 2023

Procedura di selezione, per la copertura di un posto di ricercatore, settore concorsuale 07/I1 - Microbiologia agraria, a tempo pieno e determinato della durata di settantadue mesi, per il Dipartimento di scienze e tecnologie agro-alimentari. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 09-05-2023.

UNIVERSITÀ DI PERUGIA

È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Fisica” da usufruirsi presso l’Istituto di Fisica Applicata “Nello Carrara” del CNR di Sesto Fiorentino (Firenze), nell’ambito del Progetto Autofinanziato - FOTOBIOLOGIA VEGETALE. Tematica: “Fotonica per la qualità delle produzioni agroalimentari”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER I SISTEMI BIOLOGICI DI MONTEROTONDO (ROMA)

Scadenza, 5 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno di ricerca “Assegni Professionalizzanti” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica da svolgersi presso l’Istituto per i Sistemi Biologici sede di Montelibretti (RM) del CNR

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno Professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Bioagroalimentari” da svolgersi presso l’Istituto per la BioEconomia del CNR – sede di Catania che effettua ricerca su tematiche attinenti l’Agricoltura di Precisione utilizzando dati prossimali e remoti per il monitoraggio delle colture e l’implementazione di nuovi sistemi modellistici e di supporto alle decisioni nell’ambito del programmi di ricerca RICINOLIO. per la seguente tematica: “Valutazione delle caratteristiche biologiche, morfologiche e produttive del ricino coltivato in aziende siciliane”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOCHIMICA E BIOLOGIA CELLULARE DI MONTEROTONDO (ROMA)

Scadenza, 8 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Post-Dottorale per lo

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Concorsi

svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica di Scienze Biomediche da svolgersi presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, nella sede di MONTEROTONDO, che effettua ricerca in “Scienze Biologiche, Biochimiche e Farmacologiche” nell’ambito del Progetto “Control of growth and invasiveness of glioblastoma by modulation of ciliogenesis in glioma stem cells. A novel target against glioblastoma for precision medicine” con scadenza 30/09/2024CUP B59C19000160001, per la seguente tematica: “Studio dei meccanismi molecolari di sensibilità/resistenza cellulare in modelli di glioblastoma”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI PERUGIA

Scadenza, 9 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 (uno) Assegno di ricerca “Post Dottorale” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze BioAgroalimentari” da svolgersi presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR, Sede di Perugia, nell’ambito del progetto di ricerca “WATSON A holistic frameWork with Anticounterfeit and inTelligence-based technologieS that will assist food chain stakehOlders in rapidly identifying and preveNting the spread of fraudulent practices”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER I POLIMERI, COMPOSITI E BIOMATERIALI DI NAPOLI

Scadenza, 9 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno professionalizzante (A) per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Chimiche,” da svolgersi presso l’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali sede di Pozzuoli del CNR che effettua ricerca scientifico-tecnologica nell’ambito del

programma di ricerca Capitale naturale e risorse per il futuro dell’Italia (FOE 2020) per la seguente tematica “Metodologie sostenibili per l’estrazione di biopolimeri, molecole bioattive ed additivi funzionali da biomasse vegetali: preparazione, caratterizzazione chimico-fisica di polimeri e biocompositi eventualmente sottoposti ad invecchiamento accelerato”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI TECNOLOGIE BIOMEDICHE DI BARI

Scadenza, 12 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Tipologia di Assegno: “Assegni Professionalizzanti” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Biomediche da svolgersi presso l’Area di Ricerca del CNR di Bari – Istituto di Tecnologie Biomediche (ITB), via Amendola, 122 – 70126 Bari sulla seguente tematica di ricerca: Potenziamento di una piattaforma per la produzione massiva di dati “omici” – Validazione dei dati di sequenziamento massivo con tecnologia Sanger. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NANO-

TECNOLOGIA DI LECCE

Scadenza, 12 giugno 2023

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “ Scienze biomediche “ da svolgersi presso la Sede Primaria di Lecce l’Istituto di Nanoteconologia NANOTEC) del CNR sulla seguente tematica: “Realizzazione di modelli di melanoma 3D e studio della sensibilità ai farmaci mediante sensori del metabolismo”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI BARI

Scadenza, 26 giugno 2023

È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 2 borse di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area Scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR Sede Secondaria di Bari, nell’ambito dei progetti di ricerca: SEVARA, FITOFARMACI, GUARDIA DI FINANZA, NATURE per la seguente tematica: “Caratterizzazione di ecosistemi contaminati mediante tecniche chimiche, microbiologiche e spettroradiometriche”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

Giornale dei Biologi | Mag 2023 69
Concorsi

BIOMATERIALI PER IL RILASCIO DEI FARMACI NELLA DRUG DELIVERY

La ricerca su materiali, come i biopolimeri, che siano in grado di interagire con le molecole biologiche e di essere metabolizzati senza causare danni all’organismo

Una definizione comunemente usata di biomateriale è “un materiale non vitale utilizzato in un dispositivo medico, destinato a interagire con i sistemi biologici”. Se le parole “utilizzato in un dispositivo medico” vengono rimosse, questa definizione può includere tutta l’ampia gamma di applicazioni in cui materiali sintetici e materiali naturali modificati si interfacciano con la biologia . Un’altra definizione è quella stabilita nel corso della II International consensus conference on biomaterials , tenutasi a Chester in Inghilterra nel 1991: «Si definisce biomateriale un materiale concepito per interfacciarsi con i sistemi biologici al fine di valutare, dare supporto o sostituire un qualsiasi tessuto, organo o funzione del corpo» .

In linea generale i biomateriali si possono classificare in base alla loro struttura chimica e provenienza, similmente a come si procede per qualsiasi altro tipo di materiale; si distinguono quindi in: metallici, ceramici, polimerici, biologici e compositi, intendendo, per questi ultimi, associazioni fisiche fra materiali diversi, per esempio polimeri rinforzati con cariche inorganiche. Ognuna di queste categorie presenta caratteristiche proprie, che ne rendono conveniente l’uso in applicazioni mediche specifiche. Si può anche optare per una classificazione che si rifà alle applicazioni cui tali biomateriali sono destinati, fra cui rientrano anche materiali utilizzati per dispositivi medici

* Chimica divulgatrice e collaboratrice di BioPills: il vostro portale scientifico.

(fili di sutura, tubi per sangue, ecc.).

In una prima fase della ricerca sui biomateriali sono state soprattutto le applicazioni strutturali, come ad esempio nell’ambito della riparazione dei tessuti o nelle protesi, quelle con più ampio utilizzo e su cui la letteratura scientifica si prodigava maggiormente. Anche grazie al fiorire delle nanoscienze, invece, negli ultimi decenni ha visto un notevole incremento la ricerca sui biomateriali da impiegare nel rilascio controllato di farmaci e nella veicolazione di principi biologicamente attivi attraverso i tessuti: la Drug Delivery.

Cos’è la drug delivery

Ci sono diversi obiettivi nella somministrazione di farmaci: uno di questi è controllare la durata di azione del farmaco e del livello del farmaco nel corpo umano; un secondo è indirizzare il farmaco in luoghi o cellule particolari nel corpo; un terzo è quello di superare alcune barriere tissutali come il polmone, la pelle o l’intestino o alcune barriere cellulari che possono essere importanti in applicazioni di terapia genica.

Nella somministrazione controllata di farmaci, generalmente si verifica il rilascio di farmaci tramite uno fra tre meccanismi principali: diffusione, reazione chimica e attivazione e trasporto del solvente. Nel caso della diffusione, le principali geometrie di distribuzione dei farmaci comunemente usate sono due: un serbatoio dove si trova il farmaco circondato da una barriera polimerica oppure una matrice polimerica in cui il farmaco è generalmente distribuito uniformemente. In entrambi i casi, comunque, la diffusione attraverso il polimero è lo step che ne deter-

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Scienze
di Chiara D’Errico *

mina la velocità di rilascio.

Nel caso del controllo chimico, il rilascio del farmaco avviene tramite la degradazione del polimero da parte del solvente o si può avere rilascio del farmaco tramite una reazione chimica; in alternativa, il farmaco può essere attaccato al polimero da un legame covalente che può essere scisso dall’acqua o da un enzima e rilasciare il farmaco.

Un terzo meccanismo è l’attivazione da parte del solvente: il farmaco può essere rilasciato sia attraverso il rigonfiamento del polimero in cui era precedentemente bloccato, sia per effetto osmotico, che può essere ottenuto quando l’acqua presente esternamente entra nel sistema di somministrazione del farmaco per forza motrice osmotica e successivamente lo trascina fuori dal sistema.

Un approccio per alterare la farmacocinetica e la durata dell’azione è quella di accoppiare covalentemente polimeri come polietilenglicole (PEG) al farmaco stesso: questo è stato usato per allungare la vita di proteine, come ad esempio l’interferone, riuscendo a farle durare, nell’uomo, fino a una settimana.

Per il targeting tissutali sono comunemente utilizzati polimeri biocompatibili, idrosolubili e non immunogenici, che si degraderanno o saranno eliminati dall’organismo; questi polimeri vengono legati chimicamente ai farmaci, idealmente attraverso legami che vengono scissi una volta raggiunto il loro obiettivo, per esempio un tumore. Cambiando il farmaco da una piccola molecola a una grande molecola, la biodistribuzione del farmaco viene alterata. Questo approccio è stato utilizzato nella chemioterapia del cancro: il concetto è che farmaci antitumorali a basso peso molecolare somministrati per via endovenosa penetreranno nella maggior parte dei tessuti perché passano rapidamente attraverso le membrane cellulari. Pertanto, il farmaco verrà distribuito rapidamente in tutto il corpo, senza selettività tumorale; tuttavia, se i collegamenti polimero-farmaco sono progettati in modo che siano stabili nel sangue, il coniugato polimero-farmaco circolerà per

un tempo più lungo del solo farmaco, a causa dell’alto peso molecolare (tale coniugato può generalmente entrare nelle cellule solo per endocitosi). Perché la maggior parte dei tessuti normali è intatta, il farmaco-polimero si accumulerà maggiormente nel tumore, che invece ha un letto vascolare danneggiato.

È possibile ottenere un targeting specifico per tessuti specifici accoppiando il polimero-farmaco con una molecola come un anticorpo o un carboidrato riconosciuto dai recettori della superficie cellulare dei tessuti.

Una sfida è stata scoprire molecole che fossero compatibili con i target. Un esempio interessante di obiettivo raggiunto con successo è il galattosio, che è riconosciuto da un recettore che si trova sulla superficie cellulare degli epatociti, l’asialoglicoproteina.

Sempre per il targeting e per la formulazione di farmaci per via endovenosa più sicuri sono stati utilizzati i liposomi, ad esempio nel caso della doxorubicina per il trattamento del sarcoma di Kaposi, associato all’HIV, e dell’amfotericina B liposomiale per le infezioni fungine nel cancro.

Biomateriali usati per la drug delivery

La necessità di avere materiali che da una parte siano in grado di interagire con le molecole biologiche, come le membrane cellulari, specifiche proteine o, ancora, acidi nucleici per la terapia genica, e che siano allo stesso tempo in grado di essere metabolizzati senza causare danni all’organismo, ha portato la ricerca sulla drug delivery a rivolgersi ai biomateriali, soprattutto ai biopolimeri. In particolare, polimeri in forma di nanoparticelle possono essere utili nel risolvere problemi di somministrazione, di specificità e nel ridurre gli effetti avversi dei farmaci.

In generale, le nanoparticelle potrebbero essere ottimizzate per migliorare la biodisponibilità del farmaco, sia aumentando il loro assorbimento attraverso una maggiore solubilità, sia facilitando il loro passaggio attraverso

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Scienze
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le membrane biologiche. Il rilascio di farmaci potrebbe anche essere controllato e mantenuto a livelli terapeutici, regolando la composizione del sistema di nanoparticelle. Potrebbero anche facilitare la terapia combinata, mediante l’incorporazione di più di un ingrediente attivo. Il progresso nelle terapie biologiche, o immunoterapie, è stato favorito dai progressi della nanotecnologia, in quanto consente una migliore somministrazione di farmaci di origine genetica o proteica. La funzionalizzazione delle nanoparticelle consente il riconoscimento del sito specifico di azione, evitando elevate concentrazioni sistemiche e riducendo gli effetti collaterali; questa proprietà si è rivelata molto utile in ambito diagnostico, combinando il targeting specifico con il trasporto e il rilascio di un mezzo di contrasto. Poiché i monomeri possono possedere qualsiasi struttura, purché abbiano almeno due gruppi funzionali in cui possono reagire con un altro monomero, idealmente, selezionando il giusto tipo di monomero, si potrebbe preparare un polimero per ottenere proprietà specifiche. I polimeri non sono solo un tipo speciale di materiale che può racchiudere tutte le caratteristiche sopra menzionate, ma anche la grande versatilità sintetica che esibiscono consente al ricercatore di personalizzarli secondo le esigenze o gli obiettivi finali. Al fine di ottenere determinate proprietà, l’adattamento polimerico potrebbe essere effettuato direttamente sui biopolimeri mediante derivatizzazione chimica; un’altra opzione è la preparazione di polimeri sintetici dai loro monomeri corrispondenti, che possono portare a un’ampia gamma di strutture e applicazioni.

Per questi motivi i materiali polimerici stanno acquisendo grande importanza nella nanotecnologia in generale e vengono utilizzati come precursori in sistemi per la drug delivery.

Fra i polimeri naturali più usati nella preparazione delle nanoparticelle ci sono il chitosàno, il sodio alginato e l’albumina, mentre i polimeri sintetici più utilizzati sono l’acido polilattico (PLA), l’acido polilattico-co-glicolico (PLGA), il poli(N-vinil pirrolidone) (PVP), il PEG, il Poli-caprolattone, il Poli (metil-metacrilato), l’Acido poli-acrilico e la Poliacrilamide. L’acido polilattico (PLA) e il polilattico-co-glicolico (PLGA) sono tra i candidati più

promettenti; infatti, sono largamente usati in drug delivery, grazie alla loro biocompatibilità e alla loro capacità di dissolversi lentamente in soluzione acquosa.

Negli ultimi anni, inoltre, gli idrogel a base di polimeri naturali come la cellulosa, il chitosàno, l’amido e l’alginato di sodio hanno attirato ampia attenzione grazie alla loro eccellente idrofilia, atossicità, biodegradabilità e biocompatibilità.

La nano fibra di cellulosa, ad esempio, rispetto ad altri polimeri naturali non è solo ecologica e non tossica, ma ha anche un’elevata resistenza e dispersione; questa caratteristica fornisce una soluzione per migliorare la forza dell’idrogel, e inoltre la non tossicità e la componente ecologica la rendono un materiale interessante da usare come vettore di farmaci.

Di recente, gli idrogel reattivi agli stimoli stanno suscitando enorme interesse anche a causa della loro rapida risposta a stimoli ambientali come temperatura, pH, luce, campi elettrici o magnetici. L’uso di idrogel può essere utile non solo nel trasporto di farmaci tradizionali, ma anche per terapie cellulari: molte terapie in fase di sviluppo sfruttano l’abilità intrinseca delle cellule (ad esempio cellule insulari pancreatiche, cellule staminali e cellule progenitrici) di secernere attivamente biomolecole terapeutiche come i fattori di crescita o l’insulina. Le cellule vengono più spesso utilizzate sospese in una soluzione e

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in genere hanno bassi tassi di ritenzione nel tessuto di interesse e rapida perdita di vitalità nel corpo umano entro i primi giorni successivi alla delivery. Rispetto alla semplice delivery di cellule in soluzione, i sistemi di idrogel possono offrire una serie di significativi vantaggi: in primo luogo, gli idrogel possono essere progettati per proteggere le cellule dall’attacco del sistema immunitario rimanendo allo stesso tempo permeabili alle molecole terapeutiche, di segnalazione e metaboliche. Motivo per cui sono ampiamente utilizzati come membrane semipermeabili per cellule immunoisolanti (ad esempio cellule insulari pancreatiche) nella cura di molte malattie; un secondo vantaggio della cell delivery a base di idrogel è che questo approccio può concentrare i farmaci nei siti di destinazione.

I microgel sono sistemi particolarmente indicati per la delivery cellulare, a causa di una maggiore differenza di diffusione verso l’interno dell’ossigeno e dei nutrienti necessari per il mantenimento della vitalità cellulare, per la rapidità di rilascio delle biomolecole sintetizzate dalle cellule e la loro ottima capacità di smistamento; inoltre, la compatibilità cellulare è fondamentale, soprattutto durante i processi di gelificazione e degradazione, anche perché condizioni di gelificazione blande facilitano la vitalità cellulare dopo l’incapsulamento.

Adattare le interazioni idrogel-cellule può migliorare ulteriormente i risultati della terapia cellulare, in parte sintonizzando le secrezioni delle cellule e l’adesione delle cellule alla matrice, che è fondamentale per la loro fattibilità, conservazione e funzione; idrogel sintetici e alcuni idrogel naturali che mancano di siti di riconoscimento biologico per il supporto dell’attività cellulare possono essere modificati con frazioni biologiche, come un tripeptide di acido arginina-glicina-aspartico (RGD) e gruppi funzionali a piccole molecole .

Negli ultimi anni hanno suscitato grande interesse anche nanogel di cellulosa, grazie alla capacità versatile di questa molecola e alla sua degradabilità, inoltre si stanno sviluppando idrogel reattivi agli stimoli ambientali come temperatura, pH, luce, campi elettrici o magnetici, ecc.

Infine, una tecnologia per la drug delivery che sta acquistando sempre più spazio in letteratura e nella pratica clinica, in particolare in riferimento a trattamenti contro vari tipi di cancro, è quella basata su nanotecnologie di tipo liposomiale, alcune delle quali hanno già ottenuto l’approvazione della FDA. I liposomi, infatti, posseggono una struttura simile a quella delle membrane cellulari fosfolipidiche, con elevata biocompatibilità, ottima capacità di caricamento del farmaco al loro interno e possono essere facilmente modificati per migliorare il bersagliamento. In particolare, l’immunoterapia può essere facilmente integrata con questa tecnologia, riuscendo ad esempio ad attivare efficacemente cellule T e cellule NK, promuoven -

do il rilascio di citochine e interleuchine, entrambe classi di molecole che hanno dimostrato una buona efficacia antitumorale. Inoltre, è possibile combinare due o più tipi di nanovescicole per compensarne le mancanze.

La grande varietà e versatilità dei biomateriali, tanto di origine naturale quanto di sintesi, ne fanno dunque una risorsa imprescindibile su cui la ricerca scientifica può concentrarsi, in particolare nell’ambito della nanomedicina e della drug delivery. La drug delivery stessa è sicuramente una importante risorsa per la medicina del presente e del futuro, in special modo in terapie che richiedono una maggiore specificità nella somministrazione dei farmaci e la capacità di questi ultimi di riuscire a superare barriere cellulari o tissutali.

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Giornale dei Biologi | Mag 2023 73
Scienze

LA VITA DEI MICRORGANISMI DI PIANTE E VEGETALI NELLA FILLOSFERA

Le porzioni aeree e non lignificate della pianta, comprendenti il fusto, le foglie, i fiori, i frutti e presenti quindi al di sopra del terreno offrono un habitat unico per numerosi organismi

Le piante, quali organismi multicellulari, ospitano sulla loro superficie una moltitudine di microrganismi capaci di colonizzarle nella loro interezza. Esse stabiliscono con i microrganismi presenti nell’ambiente, un’intricata e complessa rete di interazioni che può influenzare fortemente le dinamiche ed i processi biologici di un ecosistema.

Le porzioni aeree e non lignificate della pianta, comprendenti il fusto, le foglie, i fiori (inclusi il polline e il nettare), i frutti e presenti quindi al di sopra del terreno, sono comunemente note con il nome di fillosfera e offrono un habitat unico per numerosi microrganismi. Diversamente dalla rizosfera, intesa come il volume di suolo che circonda le radici, la fillosfera può essere considerata un ambiente dalla breve durata, in cui il ricambio delle foglie e lo sviluppo di nuovi organi, sono scanditi dal ciclo delle stagioni.

Le foglie, quali elementi dominanti la fillosfera, sono fondamentali per i processi fisiologici di fotosintesi e di traspirazione.

L’epidermide superiore in una foglia plagiotropa (parallela al terreno) è incrostata di sostanze idrofobiche come la cutina, che costituisce uno strato di spessore variabile (< 0.1-10 μm) in grado di prevenire l’evaporazione dell’acqua. Altre componenti sono la suberina e numerosi peli (tricomi) che la proteggono dall’attacco di patogeni e riflettono l’eccessiva luce che può danneggiare i complessi proteici (fotosistemi) essenziali nel processo della fotosintesi. L’epidermide superiore, solitamente monostratificata, presenta al di sotto il clorenchima, un tessuto che si distingue per morfologia e funzione in parenchima a palizzata e parenchima lacunoso (o spugnoso). Le cellule del clorenchima a palizzata risul-

tano impacchettate l’una vicina all’altra per massimizzare il numero di cellule destinate alla fotosintesi e tra di esse sono presenti piccoli spazi intracellulari fondamentali per il loro funzionamento (trasporto di gas). Nel parenchima spugnoso sono numerosissimi gli spazi intracellulari che permettono ai gas che arrivano dagli stomi di circolare e raggiungere il parenchima a palizzata.

La sola superficie di entrambe le pagine fogliari (adassiale e abassiale) si stima raggiunga 1,017,260,200 km², un’area approssimativamente doppia della superficie terrestre. I microrganismi presenti nella fillosfera possono essere trasportati dalle correnti di aria o provenire dal seme, dal suolo o anche da altre piante. Quelli che riescono a sopravvivere, si moltiplicano e occupano nuove nicchie man mano che le foglie si espandono e fiori e frutti si sviluppano.

La vastità di superficie resa disponibile dalle foglie per la colonizzazione ospiterebbe potenzialmente circa 10 -10 cellule batteriche per cm² di superficie fogliare. Le dimensioni della popolazione fungina globale presente sulla fillosfera non sono state ancora stimate, ma si ritiene che siano di molto inferiori.

La maggior parte delle cellule batteriche che popola le foglie, differentemente da quanto si osserva per i funghi, costituisce degli aggregati di considerevoli dimensioni comunemente presenti a livello delle giunzioni tra cellule epidermiche, lungo i vasi linfatici e alla base dei tricomi. Qui, si trovano immersi in una matrice extracellulare di sostanze di diversa natura polimerica, che oltre a mantenere idratata la superficie attorno ai batteri, permettono di concentrare su una superficie molto piccola enzimi dalle attività detossificanti. Non solo i batteri e i funghi (intesi sia come funghi

74 Giornale dei Biologi | Mag 2023 Scienze
di Lucrezia Pinto

filamentosi che lievitiformi) sono capaci di vivere nella fillosfera, ma anche archea, licheni, briofite e protozoi, tutti in grado di sopravvivere in condizioni di scarsità di acqua e nutrienti.

Trattandosi di un sistema aperto, la fillosfera è infatti soggetta a molteplici cambiamenti e perturbazioni ambientali. Possono essere questi stimoli di tipo biotico quali ad esempio insetti impollinatori ed erbivori e di tipo abiotico come le radiazioni ultraviolette, le piogge e le alte temperature e gli interventi antropici come le pratiche agricole. Nel loro insieme, queste trasformazioni ambientali influenzano la comunicazione tra le piante ed i rispettivi microrganismi associati, rendendo la fillosfera un ambiente dinamico ed eterogeneo.

Per la sua posizione e funzione, la superficie delle foglie e del fusto offre spesso un ambiente a basso contenuto di sostanze nutritive, essendo queste regioni disconnesse dal suolo arricchito in acqua e nutrienti assorbiti dalle radici nonché soggette alla lisciviazione dovuta alle piogge che riversano nel terreno tutto ciò che incontrano in superficie. Ne consegue che a differenza della rizosfera, dove grandi quantità di assimilati provenienti dalla pianta sono accessibili ai microrganismi presenti nel suolo, sulle foglie la presenza di nutrienti è largamente limitata. Inoltre, la cuticola cerosa che riveste l’epidermide, oltre a non essere facilmente digerita dai microrganismi, impedisce il passaggio dei prodotti fotosintetici e di altri metaboliti presenti nel mesofillo, rendendo questo ambiente povero di zuccheri e di altri nutrienti (oligotrofico).

I microrganismi privi dei requisiti genetici necessari e quindi incapaci di sopravvivere, sono rapidamente esclusi da questo habitat altamente variabile e ostile, spiegando perché la composizione delle comunità epifite (che si sviluppano sulla superficie) che si ritrovano nella fillosfera sia sempre la stessa in piante della stessa specie.

Le fonti di carbonio identificate sulle superfici fogliari comprendono carboidrati, aminoacidi, acidi organici e alcoli e variano a seconda della pianta, mentre a livello delle aperture stomatiche vengono rilasciati composti organici volatili, di cui il più abbondante è il metanolo quale prodotto secondario nel processo di biosintesi della pectina. L’utilizzo della risonanza magnetica nucleare (NMR) ha permesso di identificare i principali carboidrati, rivelando la presenza di glucosio e in quantità inferiori anche di fruttosio e saccarosio.

Nella fillosfera, i batteri possono utilizzare diverse fonti di azoto come i composti organici (es. aminoacidi) ma anche inorganici come l’ammoniaca (NH3) e attività di azotofissazione, ovvero di conversione dell’azoto molecolare in ammoniaca, sono state rilevate qui come a livello della rizosfera.

Oltre al carbonio e all’azoto, i batteri hanno bisogno di macro- e microelementi per poter crescere e quindi fosfato, zolfo e ferro. Alcuni batteri sono capaci di sfruttare la luce producendo le batteriorodopsine, permettendo agli epifiti di convertire l’energia luminosa in energia chimica utile nei periodi di mancanza di altre sostanze.

La presenza dei batteri stessi può influenzare la disponibilità dei nutrienti, che mediante l’azione dei biosurfattanti scivolano dalla superficie delle foglie.

I batteri non patogeni che colonizzano la fillosfera sono noti per la capacità di modificare il loro microambiente producendo ormoni vegetali simili a quelli prodotti dalla pianta. Molti batteri e funghi conservano infatti la capacità di produrre l’acido indol-3-acetico (IAA), anche noto come auxina, un fitormone capace di aumentare la disponibilità dei nutrienti stimolando il rilascio di zuccheri presenti nella parete cellulare dei vegetali.

Come primo meccanismo di interazione tra microrganismi che colonizzano la fillosfera in uno stesso momento, è stata ipotizzata la competizione per fonti di carbonio e azoto. I carboidrati prodotti dalla fotosintesi sono rilasciati come essudati a livello delle superfici fogliari, insieme a metanolo, composti organici volatili, aminoacidi, acidi organici, composti inorganici e vari tipi di sali.

Alcuni microrganismi possono produrre molecole note come biosurfattanti e molti studi ne evidenziano in particolar modo il ruolo di protezione delle piante dall’attacco di

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microrganismi patogeni, probabilmente mantenendo attivo il sistema immunitario della pianta o mediante attiva competizione con i microrganismi estranei. Le cellule epidermiche reagiscono all’attacco dei patogeni predisponendo una risposta immunitaria localizzata, caratterizzata da un accumulo di specie reattive dell’ossigeno, irrobustimento della parete cellulare e morte cellulare programmata. Rimane però poco chiaro se queste cellule rispondano differentemente ai microrganismi non patogeni e se questa risposta resti attiva localmente o se venga integrata a livello sistemico.

La composizione chimica e la morfologia delle foglie influenza la distribuzione dei microrganismi e si pensa possa svolgere un ruolo essenziale nel selezionare soltanto alcuni generi e specie di microrganismi, in grado di contribuire alle funzioni fisiologiche e al mantenimento di uno stato di salute ottimale per la pianta.

Allo stesso tempo, come conseguenza di queste difficili condizioni, i microrganismi si distribuiscono irregolarmente nella fillosfera ma la loro composizione rimane perlopiù invariata in quanto i gruppi (phyla) dei microrganismi che popolano piante di specie e posizioni geografiche diverse sono sempre rappresentati dai Proteobacteria (es. ordini dei Rhizobiales e Sphingomonadales), Actinobacteria, Bacterioides e Firmicutes. Colpisce il fatto che i phyla prevalenti nell’intestino umano siano rappresentati esattamente dagli stessi gruppi ma in ordine inverso, con i Firmicutes come gruppo dominante e i Proteobacteria come i meno numerosi.

Nelle foreste tropicali, Sphingomonas e Pseudomonas (entrambi appartenenti ai Proteobacteria) sono i generi di batteri prevalenti. In diverse colture come riso, fagiolo, ce-

triolo, soia, lattuga, mais e radicchio, Sphingomonas, Methylobacterium e Pseudomonas sono ancora i generi più abbondanti. La dominanza di Sphingomonas spp. e Methylobacterium spp. può essere spiegata dalla presenza di fonti di carbonio da loro consumate mentre sembra che la capacità di spostarsi sfruttando i flagelli, sia fortemente vantaggiosa per Pseudomonas spp. a discapito degli altri batteri immobili. Tra i funghi filamentosi e i lieviti, gli Ascomycota e i Basidiomycota sono i più comuni nella fillosfera.

I microrganismi possono essere per le piante parassiti, commensali o mutualisti. Una chiara distinzione tra queste interazioni può essere difficile, soprattutto se tra commensali e simbionti mutualisti, in quanto anche per l’intestino umano, molte delle comunità microbiche che si pensava fossero commensali, sono oggi considerati simbionti mutualisti per il loro contributo al metabolismo e immunità dell’uomo. Così è nata l’affermazione di Janzen “plants wear their guts on the outside” (letteralmente: le piante indossando il loro intestino all’esterno).

Per i microrganismi della fillosfera, i benefici derivanti dall’interazione con la pianta sono i nutrienti, mentre i vantaggi per la pianta non sono sempre così ovvi. Si ritiene che le piante possano beneficiare della produzione di ormoni vegetali, ma per riconoscerne l’importanza bisognerebbe studiarne gli effetti sulla pianta in assenza di questi metaboliti.

La composizione e distribuzione del microbioma della fillosfera è essenziale per garantire la salute e la fitness delle piante ed è determinante per la resa e la qualità delle colture. I microrganismi residenti all’interno e all’esterno dei granuli pollinici (es. Lactobacillus spp.) giocano un ruolo importante nelle interazioni tra piante ed insetti impollinatori. Possono essere ingeriti da questi ultimi e influenzare la composizione e lo stato di salute del loro microbioma intestinale. In questo modo, insetti impollinatori sani assicurano l’impollinazione e la produttività delle piante.

Come già accennato in precedenza, la fillosfera ospita non solo interazioni di tipo vantaggioso con microrganismi benefici (es. endofiti del genere Streptomyces) ma anche di tipo svantaggioso, coinvolgendo patogeni fungini o virus che possono essere trasmetti alla pianta dal contatto

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con gli insetti. Studi condotti sul microbiota presente nella fillosfera hanno permesso di scoprirne l’elevato potenziale in materia di resistenza delle piante nei confronti di svariate malattie. Tra gli obiettivi più ambiziosi della ricerca scientifica, vi sono il miglioramento dello stato di salute delle piante così come l’incremento della produzione e la prevenzione della perdita di biomassa sfruttando la presenza di comunità microbiche vantaggiose per le piante.

Numerosi batteri patogeni colonizzano la superficie delle piante prima di sviluppare l’infezione e l’entità delle risultanti popolazioni è correlata con la severità dell’infezione: una possibile riduzione nel numero di patogeni porterebbe ad una maggiore protezione della pianta stessa.

Tra le modalità più promettenti per sopprimere la proliferazione dei patogeni si possono sfruttare la competizione per i nutrienti e lo spazio, l’antibiosi e la stimolazione della risposta sistemica nella pianta. Strategie alternative di biocontrollo prevedono invece l’utilizzo di ceppi batterici o fungini protettivi o combinazioni di ceppi differenti. Una maggiore comprensione della struttura delle comunità e delle interazioni multitrofiche nella fillosfera permetterà di sviluppare nuove strategie per il contenimento dei fitopatogeni e la protezione delle piante. Una maggiore conoscenza del ruolo e dell’importanza di questi microrganismi indigeni permetterà di predire e proteggere le piante in maniera più consapevole ed efficace.

Dallo studio della vita presente sulla fillosfera sono nate numerose linee di ricerca che si interessano di numerosi aspetti della nostra vita quotidiana. A seguito di numerosi episodi di infezioni associate a patogeni alimentari come Salmonella enterica ed Escherichia coli è infatti nata la microbiologia degli alimenti che studia i batteri patogeni e non per l’uomo e presenti nel cibo, inclusi frutta, verdura e insalate.

Un’ulteriore area di studio è rappresentata dal fitorisanamento, il quale si pone come obiettivo l’impiego delle piante per la rimozione degli inquinanti volatili presenti nell’aria. L’inquinamento presente nell’aria può infatti essere causa di problematiche legate alla salute umana, come malattie respiratorie e cardiovascolari e di tumori alla vescica e ai polmoni. Tra le molecole più frequentemente rilevate vi sono il materiale particolato (PMs da “Particulate Matter”), l’ossido di azoto (NO2), il diossido di zolfo (SO2), ozono (O3) e i composti organici volatili (VOCs).

Funghi e batteri sono capaci di degradare o trasformare gli inquinanti in sostanze meno o non tossiche (biodegradazione). A tal riguardo, nel 2007, fu coniato il termine di fillorisanamento, inteso come processo naturale di risanamento dall’inquinamento aereo sfruttando le foglie e i microrganismi ad esse associati.

Sandhu et al., dimostrarono che le foglie opportunamente sterilizzate e quindi private dei microrganismi sono capaci di catturare e degradare il fenolo presente nell’aria ma che la

presenza dei microrganismi sulla superficie ne aumentava significativamente la capacità di rimozione. Le foglie di azalea (Rhododendron L.) in associazione con il batterio Pseudomonas putida possono ridurre i VOCs, le foglie del lupino giallo (Lupinus luteus) insieme all’endofita Burkholderia cepacia riducono la presenza di toluene mentre le foglie di pioppo (Populus L.) e il Methylobacterium sp. riducono i composti xenobiotici.

La superficie delle foglie rappresenta un sito di cattura e accumulo di inquinanti provenienti dall’aria e sia i PMs che gli idrocarburi influenzano le comunità microbiche autoctone. L’analisi dei microrganismi presenti su foglie di platano (Platanus occidentalis) ha rivelato che la posizione degli alberi (in città o in un’area rurale) spiegava le più grandi differenze tra le comunità microbiche e che la quantità di PMs condizionava la composizione delle popolazioni microbiche.

Nel contesto urbano di Architettura Verde (Green Architecture) si inserisce dunque la realizzazione di edifici eco-friendly e di infrastrutture che minimizzino l’esposizione per la salute umana, agli inquinanti presenti negli spazi interni ed esterni degli edifici. Il verde diventa parte integrante e viva dell’architettura, permettendo la realizzazione di giardini verticali e installazioni botaniche già numerosissime in molte città italiane ed estere. L’impiego ottimale delle piante e dei loro microrganismi associati nell’architettura rappresenta una strategia promettente per migliorare la qualità dell’aria intrappolando le polveri sottili, ridurre il dispendio energetico ed abbassare la temperatura ambientale.

Bibliografia

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LE NEUROSCIENZE PER PREDIRE I DEFICIT NEUROLOGICI DA ICTUS

Comprendere meglio i processi che portano al decadimento del loro sistema nervoso, anche da un punto di vista evolutivo, può aiutare a comprendere alcune neuropatologie

Èstato di recente pubblicato uno studio intitolato “Recovery of neural dynamics criticality in personalized whole brain models of stroke” su «Nature Communications» che approfondisce il tema della predizione dei deficit neurologici nell’ictus attraverso modelli biofisici computerizzati dell’attività del cervello. I risultati dello studio sono dovuti ad una collaborazione internazionale tra team di fisici, neurologi e psicologi italiani ed esteri. Gli autori Rodrigo Rocha, Loren Kocillari, Samir Suweis, Michele De Grazia, Michel Thiebaut De Schotten, Marco Zorzi e Maurizio Corbetta, propongono una teoria della criticità cerebrale per spiegare le relazioni fra alterazioni cerebrali e funzione nei pazienti neurologici. I ricercatori sottolineano “Mostriamo che i modelli dinamici del cervello intero personalizzati in bilico sulla criticità tracciano le dinamiche neurali, l’alterazione post-ictus e il comportamento a livello di singoli partecipanti”.

La ricerca interdisciplinare nelle neuroscienze, ispirata dalla fisica statistica, ha suggerito che la dinamica neurale del cervello sano rimane vicino a uno stato critico, cioè in prossimità di una transizione di fase critica tra ordine e disordine, o tra attività oscillatoria asincrona o sincrona. Gli studiosi inoltre ipotizzano che i cambiamenti di criticità con il recupero dipendano da specifici meccanismi di plasticità o rimodellamento funzionale come mostrato in precedenti studi fMRI. Ci sono diversi aspetti delle indagini approfondite in questo studio. In primo luogo, hanno utilizzato un modello stocastico del cervello intero per simulare la dinamica neurale su larga scala, utilizzando come input la connettività strutturale misurata direttamente di un paziente con ictus o un controllo sano. Va sottolineato che non hanno adattato le dinamiche risultanti alla connettività funzionale misurata empirica. La connettività strutturale è

stata misurata in due punti temporali: tre mesi dopo l’ictus (t1) e un anno dopo l’ictus (t2) o tre mesi di distanza nei controlli sani ed è stata utilizzata per costruire modelli personalizzati di tutto il cervello. Le lesioni producono certamente deviazioni dalla normale connettività strutturale, ma queste alterazioni strutturali non corrispondono necessariamente ad un’alterazione di criticità. La dinamica critica risulta dalla combinazione di una topologia, determinata dalla connettività strutturale, e di un dato valore di eccitabilità. Il metodo utilizzato in questo studio consente di misurare gli scostamenti dalle criticità a livello di gruppo o nei singoli partecipanti, nonché il recupero delle criticità nel tempo.

Il team di ricerca ha applicato una innovativa strategia del modello di calcolo ad una coorte unica di pazienti con ictus studiati in modo prospettico e longitudinale alla Washington University di St. Louis. Questa coorte è stata studiata con un’ampia batteria di test neurocomportamentali e risonanza magnetica strutturale-funzionale a due settimane, tre mesi e dodici mesi dopo l’ictus. Questa coorte è rappresentativa della popolazione colpita da ictus sia in termini di deficit comportamentali, del loro recupero, sia della localizzazione del carico lesionale. In lavori precedenti, erano state caratterizzate le anomalie della connettività comportamentale, strutturale e funzionale in questa coorte e la loro relazione con il deterioramento comportamentale e il recupero.

Nella terminologia di rete, gli ictus provocano un’acuta diminuzione della modularità che si normalizza nel tempo. Occorre sottolineare che i meccanismi fondamentali alla base delle dinamiche dell’attività cerebrale sono ancora in gran parte sconosciuti. La loro conoscenza potrebbe aiutare a comprendere la risposta del cervello a condizioni patologiche, come le lesioni

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di Cinzia Boschiero

cerebrali (ictus). Nonostante gli sforzi della comunità scientifica, si hanno pure troppo pochi dati inerenti i meccanismi alla base del recupero funzionale e comportamentale dei pazienti colpiti da ictus. Gli studiosi sono partiti dal fatto che in fisica è noto da tempo che certi sistemi si trovano tra l’ordine e il caos in uno stato così detto “critico”. In un materiale ferromagnetico, per esempio, i dipoli magnetici si allineano con i loro vicini per formare piccoli campi magnetici locali. La disposizione casuale delle loro direzioni impedisce la formazione di campi più grandi, spiegano all’Università di Padova, partner della ricerca. Quando però il materiale viene raffreddato alla temperatura critica, i campi si allineano in domini di dimensioni sempre più grandi. Una volta raffreddato fino a raggiungere una temperatura “critica”, i dipoli si allineano in tutto il materiale formando un campo unico.

Le criticità come la transizione di fase ferromagnetica hanno caratteristiche distintive. Pertanto, le criticità sono state usate per descrivere molti fenomeni, dai ferromagneti ai terremoti o alla frequenza cardiaca umana ed è stato mostrato che anche il cervello potrebbe operare in prossimità di un punto critico, in cui tutti o buona parte dei neuroni hanno un comportamento collettivo e coordinato, che fornirebbe al sistema delle funzionalità ottimali, legate per esempio all’efficienza nella trasmissione delle informazioni, o alla velocità di risposta a stimoli esterni. Se la criticità è effettivamente una proprietà fondamentale dei cervelli sani, allora le disfunzioni neurologiche alterano questa configurazione dinamica ottimale. Alcuni studi hanno riportato un’alterazione della criticità durante le crisi epilettiche, il sonno a onde lente, l’anestesia e la malattia di Alzheimer. Tuttavia, un test cruciale di questa ipotesi sarebbe quella di mostrare che alterazioni locali dell’architettura strutturale e funzionale del cervello causano anche una perdita di “criticità’” del sistema. Inoltre, se le alterazioni miglioreranno nel tempo, per esempio per una attività di fisioterapia, allora dovremmo osservare parallelamente il recupero della criticità. Un’altra previsione è che se la criticità è essenziale per il comportamento, allora la sua alterazione dopo una lesione focale deve essere correlata alla disfunzione comportamentale e al recupero della funzione. Infine, i cambiamenti nella criticità dovrebbero anche essere correlati ai meccanismi di plasticità che sono alla base del recupero. L’obiettivo del presente lavoro è stato quindi proprio quello di affrontare queste importanti domande attraverso un approccio interdisciplinare che combina neuroimmagini, neuroscienze computazionali, fisica statistica e metodi di scienza dei dati.

In questa ricerca hanno usato in pratica l’ictus come modello patologico prototipo della lesione cerebrale focale uma-

na e modelli computazionali dell’intero cervello per stimare la dinamica neurale, le alterazioni correlate nella criticità e nel comportamento e i meccanismi neurali sottostanti. Gli studiosi hanno mostrato che le lesioni da ictus generano uno stato subcritico caratterizzato da livelli ridotti di attività neurale, entropia e connettività funzionale, che si ripristina nel tempo parallelamente al comportamento. Il miglioramento della criticità è associato a specifici rimodellamenti delle connessioni di materia bianca. Per simulare l’attività neurale a livello dell’intero cervello individuale il team di ricerca ha utilizzato il modello di plasticità omeostatica recentemente sviluppato. I dati sulla connettività strutturale erano disponibili per 79 pazienti, acquisiti tre mesi (t1) e un anno (t2) dopo l’esordio dell’ictus. Lo stesso studio include i dati di 28 controlli sani, acquisiti due volte a tre mesi di distanza. La differenza nell’intervallo di tempo tra ictus e controlli è che l’imaging di diffusione nei pazienti è stato ottenuto solo a tre e dodici mesi poiché il segnale di diffusione è altamente variabile all’inizio della lesione. Sia a livello di singoli partecipanti che a livello di gruppo, i modelli di pazienti con ictus nella ricerca svolta mostrano una significativa perdita della dinamica critica a tre mesi che guariscono in media a un anno.

Ciò è coerente con la prima ipotesi che la criticità sia una proprietà della normale architettura strutturale del cervello. Successivamente, gli studiosi hanno esaminato le basi anatomiche delle modifiche della criticità cerebrale. Il recupero della criticità da tre a dodici mesi deve riflettere un cambiamento nella connettività strutturale sottostante. Pertanto, il team di ricerca ha applicato le misure della teoria dei grafi per quantificare la topologia delle corrispondenti reti cerebrali strutturali e le alterazioni associate dopo il recupero dell’ictus. Hanno scelto il grado medio come misura della connettività di rete comples-

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siva (densità), la modularità e l’efficienza globale come misure rispettivamente del grado di segregazione e integrazione della rete. Inoltre, per quantificare il disturbo di connettività, hanno definito l’entropia della matrice di connettività omeostatica (HSC) in modo analogo all’entropia di connettività funzionale. Il team sottolinea:” Abbiamo ulteriormente caratterizzato l’organizzazione della rete cerebrale in termini di modularità (un indice di segregazione di rete) ed efficienza globale (un indice di integrazione di rete). Il modello riflette una configurazione di rete equilibrata che supporta la segregazione funzionale tra regioni cerebrali specializzate distinte consentendo l’integrazione funzionale. Tuttavia, l’ictus interrompe questo equilibrio. In sintesi, queste analisi indicano un rimodellamento delle connessioni della materia bianca da tre a dodici mesi dopo l’ictus che corrispondono a cambiamenti nell’organizzazione della rete.

Nelle informazioni supplementari forniamo ulteriori prove per questo rimodellamento”. I ricercatori hanno indagato quali connessioni fossero più fortemente legate all’alterazione e al recupero della criticità. A tal fine, hanno utilizzato un approccio di apprendimento automatico multivariato, basato su una regressione di Ridge convalidata in modo incrociato, per mettere in relazione le variabili di attività neurale del modello con la matrice di connettività strutturale. Questo approccio ha consentito loro di identificare i bordi e le sottoreti nell’intero cervello più fortemente correlati alla variabile di interesse. In primo luogo, hanno pertanto indagato la relazione tra connettività strutturale e criticità, sia nei partecipanti sani che nei pazienti con ictus. Una loro successiva analisi ha considerato la topologia di rete che coinvolge diverse reti funzionali e, nello specifico, hanno analizzato il collegamento medio tra coppie di reti funzionali. Infine, per verificare se i bordi predittivi di criticità facevano parte della normale architettura funzionale o

riflettevano connessioni casuali, il team ha correlato il numero di bordi predittivi per ciascun nodo (ROI) con la forza del nodo corrispondente nella connettività funzionale media dei controlli sani. L’elevata correlazione osservata in entrambi i punti temporali (ρ = 0,98 per i bordi positivi/negativi rispetto alla connettività funzionale del nodo) indica che i bordi predittivi non sono casuali, ma coerenti con la normale variabilità dell’architettura funzionale del cervello.

I modelli del cervello intero di controlli sani hanno mostrato modelli stabili di attività neurale, sia nei punti temporali che negli individui. È importante comprendere le dinamiche del modello nei partecipanti sani prima di considerare i cambiamenti nell’ictus. Gli studiosi evidenziano che hanno trovato una debole relazione tra dimensione della lesione e perdita di criticità. Non hanno studiato l’effetto della dimensione della lesione sulla disfunzione comportamentale, un argomento che intendono indagare ed approfonire in un lavoro futuro. Tuttavia, non si aspettavano un’influenza significativa della dimensione della lesione sui deficit comportamentali e sulle anomalie della connettività funzionale/strutturale post-ictus sulla base della letteratura. I dati provengono da un ampio studio prospettico sull’ictus longitudinale descritto in precedenti pubblicazioni e il campione clinico include il set di dati di 132 pazienti con ictus (età media 54, deviazione standard 11, range 19-83; 71 maschi; 68 lesioni del lato sinistro) allo stadio subacuto (due settimane dopo l’ictus). La batteria neuropsicologica includeva 44 punteggi comportamentali in cinque domini comportamentali: linguaggio, memoria, motori, attenzione e funzione visiva. Questi domini sono stati scelti per rappresentare un’ampia gamma dei deficit più comunemente identificati nelle persone dopo un ictus. I dati per replicare tutte le figure e le tabelle sono forniti come dati di origine nello studio e sono anche depositati in Github (https://github.com/CorbettaLab/ Rodrigo2022NatComm) e Zenodo123 (https:// doi.org/10.5281/zenodo. 6459955). Le singole matrici di connettività strutturale per controlli e pazienti sono state depositate nei repository Github e Zenodo.

Il codice personalizzato per la modellazione della criticità è disponibile gratuitamente su https://github.com/CorbettaLab/Rodrigo2022NatComm e https://doi.org/10.5281/zenodo.6459955. Il prof. Rodrigo Rocha (Dipartimento di Fisica dell’Università Federale di Santa Catarina, Florianópolis, Brasile) dice:” Abbiamo esaminato come le lesioni cerebrali modifichino la criticità utilizzando un nuovo approccio personalizzato di modellizzazione dell’intero cervello. La teoria modellizza le dinamiche cerebrali individuali, cioè di un singolo paziente, sulla base di reti di connettività anatomica del cervello reali. Abbiamo studiato longitudinalmente

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una coorte di partecipanti sani e colpiti da ictus misurando sia la loro connettività anatomica che l’attività funzionale del cervello (attraverso la risonanza magnetica funzionale, nota come fMRI). Per questi individui, infine, avevamo anche a disposizioni i risultati di test comportamentali.

Abbiamo trovato,” sottolinea il prof. Rocha,” che i pazienti colpiti da ictus presentano, a distanza da tre mesi dall’ictus, livelli ridotti di attività neurale, della sua variabilità, e della forza delle connessioni funzionali. Tutti questi fattori contribuiscono a una perdita complessiva di criticità che però migliora nel tempo con il recupero del paziente. Dimostriamo inoltre che i cambiamenti nella criticità predicono il grado di recupero comportamentale e dipendono in modo rilevante da specifiche connessioni della sostanza bianca. In sintesi, il nostro lavoro descrive un importante progresso nella comprensione dell’alterazione delle dinamiche cerebrali e delle relazioni cervello-comportamento nei pazienti neurologici”. Questi risultati dimostrano che modelli dinamici al computer sull’intero cervello possono essere utilizzati per tracciare e prevedere il recupero dell’ictus a livello di singolo paziente. Gli studiosi della ricerca pubblicata su Nature Communications hanno pertanto aperto a riflessioni molto importanti innquesto ambito.

“Questo apre la possibilità di utilizzare questi metodo per misurare l’effetto di terapie quali la riabilitazione o la stimolazione non-invasiva”, spiega il prof. Maurizio Corbetta, Direttore del Padova Neuroscience Center (PNC) dell’Università di Padova e della Clinica Neurologica Azienda Ospedale Università Padova, e ricercatore del Venetian Institute of Molecular Medicine (VIMM).

Altri recenti studi evidenziano che quasi due terzi dei pazienti con ictus ischemico acuto hanno almeno un fattore di rischio maggiore non diagnosticato, secondo una questa nuova ricerca. I più comuni sono la dislipidemia, l’ipertensione e la fibrillazione atriale. Questi risultati evidenziano la necessità di una maggiore consapevolezza da parte dei medici su come questa popolazione di pazienti possa avere fattori di rischio di ictus non riconosciuti. I risultati sono stati presentati al Congresso dell’Accademia Europea di Neurologia (EAN) 2022. Ictus è un termine latino che significa “colpo” (in inglese stroke). Insorge, infatti, in maniera improvvisa: una persona in pieno benessere può accusare sintomi tipici che possono essere transitori, restare costanti o peggiorare nelle ore successive. In Italia l’ictus è la seconda causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore, è responsabile del 9-10% di tutti i decessi e rappresenta la prima causa di invalidità. Ogni anno si registrano nel nostro Paese circa 90.000 ricoveri dovuti all’ictus cerebrale, di cui il 20% sono recidive. Il 20-30% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese dall’evento e il 40-50% entro il primo anno. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi la metà è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza, stando ai dati

dell’Istituto Superiore di Sanità (rif. https://www.salute.gov. it/portale/salute/p1_5.jsp?area=Malattie_cardiovascolari&id=28&lingua=italiano). L’ictus è più frequente dopo i 55 anni, la sua prevalenza raddoppia successivamente ad ogni decade; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni. La prevalenza di ictus nelle persone di età 65-84 anni è del 6,5% (negli uomini 7,4%, nelle donne 5,9%). La definizione di ictus comprende: ictus ischemico - si verifica quando un’arteria che irrora l’encefalo viene ostruita dalla formazione di una placca aterosclerotica e/o da un coagulo di sangue che si forma sopra la placca stessa (ictus trombotico) oppure da un coagulo di sangue che proviene dal cuore o da un altro distretto vascolare (ictus trombo-embolico); circa l’80% di tutti gli ictus è ischemico; ictus emorragico - si verifica quando un’arteria situata nell’encefalo si rompe, provocando così un’emorragia intracerebrale non traumatica (questa forma rappresenta il 15-20% di tutti gli ictus) oppure nello spazio sub-aracnoideo (l’aracnoide è una membrana protettiva del cervello; questa forma rappresenta circa il 3%-5% di tutti gli ictus); l’ipertensione è quasi sempre la causa di questa forma gravissima di ictus.

Bisogna inoltre ricordare l’attacco ischemico transitorio o TIA (Transient Ischemic Attack), che si differenzia dall’ictus ischemico per la minore durata dei sintomi (inferiore alle 24 ore, anche se nella maggior parte dei casi il TIA dura pochi minuti, dai 5 ai 30 minuti). Si stima che circa un terzo delle persone che presenta un TIA, in futuro andrà incontro ad un ictus vero e proprio. In Italia il numero dei ricoveri per TIA attualmente supera i 30.000 l’anno. Presso l’ICS Maugeri di Milano un team multidisciplinare coordinato dal prof. Eugenio Parati sta realizzando altri progetti di analisi e supporto soprattutto utili alla riabilitazione post-ictus sulla base di analisi di dati correlati anche con questo studio.

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Anno VI - N. 5 Maggio 2023

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