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“Non siamo noi che siamo ciechi, cieco è il mondo” Una giornata, bendato, con i ragazzi non vedenti dell’Istituto Colosimo di Napoli. Imparare l’alfabeto Braille non è difficile, più difficile è – dopo essere stati colpiti da una malattia agli occhi – tornare a scrivere. Fortunatamente la disabilità visiva, sostiene l’Oms, è in diminuzione l Testo e foto di Claudio Menna

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opo i primi saluti e le strette di mano

di cortesia decisero che avrebbero accettato di raccontarmi la loro vita e il loro rapporto con la disabilità visiva solo se io avessi accettato di mettermi alla prova, trascorrendo un’intera giornata bendato all’interno dell’Istituto in cui erano ospiti, l’Istituto Paolo Colosimo di Napoli, che è ormai l’ultima struttura rimasta attiva in Italia, adibita ad ospitare giovani e adulti con patologie psicofisiche legate alla disabilità visiva – cecità e ipovisione, allo scopo di restituire loro un’autonomia domestica e urbana persa o mai avuta. Il percorso all’interno della struttura è arduo e pieno di ostacoli per i nuovi arrivati: adattarsi al buio della cecità, accettare la propria disabilità e integrarsi in un gruppo di sconosciuti con i quali si condividono inconsapevolmente tante cose. E’ Lucia la prescelta ad accompagnarmi nel labirinto dell’istituto durante tutta la giornata in cui sarei stato bendato. Lei è nata cieca, ha la “sindrome di Charge” ma non si direbbe vedendola muoversi. Mi spiegano che chi nasce non vedente ha più tempo per imparare tutto, il cervello si comporta diversamente quando uno dei cinque sensi è praticamente nullo perché si ricorre a ciò che resta e lo si potenzia al punto tale da sopperire a quella mancanza.

In cerca di risposte Quando, anche a me, diagnosticarono una malattia degenerativa alle cornee mi cadde il mondo addosso. Il pensiero di poter perdere la vista era devastante, ma con gli anni ho fatto l’abitudine a questo stato mentale di attesa infinita per un qualcosa che non necessariamente – dicono – arriverà. Forse è stato questo


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elemento non propriamente secondario ad agevolare la mia integrazione nel gruppo del Colosimo, fatto sta che da quando trascorsi un’intera giornata bendato ho capito realmente cosa significhi “non vedere”, ho potuto ridimensionare la mia “malattia” e concentrarmi sul motivo per cui ero approdato in quel luogo nascosto in cerca di risposte. Dopo quel primo giro nell’istituto con Giulia divenni uno di loro. Non ci volle molto perché raggiungessi il livello di fiducia e amicizia necessari per procedere nel mio lavoro di fotografo. Nel corso delle lunghe chiacchierate fatte in questi anni mi hanno spiegato che il loro è un mondo fatto di ombre e luci, che la società li ignora del tutto, quasi li ghettizza, come se fossero un peso da scaricare in fretta. I politici fanno capolino nell’Istituto nei momenti di campagna elettorale, promettono attenzione e aiuti, per poi sparire fino alle successive elezioni. La disabilità visiva, sostiene l’Oms, è in diminuzione negli ultimi anni grazie al progredire della medicina ma soprattutto per le campagne di prevenzione che vengono fatte. E’ interessante notare che più di tre quarti dei casi di cecità nel mondo potrebbero essere evitati o trattati, poiché le cause principali sono dovute a patologie come la cataratta, i difetti della rifrazione non corretti (coma la miopia, la presbiopia e l’astigmatismo), il glaucoma, la degenerazione maculare nell’età avanzata, la retinopatia diabetica, il tracoma e le retinopatie in età infantile, spesso legate a malnutrizione o a nascita pretermine. Nel mondo ci sono 314 milioni di persone con deficit visivo, 45 milioni delle quali sono affette da cecità. L’80 per cento delle persone colpite hanno più di 50 anni e per lo più vivono nei Paesi in via di sviluppo (il 90 per cento). Con l’aumento delle aspettative di vita e l’aumento demografico si stima che nel 2020 la popolazione con disabilità visiva raddoppi. E’ interessante notare come le donne, a prescindere dal contesto in cui vivono e dall’età, presentano un rischio

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Nella foto della doppia pagina precedente, Miriam durante le sue ripetizioni di Braille; qui nella foto grande, Michela e Carlo discutono nel giardino dell’Istituto Paolo Colosimo. Nelle altre foto e in quella della pagina successiva, altri ospiti ipovedenti del Colosimo

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leggermente maggiore degli uomini di sviluppare un deficit visivo (fonte ancora l’Oms). Il mio obiettivo, sin dal primo momento, non è mai stato realizzare un fotoreportage di denuncia sociale focalizzato sull’aspetto medico del problema. Ciò che maggiormente m’interessava era scoprire come la disabilità visiva influisce sulla vita quotidiana delle persone, come costoro affrontano le difficoltà e in che modo sopperiscono al deficit della vista. Le interazioni fra coetanei, i rapporti di coppia, gli amori e le scaramucce tra amici o fidanzati, sono questi gli aspetti sui quali ho concentrato il mio studio fotografico, cercando di restituire in maniera onesta e sincera l’immagine di questi ragazzi che lottano ogni giorno per potersi affacciare fuori dalle loro zone d’ombra.

Volontà e determinazione Miriam ha 19 anni, da cinque è totalmente cieca, a causa di una rara patologia manifestatasi già nei primi anni di vita. “Il mio nervo ottico non si è sviluppato ed è rimasto quello di un neonato – dice – all’inizio provavo fastidio nel guardare la luce, sentivo come un pizzicore negli occhi, ma mi dicevano che non era nulla di grave. Poi un giorno mi svegliai per andare a scuola e mi resi conto che non vedevo più nulla, se non porzioni di luce. La vita da non vedente è dura specialmente i primi tempi quando sei quasi obbligata ad accettare un qualcosa che ti sovrasta. Il buio è una delle paure più grandi per un bambino, noi invece ci siamo abituati a questa condizione, siamo parte del buio, ci muoviamo nell’oscurità come gatti grazie alla pratica, all’esercizio e allo studio”. Uno, in particolare, è stato un banco di prova durissimo: “Tornare a scrivere non è stato facile. Il

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linguaggio Braille, invece, l’ho imparato quasi subito, non appena mi trasferii come convittrice all’Istituto Colosimo, dove sono cambiata nuovamente, in una direzione contraria a quella che mi aveva imposto la malattia. Circondata da ragazzi e ragazze con la mia stessa disabilità ho potuto accettare la patologia, i miei limiti e le mie difficoltà facendomi forza sul fatto che non ero più la sola e che soltanto grazie a quel gruppo potevamo farci forza a vicenda”. Sono passati cinque anni dal giorno del suo ingresso nell’istituto: “Ormai non faccio più grandi drammi, non mi dispero – prosegue Miriam – ho preso coscienza del mio stato e cerco di concentrarmi su alcuni obiettivi di vita che per me sono fondamentali. Ho iniziato a studiare alla Facoltà di Giurisprudenza, il mio sogno è diventare magistrato e di questo mia madre ne va molto fiera. Se dovessi ritornare a vedere anche solo per un istante vorrei rivedere il suo volto, anche per pochi secondi per capire come è cambiato, invecchiato”. Miriam è stata una delle persone che maggiormente mi ha colpito per forza di volontà e determinazione nell’affrontare la sua situazione, ma nelle sue condizioni ce ne sono tanti, troppi, che senza un adeguato supporto familiare e senza la dovuta informazione sono ancora intrappolati in quelle zone d’ombra cui la società moderna sembra non dare importanza. “Non siamo noi che siamo ciechi, cieco è il mondo”, mi disse Lucia l’ultima volta che la vidi prima che lasciasse l’Istituto e cominciare un nuovo capitolo della sua vita. Continuo ancora ad andare al Colosimo per conoscere i nuovi studenti e salutare i miei cari vecchi amici con i quali spesso condividiamo, tra lacrime e risate, una medesima condizione, sentendoci un po’ meno soli.


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