Puglia degli olivi e dell'olio

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Editoriale. Partiamo da qui di Luigi Caricato * Xylella * Sputacchina

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01. La visione rigenerativa L’innesto della speranza di Maria Carla Squeo

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02. La visione generale Oli di Puglia, di Luigi Caricato

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04. La visione sensoriale Mappa sensoriale degli oli pugliesi di Francesco Caricato

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05. La visione commerciale Oleoteca di Puglia

03. La visione agronomica Quale Puglia olivicola per il futuro di Salvatore Camposeo

06. La visione gastronomica Quel che ho da dirvi, da chef, sugli extra vergini di Puglia di Giuseppe Capano Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico di Giuseppe Capano

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07. La visione golosa Ricette oliocentriche di cucina domestica, di Massimo Occhinegro

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08. La visione archeologico-industriale La produzione storica dell’olio in Puglia di Antonio Monte

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09. La visione storica Bitonto, città dell’olivo e dell’olio di Dora Desantis



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10. La visione riformatrice La terra ai contadini di Roberto De Petro

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11. La visione religiosa-sociale I braccianti di Puglia di Alfonso Pascale

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12. La visione mistica Dove c’è olio c’è san Nicola di Maria Carla Squeo

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13. La visione sociale Un olio più consapevole e familiare. Intervista a Mimmo Lavacca di Luigi Caricato

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14. La visione artistica Monumento all’olio. Omaggio a Francesco Sannicandro Il linguaggio segreto dell’anima e degli olivi in Silvia Rastelli di Maria Carla Squeo

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15. La visione poetica Sbucò improvviso un ulivo di Bartolomeo Smaldone

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16. Altre visioni L’olio e il mare. Il poeta oleario. Gli spiriti folletti. Underground

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17. La visione alternativa L’olio di lentisco nelle cucine e nell’economia di Terra d’Otranto di Alberto Fachechi

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18. La visione organolettica L’altro volto della Puglia. Non solo olio da olive di Maria Carla Squeo



Editoriale

Partiamo da qui di Luigi Caricato In apertura di questo numero monografico dell’Almanacco di Olio Officina interamente dedicato alla Puglia degli olivi e dell’olio non si può pensare che nulla sia accaduto. Le cose accadono e a volte si subiscono. Di conseguenza, nulla è immutabile. Gli stessi paesaggi cambiano. Ricordate le vaste distese di olivi del Salento? Alcuni di questi monumentali alberi plurisecolari per fortuna ancora resistono, tenaci e battaglieri, mentre altri fanno parte di quell’esteso, vastissimo, cimitero di alberi mai eradicati, lasciati lì, nella loro funesta sagoma simili a spettri che la terra trattiene a sé, finché anche la spessa corteccia, di questi enormi tronchi e i rami con l’umidità marciscono, cedendo inesorabili come corpi decrepiti al suolo che li accoglie. L’immagine evocata non rasserena, lo sappiamo, ma la realtà è questa e ci parla. Forse ci urla anche, e non vogliamo udirla. Anche la stessa mancanza di sensibilità nel non provvedere a ripristinare i tanti cimiteri di olivi non è un buon segnale. È una mancanza di rispetto. Percorrendo la vasta e ramificata rete stradale che attraversa in lungo e in largo la penisola salentina lo scenario è desolante. Dobbiamo farcene una ragione. Anche il paesaggio è destinato a cambiare. A poco serve ignorare la realtà: i segni che questa lascia di sé sono alquanto evidenti e inoppugnabili. Ogni albero rinsecchito ci costringe a interrogarci e a riflettere sulle respon-

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sabilità di chi non ha voluto agire e di chi si è permesso perfino di ostacolare quanti hanno cercato in tutti i modi possibili di frenare l’avanzata del terribile e devastante batterio. Ora siamo qui, sperando che tutto si fermi e non si ceda il passo al patogeno, fiduciosi che si possa ben presto proseguire la coltivazione degli olivi senza la spada di Damocle che incombe sul futuro. Abbiamo deciso di dedicare questo numero monografico dell’Almanacco proprio alla Puglia non come auspicio, ma con la responsabile certezza che presto rivedremo rifiorire altri olivi. C’è chi sta lavorando per resistere ed è in fiduciosa attesa della svolta decisiva. L’impegno eroico di chi in solitudine e con i propri mezzi, senza nemmeno l’ausilio delle Istituzioni, sta lavorando per il bene della comunità vegetale degli olivi, ripristinandone la coltivazione, lascia ben sperare. D’altra parte, non è lontano il tempo in cui la fillossera distrusse radicalmente la viticoltura europea, anche se a raccontare oggi la vicenda ci sembra così strano, visto che poi tutto si risolse in bene, seppure con la conta inesorabile di danni immensi cui comunque si è posto a caro prezzo riparo. Oggi il futuro è già qui. Per questo L’Almanacco di Olio Officina intende celebrare la Puglia degli olivi e dell’olio nella consapevolezza che la speranza è qualcosa di molto concreto e tangibile.


Partiamo da qui - L. Caricato

Olivo in fiore, la speranza. Foto di Giovanni Melcarne

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* Xylella Perché è tanto pericolosa Xylella? Perché penetra nei tessuti della pianta “ospite” attraverso microlesioni sul lembo fogliare provocate dal suo vettore, un insetto. Trasmigra nei vasi legnosi che trasportano la linfa grezza all’interno dei quali prolifera attivamente fino ad occluderli, interrompendo il collegamento tra radici e chioma e finendo per uccidere la pianta.

Contro Xylella, come contro altre batteriosi che attaccano i vegetali, non esistono metodi di lotta diretti e risolutivi. Per fortuna nostra, la maggior parte delle specie aggredite dal batterio appartengono alla flora del continente americano, donde Xylella sarebbe arrivata a noi: per nostra sfortuna, il batterio in questione ha trovato un’eccellente pianta ospite nell’olivo.

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Sezione di un vaso occupato da cellule di Xylella. Foto CNR-IPSP Bari


Partiamo da qui - L. Caricato

*Sputacchina Che colpa ha “sputacchina”? Per portare a compimento il “lavoro”, il batterio Xylella non può fare tutto da solo, ma ha bisogno di uno o più insetti che lo trasportino da un organismo vegetale a un altro. Dei possibili insetti vettori, in Puglia ne è stato individuato uno, Philaenus spumarius L., volgarmente detto “sputacchina”. È un piccolo insetto lungo qualche millimetro, nulla sa dei guai che sta combinando, nulla capisce di batteri, inoculo, resistenze ecc., ma si comporta da molti millenni sempre allo stesso modo: vola da pianta a pianta e si nutre pungendo le foglie per succhiarne la linfa. Che colpa ha “sputacchina” se, da qualche tempo, le tocca succhiare linfa arricchita di nuovo ingrediente come il batterio Xylella, che poi inietta nelle foglie di alberi sani d’olivo e d’altre specie, infettandoli fino ad ucciderli? “Sputacchina” è diventato un ignaro ma pericolosissimo insetto vettore di Xylella, malattia mortale per gli olivi salentini. E come tale, spiace per lui, da abbattere. Con una ragionevole certezza: niente “sputacchina”, niente Xylella.

I testi relativi a Xylella e sputacchina sono del professor Angelo Godini (1937-2019), già ordinario di Arboricoltura presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Sono tratti da un testo più ampio pubblicato il 23 maggio 2017 sulla rivista telematica Olio Officina Magazine.

Philaenus spumarius L. (sputacchina). Foto InfoXylella

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S

i possono immaginare la Puglia e il sud italiano senza il mare, il cielo e gli ulivi? (…) L’ulivo (…) è una creatura che solo in apparenza è fragile, ma possiede una forza severa e costante, come un silenzio meridionale, custodisce la memoria comune di una possibile intesa, la premessapromessa di una potenziale fraternità. (…) La via dell’ulivo è una bussola per orientarci nel frastuono del mondo globalizzato.

Franco Cassano Sociologo (1943 - 2021)

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01 La visione rigenerativa

L’innesto della speranza di Maria Carla Squeo Mai lasciare che la disperazione prenda il sopravvento. Un principio, questo, totalmente condivisibile, tant’è che è proprio con tale spirito che alcuni olivicoltori salentini, colpiti in prima persona dal flagello della Xylella fastidiosa, hanno pensato bene di reagire a un dramma reale, decidendo di non demordere, ma di impegnarsi in tutti i possibili modi nel trovare soluzioni concrete. Ecco allora alcuni esperti agronomi che in collaborazione con i principali centri di ricerca, hanno scelto di innestare alcune varietà di olivo resistenti al batterio su olivi appartenenti ad altre varietà che al contrario hanno dimostrato di non riuscire a opporre adeguate difese. Non c’è certezza di un successo assoluto e totale, è evidente,

ma la speranza, attraverso questa semplice operazione, resta comunque viva. I risultati ci sono, sono promettenti. Molti alberi con gravi sintomi di disseccamento hanno reagito bene, dimostrando la propria voglia di sopravvivere e germogliare. Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, ma intanto una semplice e millenaria pratica agronomica come l’innesto lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Ed è proprio con questo approccio che Olio Officina ha voluto premiare in modo simbolico l’impegno di tanti olivicoltori dedicando loro, nel 2017, un annullo filatelico per celebrare questa operazione di estremo salvataggio attraverso l’innesto. Anche perché contro il dilagare della Xylella, la speranza non può mai venire meno.

Giovanni Melcarne: “Centinaia di incroci controllati di olivo. È questa l'unica cura per Xylella! Stanno così bene che tra un po' iniziano anche a parlare”. 14


L'innesto della speranza - M.C. Squeo

Olivi della rinascita. L’impegno di Giovanni Melcarne e CNR-IPSP di Bari. Foto di G. Melcarne

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Il bozzetto del timbro, illustrato da Valerio Marini, è stato realizzato nel formato tondo da Poste Italiane e ufficializzato e posto in essere nel corso della sesta edizione di Olio Officina Festival. E così, dopo mesi e anni di attese, dopo queste esperienze rigenerative sperimentate sul campo, si è andati nel frattempo oltre, puntando a ottenere nuovi incroci di piante di olivo, a testimonianza di quanto si sia affamati di futuro. Ed è proprio per arrivare a un futuro diverso che il Salento si sta mobilitando per introdurre nuove cultivar produttive resistenti a Xylella. “Miglioramento genetico delle cultivar, agricoltura di precisione, sostenibilità ambientale e sostenibilità economica sono gli ingredienti per far tornare competitiva l’olivicoltura”, ha sostenuto con grande convinzione e determinazione l’agronomo e imprenditore Giovanni Melcarne. È lui, una tra le figure più rappresentative della rinascita olivicola nel territorio devastato dalla Xylella. “Il futuro olivicolo, non solo del Salento, passa dal miglioramento genetico delle cultivar”, ammette senza alcuna esitazione. Del resto - prosegue Melcarne la frutticoltura regge anche grazie alla selezione continua di nuove cultivar. Intercettare nuove varietà di olivo resistenti è un percorso lungo, lunghissimo, ma anche questo è il bello della sfida cui siamo chiamati. Avere una pianta unica, nuova di zecca, ottenuta da miglioramento genetico, che ha raggiunto la sua maturità in soli due anni e mezzo dal nocciolo, è un successo. Ovviamente si tratta di un progetto lungo, ma è l'unica strada possibile per ridare competitività a un comparto produttivo afflitto da troppe perdite di alberi. Il resto, sono solo palliativi e chiacchiere”. 16


L'innesto della speranza - M.C. Squeo

Innesto. Foto di Luigi Caricato

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U

livi, grano, vino ed olio sono i principali prodotti del nostro Regno. Ma l’olio sopra i primi due ci rende creditori de’ popoli settentrionali. (…) Nella terra d’Otranto e di Bari (…) questa pianta è proprio del suolo, poiché circa due terzi sono coperti di boschi di ulivi. Del prezioso liquore che se n’estrae si fa ampio e ricco commercio in Gallipoli, dove si trasporta quasi tutto l’olio della provincia.

Giuseppe Maria Galanti Storico, economista, letterato (1743 - 1806)

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02 La visione generale

Oli di Puglia di Luigi Caricato Credetemi sulla parola: non è facile raccontare la Puglia dell’olivo e dell’olio in questo momento storico. Per tutti è l’esatta fotografia dell’olivicoltura nazionale. Ed è, a tutti gli effetti, la cartina al tornasole dell’ Italia olearia. Se sta bene la Puglia, se ne avvantaggia l’intero Paese. C’è un dato incontrovertibile: la produzione regionale di olio si attesta intorno al 40 per cento di quella nazionale, con punte, in alcune annate, che raggiungono quota 60 per cento. Una enormità. Senza la Puglia, non ci sarebbe olivicoltura in Italia. Per decenni è stata la riserva aurea cui attingere olio per soddisfare le richieste dei consumatori italiani e del resto del mondo. Senza l’olio pugliese, non ci sarebbe disponibilità di prodotto per imbottigliare e porre in vendita il 100% italiano. Oggi, tuttavia, il quadro non è idilliaco e si apre ad alcune laceranti contraddizioni. Ci sono ombre piuttosto preoccupanti. La devastante aggressività del batterio Xylella fastidiosa è una certezza e chi ha visitato i luoghi coinvolti ha potuto solo inchinarsi in segno di cordoglio davanti ai vasti cimiteri di olivi rinsecchiti. Tutto è partito dal Salento ma per l’infelice gestione dell’emergenza ora sono sta20

te intaccate anche le province di Brindisi e Taranto, sfiorando quella di Bari. La politica, in prima istanza, ha fallito: non decidendo, o decidendo male. La magistratura (ed esattamente la Procura di Lecce) ha commesso errori gravissimi, impedendo agli scienziati di compiere il proprio dovere e accusandoli di essere stati loro stessi untori, per fini poco nobili, salvo poi veder assolti dopo alcuni anni tutti gli imputati. E infine, va precisato, contro ogni forma di reticenza, che le più gravi colpe sono soprattutto da attribuire a frange estremiste di pseudo ambientalisti, complottisti e negazionisti. Sembra tutto assurdo, ma è così. Ora, a distanza di anni, si pagano a caro prezzo le conseguenze. Nonostante ciò, ci sono tuttavia anche tante luci all’orizzonte, che fanno ben sperare. Nonostante infatti la continua avanzata della Xylella, c’è ancora tanta determinazione tra olivicoltori e frantoiani. Alcuni di essi non demordono e insistono a impiantare nuovi olivi, non necessariamente autoctoni. Cercano di modernizzare la coltivazione, in modo da abbattere i costi di produzione, ma senza rinunciare alla qualità.


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Oli di Puglia - L.Caricato

Occhiello

Illustrazione di Stefania Morgante su foto di Gianfranco Maggio

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La tradizione, del resto, è tale solo se la si concepisce in prospettiva futura. Intanto, è ormai ufficiale stato pubblicato, sulla Gazzetta ufficiale l’ingresso sul mercato di un’altra attestazione di origine, l’Igp “Olio di Puglia”. Una scelta saggia quanto opportuna perché per la prima volta si abbraccia l’intero territorio, mettendo insieme le varie espressività e peculiarità della regione, pur con tutte le differenze: è l’armonia dei contrari eraclitea. A tal riguardo, va pure precisato che nonostante il germoplasma autoctono regionale sia particolarmente ricco, sono in realtà poche le cultivar principali cui si ricorre d’abitudine nell’estrazione dell’olio. Nel foggiano vi è l’Ogliarola Garganica e la Peranzana. Nel barese a dominare le campagne olivetate sono la Coratina e l’Ogliarola Barese. Nel Sa22

lento, a parte la terribile e falcidiante Xylella, sono le varietà Cellina di Nardò e Ogliarola Salentina i due punti fermi del territorio – ma forse è il caso di dire “erano”; non sappiamo cosa accadrà di queste piante in futuro. Altre cultivar della Puglia, pur importanti, sono numericamente poco incisive. Ci sono quelle non autoctone ma che nel tempo si sono diffuse e adattate nel territorio, per esempio la coppia Frantoio e Leccino, e quest’ultima in particoolare si sta rivelando resistente alla Xylella; vi è poi la Picholine, ormai di casa in Puglia, e, in particolare, vi sono altre cultivar ancora che stanno entrando in scena, per esempio le nuove, nuovissime, Lecciana e Olidia, create dall’Università di Bari. C’è inoltre chi pianta cultivar spagnole, perché meglio si adattano ai nuovi impianti ad alta densità. La Puglia, come si può notare, è una realtà dinamica. Foto di Masseria Pezze Galere


Oli di Puglia - L.Caricato

Se da un lato c’è chi ama restare immobile, dall’altro c’è sempre chi non intende star fermo e agisce, agisce concretamente. Ora, il futuro non lo si può prevedere, ma di certo la Xylella cambierà comunque lo scenario. Si stanno cercando cultivar più resistenti, in modo da assicurarsi la rinascita olivicola delle aree infette. Quello che si sta attraversando è un momento storico, come d’altra parte lo è stato il periodo infausto della fillossera per la vite, che distrusse la viticoltura europea nella seconda metà dell’Ottocento. Poi, come sempre accade, ci fu la rinascita - la salvezza e tutto riprese a vivere, con la gioia dei vignaioli. Il problema degli olivi è che è tutto più complesso, perché si tratta di alberi, non di arbusti. I tempi saranno più lunghi, i rischi tanti. Eppure i conti con il batterio vanno pur fatti, non si può negare l’evidenza. Io resto in ogni caso ottimista. Quante volte nella storia tante culture sono state messe in crisi per malattie devastanti, ma poi la speranza è sempre alle porte. Occorre far lavorare gli scienziati, non ostacolarli, non andare contro la scienza ma favorirla. Occorre investire e stare al fianco di chi produce. Quel che è certo è che la Puglia vanta oggi oli di qualità eccelsa, caratterizzanti, ad alto effetto condente, con note vegetali perlopiù di carciofo, e con sentori di mandorla ed erbe di campo. Sono tre le macroaree principali. L’estremo nord della Puglia, con l’area garganica; l’areale barese, poco più a sud; e, infine, nell’estremità sud, il Salento. Con l’Igp “Olio di Puglia” sarà possibile ottenere la combinazione perfetta tra le differenti peculiarità dell’olivicoltura regionale. Si possono realizzare dei magnifici blend attraverso la sapiente combinazione dei tanti differenti oli ed esprimere in modo originale tutte le

specificità sensoriali. A partire da oli ricavati da un mix di varie cultivar, si può infatti realizzare un olio che possiamo definire “sartoriale”, andando così incontro alle sempre cangianti e nuove tendenze di gusto dei consumatori, non soltanto pugliesi, perché gli extra vergini di Puglia varcano con successo i confini di tutti i continenti. Per quanti invece amano le singolarità degli oli in purezza, quelle che esprimono l’identità delle diverse aree territoriali, sono disponibili ben cinque attestazioni di origine protetta: a partire dalla Dop Terra d’Otranto (relativa al Salento leccese) fino ad arrivare alla Dop Collina di Brindisi, e, dalla Dop Terre Tarentine, giungere, andando verso il nord, fino alla Dop Terre di Bari (tripartita in Castel del Monte, Bitonto, Murgia dei Trulli e delle Grotte) e concludere con la Dop Dauno (con le menzioni aggiuntive Alto Tavoliere, Basso Tavoliere, Gargano e Subappennino). Le Dop, tuttavia, a essere proprio sinceri, non hanno mai goduto di un largo consenso, come d’altra parte in tutto il resto d’Italia, segno che il consumatore preferisce scegliere oli sempre in funzione del prezzo più basso, mai in relazione a una qualità e a un’origine certificata. Solo le Dop Terra di Bari e Dauno hanno conseguito in Puglia buone performance, in quanto “adottate” da alcune grandi aziende. A cosa sia dovuto l’insuccesso delle Dop è in parte dovuto al fatto che in Italia sono troppe le microaziende, super frammentate, senza una solida struttura alle spalle, realtà perlopiù gestite da tanti hobbisti, poco incline a investire, sperimentare e innovare, e soprattutto con una scarsa attitudine a investire in marketing e comunicazione. Ciò che conta è che la qualità degli oli c’è, ed è un dato certo. Basta degustare gli extra vergini per accertarsene. 23


G

li olivi salentini sono forse i più bizzarri tra quelli esistenti. Tronchi vorticosi, morfologicamente disponibili a qualsiasi aberrazione della fantasia, appaiono ad alcune coscienze visionarie ricettacolo di anime infernali o, chissà, di anime purganti. Quando nel Salento si dice albero, non possono sorgere equivoci: è l’olivo, nient’altro che l’olivo.

Giuseppe Cassieri Scrittore (1926 - 2008)

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03 La visione agronomica

Quale Puglia olivicola per il futuro Trascorrono inarrestabili i secoli e inevitabilmente si prospetta un nuovo modello olivicolo-oleario per la regione più olivetata d’Italia. Tutto è destinato a cambiare, anche perché nulla può rimanere immutato nel tempo. Così, a prospettarci un possibile scenario, è oggi uno studioso della materia che sa aprirci lo sguardo verso quel che verrà di qui in avanti, potendo ancora coltivare la speranza di poter immaginare una olivicoltura perfino negli areali infetti e devastati dalla Xylella, qualcosa di diverso e lontano dal passato, ma plausibile.

di Salvatore Camposeo Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari

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Quale Puglia olivicola per il futuro - S. Camposeo

Occhiello

Foto di Gianfranco Maggio

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La Puglia è la regione più olivetata d’Italia. Con i suoi 360 mila ettari, corrispondenti a un quarto della intera superficie agricola utilizzata, e 40 milioni di alberi, la Puglia contiene un terzo degli oliveti italiani e oltre 4 milioni di olivi monumentali, uno per ogni pugliese residente. Metà della olivicoltura pugliese è in irriguo e la maggior parte in pianura. L’epidemia di Xylella si stima abbia già desertificato 50 mila ettari. Nel giro di pochi anni di esposizione alla infezione, anche la cultivar Leccino inizia a dare in campo sintomi di disseccamento rapido. Il resto della Puglia non infetta è riuscita a fornire una produzione olearia nell’olivagione 2020 di circa 120 mila tonnellate: un terzo di tutto l’olio italiano.

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Impianto di oliveto ad alta densità. Foto di L. Caricato


Quale Puglia olivicola per il futuro - S. Camposeo

Quale futuro per l’olivicoltura negli areali infetti da Xylella Ripartire con l’olivo è possibile: infatti, a eccezione della zona di contenimento, cioè negli ultimi 20 km della zona infetta, dal 2018 è possibile, in deroga, impiantare e reimpiantare l’olivo in areali infetti da Xylella fastidiosa pauca. Gli interventi di impianto e di reimpianto si prefiggono tre obiettivi strategici per l’areale salentino: eliminare gli alberi infetti e improduttivi, ridurre la quantità di inoculo presente, superare la gravissima crisi economica. Imprenditori e agronomi rappresentano gli attori principali dell’opera di rilancio del settore.

Impianto giovane superintensivo di Fs-17. Foto di S. Camposeo

Da agronomi, il nostro obiettivo è innanzitutto quello di progettare il nuovo oliveto e, successivamente, quello di impiantarlo e di gestirlo. La progettazione dell’oliveto, al pari di quanto dovrebbe avvenire per qualsiasi altro frutteto, è una questione di scelte in precisa successione. Tuttavia, le scelte economiche devono precedere quelle più squisitamente agronomiche. Cosa produrre, in quale quantità, con quale costo di produzione, a quale prezzo di conferimento, con quale tempo di ritorno dei capitali investiti: sono questioni imprenditoriali alle quali colui che volesse cimentarsi nell’opera di ricostruzione della filiera olivicola-olearia dovrebbe avere la risposta. Compito non facile, certo. Volendo limitarci solo alla prima domanda: dall’olivo oggi è possibile produrre olio extra vergine di oliva standard, oppure olio extra vergine di oliva nutraceutico e di alta qualità, in coltivazione integrata o in biologico; oppure olive da mensa, alle quali ancora pochi pensano. Una volta che si ha l’intero quadro economico chiaro, l’imprenditore deve avvalersi dell’agronomo professionista con il quale comporre la seconda parte del progetto, cioè la definizione delle scelte agronomiche.

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Che tipo di olivicoltore è indispensabile per la nuova olivicoltura

Cosa sarà fuori dagli areali infetti da Xylella Altro aspetto fondamentale, è la razionalizzazione della gestione agronomica dell’olivicoltura esistente, a cominciare dalla gestione della chioma e del suolo, che offrono ancora ampi margini di miglioramento tecnico, insieme alla concimazione. L’applicazione dell’agricoltura integrata (3.0) è lungi dall’essere un fatto ordinario nella gestione colturale dell’olivicoltura. Su questo punto c’è molto cammino ancora da percorrere. Così come sulla cultura dell’olio extra vergine di oliva che, paradossalmente, è ancora uno sconosciuto al grande pubblico dei consumatori.

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Il nuovo olivicoltore deve possedere tre requisiti: mentalità imprenditoriale, mentalità frutticola, assistenza tecnica specializzata. Il futuro dell’olivicoltura è una questione culturale, prima ancora che colturale. Che senso ha acquistare gli alberelli dal vivaio per poi metterli a dimora e gestire l’oliveto secondo criteri tradizionali (“come ho sempre fatto”) o, peggio, seguendo il sentito dire (“beh, proviamo”)? Assurdo. È una follia. Ci dovremmo affidare alle conoscenze scientifiche e tecniche, aggiornate al terzo decennio del XXI secolo. È necessario rivolgersi agli agronomi professionisti, all’assistenza tecnica specializzata. Adottando i requisiti citati, è possibile conseguire reddito, ricchezza, occupazione, anche in un territorio ora devastato. La Xylella è una occasione “per trarre anche dal male un bene” (come osservava Sant’Agostino), per far ripartire l’intera filiera olivicola-olearia ora ferma per mancanza di materia prima, e non solo.

Impianto intensivo in piena produzione di Leccino. Foto di S. Camposeo


Quale Puglia olivicola per il futuro - S. Camposeo

Serve un nuovo modello: per la filiera, per la ricerca, per le infrastrutture Evidentemente sì, se il Decreto Emergenze ha stanziato per questo obiettivo 300 milioni di euro, a disposizione di agricoltori e frantoiani. Questi fondi sono stati ripartiti. Siamo stati pronti a spenderli in modo efficace, efficiente, etico? Lo stesso Ministro delle Politiche agricole ha espresso la necessità di un “piano di rigenerazione del paesaggio agricolo salentino e pugliese ed essere nella condizione di spendere in modo proficuo le risorse”. Il piano dovrebbe razionalizzare e innovare non solo la fase agricola - ovvero: l’olivicoltore e l’oliveto - ma anche il segmento a monte - il vivaista e il vivaio - e il segmento a valle, la fase industriale - il frantoiano e il frantoio. Ma ritengo che ciò non basterebbe senza il sostegno della ricerca agronomica e l’adeguamento delle infrastrutture a servizio dell’agricoltura: ad oggi vi sono fiumi di finanziamenti per progetti di ricerca che studiano il batterio e il suo vettore ma poco o nulla per studiare l’olivo in areali infetti. L’autostrada A14 termina il suo percorso circa 20 km prima di Taranto!

Foto di S. Camposeo

No water? No future! I Consorzi di bonifica salentini sono tutti commissariati e scarseggiano corpi idrici a scopo irriguo. Mancano acquedotti irrigui. Tuttavia, solo con una gestione razionale dell’irrigazione si potrebbe risparmiare il 30 per cento degli attuali consumi irrigui, applicando la semplice tecnica del deficit idrico controllato. Si potrebbe aggiungere un altro 20 per cento di disponibilità irrigue riutilizzando in agricoltura le acque reflue urbane affinate, costruendo e mettendo in attività gli impianti di trattamento terziario, e la Puglia diventerebbe un giardino!

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I

l cibo settentrionale sa troppo di grasso di porco, di grasso di porco. Riconducetemi al sud, ridatemi gli ulivi! E lubrificatemi con la lingua di quegli alberi d’argento non con grasso di porco.

David Herbert Lawrence Scrittore (1885 – 1930)

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04 La visione sensoriale

Mappa sensoriale degli oli pugliesi di Francesco Caricato Direttore Casa dell’Olivo PROFILO SENSORIALE

ABBINAMENTI CONSIGLIATI

PIATTO TIPICO DELLA TRADIZIONE

Dop Dauno

Dop Terra di Bari

Giallo oro dai riflessi verdi, al naso ha profumi mediamente intensi e freschi, dai sentori erbacei e floreali. Al palato si percepisce una nota gustativa vegetale di carciofo, con chiari rimandi alla mandorla, e una percezione amara e piccante in armonia, ben dosata, resa più fascinosa da una nota dolce al primo impatto. In chiusura l’erba di campo e la mandorla, una lieve punta piccante.

Giallo oro dai riflessi verdolini, al naso ha note fruttate intense o di media intensità, dai sentori di carciofo e dalle evidenti connotazioni erbacee. Al palato ha tratti decisi e marcati, con amaro e piccante netti (mentre è più morbido al palato, con un impatto iniziale dolce, l’olio dell’area intorno a Bitonto), e sensazioni che rimandano a mandorla, cardo e altri ortaggi. In chiusura la classica punta piccante, la mandorla e le erbe di campo.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con maccheroncini al sugo di pomodoro e pecorino, insalate di rucola selvatica, minestre di broccoli. Il piatto è pezzarèlle e marasciùle, ovvero pasta con erbe spontanee.

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Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con mezzi ziti al forno, tiella di verdure, cozze ripiene. Orecchiette con cime di rapa.


Mappa sensoriale degli oli pugliesi - F. Caricato

Dop Collina di Brindisi

Dop Terre tarentine

Giallo dorato e limpido, al naso ha profumi medio leggeri di oliva, con sentori di foglia ed erbe di campo. Al palato è morbido, sapido al gusto, vegetale, con punte amare e piccanti armoniche e note vegetali di carciofo e altri ortaggi. In chiusura una lieve punta piccante e i toni mandorlati.

Giallo dorato intenso dai riflessi verdi, al naso ha note fruttate leggere, vegetali, di carciofo e sedano. Al palato ha gusto vegetale, morbido e mandorlato, armonico nelle note amare e piccanti, con una sensazione vellutata. In chiusura il richiamo alla mandorla e una lieve punta piccante. In chiusura la classica punta piccante, la mandorla e le erbe di campo.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con spaghetti al riccio, fiori di zucchina fritti, lumache al pomodoro. Lampascioni all’olio.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con spaghetti alle cozze, rape soffritte, lumache in padella. Ostriche alla tarantina.

Dop Terra d'Otranto

Igp Olio di Puglia

Verde tenue dai riflessi oro, al naso ha profumi fruttati freschi di oliva verde, di media intensità, con richiami di carciofo ed erbe di campo e connotazioni erbacee. Al palato è morbido e armonico nelle note amare e piccanti, dal gusto vegetale di carciofo. In chiusura la mandorla verde e una lieve punta piccante.

Abbiamo preferito non riportare una mappa sensoriale specifica, seppure dal carattere indicativo, in quanto per gli extra vergini a marchio Igp Olio di Puglia le combinazioni possibili sono tantissime, dal momento che le diverse aree produttive sono tra loro nettamente distinte, e di conseguenza il profilo sensoriale che ne deriva è tutto in funzione del blend che si intende realizzare, ovvero da come un’azienda vuol personalizzare l’olio mescolando tra loro gli oli ottenuti dalle varie cultivar e dai vari territori provinciali.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con panzerotti di patate, cicorie con purea di fave, budella di agnello ripieni (i turcinieddri). Ciceri e tria, ovvero ceci e tagliatelle.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con zuppe di legumi e verdure. 35


Oli monovarietali PROFILO SENSORIALE

ABBINAMENTI CONSIGLIATI

Cellina di Nardò Giallo dorato dai riflessi verdolini, al naso ha note fruttate di media intensità, dalle connotazioni erbacee e con sentori di mandorla e mela. Al palato una sensazione iniziale dolce, gusto vegetale di carciofo e note amare e piccanti ben dosate. In chiusura i toni mandorlati e una lieve punta piccante. Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con minestre di legumi, insalate di pomodoro e cipolla, carni bianche alla griglia. Pittule con baccalà.

PIATTO TIPICO DELLA TRADIZIONE

Peranzana Verde dai riflessi dorati, limpido, si apre al naso con note fruttate di media intensità, dalle connotazioni erbacee e i sentori di carciofo e mandorla. Al gusto l’impatto è dolce e avvolgente, con amaro e piccante che si aprono progressivi e armonici. In chiusura la mandorla e il carciofo, una lieve punta piccante. Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con fusilli, sedano e patate, barchette di zucchini, carni bianche alla griglia. Tiella foggiana.

Coratina

Ogliarola di Lecce

Giallo oro dai riflessi verdi, al naso ha profumi fruttati erbacei intensi, con sentori di carciofo e frutta bianca. Al palato l’impatto dell’amaro è potente, il gusto sapido e vegetale, con una sensazione piccante decisa quanto persistente. In chiusura, oltre a richiami alle erbe di campo e alla mandorla, una netta punta piccante.

Giallo oro dai riflessi verdi, al naso ha profumi mediamente intensi dai sentori erbacei. Al palato è morbido e rotondo, dall’impatto dolce iniziale e dal gusto vegetale di carciofo e dai toni mandorlati, con l’amaro e il piccante armonici. In chiusura una lieve punta piccante e rimandi alla noce e alla mandorla.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con zuppe di legumi, verdura al vapore, carne di manzo in umido.

Aperto a una molteplicità di impieghi, si consiglia con frittata con la menta, insalate verdi e di mare, sella di coniglio al vino rosso.

Focaccia barese.

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Frisella con il pomodoro.


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Mappa sensoriale degli oli pugliesi - F. Caricato

Occhiello

Foto di Masseria Pezze Galere

37


S

i può amare un albero come si ama un fiore, e si può prediligere questo anziché quell’altro albero. Ma l’olivo non basta amarlo, lui necessita di rispetto, ultima forma umana che dovrebbe derivare dall’arcaica adorazione. Vi sono creature sulla terra che debbono essere spiegate: da un microbo ad una foglia lanceolata, da un grande e misterioso animale sopravvissuto alle stragi ad uno sterpo selvatico. Ma l’olivo no. È lui che ha spiegato noi e i nostri bisogni, nutrendoli, facendosi portatore di messaggi, accendendosi per darci luce. Ha unto i simulacri delle divinità e i muscoli dell’atleta. Si è lasciato mangiare e ha pregato con noi.

Giovanni Arpino Scrittore (1927 – 1987) 38



05 La visione commerciale

Oleoteca di Puglia In ogni angolo della Puglia, d’Italia e del resto del mondo, dovrebbero esserci tante oleoteche, luoghi fisici o virtuali in cui poter acquistare i migliori oli extra vergini di oliva disponibili sul mercato, accuratamente selezionati per origine (100% italiano, Dop, Igp), per cultivar, blend, o per metodo di coltivazione (da agricoltura biologica o convenzionale).

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Oleoteca di Puglia

Dop Terra Elogio di Bari - Bitonto Agridè Agridè

Bitonto (Bari) Ogliarola Barese e Coratina Sentori erbacei e mandorla verde, morbido, rotondo; versatile, con carni bianche ai ferri e pietanze a base di pesce.

Bitonto (Bari) Ogliarola Barese e Coratina Mela, mandorla, erbe di campo, impatto dolce e buona fluidità e finezza, amaro e piccante armonici; versatile, con insalata con burrata, arance e melagrana.

Carmine Agridè

Bitonto (Bari) Ogliarola Barese Sentori erbacei e richiami a pomodoro, mandorla, agrumi e carciofo, armonico; versatile, con filetto di merluzzo con pomodorini e olive.

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Ogliarola

Tatanoso

Masseria Faraona

Caricato Factory

Corato (Bari)

Ogliarola barese Sentori di erba di campo e mandorla, morbido e vellutato, armonico, dal gusto vegetale di carciofo; versatile, con tonno alla brace.

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San Pietro in Lama (Lecce)

Lucrezio Caricato Factory

San Pietro in Lama (Lecce)

Mix plurivarietale, prevalenza olive Nociara e Cellina di Nardò

Mix plurivarietale, prevalenza olive Ogliarola di Lecce e Cornulara.

Sentori di erba di campo e frutti di bosco, impatto dolce e rotondo, gusto di carciofo; versatile, con grigliate di pesci, carni bianche alla brace, fritture di verdure.

Sentori di erba, mandorla verde e mela, sapido, morbido, armonico; versatile, con insalate verdi e di mare, piatti a base di riso, carni bianche ai ferri.


Oleoteca di Puglia

01 Fratelli Fratta Foggia

Arbosana e Coratina Note di erba, mandorla foglia e pomodoro, gusto di carciofo, amaro e piccante ben dosati; versatile con insalata di carciofi e grana padano.

Trisole Il Frantolio

Cisternino (Brindisi) Coratina Erbe aromatiche, mandorla e foglia di pomodoro al naso, sapidità e armonia di amaro e piccante al palato; versatile, con pizzette pomodoro e origano.

Peranzana Il Gargano a Tavola

Torremaggiore (Foggia) Peranzana

Fresche note erbacee e richiami di pomodoro e mandorla verde al naso, sapidità, buona fluidità e armonia al palato; versatile, con patate alla brace

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Fruttato Intenso

Monocultivar Coratina

Monocultivar Peranzana

Masserie di Sant’Eramo

Masserie di Sant’Eramo

Masserie di Sant’Eramo

Santeramo in Colle (Bari) In prevalenza Coratina Sentori erbacei, mandorla verde, carciofo, sedano, morbido, armonico; versatile, con paste asciutte al pomodoro, zuppe di legumi, formaggi di media stagionatura. 44

Santeramo in Colle (Bari) Coratina Note fruttate erbacee fresche con richiami di mandorla verde e mela, sapido, armonico, elegante al palato; versatile, con insalata con burrata, arance e melograna.

Santeramo in Colle (Bari) Peranzana Note di erba, foglie di pomodoro e carciofo al naso, impatto dolce al palato, con amaro e piccante ben dosati; versatile, con hamburger di pollo e funghi di bosco.


Oleoteca di Puglia

Alba

Giacomì

Masseria Pezze Galere

Masseria Pezze Galere

Fasano (Brindisi) Picholine

Note di erba, foglie di pomodoro e carciofo al naso, impatto dolce al palato, con amaro e piccante ben dosati; versatile, con hamburger di pollo e funghi di bosco.

Fasano (Brindisi) Coratina

Erba e mela al naso, con note retro-olfattive fresche e verdi, sapidità e armonia di amaro e piccante al palato; versatile, con uova alla coque con asparagi impanati.

Olivieri Olivieri

Roseto Valfortore (Foggia) Peranzana Mandorla, mela, erba e agrumi al naso, gusto di carciofo con punta di piccante al palato; versatile, con pesci al cartoccio.

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Fuoco

Aria

Il Giannino

Oleificio Cericola Emilia

Oleificio Cericola Emilia

Az. agr. Giovanni Trombetta

Borgo Incoronata (Foggia) Coratina Erba, carciofo e pomodoro al naso, buona fluidità, sapidità e armonia al palato; versatile, con polpo alle olive con patate.

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Borgo Incoronata (Foggia) Lecciana Erba e mandorla verde al naso, sapidità, buona fluidità e dolcezza al palato, armonia di amaro e piccante; versatile, con orate al vapore con verdure.

Carpino (Foggia)

Ogliarola Garganica Sentori di erba, mandorla e frutta bianca, morbido, sapido, vegetale, con amaro e piccante armonici; versatile, con cous cous di pesce.


Oleoteca di Puglia

Igp Olio di Puglia Pantaleo

Fasano (Brindisi) Coratina Mandorla verde, mela ed erba di campo al naso, sapidità e morbidezza al palato, con amaro e piccante armonici; versatile, con seitan con verdure.

Selezione Oro Pantaleo

Fasano (Brindisi) Ogliarola e Coratina Profumi erbacei, mandorla verde, avvolgente armonia, gusto di carciofo; versatile, con verdure gratinate, insalate di mare, tagliata con rucola.

100% Italiano Pantaleo

Fasano (Brindisi) Coratina Profumi erbacei con rimandi a mandorla verde al naso, sapido, vellutato, con amaro e piccante armonici; versatile, con sgombri al pomodoro.

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Allegretti 100% Picholine Bio

Allegretti 100% Coratina Bio

Tenute Allegretti

Tenute Allegretti

Montalbano di Fasano (Brindisi) Picholine

Note erbacee con rimandi di mandorla verde e pomodoro, morbido, armonico, dal gusto di carciofo; versatile, con insalate di polpo. 48

Montalbano di Fasano (Brindisi) Coratina

Mandorla verde ed erbe di campo, con note agrumate al naso, con amaro e piccante progressivi, netti e ben dosati; versatile, con patate al cartoccio.

Dono Dorato Terra D’Oro

Trinitapoli (Barletta-Andria-Trani) Coratina Note fruttate erbacee e sentori di pomodoro, gusto vegetale di carciofo, buona fluidità e armonia di amaro e piccante; versatile, con marinate di tonno.


Oleoteca di Puglia

Monocultivar Coratina Terre D’Oria Corato (Bari) Coratina Mandorla verde e freschi sentori erbacei al naso, buona fluidità e armonia, gusto vegetale di carciofo, amaro e piccante netti e armonici; versatile, con canocchie al vapore con semi di papavero.

Fruttato medio Grand Cru Macchia di rose monocultivar Frantoio Muraglia Peranzana Frantoio Muraglia

Andria (Barletta-Andria-Trani) Peranzana

Sentori di erba, carciofo e pomodoro, morbidezza e gusto rotondo, amaro e piccante ben dosati; versatile, con carni bianche alla griglia.

Andria (Barletta-Andria-Trani) Coratina

Sentori erbacei intensi, con richiami a mandorla verde e carciofo, gusto sapido, vegetale, con note speziate; versatile, con verdure al vapore.

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Ueju Taras Fruttato verde Marina Piccola Farm Avetrana (Taranto)

Coratina, Picholine, Frantoio, Leccino Sentori di erba e mandorla verde, sapido, dal gusto vegetale di carciofo, amaro e piccante ben dosati; versatile, con insalata di pomodori, mozzarella e rucola. 50

Ortore Frantoio Ortore

Carpino (Foggia)

Ogliarola Garganica Note fruttate vegetali e floreali, con richiami a carciofo ed erbe di campo; morbido, delicato, di buona fluidità; versatile, con insalate di mare.

Maulivo Agricola De Cesare

Torremaggiore (Foggia) Peranzana

Sentori erbacei con richiami di mandorla ed erbe aromatiche, è sapido, dal gusto vegetale di carciofo, armonico; versatile, con pasta al pomodoro.


Oleoteca di Puglia

#IoResisto! Delicato

Coratina

D’Amato

Andria (Barletta-Andria-Trani)

Veglie (Lecce) Leccino

Sentori di erba di campo, mandorla e oliva verde, è sapido ed equilibrato, dal gusto vegetale di carciofo; versatile, con carni alla griglia.

Agricola Fratelli Piccolo

Coratina Profumi fruttati erbacei, con richiami di mandorla verde, ha buona fluidità e finezza, amaro e piccante armonici; versatile, con fritto misto di carne e verdure.

Igp Olio di Puglia Felice Bitetti Ginosa (Taranto)

Coratina, Ogliarola, Frantoio Note fruttate erbacee con richiami alla mandorla verde, gusto netto di carciofo, morbidezza e armonia al palato; versatile, con insalata di carciofi e grana. 51


L

e nostre opere non devono mirare solo al presente, ma all’avvenire, non a noi soli, ma ai discendenti nostri. E allora i discendenti, anche lontani, prenderanno un poco d’olio degli ulivi che abbiamo piantato.

Giovanni Pascoli Poeta (1855 - 1912)

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06 La visione gastronomica

Quel che ho da dirvi, da chef, sugli extra vergini di Puglia Per valorizzare al meglio le prerogative di un olio extra vergine di oliva, serve, come spesso succede con gli alimenti di elevata qualità, una chiave di interpretazione e una visione diversa. Suggerisco allora di identificarlo più che come un grasso (con tutte le connotazioni negative che spesso questo termine porta ingiustamente con sé) come un elemento aggregativo di alta resa e funzionalità. Questo vale soprattutto quando abbiamo a disposizione oli extra vergini di oliva come quelli pugliesi, che per loro natura sono ricchi di aromi, profumi, sapori e tracciatori sensoriali intensi e potenti.

di Giuseppe Capano

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01

Quel che ho da dirvi, da chef, sugli extra vergini di Puglia - G.Capano

Occhiello

Giuseppe Capano Chef e consulente alimentare specializzato nella cucina della salute, del benessere e del gusto, è tra i professionisti che più di tutti conosce in modo approfondito l’olio ricavato dalle olive ed è figura di riferimento per la cucina fondata sul rapporto interdipendente tra benessere, prevenzione, dieta, gusto e piacere a tavola. È autore di molteplici pubblicazioni, tra cui la più recente, dal titolo Senza sale, per le edizioni Tecniche Nuove; e, sempre per il medesimo editore, con Luigi Caricato ha pubblicato i volumi Friggere bene (2009) e Olio: crudo e cotto (2012).

Foto di Gianfranco Maggio

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La visione gastronomica

Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico La cucina è l’arte di combinare gli elementi. Si parte dall’olio extra vergine di oliva estratto a partire da alcune tra le più note e apprezzate cultivar di olivo pugliesi per giungere, attraverso la ricerca di altri ingredienti scelti con ogni cura e coerenti con la nostra più immediata idea di gusto, alla concezione di quattro ricette pensate a partire dai differenti profili sensoriali degli oli monovarietali di Puglia. In questo caso, accanto al prezioso succo di olive, un ruolo di primo piano è stato assegnato, a pieno titolo, alle celeberrime cime di rapa.

di Giuseppe Capano

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01

Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico - G. Capano

Occhiello

Illustrazione di Giulia Serafin

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Gnocchetti con broccoletti e cime di rapa in salsa di pomodoro fiaschetto Ingredienti per 4 persone 250 g di broccoletti verdi in cimette già pulite, 400 g di cime di rapa già pulite, 100 g di fecola di patate, 100 g di farina di riso, 1 cipolla rossa di Acquaviva, 400 g di passata di pomodoro Fiaschetto, Olio extra vergine di oliva monovarietale Cellina di Nardò, Sale. Tempo di peparazione: 35’ Tempo di cottura: 40’ Difficoltà: media

Procedimento 1. Lessare prima i broccoletti per 10 minuti circa in modo da renderli molto morbidi, scolarli con una schiumarola e nella stessa acqua lessare per 5 minuti le cime di rapa pulite, scolarle, intiepidirle e strizzarle dall’acqua in eccesso. 2. Frullare broccoletti e cime di rapa con un pizzico di sale, mettere la crema in una casseruola dal fondo spesso, aggiungere la fecola e la farina di riso, mescolare fino a ottenere una crema uniforme e sempre mescolando cuocerla per circa 5 minuti a calore medio basso fino a ottenere una massa solida unica aggregata su se stessa e gelificata.

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3. Intiepidire, formare con l’impasto dei rotolini simili a grissini e tagliarli in pezzi lunghi mezzo centimetro circa, ottenendo tanti piccoli gnocchetti verdi. 4. Tritare la cipolla rossa e rosolarla con 2-3 cucchiai d’olio per 5 minuti abbondanti a calore medio e pentola coperta, aggiungere la passata di pomodori Fiaschetto, salare e cuocere per 10 minuti circa, in ultimo a fuoco spento unire altri 2 cucchiai di olio a crudo e regolare di sale. 5. In abbondante acqua bollente salata lessare gli gnocchetti per 2-3 minuti, stendere sul fondo dei piatti la salsina di pomodoro e adagiarvi sopra gli gnocchetti caldi scolati con una schiumarola decorando a piacere.


Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico - G. Capano

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Nidi di cime di rapa al profumo di acciughe, mandorle e limone Ingredienti per 4 persone

Procedimento

40 g di mandorle sgusciate e pelate, 800 g di cime di rapa, 8 filetti di acciughe sottolio, 1 cucchiaino di buccia di limone grattugiata, Olio extra vergine di oliva monovarietale Peranzana.

1. Tostare leggermente per 5 minuti a calore basso le mandorle, in una piccola padella a calore basso mescolandole di continuo o nel forno caldo a 160 gradi.

Tempo di peparazione: 20’ Tempo di cottura: 15’ Difficoltà: bassa

2. Una volta pronte raffreddarle completamente e solo dopo tritarle con un coltello, in alternativa frullarle senza renderle troppo fini. 3. Mondare dalla parte finale dura e dalle eventuali foglie più deteriorate le cime di rapa, lavarle con cura e lessarle per 5 minuti circa con poca acqua. 4. Scolarle, intiepidirle, strizzarle leggermente e tritarle grossolanamente, preparare a parte la buccia di limone. 5. Spezzettare le acciughe sottolio e metterle in una padella con 3-4 cucchiai di olio, scioglierle appena, unire le cime di rapa e lasciarle insaporire 5 minuti. 6. Aggiungere la buccia di limone, disporle nei piatti a forma di nido e cospargerle con le mandorle tritate decorando a piacere.

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01

Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico - G. Capano

Occhiello

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Ceciata al forno con cime di rapa, mozzarella e olio Ingredienti per 4 persone

Procedimento

250 g di farina di ceci, 500 g circa di cime di rapa, 2 cipolle bianche di Margherita Igp, 150 g di mozzarella fresca pugliese, Olio extra vergine di oliva monovarietale Cima di Bitonto, Sale.

1. In una ciotola ampia sbattere con una frusta la farina di ceci versando gradualmente 700 ml di acqua fino a formare una pastella senza grumi, salarla leggermente, coprirla e lasciarla riposare 30 minuti.

Tempo di peparazione: 20’ Tempo di cottura: 40’ Difficoltà: bassa

2. Mondare le cime di rapa e lessarle per 5-10 minuti in abbondante acqua, scolarle e raffreddarle. 3. Sbucciare le cipolle, tritarle grossolanamente e in una casseruola dal fondo spesso rosolarle per 10 minuti abbondanti a calore medio basso insieme a 3-4 cucchiai di olio. 4. Aggiungere le cime di rapa tagliate in piccoli pezzi e lasciarle insaporire per 5 minuti, quindi frullare il tutto riducendo in crema e intiepidire. 5. Unire la crema verde alla pastella, rivestire una teglia bassa con carta da forno e distribuire in maniera uniforme l’impasto versando alcune gocce di olio finale in superficie, mettere nel forno caldo a 200 gradi e cuocere per 15-20 minuti. 6. Tagliare in piccoli dadini la mozzarella e qualche minuto prima di fine cottura distribuirla sul tortino, lasciarla sciogliere e leggermente gratinare.

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01

Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico - G. Capano

Occhiello

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Crema dolce di fichi e ricotta con cioccolato fondente profumato all’olio extra vergine Ingredienti per 4 persone

Procedimento

12 fichi maturi verdi, 350 g di ricotta pugliese molto fresca, 2-3 cucchiai di miele, 40 g di cioccolato fondente, 1 cucchiaino di buccia di limone grattugiata, Cannella in polvere, Olio extra vergine di oliva monovarietale Coratina, Sale.

1. Lavare e sbucciare i fichi mettendolo in un bicchiere alto, frullarli brevemente (o meglio schiacciarli finemente con una forchetta) fino a ridurli in purea grossolana.

Tempo di peparazione: 20’ Tempo di cottura: 0’ Difficoltà: bassa

2. Mettere la ricotta in una ciotola insieme al miele e con una frusta iniziare a mescolarla fino a renderla più cremosa e ricca d’aria. 3. Conservare da parte 4 cucchiai abbondanti della purea di fichi e unire i restanti gradualmente alla ricotta continuando a mescolarla. 4. In ultimo insaporire la crema con la buccia di limone e un pizzico di cannella in polvere trasferendola in 4 vasetti o coppette di vetro. 5. Mettere sul dessert la purea di fichi messa da parte, sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente, mescolarlo con alcune gocce di olio extra vergine di oliva e colarlo sulla superficie del dessert.

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01

Le ricette oliocentriche di uno chef oliocentrico - G. Capano

Occhiello

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07 La visione golosa

Ricette oliocentriche di cucina domestica Cosa cambia oggi, rispetto al passato, nelle cucine casalinghe? L’approccio, soprattutto. Lo stile, meno incline a ripetere in modo stantio le consuetudini della tradizione. Ci si fonda in particolare sulla scelta di materie prime di alta qualità, con ingredienti che prediligono leggerezza e digeribilità. In Puglia le materie prime di certo non mancano, e sono molto, ma molto buone; e nemmeno i cuochi mancano, soprattutto quelli non professionisti che si dilettano nelle cucine domestiche, e oggi la passione per i fornelli riguarda anche gli uomini.

di Massimo Occhinegro

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01

Ricette oliocentriche di cucina domestica - M. Occhinegro

Occhiello

Foto di Gianluca D’Aniello

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01 Occhiello

Foto di Gianluca D’Aniello

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Trofie alle triglie Ingredienti per 4 persone 600 g di trofie, 8 triglie di medie dimensioni, 500 g di pomodorini freschi tipo ciliegino (preferibilmente non troppo maturi), aglio, basilico, timo, olio extra vergine di oliva, sale, pepe, un cucchiaio di amido di mais

Procedimento Pulire bene le triglie e sciacquarle sotto acqua corrente. Sfilettarle, facendo attenzione a evitare che le spine si stacchino dalla lisca. Si deve cercare di togliere la lisca intera. Si pongono le triglie sfilettate in una coppetta per poi lasciarle da parte. Nel frattempo in una teglia abbastanza capiente si versa un po’ di olio extra vergine di oliva unitamente all’aglio da far dorare a fuoco medio, per poi toglierlo. Successivamente si pongono, sempre nella teglia, i pomodorini lavati e tagliati, girando lentamente. Si fanno appassire, ma non troppo, in modo da dare al sughetto un sapore più “fresco”. Si versa un cucchiaio di amido di mais che servirà per rendere il sughetto più denso e atto ad avvolgere le trofie.

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Si pongono infine i filetti di triglia con il basilico fresco tagliato e il timo. Si cuoce a fuoco moderato girando di tanto in tanto, fino a quando le triglie non saranno diventate bianche. Si passa alla cottura della pasta, le trofie, seguendo i tempi di cottura, per poi scolarla un paio di minuti prima dei tempi prescritti. Si lascia un minimo di acqua di cottura che servirà per rendere più “pastoso” il sughetto. Si versano le trofie appena scolate nella stessa pentola di cottura, mettendole a fiamma media e versando il sughetto. Si gira, ultimando fino a completare con i due minuti restanti di cottura previsti. Si serve.


Ricette oliocentriche di cucina domestica - M. Occhinegro

Foto di M. Occhinegro

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Foto di M. Occhinegro


Ricette oliocentriche di cucina domestica - M. Occhinegro

Capesante gratinate Ingredienti per 4 persone 12 capesante, olio extra vergine di oliva dal fruttato medio q.b., pangrattato, maggiorana, timo, prezzemolo, sale, pepe, un bicchiere di vino bianco fermo

Procedimento Pulire bene le capesante, staccandole dal guscio e togliendo la sacca grigiastra. Sciacquarle con abbondante acqua. Ricomporle su una teglia, dove in precedenza è stata collocata della carta da forno.Si sistemano su ciascuna capasanta tutte le spezie, salandole e pepandole. Si versa dell’olio extra vergine di oliva. Infine si sparge il pan grattato, in modo tale da coprire il frutto delle capesante. Infine, si versa uniformemente del vino bianco e si inforna a 200 gradi (ventilato), cuocendo per 15 minuti, fino a quando non si nota la doratura del pangrattato. Si lasciano stemperare con forno aperto per 5 minuti e si servono.

Massimo Occhinegro, tarantino, è un economista, considerato tra i massimi esperti di marketing internazionale applicato agli oli da olive. Lavora come consulente per un’impresa olearia pugliese. 73


L

a tavola più ricca, senza olio d’oliva mostra solo la propria appariscenza, simile al fallimentare protagonismo di quelle donne che vanno in società troppo cariche di gemme e pendagli. Viceversa, nessun piatto sarà povero se a portata di mano c’è un contenitore di vetro con dentro il prezioso fluido smeraldino. Se la vera nobiltà è quella d’animo, l’olio d’oliva a fior di palato ne è una delle più belle incarnazioni.

Nicola Lagioia Scrittore

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08 La visione archeologico-industriale

La produzione storica dell’olio in Puglia Un itinerario di turismo industriale fra trappeti e oleifici

Antonio Monte Nato a Carmiano (Lecce) nel 1960, è architetto e archeologo industriale. Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (Cnr-Ispc), insegna Scienza, conservazione e restauro architettonico dei patrimoni all’Università della Basilicata. 76


La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

Foto di Gianfranco Maggio

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La Produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

Il vero problema dei tanti monumenti dell’industria alimentare non è tanto il recupero in sé, quanto il tenerli in vita, il farli entrare nelle abitudini culturali della gente, esattamente come un’opera d’arte o un museo. Tali luoghi - e soprattutto le loro “macchine/congegni”, elementi fondamentali per lo svolgimento del processo di produzione - diventano oggetti privilegiati di tutela, recupero e conservazione, quale testimonianza viva e diretta di una grande civiltà.


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La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

Luoghi Carta di distribuzione dei trappeti e oleifici con l'itinerario di visita

(Elaborazione Pasquale Merola, CNR-ISPC, 2020).

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La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

L’industria dell’estrazione dell’olio dalle olive avveniva prima nei trappeti (dal latino trapetum) e, successivamente, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, nei moderni stabilimenti oleari. Eustachio Mingioli, docente di Industrie Agrarie alla Regia Scuola Superiore di Agricoltura di Portici e direttore del Regio Oleificio Sperimentale annesso alla scuola, osservava che: “Lo stabilimento destinato all’estrazione degli oli dalle olive porta il nome classico per eccellenza di TRAPPETO, che deriva dal greco Τραπες o τραπητὸν e dal latino trapetum, nomi adottati sino da antichissimi tempi per indicare l’officina olearia rustica. Ma nella moderna manifattura, potrebbesi invece sostituire il

nome, meno classico, ma più italiano di OLEIFICIO, molto più adatto allo scopo ed all’ufficio che lo stabilimento compie in ordine alla propria industria”(Mingioli 1901). Or ig inar iamente, le olive si molivano nel trapetum, una mola per schiacciare le olive, descritto minuziosamente da Catone e inventato, secondo un’antica tradizione, dall’ateniese Aristèo. Con il termine trapetum, i romani indicavano una macchina dove si separava il nocciolo dalla polpa. Questo “ordigno” frangeva la polpa dell’oliva e la separava dal nocciolo; la pasta delle olive (sampsa) così ottenuta veniva estratta dal bacino del trapetum facendo fuoriuscire tutta la morchia (amurca) (Figure 1-2).

Immagini tratte da: Domenico Grimaldi, Memoria sulla economia olearia antica e moderna e sull’antico frantoio da olio, Stamperia Reale, Napoli 1783 Figura 1 Pianta e sezioni di una Stanza antica scoperta a Gragnano nel podere detto Casa di Miri, per uso del magistero dell’olio, 1779-1780; Tavola I

Figura 2 Sezione della metà della vasca del Molino da olio, compresa quella di una delle sue ruote; Tavola II

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Un altro “ordigno oleario” veniva utilizzato in età romana: la mola olearia (molino da olio); essa, consisteva in due pietre molari cilindriche, posizionate in senso verticale su una pietra dormiente e imperniate ad un albero centrale. Questo “ordigno” fu il prototipo dei frantoi a macelli che vennero utilizzati in epoche successive (Grimaldi, 1783). Le strutture produttive, da nord a sud e isole, erano note come: molini da olio; torchi da olio o frantoi da olio; in modo particolare, nel sud sono conosciuti come trappeti. Solo in età industriale si iniziò a parlare di officina olearia, oleifici moderni o stabilimenti oleari. Durante la fase iniziale dell’industrializzazione, legata ai primi sviluppi tecnologici, risultava molto scarso l’utilizzo della forza motrice meccanica per alimentare le macchine impiegate nel ciclo produttivo; invece si faceva ancora largamente uso di metodi di lavorazione tradizionali, già utilizzati in età preindustriale: la forza motrice idraulica (a mezzo di ruota) e quella mossa dalla forza animale e “a braccia” d’uomo. Questi ultimi erano noti come trappeti “a sangue” (o “a tiro”) perché, gli “ordigni olea-

ri” (la grande mola e i torchi) venivano azionati da forza “animata”, cioè da un animale (asino, mulo, bue, cavallo che movimentava le mole) e da uno o più uomini, che azionavano gli strettoj (Figura 3). “Luoghi del lavoro” che possono farsi risalire già al periodo tardo medioevale, sino ad arrivare all’età moderna quando si ebbe la loro massima diffusione su quasi tutto il territorio pugliese e nazionale. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento sino ai primi anni del secolo successivo, iniziano a diffondersi gli stabilimenti oleari dotati di una moderna attrezzatura tecnica azionata con forza meccanica: motori azionati da energia a vapore e idraulici. Però, anche dopo la comparsa degli stabilimenti a vapore, nelle zone dove maggiormente era presente l’olivicoltura, si concentravano una cospicua quantità di trappeti e una minore diffusione di moderni oleifici; strutture ipogee, semipogee e fuori terra, dove si svolgeva il processo di produzione dell’oro liquido; così chiamato in alcune regioni perché, la produzione dell’olio, costituiva la principale risorsa economica della popolazione.

Figura 3 Trappeto a sangue; Tavola I (da Domenico Grimaldi, Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nel Regno di Napoli dal Marchese Domenico Grimaldi di Messimeri, Vincenzo Orsino, Napoli 1777)

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La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

I molini da olio idraulici erano presenti, prevalentemente, in Terra di Capitanata e, in particolare nei comuni di Carpino, Bovino (con 9 trappeti), Serracapriola (con 6), Torre Maggiore (con 5), Ischitella, Chieuti ed altri. Rarissimi esempi si trovavano in Terra di Bari. Nel 1884, l’Annuario Pugliese riporta 1754 strutture produttive fra trappeti e stabilimenti oleari; questi ultimi erano distribuiti, prevalentemente, nella provincia di Bari: “Oggi, grazie all’intelligenza, all’attività e alla energia non comune di Pietro Ravanas, che superando difficoltà d’ogni sorta, introdusse nuovi metodi d’oleificazione, la provincia di Bari può porsi ad esempio per la fabbricazione dell’olio. I trappeti moderni non lasciano nulla a desiderare, e gli antichi, già in parte modificati, vanno sempre più smettendosi, in modo che la oleificazione si fa sempre più perfetta.” (Mele, 1884). Questo - purtroppo - non accadeva nella provincia di Terra d’Otranto (le attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto, con i suoi quattro circondari: Gallipoli, Lecce, Brindisi e Taranto), dove l’estrazione dell’olio veniva eseguita “nei frantoi, la maggior parte dei quali è di antico sistema, detti “alla calabrese”. I trappeti, prevalentemente ipogei e pochi semipogei erano 900; mentre, 300 erano di “nuova costruzione”, cioè quelli in cui stava avvenendo un’importante svolta tecnologica: il passaggio dai torchi in legno (a due viti del tipo “alla calabrese” e a una vite “alla genovese”) agli strettoj (torchi) di ferro a vite. Ed infine, 40 mossi da energia a vapore presenti nei comuni più importanti come Brindisi, Gallipoli, Taranto, Manduria, Massafra, Maglie, Francavilla Fontana, Ostuni, Ceglie Messapica, ecc. (Figura 4). Il dato numerico che riporta il Mele relativo alla Terra d’Otranto risulta inesatto; da una Statistica della Camera di Commercio ed Arti della provincia di

Terra d’Otranto si evince che, tra il 1876 e il 1880, erano in attività 1743 strutture produttive: 1631 trappeti e 130 stabilimenti a vapore (Mastrolia, 1996). Giova ricordare che nel 2020 ricorreva il 150° anniversario della morte di Pierre Etienne Toussaint Ravanas, avvenuta a Marsiglia l’11 giugno del 1870. Figura di spicco nel panorama del processo di rinnovamento dell’olivicoltura pugliese della prima metà dell’Ottocento (De Stefano, 1979); egli contribuì ad avviare una nuova fase di meccanizzazione con un’importante innovazione tecnologica legata al processo di produzione dell’olio. Ravanas sosteneva che il metodo di lavorazione delle olive utilizzato in Puglia e in altre regioni meridionali, fosse alquanto primitivo e inadatto ad ottenere un olio “fino”; quindi fece costruire, in alcuni comuni pugliesi (Massafra, Monopoli, Modugno, Giovinazzo, Conversano, Bitonto, ecc.), dei moderni stabilimenti oleari costituiti da un frantoio con due macelli di misura differenti, tre torchi di legno a una vite del tipo “alla genovese” per la prima spremitura e torchi idraulici per l’ultima spremitura. Di queste innovazioni però, solo l’utilizzo delle doppie mole venne accolto favorevolmente, mentre la diffusione dei torchi idraulici incontrò non poche difficoltà “L’ignoranza di non pochi proprietari di Oliveti, non ha fatto loro riconoscere la superiorità dei torchi idraulici sui torchi di legno: perché veggono uscire dai primi la pasta di ulive, benché premuta, ancora umida esternamente; secca poi, almeno in apparenza, dai secondi” (Ravanas, 1845; Ricchioni, 1938; Carrino, Salvemini, 2003). Dagli Annali di statistica industriale del 1889-1891, risulta che in Puglia erano attivi 2104 frantoi da olio azionati “a forza” di uomini o di animali, oppure “a forza” meccanica. 85


Figura 4 Pianta e prospetto dell’Oleificio a vapore di Giuseppe Elia premiato con Medaglia d’oro all’Esposizione di Milano, 3 ottobre 1881 (da L’Oleificio di Giuseppe Elia, Forzani e C., Tipografi del Senato, Roma 1884)

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In provincia di Foggia vi erano 199 trappeti: dei quali 172 mossi “a braccia” o col sussidio di animali; 26 idraulici e 1 a vapore. La provincia di Bari contava 850 trappeti: 783 a forza animale; 67 a forza meccanica con forza motrice a vapore e forza motrice idraulica. In Terra d’Otranto vi erano 1055 trappeti: 989 a forza di uomini e di animali e 66 a forza meccanica a vapore. Dalle Notizie sulle condizioni industriali del Regno, del 1905-1906, ri-


La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte

sulta che per l’estrazione dell’olio da olive, in Puglia erano in attività 2701 così distribuiti: in provincia di Bari 1244; in quella di Foggia 402 e in quella di Lecce (con Brindisi e Taranto) 1055. È impossibile pensare che in Terra d’Otranto, nei primi anni del Novecento ci fosse lo stesso numero di strutture produttive rilevate dal censimento di fine Ottocento/primi del Novecento. Numerosissima era la presenza sui territori comunali di trappeti ipogei, semipogei e oleifici a vapore; essi sfioravano

quasi le 2 mila unità. Sicuramente, il numero dei “frantoi da olio” era maggiore di quello riportato nella Statistica industriale, perché molti proprietari avevano trappeti o piccoli oleifici destinati unicamente all’estrazione dell’olio dalle olive delle loro proprietà, pertanto, non essendo utilizzati per conto terzi, non venivano rilevati durante il censimento. L’olio prodotto nelle regioni meridionali, in particolare quello calabrese e pugliese, era di scarsissima qualità, perciò esportato in diverse nazioni dell’Europa settentrionale e usato “[…] per le fabbriche de’ panni di Lana, e del Sapone […]” (Grimaldi, 1777) e per l’illuminazione. Infatti, dal secolo XVI sino alla seconda metà del secolo XIX, Gallipoli - che aveva il secondo porto più importante del Regno di Napoli - fu la più rilevante piazza commerciale europea per l’esportazione dell’olio per uso industriale. In Puglia, così come in tutte le altre regioni del sud, era presente solo una tipologia di trappeto: quello “alla calabrese”; solo dopo il 1768 si diffuse quello del tipo “alla genovese”, in uso nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale. Pertanto, nel Regno di Napoli, a partire dall’ultimo quarto del XVIII secolo si ebbe una svolta tecnologica importante: si passò, con tanta difficoltà e diffidenza da parte dei proprietari dei trappeti, alla costruzione di “trappeti a sangue alla genovese” con l’introduzione e l’uso dello strettojo genovese per la prima spremitura, che conviveva con il torchio a due viti “alla calabrese” utilizzato solo per la seconda e terza spremitura. Solo a distanza di circa mezzo secolo, a partire dagli anni venti dell’Ottocento, furono introdotte le innovazioni tecnologiche del già ricordato Ravanas. Sia il trappeto del tipo “alla calabrese” che quello del tipo “alla genovese” erano costituiti da due principali ordigni: cioè dei macchinari, uno frangente e uno premente. 87


Il primo serviva per schiacciare le olive: una vasca per la molitura con macina verticale o frantoio a macelli; il secondo, per spremere la pasta d’olive ricavata dalla frangitura: vari tipi di torchi o strettoj in legno o ferro e presse idrauliche. In età preindustriale, per la molitura, erano utilizzati frantoi costituiti da una grande vasca (in pietra locale) con una mola (macello o macina) e, successivamente, con due o tre pietre molari e, in alcuni casi, anche quattro; azionati, come già accennato, da forza animale o da forza idraulica (Figure 5-6). Per l’estrazione dell’olio, i diversi ordigni utilizzati erano: il torchio in legno a due viti del tipo “alla calabrese”; quello a una vite del tipo “alla genovese” e le batterie (o tutte in legno; oppure in legno, pietra e ferro) congegni, tutti azionati con l’ausilio di un argano (Figure 7-8-9-10). Con l’età industriale compaiono i primi moderni oleifici con frantoi, strettoj (o torchi a vite in ferro) e torchi idraulici (o presse per fiscoli). Il frantoio era costituito da una base in muratura (o in laterizi) su cui poggia la vasca (pila o conca), costituita da una grossa pietra orizzontale (dormiente, detto letto della pila) su cui poggiano due o tre macelli (o mole o macine) sostenuti da un albero (o colonnetta) imperniato al centro della vasca. Essa è accerchiata tutt’intorno da un orlo che la racchiude; al centro c’è un asse in ferro che congiunge le macine su cui viene inserita una leva (stanga, in legno o ferro) che permette il movimento delle mole a mezzo di forza animale e, in seguito, con trasmissione a vapore e poi, a motore elettrico: quindi, “a forza” inanimata. Il movimento poteva essere con movimento diretto a stanga; “a maneggio” di sopra o di sotto; con trasmissione

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Figura 5 Presicce (LE). Trappeto semipogeo SeraccaGuerrieri; vasca con una macina (Proprietà G. Seracca-Guerrieri. ©Antonio Monte, 2019)


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di sotto a vapore; con movimento di sopra o di sotto a motore (Figura 11). Successivamente, iniziano ad essere utilizzati moderni frantoi a macelli, a macine per lo più multiple (due o tre) di granito (o di pietra calcarea) che poggiavano su una base orizzontale, anch’essa di pietra dura; tutto era conte-

nuto all’interno di un orlo in lamiera di ferro, oppure di ghisa poggiante o su muratura o su piedistalli in ferro alti 40-50 centimetri (Figura 12).

Figura 6 Muro Leccese (LE). Trappeto semipogeo Maggiulli; vasca con tre macine (Proprietà R. D’Aurelio. ©Antonio Monte, 2010).

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Figura 7 Galatone (LE). Trappeto ipogeo di Piazza San Sebastiano; torchi a due viti del tipo “alla calabrese” (Proprietà Comune di Galatone. ©Antonio Monte, 2014).

Figura 8 Martignano (LE). Trappeto semipogeo di Palazzo Palmieri; torchio a una vite del tipo“alla genovese” (Proprietà Comune di Martignano. ©Antonio Monte, 2009).

Figura 9 Grottaglie (TA). Trappeto ipogeo Dormiente; batteria di torchi a una vite del tipo “alla genovese” (proprietà A. Lenti. ©Antonio Monte, 2018).

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Figura 10 Caprarica di Lecce. Trappeto De Rinaldis; batteria di torchi a una vite del tipo “alla genovese” in legno, ferro e cappello in pietra (Proprietà A. De Rinaldis. ©Antonio Monte, 2020). Figura 11 Martano (LE). Trappeto ipogeo Turi; frantoio a tre macelli con movimento di sopra a motore (Proprietà M. Turi. ©Antonio Monte, 2009). Figura12 Maglie (LE). Oleificio Cortidroso; frantoi a due macelli su base orizzontale con orlo in lamiera di ferro, poggiante su piedistalli in ferro con movimento di sotto a motore (Proprietà G. Tamborino Frisari. ©Antonio Monte, 2013).

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Gli strettoj sono a due, tre o quattro colonne: per la bassa pressione, con movimento “a leva” semplice con stanga; per l’alta pressione con movimento a cricco o, meglio ancora, “a leva” multipla o “a leva” multipla con ingranaggio o apparato acceleratore (Figure 13-14). Anche i torchi (o presse) idraulici (fondati sul principio della trasmissione delle pressioni per mezzo dei liquidi) sono a due, tre o quattro colonne. Possono essere del tipo con pistone semplice o con pistoni differenziali con guida centrale, montati con o senza gabbie metalliche (forata), con lo scarico automatico della sansa dalla gabbia dopo la pressatura. Le presse erano dotate di pompe e di accumulatori (Figure 15-16-17). 94

Figura13 Latiano (BR). Trappeto in via Tenente A. Spinelli; strettoj in ferro (Proprietà vari eredi. ©Antonio Monte, 2007).

Figura14 Patù (LE). Stabilimento oleario di Palazzo Pedone; strettoj in ferro (Proprietà eredi Pedone. ©Antonio Monte, 2016).


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Diverse erano le aziende italiane che hanno costruito frantoi, torchi in ferro, presse e superpresse idrauliche; tra esse vanno ricordate: la ditta “A. Calzoni” di Bologna; la “Società Ing. P. Veraci” (Figura 18), la “S. A. Pignone-Officine Meccaniche e Fonderia”, le “Officine Galardi S. A.” di Firenze; la ditta “C. & T. T. Pattison” e Luigi Oomens di Napoli; la G. Lindemann, F. De Blasio, G. Lopez & C., Gestaro-Rossi & C. (Figura 19), N. Biallo e la Ditta Amenduni & C. di Bari; la V. Vitone di Bitonto; la ditta G. Pieralisi di Jesi, che acquisì la Veraci; la ditta “Premiate Officine Meccaniche-Fonderia in ghisa e bronzo F.lli Mari” di Lanciano (Chieti) e la Camplone di Pescara. Come per tutti i beni archeologici industriali, anche per le strutture produttive olearie la migliore soluzione conservativa è il riuso. Riuso in questo caso vuol dire recuperare il bene nella sua identità storica per attivarlo come contenitore culturale o come luogo inserito in un circuito museale in cui sia 96

ricostruita fedelmente l’antica “arte” di questo singolare processo industriale. Il crescente interesse verso la conoscenza e il recupero della “memoria del lavoro” e delle tradizioni locali ha portato, grazie ad un lungo e meticoloso processo di patrimonializzazione durato oltre un decennio, ad una consistente realtà territoriale di progetti mirati alla conservazione, valorizzazione e fruizione di questa tipologia di beni del patrimonio industriale. In realtà, il vero problema di questi monumenti dell’industria alimentare non è tanto il recupero in sé quanto il “tenerli in vita”, il farli entrare nelle “abitudini” culturali della gente, esattamente come un un’opera d’arte, un museo o altro. Questi luoghi - e soprattutto le loro “macchine/congegni”, elementi fondamentali per lo svolgimento del processo di produzione - diventano oggetti privilegiati di tutela, recupero e conservazione, come testimonianza viva e diretta della civiltà contadina.


La produzione storica dell’olio in Puglia - A. Monte Figura 15 Squinzano (LE). Oleificio di Palazzo De Filippis; presse idrauliche e pompa (Proprietà G. De Filippis. ©Antonio Monte, 2017). Figura 16 Andria (BT). Oleificio della tenuta Terre di Traiano; presse idrauliche con gabbia (Proprietà N. Spagnoletti Zeuli. ©Antonio Monte, 2017). Figura 17 Maglie (LE). Oleificio Cortidroso; batteria di superpresse (Proprietà G. Tamborino Frisari. ©Antonio Monte, 2013).

Figura 18 Andria (BT). Oleificio della tenuta Terre di Traiano; impianto completo della “Società Ing. P. Veraci” di Firenze (Proprietà N. Spagnoletti Zeuli. ©Antonio Monte, 2017).

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Figura 19 Caprarica di Lecce. Oleificio di Palazzo Lubelli; presse idrauliche delle ditte“Gestaro-Rossi & C.” e Amenduni & C. di Bari (Proprietà eredi Lubelli. © Antonio Monte, 2020).

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Molte amministrazioni comunali, associazioni culturali e dei privati della provincia di Lecce; alcuni comuni delle altre province pugliesi e qualche privato, hanno promosso una meticolosa attività, prima di sensibilizzazione e poi di recupero delle strutture olearie; questo grazie ai finanziamenti comunitari (Programma Operativo Plurifondo, Programma Operativo Regionale, Leader-Gruppi di Azione Locale, ecc.) oppure, per i privati, con risorse proprie. Nel Salento, attiva è stata l’opera di recupero e restituzione alle comunità locali di questi manufatti, prevalentemente tutti ipogei, alcuni semipogei e

Figura 20 Melpignano (LE). Trappeto ipogeo in via Roma (Proprietà Comune di Melpignano. ©Antonio Monte, 2017).

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qualche oleificio; tra essi vanno ricordate le strutture produttive ubicate nei nuclei storici dei comuni di Gallipoli, Sternatia, Vernole, Martano, Veglie, Tuglie, Giurdignano, Presicce, Acquarica del Capo, Gagliano del Capo, Muro Leccese, Cannole, Giuggianello, Melpignano, Magliano, Maglie, Ugento, Borgagne ed altri (Figure 20-21-22-23-24-25). Oggi i trappeti e gli oleifici storici sono considerati a tutti gli effetti monumenti e quindi "beni culturali industriali" e sono inseriti nei circuiti turistici nazionali. La Regione Puglia, con il Programma Operativo Plurifondo (P.O.P. 1994-1999) istituì, a livello regionale, le Strade dell'olio d'oliva nelle quali vennero inseriti i trappeti recuperati, le elaioteche, i moderni stabilimenti oleari. Il Programma era il Fondo FEOGA “Valorizzazione e promozione dei prodotti agroalimentari tipici regionali di qualità”, promosso dall'Assessorato all'Agricoltura, Alimentazione, Foreste, caccia e Pesca -Settore Agricoltura, con Delibera di Giunta Regionale n° 4398 del 29 dicembre 1998. Nelle tradizionali cinque province vennero istituite otto Strade dell'olio: una in provincia di Foggia denominata Strada dell’olio extra vergine d’oliva Dop Dauno. Tre in quella di Bari: la Strada dell’olio extra vergine d’oliva Castel del Monte; la Strada dell’olio extra vergine d’oliva Terra d’Ulivi e la Strada dell’olio extra vergine d’oliva Dop Murgia dei Trulli e delle Grotte. Mentre nella provincia di Brindisi è stata creata la Strada dell’olio extra vergine d’oliva Dop Collina di Brindisi; invece, in provincia di Lecce sono state istituite due strade: la Strada dell’olio extra vergine di oliva Jonica – Antica Terra d’Otranto e la Strada dell’olio extra vergine di oliva Adriatica – Antica Terra d’Otranto; infine, una in quella di Taranto: la Strada dell’olio extra vergine d’oliva Dop Terra d’Otranto. Purtroppo il Fondo FEOGA, istituito per


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Figura 21 Tuglie (LE). Trappeto semipogeo Marulli (Proprietà Comune di Tuglie. ©Antonio Monte, 2008).

Figura 22 Maglie (LE). Trappeto ipogeo di largo Foggiari (Proprietà Comune di Maglie. ©Antonio Monte, 2014).

far conoscere, promuovere e valorizzare i prodotti tipici regionali, in questo caso l’olio e il vino con l’istituzione de Le strade del vino e le strade dell’olio di oliva, non ha ottenuto i risultati attesi; dopo qualche anno dalla loro realizzazione, di queste Strade non se ne parlò più. Le numerose azioni che il Fondo prevedeva erano rivolte alla qualificazione e valorizzazione delle produzioni tipiche attraverso la certificazione di qualità e il riconoscimento dei marchi Dop e Igp; alla promozione dei prodotti tipici attraverso tutte le forme pubblicitarie; all'organizzazione del sistema commerciale con aiuti rivolti ai consorzi di tutela e valorizzazione e agli organismi commerciali; e infine, all'istituzione di itinerari turistici enogastronomici e dell’olio. Tra questi interventi, particolare rilevanza dovevano avere l’istituzione di nove Strade del vino e di otto Strade dell’olio extra vergine di oliva per i riflessi che la stessa azione avrebbe dovuto avere per i due più importanti comparti dell’economia agricola pugliese. 101


La Regione Puglia, attraverso l’istituzione delle strade del vino e dell’olio extra vergine di oliva, voleva agevolare lo sviluppo economico e culturale delle zone rurali attraverso la valorizzazione e la promozione dei prodotti tipici dell’agricoltura e dell’artigianato nonché favorire anche la maggiore fruibilità del patrimonio artistico, storico, culturale e paesaggistico delle tradizionali aree viticole ed olivicole del territorio regionale. Si trattava di percorsi a carattere enologico, gastronomico e turistico intesi a tutelare e valorizzare un territorio rurale a prevalente vocazione viticola e olivicola, sul quale si possono incontrare vigneti, oliveti, aziende viticole ed olivicole, cantine, trappeti e oleifici aperti al pubblico, enoteche, elaioteche, nuclei e centri abitati caratteristici, attrattive culturali, naturalistiche e ricreative, osterie e ristoranti tipici, locande, aziende agrituristiche e botteghe artigiane. Un’occasione perduta per inserire i nostri beni industriali in un itinerario turistico, storico e culturale d’eccellenza. Come anche quella di realizzare, in Puglia, un Museo dell’olio che “racconti” la storia di questo straordinario prodotto, così come è stato fatto in altre regioni. Basti ricordare, solo per citare alcuni esempi: il Moo-Museo dell’olivo e dell’olio di Torgiano (Perugia) della Fondazione Lungarotti; il Museo dell’olio d’oliva a Cisano di Bardolino (Verona) della famiglia Turri; il Museo dell’olivo Carlo Carli a Oneglia-Imperia; il Museo di storia dell’arte olearia d’Abruzzo a Loreto Aprutino (Pescara); il Museo all’aperto dell’olio a Brisighella (Ravenna), una sorta di ecomuseo della produzione dell’olio; il Museo dell’Olio di Palazzo Montesano a Chiaramonte Gulfi (Ragusa); il Museo Agorà Orsi Coppini a San Secondo Parmense (Parma) della famiglia Coppini. 102

Figura 23 Felline (LE). Trappeto ipogeo di via Immacolata (Proprietà Comune di Alliste. ©Antonio Monte, 2016).


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È assurdo far osservare che nel parmense non vi è un albero di olivo, però c’è il museo; in Puglia ci sono paesaggi olivetati, però non c’è un museo dedicato alla cultura dell’olio. Nonostante ciò, in questi ultimi decenni la Puglia ha acquisito uno spazio dignitoso in tema di archeologia industriale e patrimonializzazione (Bergeron, 2008; Fontana, 2008; Covino, 2011) delle fabbriche, dei siti e dei paesaggi, tanto da poter individuare, in alcuni centri urbani dei veri e propri “paesaggi della produzione”: dell’olio; del vino; dell’alcol; del grano e della pasta; ecc. Quest’azione è stata in parte realizzata, grazie alla sensibilità degli enti locali e di alcune aziende che hanno cercato di attivare un processo di patrimonializzazione che in molti casi ha permesso di proporre al viaggiatore itinerari culturali per un turismo industriale di qualità, attraverso la visita alle originarie strutture (trappeti e stabilimenti oleari, molini e pastifici, stabilimenti vinicoli, distillerie e liquorifici, magazzini di lavorazione del tabacco, concerie, cave, ecc..) produttive recuperate e rifunzionalizzate, contribuendo così ad attivare un processo di sviluppo locale e marketing territoriale. Grazie a questa procedura, sul territorio della Puglia si sta cercando di delineare un itinerario storico culturale, mirato a valorizzare un prodotto (l’olio) che ha caratterizzato per secoli, dal punto di vista economico e sociale, la regione.

Il percorso comprende la visita sia ad aziende storiche (che da quattro/cinque generazioni continuano ad essere ancora produttive), sia ad alcuni siti patrimonializzati e utilizzati come spazi per attività culturali, mostre, convegni e alcuni destinati, grazie alla presenza al loro interno delle macchine, ad illustrare il processo storico di produzione dell’olio*.

Figura 24 Cannole (LE). Oleificio Villani (Proprietà eredi Villani. ©Antonio Monte, 2012).

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Figura 25 Martano (LE). Oleificio Libertini (Proprietà D. Scordari. ©Antonio Monte, 2016).

* Desidero ringraziare le Amministrazioni comunali e tutti i proprietari che mi hanno permesso di studiare e documentare i trappeti e gli oleifici.


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09 La visione storica

Bitonto, città dell’olivo e dell’olio L’olio da olive Cima di Bitonto, da secoli riconosciuto come l’olio fine per antonomasia, appartiene alla storia. La rivoluzione in quest’area della Puglia arrivò nel 1828, con il francese Pierre Ravanas. Altrettanto importante la presenza, nel 1835, di Felice Garibaldi, conosciuto e apprezzato nelle vesti di assaggiatore, selezionatore e commerciante di oli di qualità, oltre che come fratello del più celebrato Giuseppe, il generale e condottiero, l’«eroe dei due mondi». Tutto il resto? È noto a tutti.

Dora Desantis

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Bitonto, città dell’olivo e dell’olio - D. Desantis

01 Occhiello

foto di Gianfranco Maggio

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Bitonto, città dell’olivo e dell’olio - D. Desantis

Anche se nella Terra di Bari molte grandi città fondano la propria economia sull’olivo, Bitonto le rappresenta tutte in modo emblematico, poiché è il centro in cui l’olivicoltura è più specializzata e la pianta dell’olivo, e l’olio “fine” ad uso alimentare, costituiscono un volano economico quasi esclusivo, un vero e proprio culto. Primeggia l’olio da olive Cima di Bitonto, da secoli riconosciuto come l’olio fine per antonomasia. Ero bambina quando uno dei primi miei ricordi rimanda alle parole di mio padre, che ripeteva: “le olive di Bitonto raccolte al giusto grado di maturazione, e molite bene, danno un olio insuperabile”. Questi concetti erano noti sin dai tempi antichi, tanto che nel 1933 Enrico Pantanelli e Vincenzo Brandonisio, in una monografia sull’olio di Bitonto, ricorsero a queste parole: “L’olio di Bitonto si è ormai fatta una fama mondiale. Fino a pochi anni or sono sui bollettini dei prezzi, in Italia come in America, la marca Bitonto eguagliava, o batteva, l’olio di Lucca e di Provenza. E non a torto. L’olio di Bitonto, fatto onestamente, con la sola paesana, allevata sulla roccia calcarea, ha pregi insuperabili nel colore, nel sapore e nella pronta maturazione. Il colore è caratteristico, giallo chiaro brillante, con una leggerissima sfumatura in verde, mai rossastro, né grigio. Il sapore poco fruttato rende accetto l’olio di Bitonto ai palati settentrionali, cui dà fastidio il sapore dell’oliva; è dolce, fine, e in poche settimane perde l’acerbità del frutto”. Per i bitontini l’importanza dell’olivo e dell’olio è testimoniata da antiche leggende, citazioni, emblemi e simboli legati all’olivo. Ricordiamo l’albero di olivo, e soprattutto il motto, attribuito all’imperatore Federico II, “Ad pacem promptum designat oliva Botontum”, ovvero “L’olivo designa Bitonto a proporre la pace”, parole riportate Illustrazione di Doriano Strologo

nello stemma del gonfalone cittadino. Da sempre l’ulivo è il simbolo di Bitonto e la sua coltivazione, in questa terra, comincia tra l’VIII e il V secolo a.C. Già nel III sec. a.C. Bitonto batteva moneta propria e su una di queste era rappresentato da un lato la civetta sul ramo d’olivo e, dall’altro, un fascio di fulmini, sopra e in basso, il testo BYTON-TINΏN.

Il ramo di ulivo che si scorge sulle monete rappresenta il prodotto principale del territorio. La stessa pianta era dedicata a Minerva, la dea venerata presso i bitontini che le avevano dedicato un tempio sito proprio dove ora si erge la chiesa di San Pietro in Vincoli. Il fascio di fulmini sul retro della moneta testimoniava la dimensione politica di Bitonto, e starebbe a evidenziare la potenza e il dominio che la città aveva sui territori circostanti. 111


A Bitonto era presente un incredibile numero di frantoi urbani e rurali. Nel 1815, come riportato nel Catasto Murattiano, ne erano censiti 70, che cresceranno in pochi anni fino a 200; nel 1864 su 176 opifici, tra frantoi e cantine della Terra di Bari, ben 119 (il 67%) erano frantoi di Bitonto, ove era a tutti nota la strada dei trappeti. Il toponimo “Lama”, di macina, individuava la località dove si cavava la pietra nera di Bitonto, un calcare dolomitico di eccezionale durezza, ideale per la produzione delle pesantissime macine (o molazze), indispensabili a fornire l’elevato numero di frantoi che ne faceva richiesta. In questo contesto è possibile collocare la Terra di Bari quale centro di commerci mediterranei di oli di qualità a partire dal tempo degli antichi romani, per proseguire con i veneziani, il periodo svevo-angioino a cui risale il trappeto medioevale impiantato a Giovinazzo dalla famiglia Rufolo di Ravello, fino a giungere ai più recenti secoli delle relazioni commerciali che legano questa terra adriatica alle regioni del sud della Francia, Costa Azzurra e Provenza. A sconvolgere un sistema di raccolta millenario, che prevedeva la maturazione delle olive e la raccolta da terra delle drupe, con notevole perdita delle qualità organolettiche, fu un intraprendente francese, Pierre Ravanas, giunto a Bari nel 1826. Ravanas proprio a Bitonto avviò una rivoluzione tecnico-economica, quando nel 1828, superando diffidenze e pregiudizi, inventò e impiantò il suo primo torchio idraulico per una più efficiente e rapida pressatura della pasta d’olive. Nel gennaio del 1828 ottenne in comodato gratuito, per dieci anni, l’antico trappeto dell’Universitas nei pressi del Torrione Angioino. Modificò la macina di tipo pugliese con l’inseri-

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mento di una mola di dimensioni differenti dalla prima, nonché applicando una specie di spatola per permettere alle olive, schiacciate e spinte all’esterno della “vasca”, di essere riportate sotto le mole. Introdusse il torchio idraulico, che dopo qualche anno dal suo primo utilizzo divenne, con la consapevole riconoscenza degli operatori locali (foto Aprile, 1943), il migliore metodo di estrazione, tanto che l’olio prodotto, con una molitura 3-4 volte più veloce, veniva pagato dallo stesso Ravanas il doppio di quello ottenuto con il torchio comune. Dopo pochi anni, ben 120 frantoi lavoravano l’olio alla “francese”, dotati dunque del torchio idraulico e di due mole: nell’estremo Sud dell’Italia, la “rivoluzione francese” aveva deposto il suo seme di novità tecnologica. Da Bari, Pierre Ravanas attraverso la sua agenzia di spedizione inviava tanto olio di Bitonto al fratello che si trovava ad Aix-en-Provence e a Marsiglia, e sempre a Bitonto, dove viveva, nacque sua figlia Alessandrina Desiderata Melania. Nel 1836 il Re Ferdinando II di Borbone donò a Pierre Ravanas una medaglia d’oro con una iscrizione molto significativa: “A Pietro Ravanas, per aver ridotto a perfezione il modo di estrarre l’olio”. Gli imprenditori commercianti forestieri e pugliesi costruirono dei veri imperi economici in una terra vocata nella produzione olearia ed enologica, realizzando, all’ombra degli olivi e ai piedi delle vigne, le fondamenta dell’economia dell’Italia meridionale. Non solo Ravanas. Pochi sanno che in Puglia, e in particolare a Bitonto, il cognome Garibaldi è noto non solo per il famoso generale, Giuseppe, il condottiero delle camicie rosse, ma anche per suo fratello minore, Felice, attore di primo piano nel “Risorgimento” dell’olio di oliva in Terra di Bari.

Particolare da un'illustrazione di Doriano Strologo



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Bitonto, città dell’olivo e dell’olio - D. Desantis

Felice Garibaldi nel 1835, proprio per commerciare oli di qualità di cui era provetto assaggiatore, con l’obiettivo consapevole del rinomato olio di Bitonto, si trasferì da Nizza a Bari, ove in poco tempo divenne una figura chiave nella produzione e nel commercio oleario. La Puglia del tempo era una terra che traeva nutrimento dall’olivo senza saperne sfruttare al meglio le potenzialità economiche. Felice Garibaldi conosceva queste novità produttive perché il suo datore di lavoro, il nizzardo Federico Avigdor della “Avigdor, Ainé et fils”, attratto dai successi commerciali delle case commerciali dei Ravanas di Aix-en-Provence e dei Sué di Nizza, con il famoso olio di Bitonto, decise di aprire una sede a Bari per espandere i suoi affari. Sbarcarono insieme, Federico e Felice, prima nella capitale del Regno, ove incontrarono banchieri e finanzieri napoletani, quindi in una Terra di Bari in grande fermento e sviluppo, dopo aver accuratamente studiato le nuove tecniche di molitura di Ravanas, intuendo quanto potesse essere conveniente selezionare gli alberi secondo le varietà, raccogliere i frutti separatamente, senza mischiare le varie qualità, e, soprattutto, quanto fosse importante raccogliere le drupe ancora sull’albero. Convinti di poter produrre un prodotto migliore, i due intraprendenti uomini d’affari, stringendo accordi con l’imprenditoria di Bitonto, concretizzarono le loro teorie; il grande intuito, il clima e la generosa natura dei terreni pugliesi diedero loro ragione. Negli anni della fuga di Giuseppe Garibaldi in America, Felice investì tutte le sue energie per trasformarsi in imprenditore oleario. Visse i suoi anni lontano dai fermenti rivoluzionari, ma, a causa della sua prematura scomparsa, proprio la sua ricca eredità prodotta con l’olio barese, salvò il fratello Giuseppe dai debiti. In base a prove documentaIllustrazione di Doriano Strologo

rie, Giuseppe Garibaldi con l’eredità di Felice acquistò nel 1856 mezza Caprera, proprio con i guadagni ottenuti dal commercio degli oli “fini” di Bitonto. Il vasto agro di Bitonto, esteso dal mare fino ai territori premurgiani delle Matine, già intensamente coltivato con l’olivo sul 33% dei suoi terreni, nel 1815 subì un’ulteriore specializzazione diventando quasi una monocoltura olivicola. La superfice crescerà ancora, infatti, per l’impianto di oliveti sulle terre incolte (9.270 ettari, nel 1827) ma soprattutto per la crisi vitivinicola del 1887, in seguito all’improvvisa rottura delle relazioni politico-commerciali con la Francia, la quale era la più grande importatrice di vino da taglio; infine, all’inizio del 1900, la superfice olivetata crebbe ancora, in sostituzione dei vigneti distrutti per l’invasione fillosserica che farà quasi scomparire la vite dall’agro della popolosa città, precedentemente autosufficiente per produzione e consumo di vino. Eventi che causarono nuove e diverse specializzazioni colturali in tutta la Puglia: l’olivo a Bitonto, il ciliegio nel sud-est Barese e altrove l’uva da tavola. Testimonianza dell’estrema specializzazione raggiunta era anche la percentuale della popolazione bitontina impiegata in agricoltura (l’87%, nel 1832) e in particolare nell’olivicoltura, in piccole aziende con superficie aziendale media, nel 1815, di appena 2-3 vigne (meno di due ettari). Oggi Bitonto conta oltre 10 frantoi, in cui l’innovazione tecnologica e la capacità lavorativa sono enormemente aumentate. La Cima di Bitonto, o Ogliarola barese, rimane la varietà pregiata alla base di quell’olio “fine” tendenzialmente dolce e con sentori di mandorla e fiori che ha anche dato il nome ad una delle tre sottozone della Dop Terra di Bari, la più grande Denominazione di origine pro115


tetta europea per superficie coltivata. Le piante di Cima di Bitonto, a differenza degli alberi mastodontici della piana di Monopoli, Fasano e Ostuni, hanno una morfologia completamente diversa, anche perché i contadini le potano tutti gli anni, assecondando il tipico portamento ricadente (procumbente) dei rami, per favorirne la fertilità. Su questi alberi di taglia modesta i pochi rami lasciati con la potatura sono ricchissimi di frutto, e quindi rendono possibile, tecnicamente ed economicamente, la raccolta manuale direttamente in piedi ad altezza terra, oppure con piccole scale, senza dover attendere la caduta delle olive a terra per maturazione. A Bitonto a partire dalla fine del 1800 si è diffusa anche la varietà Coratina, proveniente dai comuni più a settentrione di Bari, come Andria e Corato, cultivar più facile da raccogliere per la grande dimensione dei frutti. La pianta di Coratina è completamente diversa, dal portamento assurgente ma, soprattutto, è forse la varietà al mondo con il più alto contenuto in polifenoli, in grado di produrre, soprattutto se l’oliva non è completamente matura, oli molto fruttati e piccanti, che, grazie alla naturale capacità di resistere alle ossidazioni, mantengono inalterate le proprie caratteristiche per tempi lunghi, fino a oltre due anni. Molti oliveti di Cima di Bitonto sono stati reinnestati nel corso del tempo e il mix delle due varietà, frante insieme o con tagli degli oli dopo la molitura, rendono l’olio di Bitonto ancora più apprezzato e tecnologico, sia dal punto di vista organolettico, sia per la sua lunga durata. Altra caratteristica che rende famosa Bitonto in Italia e in Europa è l’apertura anticipata dei frantoi, che avviene in concomitanza della festa 116

dei Santi Medici Cosma e Damiano il 20 ottobre, circa due settimane prima di tutti gli altri comuni pugliesi. Questa tradizione ha tutt’oggi un fondamento commerciale, infatti i primi oli, prodotti da olive appena invaiate o addirittura ancora verdi, quindi estremamente fruttati e piccanti, sono richiestissimi dai commercianti delle altre regioni produttrici, soprattutto Toscana, Umbria e anche Liguria, spuntando prezzi molto elevati. Questi oli così profumati e saporiti sono utilizzati per la produzione di oli novelli, negli ultimi anni sempre più richiesti ed apprezzati dal mercato. A Bitonto, dopo quasi un secolo di progressiva evoluzione, miglioramento e affermazione di un comparto oleario di lunga storia, il miglioramento qualitativo e la forte ascesa commerciale di paesi e regioni emergenti e concorrenti, non consente di vivere sugli allori evidenziando l’esigenza di innovare sì, ma sempre nel senso della tradizione e della tipicità. La strada maestra di tale innovazione, attraverso notevoli miglioramenti delle tecniche di coltivazione e una profonda conoscenza analitica delle materie prime, passa proprio dal connubio delle cultivar Cima di Bitonto e Coratina, in grado di assicurare equilibrate proprietà organolettiche, con il fruttato non aggressivo, nonché caratteristiche tecnologiche e nutraceutiche eccezionali e difficilmente riproducibili. Tutte caratteristiche che, se correttamente comunicate e sfruttate, potranno garantire a Bitonto e ai suoi oli, sull’onda dell’accresciuta sensibilità dei consumatori per l’alimentazione funzionale ed il conseguente successo della dieta mediterranea, una posizione preminente nel panorama mondiale degli oli Evo di alta gamma.

Illustrazione di Doriano Strologo


Bitonto, città dell’olivo e dell’olio - D. Desantis


10 La visione riformatrice

La terra ai contadini Il desiderio di riscatto e giustizia sociale La Riforma Agraria attuata negli anni ’50 dello scorso secolo si presenta oggi, a distanza, con un bilancio fatto di luci e ombre ma in ogni caso positivo, in quanto ci risollevò dalle rovine di una guerra disastrosa e portò alla fine del latifondismo, oltre, e soprattutto, a un processo di democratizzazione nelle campagne.

di Roberto De Petro Giornalista, conduttore televisivo e accademico dei Georgofili, ha ricoperto molteplici incarichi ed è attualmente presidente di Aisa, l’Associazione Italiana Stampa Agricola Agroalimentare Ambientale.

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La terra ai contadini - R. De Petro

Occhiello

Foto Archivio Giuseppe Manna

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Foto Archivio Giuseppe Manna


La terra ai contadini - R. De Petro

Nell’immediato dopoguerra, con la tensione sociale che attraversava le campagne meridionali, il Governo dell’epoca fu spinto a varare provvedimenti importanti come quello della Riforma Agraria, iniziativa destinata a modificare l’assetto ed il futuro delle campagne italiane. Una prima vera e propria riforma venne attuata con la legge stralcio n. 841 del 21 ottobre 1950. Complessivamente, i terreni sottoposti a riforma coprivano un totale di circa 750mila ettari, quasi tutti nell’Italia centro meridionale, di cui oltre 150mila in Puglia. La Riforma ebbe tra le sue finalità generali quella di attuare la divisione del latifondo (dopo averlo espropriato) rassegnando piccole e medie proprietà fondiarie; come pure di fornire aiuto ai contadini poveri e sostegno alla piccola e media borghesia locale; e di attivare interventi volti alla progettazione ed esecuzione di opere di trasformazione fondiaria e agraria; e di promuovere la costituzione di consorzi di bonifica e di irrigazione e la creazione di aziende sperimentali e di centri di meccanizzazione agricola. Nel quadro della politica di riforme veniva anche istituita, con legge del 10 agosto 1950, la Cassa per il Mezzogiorno, provvedimento che si poneva l’obiettivo di favorire e finanziare la realizzazione di infrastrutture, di programmazione e sostegno ai fini dello sviluppo delle regioni meridionali. Il merito della Riforma Agraria fu prima di tutto, come si diceva in quegli anni “dare la terra ai contadini” che portò subito dopo inevitabilmente all’aggregazione dei piccoli proprietari terrieri e delle loro produzioni con la nascita di numerose cooperative sociali.

Così creare una cooperativa agricola rispose alla necessità del contadino di trovare reddito e remunerazione nel prodotto conferito alla cooperativa che riesce a raggiungere mercati, vicini o lontani, a cui il singolo non sarebbe riuscito mai ad accedere da solo. Peraltro, proprio l’articolo 45 della Costituzione Italiana riconosceva “la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. La nascita del cooperativismo, dunque, non rappresentò solamente un superamento del mero assistenzialismo, ma significò anche l’affermazione di un modello economico solidaristico, nel quale l’interesse individuale si realizza insieme a quello della comunità, capace di coniugare solidarietà ed efficienza. La cooperazione, a prescindere dalle sfumature politiche, è stata un modello di organizzazione e gestione del lavoro. Dunque, la Riforma Fondiaria promosse numerose cooperative sociali negli allevamenti zootecnici, per i miglioramenti fondiari, nell’orticoltura e frutticoltura, nella vitivinicoltura e nell’olivicoltura. E proprio nel campo specifico dell’olivicoltura furono realizzate, nel periodo 1958/1965, oltre cinquanta Cooperative Sociali di I° grado nei comuni da nord a sud della Puglia, coinvolgendo migliaia di produttori olivicoli, diventando punti di riferimento specializzati e realizzando oli di qualità diversificati per cultivar secondo i territori. Fu realizzata anche una struttura di II° grado, che ebbe il ruolo di aggregazione per il conferimento delle produzioni olivicole e della loro vendita sui mercati.

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La necessità di un organismo di grado superiore si rivelò necessario anche perché la struttura imprenditoriale decretata dalla Riforma, dieci ettari per famiglia, non risultava più competitiva dopo dieci anni dal punto di vista economico andando in completa crisi. Infatti, negli anni ‘60 dello scorso secolo, con il miracolo economico molti agricoltori meridionali furono costretti a emigrare verso le regioni industrializzate del nord e all’estero, soprattutto in Germania, Francia e Svizzera. Peraltro, gli oleifici della Riforma producevano oli di molto differenti qualità e il loro mercato era solo quello del territorio comunale o al più intercomunale, tranne qualche eccezione delle autocisterne che andavano al nord della penisola o all’estero, il tutto gestito senza un minimo di organizzazione commerciale o di marketing. E per la necessità di dare un assetto più organizzativo con linee chiare e ben definite di sviluppo, per allargare i mercati e dare più identità alle produzioni facendole uscire dalla crisi e dall’anonimato, che dopo qualche anno, con Decreto Presidenziale n. 257 del 14 febbraio 1966, la Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria in Puglia, Lucania e Molise, fu trasformata in Ente di Sviluppo Agricolo (ERSAP). Sulle prime per l’Olivicoltura, e non solo, sembrò avviarsi effettivamente un processo di sviluppo. Nel 1969 risultavano infatti finanziati e in costruzione altri dieci oleifici, alcuni anche in ampliamento. Mentre, sempre alla stessa data, erano in attesa di finanziamento ulteriori quindici oleifici nelle province di Bari, Foggia, Lecce e Taranto. Ma per dare un’idea dei conferimenti delle produzioni, peraltro molto limitate a fronte del potenziale olivicolo esistente, facciamo riferimento al bilancio Ersap della campagna 1966/67: in lavorazione 48 cooperative alle quali 122

furono conferiti circa 486.610 quintali di olive da cui si ottenne una produzione di 62.550 quintali di olio. La sansa prodotta fu di quasi 132.000 quintali. Sempre nella campagna olearia 1966/67 i venticinque oleifici associati conferirono alla struttura di II° grado 2.800 quintali di olio. La stessa struttura fu però costretta, allo scopo di poter acquisire determinate qualità di olio che non erano disponibili presso gli oleifici associati, a integrare i conferimenti con acquisti da privati per 4.650 quintali, quasi il doppio dei conferimenti sociali. Il ruolo della cooperazione iniziava quindi vistosamente a scricchiolare. Il riferimento temporale che abbiamo fatto alla campagna 1966/67 ha infatti una motivazione: partendo dalla scarsa “fiducia” che gli olivicoltori riponevano nelle strutture cooperative di conferimento e commercializzazione, in quella campagna ha avuto inizio un importante fenomeno che è stato quello del processo definito di “concentrazione” delle imprese. Infatti, in quel periodo per circa sessanta cooperative sono iniziati gli adempimenti di legge al fine di attuare le fusioni e ridurle a circa venti organismi cooperativi. Lo stesso si dica per otto cooperative specializzate che si ridurranno a quattro. Riguardo a queste ultime si trattava di fusione di oleifici sociali, promossi dalla Riforma, con altri organismi di diversa origine. Altri oleifici chiusero o fallirono. E alla fine del 1993 si ritenne concluso anche il sistema dell’Ente Regionale per lo Sviluppo Agricolo della Puglia, già Ente Riforma Fondiaria, e la Regione Puglia, con Legge n. 20 del 30 giugno 1999 procedette alla dismissione e vendita di terreni e fabbricati non assegnati (e in piccola parte lo sono ancora in questi giorni).


La terra ai contadini - R. De Petro

È evidente che si era avviato a conclusione il sistema della cooperazione nata dalla Riforma Agraria degli anni 50, con un bilancio fatto di luci e ombre ma tutto sommato positivo perché, a parte che nacque dalle rovine di una guerra disastrosa ma portò alla fine del latifondismo, oltre e soprattutto ad un processo di democratizzazione nelle campagne. Forte fu poi anche l’impatto culturale: i “contadini” del 1950 diventarono “agricoltori” prima e “imprenditori” dopo, specialmente nel settore olivicolo/oleicolo, immersi come erano nel più grande ed esteso patrimonio olivicolo italiano, seppero custodire una precisa identità, sia di olivicoltori che di una produzione. A tutt’oggi la cooperazione in olivicoltura, nonostante le gravi crisi e le radicali trasformazioni, è ancora una protagonista dell’agricoltura pugliese. Rimangono necessità di riorganizzazione, anche della rappresentanza, ma oggi l’obiettivo o meglio la sfida va nel senso di valorizzare l’organizzazione delle filiere specializzate, nel caso specifiche dell’olio di oliva, per aumentare il potere economico e il potere contrattuale sui mercati, in un’ottica di consolidamento finanziario delle cooperative, dell’innovazione e del potenziamento tecnologico, a cui si dovrà rispondere sempre di più con la qualità delle produzioni, la tutela e la sicurezza alimentare, soprattutto verso i consumatori.

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11 La visione religiosa-sociale

I braccianti di Puglia Per tutti è don Tonino Bello, un sacerdote che è stato un cantore e un testimone del mondo rurale. Una figura di spicco che purtroppo non è più tra noi, ma i suoi scritti, e l’esempio, restano fondamentali per riflettere e pregare. È stato un vescovo tra la gente, sempre prossimo a tutti. Il succo del suo insegnamento è un impegno fatto di coesione sociale, educazione e autoapprendimento collettivo. Senza tali presupposti non si realizza alcuna modernizzazione.

di Alfonso Pascale

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I braccianti di Puglia - A. Pascale

Occhiello

Don Tonino Bello era noto per la sua dedizione agli ultimi. Quando ancora era parroco di Tricase, nel basso Salento, istituì la Caritas e promosse un osservatorio della povertà. Nominato vescovo della diocesi di Molfetta, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenze. Successivamente guidò il movimento cattolico internazionale per la pace Pax Christi e fondò la rivista mensile Mosaico di Pace. Aveva 58 anni quando morì nel 1993, lasciando un vivido ricordo di sé nei territori dove aveva operato. Don Tonino aveva studiato a Bologna nel seminario dell’Onarmo per la formazione dei cappellani del lavoro, dove era approdato nel 1953. Le materie di studio erano molteplici: pensiero sociale della Chiesa integrato con pastorale d’ambiente e teologia del lavoro, storia economica, psicologia individuale e sociale, sociologia industriale e generale, storia dei movimenti sindacali e delle organizzazioni operaie, elementi di medicina

del lavoro, principi di diritto pubblico e del lavoro. Non solo in aula, ma anche nelle fabbriche per mettere in pratica quello che si apprendeva. Del Concilio Vaticano II ancora non si parlava e nella Bologna del cardinale Giacomo Lercaro già si facevano le cose in grande. Nel 1954 esce il numero unico della Rivista dell’Onarmo che contiene un articolo di don Tonino intitolato “I braccianti di Puglia”. Un testo denso di annotazioni sulle condizioni di questa categoria sociale molto diffusa nella sua terra d’origine: “Tra i proletari, i braccianti, senza dubbio, costituiscono oggi la categoria che si trova nella più disumana inferiorità sociale. L’instabilità del lavoro, l’incertezza di trovarlo anche quando è richiesto, la retribuzione meschina svantaggiano in modo evidente nei suoi più fondamentali diritti la personalità del bracciante”.

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Poi, parla delle misure che si stanno prendendo per venire incontro al disagio di questi suoi conterranei: “Vaste zone sono state scorporate a grandi latifondi; casette modeste, ma comode, sono state costruite; corsi di istruzione vengono impartiti per i braccianti stessi; numerosi cantieri di lavoro riducono, temporaneamente almeno, la disoccupazione; in ogni zona della Puglia si sono costituite le comunità braccianti, le quali, oltre al perseguimento di fini materiali, curano in modo particolare l’impostazione cristiana dei problemi del mondo bracciantile”. E a questo punto si avverte l’impazienza del giovane seminarista, angosciato di raggiungere troppo tardi i luoghi dell’impegno pastorale che lo attende. Scrive: “Il terreno pare proprio preparato per l’azione del sacerdote: ma i sacerdoti che si dedicano a questo campo d’apostolato in Puglia sono ancora pochi. Se giungiamo in ritardo c’è la possibilità che questa grande forza ci sfugga di mano”. In questa pagina il giovane mostra già una piena consapevolezza delle trasformazioni che stanno avvenendo nella sua regione, a seguito dell’avvio della riforma agraria e dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno. E avverte l’urgenza di accompagnare i processi sociali mediante un’attività educativa e di intervento sociale per fare in modo che i valori della cultura contadina non si disperdano con una modernizzazione priva di sviluppo umano. Come, purtroppo, di lì a qualche anno avverrà. La sua urgenza non è dettata dalla preoccupazione per i cambiamenti che stanno avvenendo. Non c’è nostalgia del passato. Egli prova ripulsa per le condizioni di miseria dei braccianti e vuole che escano da quelle catene e progrediscano. Lo scrive chiaramente in un’altra pagina in cui descrive le condizioni del basso Salento sul finire degli anni 126

Trenta: “Una terra senza risorse. Bella nella patina ferrigna delle sue rocce. Splendida nel biancore dei suoi paesi. Malinconica nel contorcimento degli ulivi secolari. Struggente nella purezza del mare, e nel fulgore del suo biblico sole. Ma arida di piogge e di speranza. Geograficamente emarginata, era fatta fuori dalle grandi linee di comunicazione e di trasporto. Con tutti i problemi che si accompagnano alla povertà provocata dallo strapotere degli altri. Priva di leader capaci di interpretare i bisogni, sembrava che gravassero sul suo popolo una certa quota di fatalismo, una punta di inerzia agli stimoli del cambio, un costume di assuefazione all’insicurezza e allo sfruttamento. Anche la Chiesa, sia pur animata da eccezionali figure di sacerdoti, non si distingueva certo per eccessi di audacia profetica (improponibile del resto a quei tempi) e, se non era complice del ristagno sociale, perlomeno si adattava senza troppi sussulti al ruolo della conservazione”. È evidente in questi scritti di don Tonino la chiarezza di un approccio ai temi dello sviluppo che guarda alla crescita della persona umana nella sua integrità, tenendo unite le sue varie dimensioni: la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità. Secondo il suo pensiero, lo sviluppo presuppone necessariamente un’iniziativa contro i conservatorismi e per le riforme. A tutti i livelli e in tutti gli ambienti: Stato, Chiesa, società civile. Ma poi va perseguito – qui è il succo del suo insegnamento – premettendo un percorso comunitario di coesione sociale, di educazione, di autoapprendimento collettivo. Altrimenti non si realizza alcuna modernizzazione. Oppure quella che appare tale, in realtà è priva di sviluppo.

Foto di Masseria Pezze Galere


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I braccianti di Puglia - A. Pascale

Cosparsi d’olio Occhiello

“Olio fluente che sembra gemere ancora sotto la stretta dei frantoi. Olio che inonda, come gli antichi trappeti, tinozze di legno con un carico di tenerezza. […] Lo Spirito di Dio penetra come l’olio nelle membra, ne impregna i pori e le giunture, ne permea la pelle e l’anima”. L’intensa prosa delle omelie crismali del compianto don Tonino Bello.

(…) tutta la Settimana Santa si svolge all’insegna dell’ulivo. Dal monte degli ulivi ebbe inizio l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Dal monte degli ulivi avvenne la sua gloriosa ascensione al cielo. Nel giardino degli ulivi si consumò il tradimento del Giovedì Santo. Sotto gli ulivi Gesù agonizzò e fu arrestato. Quanti ulivi, e quanto grondare di olio profumato in questa Settimana Santa! Dalla mistura preziosa con cui Maria unse a Betania i piedi del Maestro (…) alla provvista di oltre trenta chili di oli aromatici e di unguenti orientali portati da Nicodemo per la sepoltura del venerdì; agli oli profumati preparati in trepida attesa dalle donne il giorno di sabato e portati al sepolcro nell’alba della resurrezione! Olio e ulivi. Alberi secolari contorti, nodosi, genuflessi sulle pendici dei monti di Palestina. E olio profumato, liscio come una carezza, leggero come il respiro di un angelo, fluente delle antiche benedizioni di santi vegliardi e delle promesse arcane di tutti i Patriarchi. Perché tanto olio in questa Settimana Santa se non per sottolineare, nel momento supremo della vita di Gesù, che egli è l’Unto, o, come si dice in greco, il Cristo, o, come si dice in ebraico, il Messia? Tutto quest’olio sembra quasi la risposta alla domanda del Sommo Sacerdote “Sei tu il Cristo?” Antonio Bello, Convivialità delle differenze. Omelie crismali, edizioni la Meridiana, Molfetta 2006


12 La visione mistica

Dove c’è olio, c’è san Nicola Il patrono della città di Bari è anche il patrono degli oliandoli di Maria Carla Squeo San Nicola*, il vescovo di Myra, divenuto nel tempo il patrono della città di Bari - dove si trovano dal 1089 le sue spoglie, nella cripta dell’omonima basilica pontificia - non è un semplice santo a protezione del capoluogo pugliese. Santo venerato dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da altre confessioni cristiane, rappresenta un chiaro elemento simbolico e un punto di riferimento anche per chi si occupa di olio. Forse non oggi, in una società secolarizzata e senza fede, ma tant’è, per secoli è stato così, e di fatto formalmente continua a esserlo: il santo protettore degli oliandoli. Tutto parte da una storia mista a leggenda. Al centro c’è il corpo del santo, il quale, all’apertura della tomba, pare galleggiasse nell’olio**. Tra gli altri, ne scrisse al riguardo Jacopo da Varazze, nel XIII secolo, nella sua 128

Leggenda aurea: “poi che fu seppellito in una tomba di marmo, da capo uscìa una fontana d’olio... E insino, al dì d’oggi, de le sue membra esce olio sagrato, il quale è valevole a molte infermitadi”. San Nicola, pertanto, è intimamente legato all’olio, e rappresenta senza alcun dubbio l’olio della buona salute e della salvezza. Così, seppure l’olio di san Nicola non abbia nulla a che vedere con quello ricavato dall’oliva, l’olio di Puglia, e in particolare quello del Barese, perlopiù ottenuto dalla molitura di olive Coratina, esprime qualità salutistiche idealmente paragonabili alla celebre “manna di san Nicola”, la sacra reliquia dalle tanto decantate proprietà taumaturgiche. Da una parte, dunque, il miracolo della fede, dall’altra l’indiscutibile miracolo della natura, con la produzione di oli dall’impareggiabile valore nutrizionale.


La visione mistica- M. C. Squeo

01 Occhiello

* San Nicola di Bari, conosciuto anche come San Nicola di Myra, o San Nicolò, o San Niccolò. Nato a Patara di Licia, il 15 marzo 270, è morto a Myra il 6 dicembre 343.

** “Le reliquie – si legge nel sito internet della Basilica Pontificia San Nicola di Bari galleggiavano in un sacro liquido allorché i baresi se ne impadronirono. Nel corso dei secoli sono stati usati termini diversi, come oleum oppure unguentum (i russi dicono myro, e i greci myron). In realtà si tratta di un’acqua (analizzata nel 1925 dal Laboratorio di chimica dell’Università di Bari) di particolare purezza, la cui origine viene diversamente spiegata. Per alcuni si tratta di un vero e proprio miracolo e, come in alcune liturgie viene sottolineato, sgorgherebbe dalle ossa del Santo (altre liturgie dicono dai marmi della tomba)”.

Illustrazione di Doriano Strologo

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13 La visione sociale

Un olio più consapevole e familiare Valorizzare una risorsa importante come la famiglia è un atto meritorio. Per anni - anzi: per decenni tale risorsa è stata oltremisura trascurata. Con l’associazione Terrasud, Mimmo Lavacca ha pensato bene di compiere un atto di discontinuità rispetto alle consuetudini, creando il Premio Olio di famiglia, fortemente voluto perché, come lui stesso sostiene, le famiglie in ambito agricolo svolgono un importante ruolo sul fronte economico, sociale e ambientale. Ed è proprio da qui che scaturisce la volontà di accendere una luce su uno spaccato olivicolo tanto interessante quanto ancora inesplorato.

di Luigi Caricato 130


Un olio più consapevole e familiare - L.Caricato

Mimmo Lavacca non si ferma alle consuetudini. Va oltre, cercando sempre nuove vie e strategie. Non si accontenta di replicare modelli desueti e senza futuro. Per lui la tradizione è sempre un passo avanti, non un passo o dieci indietro. Valorizzare la lezione del passato significa renderla attuale ai contemporanei e alle generazioni future. D’altra parte, una tradizione piena di ragnatele non serve a niente. Per questo Lavacca ha lanciato la straordinaria idea di un concorso dedicato agli invisibili, e denominato, con grande efficacia comunicativa, “Olio di Famiglia”, uno strumento che si sta rivelando prezioso perché In foto: Mimmo Lavacca

in grado di mettere in giusto risalto quell’olivicoltura dei non professionisti che non è affatto marginale nei numeri, perché ad oggi costituisce la maggioranza delle realtà olivicole del nostro Paese, e della Puglia in particolare. L’iniziativa non poteva che prendere corpo proprio in una terra così altamente vocata all’olivicoltura qual è appunto la Puglia. Noi lo abbiamo intervistato, sia per saperne di più, sia per scavare nella genesi di questo importante progetto culturale che, tra l’altro, anche noi di Olio Officina sosteniamo convintamente in qualità di partner dell’iniziativa.

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L’idea di valorizzare le famiglie implicate in agricoltura è formidabile. Da cosa è scaturita l’idea del progetto Olio di famiglia?

Possiamo dire che rispetto al passato l’olio di famiglia sia decisamente migliorato sul piano qualitativo?

L’idea è nata dalla consapevolezza che la produzione olivicola italiana - con quella pugliese quale produzione regionale dominante e di riferimento - si basi sostanzialmente su piccole produzioni di aziende agricole a conduzione familiare. Tale analisi è confermata dall’ultimo censimento in agricoltura, che ribadisce tale dato. Accanto alla produzione delle piccole aziende a conduzione familiare, c’è un sempre più consistente settore di agricoltori dilettanti che per piacere e passione coltivano piante di olivo e producono olio destinato al consumo personale. La valutazione che ne deriva è che gli agricoltori e le loro famiglie svolgono di fatto un importante ruolo economico, sociale e ambientale. Da qui la volontà di accendere una luce su questo spaccato produttivo olivicolo molto interessante.

Sì, il miglioramento delle produzioni è un dato di fatto e lo si riscontra in maniera evidente soprattutto tra i produttori che aderiscono al concorso sin dalle prime edizioni. Il riscontro è oltretutto certificato dalle analisi chimiche e sensoriali eseguite sui campioni di olio in concorso. La struttura scientifica di supporto al Premio Olio di Famiglia oltre a fornire i risultati delle analisi, mette anche a disposizione dei partecipanti le informazioni utili al fine di migliorare le produzioni.

Che riscontro ha avuto in tutte queste edizioni che si sono succedute a 11 anni dall’esordio? Il numero dei partecipanti è cresciuto di anno in anno, con uno zoccolo duro di partecipanti che aderiscono al concorso fin dalla prima edizione. Di fatto la competizione ha un doppio stimolo: da un lato vi è il piacere dei partecipanti nel ricevere una serie di informazioni utili a migliorare la propria produzione, e, dall’altro, vi è quel senso di riscatto che restituisce valore e dignità al lavoro svolto.

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L’olio di famiglia che ha caratterizzato per decenni il settore olivicolo italiano, si fonda ancora sull’autoconsumo o viene anche venduto a terze persone? L’olio extra vergine di oliva prodotto dagli agricoltori familiari rappresenta una forma di autoproduzione dalla finalità prevalente, o addirittura esclusiva, destinata all’autoconsumo. Stiamo comunque notando che alcuni produttori dilettanti hanno maturato il piacere di confezionare, attraverso i frantoi, il proprio prodotto, creando così una personale e creativa etichetta, e sviluppando, in alcuni casi, una piccola rete di vendita che chiamerei “condominiale”.


Un olio più consapevole e familiare - L.Caricato

Per chiudere, una domanda su Giorgio Cardone, che nel concorso Olio di famiglia ci ha creduto tantissimo, sostenendo concretamente il progetto sin dall’inizio. Quanto è stato importante e decisiva la professionalità e umanità del fondatore di Chemiservice per il comparto oleario? Giorgio è stato il mio mentore, mi ha insegnato a guardare l’olivicoltura da varie prospettive: da quella produttiva a quella commerciale, da quella sociale a quella ambientale, cercando una chiave di lettura moderna e globale. La sua idea di olivicoltura comprendeva grande umanità ma anche grande tecnica. Questo era il suo stile, il suo immenso sapere olivicolo. L’Italia e l’Europa olivicola hanno perso un grande saggio.

Illustrazione: Olio di famiglia

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14 La visione artistica

Monumento all’olio Omaggio a Francesco Sannicandro Con la mostra “Olio d’artista”, ideata da Francesco Sannicandro, l’olio da olive è diventato il protagonista assente. Attraverso i tanti contenitori, rimodulati e reinterpretati, l’olio extra vergine di oliva non è più materia grassa tra le tante disponibili sul mercato, ma simbolo di una civiltà decodificata e riconsegnata a nuova vita.

Francesco Sannicandro (1947 - 2018)

Artista multidisciplinare e operatore culturale, ha prodotto, sculture multiple policrome, opere in bronzo, allestimenti multimediali e illustrazioni di libri, mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Sue opere figurano in collezioni private e musei. Per l’attore Giorgio Albertazzi e il regista Egisto Marcucci ha realizzato scenografie teatrali, collaborando inoltre con molti altri autori e compagnie teatrali, nazionali e internazionali. 134


Monumento all’olio. Omaggio a Francesco Sannicandro

01 Occhiello

Francesco Sannicandro - Blend (omaggio a Mimmo Conenna), 2018

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Artista poliedrico e concreto, e nel medesimo tempo visionario, Sannicandro è stato capace di mettere insieme mondi tra loro distinti e distanti. Da una parte una materia prima come l’olio ricavato dalle olive, dall’altra la creatività degli artisti in tutta la loro capacità di ricreare nuove forme e rappresentazioni. Pugliese di Bitonto, Sannicandro ha saputo onorare la sua terra di olivi e oli creando un format di successo, “Olio d’Artista”, divenuto nel corso degli anni una mostra itinerante e in progress. Peccato non ci sia più, e che tutto sia finito con lui. La sua scomparsa, nel 2018, ha lasciato un grande vuoto. Cosa è accaduto in un ciclo artistico durato oltre un lustro? A partire da un materiale povero, da contenitori destinati ad accogliere l’olio estratto dalle olive non ancora utilizzati, è scaturita l’intuizione vincente di Sannicandro. Le tanichette in banda stagnata, così come le bottiglie in vetro, sono state di volta in volta reinterpretate e chiamate a nuova vita attraverso una rilettura che ha saputo affrontare in modo differente la materia prima di partenza: alluminio, vetro e ogni altro materiale disponibile sul mercato. Su invito di Sannicandro, gli artisti sono partiti dalla forma originaria dei contenitori rimodellandola, a volte squartandone anche alcune parti, decontestualizzandone così l’oggetto in sé e rinominandolo, ricreandolo ex novo. Gli artisti coinvolti in questa operazione collettiva si sono sentiti chiamati in causa in prima persona nel tessere una sorta di elegia all’olio che non c’è, innalzando così un “monumento” al grande assente - l’olio, appunto - divenuto nel frattempo presenza concreta e altamente simbolica proprio attraverso l’elaborato artistico di volta in volta ricreato. 136

Di questo grande progetto di opera collettiva e corale, resta oggi, a distanza di tempo, il segno vivo di una testimonianza dal valore epico che altre opere artistiche analoghe con protagonista l'olio, a nostro parere non hanno finora raggiunto. L’idea di mettere insieme un catalogo permanente e itinerante, in continua evoluzione, è stata e resta una felice intuizione di Francesco Sannicandro; e ora, qui, per ricordare la felice esperienza artistica, riproponiamo alcune tra le tante opere esposte nel corso delle edizioni 2016 e 2017 di Olio Officina Festival. Di questo grande progetto collettivo d’arte rimarrà - e ne siamo certi – una viva testimonianza anche nei decenni a seguire.

In foto: gli artisti Silvia Rastelli e Francesco Sannicandro a Olio Officina Festival


Monumento all’olio. Omaggio a Francesco Sannicandro

In senso orario: Luigi Sardella, Acropolio - 2016; Fernando Perrone, Olio cuore - 2016 ; Bianca Roselli & Arcangelo Ambrosi, Ulivolio - 2016

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In senso orario: Antonella Ventola, Partolivo - 2016; Jasmine Pignatelli, Capa' le fogghje a iune a iune - 2016; Mara van Wees, Olio 5V - 2016

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Monumento all’olio. Omaggio a Francesco Sannicandro

In senso orario: Pierluca Cetera, Atena - 2016; Maryam Aeenmehr, Respirolio - 2016; Gianni De Serio, Frankenstoil - 2016

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In senso orario: Antonio delli Carri, Tubatta - 2013; Christian Loretti, Contenuto - 2013; Dario Agrimi, Xanthomonadaceae, ospite inatteso - 2016;

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Monumento all’olio. Omaggio a Francesco Sannicandro

In senso orario: Francesco Garbelli, Idrante ionico con fregio - 2016; Vito Maiullari, 100% extravergine - 2017; Valdi Spagnulo, Versi d'Olio - 2016

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La visione artistica

Il linguaggio segreto dell’anima e degli olivi in Silvia Rastelli di Maria Carla Squeo

Silvia Rastelli È un’artista italiana nata a Piacenza nel 1983. I suoi studi spaziano in più campi, dalla pittura alla danza. Con le sue opere si fa portavoce di una tendenza figurativa orientata a una pittura in cui è preminente l’aspetto grafico e cromatico.

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Il linguaggio segreto dell’anima e degli olivi in Silvia Rastelli- M.C. Squeo

Occhiello

Foto di Silvia Rastelli

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C’è un ricordo, bellissimo, che ci sembra giusto rievocare. Riguarda l’artista Silvia Rastelli, quando nel 2017, a Milano, incantò il pubblico di Olio Officina Festival con la performance “Metamorfosi. Natura Arte-Fatto”. Vi era, seduto in prima fila tra il pubblico, il filosofo Sossio Giametta, diviso tra lo stupore e l’ammirazione, nell’assistere alla simbolica metamorfosi dell’oliva, dapprima ancorata alla pianta, in una passiva condizione naturale, e in seguito trasformata nella fluida morfologia dell’olio. In quella rappresentazione dell’artista Silvia Rastelli c’era tutta l’essenza stessa del ciclo vegetativo della pianta, il frutto che si va formando e che contiene nel proprio grembo tante particelle d’olio che saranno successivamente estratte per ricavarne il prezioso liquido grasso che nutre corpo e anima. Da quello spettacolo di musica e danza, alcuni anni dopo, in pieno tempo di pandemia, si è ripetuta, in uno spettacolo nuovo, la coraggiosa esibizione nel cortile esterno del MAT, il Museo dell’Alto Tavoliere di San Severo, nel nord della Puglia, proprio nella terra degli ulivi. Protagonisti i colori e i suoni che scandiscono le differenti fasi di una meravigliosa metamorfosi che ci riguarda da vicino e in cui siamo coinvolti. C’è la nascita, che, come madre natura, ha in sé il dono della creazione e che da’ vita a qualcosa di prezioso quanto umile, il seme, da cui germoglia la futura pianta dell’olivo. C’è poi il vento, la pioggia, il sole, che investono la creatura, fortificandola e dandole energia vitale. Infine, c’è la spremitura del frutto, quell’oliva che dalla forma

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solida iniziale si muta in forma liquida, divenendo olio, fluido grasso che scorre, pronto per accogliere in sé l’universo. “La storia dell’olivo – riferisce Silvia Rastelli nel presentare la sua perfomance – è profondamente legata a quella dell’umanità. Nelle origini di questo prezioso albero – precisa l’artista piacentina – storia e mitologia si intrecciano, fino a confondersi. Fin dai tempi più remoti, l’olivo è stato considerato simbolo trascendente di spiritualità e sacralità, sinonimo di fertilità e rinascita, di resistenza alle ingiurie del tempo e delle guerre, nonché simbolo di pace e valore. Rappresenta un elemento naturale di forza e purificazione, ed è così che accogliendo nella trama tutte queste simbologie, la performance si sviluppa tra arte, danza, musica e poesia, celebrando il cambiamento, portando alla trasformazione morfologica di una società che resiste e rinasce in un costante mutamento, dando luogo a una società rappresentata da uno dei suoi anelli che ha subìto e si è fatta portatrice di tale evoluzione: la donna”. Lo spettacolo vede Silvia Rastelli nel ruolo di regista, danzatrice e coreografa; Alice Molari, quale compositrice e interprete della musica; Bartolomeo Smaldone, nelle vesti di poeta e interprete, e Giorgio e Silvia Rastelli, infine, padre e figlia, entrambi artisti, a curarne la scenografia. L’olio, qui, è l’elemento che congiunge. La Puglia, in tutto ciò, diventa il teatro in cui si svolge questa sacra, e insieme laica, rappresentazione.


Il linguaggio segreto dell’anima e degli olivi in Silvia Rastelli- M.C. Squeo

Foto di Silvia Rastelli

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15 La visione poetica

Sbucò improvviso un ulivo

Bartolomeo Smaldone Nato ad Altamura nel 1972, è autore di alcune raccolte di poesia e vincitore del Premio Montale Fuori di Casa per la sezione Mediterraneo. Sua è anche un’opera teatrale, L’amato albero, messa in scena per la prima volta nel 2011. 146


01 Occhiello Sbucò improvviso un ulivo, giovane nella sua forma sfrontata: era per me la poesia fuori dalla sua parabola tragica. S’aprì una parentesi e dentro ascrissi la mia conoscenza: quello era l’universo. Siete tanti, adesso; siete un intero teatro. Sei tu, madre, e tu, padre, sei il figlio che non è stato, e in voi è il giudizio, in voi il germe del perdono dal quale io rinasco. Partecipo al declino del mio genere, essendo corpo: questo sono, questo vedo: niente ha perso la sua forza, nessuno è perduto nella sua ragione. Siamo tanti, adesso: questo è l’universo.

Foto di Masseria Pezze Galere


16 Altre visioni

L'olio e il mare Negli antichi frantoi a capo di tutti c’era lu nachiru (dal lat. tard. nauclerius, ital. nocchiero – detto anche gnachiru, nagghjiru), voce dialettale salentina che nel mondo dell’olio indicava la figura di riferimento, colui che impartiva le direttive ai lavoranti frantoiani. Perché questa associazione olio e mare? Perché gli uomini di mare, d’inverno, quando non aveva senso pescare, erano tutti impegnati a lavorare in frantoio. Ed è il motivo per cui la loro guida, colui che era a capo di tutto, veniva chiamato nachiru, mentre il resto dei lavoratori era la jurma, la ciurma. Anche gli stessi reflui, il residuo liquido di lavorazione delle olive, l’acqua di vegetazione, era definita sentina. La ciurma, la squadra di frantoiani che lavorava nel trappeto, era composta per lo più da un nachiru, un turlicchiu e da tre trappitari, ovvero un capo, un aiutante e tre operai.

Il poeta oleario Nella memoria dei personaggi che hanno fatto la storia in Puglia vi è lo scrittore Girolamo Comi (1890-1968), nobile originario di Lucugnano, nel Salento, che visse gran parte della sua vita tra Roma e Parigi, intessendo stretti legami con i maggiori intellettuali del Novecento. Per amore della sua terra, a differenza di altri nobili che non dettero molte opportunità al popolo, dedicò l’ultima parte della sua vita al riscatto della comunità dei braccianti meridionali. Si era schierato al loro fianco, andando contro le regole classiste dell’epoca. Nonostante fosse un barone e un ricco proprietario terriero, difese con grande convinzione le ragioni dei braccianti, offrendo loro un’occasione di riscatto. Fondò la società Oleificio Salentino, portando avanti un pioneristico tentativo di imprenditoria solidale, ma senza successo. Gli impianti che un ingegnere del nord Italia gli procurò erano tecnicamente superati. Gli operai da lui scelti erano privi di esperienza. Fece il possibile, fallì miseramente, terminando la propria vita tra penurie e stenti, seppure con il conforto dei concittadini di Lucugnano. 148


Altre visioni - L. Caricato

Gli spiriti folletti A Sternatia, nel Salento, in provincia di Lecce, entrava in scena ad ogni campagna olearia l’Asciacuddhi, uno spirito folletto dispettoso che infastidiva gli animali intrecciando le loro code. Non solo: disturbava anche il sonno dei lavoratori. In altri centri vicini assumeva il nome di Sciacuddri, ma era lo stesso genietto furbo e irriguardoso. La letteratura popolare è assai ricca di testi in cui venivano ritratti ed evocati gli spiriti folletti, i quali, guarda caso, erano presenti solo durante la campagna olearia.

Underground Il Salento è pieno di tanti frantoi ipogei. Un tempo l’olio lo si estraeva per lo più in locali sotterranei, tant’è che in alcuni centri cittadini vi sono addirittura, sotto le piazze principali del paese, alcuni reticoli che coinvolgevano gran parte del centro urbano. Tali strutture, restaurate, sono tuttora presenti e in diversi casi sono state ripristinate e rese disponibili per i turisti. In altri casi si sono trasformate nel frattempo in spazi museali. In altri casi ancora sono state abbattute, la gran parte delle strutture a dire il vero. Le ragioni per cui i vecchi frantoi si realizzavano sottoterra erano dovute alla necessità di creare il maggior calore possibile allo scopo di facilitare l’estrazione dell’olio dalle olive. Non era un lavoro facile, come lo è oggi. Gli uomini vivevano per diversi mesi a stretto contatto con le bestie, per lo più muli. L’olivagione durava a volte anche cinque o sei mesi. Gli operai e gli animali impiegati a lavorare soggiornavano all’interno in condizioni igieniche e sanitarie precarie. L’operazione più complicata consisteva nel far scendere nei sotterranei gli animali. Venivano bendati e ci volevano dei contadini robusti per farli calare nel sotterraneo evitando che si facessero male. Il trappeto era costituito da una gigantesca macina in pietra e dai torchi. Il tutto ricavato nel banco tufaceo, in una struttura dall’altezza minima di due, quattro metri, e con l’accesso quasi sempre rivolto a sud. All’interno vi era un orinatoio, un pozzetto per l’acqua, un reparto notte, un forno per la cucina e una stalla per asini o muli. Illustrazioni di Giulia Serafin

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17 La visione alternativa

L’olio di lentisco nelle cucine e nell’economia di Terra d’Otranto Non solo dagli olivi si ricava l’olio. Nel Salento l’olio lo si estraeva anche dai frutti della pianta di lentisco, che, a differenza dell’olivo, non si presenta in forma di albero, ma di arbusto. Così, dopo un passato glorioso, con impieghi che spaziavano su più fronti, questa pianta caratteristica della macchia mediterranea si ripresenta sulla scena con rinnovato vigore e grandi propositi. A raccontarci il passato e le aspettative di rinascita della coltivazione è, in prima persona, il protagonista del nuovo corso.

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di Alberto Fachechi


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L’olio di lentisco nelle cucine e nell’economia della terra d’Otranto - A. Fachechi

Occhiello

Arbusto tipico della macchia mediterranea, il Lentisco (il nome scientifico è Pistacia lentiscus) appartiene alla famiglia delle Anacardiacee, come il terebinto e il pistacchio.

erano adoperati per la concia delle pelli, mentre la resina (Mastice di Chio) si usava per la cura di alcuni disturbi dell’organismo e per la produzione di vernici adesive (Cennino Cennini, Il libro dell’Arte).

Conosciuto sin dall’antichità per le sue numerose proprietà, nel corso dei secoli ha ricoperto un ruolo determinante nell’economia rurale. Era utilizzato come pianta tintoria per ottenere colorazioni che andavano dal verde-giallo al rosso; il suo legno era ed è apprezzato per lavori d’intarsio grazie alla durezza e al colore rossastro, nonché per la produzione di carbone vegetale. La corteccia e le foglie ricche di tannini

I più antichi riferimenti storici al Mastice di Chio e ai suoi usi medicinali risalgono ad Erodoto nel V° secolo a.C. Anche Ippocrate (460-377 a.C.) ne consigliava l’uso sia per ottenere denti e gengive sane, sia per placare disturbi digestivi ed epatici. Una descrizione approfondita sulle virtù medicinali del mastice si trova per la prima volta nel testo di Dioscoride, medico militare sotto Vespasiano e Tito.

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Dalla spremitura dei frutti, invece, si ricavava un olio alimentare, succedaneo dell’olio di oliva, usato anche per la produzione di sapone e come combustibile per l’illuminazione. L’uso dell’olio di lentisco ha origini antiche. Ne parla già Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nel XXIV libro dell’opera Naturalis Historiae, il quale suggerisce di mescolarlo alla cera per medicare le escoriazioni. Anche Galeno, famoso medico di Pergamo, (129-201 d.C.) ci descrive l’olio di lentisco nel suo libro Le Virtù dei semplici medicamenti. In Terra d’Otranto l’olio di lentisco ha avuto notevole importanza nell’economia rurale locale. Prodotto in grandi quantità, trovava impiego come olio alimentare, come combustibile per l’illuminazione, e per la fabbricazione del sapone. Infatti Girolamo Marciano ci informa che nella zona di Avetrana era prodotto in abbondanza e veniva esportato in tutta la provincia. Un altro importante centro era Ostuni, dove l’olio, in quanto aromatico, era apprezzato per la fabbricazione del sapone, come si evince nel Nuovo corso di agricoltura teorica e pratica (1830). Del commercio dell’olio di lentisco in Terra d’Otranto se ne parla anche ne Il Genio Letterario d’Europa (tomo terzo, 1793), dove si descrive la produzione del sapone e l’impiego dell’olio per alimentare le lucerne. Nell’opera si fa riferimento anche a un progetto per utilizzare l’olio di lentisco per l’illuminazione di alcune grandi città.

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L’olio prodotto in Terra d’Otranto veniva esportato ad opera di mercanti veneziani e istriani, come illustrato dallo speziale Giorgio Melichio Augustano che ci descrive anche la tecnica estrattiva condotta con metodi arcaici, quali la bollitura delle drupe e l’utilizzo di fonti di calore. Nel corso del tempo la produzione dell’olio di lentisco, si è interrotta a causa della difficoltà di raccolta delle drupe e le basse rese in olio rispetto all’oliva. Le moderne tecnologie di estrazione a freddo consentono di conservare inalterate le proprietà organolettiche dell’olio che, per le sue proprietà benefiche, viene utilizzato in cosmetica, in ambito dermatologico e culinario. Una recente ricerca condotta dal professor Germano Orrù, associato di Scienze mediche del Dipartimento di Scienze chirurgiche presso l’Università di Cagliari, e dal dottor Guy D’Hallewin del Cnr, dimostra l’attività modulante dell’olio di lentisco verso alcuni batteri componenti del microbiota umano. In particolare questo prodotto vegetale è in grado di inibire i batteri patogeni e nel contempo di potenziare la crescita dei batteri probiotici, ovvero microorganismi che portano beneficio alla salute. I dati sono pubblicati sulla rivista Frontiers in Microbiology e suggeriscono una notevole capacità antimicrobica selettiva naturale a prevenzione delle malattie associate alle disbiosi intestinali e orali. Rispolverato dalla storia, l’olio di lentisco diventa essenza preziosa per la salute e per l’economia.


01 Occhiello


18 La visione organolettica

L’altro volto della Puglia. Non solo olio da olive Cosa c’è da sapere, di tutto quel che non sappiamo, dell’olio di lentisco in cucina di Maria Carla Squeo

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L’altro volto della Puglia, Non solo olio da olive - M. C. Squeo

Occhiello

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Olio di Pistacia Lentiscus. Lo si produceva sin dai tempi antichi, ma di fatto lo si conosce poco, molto poco, quasi per niente. Cerchiamo di capire come poterlo approcciare. Si parte dalla vista Può presentarsi di color giallo oro o ambrato. Si prosegue con il naso È come per l’assaggio dell’olio extra vergine di oliva. Non c’è differenza. Il ricorso ai nostri organi di senso è il medesimo. Olfatto e gusto sono i lettori che ci consentono di inquadrarne il profilo sensoriale. Si versano poche gocce in un piccolo bicchiere. Si annusa profondamente. In questo caso al naso cogliamo note balsamiche intensissime, balsamiche. Si procede con il palato Una volta introdotta in bocca una piccolissima parte di olio, molto meno rispetto ai 10-12 ml necessari per l’olio extra vergine di oliva, roteando la lingua contro il palato si percepisce il gusto sapido e corposo, erbaceo, resinoso, anche pungente, dall’aroma intenso nella sensazione retro-olfattiva. Cosa possiamo farne in cucina Meglio utilizzarlo a crudo, per insaporire insalate, minestre, verdure alla griglia, ma è adatto anche con piatti di pesce e crostacei, carni bianche alla griglia, formaggi freschi e stagionati. Il dosaggio Se ne versa molto meno rispetto all’olio extra vergine di oliva. Con il contagocce, in modo da non eccedere. Ne bastano due o tre.

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L’altro volto della Puglia, Non solo olio da olive - M. C. Squeo

Occhiello

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Puglia degli olivi e dell’olio Collana: “L’Almanacco di Olio Officina” volume 9 © 2022 Edizioni Olio Officina Prima edizione: giugno 2022 Supplemento di Olio Officina Magazine n. 454 dell’1 giugno 2022 Direttore: Luigi Caricato Redazione: Chiara Di Modugno, Tamara Lovric, Maria Carla Squeo Progetto grafico: Giulia Serafin Testi: Salvatore Camposeo, Giuseppe Capano, Francesco Caricato, Luigi Caricato, Roberto De Petro, Dora Desantis, Alberto Fachechi, Angelo Godini, Antonio Monte, Massimo Occhinegro, Alfonso Pascale, Bartolomeo Smaldone, Maria Carla Squeo Foto: Salvatore Camposeo, Luigi Caricato, Gianluca D’Aniello, Alberto Fachechi, Gianfranco Maggio, Masseria Pezze Galere, Giovanni Melcarne, Antonio Monte, Silvia Rastelli Illustrazioni: Stefania Morgante, Giulia Serafin, Doriano Strologo

Olio Officina Srl Sede legale: via Francesco Brioschi 86, 20141 Milano Redazione: via Giovanni Rasori 9, 20145 Milano Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-94887-34-1 Stampato nel mese di giugno 2022, per conto di Olio Officina, presso Editrice Salentina, Galatina (Lecce)




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