Fermo

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Angelo Ferracuti

certe abitudini o fobie o paure di chi ci abita. Almeno credo di conoscerle. Le ho interpretate, diciamo. A volte ho raccolto le “voci”, quelle preoccupate e quelle calunniose, alcune davvero raccapriccianti, frutto dell’invidia, una disgustosa umanissima cosa che muove il fare di molti. Sotto l’apparenza di una cittadina che è molto bella e austera, arroccata su un colle, circondata da un paesaggio magnifico, con balconate che danno su un cielo aperto azzurrissimo e colline morbide, qualcosa che ogni volta rinnova il mio stupore, la meraviglia, c’è un’altra città, quella che nessuno può vedere: lì pulsano il ventre e il cuore di quella privata e inaccessibile, che sa di portoni sprangati e di finestre dai vetri opachi, di liti matrimoniali e figli che urlano, di gente che fa l’amore e ansima, oppure di bambini che piangono abbandonati nelle culle. Quello per me era l’ignoto. Ogni volta che la mattina presto partivo per la “gita”, così si chiamava in gergo, pensavo a tutta questa moltitudine ed ero curiosissimo, perché ogni giorno

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La cattedrale La facciata della cattedrale dedicata all’Assunta, sulla sommità del colle Girifalco

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la piccola via crucis sarebbe stata diversa e non mi avrebbe annoiato.

I lecci centenari La mia zona preferita era quella del centro storico, che facevo tutta a piedi, borsa a tracolla e passo spedito. Cominciavo da Piazzale Azzolino e Corso Cefalonia, zona ad alta densità di negozi, uffici e poche abitazioni, poi andavo a consegnare in Piazza del Popolo, larga, ventosa, accogliente coi suoi caffè all’aperto e il volo dei piccioni, che prima dell’avvento dei centri commerciali era l’Agorà, il luogo affollatissimo del passeggio e dell’incontro, e che oggi fatta sera è invece popolata di spettri; proseguendo per via Vittorio Veneto, la “strada nuova”, per poi risalire fino al Piazzale del Girfalco, la punta più alta della città. Avevo pochi plichi da recapitare da quelle parti, e allora mi concedevo una sosta, seduto in una delle panchine sotto la fila di lecci centenari, con la Cattedrale bianchissima di fronte, ricostruita su quella rasa al suolo nel

L’odissea di un postino che non stava mai Fermo

1176 da Cristiano di Magonza, cancelliere di Federico Barbarossa, e più avanti il belvedere da dove si scorge in lontananza l’Adriatico, bevendo acqua fresca da una fontanella. Ma la parte che più mi piaceva era quella a ridosso della Chiesa di San Francesco, in stile gotico, dove entravo e uscivo dai vicoli umidi e oscuri, e potevo facilmente accedere ai piani. Mi sentivo padrone di quei luoghi. Il mio ruolo in quei momenti mi autorizzava a starci e spiare le vite degli altri. Un’altra zona particolarmente tortuosa era fatta di 50 vicoletti, la più complicata da memorizzare, una delle più antiche, sotto via degli Aceti, dove stanno le cisterne di epoca romana, un luogo catacombale che vale una visita. Quelli che mi interessavano di più, debbo ammettere, erano i matti, di cui la città non è certo sguarnita, essendoci stato impiantato un manicomio provinciale di grandi dimensioni e numero di posti letto, gli spostati, i disgraziati. Ricordo una insegnante zitella, a dire il vero piuttosto brutta e molto pelosa in

La sosta Le panchine del parco nel silenzio della città innevata

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viso, che quando ero fattorino telegrafico inviava dei bustoni al Procuratore della Repubblica, scrivendo fuori dei messaggi criptici in una calligrafia da indemoniata. Sembravano degli inquietanti geroglifici. Al Tribunale, quando li aprivano, trovavano dentro slip, calze di nylon, una volta persino una scarpa. Quest’umanità nascosta, un po’ céliniana, era la stessa di tutte le città di provincia del mondo, comprese quelle inventate da Faulkner o da Sherwood Anderson, e a Fermo assumeva una postura assolutamente esistenzialistica e molto letteraria, o a me pareva. In un vecchio palazzo di via Perpenti, da una finestra di un ammezzato, nonostante la protezione delle tende, potevo scorgere una stanza sempre disabitata e misteriosissima con dentro un letto e appesi ai muri ritratti di ex voto e madonne. Sono stato tra i primi, e parlo della fine degli anni Ottanta, a conoscere la sede della massoneria locale, che stava proprio a un paio di civici più avanti, sul lato sinistro

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