Inserto - Giambattista Cavallari

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ANNO XX NUMERO 4 ● aprile 2014 (169) - Inserto speciale p. I

L a pI en s tsee c c onl tpo ì nNiool aC iec D in nrea l 1d6i0 0 . iArm rh t oe A co nteo ran ic u V -. d A imVm am t ii r a t i

I O . B A P T I S T Æ C AVA L L A R I I “ D E M O R B O E P I D E M I A L I ” Q U I N O L A M , & C AM PA N I A M U N I V E R S AM V E X AV I T L’EPIDEMIA NOLANA DELL’ ANNO 1600 - Sul far dell’estate del 1600 - anno del fastoso giubileo bandito da Clemente VIII e pochi mesi dopo il rogo di Bruno - la città di Nola fu devastata da una severa epidemia che, oltre alla popolazione dei suoi sedici casali1 tra i quali Sant’Erasmo, Saviano e Sirico, colpì anche quelle d’altre città campane, come Nocera, San Severino, Cava Dei Tirreni, Somma Vesuviana, ecc.2 Si trattò, appunto, d’un «morbus epidemialis», così denominato già da Galeno perché, diversamente dal significato assunto a metà ’800 dal neologismo endemìa (flusso patogeno permanente all’interno d’un territorio circoscritto), l’epidemia si manifestò «supra Populum», fu cioè determinata da un quid universale e comune ai diversi territori interessati.3 Delle connesse «febres pestilentiales pernitiosæ», poi, talune furon contagiose,4 talaltre no.5 Si ripeteva, così, la tragedia sanitaria - seguìta come sempre dallo sconquasso sociale e morale - di novantasei anni prima, quando, nel febbraio 1504, altra tremenda e miserabil lue, piombata sul napoletano,6 colpì ugualmente Nola, dove lo stesso Ambrogio Leone fu bloccato per un anno prima di poter rientrare a Venezia. Senza dir che pestilenza analoga, senz’altro di proporzioni minori, e dagli effetti meno ferali, aveva interessato Nola appena sei anni prima. Infatti. «nel Mille cinquecento novanta quattro, le frequenti piogge cadute di state su la campagna Nolana, allagarono smodatamente quel contorno… Imperocché, l’acqua impigrita, ed al fervor del Sollione putrefatta, corruppe altresì l’aria co’ suoi vapori. Cominciò per tanto la gente ad ammalar e morire…».7 Né, tanto per stare all’Italia, le diverse morbilità pestilenziali interessavano il solo agro nolano o la Campania, bensì l’intera penisola, come si vede ad esempio nell’ode La salubrità dell’aria, scritta dal Parini nel 1759, ma pubblicata nel 1791.8 L’epidemia nolana del 1600 fu descritta da Giovan Battista Cavallari, “filosofo e medico napoletano”,9 e Professore di Medicina presso l’Università di Napoli, in un libellus di venti capitoli in lingua latina, nel quale analizzava le cause del morbo, che egli individuava sostanzialmente nei «vapores venenati propter maximam putredinem contractam ab aquis illis putrefactis», cioè nelle esalazioni dalle acque stagnanti nel nostro territorio,10 il quale peraltro si presenta geologicamente depresso e incassato tra rilievi montuosii che ne incrementano l’umidità e non ne favoriscono sufficiente ventilazione,11 fattori ambientali, questi, che il Cavallari, come asserito anche dal nolano Ambrogio Leone meno d’un secolo prima, poneva in capo all’eziogenesi pestilenziale. Quindi, il nostro Autore, passava in rassegna gli opportuni rimedi curativi - la Methodus medendi di Galeno - allor consistenti in preparati fitoterapici detti appunto galenici, indicando quindi le misure onde preservar dal morbo la cosiddetta fabbrica del corpo. In limine libri, poi, data la facies storica dei tempi, dominati ab immemorabili dalla struttura politica della protezione, il Cavallari umiliava osservanza e gratitudine a Don Pedro Fernando De Castro Conte di Lemos, “degnissimo Viceré del fedelissimo Regno di Napoli”, protestandogli devozione a vario titolo: da quel principe, infatti, richiedeva tutela contro il livore di criticastri e censori maligni,12 nonché di maldicenti, se non anche di medici “allucinati”,13 quelli che insomma blablavano, fors’anche con crassa malizia, facendo le creste al suo libro, che invece lui protestava «opus egregium» degno della letteratura medica e di memoria storica in quanto Discursus… accurate exacteque conscriptus. Inoltre, ribadiva devota riconoscenza al De Castro anche per il buon ufficio interposto ai fini dell’Imprimatur dell’opera, la quale peraltro aveva meritato l’introduzione di Quinzio Bongiovanni, Protomedico, ovvero magistrato medico-sanitario del Regno, medico privato di Papa Pio V, Professore di Medicina Pratica nello Studio di Napoli, autore di diverse opere d’argomento sia medico che filosofico, e tra i cui allievi, peraltro, era stato lo stesso Cavallari. Il palesato timore che “curiosi lividique”, insomma l’invidia di corte, puntassero a denigrar il suo Discursus fino a minacciarne addirittura la stampa,14 potrebbe denotar il clima di conflittualità allor esistente, non solo nel Regno di Napoli, bensì nell’intera penisola e nei paesi europei più avanzati, tra opposte filosofie delle varie scuole mediche allor esistenti. La Galenica classica, infatti, seppur sostenuta dai fautori del “Grande Ippocrate”15 la cui ratio medica era trionfante proprio in quella Napoli che pullulava di cerretani, speziali, cavadenti e cerusici, maestri di volgar finzione che giravano spacciando impiastri ed unguenti miracolosi traendone gua-

dagno, si trovava a far i conti da una parte con una medicina che strizzava l’occhio alla magia,16 dall’altra col fatto che proprio in quel tempo a Napoli «sorgeva l’anatomia, e la chimica cominciava a sostituirsi all’alchimia». Né meno rilevante, in merito al descritto clima, il secolare cimento tra lo Studio di Salerno col suo “Regimen Sanitatis”, e quello di Napoli dove materie d’insegnamento erano medicina, teorica della medicina, pratica della medicina, anatomia, chirurgia, fisica, filosofia, filosofia della fisica, nonché teologia della medicina - come dir medicina ancella della teologia - la quale, in primis, riteneva che l’efficacia delle piante officinali provenisse direttamente da Dio fin da quando aveva medicato con erbe edeniche le sforacchiature inferte ad Adamo dal demonio. In siffatta tempe-

rie, dispute spesso condite d’invidia anche a Napoli invelenivano l’ambiente accademico, dove peraltro non era ancor spenta la fama di Giovanni Filippo Ingrassia, autore di “La peste del 1575 nel Regno di Sicilia”, del suo più celebre allievo Giulio Iasolini, e di Mario Zuccaro, mentre «molta fama riscuoteva Giovanni Girolamo Nola, lettore degli Aforismi di Ippocrate».17 Io. Baptista Cavallarius, De morbo epidemiali qui Nolam, & Campaniam Universam vexavit Curativus, & Præservativus Discursus Neapoli MDCII. T RADUZIONE ITALIANA DEL CAP. XX Cap. XX De modo præservationis in particulari. «In particolare, pertanto, dobbiamo difendere il corpo da siffatte febbri18 pestilenziali;19 questo è possibile grazie a tre precauzioni, in primo luogo la dieta:20 è infatti necessario purificare l’aria pestifera, bisogna insomma bonificarla giusta l’ammonimento dell’epitafio “il ritardo può esser fatale, la fuga invece è salvezza”21 come ho già detto, e secondo quanto prescritto da Galeno22 nella Theriaca a Pisone;23 e dal momento che il corpo attrae aria putrida, questa penetra come un veleno attraverso la bocca, come si legge diverse volte in Ippocrate;24 e se la bonifica dell’aria non avviene per via naturale, vi provveda l’opera dell’uomo, facendola tendere al clima fresco e asciutto, tipico della stagione estiva come abbiam detto, e s’accenda fuoco utilizzando sempre legna profumata, come prescrisse Ippocrate ai suoi tempi, preservando tutti gli uomini del suo tempo dalla peste. Quanto, poi, al cibo e alle bevande, essi - l’abbiam già detto- devono esser di buona qualità, e l’alimento deve sempre accompagnarsi con cose che contrastano la putredine, cioè cose fredde e secche, come l’aceto,25 il succo di limone, del cedro, dell’agresta26 e simili; la carne, invece, va fatta macerare in detti succhi, sia prima che durante e dopo la cottura. La bevanda, invece, consista nell’acqua di fonte, se sia disponibile, altrimenti s’utilizzi l’acqua piovana. Ma, tassativamente, bisogna astenersi da quella che vien fuori dai pozzi, a meno che prima non la si sia bollita, sicché le sue esalazioni svaporino. Molto poi gioverà se l’acqua si

terrà raccolta in un recipiente per un po’ di tempo, affinché le sue impurità si depositino sul fondo; e, per maggior cautela, sempre approvo che la bevanda la si faccia bollire con talune erbe aromatiche; che non si consumi vino rosso, bensì bianco27 e di buon odore;28 allo stesso modo bisogna guardarsi sia da una vita troppo movimentata che dalle passioni dell’animo, fattori che producono calore nel corpo. Soprattutto raccomando che le persone, che nella stagione primaverile si trovano in città per preservarsi, specialmente se di corporatura grassa e robusta, intacchino la vena iecoraria29 all’altezza del gomito destro onde espellere la putredine (= la sostanza marcia); ma se il temperamento della persona non rende praticabile questo rimedio, come accade ad esempio nel bambini, consiglio l’applicazione, ripetuta anche più volte se necessario, delle sanguisughe. Lo svuotamento ottenuto in tal modo ha molti vantaggi: procura refrigerio al fisico, espelle la putredine e riporta alla normalità la temperatura corporea; così, finalmente, per il futuro quei corpi saranno immunizzati da simili febbri.30 Praticato il salasso tramite flebotomia, son del parere che, secondo l’antica pratica, gli umori crudi31 vengano evacuati similmente subito come attesta Galeno nel quarto capitolo del suo libro sulle Diverse specie di febbri (qui egli dice che prima ed unica cura che desiderano esser sicuri dalla pestilenza sarà che, per migliorar la respirazione, il corpo si liberi quanto più possibile dalla quantità eccessiva di escrementi) rende ragione del perché vadano evacuati quegli umori e non contraggano quel contagio putredinoso (= causato dalla putredine); e, rispetto al fatto che ciò sia vero (= per asseverare questa verità), so di taluni che andavano a Nola: [di essi] uno aveva assunto la purga durante la primavera, com’era solito fare, l’altro invece no; eppur tutt’e due incapparono in tal sorta di febbre, sicché quel d’essi che non s’era purgato morì dopo sette giorni; l’altro, invece, che s’era purgato, è vivo; questo vuol dir che bisogna assumere il medicamento idoneo ad evacuar soltanto la parte iniziale della vena, evitando rimedi caldi o umidi, come ad esempio la cassia32 o altre, e medicamenti più drastici; dobbiamo quindi servirci unicamente di infusioni di rose, di viole, di tamarindo, Rha [mnus]33 Sena,34 manna, diacath[olicum],35 pillole di hiera36 con altre sostanze di questo genere - Avicenna consiglia le pillole di aloe, rimedio anch’esso lodevole. E prima che i malati assumano il medicamento, gli umori [ai quali esso è destinato] vengan predisposti con sciroppi opportuni, [di quelli] destinati all’umore principale,37 come dottrina vuole, e secondo l’autorevolezza degli studiosi. Fatto questo, son sempre da lodar quei preparati che per loro proprietà giovano alla salute. Essi, infatti, dando vigore al fisico, fan bene al cuore,38 come l’uso almeno settimanale della teriaca. Della validità di questo rimedio, infatti, può rendersi conto ognuno leggendo il capitolo sesto della Teriaca a Pisone di Galeno, dove si dice che la teriaca è curativo efficace anche per le persone colpite dalla peste. Quanto a quest’uso si raccomandano anche il mitridato,39 i semi del limone, l’angelica, il cardo santo,40 la scorzonaria,41 la melissa, la corteccia della pianta dell’aloe, il dìttamo,42 il lapis bezoar,43 la zedoaria,44 la ruta, l’acido citrico ricavato dal limone, il corallus incisus,45 l’agresta, il santalo,46 il bolus armenus,47 la terra sigillata,48 e simili. Di questi rimedi puó sempre avvalersi chi vive in aria pestilenziale; la formula della polvere è questa: prendi due dramme [= 9 grammi circa] di polvere di foglie di ruta, due once di noci, sale ed erba carice in porzioni uguali, ciascuna di dramme 1/1.49 Prendi due dramme di detta polvere, che è molto efficace contro le febbri pestilenziali, e contro la peste stessa; ma possiamo anche servircene nelle [composizioni che abbiam definito] elettuarie, o anche nei decotti aromatici,50 e in altri modi ancora, secondo indicazione del medico. Come prevenzione in vista dell’inverno, poi, è di naturale giovamento che diminuiscano alcuni umori crudi51 sia nel ventricolo che nelle rispettive vene,52 e che il corpo, purgandosi, si liberi dalla stitichezza;53 onde tenerlo mondo da ogni impurità; questa è pratica raccomandata da tutti gli studiosi; e, come nostro compito, presentiamo le pillole di Rufo,54 la cui formula è la seguente: aloe ed ammoniaco in parti uguali di due once ciascuna, una dramma di mirra; mezzo scropulo di croco:55 si pesti il tutto e s’amalgami: se ne puó assumere una dramma con un po’ di vino. Quanto siano efficaci queste pillole, lo dica il suo scopritore stesso, che mai vide colpito dalla peste chiunque le


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La peste che colpì Nola e Dintorni nel 1600- di V. Ammirati IO. BAPTISTÆ CAVALLARII “DE MORBO EPIDEMIALI QUI NOLAM, & CAMPANIAM UNIVERSAM VEXAVIT” usasse; esse, infatti, son chiamate pillole de tribus,56 maggiormente se assunte come farmaco preventivo; nella stagione calda si puó propinare ogni giorno siero di latte di capra, o anche di mucca, con semi di limone o succo di acetosella, oppure d’agresta, o d’altri farmaci officinali. A scopo preventivo ci serviamo anche della seguente preparazione:57 un’oncia di amaro di limone,58 due once di acetosa,59 tre dramme di polvere sottilissima di margherite, due dramme delle tre specie di sandalo,60 mescolare fra loro, se ne possono assumere due dramme. Infine, anche per preservar tutti gli uomini da qualsivoglia tipo di peste e di febbre pestilenziale, ti servirai del seguente rimedio: semi di limone e di acetosa, due dramme in porzioni uguali; radici di dìttamo, genziana e tormentilla,61 tre dramme in porzioni uguali; bolo armeno, cinnamomo scelto, una dramma in porzioni uguali; semi dei diversi tipi di sandalo e semi d’uva, once due in parti uguali;62 si riduca il tutto in polvere in 1 oncia e mezza della quale potrai aggiungere 1 libbra di zucchero. Due dramme di detta polvere si possono bere con succo di limone o con acqua di acetosa. Qui termina il mio Discorso, nella speranza che gli studiosi possano trarne, quando che sia, indicazioni precise. È per amor del prossimo, infatti, che l’ho scritto. Sia lode al Signore. NOTE 1 «Nolam et Neapolim, Cãmpaniæ Urbes, aliaque illis finitima vicinaque loca, valde nimis, & perniciose admodũ sævijt» (Io. Baptistæ Cavallarii De morbo epidemiali, “Illustrissimo Et Excellentissimo Domino D. Fernando A Castro”, p. 3 2 Cavallarii De morbo, cit., Cap. IIII, p. 12. 3 «… ita ut dicatur morbus fuisse supra Populum, & Galenus, Epidemiæ in proemio, & I. De ratione victus quando dicebat illum esse morbum epidemialem quãdo quid universale, & commune pluribus regionibus causa universali, & communi fiat» (Cavallarii De morbo, cit., Cap. IIII, p. 12). 4 Cavallarii De morbo, cit., Cap. V, p. 13. 5 L’Autore del De morbo, nel riferir che molte persone s’eran salvate o avevano evitato la malattia grazie alla pratica del continuo vomito, dice che fra queste c’era un religioso suo familiaris, amico o parente che fosse, il quale, pur avendo assistito malati e moribondi durante i molti mesi di sua permanenza nella città di Nola, conservò integra la sua salute («… quosdam propter continuum vomitum sanitati restitutos esse, alios vero a morbo præservatos, inter quos Religiosus quidam… integra semper usus est valetudine», Cap. XVI, p. 63). Nel Cap. XI del De morbo, invece, trattando delle alterazioni dell’aria, oltre che replicar l’elogio al Viceré Fernando Conte di Lemos, dà ampio spazio al valore della religione come antìdoto non irrilevante alle sciagure inferte dalla natura (i sette santi patroni di Napoli, la liquefazione del sangue di San Gennaro tra le suppliche popolari, la processione dei fedeli preceduti da autorità civili e religiose, quindi l’Arcivescovo Cardinal Gesualdo, il quale «preces in posterum ad ipsum Deum fundi præcepit diebus singulis ad iustam Dei iram placandam» (p. 49). La pestilenza, infatti, era considerata una vera e propria ira di Dio, che anzi «alcuni [la] chiamano guerra divina» (L. A. Muratori, Del governo della peste. Milano 1832, Prefazione, p. 1). 6 «Questo fu il fine di Monsù di Lautrech, e dell’assedio di Napoli, nel progresso del quale sofferse questa nobil Città… gl’incomodi della fame che le cagionava il nemico… nel tempo stesso, che mietea colla sua falce la morte le vite de’ Cittadini, sessantamila de’ quali, estinti dalla peste, furono condotti al sepolcro» (Antonio Parrino. Teatro Eroico e Politico de’ governi de’ Viceré di Napoli... Tomo Primo, Napoli MDCCLXX, p. 83). 7 Francesco Schinosi S. J., Istoria Della Compagnia Di Gesù appartenente al Regno di Napoli, Parte Seconda, In Napoli 1711, p. 385. 8 «… Né qui giaccion paludi // che dall’impuro letto // mandino a i capi ignudi // nuvol di morbi infetto… // Pèra colui che primo // a le triste oziose // acque e al fetido limo // la mia cittade espose…» (vv. 19-28). 9 Fin dall’antichità, e almeno fino a tutto il Settecento, il medico era propriamente medicus & philosophus. Lucrezianamente, infatti, anche per il naturalismo rinascimentale «Philosophi proprium munus est, [naturæ] causas aperire…», come si legge ad esempio nelle pp. 3-4 dell’Epistola De conflagratione Agri Puteolani, del napoletano Simone Porzio, pubblicata a Napoli nel 1538, anno in cui il Della Porta pubblicava la Magīa naturalis, dove Magīa era “vox persica” che denotava la «perfecta rerum naturalium cognitio» (Forcellini, Lexicon), mentre nel 1585 Telesio pubblicava il primo libro del De rerum natura iuxta propria principia, il cui metodo d’osservazione diretta dei fenomeni naturali s’ispirava all’ilozoismo, o filosofia della natura come materia animata, già presente nella scuola jonica di Anassimene, Anassimandro e Talete, ora anche nella filoso-

fia di Bruno e Campanella; mentre, in ambito di specifica pertinenza medica, il Telesio aveva già pubblicato Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur, opuscolo di trentotto capitoli «contra Galenum»; quindi un libello De usu respirationis; altro De saporibus opusculum; altro ancora De somno, ecc. (vedi Giulio Giglioni, Spirito e coscienza nella medicina di Bernardino Telesio, nel volume «Virtù Ascosta e Negletta», a cura di Germana Ernst e Rosa M. Calcaterra, FrancoAngeli, Milano 2011, Parte Seconda, pp. 154-168). Da notar che lo stesso Antonio Santorelli era «medico e filosofo natìo della Città di Nola in Terra di lavoro, fiorì sul principio del XVII secolo nella città ed università di Napoli» (Nuovo Dizionario Istorico, ovvero Istoria In Compendio di tutti gli Uomini che si sono renduti celebri per talenti, virtù, sceleratezze, errori &c. dal principio del Mondo sino a’ nostri giorni, Tomo XXIII, Morelli, Napoli 1794, p. 356). L’attributo di medico-filosofo, in effetti, risaliva a quello altomedievale di iatrosofistήs (i) atrosofisth/j), ovvero Medicus simul & Medicinæ Professor, mentre iatrosofìa (i)atrosofi/a) era la nostra scienza medica, e iatrosòfion (i)atroso/fion) quello che i latini avevan chiamato Liber de Medicina (Carolo Du Cange, Glossarium ad Scriptores Mediæ & Infimæ Græcitatis, Lugduni MDCLXXXVIII, Tomus Primus, col. 505; Tomus Secundus, Appendix, col. 84). 10 Di queste acque stagnanti, che s’estendevano dalle paludi di Boscofangone fin sotto la collina di Cicala, aveva già parlato Ambrogio Leone, collegando ad esse i gravi fenomeni pestilenziali che tante volte avevano cagionato alla città di Nola così grande strage dei suoi abitanti… «tantam civium suorum stragem semel atque iterum…» (Ambrosii Leonis De Nola Patria, Venetiis MDXIV. Lib. I, Cap. IX). Alla grave situazione fece fronte sotto il vicereame spagnuolo quell’opera di ingegneria idraulica che risponde al nome di Regi Lagni: «… dal 1582 al 1616 fu, principalmente per cura del Conte di Lemos viceré di Napoli, rettificato il Clanio facendo scorrere tale fiumicello in canale artificiale, che prese il nome di Regii Lagni…» (De Blasiis F., Sulle bonificazioni delle paludi esistenti nelle Provincie di Terra Ferma dell’ex Regno di Napoli, Milano, Tipografia e Litografia degli Ingegneri, 1867, p. 5). Nel 1757, infatti, il Remondini faceva riferimento alla «corruzione dell’aria cagionata dalle paludi per l’acqua che stagnava in quelle, le quali cominciavano del territorio di Nola fino al mare camminando per Marigliano, Aversa, Acerra e L’Afragola» (Della Nolana Ecclesiastica Storia, III, p. 269). Quindi, un dotto religioso nato a Baiano scriveva che, prima della costruzione dei Regi Lagni, «plenissima in agro Nolano et plurima fuisse stagna, quæ latum veluti mare repræsentabant» (Antonio Vetrani, Sebethi Vindiciæ, Neapoli MDCCLXVII p. 190). Nello stesso Lupoli, infine, leggiamo: «Ager antiquitus tanta aquarum copia fluctuabat, ut undosum veluti mare videretur…», e le conseguenti esalazioni inquinanti che appestavano l’aria con gran pregiudizio per la salute umana (Michaëlis Archangeli Lupuli Iter Venusinum, Neapoli Apud Simonios MDCCXCIII. Pompilianum, p. 11). 11 Quanto all’eziogenesi del morbus epidemialis prospettata dal Cavallari, vedi De Morbo, Cap. XI, p. 47 e passim nell’opera. 12 «At si quis studiorum cultor opus egregium ediderit, & litterarum monumentis mandarit, non deerunt, immo confestim aderunt, quam plurimi, qui vix editum opus curiosis lividisque oculis contemplerentur…Hoc ipsũ evenisse mihi intelligo Excellentissime Princeps, atque huius fidelissimi Regni Neapolitani dignissime Prorex, sciens enim me tibi debere quãplurimũ idque multis nominibus … nihil mihi potius fuit, quam ut sub tui nominis umbra tutelaque imprimeretur». De morbo, cit., “Illustrissimo Et Escellentissimo…”, pp. 2-3. 13 «… hinc quippe miratus sum aliquos medicos in hoc esse hallucinatos; nam quid clarius: legite queso Ambrosium Nolanum…» Cavallarii De morbo, Cap. III, p. 4. 14 «… ut typis quam primũ mandaretur diligẽter curavi, & ut ab invidis, & maledicis tutus prodiret in lucẽ, non in ipso limine modo, sed & omne per ævũ, nihil mihi potius fuit, q[uam] ut sub tui nominis umbra tutelaque imprimeretur» (De morbo, cit., “Illustrissimo Et Escellentissimo…”, p. 3). 15 Prospero Marziano (1567-1622), ad esempio, pubblicò il suo capolavoro intitolato Magnus Hippocrates Cous, uscito postumo nel 1626 a Roma. Ma solo dopo due secoli circa la stella della medicina ippocratea sembrò definitivamente tramontata: «… al giorno d’oggi il di lui [sc. di Ippocrate] dogmatico sistema viene riputato poco ragionevole nelle sue teorie, ed assurdo nella pratica… Ippocrate dunque, … fu il primo a sottoporre la medicina alla rigorosa esperienza, ed al ragionamento, che sono gli unici elementi, da cui possa sperarsi il progresso e la perfezione delle arti e delle scienze tutte. Ma… varj principj dell’umana ragione, e la influenza delle filosofiche dottrine del tempo… avvenne che l’esperienza ed il ragionamento, guidati e dipendenti da questi principj medesimi, presentarono risultai indicanti la falsità delle massime da Ippocrate stesso stabilite. Ippocrate insomma dalla teoria sul fuoco di Eraclito… Egli infatti concedendo ogni potere ai fluidi, ne’ quali solo riponeva il principio vitale… stabilì per base e fondamento della suaspeculativa dottrina, che tutte le infinite malattie… debbono ripetersi

dall’alteramento di que’ quattro fluidi da lui immaginati e riguardati quali dominatori esclusivi della vita… ed avendo Ippocrate esclusivamente basato su i fluidi medesimi il suo speculativo sistema, ne fluisce per ispontanea conseguenza che tutta la di lui umorale dottrina sia falsa ed erronea» (La filosofia dell’arte medica, del dott. Gregorio Riccardi. Tomo I, Roma 1829. Parte III, Umorismo, pp. 143-144, 148). 16 A riguardo, s’osservi ad esempio la visione olistica ed insieme magica, che della medicina aveva il Campanella: «Quoniam Medica ars est quædam magica praxis, in hominem quatenus infirmabilem, ideoque suum subiectum, operans, pro fine habens sanitatem: necesse est Medicum nosse totum hominem, singulasque ejus partes, causasque omnes circumstantes, a quibus communiter, & peculiariter iuvatur, læditurque. Ergo cælum, stellas, vires aëris, & aquarum, & terrarum qualitates, & potestatem in hominem, ut anni tempora, & ætates hominum, & consuetudines, & temperaturas, & habitationum proprietatem…» (Thomæ Campanellæ Ordinis Prædicatorum Medicinalium juxta propria principia Libri Septem, Lugduni MDCXXXV. Liber Primus, Quid sit Ars medica, p. 1). 17 Renata D’Elia, Vita popolare nella Napoli Spagnuola, Luigi Regina, Napoli 1971. Cap. X L’igiene, pp. 142-143. 18 Componendo il suo Discursus, il Cavallari non ignorava il De febribus Opus sane Aureum, opera assolutamente rilevante, pubblicata qualche decennio prima a Venezia, una sorta di Summa practicæ medicæ nel cui frontespizio si leggeva utile e necessaria a quelli che professano l’arte medica, perché in essa è annoverato il fior fiore dei Medici di tre scuole diverse, i quali si occuparono delle febbri: Greci, Arabi e Latini (De Febribus Opus Sane Aureum non magis utile, quam rei medicæ profitentibus necessarium, in quo trium sectarum Clarissimi Medici habentur, qui de hac re egerunt… Græci, Arabes, atque Latini. Venetiis MDLXXVI). 19 Questo “morbo epidemiale” si manifestava attraverso la febbre pestilenziale, o anche la febbre maligna; tuttavia si trattava più propriamente di febbre tifoidea, dal momento che [con riguardo alle esalazioni nocive, infatti il greco tu/ fomai vuol dir fumigo] al termine “tifo”, greco tiphos (tu=foj), febbre con torpore, si dava anche il significato estensivo di palude, donde «febbre maligna, così detta, perché, come asseriva anche il Cavallari, credevasi causata dalle esalazioni infette di acque stagnanti» (G. B. Bolza, Vocabolario Genetico-Etimologico della Lingua Italiana, Vienna 1852, sotto Thiphos, p. 379). Quanto, poi, alla inondazione di Nola, alla quale è riferito dal Cavallari il “morbo epidemiale”, «… maligna impressione dell’aria» avrebbe scritto un Padre gesuita un secolo dopo (Francesco Schinosi S. J., Istoria della Compagnia di Gesù, appartenente al Regno di Napoli, Parte Seconda, In Napoli, Nella Stampa di Michele Luigi Mutio, MDCCXI. Libro Terzo, Capo Duodecimo, p. 387). 20 Nel gergo medico di quei tempi, il termine Dieta significava Igiene preventiva, cioè il complesso di comportamenti e fattori indispensabili a preservar la salute e la vita («Originally, this word signified nearly the same thing as Hygiène and Regimen, i. e. [= id est] Diet was the employment of every thing, necessary for the preservation of health and life» (Medical Lexicon. A New Dictionary of Medical Science, by Robley Dunglison, &c., Philadelphia 1839. Voce Diet, p. 200). 21 Nel capitolo precedente il Cavallari, citando «ex quibusdam carminibus antiquioribus» dei quali non riferisce l’autore, scriveva: «Cum vere exundant putei stagnantque paludes // Verte solum certam fert mora parva necem. // Quod si perpetuo currat langynus in æquor, // fertilis, incolumis, Nola perennis erit» (De morbo, Cap. XIX, p. 82). Quanto alla «nuova inondazione di Nola… succeduta nella primavera del presente secentesimo, non già per ispesse piogge, come prima, ma per sotterranei sgorghi come novantasei anni addietro, dalle radici del monte Cicala: monte… certamente più molesto al distretto Nolano colle sue acque, che non il vicino Vesuvio col suo fuoco», «Havean gli antichi, dopo la loro sperienza di simigliante disgrazia, scritto in marmo a’ posteri il seguente consiglio, a fine di scansarla: Cùm vernum diluvium in agris tuis, Nolane, videris, mors mora, vita fuga erit. Ma il consiglio servì a’ benestanti, che tosto si fuggirono di Nola, non già agli altri che non havevano altrove o abitazione, o provvisione da sostentarsi» (Francesco Schinosi S. J., Istoria della Compagnia di Gesù, appartenente al Regno di Napoli, Parte Seconda, op. e l. cit., pp. 388-389). 22 «Claudio Galeno, nato a Pergamo nel 129, figlio di un famoso architetto, fu attentamente seguito nella sua formazione culturale sin dai primi anni di studio. Formatosi alla scuola di pensiero aristotelica, studiò anatomia ad Alessandria.. A 32 anni si trasferì a Roma e, manifesta la sua abilità, divenne medico dei gladiatori e successivamente fu chiamato ad esercitare presso la corte dell’imperatore Marco Aure-


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La peste che colpì Nola e Dintorni nel 1600- di V. Ammirati IO. BAPTISTÆ CAVALLARII “DE MORBO EPIDEMIALI QUI NOLAM, & CAMPANIAM UNIVERSAM VEXAVIT” lio e dei suoi successori... Morì nel 201» 23 La teriaca era un medicamento antiveleno composto da diverse sostanze semplici, «genus medicamenti compositi ex multis simplicibus adversus venena» (Calepinus Septem Linguarum, Venetiis MDCCLXXVIII, Vox “Theriăca”). Nei tempi antichi, dunque, la teriaca, oltre che usato come lenitivo («Pro linimentis uti possumus theriaca dissoluta in aqua florum aranciorum», Io. Hieronymi Pulverini Medicina Practica, Lugduni 1649, Settima ed.. Cap. XLV De cordis palpitatione, p. 453), fungeva da “vaccino” ante litteram, specialmente contro i veleni, «e per ultimo si ha per sicurissimo rimedio nella peste» (Teatro Farmaceutico di Giuseppe Donzelli, del Collegio dei Farmacopej Napoletani, XX ed., I ed. 1666. In Venezia 1728, Facoltà, uso, e dosa della Teriaca, p. 198). In greco, il termine qhriakh/, femminile dell’aggettivo qhriako/j vuol dir ferino. Il medico Dioscoride aveva usato la locuzione a)nti/ dotoj qhriakh/, cioè “[rimedio] somministrato contro le [morsicature delle] bestie, quindi antidoto, e, per estensione, rimedio medico. Sull’esempio di Galeno - medico greco nato a Pergamo nell’anno 129, morto a Roma nel 216 - anche il medico di Nerone, Andromaco il Vecchio, scrisse una sua “Teriaca”, nella quale, sulla scorta dei precetti del medico personale di Mitridate, propose una diversa teriaca, nella cui composizione entrava anche estratto di carne di vipera, animale notoriamente velenoso, che nell’antichità era ritenuto anche portatore del relativo antidoto (Ampia trattazione delle varie teriache e rispettive composizioni si trova in Teatro Farmaceutico, op. cit., pp. 198-199). Nel De morbo epidemiali il Cavallari cita diverse volte la Teriaca di Galeno, avendone probabilmente sotto mano una delle più recenti edizioni del tempo: Claudius Galenus - Iohannes Iuvenus, Libellus de theriaca ad Pisonem, J. Bellerus, 1587. Dell’uso curativo della teriaca faceva la parodia il Tassoni: «Chi gli ficcava olio o triaca in gola, // e chi il buttiro, o liquefatto grasso. // Avea quasi perduta la parola, // e per tanti rimedj era già lasso; // quand’ecco un’improvvisa cacarola // che con tanto furor proruppe a basso, // che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni // e scorse per le gambe in su i talloni. // O possanza del ciel, che cosa è questa? // Disse un barbier, quando sentì l’odore. // Questo è un velen mortifero che appesta…» (La secchia rapita, Canto X, str. 53-54). 24 «Ippocrate, medico, nato a Cos nel 460 a. C., pose le basi della medicina scientifica fondata sull’attenta osservazione del malato e rompendo il legame con la medicina teurgica... Dunque, la filosofia presocratica aveva considerato aria, fuoco, acqua e terra principi basilari non solo della natura, ma anche dell’uomo in quanto ente naturale. I medici, invece, seguendo Ippocrate, stabilirono che altri fossero i princìpi sia costitutivi che vitali dell’uomo, individuandoli negli “umori”. Per questo, Prospero Marziano, nell’osservanza del principio che «Medici antiqui modernis maxime præstant» definì il metodo di Ippocrate un particolare curandi modus, la «vera medendi ratio» (Magnus Hippocrates Cous Prosperi Martiani medici Romani adnotationibus explicatus, Romæ MDCXXVI, pp. 17, 511; Ad Lectorem, pp. II-III). 25 Se prodotto da buon vino, l’aceto è un efficace antisettico, e là dove penetra, preserva dalla corruzione. «Acetum ex bono vino… magnum antisepticum est, resque varias, quas penetravit, a corruptione præservat» (Flora Pedemontana, op. cit., voce 1759 Vitis vinifera, p. 127). 26 «Agresta, cioè uva immatura… Si opera nel tempo della state, non solo per condire le vivande, acciocché eccita l’appetito; ma anche per reprimere il bollor della colera, la quale predomina in detto tempo. Serve il succo suo con una conveniente quantità di zuccaro, a formare siropo, il quale opera molto nel curare le febri cagionate da humori colerici…», Il chirurgo. Trattato breve di Tarduccio Salvi da Macerata, In Roma 1642. Parte Ottava Della natura de’ Semplici, p. 100. 27 «Pro potu vinum sit album, vel aurei coloris dilutum aqua in qua facta fuerit levis decoctio melissæ, vel pimpinellæ» (Io. Hieronymi Pulverini Medicina Practica, Lugduni 1649, Settima ed.. Cap. XLIV De cordis palpitatione, p. 451). 28 Per i medici antichi, infatti, il vino aveva proprietà medicamentosa utile di restituir forze al fisico; era poi ritenuto un efficace antisettico contro le febbri pestilenziali; perciò molte specie di vino medicamentoso venivan trattate nelle officine medicinali: «Vinum autem præcise medicamentum erit ad vires instaurandas, & magnum antisepticum habendum est in febribus putridis… Plures medicamentosi vini species in officinis existunt…» (Flora Pedemontana, op. e l. cit., p. 127). 29 «Vena basilica è detta anco assilare, nera, & iecoraria, & epatica». Il chirurgo. Trattato breve…, cit., Parte Prima Della flebotomia, Cap. XIII, Sinonimi di alcune vene, p. 9. 30 Durante la peste del 1656, nel registrar il decesso di chi ne fosse stato colpito, i parroci scrivevano spesso mala febre extinctus. 31 «… in passato si riteneva che le cause, le quali predispongono il nostro corpo a contrarre le malattie, fossero o l’alterazione degli umori organici, oppure il difetto nella giusta proporzione di essi. Nel corpo umano si ammetteva che vi fossero

quattro umori fluidi: il sangue, la collera, la flemma e l’atrabile… si ha la manifestazione della malattia, quando nell’organismo vi è un difetto nella quantità o nella qualità degli umori» (Regimen Sanitatis Flos Medicinæ Scholæ Salerni, Traduzione e note di Andrea Sinno. Libreria Antiquaria Editrice, Salerno 1973, nota 1 a pié di pagina 6-7). Nel primo Settecento, lo stesso Vocabolario della Crusca definiva il canchero «Tumore, o ulcere cagionato da collera nera, ha intorno le vene stese a guisa delle gambe del granchio. Anche la polvere [della serpentaria] confetta con calcina viva, e aceto fortissimo è ottima al canchero… Ippocrate dice aver curatro de’ cancri, ciò si deve intendere degli incipienti…» (Vocabolario degli Accademici della Crusca, Volume Primo, In Firenze MDCCXXIX4, sotto Canchero e Cancro, p. 529). In quegli stessi anni anche il Muratori scriveva: «Consiste la pestilenza in certi spiriti velenosi e maligni, che, corrompendo il sangue o in altra maniera offendendo gli umori, levano di vita le persone…» (L. A. Muratori. Del governo della peste, Milano MDCCCXXXII. Libro Primo, Capo I Spiegazione delle peste: origine e durata d’essa, p. 17). Quanto agli umori crudi, poi, detti anche umori nocivi, essi eran quei fattori esterni, come muco, marcia, pus, ascesso, catarro, e altre sostanze impure e dannose che turbassero l’intima armonia e l’equilibrio dei quattro umori vitali. Sempre con riguardo agli humores crudi, infine, la loro cruditas veniva riferita a molti e diversi fattori … gli umori corrotti infatti, ed altri umori estranei espulsi dal corpo, son detti anche crudi («Cruditatis nomen multas diversas res designat… Denique humores corrupti, et alieni egesti etiam crudi dicuntur. Inter hos omnes humores gravissimus est, qui vocatur atra bilis». Gli Aforismi d’Ippocrate, del dott. Gennaro De Rosa. Libro VII, Napoli 1852. Aphor. LXV Quæ cruda deorsum recedunt…, p. 253). La teoria medica degli umori faceva capo ad Ippocrate, ed era detta umorale. 32 «La purga di cassia o di sola manna, con acqua d’orzo era coscienziosamente prescritta dal medico» (Renata D’Elia, Vita popolare nella Napoli Spagnuola, op. cit., Cap. X. L’igiene, p. 147). «Cassia est medicamentum leniens inter placida placidissima… datur idem flos in potu, dum dissolvitur cum aquis stillatilis, vel cum decoctis, vel cum juribus alteratis; sed hoc raro, nisi illis qui bolos non admittunt» (Opere fisico-mediche stampate e manoscritte del Kavalier Antonio Vallisneri, Tomo Terzo ed ultimo, In Venezia MDCCXXXIII. Osservazioni varie. § Cassia solutiva, p. 169). «Laurus Cassia, aut Cassia Lignea» (Salvatore De Renzi, Collect. Sal. Tom. V, nota 5 a pié di p. 26). 33 L’acronimo Rha. sta per Rhamnus catharticus i cui frutti, dall’odore debole ma sgradevole e amarognolo, e dal gusto nauseabondo, hanno proprietà purgativa e son adatte a provocar la colica che può essere evitata con l’uso di diluenti, «Ramnus catharticus… Ramnus solutivus,… Purging buckthorn… Rhamni Baccæ - have a faint and disagreable odour; and bitterish, nauseous taste. They are cathartic, and are apte to excite griping, which must be obviated by the use of diluents» (Medical Lexicon. A New Dictionary of Medical Science, cit. Voce Rhamnusn, p. 532). Vedi anche Rhamnus catharticus in Flora Pedemontana, sive enumeratio methodica stirpium indigenarum Pedemontii, Auctore Carolo Allionio, Tomus Secundus, Augustæ Taurinorum, MDCCLXXXV. Voce n. 1761, pp. 129-130. Da notar che il latino rhamnus ha riscontro nell’italiano ranno, acqua bollente con cenere con forte proprietà detergente, cioè purgativa, un tempo usata per il bucato. 34 «If the matter come from melancholy, let it be purged with senna and polypody… // Give things against the poison internally, such as violet, and hypericon, and scabious; let the bowels be kept constantly relaxed with senna, and cassia fistula, and violets… // If melancholy be responsible here, let it be purged with hiera ruphi and with diasene (senna)… // Diasene, of senna; 32b. Cf. sene; R. A. diasenæ. Syd. An old name for an electuary or confection of senna… // (Lt. senna, Ar. sana), senna, a plant of genus cassia.» (Iohannis Anglici Rosa Anglica seu Rosa Medicine, Edited With Introduction, Glossary And English Version By Winifred Wulff, M. A. Published For The Irish Texts Society. By Simpkin; Marshall, Ltd. Stationers’ Hall Court, London, E. C. 4. (1923) 1929. I, 53; 21, 3; 233; Vocabulary 361; Vocabulary 401). 35 Diacatholicum, greco diacatholicon, «A purgative, so called from its general usefulness» (www.define.net/diacatholicum). Più compiutamente definito: «Diacatholicon, Diacatholicum, from dia\ and kaqo/likoj, ‘universal’. The name of a purge, so called from its general usefulness. It was an electuary, and composed of the pulp of cassia, tamarinds, leaves of senna, root of polypody, flowers of the violet, rhubarb root, aniseed, sugar, liquorice, and fennel» (Medical Lexicon. A New Dictionary of Medical Science, cit. Voce Diacatholicon, p. 196). «… Item ex manna cum succ. ros. persic. vel bolus ex diacath [olicum]. & conf. Hamech», Therapeuta Neapolitanus Marci Aurelii Severini, Neapoli 1653, p. 206. E nel Campanella: «Purgabis autem manna, cassia, thamar., myrobal., infusione rosar. diacath[olicon]. &c.», Thomæ Campanellæ Stylensis Ord. Prædic. Medicinalium juxta propria principia Libri Septem, Lugduni MDCXXXV. Liber Sextus, Cap. XVIII, Art. I De

diabete, eiusque cura, § 10 p. 499. In Giovanni Anglico: «Vel detur Diachat[olicum] cum agarico», Iohannis Anglici Praxis Medica Rosa Anglica Dicta, Augustæ Vindelicorum MDXCV, p. 588. Per diachat[olicum] vedi anche Bibliotheca MedicoPractica sive Rerum Medicarum Thesaurus, Tomus Secundus, Genevæ, MDCXCV, p. 295, centro della 2ª col.; e Tomi Tertii Pars Secunda p. 166. 36 «Per la purga universale si doverà cavar sangue dalla vena comune del braccio destro, pigliar per leniente l’eletuario lenitivo con un pocho di specie di hiera o il mel ros. sol. con la manna, per preparante li siropi assunti per non accresser l’humidità del stomacho, come sarano l’oximel, il siropo di betonica, il mel ros. et il siropo di scorze di cedro; per purgante l’infusion d’agarico et il diafinico con la giunta di deti lenienti. Et perché abondano li escrementi pituitosi sarà necessario ripeter la purga con siropi composti et terminarla con pilole cochie et di hiera cum l’agarico…» (Ioannes Domenicus Sala, Consulto hauto in Padoa dal eccellentissimo Sala del 1635 dal signor Gerolamo Celino per la sua indispositione. Sta in Donatella Bartolini, Consulti Medici Seicenteschi, p. 25. www.fupress.net). Altrove: «Hiera fu chiamata da Galeno una composizione medicamentosa destinata ad astergere il condotto degli alimenti, ed a disciogliere le ostruzioni… Si facevano due sorte di hiera; perciocché quando gl’ingredienti erano ridotti in polvere, ed uniti insieme, si chiamavano spezie di Hiera piera semplice di Galeno, quando poi erani unite al mele, si dava a questa composizione il nome d’elettuario di Hiera piera semplice di Galeno… Il nome Hiera significa medicamento eccellente, efficace, Piera suona in nostra lingua amara, cioè rimedio amaro efficace per togliere i morbosi disordini, contro ai quali si amministra» (Johann Peter Frank, Luigi Morelli, Josè Maria Fonseca de Evora, Del metodo di curare le malattie dell’uomo. Di Giovan Pietro Frank, Libro Undecimo, Firenze 1825, nota 40 a pié di pagina 219). 37 L’umore principale era ritenuto il sangue, che si riteneva essere «quella parte volatile e pura dei fluidi, simile all’aria; si faceva derivare dal cuore e rappresentava il caldo» (Regimen Sanitatis, cit., nota 1 a pié di pagina 6). 38 Nel Discursus del Cavallari, come nel gergo medico degli antichi, il latino Cor, il cuore, è da intender non come organo singolo, ma come vitalità organica “in locis propinquis cordi”, il cuore cioè come viscere principe, «vitalis facultatis principium», virtù vitale. In questo senso s’intendono espressioni come «… apud omnes notissimum morbum fuisse febrem pestilentialem pernitiosam ex ingenti humorum cordis putredine factam», «… cum aer ipse immediate cor per inspirationem attingat, in qua vita consistit…; dicebat… arguere cum enim putredo sit in corde, calor, & spiritus opem, & auxilium cordi dant…»; «… cum hic intensior sit putredo, & tota massa humorum in corde putrefacta fuerit, huius rei experientia»; «… tunc putridæ illæ exhalationes, & vapores, spiritus cordis corrumpunt, ex quorum corruptione mors statim contingit», «… in Agnano… in quo quando ponitur canis vivus, statim elevatur vapor putridus, quo per respirationem cordis canis inficitur», etc. (Cavallarii De morbo epidemiali, Cap. II, pp. 2-4; Cap. III, p. 8; Cap. X, pp. 36-37). Il cuore, infatti, «omnibus corporis partibus, mediantibus arteriis, quarum est principium, videtur esse alligatum», è organo vitale che presiede a tutte le facoltà del corpo, e che mediante le arterie è legato a tutte le sue parti, come fegato, polmoni, cervello (Io. Hieronymi Pulverini Medicina Practica, op. cit. Cap. XLIV De cordis palpitatione, p. 444). E, dunque, «Cor sapit», Sede dei sentimenti è il cuore (Regimen Sanitatis, cit., pp. 298-299). 39 Il mitridato, come la teriaca, era un antidoto chiamato così perché utilizzato, e forse ritrovato, da Mitridate re del Ponto. Tale farmaco, detto elettuario per la sua complessa composizione («ex electis rebus confectum»), fu considerato a lungo la panacea di tutti i mali, quindi, ad alterne vicende, usato nei secoli anche come rimedio contro la peste. Panacea, infatti, dal greco pa=n a)/koj, era, secondo Dioscoride, un’erba dalla quale si estraeva ogni medicina. La formula del mitridato, quindi, comprendeva molti ingredienti: «Mithridatium, Antidotum mithridaticum… A very compound electuary, into which entered: Myrrh of Arabia, Saffron, Agaric, Ginger, Cinnamon, Frankincense, Garlic, Mustard, Birthwort, Galbanum, Castor, Long pepper, Opoponax, Bdellium, Gum Arabic, Opium, Gentian, Orris, Sagapenum, Valerian, Acacia, Hypericum, Canary wine, Honey, &c. It was invented by Mithridates, king of Pontus and Bithynia, and was formerly regarded as alexipharmic. It is little used at the present day; and, from its heterogeneous nature, should be wholly abandoned» (Medical Lexicon, Philadelphia 1839. Vox “Mithridate”, pp. 396-397). 40 Si tratta del cardone benedetto, chardon bénit, pianta officinale della il cui succo era usato come sudorifero, febbrifugo e vermifugo (antielmìntico), nonché contro l’imbarazzo viscerale e l’itterizia, mentre la varietà di centaurea benedetta, che è molto amara, è efficace contro la pleurite e le febbri maligne: «…on emploie son suc exprimé comme sudorifique, fébrifuge et anthelmintique; on le prescrit aussi dans les cas d’embarras del viscères, et la disposition à l’ictère; on l’applique extérieu-


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La peste che colpì Nola e Dintorni nel 1600- di V. Ammirati IO. BAPTISTÆ CAVALLARII “DE MORBO EPIDEMIALI QUI NOLAM, & CAMPANIAM UNIVERSAM VEXAVIT” rement en cataplasme sur les ulcères cancéreux… La centaurée bénite… est fort amère: on s’en sert dans la pleurésie et dans les fièvres malignes (Dictionnaire del Sciences Médicales..., Tome Quatriéme, Paris 1813. Voce “Chardon”, pp. 542-543). Per il cardo santo vedi anche: Petri von Artenfils, Asylum languentium, seu carduus sanctus, vulgo benedictus,, medicina patrumfamilias polycresta, verusque pauperum thesaurus, Ienæ 1653. 41 Ortaggio della famiglia delle cicoree, la cui radice è alimento gradevole e salutare. Le si attribuiscono diverse proprietà curative, fra le quali quella di favorire l’eruzione del vaiuolo. Secondo alcuni si chiama così dalla scorza nera della sua radice; secondo altri dal termine regionale scorzone, che denomina la vipera «incrocio di lat. tardo curtionem [?] “vipera” con scorza» (Diz. It. Sabatini-Coletti. Voce scorzone1, p. 2408). E, proprio a proposito di serpe velenoso, «Scorzonera latifolia sinuata… è stimata propria contra la morsicatura della vipera, e degli altri serpenti, per resistere al veleno, per provocare il sudore, l’orina, e i mestrui alle femmine, per l’epilessia, per li vajuoli, per la peste» (Nicolas Lemery, Dizionario overo Trattato Universale delle droghe semplici, In Venezia 1737. Voce Scorzonera, p. 328). 42 «Dictamnus Cretica, seu vera. Origanum Creticum latifolium somentosum. In Italiano Dittamo di Candia, perché ritenuto originario del monte Ditte (Di/kth) nella Creta orientale. È una spezie d’origano… le foglie e i fiori contengono molto sale essenziale, ed olio… [Le foglie] sono aperitive, cordiali, proprie per promuovere i mestrui alle femmine, per accelerare il parto, per levar le ostruzioni, per resistere al veleno, per iscacciare per traspirazione i cattivi umori» (Ibd. voce Dictamnus Creticus, p. 121). «Le piccole foglie arrotondate sono cotonose e biancastre… L’odore della pianta è fortemente aromatico e gradevole, ma il sapore è aspro e piccante» (Gérard Debuigne, Enciclopedia delle piante della salute, Gremese Editore, Roma 2004.Voce Dittamo Cretico, p. 102). 43 «Lapis Bezoar Orientalis… pietra appresso poco come una nocciuola… trovasi in pallottole di differenti grossezze, e figure… Questo bezoar nasce in molti luoghi del ventre d’una capra salvatica dell’Indie Orientali, la quale chiamasi capricerva, perch’ella ha del cervo e della capra… Il bezoar… contiene un poco di sal volatile, sulfureo, ò oleoso… È proprio per fortificare il cuore, per eccitare il sudore, per resistere alla malignità degli umori, per fermare i corsi del ventre; si adopera nella peste, ne’ vaiuoli, nella dissenteria, nell’epilessia, nelle vertigini, nelle palpitazioni, per li vermi. La dose è di quattro grani fino a sedici; spolverizato sottilmente, e mescolato in un liquore appropriato» (Nicolas Lemery, Dizionario overo Trattato…, op. cit. Voce Bezoar, p. 49). 44 Zedoaria, nome barbaro. Arabo zurumbet, lat. Zadura herba, classificata come curcuma zedoaria, è pianta officinale dalle proprietà carminative, proveniente dall’India e da Giava, «la quale è degna d’esser messa nell’antidoti grandi… La zedoaria è cordiale, & è mirabile per preservare dalla peste» (Antodotario Romano Latino e Volgare, In Roma 1668. Delli composti aromatici, p. 98). La sua radice, tonda e di sapore che ricorda lo zenzero, «… mangiata dopo pasto, toglie dalla bocca l’odore dell’aglio e delle cipolle, e parimente del vino, giova al morso degli animali velenosi, ristagna i flussi del corpo, risolve l’aposteme della matrice; ristagna i vomiti, mitiga e guarisce dolori colici» (Teatro Farmaceutico, op. cit., p. 128). 45 Corallus incisus, corallo tagliato, per essere ridotto in polvere officinale - «… et sicut corallus, qui sub aqua est herba, sed cum extrahitur extra aquam illico durescit, rubescit, et lapidescit. Unde Ovidius, XV libro Meth. Sic et coralium quo primum contigit auras // tempore durescit: mollis fuit herba sub undis» (Guido da Pisa, Expositiones et glose super Comediam Dantis. Canto XXIII. In ambito officinale, invece, «Corallum, corallium, corallus, lithodendrum. È una pianta impietrita, folta di rami, che trovasi attaccata sotto gli scogli concavi… del mare Mediterraneo. Ve n’ha di tre spezie, rossa, bianca e nera… Sono buoni, macinati in polvere sottile, per fermare i corsi del ventre, i flussi di sangue; per correggere e raddolcire le acrezze dell’ugola, dello stomaco» (Nicolas Lemery, Dizionario overo Trattato Universale…, op. cit., voce Corallum.corallus, p. 102). 46 «Il sandalo è un’albero [sic] grande a guisa d’un noce… Il frutto grande quanto una saragia… Nasce il sandalo nell’Indie Orientali in foltissime selve, ove se ne ritrova di tre spetie… Composto utile a varie indispositioni, e principalmente a quelle del cuore, dissipandone i pravi ed acuti vapori, refrigerandolo e corroborandolo, il che anco nelle febbrici acute con le dette qualità giovan molto» (Imerologio, ouero discorsi diurni intorno alla confettione iacintina, Per Mattia Amidei Sanese, In Siena 1643. Giornata XIII nella quale si parla de’ tre Sandali, pp. 103, 107). 47 Il bolo armeno [gr. Bw=loj, «zolla, cumulo», armeno riferito alla provenienza], detto anche bolus armoniacus, era appunto una zolletta, ovvero pillola officinale a base d’argilla rossa,

ideata al tempo di Galeno, e ritenuta «molto potente contro i morbi pestilenziali per l’autorità di Galeno» (Imerologio, op. cit., Giornata X nella quale si parla di Terra Sigillata, p. 78, ma vedi l’intero capitolo pp. 75-80). Da notar che, celiando proprio sul bolo armeno, oltre che sul già citato mitridato, scriveva il Tassoni: «Il Coltra e ’l Galiano, ambo speziali // correano con mitridato e bolo armeno; // e i medici correan con gli orinali // per veder di che sorte era il veleno» (La secchia rapita, Canto X, str. 52). 48 «La terra sigillata, & il bolo armeno orientali da Galeno furono lodati per la peste, & i medici lo credono» (Antodotario Romano, op. cit., p. 98). «… dicendo Dioscoride, che essa terra si trahe nell’isola di Lemno da una spelonca paludosa; della quale s’elegge la più perfetta, ed impastata di sangue caprino, formatone d’essa trocisci* la sigillano poi cin una impronta di capra. E Galeno ancorché riprovi la terra sigillata mescolarsi con sangue caprino, conclude nondimeno che si trae solamente da quell’isola» (Imerologio, op. e cap. cit., p. 76). Anche per la confezione dello sparadrappum, fra altri ingredienti «minio dramme dieci, bolo armeno, terra sigillata, di ciascheduno dramme sei» (Antodotario Romano, op. cit. In calce al testo, con numerazione Autonoma delle pagine, Nuova aggiunta di ricette. Voce Sparadrappum, p. 23). *Quanto ai menzionati “trocisci” [sing. trocisco o trochisco], si tratta di pastiglie di forma rotonda, dal greco tro/xoj, ruota. 49 Uguali porzioni d’erba carice, così abbiam tradotto l’espressione «caricarum ana» usata dal Cavallari. Carice, infatti (lat. caricem, lat. med. carica), era il nome di un’erba officinale (“spetie d’erba”) dalle foglie acuminate e durissime, simile allo sparto, ma semanticamente prossima al cardo («herba acuta et durissima, sparto similis… Rappelle carduus», A. Ernout et A. Meillet, Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine, Klincksieck, Paris 20014. Vox cārex, p. 100). Quanto, invece al termine “ana”, che altro non è che abbreviativo di “analogo”, esso era «proprio delle ricette medicinali, per cui i medici esprimono doverli prendere delle cose ordinate uguale quantità, o peso ec.» (Compendio del Vocabolario della Crusca, Tomo Primo, In Firenze MDCCXXXIX, pp. 444, 128). «Caricarum ana», come la polvere di semi di lino, denominava un impiastro emolliente del tipo Cataplasma maturans (Praxis Medica et Chirurgica Nosocomiorum Civitatis Londini. Londini MDCCLXX, p. 197). 50 «…in epittematibus», dice il test latino; il cui corrispondente italiano, nel gergo farmaceutico arcaico, è epìttima, o epìtema, «Medicamento esterno, ossia decozione d’aromati in vino prezioso, la quale reiteratamente scaldata, e applicata alla region del cuore, conforta la virtù vitale… “Si faccia un’epìttima con fiori di rosmarino e di borrana billiti in acqua rosata”» (Tommaseo-Bellini, Dizionario della Lingua Italiana, voce Epìttima). 51 La spiegazione di umori crudi l’abbiam fornita in precedente nota 31 a pié di pagina. 52 «in primis venis», cioè nelle vene appartenenti a uno specifico organo del corpo in quanto parte di esso. Secondo Galeno, infatti, le scorie che si trovano nelle vene gastriche vengono eliminate più prontamente attraverso il ventre; quelle che si trovano invece nelle vene epatiche, attraverso i canali urinari; quelle, poi, che sono nelle diverse arterie del corpo, attraverso il sudore; le vene della testa, infine, eliminano le scorie attraverso il palato o le narici, o per entrambe queste vie («Promptius evacuantur per ventrem quæcumque in primis venis continentur supefluitates, quæ autem in his quæ in hepate sunt per urinæ meatus, at quæ in toto corpore per sudorem, sicuti quæ in capite, vel per palatum, vel per nares, vel per untrumque…», Andreæ Thurini Opera. Romæ MDXLV. De loco incidendæ venæ, p. 94). 53 «… ut fiat corpus lubricum», perché il corpo diventi sciolto («Corpo o ventre lubrico, vale sciolto, molle, contrario di stitico». Per mantenere il corpo lubrico tra i medicamenti la miglior cosa è la cassia… Tommaseo-Bellini, Diz., cit., voce “Lubrico” n. 4). L’argomento “corpo lubrico” veniva illustrato anche dal Muratori: «Gioverà dunque il solo riserbare in que’ tempi [di peste] qualche alleggerimento di sangue ai temperamenti pletorici; e lasciati stare i gagliardi purganti, sarà da lodarsi il tener con piavevoli medicamenti sufficientemente lubrico il corpo...» (L. A. Muratori. Del governo della peste, cit. Libro II, Cap. II Cauteri commendati per preservarsi dalla peste, p. 173). 54 A margine del testo latino è la didascalia “Pilulæ Rufi pro tuẽdis a pestilenti lue corporibus”, pillole di Rufo per difendere il corpo dalla peste. Quanto alla loro composizione farmaceutica, le pillole di Rufo son dette anche pillole di aloe e di mirra; la formula di questo medicamento qualche secolo dopo era cambiata nel modo seguente: «aloe succotrino polvere 64 parti; mirra in polvere, 32; saffrano in polvere, 16; sciloppo di assenzio quanto basta. Si facciano secondo l’arte pillole del peso di 4 grani. In dose di 10 a 24 grani. Sono lassative e purgative dai 48 ai 60» (Dizionario delle droghe semplici e composte o Nuovo

Dizionario… di A. Chévallier, Tomo Quarto, Venezia MDCCCXXXI, p. 252). 55 Scropulo di croco (scrupulus croci). Scropulo, o anche scropolo e scrupolo, latino scrupŭlus, abbreviato in scriptulum, dal verbo scribĕre (similmente, il greco gra/mma dal verbo gra/ fein, scrivere; vedi Tommaseo-Bellini, Dizionario, cit., sotto scrupolo; Ernout-Meillet, Dictionn., cit., sub scrupus; Du Cange, sub Scriptulus e Scripulum. Per altri, invece, si tratta del latino scrupŭlum, sassolino). Lo scropulo, che per Columella era una mensura agraria di cento piedi, e ancor nel corso del medioevo denominava uno scripŭlus terræ, (Du Cange, Glossarium Mediæ et Infimæ Latinitatis, Tomus VII, Niort 1886. Sub 3. Scrupulus-Scripulus), nella farmacopea galenica denotava il peso di 20 grani; poi la ventiquattresima parte dell’oncia o dell’ora. Il croco o saffrano (zafferano), invece, è una pianta delle Iridacee, ed è così detto dal colore rosso o giallo oro dei fiori. Usato come farmaco galenico, il croco era «sedativo, antispasmodico e narcotico… Ippocrate lo prescrisse in fomenti sulle parti addolorate dalla gotta e dal reumatismo» (Regimen Sanitatis, op. cit., nota 2 a pié di pagina 168169). «Crocus sativus, Crocus Austriacus, Medicina Tristitiæ, Panacea vegetabilis, Zaffran…» (Medical Lexicon, op. cit. Voce Crocus, p. 172). 56 «… & dicuntur pilulæ de tribus amplius pro præservatione…». Nel 1576 scriveva il medico G. Filippo Ingrassia Protofisico del Regno di Sicilia: «la commun, & general osservanza degli huomini, in tempo dell’acerba, e crudel peste, [è], pigliar, come si dice per un certo volgar proverbio, le pillole de tribus, cioè composte di tre cose chiamate, cito, longe, & tarde: che vuol dire, presto al fuggire, lontano paese ad habitare, e tardo al ritornare. Tanto che alcuni giuriconsulti meritamente chiamando questo male bellũ Dei, cui humanæ vires nequeunt resistere, & dicendo che, Deum nititur tentare, qui in loco contagioso contendit habitare, permettono eziandio a’ consiliarji, che regnando vigorosamente la pestilenza possano liberamente senza licenza ancor di loro superiori assenti, dal luogo infetto, fuggirsene, tuttoche in niun’altro caso lor fosse lecito» (Informatione del pestifero et contagioso morbo… Col Regimento preservativo, & curativo, da Giovan Filippo Ingrassia, Forca 1576, cit. Al Re Filippo d’Austria, p. 1). In realtà, lo stesso Galeno parlava di «… usitatis mihi Pilulis, quæ ex Aloe, Scammonio, & Colocynthide constant» (Teatro Farmaceutico di Giuseppe Donzelli del Collegio dei Farmacopej Napoletani, Iª ed. 1666, poi In Venezia 1704, sub Pillole de tribus di Galeno). A metà ’700, invece, il Muratori, in tema di antodoti preservativi della peste, scriveva: «in questo genere decantate e lodate da tutti le antichissime pillole di Rufo, o sia pillole De Tribus, come un antipestilenziale maraviglioso… Si compongono nella seguente forma: Aloè, incenso, ammoniaco, ana part. 2. Mirra part. 1. Pestati, si mescolino con vino odoroso, e se ne formino pillole» (L. A. Muratori. Del governo della peste, op. e l. cit., p. 174). 57 Il termine “conserva” nel testo latino ha valore di «Preparazione farmaceutica di consistenza molle e polposa…» (Tommaseo-Bellini, voce Conserva15). 58 «Verum si tempus anni fuerit calidum… possumus uti Syr [opo] de agredine citri, vel conserva ex acetositate citri…» (Io. Hieronymi Pulverini Medicina Practica, op. cit., De curandis febribus; Antidota, p. 123). 59 «Oxalida, & Acetosella sono la medesima cosa; se ne fa acqua nel mese di maggio, e si insola per molti giorni.. Bevuta, & applicata di fuori, rinfresca il sangue, il fegato, e la milza, Ne’ tempi pestilenziali, tutti gli Elettuarii contro la peste, e la Theriaca, & il Mitridato istesso, si pigliano con quest’acqua. Rimette il fervore de’ morbi caldi, giova alla vista, e mitiga il dolor del capo; è ottima alle mammelle infiammate; leva il delirio dell’animo, & il tremore del cuore» (Teatro Farmaceutico, op. cit., Parte Terza, p. 449, sotto Acqua di Acetosella) 60 «dragm. iij trium santalorum»; similmente nella medicina della Scuola Salernitana: «Fit tria santalorum opere medicina colorum», i sandali offrono tre medicamenti coi loro colori In passato si distinguevano tre specie di sandalo: il bianco, il rosso e il giallo o citrino. Incidendo la corteccia si ricavava un liquido… Migliore fra tutti era ritenuto il cetrino, e quello rosso, detto sangue di drago (Regimen Sanitatis, op. cit., pp. 196197, e nota 3 a pié di pagina). 61 «La vera e volgar Tormentilla», della famiglia delle rosacee, sette foglie, e odore molto aromatico, detta comunemente tormentilla perché placa il forte dolor di denti. Nasce in siti montuosi e in terreno sterile… produce da 1 a 9 radici, la cui polvere è adoperata come emostatico; mentre il suo decotto è rimedio contro tutti i veleni, e febbri maligne… (… «che vien così detta quia tormentum, cruciatumve dentium sævissimum placat…t ». Teatro Farmaceutico di Giuseppe Donzelli…, cit., sotto Della Tormentilla, pp. 155-156). 62 «… omnium santalorũ sem. ozimi». Ozimi sono gli «arili uvarum», cioè gli acini, o anche i semi dell’uva. ■


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