Cultura e Prospettive
Ottobre – Dicembre 2015 n. 29
Una biografia della nazione messa in scena nel teatro del capitale di Giancarlo Micheli
Ad avvicinarne i simulacri nei quali, durante ogni presente che il fiume della Storia abbia lambito, rinnova le proprie falsificabili testimonianze, non si rimane mai esenti dalla disagevole precognizione del luogo dove minaccia di estinguerci, nonché del tempo su cui incombe, presago di malaugurio, risolutamente nefasto, a tal segno da sedurre a giudizi frettolosi. Quale mai sarà tale demone che so già sfuggito nel momento in cui dissimulo di seguirlo sulla falsariga della scrittura, ovvero fingo di precederlo nella sempre poco accorta speranza di trarlo in qualche trappola nella quale, del tutto verosimilmente, sarà lui a far cadere me? Poiché, da quasi trent’anni a questa parte, gioco con lui a mosca cieca, comincio da qua a prenderlo per le corna e ne disvelo d’acchito l’identità: ebbene sì, si tratta proprio del demone della politica, forma spettrale del discorso che ha date epifanie di sé, a vantaggio e scapito di contemporanei e posteri, in Areopaghi, Senati, Chambres des deputés, Reichstage, Diete e Dume, si è annidata nei capoversi di monografie e pamphlets, papiri, palinsesti e nuovi media, si è persino lasciata vivisezionare sulle tavole anatomiche positiviste, sulle quali si volle diagnosticarne la precoce morte, una volta che la si fosse inghiottita nelle mostruose e predittive fauci della scienza borghese. Ora, affinché la politica possa afferire ad un senso che additi a chi viva una via alternativa al vicolo senza uscita dove il nuovo ordine pseudo-religioso dell’economia capitalista la reclude tenacemente entro i propri ottenebranti formati spettacolari, pateticamente superomistici e postindustriali, saranno necessari paesaggi dove le donne e gli uomini possano tornare ad incontrarsi in carne ed ossa, e saranno necessarie nuove calpestabili utopie, giacché sulle sedi delle adunanze mediatiche oggi in voga – siano esse congegnate per riprodurre, a virtuali costi di realizzo, le immagini di folle rabbiose o festanti, ovvero per irretire coscienze di ora in ora meglio debilitate in informatici giochi di società sussidiari della vita – non crescerà più l’erba, né si avrà memoria di quella falciata per far loro spazio. Pertanto, non è senza mesta umiltà che ci accingiamo ad eleggere tale luogo dell’utopia in queste pagine, consapevoli che esso avrà un suo senso
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