Olio Officina Almanacco 2015

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NON AVRAI ALTRO OLIO AL DI FUORI DI ME L’olio siamo noi. L’olio è l’Italia. Parafrasando – senza voler essere blasfemi – il primo comandamento, possiamo effettivamente riconoscere al nostro Paese il segno distintivo dell’olio quale elemento connotante. L’Italia d’altra parte è l’olio, e nemmeno un olio qualsiasi, ma solo e unicamente quello ricavato dalle olive. Lo è a tal punto che non è certo per pura casualità che l’emblema della Repubblica rechi in tutta evidenza un ramo di olivo. Luigi Caricato


Sommario olioofficina / anticamera

4 – 5 > Luigi Caricato: I sogni si avverano sempre 6 – 7 > Guido Oldani: Le donne 10 – 20 > Rosalia Cavalieri: “Al bacio”. Divagazioni sull’eros (cognitivo) del cibo 22 – 25 > Alfonso Pascale: Il pasto è come il sesso 26 – 30 > Nicola Dal Falco: Eros nel chiostro 32 – 33 > Nicola Lagioia: A fior di palato 34 > Luigi Caricato: Le gentili mamme dell’olio 36 – 37 > Arte da Mangiare: Tributo al burro 38 > Atlante degli oli italiani 40 – 42 > Valerio Visintin: L’olio ombra. Breve storia dell’olio sulle tavole dei nostri ristoranti. “Vasi comunicanti”, opera di Geremia Renzi & Lucia Rosano

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44 > Bianca Garavelli: Oro liquido 46 – 54 > Eddo Rugini e Salvatore Camposeo: Chi ha paura di una olivicoltura moderna? 56 – 57 > Micaela Tornaghi: Tocco Aureo 60 – 65 > Giorgio Barbaria: I paesaggi dell’ulivo. Identità, bellezza, custodia 66 > Salvatore Hervatin: Capesante e gamberi all’aceto balsamico di Modena su crema di cannellini 68 > Maria Carla Squeo: L’assaggio dell’olio in dieci punti 70 – 81 > Lorenzo Saraceno: Un giardino nel cuore del mondo. Solitudine e comunione nella cella eremitica 81 > Valerio Marini: Malala Yousafzai. Premio Nobel per la Pace 2014 82 – 87> Lo sguardo di Alberto Martelli 88 > Zibaldone 89 > Bonzanos: La donna oliera 92 > Luigi Caricato: L’olio alimenta l’Eros 94 > Valerio Marini: Erotic oil. Vignetta

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olioofficina / luigicaricato

I sognisi avverano sempre di Luigi Caricato

I sogni si avverano sempre, basta coltivarli. Quando nel 2012 portai avanti con grande trepidazione l’ingresso in scena di Olio Officina Food Festival, la scommessa ero certo di vincerla. Avevo individuato il momento giusto. Anche la città teatro dell’evento, Milano, è stata una opzione indovinata e vincente, seppure temeraria. Se fossi partito prima – visto che al festival puntavo da almeno due decenni – sarebbe stato uno spreco di energie, con scarsi risultati e, soprattutto, senza nemmeno alcun riscontro consolatorio. Non sempre ci si può permettere di essere troppo avanti. Occorre seguire il proprio tempo, percepirne le tendenze. Forzare, ma senza esagerare. Insistere, ma senza spingere troppo in avanti. Il mondo dell’olio, ma anche quello strettamente agricolo ed alimentare, hanno sempre immaginato le materie prime con le quali lavorano come pura merce. Non hanno mai colto – se non eccezionalmente, e solo alcuni imprenditori illuminati – l’elemento simbolico che invece una materia viva come l’olio da olive porta con sé. Se le tre grandi religioni del Libro si sono occupate di olio assegnandone un ruolo centrale, ci sarà pure una ragione. Non è stato certo perché si trattava semplicemente di una merce redditizia. Oggi per esempio non lo è più, giacché l’extra vergine è diventato di fatto un prodotto commodity. Trascurare, come ancora fanno in tanti, quando affrontano un prodotto polisemico come l’olio da olive, lo status di marcatore culturale – che invece gli appartiene intimamente – è un grave errore di prospettiva.

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Con Olio Officina si mette in luce la bellezza, il lato positivo. A ben riflettere, è il compito più arduo, cui in pochi assolvono. La scommessa, dunque, continua. Ciascuno farà la propia parte, lavorando senza sosta per tentare di realizzare i buoni sogni. Tutto si avvera, ne sono certo.

Il successo della mia iniziativa è sotto gli occhi di tutti. Oggi, parlare o scrivere di olio da olive, non è più così inusuale. Lo fanno in tanti. Il problema, semmai, è che se ne parla e se ne scrive a sproposito, spesso con toni funesti, evocando truffe, lanciando allarmi. Se ne parla e se ne scrive anche in maniera discriminatoria, verso coloro che per varie ragioni non riescono o non possono produrre oli eccellenti. C’è anche una diffusa ignoranza e povertà culturale. Si affronta l’olio come fosse un feticcio, perfino con grande tracotanza.

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LeDONNE olioofficina / inedito

le olive sulla pianta maturate ci sembrano un sistema di pianeti di un planetario come l’ho sognato. ma una volta spremute canta l’olio che se accarezza il corpo delle donne le rende progressivamente belle come un cielo leccato dalle stelle. Guido Oldani

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olioofficina / saperi

“Al bacio”.

Divagazioni sull’eros

(cognitivo) del cibo

di Rosalia Cavalieri

Di un piatto squisito, preparato a dovere diciamo spesso – con analogia erotica – che è cotto ‘al bacio’. Che il cibo e l’eros siano due fonti di piacere indissolubilmente connesse da analogie che vanno ben oltre il significato metaforico, che i loro confini siano così labili da confondersi alle volte completamente non è certo una novità. Se il verbo ‘consumare' si riferisce sia al matrimonio sia al pasto è perché in molte lingue lo stesso termine indica tanto l’atto sessuale quanto quello di mangiare. I brasiliani, per esempio, con l’espressione gergale comer, assimilano l’atto sessuale all’atto di mangiare (cfr. Le Breton, 2006, p. 415). E il termine ‘appetito’ denota tanto la sensazione che accompagna il bisogno di alimentarsi, quanto, più in generale, la tendenza naturale ad appagare desideri fisici e in ispecie sessuali. Le metafore gustative di cui il lessico amoroso ridonda provano l’affinità tra queste due attività, entrambe forme immaginarie l’una dell’altra: sicché si può restare ‘digiuni’, avere ‘fame da lupo, ‘mangiare con gli occhi’ o ‘essere cotti a puntino’ in un senso come nell’altro. I piaceri del palato e quelli dell’amore condividono peraltro la porta d’ingresso, la bocca, che ci è stata data per mangiare, per sussurrare parole dolci e anche per baciare. A tutti è noto d’altra parte il potere del cibo e quello delle parole, due potenti armi seduttive impiegate per accendere la passione. E se non sempre la buona cucina è l’anticamera dei piaceri sessuali, mangiare insieme è già di per sé un’attività erotica (o sensuale) quando tra i commensali comincia ad aleggiare una certa affinità chimica. In molte religioni il legame tra i piaceri della gola e quelli della carne è attestato dal divieto di consumare carni o altri cibi, e di astenersi dai rapporti sessuali, in certe festività religiose o in altri periodi ritualmente significativi.

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diffondono in tutto il corpo, contribuendo in modo per nulla banale al raggiungimento di quel vivere felice verso il quale, come s’è detto, abbiamo una vocazione innata. E d’altro canto l’uomo, «il superlativo vivente del sensualismo, […] il più sensuale e il più sensibile di tutti gli esseri del mondo» (Feuerbach, 1846, p. 122) ha saputo elevare la sensazione, subordinata negli altri animali alla sopravvivenza, a fonte di puro godimento estetico, di piacere fine a se stesso. «Volete migliorare gli uomini – osserva Ludwig Feuerbach (1846: 123) – fateli felici; volete farli felici, allora andate alle sorgenti di ogni felicità, di ogni gioia - ai sensi». E nello Zibaldone Giacomo Leopardi annotava che «l’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che, considerandola bene, è tutt’uno col piacere» (Leopardi, 1898, vol. 1, verso 165).

Consapevoli di quanto sia difficile un tema sul quale è stato detto e scritto di tutto, in questo saggio proveremo a descrivere il ruolo dei sensi ‘carnali’, e del gusto in particolare, nelle due esperienze più sensuali e totalizzanti che definiscono quel ‘vivere bene' verso il quale, come osservava già Aristotele (Pol. 1280b 39; EN 1095a 18-20, 1169b 18-23), siamo naturalmente inclini in quanto animali sociali, politici e linguistici (cfr. l’inedita rilettura dell’opera aristotelica di Lo Piparo, 2003, p. 22-33). Se tutti i sensi sono biologicamente incarnati, proprio perché parte della nostra attrezzatura corporea, l’olfatto, il gusto e il tatto (incluso il tatto orale) lo sono in una misura tale da essere considerati i più ‘carnali’, i più edonistici e perciò anche i più erotici tanto a tavola quanto nella vita amorosa (ancorché sensi cognitivi al pari della vista e dell’udito, dal momento che contribuiscono con un accento loro proprio alla nostra conoscenza del mondo circostante e alla regolazione dei nostri rapporti socioemozionali – cfr. Cavalieri, 2009; 2011). Ma olfatto, gusto e tatto sono anche i sensi lungamente sottovalutati dalla filosofia e dalla ricerca scientifica proprio per quel coinvolgimento con gli appetiti e con le emozioni che li caratterizza come sensi voluttuosi e concupiscenti. E poi sono anche i più compromessi con le due attività più inerenti alle esperienze intime: assaporare un cibo nella propria bocca e fondersi con l’altro in un’unione amorosa. A loro volta, i piaceri del palato, così come quelli sessuali, sono in larga parte legati alla multisensorialità che li attraversa, sì da farne esperienze totalizzanti, piaceri diffusi che appagano tutti i nostri sensi.

Cibo ed eros: dalla necessità al piacere Non è certo una rivelazione affermare la stretta sintonia tra mangiare e procreare, tra gusto e sessualità, le esperienze che meglio definiscono il piacere di vivere e che, come per gli altri animali, riescono essenziali per la sopravvivenza degli individui e per la conservazione delle specie. Tuttavia il godimento che gli animali umani traggono dalla soddisfazione degli appetiti alimentari e di quelli sessuali è assai diverso da quello provato dalle altre specie animali. Tanto nel procreare quanto nel mangiare, la distanza che separa la necessità animale legata alla sopravvivenza dal desiderio umano che trascende l’impellenza fisiologica si palesa nella conversione dell’appetito naturale in un ‘appetito di lusso’ finalizzato al puro piacere. Se gli altri ani-

Straordinari collanti sociali, cibo e sessualità condividono perciò anche il fatto di essere le uniche fonti di piacere sinestetico, quelle cioè che catturano tutta la nostra sensorialità e si 12


i gourmet, può mandare in estasi, procurando un piacere che nell’erotismo equivale proprio a un orgasmo, forse di minore intensità ma tale da commuovere e da suscitare gemiti e sospiri di soddisfazione.

mali si accoppiano solo nella fase dell’‘estro’, mangiano solo quando hanno fame e bevono solo quando hanno sete e non sono inclini a produrre e a elaborare il cibo che consumano, gli animali umani hanno trasformato queste due attività riconducibili al ‘bisogno’ naturale in due manifestazioni tipiche della cultura loro propria: l’erotismo, ovvero le varie forme in cui, indipendentemente dalla procreazione, si manifesta l’attrazione amorosa verso qualcuno (o qualcosa), e la gastronomia, ovvero l’arte del saper mangiare e del saper apprezzare il piacere che ne consegue, un piacere che solo negli animali umani è accompagnato da consapevolezza. In entrambi i casi, la bocca e la sensorialità orale sono veicoli elettivi di delizie sessuali e gustative.

Non v’è dubbio che un cane e un criceto traggano entrambi appagamento dal cibo e in modo non dissimile dagli umani. Per gli umani tuttavia non si tratta solo di una questione nutrizionale, e la ricerca del piacere sensoriale quando si mangia, specialmente nelle società occidentali, trascende il fabbisogno energetico, così «i nostri desideri alimentari esprimono più quello che vogliamo che quello di cui abbiamo bisogno» (Prescott, 2012, p. 19). La consapevolezza che accomL'atto di mangiare, come pagna e precede questo Sempre alla ricerca di grapiacere, anche nella scelta l'atto sessuale, è l'atto tificazione del palato alterdi cosa mangiare, di come di assimilazione e di native a quelle offerte dalla mangiarlo e della compariunificazione per eccellenza. gnia con cui condividerlo, natura e desideroso di prolungare i piaceri del palato una consapevolezza che ace quelli sessuali, «l’uomo cresce e reduplica il piace– osserva Roland Barthes re stesso di consumare un nella sua Lettura della Fisiologia del gusto di cibo, è un altro aspetto che ci differenzia dagli Brillat-Savarin (1975: XI) – deve mettere in altri animali. E se il senso del gusto è quello scena, per così dire, il lusso del desiderio, amoche ci procura il maggior numero di piaceri ciò roso o gastronomico che sia». Senza contare si deve anche al fatto che «nel mangiare proche l’erotismo, come la gastronomia, presupviamo un benessere particolare e indefinibile, ponendo la distinzione tra il piacere istintivo nascente dall’istintiva certezza che, col fatto e il godimento consapevole, ci distanzia dagli di mangiare, compensiamo le perdite subite e altri animali nelle modalità di consumo: gli prolunghiamo la nostra esistenza» (Brillatanimali divorano velocemente e avidamente il Savarin, 1825, p. 34-5). Ma c’è di più. Come loro cibo (e talvolta lo fanno anche gli umani!) osserva lo scienziato cognitivo Paul Bloom e altrettanto frettolosamente si accoppiano. E (2010, p. 59), solo «le scelte umane possono checché ne pensasse Roland Barthes quando essere indipendenti dal piacere, mentre per ha distinto queste due fonti edonistiche spegli altri animali non è così. Se la mia cagnetta cificamente umane, negando l’esistenza di si mette a dieta, è perché l’ho deciso io, non orgasmi gastronomici (1975: XXXIV-XXXV), lei». Stesso discorso vale per la sessualità, se l’esperienza del consumo di un cibo che riesce pensiamo che l’astinenza sessuale, come il didelizioso al palato e al naso, come ben sanno giuno o le diete di qualsiasi tipo, sono frutto di 13


E che dire poi delle gustose descrizioni di un piatto, parte integrante del suo apprezzamento, e del piacere che traiamo dal suo consumo e dalla sua condivisione, e della magia delle parole mormorate, sfuggite, durante un convito amoroso, parole che accarezzano, descrivono, suggeriscono, eccitano? La sensazione di godimento che accompagna i nostri appetiti più carnali è legata infatti anche al linguaggio e alle parole che la esprimono e la arricchiscono. Uno dei più grandi godimenti della tavola sta proprio nel mangiare discutendo di ciò che si mangia, nel commentare un piatto, i suoi profumi, i suoi sapori e la sua consistenza, nell’in-

scelte consapevoli motivate da ragioni religiose, filosofiche, etiche, salutiste o di carattere pratico, e perciò proprie dell’uomo. Addirittura possiamo trarre piacere persino dal dolore: e questo sia quando consumiamo certi cibi molto piccanti come il peperoncino o il wasabi, oppure i superalcolici, sia quando consumiamo esperienze sessuali al limite del masochismo per accrescere il godimento o per trovare nuovi stimoli. Ciò vuol dire che «per un essere umano mangiare non è solo un piacere sensoriale e una necessità biologica, è un atto carico di significato» (Bloom, 2010, p.

Come la saliva ha un ruolo importante nel determinare il sapore di un alimento, parallelamente è il lubrificante naturale che conferisce ai baci dell'amato un gusto unico, contribuendo ai piaceri del tatto orale anche quando la bocca incontra gli organi sessuali. In modo affine, anche l'olio sul piano gastronomico si rivela un ottimo veicolatore di sapori, un condimento che oltre ad amalgamare gli ingredienti di una pietanza ne amplifica e ne prolunga il gusto, stuzzicando il naso con i suoi aromi, e il suo uso contribuisce al piacere persino in altri sensi.

dovinare i singoli ingredienti, insomma nella gioia di apprezzarlo, e di celebrarlo: e prima ancora, nell’eccitante impulso a concepirlo e a realizzarlo. Nella convivialità «il piacere di un sapore – scrive l’antropologo sensoriale David Le Breton (2006, p. 407) – si accentua se qualcuno ne parla in modo da risvegliare negli altri una sensazione simile alla sua. La narrazione di un pasto lo prolunga per altre vie, ne fa risorgere i sapori nell’immaginazione».

61). E poi solo la sensualità umana è legata all’immaginazione – e in particolare all’immaginazione deliberativa specifica degli animali umani, generata dal ragionamento linguistico (cfr. Lo Piparo, 2003, p. 22-25) –, un’attività capace di nutrire il desiderio amoroso e gastronomico forse più di qualsiasi afrodisiaco, oltrepassando i limiti di un’esperienza sensoriale realmente vissuta.

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[…] si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio. “Senti? Hai sentito?” mi diceva con una specie d’ansia, come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua. “È lo xilantro? Non lo senti lo xilantro?”, aggiungeva, menzionando un’erba che dal nome locale non eravamo ancora riusciti a identificare con sicurezza (forse l’aneto?) e di cui bastava solo un filo sottile nel boccone che stavamo masticando per trasmettere alle narici una commozione dolcemente pungente, come un’impalpabile ebbrezza. Questo bisogno che Olivia aveva di coinvolgermi nelle sue emozioni m’era molto gradito, perché mi dimostrava quanto fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi. È solo nell’unità della coppia – pensavo – che le nostre soggettività individuali trovano amplificazione e completezza. Di confermarmi in questa convinzione avevo tanto più bisogno in quanto all’inizio del nostro viaggio messicano l’intesa fisica tra me e Olivia stava attraversando una fase di rarefazione se non l’eclisse… M’aspettavo, nei primi giorni, che la crescente accensione del palato non tardasse a comunicarsi a tutti i nostri sensi. Sbagliavo: afrodisiaca questa cucina lo era certamente, ma in sé e per sé (…), ossia stimolava i desideri che cercavano soddisfazione solo nella stessa sfera di sensazioni che li aveva fatti nascere, dunque mangiando sempre nuovi piatti che rilanciassero e ampliassero quegli stessi desideri (Calvino, 1986, p. 32-33).

In genere, il cibo ben raccontato, non è solo un vero e proprio esercizio sensoriale ma è anche un complesso compito cognitivo (cfr. Cavalieri, 2012; 2013; 2014) che ridesta l’appetito di chi ascolta o legge: «il segno evoca le delizie del suo referente nel momento stesso in cui ne traccia l’essenza» (Barthes, 1975, p. XXIX). E le righe che seguono ne sono un prova:

La caponata è tiepida, sugosa, le melanzane colano un umore appena gelatinoso, con quel poco di rosa dell’estratto di pomodoro, come l’interno delle cosce delle bionde; i capperi, nascosti tra gli altri ingredienti, li puoi indovinare quando li schiacci tra la lingua e il palato, la cipolla fina fina, che neanche te ne accorgi, è evanescente, compagna ideale delle altre verdure (Torregrossa 2007, p. 59) La buccia delle melanzane ha il colore della sua pelle e mentre la maneggio mi sembra di accarezzare lui (ibidem, p. 58). Il piacere di mangiare insieme e di conversare piacevolmente a tavola – le cui origini risalgono verosimilmente ai primi esperimenti di cottura degli ominidi (cfr. Cavalieri 2014a, p. 59 e ss.), un rito che si prolunga ancora fino ai nostri giorni –, consolidando rapporti amorosi, d’amicizia, d’affari o intellettuali, raffina l’esercizio del gustare; e in certi casi la condivisione del godimento procurato dal cibo è la sola forma di erotismo che sopravvive tra due vecchi amanti. Lo dimostra bene un racconto di Italo Calvino (Sapore Sapere. Sotto il sole giaguaro), dove una coppia ormai esausta ritrova l’intensità del desiderio amoroso nelle complicità gustative attivatesi durante un viaggio gastronomico in Messico, che accende una nuova intimità concentrata proprio attorno ai sapori:

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anzitutto con gli occhi, che ne apprezzano i colori e la presentazione nei piatti. Poi è la volta dell’olfatto: come i piaceri del palato vengono anticipati dai profumi inebrianti del cibo, tali da renderlo irresistibile, così nell’attrazione amorosa gli odori indiscreti sono un ingrediente essenziale che rende inconfondibili, suscitando estasi e rapimento, e nell’uno come nell’altro caso stimolando il ‘consumo’ oppure suscitando repulsione e fastidio. Se l’odore di un corpo è eccitante, lo è altrettanto quello di un piatto preparato sapientemente.

Benché la condivisione del piacere gustativo non sia in questo caso il preludio di piaceri sessuali, l’intesa instaurata attraverso la parola sottrae la ricerca dei sapori alla dimensione soggettiva dell’apprezzamento intimo e solitario, generando nella coppia una sottile epperò sensuale comunione di emozioni del palato.

I ‘sensi’ del gusto nel banchetto amoroso Sin dai tempi del simposio greco e dei convivi romani, luoghi di consumo condiviso del vino, del cibo e di piaceri multisensoriali, la dimensione conviviale si configura come un’attività sociale che coniuga al mangiare e al bere in

I profumi della buona cucina – scrive Isabel Allende (1997, p. 54) – non solo ci fanno venire l’acquolina in bocca, ma ci fanno anche palpitare di un desiderio che se non è quello eroti-

Se l'odore di un corpo è eccitante, lo è altrettanto quello di un piatto preparato sapientemente. co gli assomiglia comunque molto. Chiudi gli occhi e cerca di ricordare il profumo preciso di una padella con olio di oliva in cui stanno friggendo delicate cipolle, nobili spicchi d’aglio, stoici peperoncini e teneri pomodori. Adesso cerca di immaginare come cambia quell’odore quando lasci cadere nella padella tre pistilli di zafferano e subito dopo del pesce fresco marinato con erbe aromatiche e alla fine uno spruzzo di vino e il succo di un limone… Il risultato è eccitante quanto il più sensuale degli effluvi e lo è mille volte più di un profumo in bottiglia. A volte, quando evoco l’aroma di un piatto gustoso, la nostalgia e il piacere mi commuovono fino alle lacrime.

comune, la pratica intellettuale e filosofica delle conversazioni dotte e argute, la danza, la poesia, i giochi, l’eros (prevalentemente nella forma omosessuale, visto che le donne, fatta eccezione per danzatrici e musiciste, non avevano accesso ai simposi). In quest’atmosfera impregnata di gioia (euphrosyne) e di piacere (hedoné), risultato e, prima ancora, obiettivo della pratica conviviale, ogni senso è coinvolto in un grande spettacolo nel quale entrano in scena odori, sapori, profumi, suoni, visioni, con l’immancabile condimento della parola (cfr. Musti, 2001). Il convito amoroso, come quello gastronomico, chiama a raccolta tutti i nostri sensi. La vista in primo luogo, attraverso l’aspetto fisico, i primi ammiccamenti, la complicità degli sguardi, la concupiscenza degli occhi e quindi dei desideri. E il cibo, come l’erotismo, si gode

Il tatto, decisivo annullamento delle distanze tra due corpi, tenerezza delle carezze e degli abbracci, sensazione voluttuosa del calore 16


della pelle dell’altro, è il luogo di convergenza del piacere di toccare e di quello di gustare, di tastare cioè con la lingua e con il palato le innumerevoli varietà delle forme della pasta fino alle diverse consistenze di pietanze cotte e crude. E come lo scrocchio di un buon cioccolato, la croccantezza di una frittura, lo sfrigolio della cipolla che frigge nell’olio, il sobbollire di una pentola o il suono di un vino che scende nel bicchiere, e nei banchetti, la conversazione che accompagna e insaporisce il rito del bere e del mangiare insieme contribuiscono a fare di un pasto un’esperienza sensuale anche grazie al concorso dell’udito, nei conviti amorosi i sospiri, gli affanni, i toni lievi e insinuanti, i sussurri maliziosi e carezzevoli, le parole mormorate e i silenzi sapientemente cercati alimentano la passione e favoriscono l’abbandono, configurandosi come un potente afrodisiaco.

dell’altro: si parla per l’appunto di ‘appetito sessuale’, di desiderio ‘di mangiare l’altro’, di ‘divorare con gli occhi’, di ‘mangiare qualcuno di baci’, di ‘aver preso una cotta’, di ‘occhi a mandorla’, di ‘pelle di pesca’, di ‘labbra carnose' o si afferma di ‘essere divorati dalla gelosia’. E poi, di un dongiovanni si dice che ‘ama la carne fresca’ e di una donna che è ‘un bel bocconcino’. Assaporare un cibo è una riproduzione dell’atto sessuale: in entrambi i casi si tratta di annusare, di guardare, di toccare, di leccare, di mordicchiare, di suggere. Fuori da ogni metafora, nel convito amoroso ci si ‘assaggia’ con tutto il corpo e specialmente con i baci, vero e proprio test del coinvolgimento affettivo e preambolo ai sapori dell’amore. Per non parlare del ruolo del cibo come scorta sicura della seduzione e rito preparatorio di intimi piaceri: cucinare è già un atto d’amore, un prendersi

Com’è naturale e anche un po’ scontato, anche il gusto fa la sua parte nella sfera dell’eros. La bocca, sua sede elettiva, è del resto la porta di ogni emozione a tavola come a letto: la usiamo per gustare ogni sorta di prelibatezze gastronomiche, per bisbigliare parole dolci, per cantare, per accarezzare, per baciare, per apprezzare i sapori e gli odori più intimi. Anche per questa ragione, mangiare e fare l’amore, vengono spessissimo accomunati. In senso letterale: perché l’atto di mangiare, come l’atto sessuale, è l’atto di assimilazione e di riunificazione per eccellenza. In senso metaforico: perché il gusto, come s’è detto, favorisce un intreccio costante del lessico gastronomico con il lessico amoroso. Si spiega così il frequente ricorso a metafore culinarie quando parliamo di sesso.

I piaceri del palato e quelli dell'amore condividono la porta d'ingresso, la bocca, che ci è stata data per mangiare, per sussurrare parole dolci e anche per baciare. cura dell’altro, cucinare e gustare le vivande preferite insieme alla persona amata, e giocare a imboccarsi, può essere il preludio per creare quell’atmosfera che prolunga il piacere del sapore dalla tavola al letto, o anche il gustoso epilogo di un incontro amoroso. Nella relazione amorosa il fondersi e l’intricarsi dei corpi si realizza soprattutto attraverso un’alchimia di odori e di sapori, e il bacio in cui due amanti mescolano i loro umori, penetrando l’uno nella sfera dell’altro, è l’espressione più piena del sapore e del profumo dell’intimità. Odori e sapori della buona cucina, oltre

Il desiderio di mangiare e il piacere conseguente ha delle affinità con il desiderio sessuale, con il bisogno e con il piacere di nutrirsi 17


a far venire l’acquolina in bocca, procurano, proprio come l’odore e il sapore del partner, un appetito molto simile a quello erotico. E tante volte gli attacchi di fame rappresentano simbolicamente il bisogno di compensare un vuoto affettivo, sostituendo l’atto sessuale col cibo. Sin dagli albori della nostra ontogenesi, eros e cibo sono strettamente connessi: succhiare il seno, morderlo e inghiottire sono tra le prime attività connesse tanto al bisogno di nutrimento quanto a una prima forma inconscia di appagamento sessuale. Come annotò Sigmund Freud, la nostra prima esperienza col piacere è orale: «lo stadio orale è geneticamente il primo stadio dell’evoluzione libidica del bambino, essenziale e fondante per il piacere e il dolore della prima inspirazione, e poi per la comparsa della voluttà del riempimento mescolata a quella della suzione» (HarrusRévidi, 1994, p. 22).

apprezziamo l’odore corporeo, se il suo alito ci risulta respingente, sarà difficile farsi coinvolgere. Se il sapore del primo bacio non ci piace, non ci resta sulle labbra, è un chiaro indice di mancanza di affinità. Viceversa ci accorgiamo di essere attratti da una persona, e a maggior ragione di amarla, quando di lei accettiamo gli odori e i sapori più indiscreti, più intimi, più estremi: segno inequivocabile che la compatibilità di una coppia è specialmente il frutto di un’attrazione chimica. L’odore personale del compagno è poi anche un potente afrodisiaco, un «richiamo romantico emesso dalla pelle» (Allende, 1997, p. 50) e il desiderio e l’eccitazione sessuale non fanno che aumentarlo e modificarlo. E d’altra parte, quando gli odori del partner non ci piacciono più, addirittura ci infastidiscono, e il sapore dei suoi baci non ci coinvolge più o ci disgusta è segno di un’intesa ormai logora.

Senso del desiderio, dell’appetito e del piacere, ma anche della vicinanza e del contatto, il gusto, in sinergia con l’olfatto, al quale è intimamente legato da un destino comune, ha perciò un ruolo decisivo nella sessualità e nell’erotismo. Dopotutto, negli incontri amorosi e negli approcci che li precedono, la prossimità e il contatto fisico stabiliti anche attraverso i sensi carnali sono fondamentali per conoscersi, per comprendere fino a che punto ci si piace e si è disposti a passare al consumo della ‘portata’ successiva. Agenti essenziali della seduzione e dell’attrazione sessuale, gli odori, prima ancora dei sapori dell’eros, ci preannunziano istintivamente l’affinità con il partner, la possibilità di instaurare una buona intesa sessuale: l’amore perciò si scopre e si fa anche con il naso. Il gradimento dell’odore dell’altro, di quell’impronta olfattiva unica ed esclusiva di ogni persona, è l’anticamera dell’intesa sessuale. Se di una persona non

Come l’atto di assaporare un alimento e di ingerirlo infrange la frontiera tra corpo e mondo, attraverso una fusione fisica del soggetto con l’oggetto del nutrimento, allo stesso modo il bacio, una metafora del rapporto sessuale e una sua anticipazione, è l’espressione più completa dell’incontro di due corpi, del loro ‘assaggiarsi’ simultaneamente e assimilare ciascuno il sapore dell’altro. La reciprocità fisica caratteristica del gusto e dell’olfatto, sensi della prossimità, nel banchetto amoroso si esalta nell’incontro di due soggettività, nel loro mescolarsi nel bacio, un atto in cui l’oralità mobilita il gusto insieme al tatto e all’olfatto. E si traduce altresì nel respirare ciascuno l’odore dell’altro catturandone l’intimità, nel fondersi in una relazione piena in cui la sensorialità orale (e quella olfattiva) perde quel carattere di incomunicabilità che è proprio delle esperienze intime e soggettive per lasciare il posto all’eloquenza del corpo e alla gestualità della bocca. Se per di più si assaporano dei 18


inerente tanto al linguaggio del gusto quanto al gusto del linguaggio:

cibi durante un incontro amoroso il piacere dei sensi raggiunge l’acme. Il sapore, quella percezione complessa e polisensoriale prodotta dalla convergenza di sensazioni olfattive, gustative, termiche e tattili con cui la bocca apprezza le prelibatezze gastronomiche – riconoscendo profumi, aromi, gusti, consistenza, piccantezza, temperatura, suoni, colori – (cfr. Cavalieri, 2011, p. 76 ss.) è un ingrediente fondamentale nella sessualità. Dal tatto orale, fattore non secondario della percezione del sapore collocato per l’appunto nella bocca, e nella lingua in particolare, dipendono tanto i piaceri e gli appetiti gastronomici quanto i piaceri sessuali. E come la saliva ha un ruolo importante nel determinare il sapore di un alimento, parallelamente è il lubrificante naturale che conferisce ai baci dell’amato un gusto unico, contribuendo ai piaceri del tatto orale anche quando la bocca incontra gli organi sessuali. In modo affine, anche l’olio sul piano gastronomico si rivela un ottimo veicolatore di sapori, un condimento che oltre ad amalgamare gli ingredienti di una pietanza ne amplifica e ne prolunga il gusto, stuzzicando il naso con i suoi aromi, e il suo uso contribuisce al piacere persino in altri sensi. Così la bocca e la sensorialità orale, in buona compagnia del naso e di altri sensi, sono elette a luogo del soddisfacimento delle delizie sessuali e di quelle del palato.

Che lui mi baci | con i baci della sua bocca. | Più dolci del vino | sono le tue carezze, | più inebrianti dei tuoi profumi. | Tu stesso sei tutto un profumo […] || Amore mio, | sei come un sacchetto di mirra, | di notte riposi tra i miei seni. […] || Sì, un giglio tra le spine | è la mia amica tra le altre ragazze! || Un melo tra gli alberi selvatici | è il mio amore tra gli altri ragazzi! | Mi piace sedermi alla sua ombra | e gustare | le delizie dei suoi frutti. […] || Il tuo profumo | è più gradevole di tutti gli aromi. | Le tue labbra sanno di miele, | mia sposa, | la tua lingua | ha il sapore | del miele e del latte. […] | Le tue nascoste bellezze | sono un giardino di melograni, | di frutti squisiti, | con piante di cipro, | nardo e zafferano, | cannella e cinnamomo, | ogni specie di piante d’incenso, | mirra e aloe | e tutti i profumi più rari. […] || La sua bocca è dolcissima; | tutto, in lui, | risveglia il mio desiderio. […] || I tuoi seni siano per me | come grappoli d’uva; | il profumo del tuo respiro | come l’odore delle mele | e la tua bocca | come il buon vino…! […] (Bibbia, p. 933-941, Ed. Elle Di Ci Leumann, Torino, 1985).

Rosalia Cavalieri, Università degli Studi di Messina

Tutto questo concorre dunque a rendere un incontro gastronomico e un appuntamento amoroso esperienze sensoriali e sensuali a tutto tondo, influenti sul nostro benessere forse come nessun’altra pratica. Ce lo conferma un passo del Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento, la poesia d’amore forse più sensuale e più ‘profumata’ di tutti i tempi, un dialogo tra due amanti, che traduce compiutamente e nella sua forma più elevata la voluttà 19


thes, pp. IX-XL, Sellerio, Palermo, 1978. Brillat-Savarin A., 1825, Fisiologia del gusto, trad. it. in Lettura di Brillat-Savarin di Roland Barthes, pp. 1-273, Sellerio, Palermo, (ed. fr. 1975) 1978. Calvino I., 1986, Sapore Sapere. Sotto il sole giaguaro, in Sotto il sole giaguaro, Mondadori, Milano, 1995, pp. 21-48. Musti D., 2001, Il simposio, Laterza, RomaBari. Feuerbach, L., 1846, Contro il dualismo di anima e corpo, di spirito e carne, trad. it. in A. Pacchi, Materialisti dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 1978. Harrus-Révidi G., 1994, Psicanalisi del goloso, trad. it. Editori Riuniti, Roma. Bloom, P., 2010, La scienza del piacere. L’irresistibile attrazione verso il cibo, l’arte, l’amore, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 2010. Torregrossa, G., 2010, L’assaggiatrice, Rubbettino, Soveria Mannelli, Catanzaro.

Riferimenti bibliografici Allende, I., 1997, Afrodita. Racconti, ricette e altri afrodisiaci, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1998. Cavalieri, R., 2012, La natura linguistica del gustare, “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 205 gennaio/aprile 2012, pp. 4963. Cavalieri, R., 2013, La linguisticità dei sensi chimici: il caso della degustazione, in C. Paolucci, P. Leonardi, a cura di, Senso e sensibile. Prospettive tra estetica e filosofia del linguaggio, “E/C” Rivista on-line dell’Associazione Italiana di studi Semiotici, n. 17, ottobre 2013, pp. 57-62. Cavalieri, R., 2014, La cognizione del gusto, “Conjectura: filosofia e educação”, vol. 19, n. 2, maggio-agosto 2014, pp. 27-39. Cavalieri, R., 2009, Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori, Laterza, Roma-Bari. Cavalieri, R., 2011, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari. Cavalieri, R., 2014a, E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto, Il Mulino, Bologna, 2014. Prescott, J., 2012, Questioni di gusto. Perché ci piace quello che mangiamo, trad. it. Sironi Editore, Milano, 2013. Leopardi, G., 1898, Zibaldone, ed. critica a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. 1. Le Breton, D., 2006, Il sapore del mondo, trad. it. Cortina, Milano 2007. Lo Piparo, F., 2003, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari. Aristotele, EN, Etica nicomachea, trad. it. in Opere, vol. VII, Laterza, Bari, 1957. Aristotele, Pol., Politica, trad. it. in Opere, vol IX, Laterza, Roma-Bari, 2004. Barthes, R., 1975, Lettura di Brillat-Savarin, in Lettura di Brillat-Savarin di Roland Bar20



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èsesso

Il pasto

olioofficina / orizzonti

come il

di Alfonso Pascale

Oggi siamo tutti schiacciati sul presente e legati all’immediatezza. Le tecnologie digitali non sono interessate all’antefatto. Non sono in grado di riconoscere il sottile processo in base al quale il passato ridiventa esperienza presente. Il passato è così ridotto a reperto archeologico, privo di valore emotivo. È impoverito a tal punto da ridursi a un fantasma o simulacro, svuotato di ogni consistenza psicologica e di ogni valenza conoscitiva. Con le tecnologie digitali disabituiamo la nostra mente a ricordare. La macchina ricorda per noi. Ma è un’illusione. Perdiamo la nostra autonoma capacità mnemonica. Ed è un guaio serio perché la memoria non è solo ricordo nostalgico. Contiene anche un impeto utopico, il progetto come un “pro-iettarsi”, che in qualche misterioso modo anticipa l’avvenire e lo vive ancor prima che sia presente e tragicamente irreversibile. Oggi siamo portati a rifiutare questa operazione, a dimenticare lo scopo del nostro viaggio, a trasformare i valori strumentali in valori finali. Una forte domanda di senso È per questo che siamo afflitti da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente. L’innovazione si riduce alla mera transizione dello stesso allo stesso. La forza delle differenze è vanificata. La creatività langue. La società ci appare formalmente razionale, sostanzialmente assurda. L’etica della responsabilità è stata accantonata e il rapporto tra i cittadini e le istituzioni si è impoverito, emotivamente atrofizzato. Sono tornati in auge modi antichi di fare politica e rapporti tra partiti e pezzi dello Stato con ambienti più o meno equivoci. Fenomeni che evidentemente non si sono mai ridimensionati. L’ambiente continua ad essere

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erano accompagnati da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento. Appartenevano a quell’universo in cui ogni bene era necessario. E pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato. L’equilibrio produttivo e alimentare, la qualità della vita, la mentalità delle persone, ancora in un recente passato, risultano strettamente legati alla bizzarria del clima, all’alternarsi di periodi di siccità e periodi di piogge torrentizie. Dal mattino alla sera, i contadini interrogavano il cielo, le nuvole, le nebbie, le stelle; osservavano attentamente la natura e gli animali che, coi loro movimenti e comportamenti, annunciavano pioggia, temporali, cattivo tempo.

distrutto. Le mafie hanno preso il sopravvento dappertutto controllando non solo il traffico della droga ma anche flussi ingenti di denaro pubblico. E così il rapporto tra i cittadini e le istituzioni si è impoverito, emotivamente atrofizzato. È innanzitutto il rapporto tra le persone che si è inaridito. Non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore). Il processo di individualizzazione si è realizzato con dispositivi di serializzazione. Il facile asservimento alle mode induce, infatti, ad omologarsi nella serie. Il consumo senza limiti ha sconvolto tutta la scala dei valori che regolavano i rapporti interpersonali. E una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in luoghi “totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza.

La nascita dell’agricoltura Nella storia dell’umanità i concetti di “mangiare” e di “sesso” venivano utilizzati come sinonimi, e un termine poteva metaforicamente significare l’altro. Gli uomini descrivevano le donne come “pomodori caldi”, “pezzo di carne di montone” o “vaso di miele”, ed esprimevano così il loro “appetito” sessuale, il loro desiderio di “mangiarle”. Allo stesso modo che la vulva della donna “mangiava” il membro maschile durante il rapporto. I partner di coppia erano tenuti a condividere tavola e letto. Sembra che siano state le donne a favorire il passaggio dal nomadismo e dall’economia predatoria all’assetto stanziale e all’economia agricola, quando per prime sperimentarono la coltivazione del grano, dell’olivo e della vite, che richiedeva un’applicazione che durava quasi un intero anno in un medesimo luogo. E così inventarono il pane, l’olio e il vino per sostituire e integrare il cibo proveniente dall’attività pastorale-venatoria. Lo fecero per conciliare meglio i loro tempi di lavoro e di cura prima e dopo le gravidanze e contribuirono, in modo determinante, alla nascita dell’agricoltura.

La ricerca del sacro Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro. Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono alla convivenza umana, pena il trasformarsi dei rapporti tra le persone in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica, della mai perfettamente dominabile imprevedibilità degli individui. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano. Non si può comprendere l’idea di sacro senza ricordare la cultura del frumento e del pane; dell’olivo e dell’olio; della vite e del vino. Si tratta di prodotti che in passato scarseggiavano e non erano accessibili a tutti i ceti sociali. La loro produzione, preparazione e consumo 24


a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà. L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento. Così dovrà ristabilirsi il nostro rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e tutto il mondo esterno è il suo cibo. Noi dobbiamo mangiare per vivere, dobbiamo assumere il mondo e trasformarlo nella nostra carne e nel nostro sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale. Ma cosa fa di un “tavolo” una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Il pasto è come il sesso: o è parlato oppure è aggressività; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Prima di toccare il cibo dovremmo chiederci: “Da dove viene? Chi ha coltivato questi frutti? Chi li ha procurati con il suo lavoro? Chi li ha cucinati?”. Parlando del cibo lo assaporiamo e, con amore e in comunione con altri, lo facciamo diventare parte di noi. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.

Frapponendo tra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino, la donna e l’uomo hanno cessato di essere divoratori. Abbandonando l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda, la donna e l’uomo hanno assunto quello di chi crea un rapporto con il cibo. Sono tutti elementi che dimostrano come sacro, cibo e sesso sono stati elementi tra loro sempre connessi. Ma oggi questo equilibrio si è deteriorato. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque sono tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. Sessualità e convivialità gioiose Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve 25


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Eros nel

olioofficina / arte

chiostro

di Nicola Dal Falco

Nulla di pruriginoso e di facile nella scelta di un titolo che non allude a chissà quali svelamenti, ma semplicemente annuncia che, a Milano, nel chiostro, quello del Palazzo delle Stelline, è ospite Eros, invitato dall’Olio e dalla sua Officina, condotta da Luigi Caricato. Già in questa simbiosi di olio e officina c’è un po’ della magia di Eros: lo splendore dell’uno e dell’altro - il riverberare oro, luce, calore - accanto allo spirito d’iniziativa di Amore e al costante lavorio dell’officina, nel suo significato più schietto di opus e facere. Ospite, anche attraverso una mostra di incisioni di grande formato che ribadiscono un altro legame, quello tra Eros e arte, in particolare tra eros e xilografia;

La notte, al buio, Psiche avverte qualcuno al suo fianco che confessa di non potersi mostrare. Gli incontri si ripetono fino a che, spinta dall’invidia delle sorelle, allunga la lucerna verso il viso dell’amato, lasciando cadere, inavvertitamente, una goccia d’olio bollente. Eros si sveglia e fugge. Da quell’istante, iniziano le disavventure della ragazza, perseguitata da Afrodite, spinta dalla doppia gelosia di madre e di donna. Una caduta che conduce fino agli Inferi e ad una successiva rinascita.

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tarie e segrete attribuite ad Orfeo, la creazione è immersa nella Notte, stretta tra le sue ali nere. Amata anche lei dal Vento, semina nel grembo dell’Oscurità un uovo d’argento. Da quest’uovo, esce Eros o Fanete (il Brillante), mettendo subito in movimento l’Universo.

come dire che il contatto manuale e spirituale con il legno, materia viva, trasmette all’opera un profumo e un fremito di cosa nascente. È, infatti, nella stretta del torchio che i segni impressi sulla matrice inchiostrata, faranno letteralmente fiorire il foglio.

Un essere ermafrodito con quattro teste d’aLa parola eros, tuttavia, scandita in troppe nimale che, alternandosi fra loro, lanciano al declinazioni, rende necessaria una breve ricamondo il loro verso aurorale. L’ariete bela, ed pitolazione, iniziando dall’origine del mondo. è la primavera, il leone ruggisce ed è l’estate, Secondo il pensiero greco, sono almeno quatil serpente sibila ed è l’inverno, il toro mugtro i miti che narrano la creazione. Nel primo, gisce ed è l’anno nuovo. quello pelasgico, preelleI quattro animali corrinico, il mondo viene genespondono, quindi, alla rato da Eurinome, dea di successione delle statutte le cose, emersa dal Esattamente a questo serve gioni. caos, e da Ofione, il serpente, scaturito dal Vento l’olio: a ungere il meccanismo, Madre e figlio vanno ad abitare in una grotdel nord che la dea affera preservare la speranza ta. Eros crea la terra, ra nell’aria e strofina tra i e il pudore, a tenere Eros il cielo, il sole e la luna, palmi della mano. il più vicino possibile a mentre la madre assuDanzando per scaldarPsiche, facendo sì che Psiche me il rango di triplice si, in quella prima lunga dea, riunendo in sé il alba, Eurinome seduce lo accolga senza di nuovo ruolo di Notte, Ordine Ofione che l’avvolge nelperdersi. e Giustizia. Nei pressi, le sue spire. Poi, la dea Rea batte su un tambusi stacca dall’abbraccio, ro di bronzo, ricordando volando sotto forma di agli uomini di tendere colomba per depositare l’orecchio agli oracoli della dea. l’uovo universale che, protetto dal serpente, Nonostante l’azione di Eros, è la Notte a imdà vita a «il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la perare sul mondo, fino a quando non subentra terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i un nuovo racconto in cui Urano, divinità pasuoi alberi e con le erbe e le creature viventi». triarcale, spodesta la Notte regina. In questa [1] cornice, anche dopo l’avvento di Zeus, Eros viene considerato troppo vicino al caos priL’unione tra Eurinome e Ofione ritorna come mordiale, troppo irresponsabile, troppo indiimmagine primordiale anche nel mito omeripendente e antico, per trovare casa sull’Olimco dove ai due precedenti personaggi si sostipo e partecipare al banchetto degli dei. tuiscono Teti, signora del mare, e Oceano che Esiodo, nella Teogonia, lo pone tra le prime circonda la terra. quattro essenze insieme a Caos, Terra e TartaNel mito orfico, la scena acquista un più intenro, «il più bello fra gli immortali, che rompe le so chiaroscuro. Per gli orfici, testimoni di una membra, e di tutti gli dei e di tutti gli uomini religione dove confluiscono dottrine frammen28


Eros, quindi - «…Prima di tutto è povero sempre, ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada e, perché ha la natura della madre è sempre accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, filosofo per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista» - conclude, poi, mostrando la paradossale ricchezza del demone - «per sua natura, non è né mortale né immortale, ma in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive, quando riesce nei suoi espedienti; talora, invece, muore, ma poi torna in vita, a causa della natura del padre. E ciò che si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è mai povero di risorse, né ricco».

doma nel petto il cuore e il saggio consiglio». Dio, insomma, temibile tanto per i mortali quanto per gli immortali. Altri dicono che Eros sia il figlio di Afrodite ed Ermete o di Afrodite e Ares. Due padri che si distinguono per il movimento continuo e lo scontro, per un sapere obliquo e il furore ispirato. In realtà, sottolinea Robert Graves, Ermete sarebbe stato un simulacro fallico intorno al quale, in ricordo dell’amplesso tra Zeus e Maia (la terra) da cui sarebbe nato lo stesso Ermete, si scatenavano le danze orgiastiche; Ares, invece, allude al desiderio che i guerrieri, lontani da casa, accendono nelle donne.

Figlio di Povertà e Risorsa Con Platone, Eros perde il titolo di dio e conquista la patente di demone. Un demone potentissimo ed essenziale per il governo stesso del mondo. Dice il filosofo: «ciò che è demonico è intermedio fra divino e mortale» ed Eros «ha il potere di interpretare e portare agli dei le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dei: dagli uomini le preghiere e i sacrifici, dagli dei, invece, i comandi e le ricompense e i sacrifici». [2] Svolge, quindi, un ruolo di completamento, di connessione tra l’alto e il basso, tra ciò che è superiore e inferiore. Per chiarire meglio, Platone torna poeta, offrendo al demone una nuova genealogia. Eros è concepito da Penia (povertà) durante la festa in onore di Afrodite. Venuta a mendicare all’Olimpo, la dea si congiunge a Poros (espediente, via o come traduce Simone Weil, risorsa), approfittando delle circostanze. Lo sorprende, ubriaco di nettare, nel giardino di Zeus, sperando così di porre fine alla sua permanente indigenza.

La grandezza di Eros sta nella sua forza propulsiva e nel desiderio appassionato di fondere l’incertezza del divenire con lo splendore delle cose eterne, ciò che perisce con il volto divino dell’immortalità.

La grandezza di Eros sta, quindi, nella sua forza propulsiva e nel desiderio appassionato di fondere l’incertezza del divenire con lo splendore delle cose eterne, ciò che perisce con il volto divino dell’immortalità. La mancanza che lo attanaglia gli fa superare qualsiasi guado, puntando sempre alla vetta. 29


tata da Afrodite, spinta dalla doppia gelosia di madre e di donna. Una caduta che conduce fino agli Inferi e ad una successiva rinascita. Anche Eros, però, non può dimenticare Anima e chiede a Zeus di intercedere. Le nozze serviranno ad unire per sempre gli amanti, placando, insieme all’ira di Afrodite, la curiosità di Psiche che conduce all’esaltazione del desiderio, alla fatale attrazione verso l’ignoto. Solo dopo aver sperimentato la potenza di Eros, Anima, ormai cosciente, potrà preservarne il segreto, regolandone gli slanci, dominandone la pericolosa follia. Così, giorno dopo giorno, va il mondo, sospinto da Eros e governato da Psiche, minacciato ad ogni passo dalla violenza dell’uno, dalla curiosità dell’altra. Ed esattamente a questo serve l’olio: ad ungere il meccanismo, a preservare la speranza e il pudore, a tenere Eros il più vicino possibile a Psiche, facendo si che Psiche lo accolga senza di nuovo perdersi. Eros nel chiostro, appunto.

Eros, si legge nel Simposio: «è un parto nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima». Egli spinge a generare, sconfiggendo in tale modo la morte. L’energia che innerva l’Universo e lo tiene unito coincide con gli obiettivi di Eros: pienezza e permanenza. Lo si incontra a metà strada tra il bello e il brutto, il buono e il cattivo, la saggezza e l’ignoranza. L’ambizione di seminare qualcosa di sé attraverso l’amore, i figli, l’amicizia, lo studio, le imprese che destano ammirazione, produce immortalità, crea il Bene e, su un piano superiore, il Bello. Forse, l’aspetto più affascinante dell’Eros platonico risiede proprio nel fatto di essere considerato «filosofo per tutta la vita», affamato e mai vinto. Eros e Psiche Infine, la bella storia, che compare nelle Metamorfosi di Apuleio [3], illumina l’ultimo segreto, il più prezioso. L’istinto di amare, il desiderio sensuale non ha solo a che fare con l’altro, ma coinvolge Psiche, cioè Anima. È da questa relazione che dipende l’equilibrio nell’uomo e l’armonia nel mondo. Narra Apuleio che l’inaudita bellezza di Psiche non trova pretendenti e costringe i genitori ad esporla sulla roccia di un monte, preda di un mostro. Ormai sola, un vento leggero la trasporta dentro un palazzo dove una schiera di voci si danno da fare per servirla. La notte, al buio, Psiche avverte qualcuno al suo fianco che confessa di non potersi mostrare. Gli incontri si ripetono fino a che, spinta dall’invidia delle sorelle, allunga la lucerna verso il viso dell’amato, lasciando cadere, inavvertitamente, una goccia d’olio bollente. Eros si sveglia e fugge. Da quell’istante, iniziano le disavventure della ragazza, persegui-

Bibliografia [1] Robert Graves, I Miti greci, Longanesi [2] Platone, Il Simposio, Rusconi [3] Apuleio, Metamorfosi, Bur Rizzoli

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A fiordi

olioofficina / sensazioni

palato di Nicola Lagioia

Non solo la tavola mediterranea ma la cultura mediterranea nel suo complesso è inimmaginabile senza olio d’oliva. Insieme al vino, l’olio d’oliva è l’alimento che meglio rappresenta la nostra identità da qualche millennio a questa parte. La sua carica simbolica riassume bene le nostre più alte aspirazioni: la forza e la stabilità del fusto, la diversità nell’identico (il verde chiaro e verde scuro delle foglie che ondeggiano al vento mostrando recto e verso), la complessità e raffinatezza dell’estratto. E poi un certo multiforme ingegno. Alimento in apparenza semplice, basta un filo l’olio per nobilitare un tozzo di pane. Allo stesso modo, l’olio d’oliva sapientemente dosato compie il miracolo di alleggerire cibi altrimenti troppo sofisticati o troppo pieni di sé. Ecco un’altra caratteristica della cultura mediterranea quand’è in grande forma: saper dialogare con tutti, portando gli altri a dare il meglio di sé. E tuttavia, mentre Bacco a un certo punto ha aperto i suoi forzieri, i numi tutelari dell’olio d’oliva (il Dio ebraico attraverso Seth secondo alcuni, Iside secondo altri, Atena per la cultura greca) si sono dimostrati col tempo più gelosi del proprio segreto. Se infatti il vino hanno imparato a farlo anche in California, l’olio d’oliva rimane una prerogativa dei popoli mediterranei. Questo aumenta la sua preziosità. Quando sono all’estero, cerco sempre un ristorante in cui abbiano dell’olio d’oliva. La ricerca non è semplice. La tavola più ricca, senza olio d’oliva mostra solo la propria appariscenza, simile al fallimentare protagonismo di quelle donne che vanno in società troppo cariche di gemme e pendagli. Viceversa, nessun piatto sarà povero se a portata di mano c’è un contenitore di vetro con dentro il prezioso fluido smeraldino. Se la vera nobiltà è quella d’animo, l’olio d’oliva a fior di palato ne è una delle più belle incarnazioni.

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Le gentili mamme

olioofficina / acrostico

dell'olio

di Luigi Caricato

Vivian Lamarque ha scritto poesie che andrebbero impresse nella memoria e lette in pubblico mentre si è seduti tra gli ulivi, nel fascino dei profumi e dei suoni di un oliveto d’estate, mentre si ascoltano i grilli. Io l’ho fatto in più occasioni. Da solo, nel Salento, tra gli ulivi secolari della mia famiglia. L’autrice me ne fece dono scrivendola appositamente per me, per pubblicarla, nel 1998, su “L’Aria dei Messapi”, una rivista semplicissima di appena otto pagine che organizzai e diressi per alcuni anni per conto dell’azienda agricola Caricato, allora gestita da mio padre Pier Domenico e oggi nelle salde mani di mio fratello Francesco. L’inedito della Lamarque mi colpì subito nella sua semplicità e immediatezza, Definire le olive “gentili mamme dell’olio” è un tocco magistrale di alta poesia. Sono rimasto sempre affascinato dalla definizione delle olive quali “gentili mamme dell’olio”. A chi non ha ancora avuto modo di leggere i libri di Vivian Lamarque, consiglio di farlo perché ha un approccio elegante e semplice, e in pochi versi riesce a concentrare tante immagini, fino a entrare nel vivo delle emozioni.

Oh tra le foglioline Le foglioline d’argento Il colore e la forma delle Olive, gentili mamme dell’olio Vivian Lamarque

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Tributo al

BURRO olioofficina / sensazioni

DANIELA RANCATI “ ... il burro dolce salato come una carezza , una emozione per lo spirito e il corpo”

JUTKA CSAKANYI Pallido colorito d’inverno dove le giornate a volte sono burrose.

PAOLA ZAN Solo il palato e le papille possono dire cosa sia il burro, quel mattoncino inerte e scivoloso che popola discreto i comparti più reconditi dei nostri frigoriferi!

SERGIO SANSEVRINO “NELLA MANIERA DI SFUMARE OGNI ATTO E DESIDERIO”

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FRANCO VERTOVEZ Di burro ho spalmato il pane tostato al salmone posato del limone ho spruzzato.

MARIA CRISTINA TEBALDI IL SAPORE DEI RICORDI IL BURRO… ha il sapore dei ricordi legati a mia mamma, mantovana: ……………… posato nell’acqua in una scodella sul davanzale della finestra della cucina, per stare al fresco, quando ancora non c’era il frigorifero, ………………. condimento fondamentale per tutto, per il risotto alla pilota o col tastasale, per i tortelli di zucca, per la cottura della bistecca, la torta sbrisolona, il bussolan o la torta delle rose, ………………. morbido, soffice, spumeggiante, gustoso ma, attenzione ! non deve imbrunire troppo, ………………. abbandonato, ahimè troppo tardi, per il suo dannoso contenuto di colesterolo.

Di terra e di mare un connubio stellato sto cibo d’amare è delizia al palato. Grazie al burro al cielo sussurro.

Elisabetta BOSISIO NOSTALGIA DELLA MERENDA: QUANDO CI IMBRATTAVAMO LE MANI DI BURRO E ZUCCHERO E CI LECCAVAMO ANCHE LE DITA...

topylabrys Ricordi d’infanzia: Raggi di SOLE scaldano lentamente il panetto di BURRO ... E Lui felice, si ammorbidisce, e lentamente e teneramente... Si fa spalmare su una fetta di pane tiepida e lì si offre alla spruzzata: - di sale ... o - di zucchero ... Si adatta ai gusti e felice … diventa l’antica e sana merenda sana!

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L’Italia è un Paese fondato sull’olivo e sull’olio. Se qualcuno nutre ancora dubbi al riguardo, può constatarlo in prima persona immergendosi nella avvincente lettura dell’Atlante degli oli italiani. Non è un volume per pochi, ma per tutti, dalla forte impronta popolare, proprio come lo è oggi l’olio da olive, un bene comune condiviso da tutti e non più destinato, come nel passato, alle sole classi agiate. L’autore, Luigi Caricato, massima autorità in materia, ci conduce per mano, facendoci intraprendere un viaggio per parole e immagini lungo l’intera penisola, senza escludere alcun territorio, e svelandoci aspetti poco conosciuti o inediti. Vi si trovano le ragioni profonde che hanno portato un popolo a riconoscersi in una pianta divenuta nel frattempo simbolo di una appartenenza, al punto da essere rappresentata nello stemma identificativo della Repubblica italiana.

LUIGI CARICATO

ATLANTE DEGLI OLI ITALIANI



Oliera

d'artista

Maria Cristina Tebaldi


L'olio

ombra

olioofficina / visioni

di Valerio M. Visintin

Lo spunto (anzi, la spinta) per una riflessione porta in calce l’autorevole firma del collega Luigi Caricato che sabato 25 gennaio 2014, durante un incontro al suo Olio Officina Food Festival, ha sollecitato una mia risposta in tema. La prima memoria è corsa d’istinto a quelle oliere di nonna Abelarda che viaggiavano su certe gabbiette di metallo cromato, in compagnia dell’aceto e di un sale rappreso e giallino. Quale razza d’olio contenessero quelle boccette ricamate nessuno lo sa. Ma lo straterello di morchia nera depositata sul fondo era un tratto distintivo e immancabile. Qualcuno commentava con l’aria di chi la sa lunga: “Vuol dire che l’olio è genuino, non filtrato!”. I commensali più portati al misticismo giuravano, invece, che in quell’unghia di palta sedimentata per anni si potesse leggere il futuro, come nei fondi del caffè. Gli osti toscani, infine, facevano spallucce, fugando ogni dubbio: “Ll’è bbono, ll’è bono. Lo fa il mi zio a Ponte Poppi!”. Che ingenui. Erano ancora i tempi di un marketing primitivo e naïf. I maestri del retroterra familiare alla Bottura non avevano ancora insegnato ai colleghi quanto fossero più commoventi e persuasive le figure della nonna e della mamma. Pazienza. Fu così che, in un giorno imprecisato, nacque un nuovo format irresistibile, incardinato su tre princìpi: le tovaglie di carta paglia, il tagliere di formaggi e marmellatine, l’olio extra vergine in bottiglia. Nell’arco di pochi mesi, il mondo della ristorazione ebbe un volto nuovo. I produttori di oliere fuggirono all’estero. Gli zii di Ponte Poppi passarono all’industria della carta paglia. E noi clienti im-

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rializza nelle cattedrali degli chef d’altura che, essendo infallibili, non hanno bisogno di nulla. Anzi, posso proporvi un esperimento? Sedendo al desco di uno di questi luoghi costellati, provate a chiedere olio o sale per correggere un piatto. E poi comunicatemi in quale pronto soccorso vi hanno ricoverati, che corro a intervistarvi.

parammo a uscire di casa con una biro nella tasca del giubbotto, per poter scarabocchiare le tovagliette tra una portata e l’altra. Come spesso accade con le rivoluzioni, minime o epocali che siano, l’entusiasmo si ossidò presto a contatto con la realtà quotidiana. Il riflusso segnò la sua rivincita quando gli osti più arguti inaugurarono l’epopea del rabbocco. Me ne accorsi valutando perplesso, in un ristorante da prima pagina, l’etichetta bisunta e sfinita di una bottiglia piena sino all’orlo come se fosse stata appena aperta. E la data di scadenza? Trapassata.

Il riflusso segnò la sua rivincita quando gli osti più arguti inaugurarono l'epopea del rabbocco. Me ne accorsi valutando perplesso, in un ristorante da prima pagina, l’etichetta bisunta e sfinita di una bottiglia piena sino all’orlo come se fosse stata appena aperta. E la data di scadenza? Trapassata. Da quel dì, ho avuto altri analoghi riscontri. In casi non rari, le bottiglie d’olio Dop, cioè, hanno sostituito le vecchie e care oliere, con identica prassi e un inganno in più. Intanto, fratello aceto è stato esiliato nelle retrovie da cuochi e ristoratori. Escluso e reietto. Sopravvive soltanto quello balsamico di Modena, ma in un ruolo di vezzoso contorno: in cucina lo centellinano in piccole gocce o graziose strisciatine, sparse con artistica nonchalance in giro per il piatto. Un uso limitato. Ma che opere preziose abbiamo in tavola!

Vasi comunicanti. L'olivo è una pianta di origine divina, infatti la sua dote è quella di mettere in comunicazione il mondo umano con quello divino. L'opera Vasi comunicantià vuole sottolineare questa sacralità dell'olio, che battezza, unisce, consacra, nomina. L'opera è una terza entità spirituale nata da due elementi, così come racconta la sequenza iniziale di Fibonacci: 1,1,2,3. È una realizzazione di Geremia RENZI & LUCIA Rosano per Arte da Mangiare, esposta a Olio Officina Food Festival 2015.

Ecco il quadro generale, a fronte di qualche eccezione. La più vistosa delle quali si mate42


CUCINARE È UN PIACERE, CON PRODOTTI DI QUALITÀ. www.olitalia.com


Oro

olioofficina / visioni

liquido

di Bianca Garavelli

Ognuno aveva portato il suo dono più prezioso al consesso degli Esperti riuniti. Venivano dalle città più popolate della terra. Gli esploratori e i mercanti erano i più numerosi. Ma tutti, senza distinzione di sesso, età e occupazione, avevano risposto all’appello degli Esperti. Sapevano che era una riunione importante. La più importante, dall’inizio della nuova vita. Decisiva per ricostruire il mondo, la prima volta aperta a tutti, da quando le comunicazioni erano riprese. Anche Eva lo sapeva. Lei era arrivata per ultima all’incontro. Quando fu il suo turno, si sentì chiamare per nome, come era già accaduto a tutti gli altri. Essendo l’ultima, aveva assistito all’accoglienza negativa che era stata fatta ai suoi predecessori. Nessuno era riuscito a far tornare la fiammella che dava luce sulla piccola lucerna spenta. La piccola lingua di fuoco, così come appariva nelle poche immagini del tempo antico. Ma lei sapeva di poterlo fare. Eva aspettò di avere l’attenzione di tutti. Quindi estrasse il piccolo contenitore in cui aveva versato il liquido che era riuscita a ottenere, seguendo le complesse istruzioni che aveva imparato. Le sapeva a memoria. Non c’era stato bisogno di alcun tipo di registrazione. Qualcuno glielo aveva insegnato, di persona. Qualcuno che l‘amava. Aprì la bottiglietta opaca e ne versò il contenuto nel corpo concavo della lucerna.

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Attese che il clamore dei presenti si spegnesse, quindi rispose a chi le chiedeva quale combustibile misterioso avesse reso possibile quel successo. Poi rispose sicura: «Olio d’oliva, come nei tempi più antichi.»

Al sole non più velato dalle nuvole nere dell’apocalisse, brillò come oro liquido. Immerse la piccola striscia di stoffa che aveva strappato dal vestito, attese che si imbevesse del liquido denso, poi prese un bastoncino sottile e lo tuffò delicatamente nel braciere acceso davanti alle sedie degli Esperti. Quindi l’avvicinò al lembo di stoffa che sporgeva fuori dalla lampada. Subito, la fiamma raddoppiò, come se uno specchio le si fosse materializzato davanti.

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Chi ha paura di una olivicoltura moderna olioofficina / traguardi

di Eddo Rugini e Salvatore Camposeo

I sistemi di coltivazione dell’olivo dominanti in Italia e nel mondo sono per l’80% ascrivibili a quelli di tipo tradizionale caratterizzati da una bassa densità d’impianto, inferiori a 200 alberi per ettaro, da sesti spesso irregolari, da alberi di notevole dimensione dei tronchi e delle chiome con frequente presenza di esemplari secolari e monumentali, spesso in consociazione con altre colture e in assenza di irrigazione, che nell’insieme determinano una accentuata alternanza di produzione, alta produttività per singolo albero, ma scarsa per unità di superficie. Inoltre la dislocazione in suoli prevalentemente collinari molto spesso impedisce l’impiego di una razionale meccanizzazione con il conseguente elevato costo di produzione. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, parimenti a quanto avvenuto per le altre specie arboree da frutto per esigenze di competitività e innovazione, si è assistito alla espansione dei sistemi intensivi o specializzati e che oggi rappresentano circa il 20% della superficie totale investita a olivo. I sistemi olivicoli intensivi, a prescindere delle varie forme di allevamento adottate, comportano un miglior utilizzo dei fattori terra, luce ed acqua. Questi sono contraddistinti da una densità di impianto di 250 a 400 alberi per ettaro con un numero di varietà limitato e con sesti regolari, generalmente in rettangolo, assenza di consociazioni e dotati di impianti di irrigazione; gli alberi presentano una riduzione della dimensione delle chiome, una anticipata entrata in produzione e una ridotta alternanza di produzione. Tutto ciò permette sia un buon livello di meccanizzazione, soprattutto della raccolta delle olive dall’albero, sia una alta produttività di olio extra vergine di oliva per ettaro. Nel complesso, quindi, tale sistema presenta

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dell’impianto. Tale sistema colturale è l’unico una maggiore sostenibilità dell’investimenche consente e l’impiego di meccaniche potato per le nuove superfici olivetate e consetrici e di macchine raccoglitrici in continuo, guentemente una remuneratività economica usate per la vite, garantendo una elevatissimaggiore, accompagnata da una verosimile ma produttività di lavoro e una loro destinariduzione della longevità economica dell’olivezione multifunzionale nel settore agricolo. to, ridimensionando così la vecchia credenza popolare che porta a considerare l’olivo come È ben noto quanto l’olivicoltura italiana sia “albero dei nipoti” destinato cioè alle generacomplessa in quanto assolve a più funzioni. La zioni future. I sistemi colturali intensivi hancoltivazione tradizionale dell’olivo, con ridotte no in qualche modo sopperito alla imperante spinte antropiche e a bassi inputs agronomici, richiesta di riduzione dei costi di gestione riesce ad assicurare stabilità all’ecosistema dell’oliveto. Tuttavia, essa non può spingersi oliveto, il quale possiede, in queste situazioni, oltre ragionevoli limiti con i sistemi intensivi, una elevata capacità omeostatica; è altrettanin quanto la potatura deve essere eseguita anto noto, infatti, che, in cora manualmente e la secoli di coltivazione in raccolta meccanica si Oggi, purtroppo, tutta tutto il bacino del Meattua alla pianta singol’olivicoltura italiana è diterraneo, la coltura la. La diffusione di queconsiderata un museo, anche dell’olivo rappresenta sti sistemi infatti non è se, a differenza di questo, un ecosistema in equistata quella auspicata, librio biocenotico. Molto tanto che oggi nelle aree non tutte le aree olivicole interessante, quale fuolivicole mondiali solo sono in grado di assolvere turo per la sostenibilità il 20% circa dei nuovi alla funzione estetica a causa degli impianti olivicoli impianti sono realizzati della presenza sul territorio di tradizionali non soggetcon tali sistemi a fronte oliveti abbandonati, costituiti ti ad azioni di intensifidell’80% realizzati con i cazione, è quella intronuovi sistemi superinda vecchie piante, malate e di tensivi. frequente sopraffatte da piante dotta dalla passata Pac (Politica agricola comuinfestanti, non più in grado di ne) con il principio della Gli attuali impianti sufornire un reddito né di svolgere “condizionalità ambienperintensivi o ad alta alcuna funzione ambientale. tale”. Il concetto della densità garantiscono condizionalità tende a una produzione di olio far emergere con forza extra vergine di oliva il legame fra l’agricoltura e territorio quale pari ai sistemi intensivi e prevedono il pasfattore strategico per creare condizioni favoresaggio dal concetto di albero singolo a quello voli di valorizzazione reciproca e come risorsa di parete produttiva continua. Essi sono caprincipale delle aree rurali. In tale contesto, ratterizzati da densità di impianto superiore l’applicazione delle tematiche ambientali rapa 1.200 alberi per ettaro; forma di allevamenpresenta un obiettivo prioritario al fine di fato ad asse centrale; riduzione accentuata delle vorire i metodi di produzione agricola finalizdimensione delle chiome e una ridotta base zati al contenimento degli impatti ambientali elaiografica; precocissima entrata in produe incoraggiare la conservazione degli habitat zione; riduzione della longevità economica 47


rio salvaguardare ambiente e territorio, ma al tempo stesso garantire reddito ai proprietari dei terreni sui quali dominano belli e maestosi esemplari di olivo facenti parte della memoria storica e della cultura.

naturali e di biodiversità del paesaggio agrario. In tal senso svolge un’importante azione la Legge Regionale della Puglia, che ha fatto scuola in Italia, per la tutela e la valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali considerati nella loro dimensione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica, nonché di elementi peculiari e caratterizzanti del paesaggio regionale (L.R. n. 14/2007). Il futuro di queste superfici olivetate deve essere rivolto in tale ottica, in quanto già dagli anni ‘60 era forte la consapevolezza che tale sistema estensivo non poteva garantire redditività adeguata al coltivatore. Dal 1966 fino ad oggi, infatti, gli aiuti alla produzione hanno garantito la sostenibilità economica di tali coltivazioni, ma è certo che dal 2015 tali aiuti saranno drasticamente ridotti. Quindi dovrebbe essere utile tale periodo di transizione per la ricerca di nuove forme di valorizzazione e promozione del prodotto “olio” ottenuto dai sistemi tradizionali sensu latu, sfruttando il legame al territorio. Interessante appaiono essere le possibilità offerte dall’olivicoltura biologica, che sembra garantire, meglio delle Dop (Denominazioni

Oggi, purtroppo, tutta l’olivicoltura italiana è considerata un museo, anche se, a differenza di questo, non tutte le aree olivicole sono in grado di assolvere alla funzione estetica a causa della presenza sul territorio di oliveti abbandonati, costituiti da vecchie piante, malate e di frequente sopraffatte da piante infestanti, non più in grado di fornire un reddito né di svolgere alcuna funzione ambientale. Sono proprio questi gli oliveti, giacitura del suolo permettendo, che potrebbero essere spiantati e sostituiti con impianti moderni e più produttivi a vantaggio sia del reddito per gli agricoltori sia per l’ambiente stesso. È ben noto che le aree agricole non sono e non lo saranno mai aree in cui vige un equilibrio tra le componenti naturali, come erroneamente molti credono o meglio come viene loro fatto credere, per cui maggiore sarà la produzione

È necessario riattivare progetti a lungo termine e finanziare adeguatamente quelle Istituzioni di ricerca pubbliche che un tempo erano deputate alla sperimentazione a lungo termine e che oggi, nonostante le riforme strutturali cui sono sottoposte per decenni, se non sono state definitivamente soppresse, sempre più raramente sono in grado di svolgere questa importante funzione. che può essere ottenuta per unità di superficie investita per l’impiego di varietà efficienti e pratiche colturali adeguate che ne limitano le perdite di prodotto, causate da stress di natura biotica e abiotica, minore sarà la necessità di aree sottoposte a coltivazione e di conseguenza maggiori saranno le superfici “verdi” disponibili.

di origine protetta) e Op (Organizzazione produttori), un ritorno economico diretto al produttore. Il destino per gli oliveti tradizionali secolari e monumentali rivolti alla produzione dell’olio lampante, invece, appare ancora più difficile senza una concertazione fra mondo produttivo e legislativo per la valorizzazione turistico-paesaggistico-ambientale; è necessa48



(Dop e Igp) le quali, proprio a partire dalle note interazioni genotipo per ambiente, dovrebbero costituire senza dubbio lo strumento principe per la valorizzazione della olivicoltura tradizionale, ma che purtroppo stentano a decollare ancora dopo oltre vent’anni dalla loro istituzione. Si apre allora un altro discorso che meriterebbe un necessario approfondimento.

Da una ricognizione effettuata nella Regione Lazio si è evidenziato che le aree olivicole regionali potrebbero essere distinte in quattro distinte parti: 1) zone da proteggere per peculiarità storicoculturale o in presenza di olivicoltura monovarietale (7 mila ettari); 2) zone ad alta-buona produttività (impianti di recente costituzione, intensivi, sesti regolari, meccanizzabili, imprenditoria valida e aperta all’innovazione tecnologica (26 mila ettari); 3) zone a media-bassa produttività (aree interne suscettibili di miglioramento e di trasformazione, parzialmente meccanizzabili, prevalente conduzione part-time (32 mila ettari); 4) zone a olivicoltura in versante (circa 10 mila ettari). In sostanza una buona parte delle aree olivicole improduttive potrebbero essere riconvertite a oliveti produttivi, con la conversione in oliveti intensivi. Questo che è solo un esempio di una ricognizione fatta in una regione, potrebbe essere un invito alle altre regioni italiane a farlo se ancora non lo avessero fatta al fine di predisporre insieme un programma di ammodernamento della olivicoltura nazionale.

Le cultivar ‘autoctone', se da un lato garantiscono buone caratteristiche di tipicità e spesso anche di produttività, entrando di diritto nei disciplinari Dop, tuttavia mal si adattano a una coltivazione di tipo intensivo, per cui prospettare soluzioni per una ristrutturazione dell’olivicoltura tradizionale è veramente difficile. Per questa tipologia di olivicoltura, la scelta varietale si deve basare necessariamente sulla attitudine che questa possiede alla raccolta con macchine scuotitrici, tanto da limitarne la scelta, dimostrato dal numero esiguo di cultivar oggi diffuse in impianti intensivi che non supera la decina. L’ideotipo per i sistemi intensivi ad alta meccanizzazione è caratterizzato da un portamento semieretto; da una vigoria medio-scarsa, da una precoce messa a frutto e da una produttività costante; da una pezzatura dei frutti superiore a 2 grammi con buona consistenza della polpa e una riduzione progressiva della resistenza al distacco, oltre da una buona attitudine all’autoradicazione, con sistemi tradizionali o moderni. La meccanizzazione della raccolta delle olive dall’albero, infatti, è limitata sia da fattori strutturali (vetustà degli impianti, irregolarità dei sesti, forme di allevamento poco rigide) che da fattori varietali (portamento pendulo o semi-pendulo, notevoli dimensioni degli alberi e in particolare del tronco legate alla elevata vigoria e ridotte dimensioni delle drupe). Non è logico pensare che dove non sia possibile tecnicamente e economicamente

Gli oliveti tradizionali hanno il pregio di essere costituiti da una amplissima base elaiografica ed è pratica ordinaria fare ricorso a cultivar locali o comunque appartenenti alla piattaforma regionale per la costituzione di nuovi impianti. La estrema longevità biologica dell’olivo è la ragione principale del mancato rinnovamento varietale in olivicoltura, cui hanno dato un contributo notevole sia una porzione consistente del vivaismo, refrattario al nuovo, che le ‘gabbie’ normative del secondo dopoguerra tuttora pienamente vigenti. Aspetto consistente della questione è sicuramente rappresentato dalle produzioni tipiche 50



I timori manifestati da alcuni nei confronti dell’impiego di cultivar straniere relativamente ad un eventuale ‘danno’ che potrebbero arrecare alla tipicità e alla qualità degli oli extra vergini di oliva, e i dubbi se gli oli provenienti da oliveti italiani che usano cultivar straniere siano da considerare come un prodotto made in Italy, non hanno alcun fondamento né di fatto né giuridico; tali oli lo sono de facto, considerando il forte contributo dei fattori ambientali, colturali ed estrattivi sulla qualità olio, e lo sono de iure, obbedendo alla legislazione comunitaria e nazionale sull’etichettatura, oltre ai disciplinari Dop che lasciano molto spazio ‘varietale'. L’obiettivo auspicato, almeno da parte di ricercatori, era e rimane quello di usare genotipi di nuova costituzione partendo dal vasto germoplasma italiano, non tanto per una sola questione di campanilismo, ma perché consci che il materiale vegetale selezionato in ambienti diversi da quello dove dovrà essere posto a dimora spesso risulta più suscettibile ai vari stress sia di natura biotica che abiotica. Purtroppo ciò è solo una illusione considerato anche quanto avvenuto per la nostra frutticoltura, che oramai è costituita prevalentemente da varietà straniere che, tuttavia pur non fornendo un prodotto soddisfacente, ancora riesce a tenere il confronto sui mercati internazionali, o per lo meno l’indebolimento non avviene in modo così tanto rapido. Ciò che seriamente dobbiamo temere le sofisticazioni degli oli, che ineluttabilmente hanno un effetto devastante sul buon nome dei nostri oli extra vergini di oliva e che sono favorite anche dalla scarsa disponibilità di buoni oli da olive. Inoltre le diversificate condizioni ambientali italiane già menzionate, assieme alla presenza di una amplissima base elaiografica usata nei blend, che comunque resterebbe in produzione perché deve assolvere alle altre funzioni importanti per il nostro territorio, sarebbero sufficienti a mantenere

Il rischio più grave di tutta la vicenda olivicola nazionale è l’immobilismo, la mancanza di spirito innovativo che inesorabilmente porterà l’olivicoltura italiana ad una crisi profonda che contribuirà ad appesantire ulteriormente la bilancia dei pagamenti. effettuare la raccolta dall’albero, manuale o agevolata, per la produzione di olio vergine ed extra vergine, si debba ricorrere ad una raccolta meccanica delle olive da terra, che ineluttabilmente determina la produzione di olio lampante, col rischio di ritrovarlo poi etichettato extra vergine, in seguito a sofisticazioni a spregio dell’alta qualità e della tipicità dell’olio da olive. Le possibilità concrete di costituire nuovi impianti ad alta densità su quei terreni occupati da oliveti abbandonati e/o improduttivi, accanto a quelli tradizionali produttivi o a quelli che svolgono altre funzioni importanti, ce ne sono. Un inizio molto incoraggiante potrebbe essere costituito dall’impiego di qualche vecchia cultivar a scarsa vigoria o quelle pochissime nuove varietà italiane o di quelle straniere già collaudate, scartando tuttavia di certo quelle a bassa resa in olio. Inoltre se si vuole far uso delle cultivar nazionali che non si adattano alla intensificazione colturale, perché troppo vigorose, l’innesto può essere la soluzione più promettente, a condizione di individuare portinnesti che inducono la riduzione del vigore. Per alcune cultivar già ne sono stati individuati, per altre si tratta di intraprendere uno lavoro sistematico.

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esogeni (cioè sia il gene che accelera l’entrata in fioritura sia il gene usato come marcatore); i discendenti transgenici si riutilizzano solo per successivi incroci, per dare origine a loro volta ad altri nuovi genotipi non transgenici da selezionare per la coltivazione. In altre parole si usano le piante transgeniche solo per produrre in tempi rapidissimi i discendenti non transgenici.

alta la qualità e la tipicità dei nostri oli. Ciò che è veramente deleterio è l’immobilismo nel settore del miglioramento genetico in Italia non solo per l’olivo ma per tutte le specie frutticole. Mancano programmi a lungo termine, partendo proprio dal quel germoplasma presente nel nostro Paese, peraltro in gran parte raccolto e caratterizzato e che aspetta di essere meglio classificato e reso disponibile per essere usato in programmi di miglioramento genetico ma che non vede mai l’inizio. La lunga fase giovanile dell’olivo è stata da sempre il principale deterrente per l’avvio di un miglioramento genetico razionale. Ora, però, che le biotecnologie, incluse alcune tecnologie molecolari, sono in grado di accelerare la selezione di genotipi migliorati con le tecniche tradizionali, non dovrebbero esserci più rinvii. Purtroppo quelle tecnologie inerenti al DNA ricombinante, ovvero la costituzione di piante transgeniche, e che l’Italia si era distinta nel raggiungimento di importanti risultati e che avrebbe permesso di recuperare il tempo perduto, sono state messe al bando per motivi prettamente ideologici e i risultati distrutti col fuoco. Infatti la tecnologia del DNA ricombinante è fondamentale nel miglioramento genetico e non solo per produrre direttamente piante transgeniche destinate alla coltivazione, ma anche per fornire quelle informazioni fondamentali sulla funzione dei geni che avrebbero contribuito a semplificare e accelerare il miglioramento genetico tradizionale. Sarebbe stato sufficiente permettere soltanto la produzione e la sperimentare in campo di piante madri transgeniche per la precocità di fiorire precocemente sia esse stesse sia i semenzali da esse derivati. La fioritura precocissima abbrevia i cicli riproduttivi, e per ognuno di questi si allevano e si selezionano i discendenti migliori per la eventuale coltivazione solo tra quelli che non contengono i geni

Disporre di cultivar capaci di sfuggire a patogeni dannosi e adatte alle attuali esigenze del consumatore e soprattutto ai cambiamenti climatici, che già hanno iniziato a disturbare il normale ciclo produttivo, è fondamentale per l’economia di un Paese e che tra l’altro non dovrà essere più sottoposto ai gravosi oneri delle royalties. È necessario riattivare progetti a lungo termine e finanziare adeguatamente quelle Istituzioni di ricerca pubbliche che un tempo erano deputate alla sperimentazione a lungo termine e che oggi, nonostante le riforme strutturali cui sono sottoposte per decenni, se non sono state definitivamente soppresse, sempre più raramente sono in grado di svolgere questa importante funzione. Perplessità vengono manifestate sulla qualità degli oli ottenuti da oliveti al alta densità. Finora è stato dimostrato che l’elevata densità non peggiora la qualità degli oli, anzi, spesso la esalta. Il rischio più grave di tutta la vicenda olivicola nazionale è l’immobilismo, la mancanza di spirito innovativo che inesorabilmente porterà l’olivicoltura italiana ad una crisi profonda che contribuirà ad appesantire ulteriormente la bilancia dei pagamenti. Nel frattempo che i politici italiani, incluse le associazione di categoria, si pongono questi quesiti, senza prendere alcuna decisione, assistiamo alla crescita esponenziale delle 53


Altro aspetto da tener presente è la fase industriale della filiera: i frantoi dovrebbero adeguare le proprie capacità lavorative per poter trasformare una quantità di olive maggiore in tempi brevissimi, come è avvenuto in Spagna. Tuttavia grandi frantoi, spesso ritenuti attualmente sovradimensionati alle reali capacità di trasformazione, in Italia non mancano.

superfici mondiali olivicole investite con sistemi superintensivi, nonché la costituzione di nuove varietà adatte a tali sistemi di allevamento attraverso numerosissimi incroci inter-varietali da parte di compagnie private e istituzioni pubbliche straniere. In Italia, quasi esclusivamente in Puglia, i pochissimi nuovi oliveti sono realizzati da una “piccola multinazionale” che impiega cultivar proprie brevettate.

Perplessità è posta circa la durata economica di tali sistemi colturali, soprattutto ai fini del tempi di ammortamento dei costi per la loro realizzazione. Questo dato non può essere ancora assunto con sicurezza; tuttavia il primo impianto ad alta densità ha un’età di 19 anni ed è ancora in piena produzione! Tra le diverse incertezze, una certezza c’è e che può rasserenare tutti coloro che manifestano perplessità: i sistemi innovativi non sono destinati a sostituire i sistemi tradizionali, ma ad affiancarli! Già questa certezza sarebbe sufficiente nella realtà odierna per imboccare la via di uscita dalla marginalità economica dei primi. Basta volerlo!

Diverse sono le cause di questo immobilismo ma che possono essere rimosse con un poco di buona volontà. In primo luogo, la maggior parte delle aziende agricole italiane è gestita da imprenditori con un’età superiore ai quaranta anni, poco inclini all’innovazione: i sistemi intensivi e superintensivi prevedono, infatti, uno stravolgimento dalla figura classica dell’olivicoltore tradizionale a frutticoltore. Altro fattore che può limitare l’espansione di tali modelli innovativi è quello economico: realizzare un ettaro di oliveto ad alta densità secondo il modello catalano comporta un investimento di circa 6 mila euro, e al momento non vi sono contributi o agevolazioni per la loro realizzazione, sebbene la mentalità imprenditoriale sopperisce a questo importante aspetto. L’utilizzo di macchine raccoglitrici in un Paese quale l’Italia può essere ostacolata dalla dimensione media delle aziende agricole olivicole che è pari a 1,3 ettari. Difficile infatti appare l’acquisto da parte delle singole aziende di una vendemmiatrice aziendale dato il costo considerevole e la dimensione media di ogni azienda olivicola, ben al di sotto dagli 11 ettari proposto come punto di ritorno economico. Tuttavia, ottima alternativa potrebbe essere il ricorso al contoterzismo, così come ordinariamente avviene già da decenni per la raccolta dei sistemi intensivi con scuotitore di tronco o in quelli tradizionali per la raccolta da terra.

Eddo Rugini, Università degli Studi della Tuscia, DAFNE; Salvatore Camposeo, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Dip. Scienze Agro-Ambientali e Territoriali.

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Tocco

Aureo olioofficina / visioni

di Micaela Tornaghi

Tocco Aureo il mio delicato mentre alliscio la foglia d’oro nel grembo e i seni. Tocco Aureo il mio copioso mentre accarezzo e nutro la serica pelle del grembo e dei seni. Tocco Aureo fluente sui capelli ramati al sole per alleviare la salsedine Tocco Aureo attento sul piatto mentre condisco le carni. Tocco Aureo succoso sulle dita quando intingo sedani croccanti. Tocco Aureo …

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Bactrocera olioofficina / arte

oleae

di Nicola Dal Falco per Luciano Ragozzino

Ci voleva la vena sardonica di Luciano Ragozzino, biologo, incisore, editore d’arte nonché ideatore e realizzatore di fulminanti ex libris, più volte premiati, per costruire l’immagine di un ulivo senza veli, in piena forma e vigore. Se la figura vegetale centrale, con la roboante esibizione di sé - fusto, chioma e frutti compresi - non ha bisogno di spiegazioni tranne che per eventuali ciechi di vista o di spirito, la scenetta, inserita in basso richiede una più sommessa attenzione. Come avviene nelle pale d’altare dipinte su legno, l’autore ha inserito una sorta di predella, incidendo in un unico riquadro, lungo la fascia inferiore dell’opera, due mosche olearie. Cosa facciano e perché lo facciano, lo sa bene la natura e il contadino. Prese da amorosi sensi, ci ricordano il ruolo di Eros e come costui trascini le vite d’ogni ordine e grado, con effetti incrociati, dispensando piaceri e dispiaceri. Lunga vita, quindi, all’ulivo e alle Bactrocera oleae, sue insidiose ancelle. La prova d’amore resta una prova a tutti gli effetti.

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I paesaggi olioofficina / retrospettive

dell'ulivo di Giorgio Barbaria

Era «gigante l’ulivo» in Liguria ancora cent’anni fa [1]. Fino ad allora, chi aveva abitato in quel «bel angolo di Liguria dove c’è al mare Alassio, Sanremo e Bordighera» era talmente «avvezzo alla fatica», come i Liguri di venti secoli addietro [2], da riuscire a costruire, «pietra su pietra», su un «terreno avaro che franerebbe a valle», «muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti» per «milioni di metri quadri di muro a secco», «per quindici per venti chilometri dal mare alla montagna», vincendo «contro la natura» una «battaglia ordinata» e sentendosi a casa propria «come un popolo antico nella sua cattedrale». Giovanni Boine, Porto Maurizio, 28 giugno 1911 [3]. Da sessant’anni, in Riviera, “gigante” è il cemento, specie delle seconde case. La memoria del passato, compresa quella del «terreno che franerebbe a valle», è stata cancellata dai fin troppo noti edilizi interessi, salvo a tornare di botto davanti alla terrazza/parcheggio rovinata sull’Intercity 660 Milano-Ventimiglia. Andora, Capo Rollo, 17 gennaio 2014 [4]. Leggere, come sempre, aiuta: «La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera», dove prima «sopra gli orti s’infittiva l’oliveto», e quella che era stata un tempo «gente di campagna» ora era premuta dal «modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell’industria alberghiera». Cos’era accaduto? Nel secondo dopoguerra «era venuta la democrazia, ossia l’andare ai bagni l’estate d’intere cittadinanze», le quali finivano immancabilmente per riprodurre, solo

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l’olio di queste colline» [8], «siano andate nel senso di una ulteriore aggiunta di bellezza» [9], come è avvenuto per le epoche passate, oppure no. Il criterio decisivo è la bellezza del paesaggio.

un po’ più in là, «gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana». Italo Calvino, La speculazione edilizia, 1957 [5]. Negli Scritti corsari Pier Paolo Pasolini aveva denunciato, nel 1975, la «dissociazione» tra lo «sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese» ed il «progresso», che è «nozione ideale (sociale e politica)» di una nazione [6]. Purtroppo, la società e la politica italiane, miopi e distratte, non l’hanno ascoltato (l’avranno mai letto?): quanti esclusivi vantaggi discendono dall’ignorare una coscienza critica!

La nostra Liguria, che a Francesco Petrarca bambino «apparve non come una dimora terrena ma celeste», con «gli schienali dei colli rivestiti di cedri, di viti, d’olivi» [10], ha visto fiorire, ma anche svanire, sia la coltura dell’ulivo sia la cultura dell’olio. Camillo Sbarbaro la cantava nel 1922 «scarsa lingua di terra che orla il mare»: come lui, anche i più fortunati tra noi possono sentire la propria esistenza mescolata alla natura La verità, non sconfesNon si tratta di abbandonarsi di lei, che ha «d’inverno/ sabile, ma sistematicaal rimpianto, né di opporsi al cieli teneri come a primente elusa, è che della cambiamento, ma di chiedersi mavera», fino a sentirsi terra noi (governanti e se le trasformazioni apportate «trapassare di gioia». A governati) siamo solo al territorio a partire dalla fine questa sorta di estasi custodi, «amministratori, e non padroni» [7]. dell’Ottocento, siano andate nel mistica non si arriva E allora, di fronte allo senso di una ulteriore aggiunta per via di strane alchimie: al poeta di Spotorscempio e alla devastadi bellezza, come è avvenuto per no amante dei licheni zione del paesaggio, siale epoche passate, oppure no. bastava l’esperienza mo forse condannati al dell’odore/sapore del pessimismo e alla raspane condito «dall’olivo segnazione? No, lottare lento» e insaporito dal basilico [11]. contro l’irresponsabilità e la rapacità degli uomini del nostro tempo, non solo è possibile, E l’olio dei nostri frantoi, garantiva Giovanni ma è interesse e dovere di tutti e di ognuno. Boine, è «olio chiaro, olio dolcissimo, olio velluNe va della nostra dignità, del nostro futuro, tato al palato; olio limpido, olio d’oro». È l’olio della bellezza del nostro paesaggio. che si produce ancora, soprattutto in alta quota, nel paesaggio delle splendide colline impeNon si tratta di abbandonarsi al rimpianto, né riesi che ricordano, sia pure con andamento di opporsi al cambiamento, ma di chiedersi se più mosso, il greco “Mare di ulivi” della piana le trasformazioni apportate al territorio a pardi Amfissa, nei pressi di Delfi. tire dalla fine dell’Ottocento, in cui la Riviera si mostrava ancora al viaggiatore come un C’è chi si sta muovendo. Da qualche anno ha «immenso giardino» fatto di «poetiche vallette dato visibilità alla produzione dell’olio extraannegate nel verde degli ulivi e delle pinete» vergine di oliva d’alta quota, il movimento e di un «mare sempre azzurro e quieto come 61


all’interno della “piccola patria” ligure? In pieno accordo con la poliedrica filosofia sottesa alle iniziative di Olio Officina Food Festival che ci ospita, gli amici di Tree Dream amano dire che la verità sull’olio sta nel suo essere “altro” rispetto alla definizione, esatta ma asettica, contemplata dal dizionario: «sostanza liquida e untuosa che non si scioglie in acqua, di origine vegetale, animale o minerale, con caratteristiche e proprietà varie a seconda del tipo» [15].

culturale TreeDream, rappresentato ad Olio Officina Food Festival dal Presidente, Flavio Lenardon, e dall’ingegnere Giuseppe Stagnitto, Segretario. Lo ha fatto in più direzioni: ricreando una coscienza comunitaria negli olivicoltori; inventando un simbolo che lega fortemente l’uomo e la natura; promuovendo il rispetto delle terre dell’ulivo d’alta quota e la conoscenza della cultura dell’olio [12]. Come imprenditori, poi, si sono mossi in modo alquanto originale, creando il marchio Taggialto, ceduto gratuitamente ai frantoiani locali che aderiscono ai principi ispiratori di TreeDream, e attivandosi concretamente perché la qualità di quest’olio sia riconosciuta sul piano economico. Tale «impresa con responsabilità politica» [13] ha tutti i titoli per essere stimata “intelligente” secondo la nota classificazione dei tipi umani sviluppata dall’economista Carlo Maria Cipolla, per cui “intelligente” è chi compie un’azione dalla quale ottiene un vantaggio per sé e nello stesso tempo lo procura ad altri [14].

L’olio spremuto dalle olive investe tutti i nostri sensi: è colore, è profumo, è sapore, è morbidezza, è rivolo silenzioso e pure tonfo sonoro. Ospite delle diverse culture che alimentano da secoli l’identità dell’Occidente. Chi ama l’olio abita da millenni nelle terre dei padri che lo storico Fernand Braudel ha chiamato «Mediterraneo dell’olivo» [16], spinge il suo sguardo nel tempo e nello spazio verso orizzonti popolati da altri, verso altre patrie, perché non può ignorare di essere spremuto per un verso da olive greche e romane e per l’altro da olive ebraiche e cristiane. Chi conosce e ama l’ulivo e l’olio respira pienamente grazie a questi due doppi polmoni. Il suo canto è una polifonia che abbraccia i millenni della storia e fa dialogare singoli e popoli all’insegna dell’amore e della pace. L’olio è poesia dell’eterno.

Per esprimere in modo preciso questo concetto, la mente fervida dei fondatori di TreeDream ha partorito un neologismo: sinduzione. Il termine – formato dall’unione della preposizione greca syn (“con”, usata per il complemento di compagnia), ed il sostantivo latino ductio (“il condurre”) - intende designare un’attività imprenditoriale che si realizza mediante la sintesi originale di uomini, simboli e mezzi, allo scopo di restituire ad una comunità umana e ad un territorio la dignità e la prosperità che deriva dalla conduzione di fondi agricoli (altrimenti destinati all’abbandono) e dalla produzione e vendita dei prodotti specifici che ne derivano, come l’olio di olive taggiasche di alta quota.

Mi permetto di evocare alcune suggestioni per chiarire un’affermazione che potrebbe sorprendere. Al cantore cieco dell’Iliade chiediamo di sospendere per un attimo duelli e stragi e di incantarci con l’amore: già vediamo la dea Era che si prepara a sedurre Zeus grazie ad un’accurata toeletta, ungendo con olio profumato non solo il corpo, ma anche la veste, e spande fragranza ovunque, su cielo e terra. Da mercanti ateniesi impariamo che l’olio è nato da

Bene, dirà qualcuno, ma tutto si esaurisce 62


personal trainer occupati a ungersi d’olio, a bere e a sudare [18].

una joint-venture tra due “inventori” d’eccezione: Atena dell’ulivo, Aristeo del frantoio. Come appassionati di statistica ricaviamo dati utili per il marketing dal fatto che, dei 55 litri di olio consumati in un anno da un Greco adulto, 30 sono destinati all’igiene del corpo o ad usi sportivi, 20 all’alimentazione (ora per un energetico fast food per rematori a base di olio e farina, ora come condimento per l’arrosto di selvaggina); il resto serve da combustibile per

Sfogliamo le pagine della sapienza ebraica. Il patriarca Giacobbe versa dell’olio sulla pietra che gli è servita da cuscino, facendo voto di trasformarla in un tempio, perché in sogno ha visto angeli salire e scendere su una scala: ha capito che in quel luogo c’è Dio. Dal libro del Siracide impariamo che l’olio è fondamentale

La verità sull’olio sta nel suo essere “altro” rispetto alla definizione, esatta ma asettica, contemplata dal dizionario: «sostanza liquida e untuosa che non si scioglie in acqua, di origine vegetale, animale o minerale, con caratteristiche e proprietà varie a seconda del tipo». per la vita dell’uomo, insieme ad acqua, fuoco, ferro, sale, farina, latte, miele, vino e mantello. Assistiamo poi al rito dell’unzione con olio dei re d’Israele, che servirà in futuro a consacrare e legittimare sovrani e imperatori. I re di Israele devono la loro ricchezza anche ai magazzini colmi di grano, mosto e olio, ma il povero Giobbe, che tale ricchezza ha perduto, rimpiange i tempi felici in cui la lucerna (a olio) di Dio brillava sul suo capo. Nel tempio vediamo brillare la menorah, il candelabro a sette bracci alimentato da olio puro di olive schiacciate, e grazie all’olio risplende anche il nostro volto, come quello, benevolo, di Dio. Infine, come facciamo a non intenerirci davanti agli amanti del Cantico dei Cantici, avvolti dai profumi di un giardino paradisiaco al punto che l’amato in persona è oleum effusum, aroma che si effonde? [19]

lucerne, riti religiosi e medicamenti [17]. A Roma, Giulio Cesare è appena tornato dalla campagna d’Africa e già si vanta di aver conquistato un paese così grande che può fornire allo Stato tre milioni di litri d’olio all’anno, mentre Cicerone, smessi i panni dell’uomo pubblico, si dedica ai suoi studi passando le notti a leggere al lume di una lucerna ad olio, convinto com’è della necessità di una formazione filosofica per un politico credibile e attento al bene comune. Il poeta Orazio, fedele alla “giusta misura”, illustra a un avaro di sua conoscenza le regole di un decoroso savoir-vivre, invitandolo a servirsi di un olio migliore, sia per condire i cavoli che per profumarsi la testa. Il masterchef Apicio, padre della gastronomia, consiglia di impiegare l’olio di oliva in gran parte delle sue 468 ricette: per salse, polpette, insalate, carni, pesci e persino sulla frutta cotta! Più attento alle esigenze dello spirito è Seneca, che da filosofo stoico vede la Ragione presente nell’universo e dentro all’uomo, e dunque se la prende con i fissati della forma fisica, succubi, a suo dire, dei loro

L’olio della gioia promessa unge e consacra nei tempi nuovi anche il Christòs, l’Unto di Dio, l’invincibile Atleta, cosparso di unguento sui piedi, sul capo, e pure nella tomba. Unti d’olio, «cristi», cioè «immagine di Cristo», sono anche 63


tato e colpevolmente abbandonato, e scoprire, a fatica finita, vista odore sapore delle olive spremute al frantoio che gocciano la gioia di un olio extra vergine di oliva auto-prodotto; oppure, da consumatori attivi, ricercare, con cura e senza tirchieria, un produttore di olio fidato, e godere quasi allo stesso modo di un sapore autentico.

Il canto dell’olio è una polifonia che abbraccia i millenni della storia e fa dialogare singoli e popoli all’insegna dell’amore e della pace. L’olio è poesia dell’eterno. gli «atleti della fede», che lo imitano nella lotta corpo a corpo contro l’Avversario, usando l’olio delle opere buone, l’olio della misericordia e dell’amore disinteressato; olio che fonda la loro identità e decide della loro credibilità. E i «cibi di liquor d’ulivi», conditi con olio, che il benedettino Pier Damiani nel Paradiso dantesco dice di aver gustato nell’eremo di Camaldoli non sono forse gli antenati della dieta mediterranea? [20]

Ha seguito la prima strada un giornalista e inviato di guerra americano, Mort Rosenblum: nel 1986 ha acquistato in Provenza una fattoria con duecento piante di ulivo in uno stato di completo abbandono battezzandola Wild Olives (‘ulivi selvatici’). Superato lo «stadio romantico» e adattandosi a un «duro lavoro», il reporter della Associated Press ha raccontato in un libro la storia della sua passione per quello che lui dice è simbolo di tutto ciò che nella vita è «sacro e felice», seguendone le tracce nei diversi paesi del Mediterraneo [22]. Ho fatto lo stesso anch’io con una sessantina di piante d’ulivo, patrimonio di famiglia, che curo nel tempo libero dal lavoro «in un bel angolo di Liguria dove c’è al mare Alassio».

Chiudiamo questo viaggio con un’immagine, quella della lucerna a olio. Nessuno di noi certo la rimpiange, ma non è sorprendente il fatto che, prima di Edison e delle candele, tutte le culture che fondano la nostra identità hanno lasciato traccia sulle lucerne a olio? Un Greco accendeva una lucerna con l’immagine di Odisseo legato all’albero della nave per ascoltare il canto delle Sirene; su un esemplare romano si distingue la figura di un gladiatore; una lucerna ebraica reca il candelabro a sette bracci della menorah; su quella cristiana si riconosce il chrismon, il monogramma di Cristo «luce del mondo» [21].

I paesaggi dell’ulivo hanno bisogno di nuovi custodi. E di nuova bellezza.

Bibliografia [1] V. Cardarelli, Liguria, pubblicata per la prima volta sulla rivista romana “Fronte”, ottobre 1931, n. 2, quindi all’interno della prima edizione autonoma del canzoniere Giorni in piena, Roma 1934, e definitivamente in: Poesie, Roma 1936 (il passaggio del poeta in Liguria si colloca tra il 1914 e il 1916). [2] Virgilio, Georgiche II 167-168: adsuetum malo Ligurem. [3] G. Boine, La crisi degli olivi in Liguria, in: “La Voce”, 6 luglio 1911; si legge ora in: G. Boine, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 395-414.

Tutta questa ricchezza e bellezza di significati fa parte del nostro DNA! Di questo siamo eredi e nello stesso tempo responsabili: liguri, italiani, europei, uomini e donne d’Occidente, cittadini del mondo. Riconosciuta e accolta questa prospettiva identitaria, la coltura dell’ulivo e la cultura dell’olio ci indicano due strade: risvegliare a nuova vita l’uliveto eredi64


[4] È sconfortante apprendere che già nel 1872, anno di inaugurazione della linea ferroviaria dell’estremo Ponente ligure, il servizio sia stato sospeso da Albenga a Ventimiglia per il «costante maltempo», «a causa delle numerose frane cadute sulla tratta»; infatti, proprio nel tronco da Albenga ad Oneglia «si manifestano numerose frane», «e specialmente nella traversata di Capo Rollo, la ferrovia è molto esposta al mare e percorre un terreno accidentato e franoso» (F. Dell’Amico

[17] Omero, Iliade, XIV 170-186; Apollodoro, Biblioteca III 14,1; Nonno di Panopoli, Dionisiache V 258-260; Tucidide, La guerra del Peloponneso III 49; Aristofane, Gli uccelli 523-538; F. Rossi, Oro liquido sulle nostre tavole, in “Archeo” XXI (2005), n. 3, p. 92. [18] Plutarco, Vita di Cesare 55,1; Cicerone, Lettere ad Attico II 17,1; Orazio, Satire II 3,108-128; Apicio, L’arte culinaria; Seneca, Lettere a Lucilio 15,1-3. [19] Genesi 28,10-22; Siracide 39,25-27; Primo libro di Samuele 10,1 e 16,12-13; Primo libro dei Re 1,39-40; Secondo libro delle Cronache 32,27-28; Giobbe 29,2-6; Esodo 27,20-21; Salmo 104, 13-15; Numeri 6,24-26; Cantico dei cantici 1,3. [20] Luca 7,36-50; Marco 14,3-9; 16,1; Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche. Catechesi mistagogica 3,1; Origene, Esortazione al martirio 23; 25; Tertulliano, Ai martiri 3,3-4; Passione di Perpetua e Felicita 10,6-14; Clemente Alessandrino, Il Pedagogo II 62,3; Origene, Omelie sul Levitico 13,2; Origene-Gerolamo, Omelie sui Salmi. Sul Salmo 127; Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 20, 12-13; Dante, Paradiso, XXI 113-117. [21] www.spainisculture.com (lucerna con Ulisse); www.archeobologna.beniculturali.it (lucerna con gladiatore); www.livius.org (lucerna con menorah); www. commons.wikimedia.org (lucerna con chrismon). [22] M. Rosenblum, Storia delle olive. Vita e tradizioni del frutto più nobile (1996), Roma 2007, pp. 5 e 23.

- F. Rebagliati, I 120 anni della linea ferroviaria Savona-Ventimiglia 1872-1992, Dopolavoro Ferroviario di Savona, Pinerolo, Alzani, 1992, pp. 48; 54; 65). [5] I. Calvino, La speculazione edilizia, Torino 1963; l’opera vide la luce per la prima volta nel 1957 sulla rivista internazionale “Botteghe Oscure”, e solo nel 1963 fu pubblicata in un volumetto a sé stante nella collana einaudiana de “I coralli” (n. 189). [6] P.P. Pasolini, Sviluppo e progresso, in: Scritti corsari, Milano 1975, pp. 175-178. [7] Messaggio del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti in occasione della Giornata Mondiale del Turismo 2013, Città del Vaticano, 24 giugno 2013, in: www.news.va/en/news/136403. [8] A. Annoni, Gita pedestre da Ventimiglia alla Spezia (1897), Lugano, Lumières Internationales, 2010, pp. 40 e 46. [9] M. Quaini, L’ombra del paesaggio. Orizzonti di un’utopia conviviale, Reggio Emilia, Diabasis, 2006, p. 175. [10] F. Petrarca, Lettere Familiari XIV 5,23-24 (trad. U. Dotti). [11] C. Sbarbaro, Scarsa lingua di terra che orla il mare, in: Poesie, Milano 1983. [12] www.treedream.it. [13] L. Caricato, Un’impresa con “responsabilità politica”. Per salvare l’olivicoltura, in: www.olivomatto.it, 31 maggio 2013. [14] C.M. Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, in: Allegro ma non troppo, Bologna 1988, p. 57. [15] De Mauro. Il dizionario della lingua italiana, Milano 2000, p. 1675. [16] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Torino 1953.

Il testo di Giorgio Barbaria è la sintesi dell’intervento dell’autore a Olio Officina Food Festival 2014, Milano, Palazzo delle Stelline, 25 gennaio 2014

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olioofficina / ricetta

Capesante e gamberi all’aceto balsamico di Modena su crema di cannellini

di Salvatore Hervatin Chef

Procedimento Ammollare i fagioli per 12 ore in acqua fredda, metterli in un sofritto di cipolla, aglio, rosmarino alloro, con il brodo vegetale.

Ingredienti per 4 persone n. 8 capesante n. 12 gamberi 500 g di fagioli cannellini 1 piccola cipolla 1 spicchio aglio 1 rametto di rosmarino 2 foglie di alloro 50 cl di gin 30 cl di aceto balsamico puro Modena, Acetaia Giuseppe Cremonini Brodo vegetale Olio, sale e pepe

Portare a cottura, eliminare il rosmarino e l’alloro, frullare ottenedo la consistenza di una vellutata. In una padella scottare le capesante e i gamberi per 2/3 minuti per parte, aggiungere il gin, levare i gamberi e le capesante, mantenere in caldo. Aggiungere l’aceto balsamico puro Modena facendo ridurre di 3/4.

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passione per l’aceto balsamico di modena I.G.P.

www.giuseppecremonini.com


l'assaggio

olioofficina / decalogo

dell'olio in

diecipunti

di Maria Carla Squeo

Nella vita mai trascurare i propri organi di senso. Servono per difenderci dalle insidie, ma anche per provare piacere. Il miglioro modo per scegliere l’olio extra vergine di oliva è assaggiarlo, valtandone la bontà attraverso i sensi. Basta osservare tali regole. 1. 2. 3. 4.

Si versa l’olio nel bicchiere, poco più di un cucchiaio. Si osserva l’olio nella sua tonalità di colore e limpidezza. Si annusa l’olio, cercando di cogliere tutte le sensazioni. Si scalda l’olio tenendo stretto il fondo del bicchiere contro il palmo della mano, tenuto a mo’ di base concava atta a d accogliere il bicchiere. Si procede roteando, con la parte superiore del bicchiere chiusa con un coperchietto – e ove non vi fosse, con una mano inodore, che non sia stata profumata prima. Si libera il coperchietto con cui si è richiuso il bicchiere e si riannusa, in modo da percepire tutti gli aromi che si sono sprigionati nel frattempo attraverso la spinta del calore. 5. Si assume in bocca un piccolo sorso d’olio, aspirando l’aria con una suzione lenta e delicata, poi più vigorosa, fino a far vaporizzare l’olio nel cavo orale, portandolo a diretto contatto con le papille gustative e poi, in seguito, procedendo per via retronasale, per il tramite del bulbo olfattivo. 6. Si lascia riposare la bocca per un po’, muovendo lentamente la lingua contro il palato, in modo da percepire le sensazioni tattili. 7. Si ri-aspira ancora l’olio presente in bocca, con le labbra semi aperte, muovendo lievemente la lingua contro il palato. 8. Si ripete una o più volte l’operazione dell’assaggio (a partire dal punto 4 di questo decalogo), trattenendo in bocca l’olio per non più di 20 secondi. 9. Si espelle l’olio in un altro bicchiere, con all’interno un foglio di carta assorbente a trattenere l’olio che abbiamo espulso. 10. Si continua infine a muovere la lingua contro il palato, valutando con attenzione le sensazioni retro-olfattive che si percepiscono in chiusura, il tutto dopo aver opportunamente appuntato le nostre sensazoni all’assaggio su un taccuino apposito.

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olioofficina / ascesi

Un giardino nel cuore

mondo

del

di Lorenzo Saraceno

L’eremo di Camaldoli è costituito da un insieme cintato di celle, ciascuna con il suo giardino: come un accampamento posto in una radura trasformata in giardino, nel mezzo di una foresta, la più che millenaria foresta a cavaliere dell’Appennino tosco-romagnolo; al suo interno, ora coperta da una cappellina, sgorga una sorgente. Questo eremo, pur nella sua singolarità, irripetibile in altre condizioni ambientali, ha costituito l’archetipo di tutti gli insediamenti monastico-eremitici che sono germogliati su quel ceppo: la cella e l’eremo nel suo complesso (molto simile architettonicamente alla laura semianacoretica dell’oriente), nel conseguente processo di idealizzazione hanno trovato il loro referente simbolico nel giardino edenico: tema di certo non nuovo nella tradizione monastica di oriente e di occidente1, ma in quel contesto particolarmente pregnante. Di fatto nel corso dei secoli – abbiamo celebrato nel 2012 il millennio della sua fondazione - i monaci hanno avuto la cura, oltre che di quelle celle e dei giardini che le attorniano, anche di quella foresta. Non solo ne hanno sfruttato le potenzialità economiche, ma anche hanno elaborato un codice normativo che garantisse la crescita, la selezione e la riforestazione ciclica degli alberi. Insomma i camaldolesi nel passato divennero, anche per forza di cose, esperti non solo

1 Il tema di per sé è legato al topos classico della spiritualità monastica costituito dalla scala di Giacobbe (cf. Gen 28). In oriente il referente maggiore è evidentemente la Scala Paradisi di Giovanni Climaco, peraltro sconosciuta alla tradizione latina fino al XIV secolo, grazie alla traduzione di Angelo Clareno; in occidente si suole individuare il riferimento principale in Gerolamo, (Epistolae, 125,7 [CSEL 56,I, p.125]: Quamdiu in patria es, habeto cellulam pro Paradiso. La presenza nella tradizione romualdina di questo tema è attestata nella cosiddetta “piccola regola” di Romualdo secondo Bruno di Querfurt: Sede in cella tua quasi in Paradiso ( cf. Karwasinska I. (ed), 1973, Vita quinque fratrum, Varsavia (MPH II,IV,3), p. 83).

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o non tanto di agricoltura, ma soprattutto di foreste2.

al valore religioso del deserto conosce una trasformazione profonda3, che non è senza conseguenze sulla stessa idea di eremo e di cella eremitica che ne deriva.

Oggi la cura di quel patrimonio forestale è stata assunta dallo stato (non sempre, a dire il vero, con pari efficienza); e comunque il mondo è cambiato, i monaci stessi non sono più gli abili boscaioli di un tempo, e chissà se interesserebbe loro diventarlo, anche se tuttora con il legno di quella foresta si scaldano; quella foresta comunque resta il loro habitat che in qualche modo segna la loro vita, nelle condizioni materiali e nel contesto simbolico in cui essa si definisce.

I paesi che si affacciano alle coste nordoccidentale del Mediterraneo, ma soprattutto le zone interne dell’Europa latina e poi barbarica, offrono un paesaggio ben diverso da quello arido o semiarido del Medio Oriente e dell’Egitto in cui vissero i primi Padri del deserto, Antonio in testa. L’Europa centro-occidentale era un paese di foreste, e in parte lo è ancora.

Tuttavia, a ben rifletterci, questa non è una tradizione così ovvia e scontata, se pensiamo al fatto che la In un ambiente naturale così differente, già a particella eremitica fin dalle origini è sempre stata posta re dal V-VI secolo, è il modo stesso di intendere il piuttosto in relazione con deserto a cambiare nelle sue il deserto: in greco appunrappresentazioni concrete, Quando il monaco eremita to ‘eremos’. Il deserto dai e di riflesso nelle valenze padri antichi era inteso simboliche: il luogo in cui si insedia, deve porre mano come luogo emblematico ci si nasconde, ci si ritira, per dare ordine al disordine soprattutto per esprimere la e che per questo si contiintrinseco della foresta, deve separazione dal mondo e la nua a chiamare deserto, diassumersi la responsabilità di rudezza nel combattimenventa dapprima l’isola (per trasformarla in un giardino, to spirituale. Del resto in esempio quella rocciosa di oriente (e già nella Bibbia) Lérins sulla Costa Azzurra; come in un nuovo Eden. il deserto era realtà ben conpiù tardi quella verdeggiancreta e sperimentabile nel te di campi coltivati e di viti suo senso primario, era quindi luogo dove l’ascesi si di Reichenau sul lago di Costanza); poi la foresta, la caratterizzava in prima istanza come una condizione quale per parte sua è certo luogo di separazione dal di privazione dei beni della natura, come una sorta mondo, ma in termini ben diversi rispetto al deserto: di “non luogo”, “innaturale” nella sua infecondità: per così dire in un eccesso di naturalità, di fecondità perché nulla dovrebbe sottrarre il monaco, solus cum solo, dalla sua ricerca di Dio. Ciò è quanto possiamo leggere nelle antiche fonti monastiche dell’oriente, e negli autori latini che hanno trasmesso questa idea e questa forma di vita in occidente. Si deve però osservare che nell’occidente tardo-antico e medievale proprio l’immaginario che si connette 2 Cf. Parco Nazionale Foreste Casentinesi (ed.), 2001, Uomo, natura, Dio nell’era globale, Atti del convegno internazionale interreligioso su religioni e ambiente, Arezzo, Camaldoli, La Verna, 5-6-7 ottobre 2000, Comunicazione, Forlì. Una ricca bibliografia sul tema si trova sul sito: [http://www.inea.it/prog/ camaldoli/it].

3 Cf. Le Goff J., 1983, “Il deserto-foresta nell’Occidente medievale” nel suo Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari, Laterza, pp. 27-35.

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smisurata e disordinata4.

e una nuova prospettiva di sguardo rispetto al mondo comune, con tutte le sue contraddizioni, siano esse di carattere spirituale o profano.

Per questo il monaco eremita altomedievale in occidente è anche per certi tratti homo salvaticus, selvaggio, naturale e in quanto tale non solo un po’ rozzo, ma anche essenziale, solitario che basta a se stesso, in questo senso “monaco” appunto: nella naturalità radicale e indistinta della selva deve compiere il suo combattimento, per fare di essa non il luogo per antonomasia dell’erranza, il labirinto in cui perdersi, come potrebbe facilmente diventare secondo la topica comune della selva (“nel mezzo del cammin di nostra vita mi trovai in una selva oscura” dice ancora Dante), ma quello dell’armonia della creazione ricomposta, una sorta di selva edenica, al cui centro ricreare un giardino che evochi quello primordiale in cui il progenitore dà nome alle cose, e dunque non ne è schiavo.

La semplicità di quel luogo e di quell’incontro riconducono quei personaggi errabondi, per più versi inquieti se non disperati, a una nuova percezione di sé e della realtà, e a relativizzare le proprie pene. Certo in quel luogo ameno in cui quei personaggi incontrano un vecchio saggio solitario c’è molto del Virgilio delle Bucoliche, ma rivisitato dai racconti dei santi asceti medievali, i quali nel distacco dal mondo e nel combattimento spirituale hanno creato in sé e intorno a sé una armonia e una sapienza fatta di semplicità, sobrietà e autosufficienza materiale. Una “autarchia” che a sua volta è specchio di un’armonia interiore, espressione di quel dominio di sé che non è, si badi, il risultato soprattutto di uno sforzo dell’io, pur necessario, quanto piuttosto frutto dello spirito, accoglienza di un dono di grazia che sa regolare le proprie inquietudini e riscattare i propri limiti.

La foresta entro cui si colloca l’eremo deve allora essere trasformata da labirinto centrifugo in cui perdersi a labirinto centripeto in cui ritrovarsi. Per questo la letteratura cortese e cavalleresca, nei secoli successivi, tante volte farà incrociare i suoi personaggi erranti - si chiamino Perceval, Angelica o Erminia per dire qualche nome fatidico - con qualche figura di eremita, il quale, più o meno ispirato da motivi religiosi, vive in una radura irrigata da una sorgente al centro di una foresta. Lì questi cavalieri scoprono uomini che hanno saputo prendere le loro misure, il loro distacco

Di qui fra l’altro potremmo trarre almeno due conseguenze. In primo luogo che la necessità dell’ascesi per l’eremita non viene meno quando si pone in queste foreste, anzi talvolta è particolarmente accentuata, se non estrema (è il caso di alcune stagioni dell’esperienza di Romualdo di Ravenna, il padre dei camaldolesi e della tradizione eremitica in occidente), ma essa è da intendere, in questa prospettiva, anche come strumento di regolazione degli eccessi di naturalità sperimentabili nella propria carne e nel mondo in cui si vive.

4 Cf. Higounet Ch, 1966, “Les forêts de l’Europe occidentale du Ve au XIe siècle”, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto Medioevo, XIII Settimana del CISAM, Spoleto, p. 384, Pastoreau M., 1990, “La forêt médiévale: un univers symbolique”, in A. Chastel (a cura di), Le chateau, la chasse et la forêt, Bordeaux, Sud-Ouest, pp. 83-85. Grégoire R., 1989, “La foresta come esperienza religiosa”, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medio Evo, XXXVII Settimana del CISAM, Spoleto 1989, 678-682. Boesch Gajano S., 2003, “Alla ricerca dell’identità eremitica”, in A. Vauchez (a cura di), Ermites de France et d’Italie (XI-XIV siècle), Rome (Collection de l’EFR 313), pp. 486-487 fa per parte sua opportune osservazioni sulla dimensione di asprezza che all’immaginario della foresta si connettono, ma non mi sembra che questo contraddica la dimensione idealizzante che esso comporta (come già del resto avviene nella Bibbia e nella letteratura delle Vitae patrum per il deserto).

In secondo luogo che la cella eremitica, concepita come anticipazione del paradiso, può essere locus amoenus non solo in senso esclusivamente metaforico e quasi paradossale in quanto paradiso di virtù� - le quali fanno fiorire perfino un deserto -, ma anche in senso fisico. Per questo la cella eremitica, nel suo porsi come “mito” spirituale, e dunque nel suo corredo immaginario, ma anche nella concreta realtà 72


degli eremi camaldolesi (ma non solo) è luogo presso una sorgente d’acqua, luogo posto nella radura della foresta, luogo ricco di animali domestici o resi tali, luogo lussureggiante di vegetazione ordinatamente disposta5.

mondo circostante. Essa si viene a configurare come un paziente esercizio a trarre dal profondo di sé le proprie forze migliori, e ad accogliere e volgere al bene le forze vitali che ci circondano: certo il monaco sa che solo per la forza dello Spirito, che lo possiede ma non gli appartiene, si può raggiungere questo dominio di sé e della natura, questa unificazione che tutti desideriamo; sa ancora che, come dice il salmo 1, solo ‘a suo tempo’ e non nel nostro, un albero posto lungo corso d’acqua potrà portare frutti. La pace

Ne danno una testimonianza chiara molti toponimi eremitici e monastici: Campus amabilis (Camaldoli), Clara vallis (Chiaravalle), Aurea vallis (Orval), Vallis umbrosa (Vallombrosa), Fons avellana (cioè

Nell’Eden l’uomo non prova vergogna della sua nudità, potremmo dire della sua identità allo stato puro, foss’anche nella fragilità, che la nudità esprime in prima istanza. Questo Eden è come l’archetipo della nostra idea di natura e di bellezza. dell’eremo, giardino difeso e abbellito dalla foresta, è allora una condizione preziosa per poter invocare nella preghiera questo dono anche per il giardino del proprio cuore.6

‘fonte dei noccioli’), etc. Dunque, quando il monaco eremita vi si insedia, deve porre mano per dare ordine al disordine intrinseco della foresta, deve assumersi la responsabilità di trasformarla in un giardino, come in un nuovo Eden.

A partire da questa prospettiva proprio all’archetipo del giardino primordiale merita guardare con più attenzione. È noto che i racconti biblici della creazione, all’inizio del libro della Genesi, sono due: ci troviamo cioè di fronte a due modi di rappresentare in modo “mitico”, la coscienza che l’uomo biblico aveva in rapporto alla creazione, al mondo, e alla propria funzione in essa.

La cella non è un fiore che sboccia nello squallore di un deserto, ma quel fiore che, nel suo stesso sbocciare e crescere ordinato, ricompone la bellezza originaria della natura. Insomma il fatto che il deserto collocato in una foresta sia fecondo non è più, come lo era in oriente per i padri del deserto, un ossimoro, un rendere possibile l’impossibile, ma un rendere quel luogo tanto più vicino a quella bontà e bellezza per cui era stato creato. In questa prospettiva forse anche la percezione del valore dell’esperienza spirituale vissuta nella cella ne viene condizionata, ed è condizionata di riflesso la stessa idea di ascesi e, più in generale, il valore di segno della vita monastico-eremitica per il

Due modi di rappresentare la nascita del mondo e il progetto che Dio ha concepito al riguardo, e di riflesso il suo fine possibile, almeno agli occhi dell’uomo. 6 Questo testo rielabora e cerca di sciogliere un’intuizione da me già discussa e argomentata in Saraceno L., 2009, “Il “mito” della cella come luogo privilegiato della contemplazione. Una lettura della Laus heremi nella lettera 28 (Dominus vobiscum) di Pier Damiani”, in G.I. Gargano e L. Saraceno (a cura di), La “grammatica di Cristo” di Pier Damiani. Un maestro per il nostro tempo, S. Pietro in Cariano VR, Gabrielli editori, pp. 184-219.

5 Qui si parla della tipologia dell’eremo semianacoretico, e non si considera l’altra tipologia, propria delle esperienze di solitudine più radicali che attraversano la storia della cristianità, come forse l’esperienza di alcuni momenti della vita di Romualdo stesso (a Parenzo per esempio), quella degli eremi posti negli anfratti delle rocce.

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unità per così dire duale dell’umano che termina l’opera, infine nella settima giornata Dio potrà contemplare il risultato della sua creazione, in qualche modo specchiarvisi.

Due modi tra loro molto diversi; ma per il fatto stesso di essere stati accostati uno all’altro, anche complementari. Essi, certamente, sono nati in momenti ed ambienti diversi dell’Antico Israele; ma chi alla fine ha messo insieme queste varie tradizioni facendone l’incipit di un libro, la Genesi - la quale appunto è a sua volta incipit di una biblioteca (cioè una somma di saperi e di rappresentazioni) - li ha voluti accostare uno immediatamente dopo l’altro. Se qui c’è una esplicita infrazione dei nostri criteri di logica consequenziale (come dobbiamo pensare la creazione, in un modo o nell’altro?), il risultato complessivo fa di questi due racconti non due rappresentazioni semplicemente giustapposte, quanto piuttosto un tutt’uno, come una sinfonia a due movimenti, con due modi diversi di dire la stessa cosa in cui il secondo si innesta sul primo, dando al tutto una sorta di ritmo e una particolare dialettica.

Il secondo racconto, che ha più l’andamento dell’epos mitico, è in un certo senso rovesciato. Comincia dall’atto di Dio di creare l’uomo, per poi proseguire con la creazione attorno a lui di tutto il resto: a partire dall’uomo si va dall’uno indistinto al molteplice. La natura, gli animali, tutto è fatto per l’uomo, in suo aiuto, fino alla donna che infine è l’aiuto migliore, perché è un aiuto simile a lui, e così, come chiudendo un cerchio nell’economia del secondo racconto, ma in parallelismo rispetto alla conclusione del primo racconto, l’uno si riconfigura ancora nella sua dualità. In entrambi i racconti individuiamo dunque a prima vista un’impronta fortemente antropocentrica: nel primo l’uomo è posto al vertice dell’universo, nel secondo al suo centro, se non alla sua origine stessa, visto che è lui stesso a dare poi il nome alle cose. Una lettura in successione accentua ancor di più questo antropocentrismo mediante la simmetria:

Provo ad esemplificare dal punto di vista che qui ci interessa, dando ovviamente per presupposte le nozioni esegetiche storico-critiche e teologicamente interpretative su cui si può trovare un consenso. Il primo racconto ha come l’andamento di un grande inno, costituito da sette strofe, quanti sono i giorni, per molti aspetti parallele e simili, anche se le ultime due strofe (il sesto e settimo giorno) sono caratterizzate da numerose varianti rispetto alle cinque precedenti. Varianti evidentemente emblematiche.

A B’

cosmo uomo

B A’

uomo cosmo

/

In questa simmetria vediamo forse una dimensione di armonia che è come lo specchio del progetto di Dio: prima nella serie di affermazioni sulla bontà del creato che si riassumono al più alto livello nell’uomo molto buono, poi nella rappresentazione dell’uomo che dà nome agli esseri che gli sono di aiuto, e per questo vive in un creato che è ai suoi occhi (e a quelli di Dio che viene la sera a conversare con Adamo ed Eva) un giardino.

C’è come un processo ascensionale dall’indistinto, per separazioni successive, allo strutturato, sempre più complesso: la natura, venendosi progressivamente a definire, prepara e conduce così all’uomo, maschio e femmina. In tale processo tutto ciò che è via via creato viene visto da Dio come buono (è il ritornello che conclude ogni giornata: E Dio vide che era buono), fino all’uomo (o l’umano), che invece è giudicato molto buono, anche perché solo di lui si dice che è fatto ad immagine di Dio nell’essere creato uomo e donna. Alla fine di questo processo ascensionale, la sesta giornata è come un rallentando, un focalizzarsi sul cuore del racconto. Giunto a questa

Nell’Eden l’uomo non prova vergogna della sua nudità, potremmo dire della sua identità allo stato puro, foss’anche nella fragilità, che la nudità esprime in prima istanza. Questo Eden è come l’archetipo della nostra idea di natura e di bellezza. Un luogo, o 74


Dipartimento politiche Agricole e Forestali

BASILICATA LUCENTE COME IL SUO

OLIO

Az. Agr. GAGLIARDI ROSETTA - Frantoio DI PERNA SRL - Frantoio F.LLI PACE srl - Az. Agricola FANELLI FRANCESCO GAETANO Frantoio FRANTOIO FERRARA - Frantoio GIOVANNI LACERTOSA S.n.c. - Frantoio LA MAJATICA - Frantoio Oleario ANGELO VALLUZZI Az. Agricola L’OLIO DEI SASSI - Az. Agricola MOREA LEOPOLDO STEFANO - Organizzazione di Produttori Soc.Coop. RAPOLLA FIORENTE FRANTOIO DEL VULTURE - Az. Agricola SAN CANIO - OLEIFICIO TRISAIA - Az. Agricola VINCENZO MARVULLI Az. Agricola CARRIERO - OLEARIA DE VINCENZIS S.a.s. - Az. Agr. Fratelli QUARTO - CANTINE DEL NOTAIO Società Agr. A r.l.


una condizione, in cui l’uomo rappresenta il più alto grado di perfezione della bontà (bontà e bellezza si sovrappongono, non solo e indipendentemente da Platone).

violenta come sperimenterà più tardi Caino. Perfino l’uomo e la donna non saranno più aiuti reciprocamente simili, ma reciprocamente istigatori di male e soggetti e oggetto di scambi di accusa come responsabili del peccato: la dualità a quel punto non è più figura di armonia tra individualità e molteplicità, ma di disgregazione e incomunicabilità.

La natura gli è sottomessa, ma è l’uomo a renderla utile, nel foggiarla, lavorarla e custodirla (Gen 2, 15): egli è l’unico essere creato che in queste trasformazioni può in qualche modo partecipare dell’attività di Dio creatore (non a caso è fatto a sua immagine). Ma questa bontà non è solo idilliaca: è un fatto che poi proprio l’uomo al centro dell’universo, del giardino, si taglierà fuori da questa armonia, la romperà quando pretenderà di essere lui stesso il padrone, il centro, pensando di poter essere lui giudice del bene e del male, lui a determinare il bello e il brutto: e allora conoscerà il male, il brutto sulla propria pelle; quel brutto che è l’espressione, se non la forma del peccato, della dissociazione dal progetto iniziale.

In fondo, il peccato che si insinua dopo i racconti della creazione, ha forse questa origine: il pretendere che l’equilibrio, l’armonia che si percepisce nel creato sia autosufficiente, basti a se stessa, e che l’opera di trasformazione che compete all’uomo “dominatore dell’universo”, non abbia limiti. Mentre in entrambi i racconti, in perfetto parallelismo, alle origini, prima del primo giorno (I racconto), prima che l’uomo diventi essere che respira e che vive (II racconto), c’è uno spirito che aleggia sulle acque, c’è un respiro di Dio che viene soffiato.

Il peccato che si insinua dopo i racconti della creazione, ha forse questa origine: il pretendere che l’equilibrio, l’armonia che si percepisce nel creato sia autosufficiente, basti a se stessa, e che l’opera di trasformazione che compete all’uomo “dominatore dell’universo”, non abbia limiti.

Conoscerà a quel punto anche la vergogna della nudità ovvero di una disarmonia anche con se stessi, con la propria debolezza diventata brutta, sporca, o lussuriosa per l’uomo divenuto prigioniero dell’eros7, o

Un “prima” che evidentemente va inteso non solo in senso cronologico - se non altro perché lo Spirito aleggia sulle acque prima ancora che ci sia una notte e un giorno, “il primo giorno”, e dunque un tempo ,ma è anche da ricondurre al fatto che l’uomo, nel suo sentirsi unico, non può trovare solo in sé il principio della sua relazione con una creatura che è gli simile ma altra, e come tale lo condiziona e lo rende relativo

7 Non è la chiave di lettura principale, anche se, come è noto ha avuto fortuna nel corso della storia dell’interpretazione; ma, in un contesto più ampio di significati, è certo anche un senso possibile.

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nel suo poter conoscere. Conoscere infatti non è solo dare il nome alle cose, ma farsi conoscere, “conversare”, come fa Dio con l’uomo nel giardino.

Ma forse c’è anche di più. Guardando con attenzione il testo, i lettori più attenti pongono in luce che esso letteralmente suona così: «Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, si riposò di tutta l’opera che Dio aveva creato, per fare». Dio curiosamente, dopo l’opera della creazione,e si ferma e si riposa. Il suo shabbat compie la creazione mentre lui si ferma e

C’è dunque una autosufficienza, che è anche autoreferenzialità, la quale rende disarmonico il creato, e l’uomo nel creato, capace di renderlo brutto, di perdere l’Eden.

Conoscere non è solo dare il nome alle cose, ma farsi conoscere, “conversare”, come fa Dio con l’uomo nel giardino.

smette di creare. Come dice A. Wénin, pone un limite alla propria potenza creatrice, quando pone un limite alla propria capacità di dominio dominandola8. Ma ancora: in questa stessa sosta egli manifesta anche il suo rifiuto di riempire tutto e la sua volontà di lasciare uno spazio di vita e di libertà che non ha smesso di aprire ad altri. C’è un potente paradosso in questa immagine di un Dio che per compiere la creazione, si ritira, lasciandola per certi verdi incompiuta, correndo così il rischio di lasciare aperto uno spazio di vita al vivente.

Ma c’è anche una autosufficienza positiva (l’autarchia dell’eremita ha a che fare con questa?), che forse altro non è che il ritenere l’armonia voluta da Dio come un dono di cui si è grati e responsabili. Anche qui la lettura unitaria dei due racconti ci può venire in aiuto. Il culmine dei sette giorni, già lo si osservava, è il settimo giorno, il sabato, il giorno del riposo di Dio, il quale viene dunque a costituire il vero centro della simmetria di cui si è fatto cenno. Il sabato è il giorno della libertà, il giorno della contemplazione gratuita del creato, del compiacersi di Dio per la bontà e bellezza dell’opera delle sue mani. Apparentemente l’uomo non c’entra con il settimo giorno: è il giorno per Dio, in cui sembra di potersi scorgere fondamentalmente la rivendicazione del fatto che oltre al creato, fuori di esso e al di sopra di esso, c’è colui stesso che ha creato; e lì è il centro, il principio di ogni armonia delle realtà create, lì il fuoco prospettico che riconduce ad unità la molteplicità dei sensi dell’essere e dell’agire.

Dunque l’uomo c’entra eccome. Per due motivi principali, mi sembra. Il primo è quello che il sabato ci spinge a pensare che appunto non noi siamo il vero centro di gravità dell’universo e del nostro vivere, ma Dio, e dunque che ogni antropocentrismo può aver senso solo a partire da una percezione che poi c’è qualcosa che precede, che va oltre 8 Cf. per es. Wénin A., 2006, Il Sabato nella Bibbia, Bologna, EDB, p.23.

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di osservazione da assumere rispetto alla figura del giardino edenico posto al cuore del mondo. Nella prospettiva particolare in cui mi pongo, queste figure insieme costituiscono i riferimenti alla base di quella rappresentazione archetipica, o se si vuole mitica dell’eremo, di cui evocavo all’inizio alcuni tratti. Lo possiamo vedere in particolare in alcune delle “lodi dell’eremo” che si leggono nella tradizione monastica occidentale. Esso, in quanto ambiente di solitudine, è idealizzato come luogo in cui ci si ritira, si prendono le distanze dalla natura e dal mondo, come per affermare un’alterità necessaria; e nello stesso tempo è presentato come cuore pulsante, come anima del mondo, e quindi come germe di una nuova relazione con esso. In quanto “mito” esso non è solo luogo fatto per quei pochi o tanti che lo scelgono come loro ubi consistam fisico e spirituale, ma si pone anche come polo di riferimento per ogni esperienza spirituale che ambisca a porsi non come fine a se stessa, ma a trovare una sua unificazione interiore, che aspiri a immettere la dimensione del suo vivere e del suo fare nella luce del sabato. Per questo ritengo utile richiamare, come conclusione, un modo in cui nella relazione tra eremo e natura circostante, e di riflesso tra eremo e mondo, si può proporre un paradigma, o almeno una metafora, della dialettica tra solitudine e comunione, tra unità e molteplicità, tra primato della persona e cittadinanza nel mondo.

e che ci giudica. Ha senso insomma solo come dimensione “penultima”, perché quella ultima sta nel contemplare da parte di Dio quell’opera che è fatta per dimostrarsi buona, perché Dio possa rispecchiarsi in essa. E dunque per parlare di Dio, di riposo in Dio, di contemplazione di Dio e della natura bisogna in prima istanza porsi nella consapevolezza del nostro limite irriducibile: noi siamo del sesto giorno, e solo nella prospettiva escatologica possiamo pensare di entrare nel pieno del sabato di Dio. Questo forse può aiutarci a capire un’altra stranezza del primo racconto. Dio voleva creare l’uomo a sua immagine e sua somiglianza. Ma l’ha creato solo a sua immagine. La piena somiglianza si porrà quando saremo anche noi nella prospettiva del sabato, inteso nelle complesse valenze che sopra si ricordavano. Il secondo è quello che il tempo del riposo di Dio è anche il tempo della responsabilità dell’uomo, è il tempo in cui compiere quel “fare” nel quale Dio contempla l’opera della sua creazione. Il tempo in cui l’armonia è posta nelle nostre mani, di noi che possiamo dare il nome alle cose, e renderle così belle o brutte. Saranno belle se conserveranno in sé l’immagine della gratuità e della libertà di Dio, se parteciperanno anche grazie a noi dell’immagine di Dio che è in noi, se grazie a questo nostro “fare” il creato può dimostrarsi anche lui “molto buono”, dunque non solo specchio della bontà di Dio, a sua immagine, ma rivelazione della bontà di Dio, a sua somiglianza: questa è la sfida della responsabilità che ci è stata donata, affinché ci sia qualche bellezza che salvi il mondo, e nel mondo anche noi.

L’argomentazione si può ricavare dalla rilettura di un classico della teologia spirituale medievale, il Dominus vobiscum di Pier Damiani (lettera 28)9: forse il testo più alto di teologia monastica sull’eremo prodotto nell’occidente, e paradossalmente uno dei pochi esempi di teologia della comunione in età medievale. In questa lettera si propone una questione la cui soluzione sembra essere il massimo dell’esaltazione della vita solitaria nell’eremo: quando l’eremita se ne sta più giorni da solo

Io penso che proprio la figura del sabato come epicentro della creazione, come luogo di concentrazione sull’essenziale - sul riposo di Dio che contempla la sua opera, e di riflesso sul riposo dell’uomo in Dio - sia complementare, o meglio il punto prospettico

9 La si può leggere in Gargano G,I, e D’Acunto N. (a cura di), 2001, Pier Damiani , Lettere, 2, Roma, Città Nuova, pp. 112153.

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microcosmo, un mondo e una Chiesa in miniatura, e dunque non può dimenticare il mondo; e se prega Dio, non lo prega per sé, ma per il mondo, altrimenti la preghiera non è vera, è solo sfogo autoreferenziale. Si è soli davanti a Dio solo se si sa assumere lo sguardo universale di Dio sul cosmo. Del resto già in precedenza, ad un certo punto della sua trattazione, definendo il ruolo della vita eremitica aveva ripreso questo nesso tra eremo e mondo con questa formula fulminante:

nella sua cella, e celebra la messa, deve dire tutto quanto è previsto dal rituale per i dialoghi tra sacerdote e fedeli, deve dire per esempio, al plurale, Dominus vobiscum, «Il Signore sia con voi»? A chi? Alle panche e alla tavola della cella? E perché rispondere, ancora e soltanto lui, Et cum Spiritu tuo, al singolare? Anche noi, oggi, con la nostra sensibilità liturgica beneficamente rinnovata dal Concilio, forse ci sentiremmo di condividere questa obiezione. Pier Damiani invece dice che sì, si devono pronunciare tutte quelle formule: perché nell’eremita solitario che celebra la messa e che prega c’è tutta la Chiesa, a nome della quale il celebrante pronuncia le parole della consacrazione, e a nome della quale lo stesso celebrante accoglie il dono che il Signore gli fa della sua presenza per tutti. Perché quando uno è solo davanti a Dio, anche se ha chiuso la porta della propria stanza per aprire il suo cuore all’Unico essenziale, se si pone in tutto il suo essere vero e senza schermi nella dimensione del sabato, non è estraneo a tutta l’umanità di cui lui è parte, e che in ogni momento, ma in quell’atto liturgico in modo particolare, rappresenta. Quanto più uno è solo, concentrato sulla verità di se stesso davanti a Dio, nel coltivare il giardino del proprio cuore come un Eden, tanto più scopre in sé la dimensione più profonda del mondo davanti a Dio. Per riprendere un passo del Dominus Vobiscum:

«[…] per virtù dello Spirito Santo, che è nei singoli e riempie tutti, si percepisce da una parte una singolarità che ha in sé la pluralità [solitudo pluralis], dall’altra una molteplicità che ha in sé la singolarità [moltitudo singularis].» 10

Tutto questo trova alla fine dell’opera, la sua rappresentazione simbolica più elevata proprio nella figura del giardino, la quale segna ai due suoi estremi la Laus heremi. che costituisce il vertice anche retorico di tutta la lettera. Così all’inizio si apre la Laus: «L’eremo infatti è un paradiso di delizie, dove spira la fragranza odorosa delle virtù come profumati petali, come splendidi fiori aromatici. Qui le rose della carità fiammeggiano di color rosso fuoco, qui i gigli della castità biancheggiano candidi come la neve; assieme a loro non temono l’assalto dei venti le viole dell’umiltà, fintanto che se ne stanno così vicine al suolo. Qui stilla la mirra della mortificazione perfetta ed esala incessante l’incenso di una assidua preghiera» E alla fine così si chiude:

«Come poi l’uomo in greco si definisce “microcosmo”, cioè mondo in piccolo [Sicut autem homo Greco aeloquio dicitur microcosmus, hoc est minor mundus], in quanto per la sua costituzione fisica consta dei medesimi quattro elementi di cui si compone tutto l’universo, così anche ciascuno dei fedeli appare, per così dire, una Chiesa in piccolo [ita etiam unusquisque fidelium quasi quaedam minor esse videtur aecclesia].» Dice insomma Pier Damiani: l’eremita è come un

«E che più dirò di te, o vita eremitica, vita santa, vita angelica, vita benedetta, giardino di 10 Ibidem, p, 121.

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dentro e quella del mondo che ci mette continuamente in questione - trova il suo senso alla luce dell’unico necessario, integrando la complessità nell’io di ciascuno come in un microcosmo. L’identità vera, quando è radicata in un progetto che la trascende e non in una autoaffermazione, non esclude o respinge, ma accoglie, integra e ricompone.

anime, scrigno di gemme celesti, consesso di un senato spirituale? Il tuo profumo supera la fragranza di tutti gli aromi; il tuo sapore, più dei favi stillanti, più di ogni qualità di miele addolcisce il gusto di un cuore illuminato. » La solitudo pluralis dell’eremita11 così intesa e rappresentata non rimanda forse all’umano che si esplica, nel giardino dell’Eden, nel plurale di Adamo ed Eva, e nel ritrovare attorno a sé, nella luce del sabato di Dio, il creato ricondotto all’ordine e alla funzionalità di essere d’aiuto per l’uomo stesso?

Da questo punto di vista il locus amoenus che l’eremo rappresenta nel suo essere giardino, esso stesso rappresentato come sorta di microcosmo, può essere segno emblematico di una tensione necessaria che caratterizza l’esperienza di ogni credente: la ricerca dell’assoluto di Dio, peculiare in ogni singolare esperienza di fede, trova il suo senso e la sua verità quando, in virtù di un’armonica e critica integrazione con la natura in cui vive, sa porsi come segno profetico, affinché quel diversorium habitandi, quel complicato guazzabuglio abitato che è il mondo, possa diventare oratorium13, luogo dell’incontro di tutti e di ciascuno con Dio solo.

Dal punto di vista nostro, non si può negare che ciò che oggi ci affascina, in questa idealizzazione dell’eremo, è proprio la tensione che si esprime così tra solitudine e comunione, dimensioni coessenziali di ogni carisma monastico, ma anche di ogni esperienza di Dio nel nome di Cristo12. In realtà noi stessi siamo portati a sentire questi come due poli non solo della nostra tensione religiosa (Dio lo si cerca e lo si trova solo nell’a tu per tu, ma non si può amare Dio che non si vede se non si sa amare e farsi condizionare dal fratello che si vede e ci chiede una parola o un gesto da condividere), ma anche del nostro modo di porci come attori responsabili nella temperie del mondo e della storia. È proprio questa tensione, per esempio, a poter dare profondità, dignità e coscienza critica a quel bisogno di dentità che ci sembra necessario per non soccombere in questo nostro tempo, tanto ricco di inquietudini e povero di certezze. Perché una vita unificata non è una vita in cui la singolarità, e in buona sostanza la soggettività, assurge a criterio del tutto, ma quella in cui la pluralità - quella che portiamo

13 Diversorium letteralmente vale come palazzo (si pensi all’insula romana). Mutuo le espressioni da Pier Damiani, nel sermone XVII ( Lucchesi G. (ed..), 1983, Petri Damiani, Sermones, Turnhout, Brepols (CCCM 57), p.89), dove, a proposito dei futuri martiri Gervasio e Protaso, i quali alla morte dei genitori si ritirano per dieci anni in un cenaculum della loro città per dedicarsi alla lettura e all’orazione, si dice: De populosa urbe faciunt heremum, diversorium habitandi vertunt in oratorium, applicando il medesimo gioco retorico che esprime la tensione tra singolarità e la pluralità. Ne ho discusso in Saraceno L., 2010, “ Pier Damiani, Romualdo e noi. Riflessioni di un camaldolese alle prese con i suoi auctores”, Reti Medievali - Rivista, XI – 2010:[http://www.rivista.retimedievali.it].

11 In altro contesto ho discusso il fatto che l’espressione non andrebbe mai disgiunta dalla sua speculare moltitudo singularis (cf Saraceno L., 2004, “Solitudine e comunione: la dimensione pneumatica e il ruolo ecclesiale del carisma eremitico. Romualdo e Pier Damiani tra carisma e istituzione”, Sacris Erudiri 43(2004), pp. 261-279. 12 Su queste dimensioni in prospettiva attualizzante insiste con lucidità Benedetto XVI nella sua lettera ai camaldolesi per il millenario della nascita di Pier Damiani (il testo si può trovare in Gargano e Saraceno, 2009, p. 11-13).

Lorenzo Saraceno osbcam, Eremo San Giorgio, Bardolino

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Malala Yousafzai

Premio Nobel per la Pace 2014

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olioofficina / phos

Lo sguardo di Alberto Martelli La nuda terra, l’erba che ne ricopre il suolo, la paziente cura di chi la coltiva rendendola fruttifera. Gli olivi, alberi con i quali gli uomini hanno imparato nel tempo a dialogare. L’obiettivo del fotografo, nell’atto in cui decide di fermare l’immagine, rinchiundendola in uno scatto per consegnarla alla memoria. Le immagini che da sole raccontano una storia, diventando esse stesse parte di quella storia, narrazione per imagini, senza ausilio di parole: phaos/phõs.

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olioofficina / zibaldone

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la donna

oliera

olioofficina / arte

I Bonzanos è un gruppo artistico costituito da Stefano Bonzano e i figli Elisa e Davide. A Olio Officina Food Festival 2015 sono presenti con una installazione sul tema “Oliera d’artista”.

La scultura raffigura un mezzo busto di figura femminile realizzato con fili di rame che ricoprono la figura stessa, o la sua pelle, di disegni di gorghi e linee raffiguranti movimenti liquidi. All’interno della scultura è posto un contenitore di olio in vetro trasparente, sotto al quale è posizionata una fonte luminosa. La luce filtra attraverso l’olio, assumendone il colore giallo e proiettandolo sulle pareti della stanza in cui è collocata, le ombre dei disegni dei fili di rame immersi nel colore giallo dell’olio. I componenti del gruppo artistico Bonzanos si considerano ricercatori di una disciplina artistica che definiscono “fisiognomica emotiva”. Se la disciplina pseudoscientifica della fisiognomica voleva dedurre i caratteri psicologici e morali dall’aspetto fisico di una persona e dalle espressioni del suo viso, la “fisiognomica emotiva” è invece lo studio dei segni prodotti dalle emozioni sul corpo umano, testimonianza di una vita spirituale interiore. Le emozioni vissute producono segni espressivi, che innescano un processo di trasfigurazione anche delle forme fisiche imposte dalla genetica.

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L'olio

alimenta

olioofficina /ascesi

eros

di Luigi Caricato

l'

Ciascun di noi ha la sua masserizia: in punto, bene e con assai letizia compiam nostr’opra e dell’olio a dovizia sappiam di nostre ulive cavar fuori. Se voi aveste, o donne, a macinare ulive in quantità per olio fare, siate contente volerci provare. Lorenzo de’ Medici, Rime dubbie

L’olio non è il vino, lo sappiamo. Proprio per questo, non potendo prevedere alcuno stato di ebbrezza, o di leggera euforia, assumendo per via alimentare o epidermica l’olio, non può esserci nemmeno un gioioso senso di abbandono, come sembrerebbe richiedere, di prassi, l’erotismo. Mentre il vino libera ogni freno inibitorio, svincolando ogni resistenza, l’olio invita semmai alla calma, alla pacata riflessione: si dice liscio, ma anche quieto come l’olio. Come può allora avere senso l’accostare l’olio all’eros? Sembrerebbe non esserci alcun fondamento, nel tema filo conduttore della quarta edizione di Olio Officina Food Festival.

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prestava più a impieghi diversi e alternativi a quelli alimentari, svolgeva ben altre funzioni, più importanti, di ordine liturgico e sacramentale, ma anche devozionale, attraverso il ricorso ai tanti lumi votivi e alle lucerne d’olio per illuminare gli ambienti.

A un primo impatto, sembrerebbe proprio una forzatura, pur di provocare una reazione, pur di attrarre a sé l’interesse del pubblico su qualcosa che attira anche i più pudichi e renitenti. Eppure il sostenere che l’olio alimenti l’eros, non è affatto un’affermazione fuori luogo, giacchè l’olio alimenta per davvero l’Eros, nutrendolo anzi profondamente. Oltretutto, sia l’Eros, sia l’olio da olive, hanno una radice segnatamente mediterranea. Nella Teogonia di Esiodo, è il dio dell’amore. Eros è anche l’entità cosmica primordiale, il principio che anima la totalità dell’universo. Non è un caso che l’olio, per via indiretta, attraverso l’olivo, rappresenti il simbolo della Polis, della conseguita civiltà. Eros ed olio sono pertanto elementi fondanti, solidi punti di riferimento. Fin qui il Mito, gli uomini e le donne hanno poi fatto il resto. Nell’arte: basti pensare ai nudi raffigurati dai vasai greci del VII-VI secolo avanti Cristo, con l’erotismo mediato attraverso immagini inequivoche. Il corpo veniva celebrato nell’apice della sua bellezza, quando nemmeno lontanamente si poteva intravedere la vulnerabilità legata all’inarrestabile scorrere del tempo. L’erotismo veniva rappresentato sui contenitori dell’olio, per lo più in quelli destinati a coltivare la bellezza, contenenti oli profumati per l’unzione dei corpi. Le immagini rappresentate, il più delle volte esprimevano un messaggio iconico, nella molteplicità dei casi esplicito, raramente allusivo.

Nel passaggio nella nuova epoca, l’olio perse nel frattempo la sua connotazione laica, la dimensione della spensieratezza, ritrovandola tuttavia ben presto, e non soltanto su un piano segnatamente simbolico. Basti pensare all’impiego degli oli sul corpo, pratica che si è estesa anche al di là del Mediterraneo, investendo tutte le epoche, nessuna esclusa, e tutti i popoli della Terra, ormai, da quando è diventato alimento inter etnico, con l’olio ricavato dalle olive di gran lunga privilegiato sopra ogni altro olio disponibile in commercio. Sarà effettivamente qualcosa di concreto il legame tra eros e olio? O tutto si gioca soltanto su un piano strettamente simbolico? Meglio non svelare quanto c’è da sapere. Meglio spingere ciascuno a cercare conferma e dare sfogo alla curiosità. Certo è che non mancano affatto le testimonianze al riguardo, con ricettari di unguenti pare convincenti negli esiti promessi. Crederci, non crederci? Chissà. Certo è che in altre epoche, senza gli ausili dei nuovi ritrovati, sicuramente più rapidi ed efficaci, l’olio veniva comunque impiegato in combinata con altre sostanze naturali. Non lasciando spazio a equivoci circa il compito cui assolvevano tali unguenti mirabolanti: accendere il desiderio e avere “dilectatione con una donna”, garantendo il necessario vigore alla “carne senza osso”.

Ciò che sorprende, è che dopo il periodo classico, nel medioevo, l’olio iniziò a dare una immagine di sé diversa, potentemente austera. Forse in ragione del fatto che, con il crollo dell’Impero Romano e il conseguente stato di abbandono degli olivi, il passaggio del controllo della coltivazione degli olivi si concentrò soprattutto nelle mani degli ordini religiosi. Per la Chiesa, inevitabilmente, l’olio non si 93


di Valerio Marini 94



olioofficina / progettocultura olioofficinaalmanacco 3 olioofficinaalmanacco è una espressione di libero pensiero a supporto del grande happening Olio Officina Food Festival – Condimenti per il palato & per la mente. Prima edizione a Milano, nei giorni 27, 28 e 29 gennaio 2012; seconda edizione nei giorni 24, 25 e 26 gennaio 2013; terza edizione nei giorni 23, 24 e 25 gennaio 2014; quarta edizione nei giorni 22, 23 e 24 gennaio 2015. Tutto nasce a partire da un’idea di Luigi Caricato, promotore, curatore e anima propulsiva. Olio Officina è un progetto culturale con cui si intende riformulare l’abituale approccio con la cultura materiale. L’obiettivo è soddisfare l’urgente necessità di volgere lo sguardo a nuovi percorsi esplorativi, attraverso l’adozione di linguaggi e stili interpretativi inediti e inusuali. Olio Officina non è soltanto cultura materiale, ma anche, e soprattutto, luogo di cultura alta e di confronto. Da qui l’impegno a non confinare l’attenzione ai soli condimenti che soddisfano il palato, ma di estendere equamente il medesimo interesse ai condimenti che nutrono e impreziosiscono la mente.

Copertina: Valerio Marini Quarta di copertina: Guido Oldani

olioofficinaalmanacco è una realizzazione per Olio Officina Food Festival Direttore: Luigi Caricato Milano, gennaio 2015 ISBN 978-88-940201-6-8 Progettazione grafica: Alberto Martelli, Aerostato Stampa: Editrice Salentina, Galatina (Lecce) Si ringrazia per la gentile collaborazione Maria Carla Squeo Web > festival: olioofficina.com – magazine: olioofficina.it – globe: olioofficina.net – blog: olivomatto.it – luigicaricato.net

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€ 10,00 ISBN 978-88-940201-6-8

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