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BIMESTR ALE in edicola dal 10 febbraio 2019

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SPEED REQUIRES D E D I C AT I O N — MAI AVUTO PAURA DEL VENTO IN FACCIA,

DI ANDARE IN TESTA AL GRUPPO E METTERCI IN DISCUSSIONE. IDEA DOPO IDEA. PRODOTTO DOPO PRODOTTO, PER RIVOLUZIONARE IL MODO DI VESTIRE DEI PROFESSIONISTI.

CASTELLI-CYCLING.COM


Bastardo. [ba-stàr-do]

A. agg.

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1 Di chi è nato fuori da un matrimonio legittimo; 2 Di animale o vegetale nato dall'incrocio di razze diverse;

3 fig. Corrotto, degenerato, illegittimo: idee bastarde; modi bastardi; ragione bastarda; 4 fig. Ibrido, irregolare, eterogeneo;

5 tecn. Lima bastarda, varietà di lima con scabrosità intermedia tra l’aspro e il dolce;

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6 sport. Ciclismo bastardo, tipo di ciclismo ibrido tra strada e fuoristrada.


Sormano


© Tornanti.cc

Sull’asfalto del Muro c’è scritto così: «Un passista non ha alternative. Deve arrivare ai piedi del muro con almeno dieci minuti di vantaggio così poi, se lo fa a piedi impiegando un quarto d’ora di più di quelli che lo faranno in bici, arriverà in cima con cinque o sei minuti di ritardo e potrà ancora sperare». [GINO BARTALI]


Piede a terra


Š Tornanti.cc

Fa un freddo cane, per andare a vedere il ciclocross ti devi vestire come un benzinaio di Livigno. Ăˆ un ciclismo bastardo, i corridori ti sfilano davanti andando a piedi. In salita, nel fango. Quando ti sfilano davanti l’aria si sposta e dal respiro affannato senti che ognuno fa una fatica diversa. Applaudi e urli e segui il corridore con lo sguardo. Lui si allontana. E intanto ne arrivano altri.


Speed


© Getty Images for IRONMAN

I triathleti sono una tipologia di ciclista che non gode di grande considerazione. Pedalano senza calzini, usano caschi e biciclette assurde. Un po’ pedalano e un po’ corrono, un po’ nuotano. Uno è portato a pensare che siano scarsi in tutto, ibridi. Ciclisti bastardi. Poi ti salta fuori Cameron Wurf, all’IRONMAN World Championship 180 km di ciclismo no-draft in 4h09’06”, a 43,362 km/h di media. Prima di correre una maratona.


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editoriale

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Nel fango. Nelle ultime ventiquattro ore siamo avanzati in totale di soli ottocento metri, se mi volto indietro a guardare alla fine del rettilineo riesco quasi a vedere il punto esatto in cui eravamo ieri. Ho passato tutto questo tempo nel fango a cercare di fare avanzare quest’auto che odio e che vorrei mollare qui, in mezzo al nulla della Tanzania, per andarmene a piedi. Il Camel Trophy d'altronde, è questo. Io sono uno dei due concorrenti della squadra italiana, lo dico con orgoglio da sbarbatello, ho solo 24 anni. Insieme a me ci sono un connazionale e una serie di equipaggi provenienti da tutto il mondo, oltre a giornalisti, video maker, fotografi. È il circo. Il Camel Trophy al momento (siamo negli anni ’90) rappresenta nell’immaginario collettivo l’idea stessa di Avventura: natura selvaggia, incognita, auto fuoristrada, fango. Fango, soprattutto. È quasi l’alba e anche questa notte non abbiamo dormito niente, abbiamo strisciato con le auto nella melma. Finalmente però il terreno comincia a essere più consistente sotto le ruote e quindi si riesce ad avanzare anche guidando, prima non si poteva fare altro che trascinarsi usando il verricello e le sand-ladders. Intorno a noi una foresta di piante tropicale che fa paura e davanti a noi una strada sterrata e fangosa che sembra tornare ad essere percorribile. Finalmente siamo fuori, l’auto è finalmente fuori dal fango profondo e le difficoltà peggiori sembrano passate, ci fermiamo un po’ per riposarci e per mangiare qualcosa, non c’è nemmeno spazio per sedersi all’asciutto. Mi appoggio con le chiappe sul bull-bar e mi sgranocchio qualche anacardo. I miei compagni sono seduti nell’abitacolo e dormono, io sono solo lì, in punta al cofano. Penso proprio che quella che mi sta capitando è la vita che vorrei, quella di uno che va a la ventura e che si sceglie le difficoltà da affrontare. Mi sento felice. E figo. Proprio in quel momento davanti a me, a un centinaio di metri vedo sbucare quelli che sembrano due ragazzini. Non posso crederci, spingono due bici. Penso che forse ho le allucinazioni ma è proprio così: sono due ragazzini che avranno sì e no dieci o dodici anni che vengono verso di me e verso la mia automobile. Si avvicinano. Le due bici - ora li vedo bene - sono due Grazielle con dei copertoni tassellati. I ragazzi risalgono in sella in un tratto finalmente pedalabile e mi raggiungono. Scendo dal bull-bar e li accolgo, sono sbalordito, credevo di essere a centinaia di chilometri dalla civiltà e probabilmente lo sono. I due ragazzini sono in infradito e portano in spalla uno zainetto ciascuno, spuntano un machete e delle canne da zucchero. Il più grande mi mostra gli adesivi Camel Trophy appiccicati sulla carrozzeria e mi fa capire che ne vuole uno. Vado a prendere quelli che ho nel portaoggetti della portiera e avverto i miei compagni della visita, che a me pare straordinaria. A loro no, vanno avanti a dormire. Torno dai due ragazzini e do loro gli adesivi, loro mi allungano un pezzo di canna da zucchero da succhiare, è dolcissima. Gli chiedo perché sono venuti fin qui, in mezzo a tutto questo fango e a queste zanzare e a questo nulla. Adventure, mi risponde uno. Lì ricevo una delle lezioni più importanti della mia vita e capisco tre cose: la prima, che la parola avventura non ha a che fare con i mezzi di cui disponi ma con quello che sei in grado di fare con quello che hai. La seconda, che nel fango ci si diverte sempre da matti, in auto, in moto, in bici e anche a piedi. La terza, che quando pensi di essere il più figo del Mondo, scopri che c’è sempre in giro qualcuno molto più figo di te.

di Emilio Previtali Foto Tornanti.cc


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# Sommario Silk Road Mountain Race

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Novantasette concorrenti. Niente assistenza, una sola tappa no-stop. Un percorso di 1700 chilometri che si snoda lungo strade, tracce e mulattiere del Kirghizistan con 26.000 metri di dislivello. Basta così? di Lian van Leeuwen

68 The end (of Sky)

Il Team Sky dopo avere cambiato questo sport per sempre uscirà dal ciclismo a fine stagione. Ci hanno fatto capire cosa amiamo delle corse in bici, e cosa no. di Giovanni Battistuzzi

72 58 Ciclo cross.

La Scheldecross ad Anversa è molto più di una gara. È un rito pagano, a cui una volta nella vita bisogna assistere. di Filippo J Cauz

30 Van Aert vs van der Poel La sfida che nasce nel cross promette scintille anche nelle Classiche su strada. di Alessandro Autieri

Italians do it better Martesana Van Vlaanderen

La Martesana Van Vlaanderen è amicizia e condivisione. È per gli amanti delle Classiche del Nord e delle salite. Non è una gara. di Giovanni Pirotta

IRONMAN Emilia-Romagna sul lungomare di Cervia. di Emilio Previtali


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Correre in Senegal

«La fotografia è il mio modo di reagire al mondo che ho intorno»

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Ci vuole strategia

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Portfolio - James Startt

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Per l'Iroman serve preparazione fisica, concentrazione per diverse ore. Motivazione. E un occhio di riguardo per l’alimentazione pre-gara e per l’integrazione.

Una gara in Senegal – pensavo – sarà un giro tra amici attorno ai 30 all’ora, dove si salutano le persone per la strada facendo ciao con la mano, dove ci si ferma ad aspettarsi, dove chi vuole si unisce sul percorso. Magari, pensavo, si scatta giusto alla fine. Mi sbagliavo. di Tommaso Goisis

Il Muro di Sormano

di Elena Casiraghi - Equipe Enervit

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È difficile sbagliare strada per il Muro. Dopo Sormano è indicato a ogni incrocio e persino dall'asfalto, con un paio di scritte in vernice bianca che dicono che sta per iniziare.

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Taiwan KOM challenge Asco Venier

Asco era autoritario e autodidatta. Il suo negozio era anche taverna: un fogolâr, un tavolo apparecchiato con bottiglia e bicchieri, un lavabo in pietra come non se ne vedono più. di Massimo Sappa

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di Gabriele Gargantini

Dal livello del mare a quota 3.275 metri. Te la senti di provarci? di Melanie Chambers

Il vecchio in bicicletta di Claudio Dancelli


Fango fango s. m. [da una voce germ., affine al gotico fani «fango»] (pl. -ghi). La terra dei campi o la polvere delle strade ridotta dall’acqua a una poltiglia più o meno densa e di vario spessore: camminare nel f.; imbrattarsi di f.; strade coperte di f.; veste cotidiana, piena di f. e di loto (Machiavelli).

Unimog è un mezzo fuoristrada costruito partendo da mezzi agricoli. La sua altezza da terra, la trazione integrale e un telaio flessibile gli consentono di affrontare fango, neve, sabbia, superando ostacoli e pendenze fino al 100%. La bicicletta è un mezzo meccanico molto semplice. Quella da ciclocross ha freni a disco o cantilever, carro posteriore e forcella anteriore più larga per evitare che il fango blocchi le ruote. Pneumatici tassellati, monocorona. Una bicicletta da corsa può fare molte più cose di quelle che immaginiamo.


Batkak (CHIRGHISO)

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Barro (SPAGNOLO)

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Boue (FRANCESE)

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Modder (OLANDESE)

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Mud (INGLESE)

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Mudder (DANESE)

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Schlamm (TEDESCO)

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Unimog. È un acronimo delle lingua tedesca che significa UNIversal-MOtor-Gerät, cioè veicolo universale a motore.

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C I C L O C R O S S


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. Amore fangoso, genuino, contagioso.

Location Belgio

Testo Filippo “J” Cauz

Foto Tornanti.cc


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Zonheven, Belgio. Qui il fango è sabbioso.

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Lo Scheldecross arriva sotto Natale, quando l'aria fredda si combina con l'umidità dell'acqua dei canali e per un giorno soltanto sposta la città di Anversa in riva al fiume.

La prima cosa che ci si ritrova in mano è un cappellino rosso da Babbo Natale. Normalmente uno si aspetterebbe una birra, o una vaschetta di patate fritte annegate nella salsa, ma questa volta no. E l'anomalia non c'entra, è anzi normalissimo che il Natale arrivi pure qui, anche tra le mani di chi ha deciso di sottrarsi alla frenesia dell'ultimo sabato pomeriggio prima delle feste, di snobbare il centro cittadino brulicante

di turisti che fanno acquisti, e valicare la Schelda. È al fiume di Anversa, padre nobile del ciclismo fiammingo, che è intitolata la prova di ciclocross cittadina: un omaggio diverso rispetto ai quadri e ai disegni del long and winding river esposti al Museo Van Dyck per tutto l'inverno. Un omaggio in riva al fiume, lungo quel corso d'acqua che, dopo aver valicato il confine francese, si snoda tra Oudenaarde, Gent e Anversa, come se


avventura

fosse l'arteria che trasporta il sangue di questa regione, cuore pulsante del ciclismo. Lo Scheldecross arriva sotto Natale, quando l'aria fredda si combina con l'umidità dell'acqua dei canali e per un giorno soltanto sposta la città in riva al fiume. È un caso raro: le prove di ciclocross di solito stanno in paesini di campagna (tanto che solo a inizio 2019 ha debuttato una gara a Bruxelles), i circuiti sono dispersi lontano dai centri urbani. Ad Anversa no, basta attraversare il fiume, l'unica separazione rispetto al centro cittadino è l'acqua e sarà per questo che i tunnel liberano ondate di gente, che il pubblico si affolla anche se si tratta di una gara minore e anche se il vincitore lo si sa già alla vigilia. Lo spettacolo non è certo dato

dal risultato, bensì da ogni singolo partecipante a questa festa di paese che è il ciclocross fiammingo. E ognuno arriva per ragioni diverse, per vedere prove diverse, da quelle giovanili del mattino applaudite da amici e parenti dei partecipanti stessi, alle gare dei professionisti, così distanti l'una dall'altra. Il ciclocross femminile in questo inverno è sfida a tutto tondo, è l'incrocio - per qualcuno già storico - tra alcune delle più grandi interpreti di sempre della disciplina. È una evoluzione naturale per uno sport che in campo femminile fino al cambio di millennio non prevedeva nemmeno una maglia iridata. Oggi è la fotografia di un movimento in salute, che non smette di crescere ma risulta ancora aperto: persino nelle competizioni di alto livello il gruppo rimane

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quanto mai sgranato. Si va dai fenomeni della disciplina (come la leggiadra venticinquenne Denise Betsema, vincitrice ad Anversa e rivelazione della stagione) alle forti stradiste in libera uscita (tipo l'ex iridata Lucinda Brand che chiude al secondo posto) e giù sino ad atlete fuori condizione o fuori età, talune eccessivamente infagottate e altre ancora in maniche corte, tutte pronte a battersi senza riserve. È una varietà che dà ricchezza, e una ricchezza che dà gioia. La riscontri negli occhi estasiati del pubblico, anche in quelli dei più giovani, che della corsa se ne interessano sino a un certo punto. Tanti hanno una bicicletta tra le gambe: i ragazzi più grandi si allenano giù sulle rampe dello skate-park, immaginandosi al più presto dall'altro lato della fettuccia, sul


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Zonhoven è il tempio della sabbia. È più di una corsa, è un feticcio, un appuntamento quasi religioso.

percorso di gara. I bambini più piccoli poco più in là si inseguono pedalando sulla spiaggia di Sant'Anna. Non avranno lo stile di Laurens Sweeck o i superpoteri di Mathieu van der Poel, che vince sempre, ma all’orizzonte le loro figure si stagliano con altrettanta incisività. Alle loro spalle un paesaggio industriale di pale eoliche puntella il cielo, il resto è acqua e sabbia. Anversa è una città di mare senza il mare. Il mare di Anversa è la Schelda, che quando arriva in città si specchia tra le sconfinate gru del porto e si prepara a gettarsi nel Noordzee. Ma il mare non c'è. È a quasi 90 chilometri di distanza, e soprattutto è oltre il confine con i Paesi Bassi. Il mare in Belgio si avverte ma non si trova quasi mai, ridotto a una sessantina di chilometri di costa: il resto è allontanato dai confini o cancellato da dighe e porti che si espandono e inglobano ciò che trovano. Come nel caso di Doel, l'ultimo rimasto tra i villaggi sottratti con forza all'annegamento, separati con un muro da un mare che non è mare e nemmeno è più fiume. Il porto lo circonda e lo stringe, fino a comprometterne l'esistenza, tanto che Doel oggi è ufficialmente un villaggio fantasma, dal destino incerto, dai muri colorati, da una sola taverna

rimasta aperta. Di fronte a Doel la Schelda si divide in mille canali, vasconi tracciati col righello, designati a far entrare barche, chiatte, soprattutto colossali navi cariche di container. Quello di Anversa è il secondo porto d'Europa (dopo la vicina Rotterdam), tra i primi venti al mondo. Un universo di merci parte da qui verso tutto il continente, o talvolta qui si ferma, quando il sovrannumero di container si scopre definitivamente esagerato. I suoi canali sono alternati a linee ferroviarie, talvolta giganteschi scali. È al di là di questi, a pochi chilometri dal confine olandese, che la famiglia van der Poel ha stabilito la propria dimora. Il più grande talento del ciclismo mondiale è un olandese nato e cresciuto in Belgio, forse è per questo che la rivalità tra i due paesi per lui non si applica: ad ogni vittoria raccoglie solo applausi, e gli capita con regolarità disarmante, fintanto che le vince tutte. È un patrimonio unico del ciclismo, figlio di una società senza frontiere, che si adatta perfettamente alla maglia di campione d'Europa (che indossa da due anni) e che presto tornerà a vestire anche quella iridata, scaldandosi con sotto quelle di campione nazionale sia su strada che nel ciclocross. È l'ultimo arrivato

di una stirpe su due ruote ancora più allargata: fratello di David, figlio di Adrie (vincitore di un Mondiale nel ciclocross, ma anche di Fiandre, Liegi, Amstel Gold Race e tappe al Tour), nipote di Raymond Poulidor, il ciclista più amato dai francesi. Nonno Pou Pou, che aveva chiesto alle sue figlie di non sposare mai un corridore, si è trovato il più vincente possibile tra gli eredi. Più di lui, ingiustamente ricordato come l'eterno secondo, l'uomo che non ha mai indossato la maglia gialla ma che ogni estate al Tour viene avvistato con camicie brillanti come il sole di luglio e che di inverno resta silenzioso dietro le quinte a godersi le vittorie di questo nipote-prodigio. Con lui può godersele il mondo intero, ammaliato da una grazia, da un talento che collima con la perfezione, su ogni terreno, in ogni condizione. È una fortuna per tutti il poter assistere a questa dimostrazione, una fortuna doppia per chi abita in terra fiamminga, che potrebbe approfittarne di persona per vederlo dal vivo, ogni settimana. Nelle Fiandre gli appassionati di ciclocross potrebbero spostarsi e allinearsi a bordo percorso tutte le domeniche, talvolta raddoppiando con anche i sabati, ma non lo fa quasi nessuno.


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Si corre al Kuil, che significa pozzo. È un buco sabbioso orlato d'alberi e coperto di erbacce, una specie di ombelico della riserva naturale del Teut.

Scelgono le prove di casa, o quelle particolarmente vicine, in un paese che si attraversa in un'ora di automobile o poco più. Ad eccezione dei fan più accesi o dei gruppi di tifosi organizzati, gli amanti del ciclocross si accontentano di vedere un paio di appuntamenti ogni inverno, se fanno un'eccezione deve essere per qualcosa di unico. E qualcosa di unico ogni inverno accade in un luogo preciso: a Zonhoven, nelle campagne tra Hasselt e Genk. Più esattamente nella cava di Kapelbergweg, ancora più dettagliatamente nel Kuil, il pozzo. Il Kuil non è altro che un buco sabbioso, orlato d'alberi e coperto di erbacce. Uno scavo fatto nel corso dei lavori della vicina autostrada E314 e rimasto lì, come un ombelico nella riserva naturale del Teut, in una piega anonima di una campagna tutta uguale, dove il cielo varia dal grigio al grigio e le case si spargono eterogenee, tra pascoli e stalle, osservate in maniera monotona da cavalli solitari, che stanno in piedi o accucciati, talvolta diventando statue che ornano i cortili di ingresso. A interrompere la continuità animale spicca l'indicazione per una scuola di

formazione cinofila, convertita per l'occasione in sala stampa. Difficile trovare ragioni entusiasmanti per inoltrarsi in queste campagne. A meno che non sia la domenica giusta, il dì di festa. Il Grote Prijs Telenet di Zonhoven non è quella che si può definire una gara storica: benché sia nata nel 1958, è solo dal 2005 che si disputa con continuità. La sua rapida esplosione va di pari passo con la nascita del ciclocross moderno, con l'epoca di Sven Nys e degli streaming via internet, con una forza visiva che lascia sbalorditi. Già, perché quella campagna monotona e quel buco di sabbia vengono trasformati dal ciclocross in un'arena unica, tribuna naturale in grado di accogliere migliaia di persone, scenario da cartolina sognato da ogni appassionato (non sarà un caso che qui il numero dei fotografi si moltiplica: l'edizione 2018 ne contava tanti accreditati da tutto il mondo). Zonhoven è il tempio della sabbia, è più di una corsa, è un feticcio, un appuntamento quasi religioso. Una celebrazione che fino a un anno fa si correva a metà ottobre, che in tempi di global warming significa quasi estate. Zonhoven era una gara da maniche

Gare. Alle pagine precedenti, il programma di gara prevede per ogni giornata diverse corse in successione, dagli juniores ai Pro. In gara anche le donne Élite.

Crash. Le cadute sono la norma.


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Il più grande talento del ciclismo europeo è l'ultimo arrivato di una stirpe su due ruote: figlio di Adrie, vincitore di un mondiale nel ciclocross, ma anche di Fiandre, Liegi, Amstel Gold Race e tappe al Tour e nipote di Raymond Poulidor, il ciclista più amato dai francesi. E da chiunque abbia giocato a biglie sulla spiaggia.


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Il pubblico è parte integrante della corsa, creatura multiforme che sostiene i caduti e sospinge i campioni. corte, spettatori in maglietta, birre che si scaldano in fretta, un clima da spiaggia che ben si sposa con il panorama sabbioso. Ma a dicembre cambia quasi tutto, occhiali da sole e berretti con la visiera lasciano spazio a guanti e ponpon di lana; il cappello da Babbo Natale però no, è pur sempre un oggetto sacro. Il contesto cambia così radicalmente che la sabbia si nasconde, ad occultarla c'è una spolverata di neve, ma non è che si veda molto. La neve va bene per le foto panoramiche di prima mattina, poi il popolo del ciclocross comincia ad affollarsi nel Kuil, dove è allestita una seconda postazione da dj, alternativa al tendone che spara fumo e decibel, introducendo sin dalla più tenera età i ragazzini ai ritmi della gabber nordeuropea. Ci vuole poco perché il pozzo sia di nuovo colmo di folla e urla, perché ci

si possa lustrare gli occhi con una nuova esibizione di sfacciata perfezione da parte di van der Poel e prima ancora con il duello tra Sanne Cant e Denise Betsema, vinto dalla prima per pura grinta. Ci vuole poco perché il pubblico diventi parte integrante della corsa, creatura multiforme che sostiene i caduti e sospinge i campioni, celebra i suoi vincitori ma soprattutto il convergere di un popolo. Il calpestio di migliaia di piedi scaccia via la neve, riporta il Kuil alla sua sabbia, che non è quella della Schelda ma la ricorda, tanto che i bambini a fine gara tornano a giocare: senza bicicletta stavolta, ma gettandosi rotolando giù per il Kuil e risalendo di corsa le sue pendenze. Sono rampe che non lasciano scampo, come testimoniato dai protagonisti della corsa, sempre più spossati, tornata dopo tornata: per

Discese. Pedalare sulla sabbia fa della discesa un tratto faticoso.


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i bambini è già un piccolo allenamento per il futuro. Nella loro immaginazione Zonhoven tornerà spesso, la corsa che persino Sven Nys descriveva come il sogno per ogni corridore di ciclocross. Un sogno che non si spiega con la difficoltà del circuito, con il fascino della sabbia, con la potenza delle immagini, ma soltanto con il respiro collettivo che circonda il circuito. Come e più di ogni altra gara di ciclocross nelle Fiandre, Zonhoven è una vera festa di paese, ma un paese bello, grande e cosmopolita. Un paese che si ritrova compatto a fine corsa per gli ultimi giri di birre, con la sabbia o la neve nelle scarpe, nel luogo dove ogni festa a pedali si conclude. Il tendone è una bolla sociale, è dove la corsa si fa sagra, dove la sagra si fa festa, dove la festa si fa fiera. Sotto il

tendone una corsa di biciclette sa ricucire il filo con la storia, riporta le Fiandre ai pomeriggi scanzonati di un ricco medioevo, quello che descriveva lo storico Fernand Braudel ripercorrendo il passato fiammingo: La fiera è baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine, talvolta tumulto. La fiera del ciclismo si celebra nei fine settimana di inverno, sotto il tendone, in musica e birra. Ed è la musica che uno non si aspetta, se non è nato in questo fazzoletto di chilometri e pedalate. Sotto il tendone si alternano balli e trenini, il pubblico chiacchiera e beve, si abbraccia e brinda, i vassoi di cartone usa-e-getta da sei birre ondeggiano tra la folla sovvertendo le leggi della fisica, per poi trasformarsi in frisbee una volta esauriti. E il suono che accompagna tutto ciò è

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un mélange in grado di ridefinire il concetto stesso di musica trash. Tra improbabili balli di gruppo e canti jodel in olandese, tra successi degli Abba e telecronache riarrangiate su basi dance, tra struggenti ballate e accelerazioni techno, il tendone diventa la più assurda delle piste da ballo. È sotto il tendone che ogni inibizione crolla, facilitata dalla birra, esaltata dalla festa, dalla passione, dal popolo. È sotto il tendone che l'amore di questa terra per il suo ciclismo diventa sfrenato, genuino e contagioso, tanto che passerà il Natale e si perderanno i cappellini rossi, passeranno le feste e passerà un’intera stagione, ma chi transita dal Belgio anche solo per un pomeriggio di ciclocross torna a casa con una sola idea in testa: la prossima volta quando? La prossima volta dove?


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cover story Testo Alessandro Autieri

Wout van Aert

Foto Tornanti.cc

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Mathieu van der Poel

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Wout van Aert è belga e Mathieu van der Poel è olandese, uno ha pochi mesi di differenza rispetto all’altro. Chi ha dimestichezza con la materia non ha bisogno di presentazioni: un inutile esercizio da Wikipedia su dati anagrafici, palmarès, squadre di appartenenza. Ciò che conta per davvero sono le sensazioni che trasmettono quando corrono: la loro rivalità accende da qualche stagione i circuiti del ciclocross, siano essi sabbiosi percorsi del Wisconsin o lingue di argilla in mezzo a distese di erba verde nel Nevada; ventosi su e giù in riva al Mare del Nord, oppure terreni pieni di fango, pedane, barriere, tratti da percorrere a piedi con la bicicletta sulle spalle oppure circuiti ricoperti da copiosa neve o da sabbia che caratterizzano la parte centrale della stagione di ciclocross in Belgio. Non c’è differenza; dove passano loro il fango diventa terra battuta, quando non schizza fino a coprirti completamente dalla testa ai piedi; la sabbia è polvere da mangiare per chi li insegue, se stai nella loro scia l’acqua ti arriva forte e gelida come un gancio assestato sul naso e ti fa perdere i sensi. La loro rivalità è Alì contro Frazier, è Hunt-Lauda, Coppi-Bartali, o come di recente ha detto Gioele Bertolini, due volte campione italiano di ciclocross che gareggia in Coppa del Mondo provando a stargli dietro: Quei due sono come Messi e Ronaldo.

WOUT VAN AERT Nazione Belgio Anno di nascita 1994 Squadra Jumbo – Visma Campione del Mondo Ciclocross 2016, 2017, 2018


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MATHIEU VAN DER POEL Nazione Olanda Anno di nascita 1995 Squadra Corendon Circus Campione Europeo 2017, 2018

Van Aert vs van der Poel. Noi possiamo solo guardare in faccia il destino e ringraziare per averci fatto imbattere in uno scontro che avrebbe ispirato anche Joseph Conrad, narratore sensibile ai percorsi della vita e ai duelli.


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L’eccitazione nell’assistere al dualismo van Aert - van der Poel accresce grazie all’evidenza dei tratti distintivi che sembrano farli appartenere a epoche differenti, a mondi agli antipodi che si incrociano sullo stesso asse solo nei fine settimana dedicati alle gare sul fango. Due ussari che combattono la stessa guerra, però membri di diversi reggimenti. Mathieu ha i geni del predestinato, è figlio di Adrie, in carriera vincitore di un Fiandre, una Liegi, un mondiale di ciclocross; suo nonno è Raymond Poulidor, l’eterno piazzato del ciclismo francese con otto podi al Tour de France. Mathieu van der Poel è una macchina oliata e messa in pista solo per vincere. Ha la grazia di un cigno, è van Basten sui pedali. Nel 2013 quando era ancora juniores il mondo lo conobbe come colui capace di vincere l’iride sia nel fango che su strada; in Italia fece suo il titolo nella rassegna di Firenze dimostrando di essere superiore ai suoi coetanei stradisti sia sugli strappi che nelle volate ristrette. Il titolo nel 2013 del ciclocross fu il bis rispetto a quello del 2012 quando dietro di lui arrivò proprio van Aert, all’alba di un duello che si protrae fino ai giorni nostri. Van Aert ha scalato velocemente le gerarchie del mondo belga del ciclocross, si è arrampicato da subito in alto osservando dalla cima delle sue tre maglie iridate

Con tre maglie iridate consecutive van Aert ha scalato velocemente le gerarchie del mondo belga del ciclocross. In Belgio il ciclocross è una materia come il calcio in Argentina. consecutive il resto della compagnia. In Belgio il ciclocross è una materia simile a quello che è il calcio in Argentina: lui sarebbe erede della tradizione dei numeri dieci. Wout van Aert è un comandante silenzioso, di quelli che ti basta uno sguardo per capire che sarà lui a decidere le sorti della battaglia, il tuo destino e quello dei confini della patria per la quale stai combattendo. L’arrivo dei due nel mondo del ciclocross coincide con un cambio generazionale ed epocale che vede a poco a poco spegnersi la fiamma accesa da Nys e Albert e dall’uomo arrivato dall’est a respingere il dominio belga, quello Zdeněk Štybar che ha proiettato il suo talento nelle gare su strada. Nel 2014 i due hanno vent’anni o poco meno, dominano tutto ciò che è Under 23: nel mondiale olandese van Aert fa suo il titolo, van der Poel è terzo.


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corridori

L’anno successivo è l’inizio della diarchia anche tra gli élite. Van der Poel conquista il titolo mondiale e il Superprestige: i due da qui in avanti si spartiranno tutto, come due generali che hanno stretto un accordo alle spalle di ignari uomini mandati al fronte. Fanno loro tutto quello che c’è a disposizione, tranne l’europeo 2016 vinto da Toon Aerts. Titoli mondiali (3-1 per van Aert), le classifiche finali di Coppa del Mondo (2-1 sempre per van Aert), Superprestige (3-1 per van Der Poel) e la gara nuova arrivata, il Campionato europeo di ciclocross (2-0 per l’olandese). In questa stagione van Aert è partito con le candele del motore sporche, forse qualche cilindro usurato dall’intensa attività sull’asfalto che lo ha visto correre per vincere Strade Bianche, Fiandre e Roubaix dando prova di classe e forza anche nel ciclismo su strada e finendo poi per conquistare il bronzo nell’europeo di Glasgow. Mostra nervosismo in corsa – dove finisce costantemente dietro il rivale pigliatutto olandese e se la gioca con il connazionale Aerts – e nei dopo corsa: «Da un po’ di tempo van Aert si mette a correre sui rulli a fine corsa e ci fa aspettare minuti interminabili prima di salire sul podio. È molto bello che lui faccia rulli nel dopo corsa, ma non possiamo aspettarlo sempre tutto questo tempo: anche gli altri corridori la pensano come me», dice van der Poel. Anche lo scorso anno l’olandese ha vinto quasi tutte le gare a disposizione nel calendario invernale tranne la più importante: il mondiale casalingo di Valkenburg;

Wout van Aert ha cominciato la stagione da corridore indipendente. Si è presentato alla prima gara negli Stati Uniti con una divisa iridata senza sponsor, con le iniziali del suo nome. Una sola scritta: WVA. Elegantissimo. quest’anno si corre in Danimarca, terra neutrale, e senza dubbi amletici è pronto a fare un torto al suo avversario. Sarà solo un’anteprima di quello che vedremo poi su strada: van der Poel intensificherà l’attività fuori dal ciclocross e avrà una squadra disegnata tutta su di lui dopo aver strappato Devolder proprio alla oramai ex squadra di van Aert. Il belga ha rescisso con la Veranda’s, motivo ufficioso è quello di non essere mai stato coinvolto nella trattativa di fusione tra la sua ex squadra e l’olandese Roompot e tra un ricorso e l’altro farà il suo esordio nel World Tour con gli olandesi della Jumbo-Visma: la sfida è appena iniziata. Van Aert ha una parte di cognome che è anagramma di arte, van der Poel quando è sulla bici è un equilibrista che arriva dal futuro: noi possiamo solo guardare in faccia il destino e ringraziare per averci fatto imbattere in uno scontro che avrebbe ispirato anche Joseph Conrad, narratore sensibile ai percorsi della vita e ai duelli.


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Location Kirghizistan

Testo Lian van Leeuwen

Foto GM Dodesini Valsecchi Traduzione Lucia Prosino

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silk road mountain race

C’è sempre una prima volta. La PEdALED Silk Road Mountain Race è la newentry nelle competizioni ultra endurance in bici. Non è partita certo in sordina.

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Alla PEdALED Silk Road Mountain Race il cronometro non si ferma mai e non si vincono premi in denaro. Si corre principalmente su strade sterrate, mulattiere e vecchie strade dismesse dell’Unione Sovietica, quasi mai sull’asfalto. Qualche tratto non è pedalabile ed è necessario camminare. La distanza tra i punti di controllo è molto grande. Siete avvertiti, non è una gara facile.

SILKROAD MOUNTAIN RACE Quando 17 al 31 Agosto 2019 Dove Kirghizistan Partenza Bishkek Arrivo Cholpon Ata

info silkroadmountainrace.cc


avventura

race report #01 Oltre il Kegety Pass nella tempesta. Novantasette concorrenti. Niente assistenza, una sola tappa no-stop. Un percorso di 1700 chilometri che si snoda lungo strade, tracce e mulattiere del Kirghizistan con 26.000 metri di dislivello. Servizio di assistenza e rifornimento decisamente spartano, essenziale, quattordici giorni di tempo massimo per completare il percorso. I concorrenti che hanno preso il via sono al quarto giorno di gara e la competizione comincia a delinearsi e a prendere la sua fisionomia. Le condizioni imprevedibili dei paesaggi alpini hanno già caratterizzato la prima parte del percorso, il Kirghizistan è un paese immenso e selvaggio. Una improvvisa bufera di neve il primo giorno ha fermato molti partecipanti mentre salivano il primo GPM del percorso: il Passo Kegety a 3.780 metri, una vera e propria scalata, non un luogo esattamente facile da raggiungere. I primi sono riusciti a superarlo evitando o sopportando la tempesta che li ha sorpresi sul percorso; altri hanno preferito piantare la tenda all’inizio della salita e aspettare di affrontarla salita una volta passato il peggio.

Il primo corridore ad arrivare al primo posto di controllo, per ora in testa alla gara, è il veterano Jay Petervary. Il plurivincitore di Tour Divide e Iditarod è arrivato al primo checkpoint 41 ore dopo la partenza, alle 2 di notte, nervoso, affamato e stanco. È presto per dire che la gara ha già preso una sua fisionomia. Con ancora 1245 chilometri da percorrere, tutto può succedere. I nomi da tener d’occhio sono il contendente Kim Raeymaekers, seguito da PierreArnaud Magnan e uno dei top ten finisher della Transcontinental Race, il rumeno Levente Bagoly. Anche la scozzese, ex-pro mountain biker, Lee Craigie si sta difendendo bene; in questo momento è al quinto posto, prima tra le donne. Dopo aver avuto qualche problema di stomaco, sembra che abbia recuperato al meglio e preso il suo ritmo. Al sesto posto c’è Jan Kopka, che dopo aver sceso in solitudine i sentieri innevati del passo Kegety è arrivato al checkpoint in canottiera e sorseggiando una delle due birre che si sta portando dietro dall’inizio. Dice che valeva la pena festeggiare ed è di ottimo umore. Dopo tre giorni la gara in ogni caso ha cominciato a far sentire il suo peso sui partecipanti, soprattutto nelle

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retrovie. La testa della corsa viaggia bene, per i primi le difficoltà e la durezza del percorso non sono un problema ma nella pancia del gruppo e tra gli ultimi in classifica ci sono stati vari intoppi. I primi ritiri a causa di fatica, malori, problemi di salute o tecnici sono arrivati alla mattina del quarto giorno. Considerata la vastità del Kirghizistan che stanno attraversando e la distanza tra i punti di controllo, questo non può essere che l’inizio, i ritirati sono inesorabilmente destinati ad aumentare. Per certi versi questa sarà una gara a eliminazione, poco a poco i concorrenti resteranno sempre meno. Per molti il checkpoint 1 è già diventato un vero e proprio traguardo, una specie di miraggio che rappresenta il ritorno alla civiltà, raggiungerlo significa trovare un’oasi accogliente, un luogo abitato e abitabile con esseri umani e ripari caldi. Ripartire è difficile, in ogni caso è una cosa di cui i concorrenti non sembrano preoccuparsi se non prima di essersi rifocillati e ripigliati dalla fatica. Dopo il primo bollo del checkpoint sul passaporto di gara, prima di arrivare al traguardo ne mancheranno altri tre. Non siamo nemmeno a un quarto di gara.


Check point 1. Levente Bagoly al timbro della carta di viaggio.

In salita. In salita sul Kegety Pass. Piedi a terra e spingere, per lunghi tratti.



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race report #02 Verso Baetov e poi la Chinese Highway

Il distacco tra i concorrenti è aumentato e continua ad aumentare. Quando i primi dieci in classifica avevano già ottenuto il secondo timbro al checkpoint 2, molti concorrenti avevano appena raggiunto il checkpoint 1. Jay Petervary è ancora in testa e tiene un ritmo regolare e sostenuto, è seguito a ruota da Pierre-Arnaud Le Magnan e Kim Raeymaekers, in un’altalena costante tra seconda e terza posizione che dura dall’inizio. Raggiungere il primo checkpoint ha rincuorato tutti i partecipanti. Mettersi in contatto con persone a casa con una telefonata e incontrare altri concorrenti che stanno a loro volta

faticando in un succedersi continuo di alti e bassi, di entusiasmo e di momenti in cui non si vorrebbe fare altro che fermarsi e tornare all’istante e non avere mai iniziato la gara, è un modo per rinfrancare la propria autostima dopo giorni passati a combattere con i propri pensieri e i propri fantasmi. Anche raggiungere il secondo checkpoint ha riservato ai concorrenti un sacco di sorprese. Per arrivarci i concorrenti hanno dovuto seguire una traccia di sentiero appena visibile che si snoda parallelamente alla terra di nessuno al confine con la Cina che conduce al lago Kel-Suu. Per portare a termine questo tratto era necessario mettersi la bici in spalla o spingerla fino alla cima di una altura e poi guadare un fiume con acqua alta fino alla vita. Dopo averlo già definito sadico e perverso dopo la prima tappa della corsa, molti corridori

1.670 km

che si snodano lungo strade, tracce e mulattiere del Kirghizistan.

26.000 m

i metri di dislivello positivo, 3 punti di controllo.


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sono adesso passati direttamente alle maledizioni all’indirizzo di Nelson, il direttore di gara, per aver incluso queste difficoltà supplementari proprio nel tratto finale del percorso di tappa. Per il capolista, Jay Petervary, arrivare al checkpoint 2 è stato molto emozionante. Le ultime 24 ore si sono rivelate decisamente dure per lui a causa della forte disidratazione sofferta durante alcune lunghe salite sullo sterrato senza possibilità di fare rifornimento d’acqua. Ma la calorosa accoglienza al campo e il cibo sembrano aver annientato la fatica. Le sue parole, all’arrivo lo testimoniano: «Le persone di questo paese sono le migliori che io abbia mai incontrato. Mi commuovono. Quando mi vedono da lontano che arrivo, se sono a cavallo, deviano verso di me. Mi raggiungono, scendono da cavallo e mi accolgono, mi abbracciano, mi

stringono la mano e poi continuano per la loro strada. Non mi chiedono cosa ci faccio lì e non mi dicono che sono pazzo. A volte l’unica cosa che condividono con me è qualche minuto di silenzio, non abbiamo niente da darci l’un l’altro se non qualche sguardo e un po’ di silenzio in mezzo al niente. Restano lì in piedi mentre io mi scaldo qualcosa da mangiare o mi riposo un po’. C’è solo il rumore del fornello e del vento. Questo mi piace molto. Il contatto con le persone è il motivo principale per cui faccio cose come questa». Ed è proprio questo che racconta la luce negli occhi di ogni corridore: l’ospitalità di questo paese e della sua gente è incredibile. Dai corridori abbiamo ascoltato varie storie di local che li fermavano e li invitavano in casa, al caldo per prendere un tè, offrendo loro cibo e

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Kirghizistan. Dopo l'isolamento assoluto e la solitudine, gli incontri sul percorso sono sempre momenti speciali.


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acqua, aiutandoli a risolvere problemi tecnici – per quanto sia possibile risolvere problemi tecnici e trovare ricambi o soluzioni zone remote e isolate come queste. La complessità della gara fa sì che molti partecipanti gettino la spugna. Nelle ultime 48 ore si sono ritirati molti concorrenti; si parla di venticinque persone e la cifra aumenta ogni ora. Spesso, al culmine di momenti di sconforto e di fatica i partecipanti vogliono arrendersi e buttare tutto all’aria. Ognuno, in solitudine, vive momenti decisivi restando in bilico tra l’ambizione e il desiderio di continuare e la voglia di mollare tutto e fermarsi. Spesso la decisione di continuare oppure abbandonare dipende da dettagli del momento, dall’umore, dalla mancanza di sonno, dai vestiti che senti addosso bagnati e che non sopporti più.

Contano il caso, la fortuna o la sfortuna; la parte oscura di quest’avventura è il fatto di dover gareggiare senza assistenza, se non ai punti di controllo. Al tempo stesso molti partecipanti sono attratti proprio da questo fattore: doversi arrangiare. Potersi misurare con se stessi, con le proprie sole forze. Pedalare by fair means, arrivare al limite di quello che crediamo possibile. Il che, di solito, risulta essere molto più in là di quanto pensiamo. Lee Craigie, la capolista femminile sin dal primo chilometro, si è dovuta ritirare a causa di un’intossicazione alimentare e ora al checkpoint 2 si sta rimettendo in sesto. Jenny Tough, arrivata al checkpoint 2 nel pomeriggio è passata in testa alla gara ed è tra i primi venti atleti in classifica generale.

Esperienza. Jay Petervary era il corridore più collaudato e ha preso la testa della corsa sin dall’inizio.


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Nelle menti e nel corpo dei partecipanti si combatte una battaglia interiore, voglia di arrendersi e determinazione ad andare avanti si contrastano. La ventisettenne canadese è di casa in Kirghizistan. Due anni fa aveva partecipato a una gara di ultrarunning senza assistenza attraverso la catena montuosa del Tien Shan, da un’estremità del paese all’altra, 900 chilometri di gara per un tempo di venticinque giorni. In realtà in gare di questo tipo non si può parlare né di vittorie, né di fallimento vero e proprio, mai, anche in caso di ritiro. Sia che si riescano a superare momenti di disperazione o che si ceda alle proprie paure e alla fatica e ci si ritiri, saranno questi stati d’animo e questi momenti di lotta interiore e di indecisione (o

di decisione) che resteranno incisi nella memoria e nella nostra storia personale. Aspettare ai checkpoint e vedere i corridori arrivare è un modo per partecipare a tutto questo e comprendere la battaglia interiore che si combatte nelle menti e nel corpo dei partecipanti. Si comprendono e condividono gioia e felicità ma anche delusione e sconforto, a volte. Nelle parole di un concorrente, in un momento di pace e di ristoro seguente alla fatica e alla voglia di ritirarsi: «I treni e le auto spostano i carichi pesanti; la bicicletta sposta l’anima». Probabilmente è proprio così.


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avventura

race report #03 I primi sono già al traguardo sulle rive dell'Issyk-Kul Lake ma la gara continua.

« Niente che valga davvero qualcosa, è facile da fare». [MIKE HALL, ULTRACYCLIST]

Silk Road. Sulle strade della mountain race bisogna essere anche un po’ alpinisti.

Dopo otto giorni, otto ore e quindici minuti, la prima edizione della Pedaled Silk Road Mountain Race si è conclusa. Jay Petervary è arrivato per primo al traguardo, lasciandosi 1721 km di percorso alle spalle. Nonostante la notevole esperienza non si può dire che sia stato facile, nemmeno per lui che è uno degli ultra-cycler più rodati in circolazione: «È stata una delle gare più dure della mia vita, ma non è questo il motivo per cui ho scelto di partecipare. Non è per la difficoltà fine a se stessa che sono venuto. Mi attrae la novità di viaggi in questo stile e il fatto di aver gareggiato in zone dove in bicicletta non sono ancora state organizzate molte corse. È dentro a queste incognite e in questa incertezza continua che sta racchiusa la bellezza di questa competizione». Il contendente Levente Bagoly è arrivato questa mattina dopo nove giorni, tre ore e trenta minuti. Anche se Jay è stato in testa sin dall’inizio, la vittoria non poteva darsi per certa fino alle ultime dodici ore. I due ciclisti a loro insaputa appena dopo aver lasciato il checkpoint 3, hanno gareggiato per qualche ora testa a testa. Una volta

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resisi conto di questo, hanno deciso di dare gas e pedalare giorno e notte per non rimanere in svantaggio sull’altro nella sezione finale. È stata una notte di agonia e di adrenalina per Jay Petervary. Completamente bagnato e congelato ha attraversato vari fiumi con l’acqua alta fino alla vita e affrontato – ancora una volta – una sezione dove lo spingere la bici e il portage sono durati durato dieci ore. Preoccupato che le sue scarpe da bici, già malridotte e rotte, non arrivassero alla fine, Jay si era comprato un paio di Crocs bianche tarocche nell’ultimo paese prima della sezione finale, ma per fortuna alla fine ha tagliato il traguardo senza doverle utilizzare. Siamo sì alla fine del primo atto, ma questa gara non è ancora terminata: per essere precisi, restano da questo momento altro cinque giorni fino al termine ufficiale della competizione. Mentre i concorrenti della top ten della classifica stanno arrivando poco alla volta, sgranati, il numero totale di ciclisti in gara si è drasticamente ridotto a cinquanta: sono rimasti in gara la metà dei partenti iniziali. I problemi causa di ritiro più comuni sono il mal di montagna e le intossicazioni alimentari che hanno frantumato il morale e lo stomaco di molti partecipanti. I rimasti in gara sembrano voler affrontare anche le condizioni più dure: un concorrente,


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avventura

Singolo o team. L'edizione del 2019 prevede anche la gara in coppia.

incapace ormai di sostenere la testa a causa del burn-out dei muscoli del collo si ostina ad andare avanti. Tenta di sostenere la testa stringendo sotto al mento un rotolo di carta igienica. Il paesaggio del Kirghizistan non può restare in secondo piano. Sotto certi aspetti la Silk Road Mountain Race offre una narrazione simile ai western di Sergio Leone, dove la trama del film diventa secondaria rispetto alla bellezza di paesaggi selvaggi e mozzafiato. Forse sono gli scenari stessi a rappresentare la trama di certi film. I luoghi attraversati da questa gara sono sia il bene che il male, il bello e il brutto della gara. Il paesaggio è un nemico odiato e allo stesso tempo, il miglior alleato dei concorrenti in gara. I tratti infiniti di gravel, single track, i guadi, i panorami infiniti, le discese ghiaiose possono mandarti fuori di testa oppure farti sentire al settimo cielo, su un altro pianeta. Credo sia giusto dire che gli ultra-cycler hanno un’anima errante. Arrivare in un luogo come questo,

nutrire lo spirito con spazi infiniti e nuove frontiere da immaginare e oltrepassare alimenta la sensazione di libertà assoluta e di ricerca dell’avventura che è indissolubilmente associata a questa gara. Ed è proprio questo che il direttore di gara, Nelson Trees, è riuscito a creare, è questo il suo capolavoro: un western dell’era moderna.

Per essere considerato finisher della Silk Road Mountain Race bisogna riuscire a raggiungere il traguardo entro la fine del party di chiusura della notte del 31 agosto.


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« In un film western, il paesaggio è uno dei personaggi principali. I migliori film western parlano di un uomo contro il suo stesso paesaggio». [SIR RIDLEY SCOTT]

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race report #04 Gli arrivi al traguardo sull’Issyk-Kul Lake e il party finale.

Ogni prima volta racchiude una bellezza malinconica. L’entusiasmo per qualcosa di sconosciuto, l’agitazione che provoca l’incognita e la solitudine. Con la prima edizione della Pedaled Silk Road Mountain Race, Nelson Trees, ideatore e tracciatore della gara ha cercato di dar vita proprio a questo: una grande avventura. «Volevo creare qualcosa di speciale in un luogo che ho a cuore, sconosciuto alla maggior parte delle persone. Di certo si tratta di una gara un po’ spaventosa, estrema. È

una gara che non richiede doti fisiche da superman ma che volevo spingesse i partecipanti oltre la loro zona di comfort». Ed è esattamente ciò che è successo. Dei novantotto ciclisti alla partenza, solo in ventinove hanno tagliato il traguardo finale della prima edizione della Silk Road Mountain Race. Non è la Barkley Marathon ma è una gara durissima. Ed è proprio questo il bello, è proprio questa la differenza principale tra una sfida sportiva e una esperienza che ti cambia la vita. Mentre i finisher arrivavano al traguardo e cominciavano a raccontare, era chiaro che per molti di loro questa era stata, fino a quel momento, l’avventura della vita. Portage di giornate intere attraverso

Il Kirghizistan e la gente kirghiza hanno reso l’esperienza unica. La Silk Road Mountain Race è prima di tutto una sfida personale.



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avventura

terreni paludosi, tempeste di neve alternate a un caldo soffocante, bivacchi sotto la grandine, la tensione continua per la ricerca della traccia, dell’acqua e del cibo hanno fatto parte dell’esperienza individuale di ciascun partecipante. Ma sono le esperienze personali che rendono il tutto così speciale: prendere delle piume dalla carcassa di un uccello predatore e conservarle come un souvenir. Essere ospitati da pastori locali e passare la notte in una stanza tra taniche di latte di puledra fermentato e usando Google translate per provare a capirsi. Avere le allucinazioni o passare da momenti di rabbia e isteria scatenati da livelli di glucosio nel sangue troppo bassi e troppe ore passate da soli, ad istanti di gioia intensa e ingiustificata, sono queste le cose che resteranno scolpite nella memoria di chi ha partecipato. Una prova del genere è una sorta di richiamo estremo per chi vuole allontanarsi da una realtà fatta di continua connessione, tipica dei giorni nostri. La vita di frontiera su una bicicletta, per due splendide settimane. O anche meno, se il tuo nome è Jay Petervary o Levente Bagoly. Nelson Tree avrà tempo di riflettere sulla sua grande avventura personale: essere il direttore della prima edizione di una gara così speciale.

« Le persone che incontro quando mi vedono arrivare da lontano, se sono a cavallo, mi raggiungono. Scendono e mi stringono la mano. A volte l’unica cosa che condividono con me è qualche minuto di silenzio».

«Chiaramente sentivo molta pressione. Si era creato un equilibrio delicato: avevamo spiegato bene che si trattava di una gara senza assistenza e i partecipanti si sarebbero dovuti preparare a questo, assumendosene tutte le responsabilità. Allo stesso tempo sei tu che li mandi su quei sentieri ed essendo una gara, i partecipanti a volte per dare il meglio si spingono oltre le loro possibilità. Ma per tutte le persone con cui ho parlato ai checkpoint e al traguardo, la gara è stata qualcosa di veramente magico. Sono fiero di questo e del fatto che molti hanno scoperto questa terra magnifica». Possiamo aspettarci una nuova edizione della gara? Certamente sì, il prossimo anno, in agosto. Prendere nota.

Yurta. I checkpoint sono isole sicure in mezzo al Kirghizistan.

Pasto caldo. Jay Petervary recupera le forze mentali e fisiche.


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storie italiane

Martesana Van Vlaanderen Testo Giovanni “Gio” Pirotta

Foto Fabrizio Silvestri

Nata come collegamento di brevi salite ripide e sterrate la MVV non è una gara. Nessuna classifica, 18 muri da affrontare, un percorso di 100 km esatti per 1000 metri di dislivello.

La storia del Martesana Van Vlaanderen comincia nel lontano mese di luglio 2012, ero stanco di percorrere sempre le solite strade sulle rive del Naviglio Martesana e dell’Adda, così, complice un weekend appiedato, senza auto per andare in montagna, convinco il mio amico Alberto a prendere parte a un giro esplorativo alla caccia delle brevi salite della mia zona. Tornato a casa mi diverto a creare delle mappe che colleghino tra loro tutti gli strappi, sicuramente itinerari contorti che però nella mia testa fanno scattare degli strani meccanismi. Nonostante sia piena estate comincio a fantasticare di questa Classica del Nord sulle strade di casa mia. La cosa più malata è però quella di aver rinominato tutti questi strappi con il nome del paese o di un loro elemento caratteristico tradotto in una lingua inventata da me simile al fiammingo, aggiungendo poi in fondo la parola muur. Inizialmente il percorso che facevo si spingeva soltanto fino a Trezzo sull’Adda, col passare dei mesi mi accorgo che c’è bisogno di salite nuove, un po’ per variare il percorso, un po’ perché voglio allungarlo quel tanto che basta per renderlo un po’ più duro. Spendo ore davanti alle mappe e a Strava alla ricerca di strade nascoste e dopo decine di uscite nel weekend ecco arrivare quello che è forse il vero punto di svolta. Siamo a giugno 2013 e durante una normalissima uscita domenicale percorro un tratto in pavé a fianco della Centrale Idroelettrica Angelo Bertini e rimango folgorato dalla bellezza di una strada ripida in ciottolato che dal ponte di Paderno scende verso il fiume Adda.


percorso

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KM TOTALI

100

PARTENZA

Inzago (MI)

ARRIVO

Inzago (MI)

DIFFICOLTÀ

1000 m

DISLIVELLO

D+

In quel momento non lo sapevo ancora ma avevo conquistato il mio primo Bertinicentraalmuur e avevo scoperto, seppur in discesa, la strada che più di tutte avrebbe ispirato il Martesana Van Vlaanderen. Quel giorno è ufficialmente nato il Padernmuur. Il battesimo in salita del Padernmuur avviene con il tandem insieme alla mia compagna Maddalena, come lo è stato tra noi (più o meno) è amore a prima vista. Nel mese di novembre 2013 decidiamo di tornare sui quei ciottoli per girare un video, stavolta ognuno con la propria bicicletta. Strava dice che a furia di piantare il cavalletto e filmarci impieghiamo ben 46’38” per arrivare in cima alla salita.


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Nord. Alla MVV si vedono baffi, calzini con il leone delle friandre, ciclisti di tutti i tipi amanti delle classiche del nord (e della compagnia).

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Ormai i muri sono diventati tutti segmenti su Strava e noto con piacere che non sono pochi i ciclisti che li percorrono abbastanza abitualmente durante le loro uscite. Finalmente arriva la primavera, è tempo di Classiche e domenica 6 aprile 2014, mentre nella piazza di Brugge sta per partire la vera Ronde, io e Maddalena siamo a Concesa per la partenza del nostro personale tributo a questa fantastica corsa, un giro breve ma un passaggio molto importante nella genesi di questo progetto. Nella mia testa comincia a frullare sempre di piĂš l’idea di organizzare per davvero qualcosa di serio. A settembre sulla mappa di Strava appare un segmento chiamato Hemelmuur, una stradina che dal fiume sale fino a Villa Paradiso. Non lo conosco, non l’ho mappato io, scopro che hemel vuol dire paradiso in fiammingo, qualcuno ha visto i miei segmenti e ha proseguito con la stessa tecnica, ho fatto centro. Ovviamente il sabato successivo prendo la bici e vado subito a provarlo, con Maddi. Salita tostissima, fondo irregolare, perfetta per il Martesana Van Vlaanderen, ci siamo. Adesso abbiamo davvero tutti gli ingredienti per creare qualcosa che nella mia testa sembra una cosa fighissima. Nella primavera del 2015 faccio qualche prova e comincio a



Ormai i muri della MVV sono diventati tutti segmenti su Strava e non sono pochi i ciclisti che li percorrono abitualmente, alcuni tentando di staccare il proprio personal best, altri semplicemente di non mettere un piede a terra.


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disegnare il percorso, poi i preparativi per il viaggio in Islanda sempre con Maddalena distolgono un attimo la mia attenzione dal progetto. Una volta tornati da questa incredibile avventura però riparto gasato a mille, decido di unire la pubblicazione del mio nuovo sito con la pubblicazione della pagina Facebook dedicata al Martesana Van Vlaanderen. In pochissime settimane nasce il logo, si delinea il percorso definitivo e un venerdì di ferie è l’occasione per testare il giro completo. Avevo appena fatto il Doppio Stelvio per cui non ero proprio fuori forma, sta di fatto che arrivo a fine giornata bello stanco e mi convinco che questo Martesana Van Vlaanderen sia per davvero qualcosa di tosto, sono pronto, vado online. Giorno dopo giorno crescono i like sulla pagina, l’idea sembra piacere e questo mi carica un sacco, parlo praticamente solo di quello, sacrifico ore si sonno per creare le grafiche e mi diverto un mondo a pensare a cose nuove da fare nei giorni che mi separano dalla data dell’evento. Tramite i social conosco i ragazzi dei Cicloidi e de La Popolare Ciclistica, andiamo insieme a fare un giro sul percorso fantasticando di creare una sorta di circuito di eventi simili, tutti ispirati alle salite del Nord. Trovare il nome

Insieme. Alla MVV si pedala in compagnia, ci sono ciclisti di tutti i tipi, allenati, scarsi, magri, con la pancia.


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giusto sembra un’impresa, ma a metà marzo nasce Il Trittico, una sorta di brevetto indipendente che racchiude il Martesana Van Vlaanderen, la Coppa Asteria a Bergamo e la Muretti Madness a Firenze, un ciclismo dal basso all’insegna della fatica in tre luoghi tutti da scoprire. Apro le iscrizioni e ne arrivano subito un botto, comincio seriamente a pensare di averla fatta fuori dal vaso e alterno stati di totale euforia a stati di tensione alle stelle. Chiudo le iscrizioni con 383 mail ricevute, il giorno prima dell’evento passo tutto il tempo a rispondere a quelli che sono arrivati tardi, non so quanti saremo di preciso, ma saremo veramente in tanti. La notte non dormo, arrivo al luogo di partenza alle 6.45 del mattino, prepariamo il banchetto di accoglienza, comincia ad arrivare gente, si ride e si scherza fin da subito, la strada pian piano viene invasa dalle bici, c’è un bel clima, tranquillo, rilassato, come deve essere un evento che è tutto tranne che una gara. In anticipo sulla tabella di marcia la gente comincia a partire, meglio così, bisogna sfaldarsi un po’ per evitare ingorghi alle sbarre e agli incroci. Sembra tutto a posto e così, quasi per ultimo, prendo anch’io la bici e parto, la tensione sparisce in un attimo, non ci sto capendo molto, ma sono contento.


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Dietro di me Maddi con i miei amici si organizzano per andare al ristoro, non abbiamo pianificato i dettagli per filo e per segno, molte cose saranno improvvisate, ma li ho visti gasati alla partenza, il ristoro è in buone mani. Per immortalare l’evento come si deve coinvolgo l’amico foto-cicloviaggiatore Fulvio venuto appositamente da Alba per l’occasione, con lui ci saranno anche Andrea e Antonio, armati anche loro di macchina fotografica per fare foto e video a volontà. Sul percorso il divertimento é totale, c’è chi si perde, chi smadonna per le pendenze impossibili dell’Hemelmuur, chi perde aderenza sul viscido ciottolato del Padernmuur, qualcuno stringe i denti sul Bertinicentraalmuur perché lo vuole conquistare senza mettere il piede a terra, altri ridono e scherzano con i ragazzi dello staff al ristoro che non ha un attimo di pausa a furia di tagliare pane e salame. Sulla via del ritorno il fondo sconnesso del Koncesheligdommur fa abdicare molti che sono costretti a spingere, alcuni giungono presto all’arrivo, altri se la prendono con più calma, ma a sentire i commenti sembra che tutti, ma proprio tutti, si siano divertiti un mondo.


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Birra e gelato. Partenza e arrivo della MVV si svolgono di fronte alla Gelateria Pirotta.

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La Martesana Van Vlaanderen insieme a Coppa Asteria di Bergamo e alla Muretti Madness di Firenze è parte del Trittico, tre eventi con lo stesso spirito, dove non c’è competizione, per gli amanti del nord e delle salite.

CALENDARIO 2019 Martesana Van Vlanderen

6 aprile 2019

Coppa Asteria

1 giugno 2019

Muretti Madness

26 ottobre 2019


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squadre

the end (of Sky) Testo Giovanni Battistuzzi

Foto Bettini Photo

Ogni volta che si ha a che fare con un dominio assoluto viene naturale pensare che questo sia ingiusto, non motivato, determinato da qualche trucchetto. Eppure non sempre è così, molte volte il dominio è determinato da un anticipare i tempi, da un far volgere a proprio favore qualcosa che prima di altri si è scovato, intuito, messo in pratica. Il Team Sky non ha fatto altro che capire prima di tutti in che modo si stava evolvendo lo sport, in questo caso il ciclismo. Ha cercato di rendere questa disciplina una scienza esatta, l'esatta replica su strada di valori fisiologici elaborati e studiati in laboratorio. Quello che ha fatto il team inglese in questi ultimi dieci anni non è stato altro che studiare e applicare teorie scientifiche alla tecnica sportiva, rendere gli uomini il più possibile simili alle macchine. Ci sono riusciti in modo eccezionale. Hanno dimostrato che lo studio, la conoscenza e la forza di volontà possono produrre atleti vincenti, quasi imbattibili. Ma proprio mentre i tecnici erano al lavoro per confezionare questo prodotto perfetto, il progetto del Team Sky ha cominciato a mostrare le sue crepe più grandi. E non sono crepe dovute alla bontà dell'idea, tutt'altro, sono smagliature in un quadro più grande, che colpiscono al cuore proprio quello che il Team

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Il merito del Team Sky è di averci fatto vedere il ciclismo che non vogliamo. La squadra britannica ha cambiato questo sport, molte volte ha sacrificato lo spettacolo sull'altare del successo. Ha però generato una reazione a tutto questo.

Sky ha cercato di tenere a margine in tutto questo tempo: l'immaginazione. Chris Froome che si getta a capofitto in discesa verso Bagneres-de-Luchon nel corso della ottava tappa del Tour de France 2016 e Chris Froome che parte sul Colle delle Finestre a 80 chilometri dal traguardo dello Jafferau al Giro d'Italia del 2018: per quanto studiate a tavolino e preparate sin nei minimi dettagli, parliamo di due imprese e di due momenti di ciclismo che superano la normale pianificazione della gestione di una corsa a tappe. Rappresentano altro: improvvisazione, slancio, coraggio, cuore. Rappresentano insomma quello che il ciclismo per molto tempo era stato e che proprio il Team Sky aveva cercato di annientare. Il ciclismo un tempo era uno sport dove l'impresa andava a braccetto con il rischio di fallire, dove il coraggio dell'inconsueto si accompagnava con il pericolo del crollo fisico. Il Team Sky ha in questi anni cercato di eliminare il più possibile il rischio di fallimento. Preparava i suoi atleti di punta al meglio, focalizzava tabelle di allenamento e picchi di forma in modo scientifico per ridurre il più possibile le possibilità di non raggiungere l'obbiettivo prefissato, ossia


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squadre

La Sky voleva eliminare le variabili del ciclismo, rendere tutto scientifico. Ha riacceso la fantasia e ci ha fatto capire cosa amiamo delle corse in bici. E cosa no. la vittoria del Tour de France, la più ricca e importante corsa a tappe del mondo. Non è stata la prima squadra a farlo, non sarà l'ultima. È una tendenza che c'è dagli anni Sessanta almeno, che è diventata totalizzante nel periodo delle vittorie di Lance Armstrong. Per anni Froome aveva la Grande Boucle e solo la Grande Boucle in testa, tutto il resto non contava. Si preparava per questo e per questo soltanto. E una volta arrivati in Francia andava in scena sempre lo stesso copione. Vittoria a cronometro e poi squadra schierata in testa dal primo arrivo in salita a fare un ritmo impossibile per tutti, il capitano scattava e metteva in saccoccia quel vantaggio necessario per controllare gli avversari, cosa che diventa facile se si hanno come gregari compagni che potrebbero correre da capitano in qualsiasi altra squadra. In questi ultimi otto anni il Team Sky ha rodato, sistemato e reso perfetto questo meccanismo. Una gestione della corsa legittima, impeccabile addirittura, ma che ha ridotto molte volte il Tour a una gara piatta, poco appassionante. Questo per meriti evidenti di Sky ma anche per demeriti altrui. La forza della squadra inglese bastava a volte ad annichilire gli avversari e a disincentivare scatti e azioni da lontano, bastava poco al Team Sky a dissuadere gli avversari dal cercare di ribaltare le cose. L'attendismo molto spesso è ciò che ha soffocato le corse. Eppure, mentre andava in scena il dominio di un gruppo su tutti gli altri avversari, forse per necessaria reazione, forse per semplice necessità, c'è stato uno strano ritorno alla fantasia, alla teatralità, alla voglia di rischiare. In un'epoca nella quale il ciclismo stava abbracciando l'iper-specializzazione, il ragionamento per obbiettivi singoli, i corridori hanno iniziato ad azzardare di più, hanno iniziato a provare a vincere e non soltanto a provare a non perdere.

Se il Tour de France era cosa da Sky, allora tanto valeva rischiare altrove. A marzo dello scorso anno Vincenzo Nibali si è prima inventato il finale perfetto della MilanoSanremo e poi ha visto l'effetto che fa correre un Giro delle Fiandre; Romain Bardet ha sfiorato la Strade Bianche e si è convinto di poter inventare qualcosa di buono nelle Classiche del Nord; Tom Dumoulin si è convinto di saper andare forte su tutti e due i versanti della montagna e ha scoperto il gusto di lanciarsi alla disperata a decine di chilometri dal traguardo; Simon Yates, senza niente da perdere, ha iniziato a recitare da interprete eccezionale nelle corse a tappe, senza rinunciare mai all'attacco e alla sfida in campo aperto. Soprattutto in tutto questo rimescolamento gli organizzatori di corse a tappe - Vuelta esclusa - hanno capito che servono le grandi e lunghe salite per creare spettacolo e distacchi e per invogliare i corridori a rischiare. E vedendo questi accenni di cambiamento, vedendo questi uomini rischiare di saltare per aria nel tentativo di far saltare gli altri, noi appassionati da divano o da bordo strada, noi amanti della bicicletta della domenica, che sui pedali un minimo di fatica l'abbiamo fatta e di ciclismo un po’ ne mastichiamo, abbiamo capito che il ciclismo che ci piace è questo, quello dell'immaginazione al potere, quello dell'improvvisazione spettacolare. Il ciclismo di ragazzi che sanno quanto hanno da perdere ma attaccano lo stesso perché non si sa mai, che il giorno prima tentano l'affondo e il giorno dopo hanno le facce sfinite e spente di Simon Yates e Thibaut Pinot sui tornanti delle Alpi, gente che comunque non si è mai arresa. La Sky voleva eliminare le variabili del ciclismo, rendere tutto scientifico. Ha riacceso la fantasia e ci ha fatto capire cosa amiamo delle corse in bici. E cosa no.


storie brevi

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inside

I R O N Location Cervia, Emilia-Romagna

Testo Emilio Previtali

Foto Alessandro Annunziata


inside

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M A N


Preparazione. Gareggiare in un ironman è 95% preparazione e 5% sudore.


sfide

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Da due anni a Cervia, in Emilia-Romagna, si può gareggiare in una gara del circuito IRONMAN. È una sfida attraente per atleti a caccia di stimoli o per chi si vuole semplicemente mettere in gioco. Quando suona la sveglia non ti sembra nemmeno di aver dormito. Sei già sveglio già da un po’. Accendi la luce e salti giù dal letto, sul comodino ci sono le borracce già pronte, le hai preparate ieri, dai subito una sorsata. Chissà quanta roba berrai, oggi? Ti prepari. Meno due ore al via, forse potevi stare a letto ancora un po’, la partenza è soltanto a un chilometro dall’hotel, non è molto ma ci dovrai andare a piedi. Ti viene da pensare che oltre ai 226 chilometri che ti sciropperai oggi (quasi 4 di nuoto, 180 di bici e 42 di maratona) quel chilometro in più, all’inizio, ti scoccia proprio. Del ritorno in hotel non sei preoccupato, userai la bici che ora è depositata in zona cambio, ce l’hai portata ieri. Quel pensiero che al ritorno non dovrai camminare per un altro chilometro supplementare è un buon pensiero e ti rallegra. Scendi a colazione in una sala ristorante affollata da tanti altri concorrenti come te, si capisce che sono concorrenti perché hanno tutti un tatuaggio su un avambraccio e un braccialetto arancione fluo, mogli o fidanzate in sala non se ne vedono, è

troppo presto. Mangiano tutti in silenzio ed è surreale. L’unico rumore che si sente è il rumore della macchina per il caffè e lo scricchiolio delle mini-confezioni in plastica con dentro le fette biscottate che vengono aperte dalla gente seduta ai tavoli. Poi le fette vengono spalmate con calma e precisione millimetrica da ciascuno tirando e rasando la marmellata con la lama del coltello. In fondo alla sala un signore coreano o forse filippino discute con la cameriera perché il cappuccino della macchinetta è senza schiuma e lui vorrebbe la schiuma, o qualcosa del genere. Tutte cose che a te non interessano. A te interessa solo la tua gara, oggi. Oggi è il giorno. Sei già vestito con body, cardiofrequenzimetro e calzamaglia. Stando seduto sulla sedia del ristorante il fondello dei pantaloncini ti stringe un po’sulle palle, tutto sommato non è una sensazione spiacevole, sono imbottiti bene. Questo significa che in bici più tardi, non avrai problemi. Arrivi in zona cambio e come sempre è troppo presto, avresti fatto bene a stare a letto ancora un po’. Tua moglie

è oltre la rete di recinzione e tu in zona cambio insieme a tremila altri concorrenti iper-eccitati che a parte gonfiare i pneumatici questa mattina, non hanno proprio niente da fare. Però proprio come te sono arrivati in anticipo e continuano a spendere il loro tempo parlando con il vicino di bici e controllando e ricontrollando ogni dettaglio: barrette, borraccia con i gel, borraccia con l’acqua, computerino, sacca con casco, scarpe e occhiali, tubolare di scorta. Tu li odi questi preliminari. Odi l’attesa, a molti piacciono invece. Gonfi le ruote, cinque colpi per portare i tubolari alla pressione perfetta – anzi un po’ di più, per scorrere meglio – e poi vai via. Scappi, quasi. Sai che quei preliminari sono tutte cazzate. Quello che conta davvero in un ironman è non mollare quando il tuo cervello ti inganna e ti dice di mollare. Non sei tu a chiedere di fermarti. Cioè, sei tu ma anche non sei tu. Dentro di te ci sono due persone che nei momenti critici vogliono due cose diverse, il difficile è farle parlare tra loro. Correre un ironman in fondo, non è altro che questo.


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sfide

Scollini su Bertinoro e un po’ ti commuovi per tutto quel tifo. Urla e applausi, correre nel tuo paese in Italia non è come correre a Roth o a Zurigo, o a Nizza. Correre in Italia, è speciale.

Nuoto. Sei già a buon punto. La partenza non è niente di speciale, non è più come prima quando si partiva tutti insieme, quelle sì che erano partenze che facevano paura. Adesso ti incanalano in batterie, arrivi lì sulla linea dello start e devi andare, il cronometro comincia a prendere il tempo. Rolling start, si chiama. Significa che quando sei in ballo, devi ballare. Hai passato la prima boa, la seconda, la terza, stai già tornando indietro, si nuota bene con la muta. Meduse ne hai viste (ti hanno detto che c’erano) ma erano tutte sul fondo, le vedi perché l’acqua è limpida, niente paura. Respiri a sinistra e in lontananza vedi il lungomare e la costa e gli alberghi di Cervia. Vedi altri concorrenti partiti dopo di te che nuotano in senso contrario al tuo. Quarta boa, gli giri intorno, un dritto e poi si esce. Devi fare un’uscita australiana sulla spiaggia, la gente applaude e urla, ma non tanto.

Capisci che i primi sono già lontani. Tu aizzi il pubblico, alzi le braccia e urli e loro fanno altrettanto e applaudono e urlano. Ridi, con gli occhialini che ti premono sul naso e sulle orbite. Corri. Pensi che sei un pirla, hai il cuore in gola adesso, la frequenza cardiaca è schizzata alle stelle e prendere di nuovo il ritmo sarà difficile. Ma che te ne importa. Bici. Stai pedalando già da quattro ore ormai e stai andando bene. Lo sai che stai andando bene, li vedi gli altri che vanno più piano di te quando li passi. Ne passi alcuni che sembrano fermi, altri che viaggiano in scia, non si può, bastardi. La lenticolare gira forte e la senti che ti spinge, c’è solo un po’ di vento ma per un po’ ce l’hai anche in coda e un po’ di lato, non c’è da lamentarsi, il percorso è quasi tutto piatto. Tieni controllato il powermeter e mangi a intervalli regolari. Bevi. Fai tutto quello che devi


Pubblico. Dopo due sole edizioni IRONMAN EmiliaRomagna attrae un pubblico molto numeroso.

fare, con diligenza, l’Ironman è l’arte dell’esecuzione. In cima alla salita di Bertinoro sei in piedi sui pedali e appena prima di scollinare c’è uno che urla Alvento! è qualcuno che in qualche modo ti ha riconosciuto, sarà per colpa dei baffi. Ti giri e c’è uno che ti corre dietro, ti raggiunge. Dài grande, forza! Corre e sta lì a fianco a te, tu non sai cosa dire, è così gentile. Ti incoraggia e tu hai così poco da dare. Pedali. Sorridi. Grazie - dici. Scollini e un po’ ti commuovi per tanta gentilezza,

tanto calore, correre nel tuo paese in Italia non è come correre a Roth o a Zurigo, o a Nizza, o a Embrun, forse nemmeno a Kona. Correre nella tua nazione è speciale. Unico, perché il tifo è unico. Giochi in casa, come tutti gli altri italiani del resto. Arrivi ai meno cinque chilometri dalla fine della frazione ciclistica che ti senti benissimo. Pedali bene, ti verrebbe da allungare, da spingere, vai piano invece, lo sai che il difficile non è ancora nemmeno iniziato.


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sfide

Personal best. Alcuni age-group vanno veloci quasi come dei pro. Nella foto Enzo Bergamo, veterano di Kona.

Piano, vai piano. E così fai: arrivi in zona cambio e ti sembra di avere già vinto qualcosa, non hai ancora finito niente, vinto niente, devi correre una maratona adesso. Quarantadue chilometri, non sono mica uno scherzo. C’è un caldo boia. Esci dalla transizione e stai bene, corri bene, sai che tra poco incontrerai tua moglie e qualche amico che è venuto a vederti e infatti eccoli là. Ti chiamano, ti incoraggiano, ti applaudono e tu corri. Vuoi fare vedere che corri bene ma non è a loro che lo vuoi dimostrare, è a te. Vai piano, pirlone. Dove vai? Fino al chilometro diciassette è andato tutto bene, poi è come se qualcuno avesse acceso un forno e ti ci avesse messo dentro. C’è un calore bestiale che ti avvolge la testa e il torace e le guance e le orecchie e il respiro. Lo sai che tra poco dovrai incominciare a camminare ma non lo vuoi fare qui, non vuoi che ti vedano. Il percorso gira in una stradina che va verso il mare e il lungomare e tu, lì, cedi. Sei solo. Quindi cammini. Sei un bastardo vigliacco, siamo alle solite. Pensi che è meglio camminare un pochino che buttare la gara alle ortiche e così fai. Cammini. Però non lo sai se devi davvero camminare o se c’è quella parte di te che ti imbroglia, che ti vuole frenare. Tutte e due le cose forse, un po’ sei stanco, un po’ sei debole.

Sembra impossibile con tutto l’allenamento che hai fatto eppure, cammini. L’ironman è una lezione di umiltà, sempre. Poi riparti. Poi cammini, ancora un po’. Cammini, bevi, mangi, soprattutto ti bagni, cerchi di raffreddarti. Va un po’ meglio. Riprendi a correre, ed è bellissimo correre, finalmente. Sei di nuovo tu. Mancano due chilometri all’arrivo. Ora corri davvero bene ma è troppo tardi, il tempo che sognavi di fare è andato ormai. L’orologio non lo guardi più, cerchi solo di guadagnare posizione su quelli che hai davanti, come fosse un videogioco. Alla fine, corri molto meglio di come correvi all’inizio, sembra impossibile. Ultimo chilometro, svolti verso il traguardo, la maggior parte dei concorrenti prosegue per il quarto giro, tu invece hai finito. Corri tra due transenne e la folla, nonne e bambini e mamme e mogli e signori in bermuda e ciabatte che ti danno il cinque, tu ne dai qualcuno, non a tutti perché si fa troppa fatica. Tanta fatica. Spingi e cerchi di correre più veloce che puoi, la gente ti incita. Sorpassi uno che ti aveva sorpassato a metà maratona e sembrava volasse, correva così bene prima. Ora se camminasse andrebbe alla stessa velocità a cui sta andando, però lui corre. Piano, pianissimo, però corre, lui non ha mollato. Ma tu lo hai ripreso.

Nelle gare Ironman si va a caccia del personal best. Si gareggia per classi di età, i migliori si qualificano per la finale degli Ironman World Championship che si disputa a Kailua-Kona sulle isole Hawaii.



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sfide

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Pescara. Nella doppia pagina precedente, in Italia IRONMAN ha organizzato nel 2018 una gara 70.3 sulla mezza distanza, a Pescara.

Time Trial. la frazione ciclistica è una prova di 180 km no-drafting su percorso chiuso al traffico.

Quello che conta davvero in un Ironman è non mollare quando il tuo cervello ti inganna e ti dice di mollare. Dentro di te ci sono due persone che nei momenti critici vogliono due cose diverse, il difficile è farle parlare tra loro.


Hai passato il traguardo e non hai sentito niente. Niente felicità, niente lacrime, niente gioia, niente. Hai guardato il tabellone con il tempo finale e ti sei accorto che non è male. Barcolli un po’ ma cerchi di darti un contegno. Ti mettono una medaglia al collo e ti mettono una bottiglietta di acqua frizzante in mano. Ne bevi un sorso. Hai sete ma hai bevuto così tanta acqua oggi, e sali e Coca-Cola e Red Bull e non sai più nemmeno cosa, che non hai più voglia di bere niente, però hai sete. Vorresti solo sdraiarti un secondo e infatti lo fai, ti sdrai sul tappeto rosso. Non fai nemmeno a tempo a guardare il cielo ed arrivano in due e ti sollevano di peso e ti dicono di spostarti, non puoi stare lì. Ci sono altri

concorrenti che devono arrivare, mi dispiace - allora ti rialzi in piedi. Vai verso l’uscita e ti chiedi dove sarà tua moglie, adesso. Cammini e la medaglia ti ciondola sul petto, sembra così pesante. Ti guardi in giro e appena oltre una rete di metallo, lì vicino, lei è lì. Ti sta chiamando già da un po’ e sorride e ha gli occhi lucidi e allora anche te viene un po’ da commuoverti, adesso. Non piangere pirlone, per fortuna hai gli occhiali. Vai da lei e lei ti tenta di abbracciare e di baciare, ma tu non la vuoi baciare che sei sudato, ti dispiace. Per lei. E all’improvviso ti salta addosso quella malinconia e quella voglia di essere in un altro posto, a casa o al ristorante o sotto una doccia, è tutto finito. Un anno di allenamento

per essere qui adesso e godersi questo, ancora una volta, dura tre minuti. Il tempo di andare da dove hai visto tua moglie a una panchina dove ti potrai sedere e stare lì, in pace per qualche minuto. Da solo, senza fare niente. In lontananza senti la voce dello speaker che urla per la trecentesima volta You are an ironman! i concorrenti continuano ad arrivare. Anche tu sei un Ironman, sì vabbè. Arriva una solerte signorina che ti chiede se puoi spostarti, ci sono altri concorrenti che hanno appena tagliato il traguardo e devono sedersi. The show must go on. Ti alzi in piedi e ti accorgi che ti fanno male le gambe e c’è già quella domanda, la solita: a quale Ironman partecipo, io, il prossimo anno?


TRE GARE ITALIANE DA NON PERDERE Ironman EmiliaRomagna ironman.com

Cervia

21 settembre 2019

L’unica gara Italiana del circuito Ironman, una delle emergenti in Europa.

Elbaman elbaman.it

Isola d’Elba

29 settembre 2019

Gara storica e percorso duro. Organizzazione perfetta.

Challenge Riccione challenge-riccione.it

Riccione

5 maggio 2019

La gara sulla mezza distanza di inizio stagione, perfetta per esordire.

La distanza Ironman prevede 3,8 km di nuoto, 180 km di ciclismo e la Maratona finale di 42,195 km. L’IRONMAN World Championship si svolgerà quest'anno il 12 ottobre a Kailua-Kona, Hawaii. L’accesso alla finale del circuito richiede la qualifica in una delle gare del circuito.

Ironman Italy. Quella di Cervia è l'unica gara in Italia che qualifica per la finale di Kona.



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PORTFOLIO

James Startt

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« La fotografia è il mio modo di reagire al mondo che ho intorno».

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Aspettare «Molto della mia fotografia non ha niente a che vedere con il ciclismo. Ho quasi sempre la macchina fotografica con me e sono sempre attento a cogliere delle situazioni o qualche dettaglio che attira il mio sguardo. Può essere un tizio per strada o semplicemente una costruzione o uno spazio, un modo di congiungersi di alcune linee dentro al mio mirino. Niente è un’ispirazione più grande per me che comporre delle immagini nel rettangolo dell’inquadratura».


portfolio

Wind turbines. Nella doppia pagina precedente, il gruppo durante la Parigi-Nizza, nel nord della Francia.

Tifosi. Le persone sulle strade del Tour de France spesso attirano l’attenzione.

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15 luglio 2006. Tredicesima tappa del Tour de France, Bézieres – Montélimar.

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Finish line «Questa fotografia di Jens Voigt è una delle immagini preferite di tutta la mia carriera ed è stata presa solo pochi secondi dopo la sua vittoria di tappa al Tour de France del 2006, a Montélimar. Ho conosciuto Jens quando è passato professionista con GAN e ho sempre amato il suo modo di essere corridore. C’erano una marea di fotografi che gli giravano intorno ma a un certo punto, all’improvviso ha guardato verso di me e si suoi occhi si sono fermati e io ho scattato. E il flash ha tirato fuori dai suoi occhi in un istante tutta la fatica, il sacrificio e la soddisfazione di quella giornata».


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Linee «Quando fotografo osservo spazi, costruzioni, il modo di congiungersi delle linee dentro al mio mirino. Niente è un’ispirazione più grande per me che comporre immagini nel rettangolo dell’inquadratura. Sin da quando ho iniziato a fotografare seriamente, negli anni ’80, per me fotografare significa riuscire a riassumere il mondo in qualcosa che è invisibile a occhio nudo».

Tour de France. Trent'anni al seguito della gara per James, qui la tappa 11 del 2018 Cormet de Roselend.


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Richard Virenque. Lo scalatore francese in un attimo di relax sul bus della Quick-Step.

Bus «Quello che mi piace delle fotografie sui bus delle squadre è il clima, l’intimità. È la quiete prima della tempesta, si tratta dell’ultimo luogo dove i corridori possono rimanere soli prima di correre, di buttarsi nella mischia. Uscire dal bus per un corridore significa lasciare un mondo protetto e amico e buttarsi nella battaglia».

Thomas Voeckler. Esce dal bus con la maglia gialla conquistata nel 2004 e difesa per dieci tappe.


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Lance «L’immagine di Lance è un’altra della categoria dopo la linea di arrivo. Questa fotografia racconta bene Lance perché descrive perfettamente l’alone indefinito e in costante evoluzione che c’era intorno a lui, è stato così per tutti gli anni del suo domino al Tour. Lui era sempre in controllo e centrato. Aveva appena perso la maglia gialla ed appariva di già concentrato e focalizzato sul giorno dopo e sul riprendersi la maglia. Lance era così».

8 luglio 2004. Nella tappa Amiens – Chartres di 195 km Lance Armstrong cede la maglia gialla a Thomas Voeckler. Se la riprenderà a Villar-des-Lans dieci tappe dopo.

James Startt James Startt è un fotografo e autore americano che vive a Parigi. Rappresentato dall’Agenzia Zoom e collaboratore fisso di Peloton, le sue fotografie e le sue storie vengono pubblicate con regolarità da Vanity Fair, The New York Times, LeMonde, Bicycling e Rouleur Magazine. È specializzato nella fotografia di reportage, sportiva e nella street photography. È al suo trentesimo Tour de France come inviato in corsa ed ha pubblicato tra gli altri libri Tour de France / Tour de Force, il racconto fotografico della corsa ciclistica più famosa del mondo dalle sue origini nel 1903 ai giorni nostri e Shut Up Legs, la biografia di Jens Voigt.


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alimentazione

ci vuole strategia

Testo Elena Casiraghi – Equipe Enervit Foto Alessandro Annunziata

Ogni Ironman vuole la sua strategia. Parola di Daniel Fontana e Ivan Risti.

Con l’ironman non si scherza. Ci vuole preparazione fisica, concentrazione per diverse ore. Non ultimo: motivazione. E un occhio di riguardo per l’alimentazione pre-gara e per l’integrazione durante. Impossibile sottovalutare i dettagli, fanno parte della prestazione. Ogni marginal gain nell’ironman porta ad un piccolo vantaggio che sommato ad altri porta un guadagno significativo. La scienza può aiutare, l’esperienza sul campo ancora di più. Ascoltare uno scienziato è curioso, alla lunga però anche noioso. Per rivelarvi come si deve fare questa volta ho deciso di farlo raccontare direttamente a loro, a due grandi atleti italiani che in materia di ironman ne hanno da raccontare. Di cosa è bene fare e anche cosa evitare. Testato sulla loro pelle, tatuato come esperienza indelebile. Daniel e Ivan: A ogni atleta la sua strategia alimentare Tutti vogliono la tabella. Quella di allenamento e quella di alimentazione. È bene sapere che non esiste uno schema esatto che stabilisce quanti carboidrati sia necessario assumere durante l’esercizio e quanti a riposo. Esistono linee guida, che come tali devono essere individualizzate, perché ogni atleta è un individuo e pertanto con esigenze diverse, l’uno dall’altro. Ogni strategia alimentare è personale: ciò che va bene per un atleta, non necessariamente si adatta ad un altro. Regola che vale anche per gli atleti

professionisti. Quindi serve allenare questo aspetto e non solo il corpo. Usa le sedute lunghe di allenamento o gli allenamenti combinati, per trovare la strategia nutrizionale e quella di integrazione giusta per te. Un esempio? Testa la colazione che farai il giorno dell’evento nelle sedute lunghe e intense di allenamento. Idem per gli integratori: provali prima e studia a fondo l’integrazione che adotterai in gara. Un altro esempio? Assumi 60-90 grammi di carboidrati ogni ora. Ivan: Un gusto non vale l’altro - Anche la palatabilità, ovvero la gradevolezza del gusto al palato, gioca un ruolo fondamentale quando si è sotto sforzo, a maggior ragione se si gareggia al caldo. Le maltodestrine sembrano avere un sapore più neutro rispetto al glucosio per cui sulla distanza stancano meno. Quindi, se non ti piacciono i sapori troppo dolci o hai notato che dopo un po’ non li sopporti più, punta sulle miscele a base di maltodestrine e fruttosio. Maltodestrine (o glucosio) abbinati a fruttosio forniscono maggior energia nella stessa unità di tempo. In più questa combinazione diminuisce il rischio di stress intestinali. Così mi hanno spiegato gli scienziati. Io raramente ho disturbi di questo tipo in gara, ma diversi atleti che alleno mi hanno manifestato queste difficoltà e con loro abbiano effettuato alcune modifiche all’integrazione, a volte è bastato


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solo modificare i gel verificando il tipo di zucchero contenuto negli stessi. Consiglio sempre di leggere le etichette e capire cosa contengono i prodotti che utilizzate. Daniel: Questione di timing - Ivan ha ragione. I triathleti temono i problemi a stomaco e intestino che possono emergere in gara, specialmente nella frazione a piedi. La miscela giusta conta, ma anche rispettare il timing di assunzione degli integratori è fondamentale. Questo permette di favorire l’assorbimento degli zuccheri a livello intestinale nella maniera corretta. Con un vantaggio in più: darai ritmo alla gara, soprattutto quando il percorso rischia di essere alienante. Questo consiglio funziona sia per i gel e le barrette, sia per l’idratazione. Utile inserire un allarme sul tuo orologio per ricordartene. Ivan: Un prezioso risparmio di energia: tra alimentazione e sonno - È importante prima di una competizione recuperare le energie. Non cercare di testare la condizione con allenamenti dell’ultimo minuto o accumulare energie con abbuffate di carboidrati. Puoi solo fare errori. Avvicinandoti alla gara riduci il carico di allenamento e fai attenzione all’alimentazione, così da saturare le riserve di energia. Se per gareggiare devi affrontare un lungo viaggio, alimentati in maniera corretta, seguendo le strategie pre-gara, senza

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mai eccedere nelle quantità. Affidati al buon senso. Cura anche il sonno notturno: la notte che precede la gara dormirai poco o nulla, vuoi per la tensione, vuoi per la sveglia presto. Una riduzione del sonno nel giorno che precede la competizione non impatta sulla prestazione, l’importante è non creare debito di sonno nei giorni e nelle settimane prima. Proteggi il tuo tempo per il sonno notturno. Assicurati di dormire almeno sette ore di qualità. E prenditi cura anche del letto su cui riposi quotidianamente. Uno non vale l’altro. Daniel: Sotto evento - Nei giorni pre-gara evita di trascorrere troppo tempo in piedi, visitando la città o stando a lungo nell’Expo Area. Personalmente, mi aiuta fare brevi allenamenti: mi danno una piacevole sensazione di tonicità e mi attivano la modalità risparmio energetico. Prima di cena, poi, mi sdraio per una decina di minuti, con le gambe alzate. Un’ottima strategia per favorire la circolazione, soprattutto se durante il viaggio sono stato molto in piedi o seduto. Daniel e Ivan: Un gioco di famiglia - L’ironman lo puoi sognare di notte. Poi lo costruisci ogni giorno. Con le tue gambe e il supporto della famiglia. Ricorda: l’ironman è un gioco di squadra, o meglio, è un gioco di famiglia. Ti sentirai più forte col loro sostegno quotidiano.


6 cose che un aspirante triathleta deve sapere


fight club

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Body

Sì, d’accordo, gli stradisti e perfino quelli della gravel ultimamente sono passati quasi tutti con disinvoltura allo slim-fit e dentro alle loro magliettine attillate si sentono dei figaccioni, anche quando hanno un po’ di pancetta. E va benissimo così. Ma il body da triathlon – sappiatelo – è un’altra cosa ancora. Il triathleta in gara pedala con il body perché nuotare o correre con una maglia da ciclismo indosso non è esattamente comodo, anche quando è slim-fit. Le cose da tenere presente se proprio volete pedalare indossando il body anche quando uscite con gli amici in bici da corsa, sono due: primo, che sia almeno un body a mezze maniche, quelli smanicati a meno che non siate a Kona o sul lungomare di Viareggio, lasciateli a casa; due, nemmeno Sagan ha il suo nome scritto sulla maglia: se il vostro body ha il vostro cognome scritto sopra, la bandiera italiana e magari pure la sigla ITA, in allenamento non se ne parla proprio.

Calzini

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Calzini e triathleti non vanno d’accordo. Anche qui la regola è identica a quella del body da gara: discrezione, prima di tutto. In gara scarpe senza calzini e va benissimo, ma in allenamento metteteli. Sempre. Se quelli alti vi danno la sensazione di troncarvi la figura mettetevi quelli corto o almeno i fantasmini, ma metteteveli. Soprattutto se non vi rasate neanche i peli delle gambe.

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Transizione Bike-Run

Il triathlon è uno sport bastardo perché è una disciplina ibrida. Meticcia. Un buon ciclista e un buon triathleta sono due

robe diverse, il primo sa dosare le forze e accarezzare i pedali ma non ha idea di cosa voglia dire pedalare dopo il ciclismo, il secondo non ha idea di cosa voglia dire pedalare agile e rotondo ma la natura o l’allenamento gli hanno insegnato come correre bene l’ultima frazione; il parvenu, il ciclista che si trasforma in triathleta culla sempre l’illusione di avvantaggiarsi nella seconda frazione per poi resistere nella corsa a piedi, cosa che non riuscirà mai a fare, soprattutto su percorsi pianeggianti e poco tecnici tipici delle gare del circuito Ironman. Al momento di correre a piedi dopo il ciclismo la sensazione le prime volte è quella di avere due tronchi al posto delle gambe. Triathleti si diventa, non disperate. Provate a correre dopo la bici andando per gradi e soprattutto andando piano, molto più piano del solito, sia nel ciclismo che nella corsa. Almeno le prime volte.

Bici da crono

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Al triathleta quasi sempre piace sottolineare la propria unicità. Oltre a scarpe senza calzini, body da gara smanicati e ruote ad altissimo profilo anche per allenamenti in gruppo ad andatura turistica, il ciclista multisportivo pedala di solito su un telaio da crono. Non sempre restargli a fianco è facile o rassicurante: è quasi sempre in posizione aero e non tiene mai le mani sui freni; non sempre sa cosa è una doppia fila o sa cosa significa pedalare in gruppo. Non sempre quando è il suo turno per tirare in testa rispetta l’andatura tenuta sino a quel momento, spesso si mette a pedalare come in gara. Per rendervi simpatici ai vostri amici ciclisti che pedalano su una BDC cercate di essere discreti e

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modesti. Parlate poco e osservate molto. Ascoltate, soprattutto. Niente sparate (non parliamo di sprint) e profilo basso (non parliamo di ruote), e poi vedrete che anche in gruppo sarete ben accetti.

Salite

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Dopo avere messo alla frusta il gruppo con un avvicinamento alla salita tipo cronoprologo a squadre al Tour de France, il triathleta medio sulle prime rampe in salita si spegne subito. Parte già rassegnato e non tenta nemmeno di tenere qualche ruota. D’altronde le bici da cronometro con il piantone a 80° non sono esattamente adatte per pedalare in salita. Se volete il rispetto del gruppo e degli amici in BDC non mollateli mai. Anche se siete indietro come la coda del cane tenete duro e perseverate. Mai fare dietrofront e abbandonare i compagni di scalata, mai in nessun caso. E se arrivate per ultimi al colle, non accampate scuse. Non date la colpa all’allenamento di nuoto o di corsa del giorno prima. Zitti. Non appena arrivate al GPM fate i brillanti con chi vi ha aspettato e offrite un caffè al bar o un ghiacciolo (oppure una birra, dipende che tipo di amici frequentate). Mai e poi mai fatevi beccare a succhiare le maltodestrine da un tubetto. Soprattutto se vi siete fatti aspettare per più di un quarto d’ora.

Casco

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Il casco a goccia per le passeggiate in gruppo sul lungolago, non serve. Lasciatelo a casa. Non ci sarebbe nemmeno da dirlo.


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storie

Ti voglio ricordare così Testo Massimo Sappa Romina Venier

Foto Giuseppe Ghedina

Asco, figlio di Maiorino, papà di Romina. Maiorino Venier fu sarto, autoritario e autodidatta. E avrebbe desiderato che suo figlio seguisse le sue orme. Asco a modo suo, sarto lo è diventato: si è cucito addosso un abito intriso di passione come la catena è intrisa d’olio. Un abito fatto di biciclette su misura, raggi, ruote e ingranaggi. Lo ha indossato cinquanta anni fa e portato tutta la vita. Asco era autoritario e autodidatta. Il suo negozio era anche taverna: un fogolâr, un tavolo apparecchiato con bottiglia e bicchieri, un lavabo in pietra come non se ne vedono più e trofei vinti in ogni angolo ciclistico del Friuli dai ragazzi che corsero per lui. Eccolo qui Asco, in officina.


cover story

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storie

Lo sport in genere, si dice, è scuola di vita. Il ciclismo è scuola di vita quando la vita ti da contro. È imparare a soffrire fino all’ultimo metro anche sapendo che la probabilità di uscirne perdente è pari o maggiore a quella di uscirne vincitore. Con il ciclismo impari a non mollare. A volte arrivare al traguardo per conquistarti il diritto di ripartire il giorno seguente è già un gran successo. Impari ad arrenderti senza recriminazioni quando le cose non vanno come ti aspettavi, sapendo di aver dato tutto e fatto tutto il possibile per raggiungere il risultato. Impari che dopo una vittoria, dal giorno dopo si ricomincerà tutto daccapo. Impari a guardare dentro te stesso per capire dove puoi migliorare. Impari che anche una vita tutta in discesa può essere pericolosa. Impari che la prima cosa da fare quando cadi è provare a rialzarti immediatamente. Sarebbe facile imparare tutto questo salendo semplicemente in bicicletta. Ma non è così, serve una Guida, un Mentore e devi pedalare. Mi avete messo in bici a 6 anni, tu e mio padre. A quell’età e fino alla piena adolescenza non bastano – e spesso, non servono – le parole per insegnarti la vita. L’unico modo è metterti di fronte alle difficoltà, e fartele superare a forza di calci in culo. Ti ho odiato, sì. Ti ho odiato e vi ho odiati decine di volte. Tu e mio padre sempre a darmi in testa anche dopo una vittoria: «Potevi comunque correre meglio». Quel telefono di casa che squillava ogni sera dal giovedì al sabato perché volevi essere sicuro che fossi a casa e non a far baldoria, perché la domenica c’era da pedalare. Quel giorno di Pasquetta quando finsi il mal di pancia perché volevo andare sui prati con la mia prima morosetta e sei piombato a casa mia.

Quel giorno di Pasquetta quando finsi il mal di pancia perché volevo andare sui prati con la mia prima morosetta e sei piombato a casa mia. Guardandomi negli occhi mi hai detto: Monte in màchine e pedale! Guardandomi negli occhi mi hai detto: Monte in màchine e pedale! Naturalmente con il benestare di mio padre, tuo fedele alleato quando si trattava di darmi una lezione. E cos’è successo quel giorno? Vittoria! Non si può insegnare la vita solo con baci, abbracci e carezze. Non lo capivo in quegli anni. L’ho capito dopo, quando la vita vera mi ha dato contro e quelle lezioni ormai radicate dentro di me, sono state la mia salvezza. Dietro il tuo fare burbero si nascondeva un cuore enorme. Non può essere diversamente. Non avresti dedicato metà della tua vita rubandola a tua moglie e alle tue figlie, proprietarie legittime, per dedicarti a noi, assumendoti responsabilità enormi. Non fai niente del genere se dietro la corazza non c’è un cuore enorme. Ne ho avuta la certezza quando per la prima volta dopo 45 anni ho visto scendere una lacrima sul tuo volto durante i festeggiamenti per i tuoi 50 anni di attività. Mi hai dato la conferma di ciò che ho sempre sentito. Non mi interessa delle vittorie ottenute, degli applausi, dei complimenti. Quello è il passato. Mi interessa di ciò che è rimasto ancora oggi. Degli insegnamenti che hanno forgiato la mia corazza e che ancora oggi vivono in me, grazie a te. Grazie Asco, e Mandi. Mi mancherai.



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NOME DELLA COMPETIZIONE ORGANIZZATORE CLASSIFICA GENERALE

Decal Velò Ndar Le Club Vélo Club Ablaye Thiam, Saint-Louis, Senegal 1. Becaye Traore, 2. Baye Mor Diop, 3. Moussa Ndiaye.


viaggio

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Correre in Senegal Testo e immagini Tommaso Goisis

Tornare in Senegal per la quinta volta in sei anni significa avere finalmente degli amici. All’inizio sei il toubab (bianco) in vacanza, poi il toubab che c’era anche l’anno scorso, poi per la strada ti danno un nome senegalese – Tamsir – e da lì il più è fatto. Diventi di famiglia, vieni invitato a bere, mangiare, dormire. E a correre con loro in bicicletta.

Diadji Sarr è un mio amico, ed è l’allenatore della squadra regionale di ciclismo di Saint-Louis. Da giovanissimo correva in nazionale: Camerun, Dubai e Canada le sue trasferte più memorabili. Per un ragazzo senegalese viaggiare è un sogno, farlo per andare a pedalare rendeva tutto ancora più magico. Diadji sognava il Giro d’Italia, poi il ginocchio… e la sua passione è diventata allenare. Dall’Italia gli mando spesso foto delle grandi salite, quando ha visto il Mortirolo mi ha risposto le royaume de Marc, il Regno di Pantani. Già. Questa volta gli ho scritto una settimana prima di arrivare, e gli ho chiesto se organizzavamo una pedalata insieme. «In quei giorni c’è una gara, vuoi partecipare?». «Certo». «Bene, tu portati le scarpe, alla bici ci penso io». Una gara in Senegal – pensavo – sarà un giro tra amici attorno ai 30 all’ora, dove si salutano le persone per la strada facendo ciao con la mano, dove ci si ferma ad aspettarsi, dove chi vuole si unisce sul percorso. Magari, pensavo, si scatta giusto alla fine. Mi sbagliavo.

La sera prima della gara vengo prelevato a casa da una macchina con sopra due amici di Diadji che, senza proferire parola, mi lasciano davanti a un portone: Ton velo est ici, tu demande de Younous. La tua bici è qui, chiedi di Younous. Entrare in casa delle persone, in Senegal, è normale, le porte sono quasi sempre aperte. La bici di Younous è per me enorme, ma io non potrei desiderare altro. Dopo poco sto pedalando al buio, per strade mezze sterrate e mezze asfaltate a Saint-Louis, in Senegal, su una bici da corsa con la quale domani correrò una gara. Il raduno è alle 8 e un quarto di mattina alla Total, la pompa di benzina appena fuori il centro. Non ho idea del percorso, della lunghezza, della tipologia di gara. Ma trangugio latte in polvere e una baguette e mi avvio. Quando partecipi a una gara c'è sempre quel tratto di strada che percorri tra dove parcheggi e scarichi la macchina e sali in bici, fino alla linea di partenza. Ci sei tu, vestito da gara, con le ruote pompate a 8 atmosfere, la mente concentrata e tutt'intorno la vita che scorre normale. I semafori, i negozi, le persone. Oggi questa sensazione è ancora più forte. Attraverso il mercato, sfioro donne colorate, uomini eleganti, capre, taxi, clacson. Tutte le imperfezioni dell'asfalto vibrano nelle mie braccia. Sono su una bici da corsa, in Senegal.


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viaggio

Dalla Total ci muoviamo tutti insieme per arrivare alla partenza, distante 8 chilometri. Comincio a temere: il gruppo viaggia tra i 38 e i 42 km/h. Arrivati alla partenza capisco che il gioco si fa ancora più serio. Ci sono una serie di corridori tutti con le stesse maglie: sono squadre. Guarda, quei tre sono atleti della nazionale! Parlottano, fanno strategia, cambiano camere d'aria, misurano la pressione. La direzione corsa traccia la linea di partenza con uno spray sull'asfalto e ci fa segno di posizionarci in griglia. Occupiamo metà carreggiata, ci spiegano il percorso (due volte avanti e indietro fino alla rotonda di Diama, 60 chilometri totali), poi è il momento dell'appello. Il giudice della corsa legge i nomi dei corridori scritti a mano. L'ultimo è il mio, pronunciato in una maniera che fatico a riconoscermi, ma sono io. Esisto, quindi corro. Corro, quindi sono. Trois, deux, une, ma non sono i Giochi Senza Frontiere: appena dopo il fischio il gruppo comincia a pestare. Perdo subito qualche metro, ma è troppo presto per rimanere alvento, mi alzo sui pedali e recupero sull'ultimo: è un filo più robusto degli altri, decido di marcarlo a uomo. Facciamo 3 chilometri, io non penso a nient'altro che a tenergli la ruota al centimetro. Non penso ai 40 gradi, non penso ai 45 all'ora. Io questo non lo mollo. Quando comincia una leggera salita, il gruppo si sfilaccia. Il mio uomo smette di pedalare, e faccio l'errore di imitarlo. Perché nel tempo in cui lui riparte per uno scatto (lo vedrò risalire fino a metà gruppo, il maledetto era un falso grasso) io perdo contatto. Al vento questa volta, mi ci hanno lasciato per davvero. È un attimo, scende l'adrenalina, sale il caldo e la consapevolezza del fiatone. Osservo quello che mi sta intorno: la savana è spezzata da case basse, tutte con il tetto piatto, spesso senza intonaco. Sono le case che le famiglie costruiscono con le rimesse mensili dei figli immigrati, lentamente, mattone dopo mattone, piano dopo piano. Al mio decimo chilometro i primi stanno già tornando indietro, stanno andando al doppio della mia velocità. Li osservo con ammirazione, mi fermo a fotografarli: sono concentrati e fierissimi, Younous li segue in motorino, Diadji su una macchina gialla. Tommaso! Ça va? mi urlano. Va alla grandissima, amici. A Diama mi fermo a bere in un alimentare. Purtroppo, e

Trois, deux, un, ma non sono i Giochi Senza Frontiere: appena dopo il fischio il gruppo comincia a pestare. Perdo subito qualche metro, ma è troppo presto per rimanere alvento, mi alzo sui pedali e recupero sull'ultimo. a ragione, non vendono crema solare, i miei avambracci continueranno il loro processo di trasformazione in brace. Al mio venticinquesimo chilometro vengo doppiato: c'è un terzetto in fuga, due sono compagni di nazionale, il terzo che indossa una bandana con scritto Tiziano - è la vittima sacrificale. Cerco un gruppetto al quale agganciarmi, riesco a fare gli ultimi 5 chilometri a ruota e non più al vento. Sono partito con gli altri, arrivo con gli altri. Confessando alla direzione gara di aver fatto soltanto metà del percorso. La premiazione è sulle scale di un benzinaio. Tutt'intorno c'è confusione, allegria, gioia. È una sacralità colorata. Oltre alla coppetta al vincitore viene data in busta una banconota da 10.000 CFA, 15 euro, con i quali in Senegal puoi prendere: 200 caffè per la strada, oppure 80 baguette, oppure 20 corse in taxi nel perimetro della città. Starà a Becaye Traore decidere cosa farne. Tornato a casa, sul muretto davanti al portone mi aspetta Mame Dior, la mamma della famiglia che mi ospita ogni viaggio, dal 2011. «Tommaso! Tu as gagné?» (Hai vinto?) «Quasi, Mame Dior, quasi...» Ride e mi dà una pacca sulla spalla. Ho corso una gara del Campionato Regionale di Ciclismo di Saint-Louis. Agonisticamente, non ho fatto una gran figura ma mi sono divertito come raramente succede, consapevole di aver vissuto un'esperienza unica. E in queste ultime righe vorrei dirvi un'ultima cosa: andateci, in Senegal. Magari non vedrete tante cose, ma sicuramente conoscerete tante persone. Come Diadji, come Younous, come Mame Dior. E se volete pedalarci, a Saint-Louis, fatemi un fischio. Non dimenticate la crema solare.


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storie brevi

Testo Francesco "Paco" Gentilucci

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Foto tornanti.cc

lavare la bici Una pizza surgelata buttata nel forno. Ascolto i ProjectX sparandoli dalle casse del computer. Guanti in lattice, una confezione di sgrassatore Chanteclaire, una radice di liquirizia in bocca. Ho memoria per le cose. Avendo passato quasi ogni sabato sera del quarto e quinto anno delle scuole superiori in garage a pulire la bicicletta per la gara del giorno dopo, diciamo che so esattamente come si fa. Funzionava così: io e Gas ci ritrovavamo nel suo garage il pomeriggio. Gas aveva appena finito di lavorare sui campi, andava in casa dove si toglieva le cose sporche del lavoro e si metteva una t-shirt grigia piena di macchie con dei jeans strappati, e mi raggiungeva in garage. Per prima cosa aprivamo il rubinetto e innaffiavamo le bici usando il tubo. Una volta abbiamo utilizzato l’idropulitrice, ma Vinicio quella volta ci aveva scoperti al volo e ci aveva fatto un cazziatone. Non si puliscono le bici con l’idropulitrice, mai. È troppo aggressiva. Prendevamo gli stracci e dopo aver tolto le ruote iniziavamo a passarli ovunque sul telaio. Poi con un vecchio spazzolino da denti si puliva il cambio, si dava lo sgrassatore e intanto che si aspettava agisse si pulivano i pattini dei freni e si lucidavano i cerchi. Poi si passavano i cerchi con un panno umido morbido e si ricominciava a spazzolare. Una volta finito si ricominciava tutto da capo e si lasciava asciugare. Quello era il momento in cui ti veniva il mal di schiena (anche se grazie ai cavalletti professionali che ci aveva regalato Vinicio potevi lavorare tenendo la bici alta senza stare sempre rannicchiato sulle ginocchia, come facevamo i primi tempi). In quel momento io e Gas piazzavamo i nostri portafortuna sotto il canotto reggisella. Lui aveva un ciondolo che gli aveva regalato la sua ragazza di allora, Martina, e un crocifisso della madre. Io avevo un teschio da attaccare con dello spago, che in salita mi sbatteva sempre contro la sella. Poi c’era il momento di silenzio in cui facevamo il rito:

prendevamo il nastro isolante e lo mettevamo scrupolosamente, senza la minima piegatura, sotto la catena, dove il telaio prendeva più botte. Ogni sabato strappavamo via il nastro isolante e lo rimettevamo di nuovo il sabato successivo. Tagliato il nastro con le forbici ricominciavamo a parlare e a dire cazzate, a confidarci le paure per la gara e come sentivamo le gambe. Mentre spruzzavamo il grasso spray sulla catena di solito arrivava Vinicio con la sua Jeep. Parcheggiava e scendeva, vestito di bianco, con una mano alla Napoleone dentro la giacca. Da lì tirava fuori una Philip Morris e ci salutava, Ciao ragazzi, col suo tono di voce serio da leader. Guardava le bici mentre le passavamo per caricarle sul retro della sua Jeep e ogni tanto ti diceva un Ripulisci i freni. I cerchi. Spazzole. Il rapporto piccolo. Forcelle. E così via. Non diceva nient’altro, diceva forcelle e sapevi che dovevi ripulirle e sapevi che aveva ragione. Dovevi smontare veloce il pezzo e ripulirlo da capo e per bene. A Vinicio non scappava mai nulla, trovava milioni di punti in cui le bici facevano schifo, c’era grasso o sporco. Ci faceva rifare tutto da capo, passando almeno due ore con noi e ricontrollando tutto. Ricordo che quando tornavo a casa, sempre con il mal di schiena, ero incazzato con Vinicio perché avrei partecipato alla gara del giorno dopo già cotto. Lo trovavo stupido, una dimostrazione scolastica di potere molto fastidiosa. Poi però imparai a pulire la bici e quello che all’inizio mi richiedeva cinque ore arrivò a richiederne alla fine soltanto due. Sarebbe arrivato il giorno in cui avremmo consegnato le bici al meccanico senza neppure passarle al tubo dopo la gara, grondanti di fango e lui ce le avrebbe restituite perfette per l’allenamento del mercoledì. Avrei avuto anche la spocchiositá e la ragione nel dire Se il freno davanti non inchioda appena lo sfioro, domenica non corro. Ma nel frattempo eravamo lì ancora con l’odore di Chanteclaire e lo strofinaccio in mano.


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T K C L

A I W A N O M H A L E N G E


sfide

Testo Melanie Chambers

Foto Paolo Ciaberta

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Dopo 105 kilometri di salita, distrutta e ansimante a oltre 3000 metri di quota, incapace di mettere a fuoco gli oggetti e le persone di fronte a me, al primo passo giù dalla bici devo ammettere che le mie gambe stavano per cedere. Ma ce l’ho fatta, con due minuti di anticipo sul tempo massimo. Sei ore e ventotto minuti di pedalata, quasi tutti in salita. Sapevo perfettamente che la parte più difficile del percorso sarebbe stata l’ultima. Più che difficile l’ho trovata straziante, un’agonia. Avevo sei chilometri da percorre e meno di un’ora di tempo a disposizione per rimanere nel cancello orario delle sei ore e trenta minuti, avrei potuto accontentarmi di finire e smettere di pensare al cancello orario, arrivare al traguardo sarebbe stata comunque una bella soddisfazione ma io volevo almeno provarci. Volevo

portarmi a casa la medaglia di finisher e rientrare nella classifica ufficiale della gara. Ho scoperto l’esistenza del Taiwan KOM Challenge due anni fa, quasi per caso. Mi ero ripromessa che sarei venuta a farla e anche che mi sarei preparata seriamente, con tanti chilometri e un programma di allenamento di almeno qualche mese nelle gambe. Invece sono stata invitata a partecipare solo tre settimane fa. Non ho pensato

nemmeno per un attimo di rinunciare, non potevo. Da quando sono arrivata martedì ho avuto tempo per qualche giro di acclimatamento, uno è stato per le strade di Taipei sotto la pioggia e un altro per fare una salita chiamata Yangming Mountain che è una delle più facili di quelle che ho fatto oggi, questa mattina. Quando l’avevo affrontata a metà settimana avevo pensato che non ero allenata abbastanza per fare anche


3.275 m D+

Ăˆ il dislivello che si sviluppa lungo i 105 chilometri del percorso.

25/10/2019

Ăˆ la data della prossima edizione, le iscrizioni sono aperte su taiwankom.org

Taiwan Kom Challenge Preparativi. Gli ultimi momenti prima dell’interminabile salita alla Yangming Mountain.


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Questa gara è una faccenda tra te e la montagna. Vedrai i tipi che in partenza si mettono alle calcagna dei pro tentando di tenergli le ruote. Sono dei pazzi.


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sfide

Momenti di gara. Alcuni scatti lungo il percorso del Kom Challenge.

Tempi record. L’ultima edizione è stata vinta da John Ebsen in 3h26’01”, il record appartiene però a Vincenzo Nibali che nel 2017 ha vinto in 3h19’54”.


cover story

tutte le altre. Al rientro avevo incontrato un atleta professionista nell’ascensore del mio hotel e il suo consiglio era stato: Non partire troppo forte. Non correvo il rischio. La carenza di allenamento adesso qui, a sei chilometri dall’arrivo, mi sta prendendo a calci nel sedere. A un certo punto la strada era così ripida che ho dovuto scendere dalla bici e camminare, era un tratto al 27%. Non era solo la mia ruota anteriore che si impennava e che si staccava dal terreno ad ogni

colpo di pedale, mi stavano anche congelando le gambe. Anche andare su camminando e spingendo la bici era comunque una pena, non riuscivo neanche a piegare le ginocchia dal freddo. Dopo un po’, dove la pendenza diminuiva, sono risalita in sella e ho cominciato ad andare a zig-zag sulla carreggiata per ridurre la pendenza. Intanto che pedalavo andando a destra e a sinistra sulla strada pensavo alle chiacchiere con le persone che ho incontrato sul percorso e con cui ho fatto un po’ di

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strada al mattino, alle cascate e a quei paesaggi incredibili che si vedono dalle finestre che ci sono nei tunnel dentro a cui si passa all’inizio. In partenza una ragazza che ha già partecipato alla gara altre volte mi aveva dato alcuni consigli: «Questa gara è una faccenda tra te e la montagna. Vedrai i tipi che in partenza si mettono alle calcagna dei pro tentando di tenergli le ruote. Sono dei pazzi». Quest’anno io e quella ragazza eravamo due delle 71 donne su 746 partecipanti. «Il 30% delle donne non


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ha concluso la gara, lo scorso anno». Buono a sapersi. Non è mai stata una gara contro qualcun altro la mia. Se non sei un pro il KOM Challenge è solo una sfida con il cronometro e contro la pendenza, nel tentativo di arrivare entro il tempo massimo al traguardo e conservando ancora un minimo di energie per scendere dalla bici da sola. Sopravvivenza pura, insomma. Nella prima metà andava tutto bene, tenevo la frequenza cardiaca sui 150 battiti e circa 160 watt nel tentativo di non bruciarmi. Mi ero quasi convinta di riuscire. Ho anche avuto dei momenti di euforia inspiegabile di cui non riuscivo a comprendere l’origine. Mentre pedalavo senza fatica in un tunnel, uno dei tanti che ci sono lungo il percorso, mi sono ritrovata a fianco un tizio francese che evidentemente viveva un momento di euforia simile al mio: «Ho del Merlot in una delle mie due borracce con cui festeggiare all’arrivo». Wow! Il mondo è dei pazzi. Verso la fine, negli ultimi chilometri, il silenzio in strada era surreale. Solo rumore di ruote che girano piano

sull’asfalto. Le teste tutte basse e le schiene incurvate nel gesto di spingere sui pedali, a 3000 metri di quota la sensazione è quella di pedalare tra le nuvole. Taglio il traguardo e appena oltre sento una voce che mi chiama. «Melanie! Ce l’abbiamo fatta. Due minuti prima del cut-off!». La notizia mi regala un altro momento di euforia inaspettata, ricomincio anche a recuperare la vista e a mettere a fuoco. Il KOM Challenge mi ha fatto passare da attimi di gioia e di estasi a momenti di crisi profonda, ne sono venuta fuori diversa, più possibilista, più forte. In fondo è quello che il ciclismo ha da offrire. Ed è tutto quello che mia madre mi dice sempre: «Melanie, tu sei forte anche se non pensi di esserlo». Ha ragione.

Turismo. Fatica e dislivello, ma anche l’occasione di scoprire un Paese stupendo.

Il Taiwan Kom Challenge è senza dubbio il più impegnativo evento ciclistico di tutta l’Asia. Si tratta probabilmente di una delle gare su strada più impegnative del mondo ed è aperta alla partecipazione di amatori e professionisti, tra questi nel 2017 Vincenzo Nibali ha vinto la gara in 3h19’. I ciclisti prendono il via con una partenza volante da Hualien Qixingtan per imboccare i canyon rocciosi delle Taroko Gorge e percorrendole fino al più alto punto carrozzabile di tutta Taiwan. Il percorso è quello della highway delle Wuling Mountain che parte dal mare per arrivare alla quota di 3.275 metri, dove è posto il traguardo. La strada è sempre ben asfaltata e la pendenza media è del 7% per quasi tutto il percorso, fino al tratto finale di 8 chilometri con tratti di pendenza compresa tra il 17 e il 27%. I paesaggi sono strepitosi soprattutto nella parte iniziale tra le pareti rocciose di profondi canyon, e nel tratto finale dove lo sguardo può spaziare a volo d’uccello sulle montagne intorno. La gara si disputa tutti gli anni nel mese di settembre e l’iscrizione alla gara ha un costo che corrispondente a circa 150 euro.


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percorsi

Sormano il Muro.

Testo Gabriele Gargantini

Foto Tornanti.cc

Non sono bravo in geometria e non dovete esserlo nemmeno voi per capire che, facendola in bici, questa salita vi farà rimpiangere di non esservi appassionati alla briscola anziché al ciclismo. Mi vengono in mente cinque modi per iniziare a parlare della salita di cui voglio parlare. La filosofia. Perché ho letto che qualcuno, parlandone, ha tirato in ballo Guy Debord e la psicogeografia, un approccio situazionista all'indagine dello spazio. La storia. Raccontando com'è che un sindaco di un paesello sui monti la raccomandò al più grande patron del ciclismo italiano. La geografia. Alla Manzoni, scrivendo che la salita si trova proprio in mezzo al Triangolo Lariano, che ha per vertici Como, Lecco e Bellagio. La geometria. Spiegando che la salita copre in due chilometri scarsi un dislivello di circa 300 metri, con pendenza media del 17% e massima del 25%. L'introspezione, non troppo approfondita, però per dire che l'ho fatta questa mattina e mi fanno male le gambe. La salita di cui devo parlare è il Muro di Sormano. Ci si può arrivare da ogni vertice del triangolo a cui sta in mezzo, prendendo una deviazione della strada provinciale 44 che da Asso porta al Piano del Tivano. A un certo punto, dopo aver superato il comune di Sormano, il paesello sui monti, si lascia la strada principale e si va verso il Muro. Che, non fosse per le pendenze, sarebbe una notevole scorciatoia. Perché per arrivare alla fine del Muro, ai 1.124 metri della Colma di Sormano, la provinciale fa un giro di più del doppio dei chilometri. Non sono bravo in geometria e non dovete esserlo nemmeno voi per capire che, facendola in bici, questa salita vi farà rimpiangere di non esservi appassionati alla briscola anziché al ciclismo. La strada che porta fin sotto al Muro è bella e pedalabile, di


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percorsi

quelle che puoi fare chiacchierando se sei molto in forma o non vai troppo forte. E se non sei da solo. È difficile sbagliare strada per il Muro. Dopo Sormano è indicato a ogni incrocio e persino dall'asfalto, con un paio di scritte in vernice bianca che dicono che sta per iniziare. Prima di portare al Muro, la strada è clemente per qualche centinaio di metri. C'è una discesa, un ponticello sopra un torrente, una fontanella e un contesto che ti fa venire voglia di fermarti a fare una grigliata e giocare a carte. Ma sei lì per fare il Muro, e lo fai. Elencarne le pendenze non ha molto senso. È ripido. Sempre. Ci sono quattro tornanti e se li prendono larghi i professionisti, figurati se non lo fai anche tu. Se metti il piede a terra ripartire è un gran casino; e ci sono pezzi che ti fanno venire una gran voglia di mettercelo il piede a terra. Ma se arrivi in cima - e di certo non ci arrivi prima di dieci minuti dal momento in cui cominci - trovi l'albergo Miravalle, che ha due meriti: non chiamarsi più banalmente Belvedere e avere dei tavolini con vista da cui compiacersi per aver appena scalato il Muro di Sormano. Prima che qualcuno iniziasse a chiamarlo Muro, il Muro di Sormano era una strada stretta e sterrata che tornava buona per chi doveva salire alla Colma o scendere a Sormano, spesso con asini o capre. Dicono anche, a Sormano, che era ottima per andare a cercare bucaneve e narcisi primaverili. Forse lo è ancora, che tanto non ci passa molta gente. Nel 1952 divenne sindaco di Sormano l'industriale Angelo Testori, che continuò a esserlo fino al 1970. Da quelle parti lo ricordano per un acquedotto consorziale, per uno stabilimento di filatura e per il Muro. Testori era nato a Sormano ma era cresciuto a Novate Milanese, dove era nato anche Vincenzo Torriani, che nella seconda metà del Novecento organizzò per decenni Giro d'Italia, MilanoSanremo e Giro di Lombardia. Il sindaco del paesello e il più grande patron del ciclismo italiano erano amici e l'amicizia tornò utile alla storia del ciclismo a fine anni Cinquanta, quando Torriani iniziò a infastidirsi per il fatto che il Giro di Lombardia venisse vinto da corridori non famosissimi, velocisti più che scalatori. La salita del Ghisallo non bastava più, Torriani voleva qualcosa di più selettivo. Ne parlò con Testori e Testori gli parlò di quella ripidissima strada, a Sormano. Torriani visitò la salita con il giornalista Rino Negri e chiese un parere anche a Eberardo Pavesi, l'Avvocat in bicicletta del libro di Gianni Brera, e Fiorenzo Magni, il Leone delle Fiandre, che di muri se ne intendeva. Negri fece notare che più che una strada era un sentiero per capre. Pavesi disse che molti avrebbero messo il piede a terra. Magni fece sapere che a lui l'idea piaceva. Nel 1960 il Giro di Lombardia passò per la prima volta da lì. Il più veloce a fare il

Succede sul Muro. È raro vedere i big del plotone trasfigurati in salita come amatori la domenica.


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percorsi

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Muro fu Imerio gamba secca Massignan, che ci mise poco più di dieci minuti. Tra gli altri che passarono dopo di lui c'erano il belga Rik Van Looy, uno dei tanti a mettere il piede a terra, incapace di spingere il suo 44x26 su quelle pendenze, e l'italiano Ercole Baldini, in maglia di campione del mondo. Ma poi a Milano – allora il Giro di Lombardia arrivava ancora al Velodromo Vigorelli – vinse Emile Daems. Baldini disse: «Non mi posso rendere conto del motivo per cui Torriani abbia voluto scegliere una novità di tale genere. Capisco che il Ghisallo non dava più le garanzie di selezione, ma francamente si è esagerato nel senso opposto. Questa salita è semplicemente bestiale. Impossibile da percorrere». Il Giro di Lombardia ripassò dal Muro anche nel 1961 e nel 1962. I più veloci, o meno lenti, furono Arnaldo Pambianco e Baldini, che evidentemente era uno che si lamentava ma poi non si arrendeva. Ma a vincere quei due Giri di Lombardia furono Vito Taccone e Jo de Roo, che quel giorno montava una tripla e sul Muro si poté permettere il lusso di un 36x27. Disse in seguito: «Non esiste una simile salita sulle carte altimetriche del ciclismo di ogni paese e di ogni tempo». Per quelli a cui piacciono gli aneddoti (dubitate sempre di quelli a cui non piacciono) il Muro di Sormano ha anche a che fare con due noti fraintendimenti. Quando nel 2007 morì Taccone, molti giornali parlarono di lui come del corridore che aveva avuto la meglio sul fortissimo, ma inesistente, Mauro di Sormano. Il corridore Ottavio Cogliati, decisamente non uno scalatore, raccontò invece che nel 1961 sul Muro urlò Spùncia a un tifoso, Dammi una spinta in dialetto milanese. Il tifoso non capì, pensò che Cogliati gli stesse chiedendo del punch e gli rispose: Scusa ho solo Coca-Cola.

I tifosi avevano capito quanto era difficile il Muro e quanto, aiutando certi corridori, si poteva dare loro una mano ad arrivare primi a Como. La poca memoria del Muro che il giornalismo italiano dimostrò nel 2007 e la richiesta di Cogliati servono anche per spiegare che dopo il 1962 il Muro di Sormano fu tolto dal Giro di Lombardia e che fu tolto per via delle troppe spinte ai corridori. I tifosi avevano capito quanto era difficile il Muro e quanto, aiutando certi corridori si poteva dare loro una mano ad arrivare primi a Como, dove nel 1961 era stato spostato l'arrivo. Il Muro fu descritto da alcuni come una farsa e lo stesso Baldini, che nel 1962 fece il muro in 9 minuti e 24 secondi, disse: «Se hai molti tifosi, a Sormano ricevi molte spinte. E io ho avuto molti, molti tifosi». Il Muro fu tolto dalla corsa e tranne qualche appassionato che ci continuò a passare e qualche giornalista che lo confuse con un inesistente Mauro di Sormano, sparì dal presente del ciclismo per diventarne uno degli aneddoti dell'eroico passato. Qualche anno dopo il Duemila un po' di appassionati si misero in testa di restaurare il Muro. La Regione Lombardia ci investì più di centomila euro e lo studio di


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percorsi

architettura iFdesign attuò un progetto per celebrare la salita. Sul nuovo asfalto ci sono ora una frase di Baldini e due di Gino Bartali, i tempi di ascesa dei tre passaggi negli anni Sessanta e, lungo tutta la salita, una scritta per ogni metro di altitudine superato, dai poco più di 800 fino agli oltre 1.100. È una piacevole sofferenza, leggerli salendo. Ci sono anche indicazioni sulle montagne che si vedono in lontananza e sui tipi di alberi che ci sono accanto alla strada. Le scritte vanno dal basso verso l'alto, per essere lette da chi sale in bici. Una delle due citazioni di Bartali è ancora molto attuale perché parla di «curve secche con impennate paurose». L'altra è invecchiata meno bene: «Un passista non ha alternative. Deve arrivare ai piedi del muro con almeno dieci minuti di vantaggio così poi, se lo fa a piedi impiegando un quarto d’ora di più di quelli che lo faranno in bici, arriverà in cima con cinque o sei minuti di ritardo e potrà ancora sperare». Nel 2012 il Giro di Lombardia tornò sul Muro. Joaquim Purito Rodriguez andò a provarlo alcuni giorni prima e scrisse su Twitter: «Non è difficile, di più. Sarà un Lombardia spettacolare. Questi italiani ci sanno fare, e sanno farsi notare». Nel 2012 Rodriguez fece il Muro in nove minuti e due secondi: fu il più veloce di tutti e arrivò in cima in testa al gruppetto dei migliori, in cui anche uno come Alberto Contador pedalò dondolando le spalle, un po' meno elegante del solito. Rodriguez vinse quel Lombardia. Il Giro di Lombardia è passato dal Muro di Sormano anche nel 2013, nel 2015, nel 2017 e nel 2018. Non è mai stato il punto decisivo della corsa, ma di certo si è sempre fatto sentire. E se vuoi veder passare i corridori piano, non c'è posto migliore. Nessuno dei primi è però mai stato spinto, in queste nuove edizioni. Qualcuno dei non-primi sì, a volte, e non è sembrato dispiacersene. Nei due anni in cui ha vinto il Lombardia Vincenzo Nibali ha sempre pedalato un gran bene sul Muro di Sormano. Quest’anno ha vinto Thibaut Pinot. E intanto ho finito di parlarne. Mi fanno ancora un po' male le gambe. La psicogeografia non credo di averla capita per bene e su Instagram ho una bella foto della mia bicicletta sdraiata sull'asfalto vicino alla scritta PENDENZA MAX 25%. Mi ci sono fermato per fare la foto, mica per altro.

Nel 2012 il Giro di Lombardia tornò sul Muro. Joaquim Purito Rodriguez andò a provarlo alcuni giorni prima e scrisse su Twitter: «Non è difficile, di più. Sarà un Lombardia spettacolare. Questi italiani ci sanno fare, e sanno farsi notare».

Tipo da Muro. Vincenzo Nibali ha sempre mostrato grande feeling con le pendenze monstre del Muro di Sormano.


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libri

Pagine scritte, da scrivere, da dimenticare L’amore tradito [CUORE DI COBRA]

Il fastidio che si prova nel sentir parlare di Riccardo Riccò è generato dall’amore tradito. Non è stato più sporco o più scorretto di altri, è stato forse più stupido, più impulsivo. Il suo modo di essere, che l’ha fatto soprannominare il Cobra, l’ha esposto inevitabilmente ad una serie di attenzioni e inimicizie in anni in cui nel gruppo non era certamente l’unico a curarsi, come si dice in gergo. La sua storia è fatta di passione per la bici, di talento in salita, su quelle progressioni continue al 10-12%, di voglia di bruciare il tempo, la vita, qualunque cosa pur di veder coronato il proprio sogno. Lo stesso sogno condiviso dai tifosi, a cui non pareva vero dopo lo shock Pantani di vedere un emiliano protagonista sulle salite e piegare di prepotenza Alberto Contador sulle rampe finali del Monte Pora, o fulminare i più forti scalatori della Grande Boucle sui tornanti del Col d’Aspin. Fino al capitolo nero della squalifica. Del ritorno. E della ricaduta. La storia viaggia come su un binario parallelo a quella del talento abruzzese Danilo Di Luca (anche lui plurisqualificato e autore di un libro Bestie da Vittoria che parla di quegli anni). Le visite al dottor Carlo Santuccione, le sacche ematiche nel frigo della nonna, testosterone, ormone della crescita. E poi la bici, come un’estensione del corpo, come minimo comune denominatore fin quando da piccolo Riccardo voleva dimostrare ai suoi amici che non l’avrebbero lasciato

SAGAN E RICCÒ, IN APPARENZA ALTARE E POLVERE, DISTANTI MA UGUALI. CICLISTI, CON LE LORO STORIE, UNA DIVERSA DALL’ALTRA.

Testo Davide Marta

indietro. Vale la pena di leggere Cuore di Cobra per capire i passaggi che hanno portato un atleta al punto in cui si è ridotto Riccardo, perché comunque la narrazione (di ottimo livello) di Dario Ricci tiene sempre equidistante il tema delle cure con quello dell’allenamento, del piacere di pedalare, del sogno della bici. Il libro si conclude con una promessa. Posso anticiparla, non si tratta di spoiler perché la narrazione è già finita. Riccò ora gestisce una gelateria a Tenerife e sul suo calendario ha segnato la data 19 aprile 2024. È il giorno in cui si concluderà la sua squalifica. Ha promesso che per quella data vuole tornare in gruppo, pulito questa volta, dimostrando che si può imparare una lezione. Per cui se sarete a pedalare in giro per Tenerife e vedrete uno che prima vi squadra con gli occhi del cobra, poi vi lascia lì sulla prima salita, magari avete incrociato Riccardo Riccò.

Perché sei così serio? [MY WORLD]

Peter Sagan ha 28 anni. Mi viene da chiedere se abbia senso un’auto-biografia di un ragazzo così giovane e oltretutto nel pieno della sua maturità agonistica. La mia risposta è no, ovviamente. Non può che mancare quel senso di distacco dall’argomento trattato che caratterizza gli exatleti, che guardano a quel pezzo della loro vita come ad un capitolo chiuso, anche se vivo e fiammeggiante nei loro


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cuori. Però Sagan è Sagan. È un personaggio avvolto da un certo alone di mistero, non è prolisso con i giornalisti e nemmeno un social addicted che posta immagini e pensieri in continuazione. Per quanto sia famoso, si sa poco di lui. Ecco dunque che My World può aiutare i tantissimi tifosi che lo idolatrano (letteralmente) a colmare delle lacune, a sapere qualcosa in più dei suoi primi anni di carriera. Fa capire quanto i dettagli siano importanti nel funzionamento di un ingranaggio perfetto quale è la vita di un campionissimo del ciclismo. Ad esempio l’importanza del Team Peter, come lui definisce il suo cerchio magico (composto dal fratello Juraj, dal manager Giovanni Lombardi, dal factotum Gabriele Uboldi, dal massaggiatore Maroš) che l’ha seguito, accompagnato e protetto fin dagli esordi da professionista e che tuttora è elemento imprescindibile della squadra di cui fa parte. Cosa c’è di bello in questo libro? Non come è scritto o come si sviluppa la narrazione, incentrata sui tre successi iridati consecutivi con continui flashback sul passato. Decolla però quando la narrazione si trasforma in camera-car e si è seduti sul sellino di Peter che sta decidendo quando attaccare o quando accodarsi sulle côte delle classiche del nord o nei segmenti di pavé, sugli strappi conclusivi dei campionati mondiali, quando il suo occhio segue gli spostamenti di Van Avermaet, di Greipel, Kristoff o Boassen Hagen nel magma del gruppo che si prepara ad una volata, ad un allungo decisivo. Perché sei così serio? È il mantra che ricorre tra le pagine, è il tatuaggio che Peter porta su un fianco sotto una versione del suo ritratto in forma di Joker. È l’approccio alla vita e al ciclismo di questo atleta che ha già scritto pagine importanti, ma che ha ancora tanto da dare a questo sport. Ed è forse il vero motivo per cui vale la pena di leggere My World.

.1 Cuore di Cobra. di Riccardo Riccò con Dario Ricci PIEMME, 2018 17,90 euro.

.2 My world. di Peter Sagan Mondadori, 2018 19 euro.


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Perdenti perfetti WONDERFUL LOSERS O DELL A SINDROME DI STENDHAL*

Testo Federico Ravassard

WHEN LOSS BECOMES VICTORY

DOCUMENTARY BY ARŪNAS MATELIS

WONDERFUL LOSERS A DIFFERENT WORLD

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Sono andato a vedere Wonderful Losers da solo, in un cinema nel centro di Torino. Non c’era molta gente in sala, anche perché, effettivamente, bisogna essere un po’ infoiati per andare a vedere un documentario diretto da un regista lituano su un gruppo di gregari durante il Giro d’Italia 2014. Questo è chiaro fin dall’inizio, si tratta di una pellicola per appassionati, non un blockbuster come ad esempio, Icarus, disponibile a tutti sulla piattaforma Netflix. No, Wonderful Losers devi andare a guardartelo al cinema, cosa che richiede un minimo di impegno, di tempo e di energia, di sicuro più impegno di quello necessario per cliccare play sul computer. Lo stesso impegno - o più semplicemente naso - è richiesto per apprezzarlo davvero, senza sbadigliare. Esattamente come quegli amici che ti propinano esaltati i loro whisky delle Isole Orcadi che a te sembra solo che sappiano un po’ di acqua salata. La prima scena è un brillante antipasto di quello che Arūnas Matelis ci propinerà nei 70 minuti successivi. Raffigura il canadese Svein Tuft (all’epoca Orica-GreenEDGE, ora MitcheltonScott) in allenamento, da qualche parte in mezzo ai monti. Svein fa squat, solleva rocce, tutto in silenzio come una specie di Rocky zen, poi si immerge a fine sessione in un ruscello gelato per una crioterapia in versione rurale. Quando fa ciò, finalmente, lo si sente emettere dei suoni: soffia, soffia forte, come quando sta facendo il suo lavoro di gregario davanti al gruppo e i polmoni chiedono più aria. La cinepresa insiste sui suoi occhi, accesi di devozione ed esaltazione proletaria, se non fosse per le gambe depilate lo si potrebbe scambiare per un operaio sovietico. I suoni e la colonna sonora sono una parte essenziale di Wonderful Losers: bellissime le scene girate durante le tappe in salita, con le quali viene raccontato il lavoro disperato dei gregari che, dopo aver fatto il pieno di borracce, risalgono ansimanti il gruppo distribuendo il loro carico di elettroliti, accompagnati solo dal rumore delle ruote sull’asfalto e della catena sui pignoni. Per chi l’avesse visto - gli altri sono pregati di rimediare - l’analogia può essere fatta con La sottile linea rossa di Terrence Malick, un film sulla guerra del Vietnam. Lì, mentre i soldati americani fuggono nella foresta dai Viet Cong, ad accompagnare i loro sguardi strafatti di adrenalina il regista ha lasciato solo il suono dei loro scarponi sulla terra e dei rami che si spostano al loro passaggio. Quando la scena è già carica di tensione, non c’è bisogno di ulteriore musica di sottofondo. Proprio come quando delle vittime sacrificali vengono inviate in avanscoperta in battaglia, così i gregari


cinema

vengono mandati avanti a tirare a inizio salita. Di fatto questo documentario parla proprio di questo, di devozione, di spirito di squadra e di sofferenza, mentale e fisica: lo sport oggi, dopotutto, è la rappresentazione dell’epica moderna, e così tra gregari e commilitoni non c’è poi tutta questa differenza, un treno di corridori che preparano un attacco diventano una falange di soldati e viceversa. Viene raccontato anche l’immenso lavoro dietro le quinte dei medici e dei meccanici, tra momenti di tensione e altri, invece, più surreali, dove ore passate ad attendere a bordo strada si concretizzano in interventi lampo in cui ogni secondo deve essere limato dalla classifica generale. Emerge crudo il dolore fisico dei ciclisti a cui loro sono chiamati a porre rimedio, la cinepresa si sofferma impietosa su abrasioni e fratture che vengono sistemate in corsa, appesi alle portiere delle ammiraglie. Tutto ciò, però, conserva un’aurea di bellezza, in qualche modo è una guerra questa che viene raccontata come una poesia. I magnifici perdenti del titolo a volte diventano anche vincitori, e qui entra in scena uno dei due co-protagonisti di una delle pagine di ciclismo più romantiche dell’ultimo periodo: Paolo Tiralongo, che nel 2011, alla 19° tappa del Giro, si vede scortato dall’ex capitano Alberto Contador

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sul traguardo di Macugnaga per andare a vincere la sua prima corsa da professionista all’età di 34 anni, dopo una vita passata a tirare le fughe agli altri corridori. Paolo ritorna con le parole su quell’ultimo chilometro - diventato letteralmente da film - e gli occhi lucidi sembrano fare a pugni con il suo volto duro e spigoloso come quello di un contadino, come se nella natura di un gregario le emozioni fossero un tabù. Anche per il regista, forse, le emozioni sono una cosa difficile da maneggiare, e allora lo fa delicatamente con piani sequenza e tappeti sonori che si lasciano gustare poco alla volta, senza la foga di un documentario in stile hollywoodiano. Se Sorrentino avesse voluto parlare di ciclismo, probabilmente lo avrebbe fatto in questo modo, e, proprio come in uno dei suoi film, non ci si deve stupire poi se a fine proiezione ci si ritrova qualcuno abbioccato nella poltrona accanto. Tutti gli altri, invece, staranno probabilmente manifestando una lieve forma di Sindrome di Stendhal*. *La sindrome di Stendhal è un'affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d'arte di straordinaria bellezza.


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il vecchio in bicicletta Testo Claudio Dancelli

Illustrazione Francesco Pavignano


racconto

Certe domeniche non esco in bici. Capita che ci sia altro da fare, un impegno di famiglia, quasi sempre. Oppure c’è il meteo che minaccia brutto tempo. O invece è proprio la prima domenica dopo le Strade Bianche e così non riesco a partorire nella mente nemmeno mezzo motivo credibile per obbligarmi a vestirmi da bici, gonfiare le gomme ed uscire a spremere un po’ di fatica dalle gambe. Oppure non c’ho tanta voglia, così, senza motivo. Sono solo pigro a prepararmi la colazione, mangio biscotti scorrendo il feed di facebook, perdo l’attimo e la mattina è già andata, lasciandomi incollerito ed annoiato a casa, che magari non c’è nemmeno uno straccio di streaming del ciclocross da vedere. Certe domeniche non esco in bici. Però capita che esca di città con la macchina, alle nove già passate o giù di lì. Così lo vedo. Sono quelle volte che lo vedo e non riesco a non farmi catturare lo sguardo. Il vecchio. Il solito vecchio. Problemi di motivazione non ne ha. È sempre in bici. Lo vedo sempre in bici. È uno che vederlo ti fa male agli occhi. È un vecchio ciclista. Un vecchio su una bicicletta da corsa. Non è uno di quei vecchietti terribili che fanno le gare amatoriali, hanno il POWERMETER acceso, la tabella coi Watt personalizzata e mi staccano sui colli senza neanche uscire dal medio. No. Questo è un vecchio che è quello che sembra: è un vecchio con la bici. Va in bici come ti aspetti che ci vada un vecchio. Questo i Watt li concepisce solo stampati sul bulbo in vetro delle lampadine. Questo vecchio procede pigramente nel traffico. Lo sguardo fisso avanti, un po’ da rimbambito. La bocca semiaperta con il labbro inferiore cadente e bagnato di saliva dentro, in quel modo dei vecchi, che fa un po’ ribrezzo. Questo vecchio si veste male. Con le robe cha aveva già trenta o quarant’anni fa. Mescola i colori come gli capitano in mano la mattina. Come fosse un daltonico del cazzo. Spesso

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sbaglia e si mette le maniche lunghe a luglio, i calzoncini a novembre. Ha le vecchie calzamaglie di lana, con le bretelle fatte con l’elastico bianco, quello pieno di buchi per le asole, che si trova in merceria. Porta le maglie smesse delle squadre dei professionisti, ma quelle brutte, non quelle che fanno tendenza e vintage spirit, bensì quelle in offerta sui siti cinesi, che il figlio taccagno gli ha regalato pensando solo a cavarsela a buon mercato. A vederlo mi disgusta un po'. C’è da capirmi. Io scelgo le calze misurando il millimetro sul malleolo e soppesando la composizione tonale del completino, la gradazione del bianco con la striscia del calzoncino e del guantino corto e infine del cappellino sotto il casco. Lo guardo e, messo così male, senza stile, mi fa quasi schifo. Anche da lontano. I colori sono così assurdi, mescolati così a caso, che mi danno fastidio anche a cento metri. Questo ciclista anziano non ha il Garmin. Non ha neanche uno straccio di ciclocomputer. Non sa un cazzo di Strava e dei Kom. Del resto percorre sempre la solita strada. Non cambia mai. Transita lungo orribili strade statali. Quelle più trafficate, con i camion che lo sfiorano e i clacson che lo offendono ogni minuto. Non si ferma per il caffè. Non si fa i selfie da pubblicare sul profilo Instagram (che non ha, chiaramente). Non esce nemmeno con il telefono in tasca. Non è abituato. Non ci pensa. Ha la bici vecchia. Il telaio in acciaio Nivacrom, le congiunzioni sagomate che una volta erano bellissime ed ora sono buone solo all’Eroica, ma lui non sa nemmeno cosa sia L’Eroica . La forcella cromata sta opacizzando malamente ed ora è grigiastra che sta una merda. Gira così, vecchio e instupidito. Gli piace la bicicletta, è evidente, ma mi dà il voltastomaco. Questo vecchio non parte con i gruppi di ciclisti che si danno appuntamento attraverso le chat di whatsapp. Conosce solo un paio di altri ciclisti, suoi coetanei, ma non li sente e non li vede da un po’ troppo tempo. Forse sono già passati a miglior vita. Non porta nemmeno il casco. Non è abituato. Forse gli dà


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racconto

fastidio, o forse il figlio non gliel’ha comperato mai. Per quanto riguarda il casco, però, la colpa non è tutta del figlio avvocato. Il vecchio, infatti, un casco ce l’ha. Una volta gliel’ho visto. Un Brancale dei primi modelli integrali, che sembra una scodella al rovescio, con gli adesivi arancione. Come quello che aveva Bugno nella Sanremo del 1990. Solo che non lo mette mai. Non si ricorda di metterlo. Non ha in mente nessuna di quelle cose che hanno a che fare con il non rischiare la morte in bicicletta. Non ne sa un cazzo e forse non gli frega. Forse una bella morte, mentre fa la cosa più bella della sua vita, se la augura pure. Che poi quella passione matta per la bici, così illogica ed antiquata, il figlio del vecchio, non l’ha mai potuta capire. Il figlio del vecchio guida un SUV coreano con la targa tedesca e i ciclisti li odia tutti, senza distinzione di alcun tipo. Quelli in doppia fila, quelli senza fanale, quelli che gli si piazzano davanti al semaforo. Tutte occasioni per clacsonare, sfanalare e urlare insulti da dietro il finestrino chiuso. Il figlio del vecchio è stronzo. È uno stronzo quarantenne avvocato, con la pancetta, il cane, l’amante e la gastrite. Uno stronzo che non mette il sedere su una bici da vent’anni e che si rovina il pomeriggio telefonando al padre, per sapere se sia ancora vivo, o se invece giaccia spappolato sulla banchina di una rotatoria male asfaltata. Comunque, figlio o non figlio, lo detesto. Fa la stessa cosa che faccio io, ma facendola sembrare una cosa da sfigati, mentre invece deve essere cool, alla moda. Sono stufo della gente che ci odia perché stiamo in doppia fila in mezzo alla strada e ci chiama drogati. Io non voglio sentirmi sfigato quando pedalo. Voglio essere sulla breccia, niente di meno. L’unica soluzione è cambiare qualcosa: essere a posto, la bici nuova, mettersi il casco con le lucette, il freno a disco, stare in fila. Il vecchio invece se ne sbatte. Di tutto. Gira su quel ferrovecchio di bicicletta. Reca fastidio al traffico della gente che lavora. Talvolta lo vedo saltare agilmente da una corsia all’altra senza mettere la freccia. Checcazzo, si vede che sa il fatto suo. Che sta su quella bici come sul divano di casa. Gira solo un poco la testa, l’espressione ancora ottusa, ma

l’occhiata guizza dietro a controllare i veicoli in arrivo. Scarta, inclina il mezzo, si sposta in un amen e riprende linea e velocità, alzandosi bravamente sui pedali. Mi sta sulle palle. C’è poco da fare. Anche quando si dimostra, nonostante l’età, ancora più abile della metà dei miei compagni di giro domenicale, che ancora non sanno stare a ruota come si deve. Lo odio. Non solo per tutte queste cose. Mi fa considerare me stesso fra venti o trent’anni. Ancora in giro in bici, ma vecchio. E non mi piace. Anche ieri l’ho visto. Rientrando in città a pomeriggio inoltrato. L’ho riconosciuto per la schiena gobba e la maglietta della Carrera-Vagabond, ormai cinerea di polvere ed aria inquinata. L’ho visto rallentare la pedalata, distratto da qualcosa a bordo strada. Ha scavallato una gamba sopra la sella, come fanno i crossisti quando scendono al volo dalla bici. Un saltello ed era già in piedi, sulle punte degli scarpini. La mano libera a rovistare nella tasca posteriore. L’espressione ottusa, il labbro pendoloni, la maglia slabbrata sui fianchi. In un attimo un pezzo di cellophane opaco, vecchio come il mondo e tenuto arrotolato con l’elastico, è uscito dalla tasca. - Che schifo, vecchio di merda. Ho sussurrato al volante. Mentre ripartivo dal semaforo, diventato verde, ho visto che scartocciava fuori qualcosa dal pacchetto. Un pezzo di una vecchia camera d’aria, mastice e pezze vulcanizzate. Porgeva tutta questa roba al tizio pakistano che aveva forato la ruota posteriore di una specie di mountain bike. Con l’altra mano, svelto, già stava recuperando la pompa, incastrata a pressione nel telaio, proprio accanto al tubo piantone. Mentre mi allontanavo, nello specchietto retrovisore, mi è sembrato di vederlo sorridere ed accucciarsi per smontare la ruota ed iniziare la riparazione. Però, non so. Forse non sorrideva. Era una mezza smorfia. Oppure è stato solo un riflesso del lunotto posteriore. Non ricordo di averlo mai visto sorridere e di sicuro non ci siamo mai rivolti la parola. Nemmeno una volta. In realtà, quel vecchio, non so nemmeno che voce abbia.



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La forza gentile A sud del Lago di Garda ci sono delle colline che ad andarci in bici, è bellissimo. Se non ci siete mai stati fateci un salto perché ne vale davvero la pena. Proprio lì vicino, dove finiscono le colline e inizia la pianura Padana, sparsi ma raggruppati tutti in quell’area, ci sono moltissimi calzifici e maglifici. Alcune sono aziende che producono per conto terzi altre sono invece dei veri e propri colossi, aziende che nel tempo hanno saputo innovare, ideare nuovi prodotti e costruire la propria identità di brand. È così che sono venuto a conoscenza del marchio UYN. L’appuntamento è per una mattina nebbiosa ad Asola, in provincia di Mantova. Lo stabilimento Trerè (il gruppo a cui appartiene il marchio) è grande e a vederlo da dentro pare perfettamente ordinato e organizzato, non sembra nemmeno di essere in Italia. Un po’ per sbaglio e un po’ perché faccio il finto tonto, per entrare passo dall’ingresso fornitori anziché da quello principale. Fare finta si sbagliare ingresso, prendere il mio interlocutore alle spalle è uno stratagemma per capire con chi ho a che fare. È quando non hai niente da offrire e ti presenti di sorpresa a qualcuno passando dalla porta di servizio che ne capisci la vera attitudine. Una persona gentilissima mi intercetta mentre vago per lo stabilimento alla ricerca degli uffici, mi accompagna alla reception dove viene chiamato chi devo incontrare, Giuseppe Bovo, brand manager UYN. La persona che mi trova mentre vago per l’azienda è il titolare in persona, lo capirò dopo. Appena stringo la mano a Giuseppe capisco subito due cose: primo, deve essere uno che va davvero forte in bici, è magro e tirato, direi uno scalatore. Secondo, deve essere uno che sa fare bene il suo mestiere perché mi trasmette calma e autenticità e non quella cortesia formale o

Testo Emilio Previtali

quella frenesia che avverto certe volte quando mi capita di andare ad appuntamenti di questo tipo, dove ho da subito la sensazione che le persone che ho di fronte vogliano ottenere qualcosa da me e non attendono nemmeno un minuto per farmelo capire. Tra noi c’è feeling, Giuseppe mi pare uno con cui farei volentieri un giro in bici. Oltre alle stesse passioni – montagna, neve, sci, bici, sport – abbiamo anche all’incirca la stessa età. Ancora mezz’ora di chiacchiere e arriva Matteo Pedrazzini di Titici (altro marchio del gruppo Trerè) a consegnargli la sua nuova bici da gara, è bellissima. Conosco Titici, i loro concetti costruttivi e la loro filosofia. Giuseppe mi spiega pacatamente e senza fronzoli ma con entusiasmo, con passione, il progetto di UYN e più in generale l’impegno di Trerè nel ciclismo: una linea di abbigliamento innovativa, basata sulla tecnologia seamless – che devo ammetterlo, non conoscevo bene. Tutti i capi sono realizzati senza cuciture ed il tessuto è strutturato secondo forme e spessori specifici per consentire una perfetta regolazione climatica. Giuseppe mi spiega che le possibilità di costruzione sono quasi infinite e vedendo i prodotti non è difficile immaginarlo, nel frattempo visitiamo lo stabilimento insieme, per questo secondo giro ho accesso anche alle sale di produzione. Vedo questi tubi di maglia che si creano sotto i miei occhi, viene usato un filato innovativo che si chiama Natex ed è una bio-fibra esclusiva del brand che presenta caratteristiche di peso, elasticità e di termoregolazione eccezionali. Pesa il 25% in meno delle fibre di poliammide e si asciuga nella metà del tempo. Per la prima volta guardo a questo tipo di maglie in


passione

In bici. Giuseppe Bovo in azione alla Ötztaler Marathon, di cui è stato il primo vincitore italiano.

In azienda. Ritratto nella showroom di Uyn, il nuovo marchio di Trerè.

modo diverso e mi viene davvero voglia di provarne una, nel frattempo scopro che sono usate anche dai professionisti di Gazprom-Rusvelo e che ci sono capi che con la stessa tecnologia costruttiva che sono adatti alla pioggia e all’inverno. Scopro anche che Giuseppe Bovo ha vinto la Ötztaler Marathon nel 1990 (primo italiano a riuscirci) e continua a essere in salita uno dei più forti age-group della sua categoria, lui è modesto e si schernisce un po’ nel parlare dei suoi risultati. Mi chiede se magari un giorno ci troviamo per fare un giro sulle colline del basso Garda e a questo punto mi tocca fare un’altra volta il finto tonto. Non vorrei farmi lasciare indietro. Lo sanno tutti che quelli che parlano poco sono anche quelli che poi producono i risultati migliori. Sia nel business, che nello sport. Mi pare che per UYN e Giuseppe Bovo le due cose viaggino insieme. Quando ci andrò a pedalare, vi farò sapere.

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contributors

Contributors

Giovanni Battistuzzi

Alessandro Autieri

Gabriele Gargantini

Paolo Ciaberta

James Startt

Filippo Cauz

È nato nel giorno più freddo del secolo scorso a Conegliano, là dove la pianura veneta finisce, e inizia il Prosecco. E anche le colline. Lavora al Foglio e scrive di bici, di ciclismo e di altre cose, dopo aver fatto il cuoco e perdi giornata per un po’. Cicloamante, ciclista cittadino, pantaniano, si interessa di mobilità, di cibo e di ciclofficine. Ha scritto un libro, Girodiruota, che è anche il nome del suo blog.

Webmaster, fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.

Gli piace scrivere. Gli piacciono le biciclette e il ciclismo. Scrive per Il Post, su Alvento scrive di biciclette e ciclismo.

Fotografo freelance, cicloturista e musicista mancato. Gli piacciono i luoghi che non ha ancora visitato, le vecchie foto di sport in bianco e nero e fare colazione al sole. Non gli piacciono i climi freddi e pedalare controvento. Vive a Torino e lavora in giro, ovunque.

È un fotografo e autore americano che vive a Parigi. Trenta Tour de France come giornalista e reporter in corsa, fotografa il ciclismo ma non si considera un fotografo di ciclismo. Delle corse ama l’imprevedibilità e forza grezza delle emozioni che travolgono i corridori appena dopo l’arrivo. Considera la fotografia il suo modo di reagire al mondo che ha intorno.

Pedala poco e piano ma dedica quasi tutte le proprie giornate al ciclismo, osservandolo e leggendolo, in genere dal divano. Ex vulcanologo, cartografo e bike messenger, cultore di Sven Nys e coinquilino di due gatti e altrettante biciclette, nell'ultimo decennio in compagnia di alcuni soggetti affini ha organizzato oltre 200 concerti, ha riaperto il velodromo Vigorelli e ha fondato il magazine Bidon.


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Alzano Lombardo (Bg) Italy / elleerre.it / +39 035 470 527


direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

Collaborare. Riceviamo ogni settimana molte mail, messaggi Facebook o Instagram i cui autori si offrono gentilmente di lavorare per Alvento, scrivere per Alvento, collaborare con Alvento.

RIVISTA BIMESTRALE

È bellissimo che succeda. Si capisce perfettamente che tutti quelli che ci scrivono hanno passione per il ciclismo, competenza e voglia di darsi da fare. Grazie, continuate a scriverci. In molti mandano candidature o un curriculum in formato europeo ma non è esattamente quello di cui abbiamo bisogno, non abbiamo un ufficio del personale in grado di fare colloqui e almeno per ora, noi, non assumiamo nessuno.

direttore responsabile LUC A GI ACCONE direttore editoriale EMILIO PR EV ITA LI emilio.previtali@alvento.cc pr, informazioni e pubblicità info@alvento.cc redazione A NDR E A CHIER IC ATO, GA BR IELE PE Z Z AGLI A, C L A U D I O P R I M AV E S I amministrazione SIMONA RIGHET TI simona.righetti@mulatero.it segretaria di amministrazione ELE NA VOLPE elena.volpe@mulatero.it logistica e magazzino F E D E R I C O F O G L I A PA R RU C I N magazzino@mulatero.it progetto grafico e impaginazione boumaka with kividesign mail@boumaka.it foto di copertina tornanti.cc - Eloise Mavian Hanno scritto su questo numero: Alessandro Autieri, Giovanni Battistuzzi, Elena Casiraghi, Filippo J Cauz, Melanie Chambers, Claudio Dancelli, Gabriele Gargantini, Francesco Gentilucci, Tommaso Goisis, Liam van Leeuwen, Davide Marta, Alice Martinelli, Gio Pirotta, Federico Ravassard, Massimo Sappa, Romina Venier. Hanno fotografato su questo numero: Alessandro Annunziata, Bettini Photo, Paolo Ciaberta, GM Dodesini Valsecchi, Giuseppe Ghedina, Fabrizio Silvestri, James Startt, Tornanti.cc (Eloise Mavian, Francesco Rachello).

distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 stampa STARPRINT srl - Bergamo

Autorizzazione del tribunale di Ivrea n. 1 del 27/06/2018 (Ruolo generale 1904). La Mulatero Editore è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

© Mulatero Editore Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni viloazione sarà perseguita a norma di legge.

Le collaborazioni che cerchiamo funzionano secondo il sistema delle submissions, il metodo è questo: avete un’idea di un articolo o di una storia da scrivere, di una intervista da realizzare, di un evento di cui parlare? Benissimo. Quello che ci dovete mandare non è una email in cui ci scrivete cosa si potrebbe fare e neanche un elenco di link a quello che avete già scritto in vita vostra. A noi serve piuttosto sapere come volete scrivere per Alvento. Quindi scriveteci, in breve. Mandateci un intro o un pezzetto di testo che sia un assaggio della storia che volete raccontare, bastano 1800 caratteri, non di più. Poi è utile sapere se siete anche in possesso delle fotografie per corredare la vostra storia, oppure no. Se siete fotografi e volete collaborare vale lo stesso sistema: fate una selezione di immagini, mettetele in una cartella e condividetele con noi attraverso Dropbox o inviatecele con Wetransfer. Non mandateci centinaia di fotografie, fate una selezione, il lavori di fotografo è anche questo. Ricordate che le gallery con il watermark non le sfogliamo neanche. Idem per le foto che non hanno una risoluzione sufficiente alla visione su schermo pieno. L’indirizzo a cui dovete scrivere è quello del Direttore Editoriale, cercatelo nel colophon. Poi quando viene il momento, casomai, ci sentiamo. Intanto, grazie.


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Testo Alice Martinelli

ultimo chilometro

Caro ciclista Caro ciclista, è da molto tempo che desidero scriverti questa letterina. Ogni tanto, chiusa in macchina con la musica a palla, incerta se meditare sul destino del globo terracqueo o su cosa preparare per cena, vengo fulminata da codesti pensieri. A te che mi sfrecci davanti, mi sorpassi da destra e da sinistra, che mi sfiori con coraggio la portiera e lo specchietto, magari urlando qualcosa di poco carino. A te, che magari sei anche caruccio, nel fiore dei tuoi anni, con i polpaccini lucidi e la tutina fluo. Ti ammiro, davvero. Ci vuole coraggio per sfrecciare a folle velocità nel traffico, vestito come un giullare di corte, su due ruote che hanno lo spessore del mio dito mignolo. A te non fa paura nulla, impavido cavaliere: pedoni, semafori rossi, incroci, curve. La strada è il tuo regno e tu la domini con sprezzo del pericolo. Se poi con te ci sono altri allegri compagni di merende, l'effetto è garantito: una carovana compatta di atleti che sinuosa si sposta su e giù dai passi, belli e splendenti, mens sana in corpore sano e pazienza se ogni tanto uno di voi sputacchia o snaricchia poco elegantemente sul mio parabrezza. Caro ciclista, sappi quindi che ti ammiro, nonostante tutto. Però, porca-di-quella-vacca. Non sei invincibile. Non sei invulnerabile. E, mi spiace sottolinearlo, non sei Gesù. Non hai il bonus vita come Mario Bros. Se ti schianti, ti fai male. Molto male. E chi ti incontra/scontra si spaventa assai. Io il mio metro e mezzo di distanza da te lo tengo eccome, caro mio piccolo pazzoide di nylon vestito, perché ho a cuore la tua vita e anche la mia. Tu cerca di raffreddare i bollenti spiriti, ripassati il codice della strada e continua a pedalare sereno. Hai tutta la terra che vuoi sotto e davanti a te, vedi di non mettercela SOPRA. Con affetto e ammirazione (no, simpatia no, ma ammirazione sì), Alice.


LIVE IT. QUESTO È IL MOTIVO PER CUI ESISTIAMO. PER FARTI VIVERE UN ALTRO GIORNO INDIMENTICABILE IN BICICLETTA, QUALUNQUE COSA QUESTO SIGNIFICHI PER TE. NOI CI SAREMO. PER PERMETTERTI DI VIVERLO SENZA PENSIERI. PER FARE IN MODO CHE CI SIA UN SORRISO SUL TUO VOLTO TUTTE LE VOLTE CHE STACCHI LE TACCHETTE DAI PEDALI.

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