Nella Nebbia #23

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tore, insieme a mio nonno, fu uno dei pochi soldati a fare ritorno in Italia dalla Campagna di Russia, nel ’42 -’43, e quando chiedevo a mio nonno di raccontarmi qualche episodio della sua esperienza, lui restava in silenzio. Diceva solo che sentiva sempre tanto freddo, là, anche d’estate, e nient’altro. Alla sua morte ho sentito esplodermi dentro l’esigenza di andare a raccontarle io, le storie che mio nonno taceva, e ho scelto di farlo con le parole di un grande poeta romanesco, Elia Marcelli. Il testo è considerato un capolavoro della letteratura italiana, sebbene sia stato finora poco diffuso. Ti sei misurato con linguaggi diversi: hai scritto un libro, hai girato un documentario, hai portato alla luce le lettere degli ospiti del manicomio di Voghera mai spedite, col Coro dei Minatori di Santa Fiora hai perfino recuperato, esplorandola, la musica popolare delle miniere del Monte Amiata. Il mercato e la critica, che non spiccano per fiducia negli artisti polivalenti (soprattutto se si mantengono col pop), come si comportano con la tua figura? In tre anni di quasi totale assenza dalla televisione, ho seguito e realizzato diversi progetti che non hanno goduto di alcuna risonanza mediatica. Col Coro dei Minatori siamo stati invitati giusto da Serena Dandini a “Parla con me”, e basta, nient’altro. Eppure l’attenzione dei giornalisti mi ha stupito non poco. Ci è cresciuta sotto gli occhi una rassegna stampa eccezionale per cose che, ripeto, non hanno avuto visibilità. M’incoraggia constatare che ho lavorato pazientemente allo scopo di costruirmi un mio pubblico, un pubblico che ora cresce, di concerto in concerto, di città in città, di periodo in periodo. Vengono a vedermi anche persone più adulte di me e persone che assistono allo spettacolo, ma non comprano i miei dischi. Sono i frutti di un lavoro certosino, ottenuti passando da platee semi-deserte a platee di due, tremila spettatori paganti. Tutto ciò mi rende innanzitutto orgoglioso e mi permette inoltre di pensare ad un futuro fatto di credibilità, di rispetto reciproco. Cose che si concretizzano nel presentare poi spettacoli come il monologo teatrale su cui sto lavorando adesso. Diverse canzoni del tuo ultimo disco sono di gusto sanremese, se mi passi il termine. Perché hai scelto di esibirti all’Ariston proprio con “Meno male”? Non volevo ripetermi. Non con delle tematiche associabili, o paragonabili, a quelle di “Ti regalerò una rosa”, canzone con cui vinsi il

m e’ u b l a o r e t L’in to i p e c n o c o stat lla a o d n a s n e p n u i d a i f a r g sceno hotel

Festival nell’edizione del 2007. Presentando “Meno male” sapevo di correre il rischio di non essere catalogabile fra quei cantanti che vanno a Sanremo e ripetono gli stessi cliché della volta prima – e mi stava benissimo così. Nei dischi ho messo in chiaro fin dall’inizio che il mio stile contempla due anime, fondamentalmente: quella più poetica, più riflessiva, e quella rock, scanzonata, diretta. Dunque è stato anche in questo caso un modo per mostrare l’altra faccia di me a chi ne aveva conosciuta soltanto una. Ma esisterà ancora una canzone sanremese, secondo te? Sì, ed è quella che ha vinto. La canzone sanremese è quel mondo lì, si presta attenzione alla melodia, alla vocalità, e non ai testi. Considero infatti un caso anomalo la vittoria di “Ti regalerò una rosa”, una canzone basata soprattutto sul testo. Tant’è che le mie esibizioni erano state scenograficamente molto minimaliste, sia all’Ariston che in tour; non mi muovevo quasi, stavo sempre fermo, proprio per dare la massima importanza alle parole. La canzone sanremese è l’esatto opposto: è un momento di grande enfasi, dove emerge innanzitutto la voce del cantante, credo. Se ci stesse leggendo un altro fabbricante di canzoni, magari uno dei tanti talentuosi di belle speranze di cui parla la tua canzone “Meteora”, quali consigli vorresti dargli? Dev’essere curioso. Deve cercare delle storie, storie che nessuno ha raccontato. Se uno inizia a mangiarsi il fegato appresso ai discografici, appresso alle varie dinamiche così tristemente tipiche di questo mondo, che è un tritacarne – e lo vediamo nei talent show, il cui meccanismo è quello di trasformare le persone in prodotti da consumo, si finisce con l’arrendersi. Il principale obiettivo che un giovane musicista agli esordi dovrebbe porsi è quello di non somigliare a nessun altro e aspettare di esibirsi in pubblico solo quando si è davvero conquistato un’identità propria e attendibile. Che, detto così, è una parola: cosa farebbe scattare nell’esordiente la consapevolezza di un’identità? Secondo me le prime avvisaglie le puoi scorgere già quando suoni in un piccolo locale, pieno di persone sconosciute venute a sentirti. È facile riempire un pub con famigliari, amici e conoscenti vari. Qualcosa comincia a cambiare quando i posti in cui suoni si riempiono di un pubblico che, per quanto ristretto, è venuto lì apposta per ascoltare cosa fai. Se succede questo, allora è giusto iniziare a crederci.

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