Le femministe cilene si ribellano contro le molestie sessuali

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Le femministe cilene si ribellano contro le molestie sessuali La protesta contro il modello patriarcale, scattata nelle università e in continua crescita, ha messo in discussione le istituzioni del Cile. Più di venti atenei occupati e assemblee ovunque, a partire dall’Università cattolica, dove cento ragazze si sono presentate a seno nudo l Testo di Gabriella Saba


Gabriella Saba

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Nella foto precedente e in quelle successive, volti di ragazze durante le manifestazioni cilene contro le molestie sessuali nelle Università. Le foto sono state scattate rispettivamente da Estefania Henriquez, Lucia Valdes, Claudio Santana, Javer Godoy e, nuovamente, Lucia Valdes

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erfino la filosofa di estrema destra Tere Marinovic si è schierata dalla parte delle femministe nel caso di Fernando Villegas, intellettuale e giornalista salito alla ribalta qualche settimana fa perché accusato da decine di colleghe di molestie sessuali. Non che la cattolicissima Marinovic sia diventata femminista, ma il suo deciso endorsement alle denunce dà un po’ la cifra della trasversalità della protesta femminile, del modo in cui sia diventata pervasiva e penetrata anche in quelle sacche in cui fino a qualche mese fa sarebbe stata impensabile. Sposata e con nove figli, contraria all’aborto anche nei soli tre casi in cui la legge cilena approvata l’anno scorso lo permette, Marinovic è pinochetista al punto che quando per offenderla l’hanno paragonata al giornalista pro-regime Hermogenes Perez de Arce, ha risposto che per lei era un grande onore. Dunque, la dichiarazione che ha scritto la filosofa su twitter e che hanno riportato tutti i media è questa: “Considero straordinarie le analisi di Villegas, non smetterò di ascoltarlo. Però ritengo inaccettabili alcuni suoi comportamenti di cui sono venuta a conoscenza in questi giorni (e da fonte diretta, non dalla stampa). Non difenderò l’indifendibile soltanto perché ho con lui affinità politiche”. La presa di posizione di Marinovic è l’ultimo sasso di una frana che in pochi mesi ha rischiato di travolgere società civile e istituzioni, mettendo in crisi i fondamenti stessi del patriarcato in Cile, tanto più solido quanto più accettato, per omertà o paura, dalle donne. È dall’aprile scorso che le più giovani e intellettuali tra loro, le studentesse universitarie, si sono ribellate e hanno intrapreso una protesta che ha sorpreso per dimensioni e consenso il Paese e messo in crisi il governo: accusato di essere sessista e maschilista e a cui si chiede di rimpostare dalle basi l’istruzione in Cile, un’uguaglianza di genere profonda e seria al posto delle concessioni paternalistiche che il presidente di destra Sebastián Piñera si sforza di elargire con goffi tentativi di empatia. Ad accendere la miccia sono state le alunne dell’Università Austral della città di Valdivia, che hanno occupato a metà aprile l’ateneo per protestare contro le molestie di un docente di cui chiedevano il licenziamento. Poche settimane dopo le hanno seguite le studentesse della facoltà di Diritto della progressista Universidad de Chile, per motivi analoghi: la denuncia per molestie che la collega Sofia Brito aveva presentato contro il celebre avvocato e professore di diritto am-

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ministrativo Carlos Carmona, 56enne, potentissimo ex presidente del Tribunale costituzionale che, a dire di Brito, l’avrebbe molestata in più occasioni tanto da spingerla a dimettersi dal lavoro che i due stavano svolgendo insieme. Ovvero la discussione presso il tribunale stesso della legge sull’aborto, che li impegnava giorno e notte e costringeva la ragazza a passare molto tempo nella casa del docente. Subito dopo la denuncia, le colleghe di Sofia hanno occupato l’ateneo chiedendo il licenziamento dell’accademico.

Violenze e umiliazioni A quel punto è stato come togliere il coperchio a una pentola che bolliva da parecchio, insomma è cominciata una protesta travolgente, vigorosa, intelligente e piena di ironia. Manifestazioni in tutto il Paese, più di venti atenei occupati, assemblee femministe in tutte la facoltà. E due manifestazioni che hanno portato in piazza fino a 150mila donne, la prima il 15 maggio. “Eravamo un’onda e siamo diventate tsunami”, scandivano le ragazze nelle marce. Indossavano vestiti di ogni tipo e c’era una coreografia basata sui corpi, sui segni dei corpi, che ha bucato il pubblico e veicolato e reso nuovo il messaggio. A sbigottire sono state per esempio le cento studentesse che nella prima protesta sono uscite – a seno nudo e con passamontagna viola – dalla Casa Central della Universidad Católica (la Puc) e hanno perfino messo in fuga gli encapuchados che cercavano di volgere in violenza la protesta. La Puc è una delle università più conservatrici eppure ha fatto la sua parte non solo con quella performance ma per alcune iniziative originali. Per esempio, un gruppo di 120 studentesse della facoltà di Diritto ha raccolto e pubblicato le più frequenti frasi sessiste pronunciate in aula dai professori, tra le tante: “Bisogna esigere di più dalle brutte perché le belle, anche se tonte, troveranno marito, mentre una tonta e brutta non la vuole nessuno”. Stando a quanto ci racconta Andrea Cifuentes, 23enne, dirigente tra le più seguite, “il sessismo è generalizzato e le violenze e umiliazioni che subiscono le studentesse sono sottostimate dalle gerarchie dell’università. Ed è per questo che molte non denunciano, perché sono convinte che non serva”. Sta di fatto che, a mano a mano che la protesta andava avanti e aumentavano le occupazioni, le ragazze hanno cominciato a prendere coraggio, nomi pesanti di decine di docenti sono finiti tra gli accusati e qualche volta erano comportamenti noti e in altri casi hanno sorpreso tutti come per Carmona. Per

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Non ho risposte precise, però credo che questa marea modificherà lo status quo”.

Il licenziamento di Cárdenas

ottenere il suo allontanamento le studentesse hanno occupato la facoltà per 74 giorni. Alla fine il professore è stato soltanto sospeso per tre mesi, ma non potrà insegnare nel 2018 e nel 2019. Anche il famoso giornalista Juan Pablo Cárdenas, premio nazionale di giornalismo, è stato cacciato dalla facoltà in cui insegnava nonostante le stellette che si era conquistato per la militanza contro Pinochet e le qualità di scrittore. Cárdenas era un noto molestatore oltre che prepotente e aggressivo e il suo allontanamento camuffato da dimissioni è stata una delle condizioni che hanno posto le universitarie per terminare l’occupazione.

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“È stato come se la rabbia che le cilene avevano controllato per tanto tempo fosse venuta fuori tutta in una volta”, spiega Lola Larra, scrittrice, femminista e autrice del recentissimo Al sud de la Alameda, pubblicato in Italia da Edicola, in cui racconta la microstoria di due ragazzi all’interno della macrostorica rivoluzione dei Pinguini, gli studenti delle scuole secondarie che nel 2006 si sollevarono contro il primo governo di Michelle Bachelet a cui chiedevano una scuola inclusiva e gratuita al posto di quella esosa e discriminatoria imposta dalla dittatura. Per Larra c’è un vincolo fortissimo tra quell’embrione di rivoluzione e la protesta delle donne: “Una parte

della protesta femminista arriva dai licei e ha come punto di riferimento la mobilitazione degli studenti del 2006 e quelle universitarie del 2011. Anche se chiedono cose diverse, c’è uno spirito comune che le anima e che considera il bene comune un valore irrinunciabile. Mi piace pensare che Paula, una delle protagoniste del libro, oggi sarebbe un’universitaria e parteciperebbe attivamente alle marce”. Larra non solo guarda con ammirazione al fenomeno, ma si fa molte domande: “Considero la protesta con ottimismo e allo stesso tempo con curiosità. Cosa sta succedendo realmente? Continuerà? Verrà dimenticata? Servirà a far diventare migliore questa società?

Nella galassia delle università in protesta l’organizzazione cambia da caso a caso e se la Puc ha una sola segreteria di genere in cui lavorano a pieno ritmo 25 attiviste, la Universidad de Chile ne ha una per facoltà e organizzazioni parallele come la Asamblea Feminista Separatista della Icei (il dipartimento di Comunicazione e Immagine), che non accetta uomini ed è stata la più dura nell’esigere il licenziamento di Cárdenas, il giornalista superstar. La responsabile della comunicazione, Valentina Camilla Araya, ci spiega che le studentesse hanno avuto grossi problemi ad aprire un dialogo con il tavolo direttivo della facoltà, poco disposto a cedere potere per costruire un progetto di lavoro insieme alle ragazze, che a quel punto hanno deciso di occupare la scuola. Le portavoce ruotano, si avvicendando con frequenza, ed è così che la struttura di quella protesta diventa una cosa molto diversa dalle rivoluzioni del passato: una creatura flessibile e orizzontale in cui chiunque è leader, anche se poi a finire nella scena sono figure carismatiche come Cifuentes, la ventiduenne Amanda Mitrovic (studentessa di Storia presso la Usach e portavoce della Cofeu, la Coordinadora Feminista Universitaria che guida le manifestazioni) e Sandra Beltrami della università Arcis, chiusa di recente. Non è che la protesta sia nata dal niente, e il femminismo in Cile fosse inesistente o esangue, ma questa tercera ola, la terza ondata, come la chiamano, ha stupito tutti per il vigore e la maturità, e per il modo di far convergere nella protesta femminista battaglie generali come lo sfruttamento dei subcontrattati haitiani, per dirne una. Arriva da lontano questa “terza onda”, che ha origine nelle proteste dagli anni Venti ai Cinquanta per l’uguaglianza nei diritti civili e politici. Poi c’era stata la seconda ondata, nell’ambito della dissidenza al regime che era rimasta un po’ schiacciata tra rivendicazioni più generali come la lotta a Pinochet. Non era insomma esattamente quella storia a sé che è cominciata nei primi anni Duemila, quando una dopo l’altra sono nate associazioni di avvocate femministe e di psicologhe femministe, gruppi femministi di calciatrici, centinaia di tavoli di lavoro e organizzazioni di accademiche come la Red de Investigadoras di cui fanno parte circa 120 docenti e che accoglie le denunce di studentesse di tutto il

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Paese. Nel 2013 nasce l’Ocac (Observatorio contra el acoso callejero, l’ Osservatorio contro le molestie per strada), che in poco tempo diventa un’organizzazione di riferimento con uffici paralleli in tutta l’America Latina. Inizialmente irriso e minacciato, l’Osservatorio mette per la prima volta sul tavolo un tema scottantissimo in Cile, dove il livello di violenza sulle donne è tra i più alti in America Latina e le molestia sessuali erano considerate fino a pochi anni fa il prezzo per la propria bellezza. Si deve anche all’impegno dell’Ocac se il 71 per cento dei cileni oggi è d’accordo con le rivendicazioni femministe, e benché ci sia uno scarto tra la percezione degli uomini rispetto a quella delle donne sono lontani i tempi (ma solo in termini di evoluzione, non di anni) in cui era impensabile che una ragazza andasse a prendere un caffé da sola al bar. E ancora nel 2006 o 2007 sedersi in un locale senza un uomo o un’ amica esponeva la donna a

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sguardi di riprovazione e qualche volta a insulti. Da allora, molte cose sono cambiate e parecchi mattoni sono stati aggiunti, costruendo le basi per quello che sta accadendo in questi mesi, e se la protesta è stata accolta con i tappeti rossi da una gran parte della società si deve a quel lavoro da formichine che molte militanti hanno fatto ognuna nel proprio campo.

I corsi di educazione Difficile schierarsi contro quella rivoluzione piena di energia e di ragioni, o criticarne perfino le iniziative forse più discutibili come i corsi per educare i professori a comportarsi con l’altro sesso e che alcuni hanno guardato con perplessità, paragonandoli agli aspetti meno esaltanti delle rivoluzioni. Perfino un conservatore maschilista come il presidente si è dichiarato femminista e dato che le richieste erano rivolte al suo governo ha garantito cambi profondi

nell’impostazione della scuola, il che ha convinto le studentesse a deporre (per il momento) le occupazioni. Il fatto che Piñera si sia accodato alla rivolta pur non avendo idea di cosa sia davvero, di cosa voglia dire, è il segno che quel fenomeno è vincente, e infatti molti ne hanno paura. Naturalmente ci sono i detrattori, i quali contestano il clima da “caccia alle streghe” e la ricerca di un colpevole purché sia, sostengono che professori specchiatissimi sono stati denunciati per vendetta e molti accademici sono così spaventati che quando ricevono le studentesse lasciano la porta aperta (a dire il vero sono state anche le ragazze a richiederlo). D’altro canto è quasi impossibile trovare donne, anche le meno impegnate, che non dichiarino che molestie e sessismo sono una pratica umiliante a cui è toccato a tutte loro sottostare. L’ultimo caso di sospensione di docenti è di metà del luglio scorso all’Università Centrale: quattordici

accademici di diverse facoltà sono stati allontanati dopo innumerevoli denunce e l’ateneo deciderà presto sulla loro sorte. Si tratta di provvedimenti interni visto che, come spiegano le dirigenti, le denunce ai carabinieri finiscono nel nulla, liquidate da consigli paternalistici come quello di “lasciar correre”. Eppure soltanto le violenze denunciate nella Puc sono state finora quest’anno quarantadue. Verranno esaminate e sanzionati i responsabili. Nel frattempo le studentesse femministe hanno messo sul tavolo un’altra battaglia: l’approvazione della legge per la depenalizzazione dell’aborto. Non è per niente una battaglia facile, in un Paese in cui la mistica della maternità è un dogma, gli antiabortisti sono a volte violenti e nella manifestazione del 26 luglio tre manifestanti sono state pugnalate da encapuchados. Ma loro, ormai, sono convinte che con la determinazione si fa tutto, che è soltanto una questione di tempo.

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