Marocco, le difficoltà di reinserimento dei migranti di ritorno

Page 1

Migliaia di giovani ascoltano il discorso di Nasser Zefzafi, durante una delle proteste promosse dal movimento “Hirak”

Marocco, le difficoltà di reinserimento dei migranti di ritorno I magrebini che, negli anni Settanta e Ottanta, erano approdati per primi in Italia, ora rientrano in patria con un mestiere acquisito, ma la loro integrazione non è facile. Vengono chiamati le “anime perse” e il governo ha aperto un ministero apposito per loro. Ecco le loro storie l Testo di Alessandro Ricci l Foto di Stefano Miliffi


Alessandro Ricci

“Q

uelli come me in Marocco li chiamano anime perse, è come quando sei in mezzo al mare e vedi tutto blu, non sai dove andare, hai perso la bussola”. Noreddine e io viaggiamo sul Boulevard Zayid Ou Hamd, vicino alla moderna stazione Casaport di Casablanca: architettura moderna in vetro e acciaio si staglia al centro di un giardino di palme e guarda alla Medina, l’antica parte della città. Due anime che rappresentano le contraddizioni del Paese. Fa un caldo torrido. L’aria è irrespirabile per i fumi di scarico delle migliaia di auto che invadono la strada e diventano un tutt’uno con le arterie cittadine. Le anime perse, quelli come Noreddine, sono i

Uno dei motivi per cui molti marocchini hanno deciso di abbandonare l’Italia risiede nel rapido sviluppo del Paese, che assomiglia a un gigantesco cantiere a cielo aperto migranti di ritorno. Coloro che, dopo aver vissuto all’estero, hanno fatto ritorno in patria: per investire, sfuggire alla crisi o semplicemente ritrovare famiglia, tradizioni. Dal 2008 a oggi il numero di marocchini rientrati a casa è cresciuto esponenzialmente, tanto che il governo ha dovuto aprire un ministero apposito. Nel solo biennio 2012-2013 sono venuti a cessare quasi 40mila permessi di soggiorno di marocchini in Italia e il trend è stato confermato negli anni a seguire. Sono queste anime perse che stanno investendo in Marocco, facendo del Paese alle porte dell’Africa, una delle economie più sviluppate del continente. Noreddine è uno di loro, mente italiana e corpo marocchino, accento piemontese, passato da falegname. Come tanti altri, con la propria famiglia salpò da Tangeri, sulla costa settentrionale marocchina, capoluogo di quei 500 chilometri di costa mediterranea che rappresentano l’apertura del Paese africano all’Europa e lo legano indissolubilmente ai crocevia mercantili, rendendolo porta d’Africa e d’Europa allo stesso tempo.

52

numero 36

Il primo amore Da molto tempo il proiettore del cinema italiano di Tangeri è spento, l’istituto di cultura italiana Dante Alighieri è stato chiuso, le iniziative culturali scarseggiano. Alle porte dell’Africa, Tangeri è lo snodo delle migrazioni marocchine verso l’Europa. Quella che per noi è la porta dell’Africa, per i marocchini è l’accesso al benessere. O almeno così è stato fino a quando per il Marocco l’emigrazione è stata un espediente contro la disoccupazione. “Siamo fortunatamente riusciti a riaprire l’istituto di cultura italiana Dante Alighieri”, dice Jamal Qassini, direttore di orchestra, 57 anni e un passato in Italia con Moni Ovadia. “È importante, perché per coloro che tornano è difficile reinserirsi nella quotidianità”, precisa. La città che Jamal ha lasciato negli anni ’80, per costruirsi una carriera nel mondo della World Music, è cambiata su molti fronti. È sufficiente osservare i viali in stile europeo e la nuova stazione dei treni Grand Vitesse. Parte del motivo per cui molti marocchini hanno deciso di abbandonare l’Italia risiede nel rapido sviluppo del Paese, che assomiglia a un gigantesco cantiere a cielo aperto. Strade, stazioni e palazzi in costruzione nascondono il malessere di bambini che vendono sigarette sfuse o respirano colla agli angoli delle strade. Nonostante la rapida crescita, pari al 3-5 per cento, “il nostro Paese – dice Jamal – ha un percorso molto difficile da fare, la scolarizzazione è stato un grande problema e alcune zone del territorio sono rimaste isolate”. Il Marocco regge la propria pace sociale sulla scommessa di Mohammed VI, il giovane re che ha evitato il contagio delle “Primavere Arabe” concedendo una costituzione e iniziando un progetto di regionalizzazione, ossia la costruzione di nuove città per fronteggiare l’urbanizzazione e per sviluppare il settore edile. Eddai Mustaphi, 44 anni, è stato uno dei primi a cogliere l’occasione, sfruttando le competenze acquisite in Italia dove ha vissuto per 20 anni lavorando come piastrellista. Ha aperto un business tutto suo, da semplice operaio a imprenditore. Stanno ristrutturando un ufficio e lui si occupa dei lavori in muratura: “Aperta l’azienda – racconta – sono andato in Italia per comprare strumentazioni che qui non ci sono. Questo mi da un certo vantaggio competitivo. Crisi italiana e boom marocchino mi hanno spinto a tornare, ma non esiterei a ripensarci se l’aria dovesse cambiare”.

Eppure se a un primo sguardo il Marocco sta vivendo un boom, sembra che questo sia riservato a pochi. Si vive una disparità sia a livello rurale e urbano, sia lavorativo. Il reddito medio al mese di un operaio si aggira intorno ai 2.011 dirham, circa 200 euro. Inoltre, grazie al programma di regionalizzazione e alle rapide migrazioni interne che hanno sostituito quelle verso l’Europa, sempre più contadini si spostano nelle grandi città trovando un ambiente ostile e molto competitivo.

I cicli del ritorno La stazione dei bus di Marrakesh si trova proprio al confine della vecchia città. Allo stallo numero 6, direzione Casablanca, è un viavai di bambini che vendono acqua per sei dirham e “incantatori” di turisti che offrono qualsiasi merce. Le stazioni sono il nuovo mercato cittadino dove si respira l’anima marocchina, il tessuto sociale che tiene insieme diverse tribù e le fonde sotto un’unica bandiera, il commercio. Il viaggio, attraverso autostrade deserte, offre panorami che fondono oceano, montagne e paesaggi al limite della desertificazione, nonché l’occasione per arrivare nella capitale finanziaria, dove tradizione e sviluppo si rincorrono a colpi di denaro e religione. La regione di Gran Casablanca è diventata la meta preferita per il ritorno in patria. Palazzi di trenta piani e multinazionali regalano la speranza di un lavoro sicuro e un modello basato sul self made man americano. Mohamed Sami Ben Jelloul è un uomo onesto e gentile e lavora all’Ice Italia, l’Istituto per il commercio estero. Ha vissuto nella nostra Penisola dieci anni: “è la patria che mi ha fatto crescere sul lato personale e professionale”. Ha un posto da impiegato, al secondo piano di un palazzo in stile coloniale. Bandiere italiane decorano stanze algide e separé in vetro dividono gli uffici. Nel periodo italiano ha avuto diverse esperienze lavorative, che lo hanno “aiutato nella ricerca di un lavoro in Marocco”. I dati ufficiali dicono che oltre 520mila marocchini sono presenti sul territorio. Grazie alla migrazione di ritorno si è verificato “un impatto economico immediato, le rimesse hanno permesso di migliorare la vita delle famiglie marocchine povere, o meno agiate” dice Mohamed Sami. Per facilitare il rientro e l’apertura di aziende da parte dei migranti di ritorno, il governo marocchino ha messo a punto degli strumenti ad hoc come gli “incentivi generali che riguardano tutti gli investi-

numero 36

Dall’alto in basso, l’ufficio di Rashid e Nordin; alcuni ritratti di Mohammed VI; Sami, impiegato all’Ice, l’lstituto nazionale per il commercio estero, situato all’interno della ambasciata italiana a Casablanca

53


A sinistra, un gruppo di dipendenti della falegnameria di Rashid e Nordin al lavoro; a destra, Mustapha, 44 anni, ritratto in un cantiere a Marrakech

54

menti sul territorio, l’esonero dall’Iva in dogana per l’importazione di attrezzature e la sospensione per cinque anni della tassa professionale” continua Mohamed. Sebbene sia piuttosto difficile da monitorare Mohamed Sami sostiene che il fenomeno del ritorno sia profondo: “Per i piccoli progetti si investe nelle città di provenienza dove si conosce già la realtà economica, avvalendosi dell’aiuto dei parenti. Invece, per i grandi progetti si cercano regioni e luoghi dove vi sono opportunità di business, vantaggi ed incentivi fiscali e infrastruttura logistica adeguata”. Della stessa idea è Mohammed Kachani, professore di economia delle migrazioni all’università di Rabat. In uno studio pubblicato insieme alla European training foundation, sostiene che il 15 per cento dei marocchini di ritorno provenga proprio dal nostro Paese: “L’Italia è diventata meta prediletta quando gli altri paesi europei hanno cominciato a chiudere le frontiere. Ci sono zone del Marocco dove la maggior parte dei migranti scelse l’Italia”. Ad esempio, la provincia di Beni Mellal, dove oggi “si vedono auto con targhe italiane, le persone parlano italiano e la

numero 36

catena migratoria è iniziata”. Secondo Kachani, la migrazione verso il Belpaese ha iniziato a essere cospicua intorno agli anni ‘80, per due motivazioni principali; la chiusura delle frontiere da parte di Paesi “tradizionali” per l’emigrazione marocchina, ovvero Belgio e Francia, e per il fenomeno delle catene migratorie, ossia la partenza dei primi pionieri che ha creato un passaparola spingendo altri a trasferirsi in Italia. “Ma quella verso l’Italia – aggiunge – non è mai stata una migrazione di competenze, piuttosto una migrazione di persone poco istruite che facevano lavori sottoqualificati”. Questo, insieme all’immaginario collettivo delle “marocchinate”, ha contribuito a creare lo stereotipo del marocchino barbaro agli occhi degli italiani. Gli studiosi dividono la migrazione marocchina verso l’Italia in diverse fasi storiche. La prima, tipica dell’inizio degli anni ‘80, formata da maschi single o sposati che lasciavano la propria famiglia. La seconda, di fine anni ‘80, con la consolidazione del fenomeno, infine gli anni ‘90 con il ricongiungimento familiare e l’arrivo di mogli e figli. “La migrazione verso il vostro Paese era finalizzata a un esito sociale

positivo. Si puntava a tornare e dimostrare che c’era stata una reale elevazione sociale”, dice ancora Kachani. Da qualche anno, invece, si è sparsa la voce che in Italia non ci sono più le possibilità lavorative degli anni ‘80 e ‘90 e questo ha contribuito al ritorno. “Ma c’è un problema nel reinserimento dei marocchini che ritornano – prosegegie Kachani – in particolare di quelli con bambini. A Rabat, ad esempio, non c’è una scuola italiana, ci sono a Casablanca, ma costano molto. Per coloro che fanno parte della seconda generazione, che sono più italiani che marocchini, l’inserimento è più difficile”.

Allah vede e provvede Alla periferia sud di Casablanca, dove le spiagge oceaniche si distendono per chilometri, surfisti temerari sfidano la forza del mare e camminatori isolati passeggiano sulla larga battigia. A poche centinaia di metri capannoni industriali affollano l’area della logistica, vicino a discariche improvvisate e bambini che giocano in mezzo all’immondizia. Nel settore est si trova una piccola falegnameria

dall’impronta italiana. Qui Rashid Krud, 45 anni, e Noreddine Baqili, 35 anni, hanno deciso di mettere insieme le proprie forze per portare avanti una passione: la costruzione di mobilie. I due hanno un percorso che spiega le difficoltà di integrazione per i migranti di ritorno. Rashid proviene dalla zona mineraria di Beni Mellal, che ha deciso di lasciare dopo aver visto i suoi amici fare fortuna in Italia. Spiccato spirito imprenditoriale, ha lavorato come autotrasportatore per poi aprire una propria ditta a Vicenza. Rappresenta quello che Pierre Bourdieu chiama la “doppia vergogna del migrante”, la vergogna che da un lato si esprime nei confronti della famiglia, dovendo dare prova di un certo successo, e dall’altro il bisogno di “dover dimostrare sempre qualcosa” nel Paese ospite. “Tornare non è stato semplice. I marocchini credono che basti rimettere piede in patria per avere successo, ma ci vuole sacrificio”, dice Rashid, il quale ha dapprima investito in un bar nel proprio villaggio, poi si è lanciato nel settore immobiliare e infine è entrato in società con Noreddine, mettendo a disposizione il proprio capitale sociale.

numero 36

55


Casablanca, la moschea Hassan II

56

Proprio il capitale sociale è uno snodo importante per il lavoro in Marocco. “Qui lavori solo se hai conoscenze influenti”, mi dice Noreddine. Non è stato facile per lui ritornare. La sua mentalità del lavoro italiana non si sposa bene con i lavoratori marocchini. “Non puoi pensare di essere in Italia. Ho aperto un’azienda, avevo 30 dipendenti. Appena hanno scoperto che mi fidavo di loro hanno cominciato a boicottarmi. Le persone pensano che Allah vede e provvede, appena paghi un dipendente, quello il giorno dopo non viene a lavorare”, racconta Noreddine, che individua il maggior problema del fare impresa nel paese nella mancanza di voglia di lavorare e nell’assenza di uno stato sociale. “C’è una povertà mascherata e lo sviluppo e l’istruzione sono solo per pochi”, conclude. L’emblema dello sviluppo per pochi è visibile semplicemente spostandosi su un Grand Taxis, una Mercedes anni 80’ adibita a taxi da sei posti, verso La Corniche. Case in stile colonico si affacciano su spiagge oceaniche. Sorveglianza armata davanti alle entrate, bar alla moda e boutique di lusso. Il mare tradisce la propria presenza solo grazie al rumore delle onde. È la cosiddetta Miami marocchina. Ma più che Miami sembra un set di Hollywood dietro al quale si nascondono baraccopoli e bambini che passano

numero 36

le giornate alla ricerca di qualche scarto da rivendere sul mercato nero. Questa zona è lo specchio di un Paese dove il 45 per cento della popolazione è analfabeta, dove mancano una sanità efficiente e una scuola pubblica di livello. Potersi permettere un’istruzione privata e un’assicurazione sanitaria sono appannaggio solo di una classe media che sta crescendo e che è formata, in parte, proprio da migranti di ritorno. In questo senso, l’emigrazione marocchina è stata una forma di sviluppo del Paese. Vi ha contribuito anche Nourredine Khalifi, 53 anni, un passato a San Benedetto del Tronto: “Mi occupo di import-export – dice – e lavoro anche come traduttore giurato. Ho deciso di lasciare l’Italia perché si è riempita di immigrati, ma ho ancora stretti rapporti con quei luoghi. Oggi guadagno anche 200 euro al giorno”. Grazie alle competenze acquisite, i migranti di ritorno stanno “rivoluzionando” il paese e creando una nuova borghesia. In molti casi, i loro figli parlano tre o quattro lingue e sognano di andare a studiare all’estero. Come questi quattro ragazzi con la macchina puntata verso il mare e una lattina di birra in mano, anche se bere in pubblico comporta l’arresto.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.