Skialper 119

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E N R I C O B R I Z Z I | G R E AT H I M A L AYA T R A I L | A LT O AT L A N T E | S E N T I E R O D E I F I O R I | A LTA V I A D O LO M I T I B E L L U N E S I

Poste Italiane S.p.A. Sped. in Abb. Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1. LO/MI

inspired by mountains

A BIMESTRALE IN EDICOLA DAL 2 AGOSTO 2018

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119 AGOSTO 2018

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E D I T O

«Viaggiando leggeri, senza rendersene conto si entra in un’altra dimensione, si entra nel cuore delle persone con la mente libera e la forza della curiosità reciproca. Ci sentiamo spesso come una matita leggera che disegna una mappa di traiettorie nuove, ricche di identità sempre più preziose e pronte a testimoniare la bellezza e la fragilità dei luoghi remoti».

La leggerezza dei passi di Claudio Primavesi

uando abbiamo pensato lo strillo di copertina di questo numero, a piedi, non avremmo mai immaginato che davanti ai nostri, di piedi, si sarebbe aperto un mondo tanto ricco di spunti di riflessione. Un mondo tutto da esplorare, come quello degli alt(r)ipiani che percorre instancabilmente Giacomo Frison, autore della citazione che avete appena letto e di un’incredibile storia ambientata nell’Alto Atlante marocchino. Una storia che ha in sé il germe rivoluzionario e anestetizzante allo stesso tempo del cammino, quello che ti entra dentro e ti trasforma pacificamente. Nella varietà delle esperienze a piedi raccontate in questo numero c’è un’unica verità. Dai 1.500 chilometri del Great Himalaya Trail percorsi con passo veloce (o corsa lenta) da Ryan Sandes, agli oltre 2.000 pestati ogni anno da Giorgio Garello in compagnia di Walk e Noosa, due Border Collie infaticabili, dai milioni di impronte lasciate dallo scrittore Enrico Brizzi sui cammini storici o lungo la via per Gerusalemme ai sentieri selvaggi delle Dolomiti Bellunesi arriva un messaggio forte. Giorgio Garello, passato da ultra-maratoneta, dice che «se vuoi riprendere coscienza di te stesso e di quello che il quotidiano ti nega hai solo due modi, sederti a un tavolino o mettere i piedi uno dietro l’altro». Ryan Sandes che «abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». Enrico Brizzi per ritrovare la

vena creativa e la voglia di scrivere ha deciso di perdersi per le montagne con uno zaino in spalla. E continua a farlo due volte all’anno sulle lunghe distanze. Lo fa con gli Psicoatleti, un’ottantina di camminatori che, come lui, immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi. Camminare, rallentare, ci aiuta a ritrovare noi stessi, ma anche gli altri e uno sguardo diverso sul mondo così pieno di problemi.

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«Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei» dice Ryan Sandes. Camminare è anche incontrare e ritornare. Incontrare Luca, Elena, Gavino, Enzo, Sonia, Novella, Daniele e Ginetta, i gestori dei rifugi delle Alpi Bellunesi, marinai coraggiosi tra gli scogli delle Dolomiti più lontane dal turismo di massa, ognuno con una storia interessante da raccontare. C’è chi arriva dalla Sardegna e chi ha costruito qui, nelle difficoltà della vita di montagna, la sua luna di miele. Ritornare da Mhtar e Naima, nei villaggi berberi dell’Atlante. «Vogliamo chiamare tutti per nome tanto che non scattiamo fotografie a caso, perché in ogni ritratto c’è la storia di una persona e del luogo che le appartiene» scrive Frison. Ricordiamocelo durante queste vacanze, seminiamo passi, costruiamo ponti, rispettiamo i luoghi che ci appartengono. Camminare non è un’attività di serie b, ma un dono prezioso. #inspiredbymountains

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S S O M M A R I O

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A PIEDI

Great Himalaya Trail 24 giorni che ti cambiano la vita Ryan Sandes e Ryno Griesel hanno percorso una variante dell’itinerario che attraversa il Nepal da Ovest a Est a tempo di record. Ma la lotta contro il tempo è diventata l’ultima preoccupazione dei due sudafricani di Claudio Primavesi

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Enrico Brizzi Partire adesso

Uno scrittore appassionato di sport e fatica col passo della corsa intervista uno scrittore che ha ritrovato l’ispirazione attraversando Italia, Europa e Medio Oriente a piedi. Per raccontarlo in migliaia di pagine. E farci venire la voglia di mettere le scarpe e uscire di Simone Sarasso

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Ritornare Camminare per disegnare linee che non corrono da una città all’altra, ma attraversano lentamente catene montuose e piccoli villaggi alla ricerca di volti e memorie di viaggi passati di Giacomo Frison

Vi aspettiamo in edicola a inizio ottobre!

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indice A PIEDI

Trekking al fronte

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Un sentiero attrezzato e una piacevole passeggiata tra fortificazioni e trincee della Guerra Bianca al Tonale e all’Adamello, a cento anni dalla fine del conflitto di Tatiana Bertera

IN COPERTINA spot: deserto del Marocco foto: ©iancorless.com Per il numero di agosto una copertina infuocata che invita alla riflessione. Ritmi lenti sotto il caldo estivo. La foto è stata scattata nel deserto, durante la Marathon des Sables, ma potrebbe essere ambientata in un qualsiasi controluce mediterraneo. Con un po’ d’immaginazione potresti vederci la tua collina preferita. L'altra copertina è di Mattias Fredriksson.

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L’ALTRA COPERTINA

A PIEDI

Dolomites wildest path Un nuovo trekking nell’angolo meno conosciuto delle montagne patrimonio dell’Unesco, dove la natura è ancora padrona e l’uomo un semplice ospite come gli altri animali, lontano da impianti e rifugi cinque stelle di Teddy Soppelsa

98 SFIDE

Ortles + Tre Cime + Grossglockner = North3 Scalare la Nord di tre montagne simboliche raggiungendole in bici e in meno di 48 ore. Ecco l’ultima sfida di Simon Gietl e Vittorio Messini. Vinta. O quasi

Rubriche Edito

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Contributors

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Backstage

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Login

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Controcopertina

di Giovanni Spitale

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Altri servizi 10 zampe. Un uomo e due cani

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19 anteprime 2019

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Mai più senza acqua

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Terminillo, storia di un'evasione possibile

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Grand hotel sotto le stelle

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Kaptiva di nome e di fatto

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Alla ricerca di incognite in Perù

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Ferrino, we test on humans

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Kienzl 200 e lode

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Direttore responsabile CLAUDIO PRIMAVESI claudio.primavesi@mulatero.it Il nostro team ANDREA BORMIDA, EMILIO PREVITALI, FEDERICO RAVASSARD, GUIDO VALOTA Skialper.it LUCA GIACCONE luca.giaccone@mulatero.it Amministrazione SIMONA RIGHETTI simona.righetti@mulatero.it Magazzino e logistica FEDERICO FOGLIA PARRUCIN magazzino@mulatero.it Segretaria di redazione ELENA VOLPE elena.volpe@mulatero.it Progetto grafico e impaginazione NEXT LEVEL STUDIO info@nextlevelstudio.it Cartografia Marco Romelli Webmaster skialper.it Silvano Camerlo Collaboratori Luca Albrisi, Leonardo Bizzaro, Caio, Danilo Noro, Luca Parisse, Andrea Salini, Flavio Saltarelli, Davide Terraneo Hanno collaborato a questo numero Tatiana Bertera, Roberto Bombarda, Enrico Fiordiponti, Giacomo Frison, Alessandro Monaci, Matteo Moncalero, Simone Sarasso, Teddy Soppelsa, Giovanni Spitale Hanno fotografato Roberto De Pellegrin, Giacomo Frison, Dean Leslie, Matteo Mocellin, Alex Molig, Daniele Molineris, Alberto Orlandi, Luca Parisse, Matteo Pavana, Federico Ravassard, Alice Russolo, Andrea Salini

dedicato a Matteo Tagliabue, per sempre uno di noi

Distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 Stampa STARPRINT Srl - Bergamo Numero Registro Stampa 51 del 28/06/2018 (già autorizzazione del Tribunale di Torino n. 4855 del 05/12/1995). La Mulatero Editore srl è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

Pensa a quante camminate nel bosco in più potresti fare senza tutti gli alberi abbattuti per produrre nuova carta!

© copyright Mulatero Editore - tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge

Direttore editoriale DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it MULATERO EDITORE | Via Giovanni Flecchia, 58 - 10010 - Piverone (TO) tel 0125.72615 - mulatero@mulatero.it - www.mulatero.it



c C O N T R I B U T O R S

QUELLI BRAVI, PRIMA O POI, PASSANO TUTTI DA SKIALPER E se non ci sei ancora passato, fatti una domanda (o scrivici una mail…)

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1. GIACOMO FRISON Veneziano, classe 1987, ama la montagna grazie agli insegnamenti del padre, ma è attratto anche dai paesaggi lagunari, viste le origini. Fotografo, ha legato il suo lavoro di ricerca al rapporto tra uomo e natura, unendo le passioni nel progetto Altripiani, che fonde fotografia, alpinismo, ricerca culturale e antropologica delle zone montane più remote. What else? È convinto che un'ottima storia abbia bisogno di buone foto, ma anche di un buon racconto scritto e, perché no, di una birra fresca da condividere! 2. DEAN LESLIE Sudafricano, 34 anni, videomaker, è la mente dietro a molti dei film della Salomon TV. La maggior parte dei movie sono stati prodotti da African Attachment, ma ora ha fondato una nuova casa di produzione, Wandering Fever, con la moglie Hannah Slezacek. E naturalmente, come molti dei più grandi registi, è anche fotografo e porta nei suoi scatti quell’atmosfera un po’ cinemascope. Il suo motto? A love for the wild!

3. ROBERTO DE PELLEGRIN Fotografo e videomaker di Belluno, la sua vena artistica è stata profondamente influenzata dal luogo in cui vive, le Dolomiti. E infatti per Skialper ha sempre pubblicato servizi dai Monti Pallidi o, al massimo, dalle Prealpi Venete. Non c’è niente da fare, in quell’ambiente si trova a suo agio e ama fotografare sport di montagna, sicuramente aiutato dal fatto di praticarli. Non pensiate però che il suo obiettivo inquadri solo le crode, ma per questa volta dovrete accontentarvi dei paesaggi dolomitici dell’Alta Via delle Dolomiti Bellunesi! 4. ALESSANDRO MONACI Alpinista, volontario del Soccorso Alpino e storico: queste, in preciso ordine gerarchico, le attività di Alessandro. A esse si aggiunge quella che lui definisce una professione di pennivendolo di ventura, che lo vede mettere la sua penna al servizio di riviste, case editrici, uffici stampa e chiunque sia disposto a pagare per delle parole scritte.

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5. ENRICO FIORDIPONTI Ventidue anni e già vice presidente dell’associazione di volontariato giovanile Gruppo Perché No?, fondatore di Lost in Italy, un sodalizio-pagina Facebook di giovanissimi che partono a piedi alla scoperta dell’Appennino dimenticato, per riscoprirlo e sensibilizzare le nostre anime pigre. Da pochi giorni ha riaperto con altri ragazzi il rifugio escursionistico di Tosina (Borselli), a breve la laurea in Scienze della Montagna di Rieti e poi? 6. SIMONE SARASSO Scrive di banditi e imperatori, campioni e antichi dei. Spesso sente il bisogno di narrare le gesta di chi è pronto a tutto per inseguire un sogno. È autore di romanzi pluripremiati (tra gli altri: Invictus, Rizzoli 2012, Premio Salgari 2014, e Il Paese che amo, Marsilio 2013, menzione speciale della Giuria al Premio Scerbanenco 2013) e della biografia di Loris Capirossi (65 La mia vita senza paura, Sperling & Kupfer 2017). È innamorato della fatica.


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SCOTT-SPORTS.COM © SCOTT SPORTS SA 2018 | Photo: Yann Audouin


B B A C K S T A G E

Storie dietro aLLE STORIE che leggerete su Skialper di AGOSTO 1

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1. Basta neve!

2. Appesi a un filo

3. La vacca che ride

4. La canadese!

Il servizio sul Sentiero dei Fiori e il Giro dei Forti, nel comprensorio Pontedilegno-Tonale, lo abbiamo pubblicato… per il rotto della cuffia. È stato realizzato infatti la settimana prima di andare in stampa. Perché? Perché sul Sentiero dei Fiori c’era troppa neve. Poi è arrivata una provvidenziale scaldata a metà luglio e corde e scale metalliche sono emerse, come si vede dalle foto. Fiuuu!

La funivia di Merano 2000 è molto grande e moderna, con cabine da 120 persone. Quando l’abbiamo presa noi per salire più velocemente in quota e realizzare il servizio fotografico con Peter Kienzl (nella foto con Emy Leitner di Dynafit), Peter se ne viene fuori con un Bella, non l’avevo mai presa, io salgo a piedi. E a piedi abbiamo rischiato di rimanere tutti, visto che al rientro un temporale ha bloccato la funivia per un po’…

A volte uno pensa che andare lontano, in posti remoti e dove si vive ancora secondo i ritmi della natura, equivalga ad abbandonare tutto quello che ci accompagna nella nostra routine quotidiana. Che la febbre consumistica non sia arrivata. E poi… in uno sperduto villaggio dell’Atlante marocchino ti trovi sul tavolo una scatola di formaggini di una nota (in Francia) marca. Come si chiama? Traduci il titolo in francese!

Quanti ricordi per chi inizia già ad avere i capelli grigi! La tenda canadese è stata sinonimo di vacanze in libertà per un’intera generazione di outdoor addicted ante litteram. Quando nel sancta santorum di Ferrino ci siamo imbattuti in questo rarissimo esemplare chiamato 2 Ruote, il primo con telo sintetico e leggero, pensato per vacanze itineranti in bici o moto, il cuore ha battuto forte.

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FAMOSI O MENO, HANNO FATTO COSE CHE NON PASSANO INOSSERVATE 1

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©Facebook/Colin Haley

©iancorless.com/AMA 3

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©Haakon Lundkvist

1. KILIAN & EMELIE Al secolo Jornet & Forsberg, la coppia dei record. Sì, perché Emelie, dopo avere stabilito altri tempi veloci sul Monte Bianco e sul Monte Rosa (in coppia con Kilian) nel giro di poche settimane, si è sciroppata anche i 450 km del sentiero Kungsleden, nella Lapponia svedese, in 4 giorni e 21 ore, stabilendo il nuovo fastest known time l'8 luglio. Ritorno alle origini, visto che il suo amore per la montagna è nato facendo la rifugista lungo il percorso. Kilian, dopo il rientro vittorioso nella Marathon du Mont Blanc, si è sparato il Bob Graham Round, nel Lake District inglese: 12h52’ per battere il record di Billy Bland che durava da 36 anni.

©Roberta Orsenigo

2.COLIN HALEY Dopo dieci anni di sogni e tre tentativi falliti, Colin Haley, a inizio giugno, ha scalato la famosa Cresta Cassin sul Denali, in Alaska, in sole 8 ore e 7 minuti. Senza corda o imbrago, per essere più leggero e veloce. Una volta compiuta l’impresa ha raccontato che, dal momento che la salita è stata tecnicamente abbastanza semplice, la vera sfida ha riguardato la performance atletica. L’allenamento? Alcune settimane di alpinismo e scialpinismo a Chamonix. Non chiedetegli però consigli sulla dieta perché qualche ora prima del tentativo, al campo base, il buon Colin si è fatto un selfie mentre addentava una pizza d’asporto!

3. LARS ERIK SKJERVHEIM Quanti metri di dislivello si possono fare, su pista e con gli sci da alpinismo, in 24 ore? La risposta è: 20.939. A darne prova è stato il norvegese Lars Erik Skjervheim che, nel mese di maggio e nel comprensorio di Myrkdalen, ha stabilito questo nuovo record, facendo crollare quello dello statunitense Mike Foote di solo qualche mese prima (18.654 metri). Scialpinista di livello e skyrunner, si è classificato all’ottavo posto all’ultima Pierra Menta insieme a Filippo Beccari. Nonostante questo dopo la performance, stanco ma estremamente soddisfatto, pare aver dichiarato ridendo: «Non lo farò mai più!». Beh, come dargli torto?

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4. MARCO DEGASPERI «Dega c’è!». Un’ovazione si è alzata dai vari canali social quando, nella mattinata del 28 giugno, è stato annunciato l’abbattimento di un nuovo record. L’impresa di Marco De Gasperi è di quelle da libro d’oro. In 4 ore, 20 minuti e qualche secondo il pluricampione del mondo ha fatto andata e ritorno da Alagna a Capanna Regina Margherita, sul Monte Rosa, limando di quattro minuti il crono di Fabio Meraldi del 1994 (4h24’27”). «Mai più, troppa fatica», pare aver detto Dega al telefono a un amico una volta sceso. Ma noi sappiamo già che Marco è inarrestabile e che domani, probabilmente, starà pensando alla prossima avventura.


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Sudare o gelare, non ci sono alternative a questo dilemma? Per le attività stop-and-go in montagna con temperature sotto lo zero è indispensabile il giusto equilibrio tra calore e traspirazione. Per la giacca antivento e resistente all’acqua Sesvenna Alpha Jacket da ski mountaineering e speed hiking, utilizziamo una imbottitura in Polartec® Alpha® con termoregolazione attiva. Questo materiale trattiene il calore del corpo ma consente all’umidità prodotta sotto sforzo di passare liberamente verso l’esterno, con una più efficace circolazione dell’aria che riduce i tempi di asciugatura. Questa potrebbe essere la soluzione che cercavate. SALEWA.COM


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in edicola

Alvento italian cycling magazine

Dentro a quelle 26 lettere ci sei tu, ci sono i segni che compongono il tuo nome. Quelle che compongono i nomi di luoghi che ami, nomi di cose, i nomi dei tuoi amici, tutto. Tutto quello che hai intorno. Ed eccoci qui ad usarli anche noi adesso, quei segni. Per parlare di biciclette e di ciclismo. Di pedalate. Di sfide e di avventure. Di noi. Forse anche di te.

Dal 14 luglio è in edicola la nuova rivista di Mulatero Editore

Abbiamo inventato una rivista che parla di ciclismo fatta di segni, parole, frasi, paragrafi, capitoli. Storie. Interviste. Rubriche. Racconti. Racconti di cosa? Viaggi in bicicletta, catene che cadono, mete già raggiunte o da raggiungere. Sogni da realizzare. Ci sono anche tante belle foto. Infografiche. Numeri. Tutto quello che si può scrivere o disegnare e quindi leggere. Si può vivere senza tutte quelle parole e senza leggere? Si può vivere senza leggere o scrivere di bici e di ciclismo, senza riviste che ne parlano? Certo che si può. Però, non farlo, non leggere, è un peccato. Leggere significa vivere un’altra volta.

di Emilio Previtali Qwertyuiopasdfghjklzxcvbnm,:)(. Segni. Lettere. Fotografie. Sulla nostra nuova rivista di ciclismo Alvento li abbiamo disposti in modo da provare a farti emozionare, ridere, piangere, amare, discutere, meravigliare, conoscere, riflettere. È sbalorditivo cosa possono fare quei 26 piccoli segni combinati tra loro. Nelle mani di Gianni Mura i segni dell’alfabeto si sono composti nell’epica del ciclismo. I tipografi della Gazzetta dello Sport o de l’Equipe ci hanno composto e stampato decine di migliaia di pagine di giornale, raccontando dei grandi giri e delle gare monumento. Ciascuno di noi può combinare tra loro le lettere dell’alfabeto per scrivere dei post-it allegri da appiccicare sulla porta del frigorifero oppure un post su Facebook. Le parole stanno ovunque. Quei 26 segni li usiamo tutti i giorni per lavorare, per divertirci e per farci capire, per scrivere. A mano, con il computer o con il telefonino. Usiamo quei segni per spiegarci e per farci capire. Per ringraziare. Per chiedere. Per dire ad altri quello che vorremmo facessero. La maggior parte del tempo comunque lo spendiamo a leggerli, quei segni. Le lettere dell’alfabeto che si compongono in parole e frasi sono ciò che ci lega agli altri, la porta di accesso ad altri mondi, servono per capire e per farsi capire, per condividere ma anche per sapere e per imparare, per divertirsi, per entrare in relazione. Per essere. Per fare parte di qualcosa.

In quale altro modo se non leggendo puoi provare a essere Chris Froome che corre in mezzo alla folla sulle rampe del Colle delle Finestre? O Mike Hall che inventa, organizza e percorre la Transcontinental? Un meccanico al lavoro sulle biciclette dei pro della sua squadra o un direttore sportivo sulle strade del Giro? Come puoi sapere - se non leggendone invece che provarci di persona - come ci si sente in una cronometro amatoriale in un paese sperduto della bassa lodigiana dove il più veloce vince alla media di 50 km/h. Uno che di mestiere fa il benzinaio, tra l’altro? Premio gara: una fetta di anguria. Con le storie e con la lettura, con tutti quei ventisei piccoli segni combinati tra loro messi vicino a delle belle fotografie, noi proviamo a sognare. E a raccontare. Alvento è in edicola a partire da questa estate. Leggici. Portaci in bagno con te. E poi soprattutto, conservaci. Perché a noi, farci acquistare, non basta. 17


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iniziative

Dynafit Trail Heroes Ecco chi sono

dedicato che verrà realizzato a settembre e un pettorale per una delle classiche di stagione powered by Dynafit: la Limone Extreme. Conosciamoli meglio dunque i nuovi eroi. Giovanni Bosio, classe 1991, di Ciriè, in Piemonte, ha la salita nel DNA e infatti vanta anche un secondo posto nei 2.000 metri verticali del Trofeo Monte Chaberton. «Sono malato di salita, appena ne vedo una ogni fibra del mio essere è tesa per dare tutto di sé, vincere la sfida col percorso diventa più importante di conquistare la vetta» dice Giovanni, che ha anche un passato in pista. Andrè Baravex, valdostano, classe 1999, ha corsa e skialp nelle gambe, visto che vanta un podio alla Patrouille des Glaciers Junior. Ed è anche un po’ filosofo. Ecco cosa ha scritto nel post di presentazione: «Correre liberi significa anche fermarsi, fermarsi non perché si è stanchi ma perché si sceglie di farlo; anche solo per ammirare la bellezza di un insetto che scala lentamente un filo d’erba». Marc Slanzi è altoatesino e unisce il piacere di escursioni in versione fast & light o dello skialp a quello di qualche gara, per esempio il BVG Trail. Per presentarsi ha scomodato nientemeno che Walter Bonatti: «Chi più alto sale, più lontano vede; chi più lontano vede, più a lungo sogna». Trentina, Francesca Perrone, come Andrè, apprezza il lato filosofico del correre: «Emozioni indescrivibili, fatiche che ti distruggono… però continui a farle ogni giorno perché è più forte di te, è ciò che ti dà soddisfazione, che ti rende felice!». La grinta agonistica però non è da meno visto che nel 2018 ha partecipato a Laives Trail e Trail dell’Orsa e nel 2017 al Dolomiti di Brenta Trail ed è sempre stata nella top ten! Infine Anaïs Bstieler (non tragga in inganno il cognome, è italianissima, di Cantù). Vive in Engadina e ha abbandonato tutto (faceva l’assistente di uno chef stellato) per dedicarsi a due progetti: Fit Mamas, una start up per unire la gioia di essere mamma (come lei, della piccola Sofie) e fare fitness e… si sta allenando con Anne-Marie Flammersfeld, unica donna ad avere vinto tutte e quattro le 4Desert Race, con obiettivo finale il Grossglockner Ultra Trail. Se non sono eroi questi?

Hanno risposto a un post pubblicato sui nostri account social e sono diventati ambasciatori del marchio e atleti del team «Lo sapevi che Dynafit sta cercando dei comuni trail runner per farli diventare ambasciatori del marchio e parte attiva del team Dynafit Trail Heroes?». Tutto è iniziato così, con un post sui nostri account social. Bisognava descrivere la propria passione per il trail running e pubblicare un post su Facebook o Instagram con una foto in azione e l’hashtag #trailheroesITA. Siete stati in tanti a rispondere e il compito di selezionarne solo cinque decisamente arduo… And the winners are: Giovanni Bosio, Andrè Baravex, Marc Slanzi, Francesca Perrone e Anaïs Bstieler. Sono loro i nuovi Dynafit Trail Heroes. Che cosa significa essere Trail Hero? Semplice, restare se stessi. Al Trail Hero si chiede una pratica della corsa in montagna costante, appassionata, con una propensione verso le gare e un ruolo attivo nella community digitale dei trail runner attraverso le proprie pagine social. Quello che i cinque prescelti e i tanti che hanno partecipato all’iniziativa hanno sempre fatto. «Per Dynafit era importante coinvolgere anche runner non professionisti, per completare il pool di atleti sponsorizzati: il loro parere è un ulteriore e importante punto di vista sulla collezione da alpine running, dal quale possono derivare spunti per innovazioni future» dice Emy Leitner, marketing manager di Dynafit. Giovanni, Andrè, Marc, Francesca e Anaïs riceveranno una divisa Dynafit della collezione Alpine Running, un servizio fotografico

NELLA FOTO \\ Uno scatto dei colleghi Trail Heroes austriaci, lo shooting degli italiani sarà realizzato in settembre

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libri

Un ragazzo, una Cinquecento e molte avventure A spasso tra le vette di Piemonte e Valle d’Aosta di LUCIANO BIANCO (Luna Edizioni, 240 pagine, 15 €)

Una ragazzo di Torino, anni compresi fra il ‘50 e il ‘70, una Cinquecento, tanti amici per condividere la passione per la montagna di ENRICO MARTA

Un modo semplice, commovente, di vivere le avventure del week end. Non solo ascensioni, ma anche escursioni di più giorni. Spesso a sfondo eno-grastronomico: non mancava mai al seguito una scorta di bottiglie di Barbera a coronamento del buon esito della gita. Il libro, squisitamente autobiografico, si snoda attraverso una cinquantina di racconti. Si tratta di escursioni, salite e avventure in montagna. Compagna fidata e fondamentale la Cinquecento, indispensabile per raggiungere la base di partenza. Anche Heini Holzer parla spesso della sua Cinquecento nel suo libro. Pantaloni al ginocchio di tweed o di velluto, calzettoni rossi o bianchi. Storie semplici nelle quali non trapelano sponsor da accontentare o siti da aggiornare. Il tutto si riduceva alle relazioni e ai racconti nella serata settimanale nella sede del CAI al Monte dei Cappuccini dove si programmavano le gite della settimana successiva. Belle avventure come quella al Quintino Sella da Crissolo, una delle poche con gli sci in cui si narra di uno spuntino a base di fichi secchi, uva passa, datteri, il tutto innaffiato da un buon Barolo d’annata… Ogni tanto partecipava anche il gentil sesso, come quella volta all’Alpetto nel Gran Paradiso dove, dopo la salita e la discesa, l’amica Giuse non si era resa conto di quante vipere avessero incontrato… Il racconto relativo ai Laghi di Pra Fiorito narra di partigiani durante il bivacco alla Gravietta dove, fra un ricordo e l’altro, fa la sua comparsa una bottiglia di Barbaresco. A margine dei racconti veri e propri c’è uno spazio dedicato agli approfondimenti: si parla della storia dei luoghi, delle escursioni nei dintorni e di ricette come quella per la preparazione del Genepy o della soupa barbetta di Pero, piatto tipico della tradizione valdese. E poi si racconta di quella volta della gita al Gran Piano di Noasca in cui una vipera, approfittando del momento conviviale del dopo escursione, è riuscita a intrufolarsi in uno zaino per ritrovarsi spaesata in un garage di Torino il giorno appresso. Infine un capitolo sui vecchi scarponi: i Bonatti Alta Quota, eccezionali sia sulla roccia che sui sentieri e sulla neve, proprio come quelli che usavo io da ragazzo. I big potevano invece permettersi i più famosi Galibier. Insomma, tutto da leggere in un fiato: di una semplicità disarmante, ma anche una grande emozione per chi, come me, ha vissuto questo tipo di alpinismo. 19

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Jim Walmsley e gli orsi

Una cordata di solidarietà per la nuova croce

E per fortuna che di vantaggio sul precedente record della gara ne aveva abbastanza. Stiamo parlando di Jim Walmsley, primo a fine giugno alla mitica Western States 100 negli Stati Uniti in 14 ore, 30 minuti e 4 secondi. L’ultra runner statunitense infatti ha rosicchiato un paio di minuti al suo vantaggio (inizialmente si era parlato di dieci minuti persi, ma l’interessato ha smentito il dato) a cinque miglia circa dal traguardo di Auburn, in California, perché si è trovato sul sentiero mamma orsa con un paio di cuccioli. Un incontro ravvicinato, fino a 3-4 metri di distanza, con Walmsley che ha iniziato a gettare delle pietre per fare spostare l’animale. Probabilmente non la scelta più corretta, però… mamma orsa lo ha lasciato passare per una vittoria davvero da record.

A volte è il gioco di squadra a fare la differenza. E quando in squadra hai anche l’alpinista Simone Moro con il suo elicottero, allora ti accorgi di poter raccontare una bella storia. Una di quelle a lieto fine, una volta tanto. Convincere Simone a partecipare al restauro della Croce dei minatori di Colere, ai piedi della Presolana, accanto al Rifugio Albani, è stato semplice. È bastata una telefonata. «Ciao Simone, la croce è danneggiata e va rimessa a posto prima che crolli. Servono soldi, che al momento non ci sono. Sai chi potrebbe aiutarci?». Questo accadeva in data 8 giugno. Oggi la croce svetta sopra Colere, completamente rimessa a nuovo grazie al lavoro degli Alpini di Colere, a Simone che si è offerto di effettuare gratuitamente cinque giri di elicottero per il trasporto di persone e materiali fino al luogo di intervento, al sostegno del CAI e dei moltissimi bergamaschi che hanno fatto una donazione attraverso il portale di crowdfunding Kendoo. Alla buona riuscita hanno contribuito anche l’Impresa Poloni di Alzano, la ditta Fratelli Abati e il Rifugio Albani. Sulla croce verrà presto posizionata una targa per ricordare l’intervento. Come dire, l’unione fa la forza.

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libri

di Leonardo Bizzaro

Storia del camminare

La mia prima estate sulla Sierra

Mi sono perso in Appennino

DI REBECCA SOLNIT

DI JOHN MUIR

DI GIAN LUCA GASCA

(Ponte alle Grazie, 451 pagine, 19,50 €)

(Keller Editore, 256 pagine, 16,50 €)

(Ediciclo editore, 186 pagine, 16 €)

Non leggetelo per intero, tenetelo lì e ogni tanto scopritene qualche pagina per ritrovare la motivazione di ripartire. Forse il più bel saggio di sempre dedicato al movimento, ritradotto a una quindicina d’anni dalla sua prima, fortunata, apparizione. Non solo l’escursionismo, ma il camminare come meditazione, il passeggiare assieme degli innamorati, le performance della land art, la flânerie dei filosofi. Con una mole impressionante di citazioni e suggerimenti bibliografici. Indispensabile.

Se c’è uno scrittore che ha fatto del camminare il fulcro della sua azione e del suo pensiero, quello è John Muir. Pressoché sconosciuto in Italia, ma autore di culto per il mondo ambientalista, torna finalmente uno dei suoi libri più importanti, il diario del primo viaggio in quello che oggi è lo Yosemite National Park, ma nel 1869 era un territorio vergine frequentato solo da indiani, orsi e qualche raro esploratore. Uscito nei Licheni nel 1995, viene riproposto nella mirabile traduzione di Paola Mazzarelli a partire da settembre.

Giovane e infaticabile camminatore, Gasca già aveva messo sotto i piedi le Alpi, alternando le scarpe al trasporto pubblico. Qui invece racconta un suo lungo itinerario attraverso gli Appennini, dal colle di Cadibona a Cefalù. Un viaggio tra i luoghi e soprattutto le persone (tra gli altri, Francesco Guccini nel suo eremo di Pavana). Perché andare a piedi ha un vantaggio, rispetto a qualsiasi altro mezzo: non servono guide, la storia e il percorso te li raccontano quelli che incontri per strada.

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eventi

Milano Montagna: sogni, tracce, costellazioni Tra le novità dell'edizione 2018 il Fuori Festival che dal 22 ottobre porterà i monti in tutta la città

Raccontare e lasciare tracce di montagna in città è il sogno del team di Milano Montagna 2018, evento che da quattro anni chiama a raccolta la grande comunità degli amanti di montagna e outdoor con un programma unico, e che vede alternarsi anteprime dei migliori film internazionali di alpinismo, sci ed esplorazione, incontri con atleti, scrittori, scienziati, attività esperienziali tra action sport, mostre, food & drink, laboratori e dj set. Per la prima volta questo sogno si espande a tutta la città attraverso eventi-satellite di musei, negozi, biblioteche, associazioni, ristoranti, librerie, palestre di arrampicata e spazi condivisi che offriranno agli appassionati una costellazione di racconti, immagini ed esperienze a tema montagna e outdoor. Tra questi una serata dedicata all'orientamento con le stelle al Civico Planetario Ulrico Hoepli di Milano: un momento in cui l'emozione della volta stellata si trasformerà nella capacità di riconoscere le costellazioni sopra di noi. Il programma Fuori Festival inizierà lunedì 22 ottobre e proseguirà per tutta la settimana diffuso nella città, mentre il Festival si svolgerà da giovedì 25 a domenica 28 ottobre presso BASE Milano. Questa quinta edizione racconta le Tracce che lasciamo dopo il nostro passaggio, quelle lasciate nell’immaginario personale e collettivo dai grandi alpinisti, scalatori, sciatori, scrittori e registi, fino a quelle che la montagna lascia dentro di noi. Ne parleranno grandi ospiti come Matteo Della Bordella, Arianna Tricomi, Markus Eder, Yann Rausis, Edmond Joyeusaz, Ettore Personnettaz, Shanty Cipolli, Luca Albrisi e molti altri. Queste le anticipazioni sul programma del Milano Montagna Festival 2018, che si arricchirà di una serata sul ripido grazie a Skialper, media partner della manifestazione. Segui le tracce! 22


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aziende

SCOTT 60 anni passati ad innovare Una volta c'erano i bastoni, i primi in alluminio. Poi si sono aggiunti via via i prodotti per tutti gli altri sport

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Year by year LA STORIA DI UN MARCHIO IN 10 PUNTI

1958 Ed Scott, ingegnere e sciatore di Sun Valley, in Idaho, inventa il primo bastone da sci conico in alluminio.

1970 L’azienda entra nel mercato del motocross, creando la prima maschera specifica per questa disciplina e più avanti introducendo stivali, manopole e accessori da motocross.

1989 Nasce una delle innovazioni di prodotto più significative nella storia del ciclismo: il manubrio aerodinamico, utilizzato dall’americano Greg Lemond durante la sua vittoria al Tour de France nello stesso anno.

1995 Rendere più piacevole la pratica sportiva, senza compromessi. È questo il segreto del successo di Scott che festeggia nel 2018 i 60 anni di storia raggiungendo i 500 milioni di franchi svizzeri di giro d’affari, che diventano 650 se si considera il gruppo, che comprende anche marchi come Dolomite, Outdoor Research, Bergamont Bicycles, Powder Horn e Poivre Blan. Così, da quel lontano 1958, quando Ed Scott, ingegnere americano e appassionato sciatore, inventò il bastone di alluminio al posto di quello di bambù o acciaio, sciare, pedalare e correre sono diventati sport più piacevoli. Sì, perché oggi Scott è un brand head to toe e in più segmenti. «Prima è arrivato il bastone da sci che ha finanziato la creazione del reparto motociclistico, con la produzione di maschere, manopole e protezioni, poi le moto hanno finanziato il segmento bici che a sua volta ha permesso la nascita, dodici anni fa, del running» dice Lionel Girardin, marketing division manager di Scott Sports SA. Tutti sport nei quali Scott ha innovato non poco. «Difficile dire quale sia stata l’innovazione più importante, però sicuramente il manubrio aerodinamico da bici usato da Greg Lemond nel 1989 al Tour de France è stato una pietra miliare, piuttosto direi che il nostro know-how in un segmento è stato spesso utilizzato per rivoluzionare altri settori, come per esempio lo sci con l’introduzione del primo modello in carbonio, il Crusair, frutto della grande

esperienza con i telai compositi delle bici». Una strategia che è cambiata negli ultimi anni: non più crescere creando nuovi segmenti, ma piuttosto acquisire marchi per presidiarli. Intanto la bici resta la fetta più grande del business Scott, con una percentuale del giro d’affari ci circa l’83 per cento, seguita dall’inverno (10%), dalla moto (5%) e dal running (2%). «Quello del trail è un segmento in crescita ma anche molto competitivo, come tutto il mondo running in generale, ma Scott si posiziona nella nicchia dei prodotti molto specifici» aggiunge Girardin. E l’Italia è il Paese più forte proprio sul mondo della corsa. Scott è attualmente controllata dalla coreana Youngone Corporation e dal CEO Beat Zaugg. «La nascita di Scott in Italia prende il via negli anni ‘80 grazie all’intuizione di Franco Acerbis, imprenditore dal grande fiuto, che con lungimiranza portò il marchio da noi, poi dal 2011 siamo diventati filiale e abbiamo avuto la fortuna di poter usufruire di una struttura e di un sistema internazionale pur mantenendo lo stesso staff e la stessa attitudine nei confronti del business e del mercato» dice Donatella Suardi, general manager Scott Italia, che ci tiene a sottolineare come uno dei punti di forza della crescita nel nostro Paese sia stato l’avere nella propria squadra persone tecniche con un background sportivo di livello. Effettivamente Ivano Camozzi, Mario Poletti e Mario Noris … 25

Arriva Endorphin, la prima mountain bike in carbonio di Scott, un modello leggendario grazie alle tante vittorie nelle gare più importanti.

1997 Viene introdotta una linea di abbigliamento tecnico wintersport e un anno più tardi arriverà il primo sci.

2004 Il casco Biomex è un gran passo avanti per la sicurezza della testa negli sport invernali grazie a un Dual Band Roll Cage (di forma rettangolare) che riduce il movimento oscillatorio e lo rende più comodo da indossare.

2006 Viene firmato un contratto con un laboratorio di ricerca e sviluppo a Portland, in Oregon, per creare una linea completa di scarpe da corsa.

2007 Il nuovo Addict è il telaio di bici da strada più leggero disponibile, con solo 790 gr con reggisella integrato (165 gr).

2009 I nuovi Crusair diventano velocemente il punto di riferimento per il mercato dello scialpinismo freeride. La combinazione del telaio in carbonio con una costruzione sandwich in legno con canali d’aria offre la massima leggerezza, stabilità e reattività.

2013 Arriva la maschera Lens Change Goggle (LCG), che permette agli utilizzatori di cambiare la lente rapidamente senza doverne toccare la superficie.


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materiali

Scott Supertrac RC Ultra Tanto attesa per completare una collezione dove mancava giusto la scarpa per le distanze più lunghe, è stata presentata alla fiera Outdoor di Friedrichshafen ed è già disponibile in qualche selezionato negozio dalla fine di luglio, costa 165 euro. Stiamo parlando del nuovo gioiellino Scott, vagamente simile nell’aspetto alle sorelle Supertrac Rc e Kinabalu Rc. Ma solo simile…

1. Tessuto Schoeller Dynamic molto resistente alle abrasioni e 4way stretch 2. Drop 8 mm 3. Micro strato di KPU perimetrale, per garantire la massima protezione 4. Punta rinforzata a prova di urti accidentali, soprattutto quando si è stanchi dopo tante ore di corsa 5. Suola All Terrain Traction con geometria ellittica, pensata anche per bagnato e fango 6. Tacchetti da 7 mm pensati per la trazione nella parte anteriore e per frenare in discesa in quella posteriore 7. Tecnologia eRide per agevolare la rullata del piede 8. Intersuola Aerofoam Infinity 9. Linguetta avvolgente seamless 10. Peso 340 gr

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©Andrea Salini/Outdoorstudio

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dolomite.it 27


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social

INSTAGRAM PARADE Una selezione delle foto in cui è stato taggato il nostro account @skialper

Andrea Bonetti @gigiat83

Paolo Furlan @frlnpl

Simone Enei @simoneenei

Mattia Conedera @il__mett

#dorsaleorobicalecchese

Tre giorni di immenso divertimento

Qualsiasi cosa a una certa altitudine

Fish on!

sulle montagne!

assume un sapore diverso...

Roberto De Pellegrin @robertodep

Scuola Skialp F. Cavarero @scuolacavarero

Jacopo Chianale @jajo_adventures

La Sentinelle @lasentinelle.ski

Disegnando linee su una soffice tela.

In primavera lo scialpinismo è anche

Modi diversi per vivere la falesia.

La ricchezza di questa

questo - Val Varaita

manifestazione, siete voi...

Edoardo Camardella @edocamardella

Elena Quaglia @ele.coturnix

Filippo Menardi @filippomenardi

Mountain Lover Family @mountainloveliness

Prima discesa della mattina️.

Inseguendo la luce del mattino e il

@lucapompanin in Dolomites!

Con tuo nonno che cammina verso il

firn perfetto.

bivacco costruito dal tuo bisnonno!

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©iancorless.com/AMA

A piedi Camminare veloce, a tratti correre, con il cuore a mille. Mettere i piedi uno davanti all’altro e salire. Che si tratti di una gara, di un record, di un FKT o di un’escursione, la fatica è la protagonista. E la soddisfazione dell’arrivo alla meta la stessa. Uno o più puntini si muovono in un panorama immenso. Come è successo per qualche giorno sul Monte Rosa. Il 23 giugno la Monterosa Skymarathon, 25 anni dopo, ha riportato il gotha dello skyrunning alla Capanna Margherita. Il 28 giugno Marco De Gasperi ha battuto il record di Fabio Meraldi di salita e discesa sullo stesso percorso, che resisteva dal 1994. Nella gara vittoria di Franco Collé in coppia con William Boffelli che sono saliti e scesi dai 4.554 metri della Capanna in 4h39’59’’, mentre la coppia mista Kilian Jornet-Emelie Forsberg ha chiuso al terzo posto con 5h03’56’’. 4h20’33’’ il tempo del Dega. Dettagli di una passione antica. «I nostri avi andavano da una valle all’altra veloci, per necessità, la versione classica dello skyrunning di oggi è un po’ da atletatrekker d’alta quota, mentre quella originale è proprio una visione dell’alpinismo fast & light, non a caso persino il CONI, in un momento di pausa, lo aveva inserito nella sezione Alpinismo» dice Marino Giacometti, padre dello skyrunning. Storie di muscoli e cuori che pompano, di gare contro se stessi o di record. «Quello di Meraldi lo potevano battere solo due persone in questi anni. Anche il fatto che oggi è migliorato solo di 3’50’’ (due minuti in più in discesa) la dice lunga sul valore delle prestazioni negli anni ‘90». Emelie Forsberg è stata invece la donna più veloce a salire e scendere dal Rosa. In gara c’era anche Gisella Bendotti, detentrice del record in 5h34’ (quello di Emelie non può essere omologato in quanto in coppia con Kilian, anche se non si è fatta mai tirare). Gisella il 23 giugno era in gara, con la nipote Sabrina. Sono arrivate quinte. Dettagli. Di una passione che si tramanda di generazione in generazione.

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©Vito Maria Grattacaso/LUZ

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a piedi

ENRICO BRIZZI PA R T I R E A DE S S O Uno scrittore appassionato di sport e fatica col passo della corsa intervista uno scrittore che ha ritrovato l’ispirazione attraversando Italia, Europa e Medio Oriente a piedi. Per raccontarlo in migliaia di pagine. E farci venire la voglia di mettere le scarpe e uscire intervista di SIMONE SARASSO

cusa Sarax, imprevisto con le ragazze, 15 minuti e ci sono. Il messaggio aleggia azzurrino sullo schermo del mio smartphone da quattro soldi. Avevamo appuntamento mezz’ora fa, ma il telefono suona a vuoto. Sorrido sornione e digito: Don’t worry, man. Io, nel frattempo, butto sotto la doccia il mio bimbo. A frappé!

ziale. Tu che sei di me la miglior parte chiude il cerchio aperto da Jack Frusciante quasi un quarto di secolo fa (nel libro compaiono sia Alex che Martino, protagonista e antieroe del fortunato proemio brizziano) in un poderoso crescendo di chitarre distorte e colpi sotto la cintura.

S

In mezzo a questo florilegio di pagine da antologia, c’è un punto di svolta. Una fase sorprendente della produzione letteraria dell’artista che entusiasma e continua a spiazzare: dal 2004 Enrico Brizzi scrive di viaggi a piedi. Insieme ai suoi buoni cugini, i pellegrini con cui ha fondato il gruppo degli Psicoatleti (perché è il polpaccio che spinge, ma è la testa che ti porta a fine tappa, c’è poco da fare…), ha compiuto alcuni straordinari cammini: dal Tirreno all’Adriatico, da Canterbury a Roma lungo il percorso della Via Francigena e poi da Roma fino a Gerusalemme. E ancora: ha percorso l’Italia da Nord a Sud durante i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario del tricolore, ha camminato da Torino a Finisterre, calpestato ogni singolo miglio del Vallo di Adriano e, di recente, calcato palmo a palmo i terreni carichi di storia delle Residenze Reali Sabaude col patrocinio dell’omonimo consorzio. Da ognuno di questi viaggi è nato (o sta per nascere) un libro, un racconto, una entusiasmante giustapposizione di parole, pagine, passi, immagini, musica ed emozioni.

È così che va per noi papà separati: quando sei coi piccoli, loro vengono prima di tutto. Non c’è santo che tenga. E se io ho vita abbastanza facile col mio Alberto che, durante l’intervista telefonica (presto trasformatasi in un fiume in piena), ascolta divertito, legge Topolino e gioca col Lego, Enrico, lo scrittore che c’è dall’altro capo del telefono, ha un ménage un po’ più movimentato nella sua casa di Rimini: insieme a lui, in questa ventosa giornata di fine giugno, ci sono le sue quattro figlie e la nipotina. Enrico Brizzi, da che lo conosco e mi nutro delle sue pagine (e son quasi cinque lustri) è una meravigliosa scoperta. Come narratore, certo. Ma, soprattutto, come strepitoso essere umano. Autore da un milione di copie a poco meno di vent’anni - il suo Jack Frusciante è uscito dal gruppo è stato il romanzo culto di almeno tre generazioni (una era la mia) - tradotto in più di venti lingue, oggetto di studio di cattedratici e laureandi, Enrico fa parte della storia della letteratura italiana. Brizzi non si è crogiolato sul successo degli esordi, ha saputo costantemente reinventarsi surfando tra i generi: dal noir precocissimo di Bastogne alla trilogia ucronica di Lorenzo Pellegrini, ambientata in un dopoguerra immaginario in cui l’Italia fascista ha rotto l’alleanza con Hitler ed è uscita vittoriosa (con tanto di impero coloniale intatto) dalla Seconda Guerra Mondiale; dai geniali saggi sportivi che raccontano le sue passioni, calcio e ciclismo su tutte (il recente Nulla al mondo di più bello, sulle stagioni calcistiche a cavallo dell’armistizio, è appena uscito per i tipi di Laterza; col glorioso Di furore e lealtà, biografia del campione Vincenzo Nibali, ha vinto il Premio bancarella Sport 2015) all’ultimo strepitoso romanzo sulla Bologna dei primi Novanta divisa tra curva, droghe, ribellione, punk e l’immancabile struggente amore adolescen-

E pensare che tutto è fiorito quando l’autore era stanco di scrivere. Enrico me lo racconta appeso alla cornetta mentre il vento di Rimini sferza il ricevitore. Io e Alberto ascoltiamo rapiti. L’anno di svolta, s’è detto, è il 2004, ma in realtà il richiamo della strada e dei sentieri viene da molto più lontano. Il primo grande viaggio risale a quando Enrico aveva vent’anni: da Bologna a Cervia, cinque giorni in autonomia tra le colline: nel cuore quella voglia matta di libertà germinata da bambino, ai piedi d’una montagna povera e generosa. E maturata con pazienza nei campi scout. Il nostro eroe parte con un amico, Giovanni, destinato anch’egli a guadagnarsi il pane battendo sui tasti (Giovanni Cattabriga, a.k.a. Wu Ming 2, membro fondatore del collettivo di scrittori Wu Ming). È un viaggio fatto di stupore e ingenuità: «Ci portammo dietro un’ascia. Si sa mai, magari si fan brutti incontri, pensavamo…». Gli scappa da ghignare.

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a piedi

«HO IMPARATO A MASTICARE DISLIVELLO PERCHÉ MAMMA CI DICEVA: SE VOLETE LA MERENDA, BAMBINI, BISOGNA ARRIVARE AL RIFUGIO! E NOI DIETRO, SENZA PAURA. S’IMPARA COSÌ AD ANDARE»

«Oh, hai in mente quanto pesa un’ascia? Mai più nella vita! Però finché non prendi due misure non impari nulla. È là che abbiam cominciato a capire cosa significa andare a piedi». La conferma della meraviglia arriva al ritorno, in autobus, verso casa: le colline che sembravano infinite scorrono veloci via dal finestrino. I due giovani viandanti riconoscono i bivacchi dove hanno passato le notti avvolti in una coperta di stelle e intuiscono che il mondo, per essere conosciuto davvero, va misurato un passo alla volta.

Dopo la Bologna-Cervia ci sono stati altri viaggi, sia con Giovanni che con altri ex compagni scout del Bologna 16. Ma è tempo di alzare l’asticella. E allora perché non realizzare quel sogno tante volte immaginato in classe, durante i giorni più noiosi, fissando la cartina d’Italia? Attraversare lo Stivale nel senso stretto, proprio come gli eroici ciclisti della Tirreno-Adriatica tante volte acclamati per le strade dell’infanzia. Ma a piedi. Il viaggio dura quasi tre settimane e ad accompagnare Enrico ci sono suo fratello e altri amici, che fanno piccoli pezzi di strada con lui, alternandosi lungo il cammino. L’unica tappa prefissata è l’approdo a Perugia da un sodale bolognese trasferitosi colà. Ed Enrico ci sbarca quando è tempo, senza avvisare, seguendo la poesia dei passi. L’amico riparte con lui dopo una cena luculliana e insieme raggiungono l’Adriatico. Quel viaggio è seminale. Per la scrittura, per il ritrovamento della pace interiore e della nuova direzione da prendere. Quel viaggio non sarà l’ultimo. Soltanto il primo di moltissimi.

La famiglia di Brizzi ha radici profonde, che fan sognare e profumano d’avventure salgariane. «La mia gente ha campato di farina di castagne praticamente per mille anni. I miei zii, bisnonni e trisavoli, fin dal primo momento che è stato possibile imbarcarsi su una nave e solcare l’Oceano, per scansar la fame han preso il mare. Partivano: si faceva la naja e poi via, da Genova verso il Nuovo Mondo, a cercar fortuna. Le loro mani forti e ingombre di calli hanno costruito le ferrovie del Missouri. Son tornati cinquantenni con le tasche piene e hanno sposato ragazze giovanissime, nate molti anni dopo la loro partenza». Enrico a camminare è avvezzo fin dalla culla. «La montagna dove son cresciuto, dove mamma ci portava a fare le prime escursioni, è la stessa che Francesco Guccini ha scelto come casa. Ho imparato a masticare dislivello perché mamma ci diceva: se volete la merenda, bambini, bisogna arrivare al rifugio! E noi dietro, senza paura. S’impara così ad andare». E sta tirando su le sue ragazze con lo stesso spirito con cui è diventato uomo: «La prima notte in tenda, in quota, le più grandi l’han fatta che avevano neanche sei anni e ancora ne parlano come di una delle più belle esperienze della loro vita. Le ho portate sul Corno alle Scale, la montagna classica di noi bolognesi». A far sul serio coi viaggi a piedi, però, Brizzi inizia in quel mitico 2004, con la Tirreno-Adriatico. Quella traversata ormai mitica, da cui scaturisce il romanzo Nessuno lo saprà, coincide con un turning point della vita dello scrittore. È l’autentico momento di svolta. A dieci anni esatti dall’inizio della sua avventura editoriale, per la prima volta, Enrico si ritrova a provare una sensazione mai sperimentata prima: «Stavo scrivendo una storia per Mondadori e non provavo nessuna emozione. Mi pareva di scrivere semplicemente perché dovevo ottemperare a un contratto. Era scioccante: è come accorgersi, di punto in bianco, che la donna con cui stai da una vita non prova più niente per te». La scrittura, che prima era piacere puro e autentico, è di colpo diventata fatica. È allora che Enrico decide di prendere una pausa dalla tastiera. Di staccare andando a fare qualcosa che ama da sempre: perdersi per le montagne con uno zaino in spalla.

L’asticella prende a volare, tanta è la fretta che ha d’essere alzata ancora, e ancora. Nel 2006 Brizzi parte da Canterbury alla volta di Roma, proprio come un pellegrino medievale, e il racconto di quell’avventura inestimabile diventa un reportage a puntate per L’Espresso. Due anni più tardi il sogno di proseguire il cammino, proprio come facevano i fratelli pellegrini del passato, diventa realtà, e i buoni cugini partono da Roma per raggiungere Gerusalemme. È uno di quei voli pindarici che, solo a pensarli, fanno battere il cuore e tremare i polsi. E di solito, quando racconti l’itinerario c’è sempre qualcuno che dice: «Sì, ma c’è l’acqua in mezzo». Enrico risponde sorridendo: «C’era anche nel 1200… e noi l’abbiamo attraversata come si faceva allora». Da Roma a Brindisi a piedi: niente Via Appia che è troppo trafficata, ma dritti sui monti d’Abruzzo, poi Molise, Isernia, Benevento e giù fino al mare, in mezzo alla natura beatamente desolata. A Taranto c’è un amico che lavora per la Marina Militare, e per passione ha riarmato un relitto alla vecchia maniera: niente radio, niente tender, niente giubbotti di salvataggio. A questo punto dovrebbe comparire la scritta lampeggiante in sovrimpressione do not try this at home, ma per i buoni cugini quel legno è quello giusto. Peccato che il nocchiero, a pochi giorni dalla partenza, sia richiamato dalla Madre Patria ai propri doveri militari, e di colpo la nave si ritrova senza capitano. A quel punto sì che la storia prende un’autentica piega salgariana: Brizzi e i compadres girano ogni bettola del porto finché non s’imbattono in Nicola, un marinaio d’esperienza, con l’accento

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©Archivio Psicoatleti ASD

di Lino Banfi e il volto di Ernest Hemingway (C’hai presente la foto di Hem sui Meridiani Mondadori? Uguale!), folle a tal punto da imbarcarsi nell’avventura. È lui che li traghetta di là del mare stretto. È grazie a lui se i pellegrini approdano festanti a Gerusalemme dopo più di due mesi dalla partenza. Quel viaggio è una consacrazione. Enrico e soci decidono di organizzarsi e fondano la Società di Psicoatletica (che a oggi conta all’incirca ottanta membri) e immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi. Nel 2010, anno del centocinquantenario dell’Unità Nazionale, viaggiano dalla Vetta d’Italia fino a Capo Passero, marciando letteralmente lo Stivale da Nord a Sud. Nel 2012 viene varato il nuovo circuito per camminatori denominato Gran Giro Psicoatletico d’Italia: i buoni cugini ne percorrono la prima tranche calpestando i sentieri del Giro delle Tre Venezie: da Venezia a Riva del Garda via Trieste e Trento. Nel 2014 ripartono da Limone sul Garda alla volta di Torino attraverso Lombardia, Canton Ticino, Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 2016 è la volta del cammino tanto rimandato, quello di Santiago. Enrico decide di percorrerlo ancora una volta sulle orme dei pellegrini medievali e parte da Torino per approdare, dopo milioni di passi, a Finisterre. Da questa magnifica classica scaturisce un reportage in sedici puntate per il sito della Gazzetta e, soprattutto, il libro Il sogno del drago, entusiasmante volume inaugurale della collana di Ponte alle Grazie in collaborazione col CAI, magnificamente vergato in seconda persona. Il resto, come si suol dire, è storia. Enrico e i buoni cugini non si sono fermati, e continuano a camminare con il ritmo costante di due viaggi all’anno. Uno in primavera e uno alla fine dell’estate. C’è chi, camminando, cambia vita: Maurizio Manfredi - per tutti, Manfro - decide viaggiando con Brizzi e soci che l’esistenza è troppo breve per negarsi la felicità. E molla un lavoro sicuro per realizzare il proprio sogno: diventare tatuatore. Oggi Manfro vive d’arte e inchiostro ed è, ça va sans dire, il tatuatore ufficiale degli Psicoatleti. Un bel po’ di quell’inchiostro decora il corpo snello e muscolare di Enrico: «Han fatto il conto le ragazze qualche giorno fa qui al mare. Ne ho quindici, pare. E, a parte i nomi delle mie figlie e un vecchio tributo d’onore alla mia squadra del cuore, son tutti ricordi dei nostri grandi viaggi». Prima di congedarmi annoto le ultime imprese per sacrosanto dovere di cronaca: il Grand Tour del Vallo di Adriano, la risalita del Reno che sta per cominciare in Olanda, e lo splendido tracciato patrocinato dal

Consorzio delle Residenze Reali Sabaude: un giro di 300 chilometri circa, delimitato a Nord dal Castello di Aglié e a Sud da quello di Govone. Enrico e i buoni cugini lo hanno percorso in nove giorni, terminando la marcia nel cuore di Asti. La telefonata volge al termine: è durata un paio d’ore ma a me e Alberto sembra d’aver viaggiato per un milione di miglia. La stretta al cuore che proviamo sa d’invidia e di promesse d’avventura. «Papà, quando sarò più grande andiamo anche noi, vero?» dice il mio bimbo. «Dove, amore? Dove andiamo?» domando io. «Dappertutto» risponde lui. E davvero non c’è chiosa più bella. È questo l’effetto che fan le parole e il ricordo delle impronte lasciate da Enrico Brizzi sui sentieri di mezzo mondo: fan voglia di partire. Di non aspettare le ferie e neppure la primavera. Partire domani, anzi no. Partire e basta. Partire adesso.

C’È CHI, CAMMINANDO, CAMBIA VITA: MAURIZIO MANFREDI PER TUTTI, MANFRO - DECIDE VIAGGIANDO CON BRIZZI E SOCI CHE L’ESISTENZA È TROPPO BREVE PER NEGARSI LA FELICITÀ. E MOLLA UN LAVORO SICURO PER REALIZZARE IL PROPRIO SOGNO: DIVENTARE TATUATORE


Great Himalaya Trail 2 4 GIOR NI CHE T I CA MBI A NO L A V I TA Ryan Sandes e Ryno Griesel hanno percorso una variante dell’itinerario che attraversa il Nepal da Ovest a Est a tempo di record. Ma la lotta contro l'orologio è diventata l’ultima preoccupazione dei due sudafricani

testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di DEAN LESLIE/RED BULL CONTENT POOL

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opo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi».

D

NELLA FOTO \\ Durante il Great Himalaya Trail Ryan Sandes ha potuto lavarsi i denti solamente due volte in 24 giorni (in apertura)

usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 24 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile. L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorno, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».

I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto. Ma non la ripeterei».

Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».

Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste, data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato a sopportare, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno

La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni, a quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi chilometri Ryan e Ryno si sono anche imbattuti in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo. Quattro mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

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NELLE FOTO \\ Ryan e Ryno probabilmente non avevano mai corso tra le piantagioni di tè, come nella zona al confine tra Nepal e India (in alto). Negli ultimi giorni le pause sono state dei veloci sonnellini di qualche minuto dove capitava (sopra). Le tea house sono state degli ottimi posti tappa (a sinistra)

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01 Subito dopo il via, nel villaggio di Hilsa, al confine tra Tibet e Nepal, Ryan e Ryno hanno dovuto affrontare la prova più dura. La remota regione di Dolpa ha comportato tre giorni e mezzo lontano da tutto e da tutti, tra montagne innevate e al freddo. «Una notte abbiamo dormito in un monastero con un monaco, se non ci avesse aperto la sua porta, con quelle temperature non avremmo avuto scampo: è uno dei momenti che mi hanno arricchito maggiormente di tutti i 24 giorni. Non parlava inglese, ma ci siamo capiti con i gesti. La grande ospitalità dei nepalesi, la loro semplicità e sincerità mi rimarranno sempre nel cuore. Anche la notte successiva abbiamo sfruttato l'invito di un monaco che però comprendeva l’inglese perché arrivava da Kathmandu». Oltre agli incontri con le persone, le montagne hanno riservato anche un faccia a faccia con il leopardo. Dopo Dolpa sono arrivati l’Annapurna e il Manaslu, zone più turistiche, dove Ryan e Ryno hanno potuto concedersi anche una pizza.

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NELLE FOTO \\ Ryan e Ryno controllano gli orologi GPS qualche istante prima di partire dal confine occidentale del Nepal (sopra). I preparativi e gli effetti del congelamento sulle dita di Griesel (sotto)


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NELLE FOTO \\ Sandes consuma una frugale colazione nell'alba gelida di un'abitazione della regione del Manaslu, l'arrivo all'aeroporto di Simikot, Il Nara La Pass (4.580 m) lungo un'antica via del sale (dall'alto in senso orario)

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02 La regione dell'Annapurna e del Manaslu ha lasciato un ricordo indelebile nella mente di Ryan. «È stata una combinazione di panorami stupendi, bel tempo e la gioia di essere usciti dalla situazione complicata della zona di Dolpa: se dovessi consigliare a un amico di andare a fare un trekking in Nepal, gli direi di non perdersi queste valli». Qui però sono anche iniziati i problemi per Ryno, che si è infortunato al ginocchio, ma il peggio doveva ancora venire.

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NELLE FOTO \\ Il tratto verso Thorong La Pass (5.416 m) nella regione dell’Annapurna, in cerca di orientamento e la compagnia di un cane sulla strada per Larke La Pass (dall'alto in senso orario)

NELLE FOTO \\ Dopo la spettacolare ma inospitale regione di Dolpa, ecco la zona dell'Annapurna e del Manaslu (a sinistra e a destra).

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(quinta doppia) Negli ultimi 300 chilometri il Great Himalaya Trail per Ryan e Ryno si è trasformato in una gara continua, con soste per riposarsi lungo il percorso di 15-20 minuti. Le temperature, che nella prima parte hanno raggiunto i -15 gradi, sono salite anche a 30 e non sono mancate le occasioni per correre tra la gente, nelle affollate città nepalesi. «I bambini correvano insieme a noi per 500 metri o un chilometro, anche nei villaggi isolati, e a volte c’erano dei cani a farci compagnia: gli incontri hanno reso indimenticabile il nostro Great Himalaya Trail».

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03 Negli ultimi 300 chilometri il Great Himalaya Trail per Ryan e Ryno si è trasformato in una gara continua, con soste di 1520 minuti per riposarsi lungo il percorso. Le temperature, che nella prima parte hanno raggiunto i -15 gradi, sono salite anche a 30 e non sono mancate le occasioni per correre tra la gente, nelle affollate città nepalesi. «I bambini correvano insieme a noi per 500 metri o un chilometro, anche nei villaggi isolati, e a volte c’erano dei cani a farci compagnia: gli incontri hanno reso indimenticabile il nostro Great Himalaya Trail».

NELLE FOTO \\ Ryno Griesel mostra gli effetti del GHT sulle sue gambe e sui suoi piedi (a sinistra). Nella parte orientale montagne e isolamento lasciano il posto a caotici villaggi e città (pagina di sinistra, in alto). I festeggiamenti all'arrivo (pagina di sinistra, in basso)

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Great Himalaya Trail Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com

Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni

I numeri

(circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).

Andrew Porter (RSA): 2016 28 giorni, 13 ore, 56 minuti

70 km

(2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).

24 giorni, 4 ore, 24 minuti

la lunghezza minima delle tappe giornaliere

il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel

120 km la lunghezza massima percorsa al giorno -

I 12 checkpoint

CINA Hilsa

124

Simikot km 77

palle di riso mangiate

Gamgadhi km 150 Jumla km 193

7.000 m il dislivello massimo giornaliero

Kagbeni km 444

Juphal km 280 Dunai km 290 Chharka Bhot km 380

N E PA L

43 Thorang La Pass km 463 Jiri km 928

palle al curry Tumlingtar km 1.075

24 lattine di Red Bull

Larkya La Pass km 561

Pashupatinagar km 1.504

3 ore di sonno a notte in media

2

INDIA

le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti

0 le docce fatte lungo il percorso *Il percorso di Hawker è molto diverso e più tecnico, pertanto il tempo non è confrontabile con gli altri due

Ryno Griesel, 38 anni, sudafricano, trail runner e alpinista, ha partecipato all’Adventure Racing World Circuit e a importanti gare di orienteering. Nel 2014, insieme a Ryan Sandes, ha fatto registrare il FKT della Drakensberg Grand Traverse, 210 chilometri tra le montagne del Sud Africa.

Ryan Sandes, 36 anni, sudafricano, sposato con l’attrice e modella Vanessa Haywood (nel cast del film District 9), è uno dei più forti ultra-trailer al mondo. Nel 2010 è stato il primo uomo a vincere tutte le 4 Deserts race, nel deserto di Atacama, in Cile, in quello del Gobi, in Cina, nel Sahara e in Antartide. Nel 2017 ha vinto la Western States 100. 46


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10 ZAMPE U N UOMO E DU E CA N I 48


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Giorgio Garello, dopo un passato da ultra-maratoneta, ha iniziato a camminare per montagne in compagnia di Walk, Border Collie che è diventato protagonista di una pagina Facebook. Poi è arrivata anche Noosa e ha capito che marciare con un cane aiuta a guardare la vita con occhi diversi testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di DANIELE MOLINERIS

l mio sogno è addormentarmi sul divano e il mio è un divano scomodo, molto scomodo, con i poggiabraccia di legno». Così parlò Giorgio Garello. E il divano è una parte importante dell’ultima fase della sua vita, quella podistica. Flashback, fine settembre 2009. Giorgio è al via della Spartathlon, l’ultra maratona tra Atene e Sparta, il coronamento di un sogno, la chiusura di un cerchio, dopo 15 anni di atletica. Ha già deciso che sarà la sua ultima gara, che di quella vita di allenamenti duri per limare secondi ne ha abbastanza.

di giochi. Ricordo quando mi hanno chiamato e bisognava subito darle un nome, ero in un negozio e mi sono detto che non potevo certo chiamarla Nimbus o Kayano, allora mi sono voltato e ho visto una scarpa che si chiamava Noosa, che poi è una località australiana dove si corre un triathlon».

«I

Avevi mai avuto cani prima di Walk? «No, tranne un barboncino tanti anni fa». Perché proprio un Border Collie? «Mi sono documentato, volevo un cane attivo e docile e i Border Collie rispondono proprio a queste caratteristiche, anche se, per la verità, sono più degli scattisti da stop & go che dei divoratori di lunghe distanze come è diventato Walk. Quando correvo faceva anche i 4’30’’ al chilometro, però soffre il caldo perché ha tanto pelo, diciamo che la sua carriera ultra è stata agevolata dalla mia scelta podistica. Io Walk non l’ho scelto, me l’hanno portato. Solo dopo abbiamo scoperto che aveva qualche problema di artrite deformante, soprattutto alle zampe anteriori, probabilmente dovuto ad accoppiamenti tra parenti. Lo abbiamo curato, siamo stati anche in un centro in Emilia dove gli hanno fatto una radio terapia anti-infiammatoria, ora ha la sua moffola per camminare sulle rocce, l’ambiente che lo mette più in difficoltà, e all’interno ho inserito uno strato di EVA per rendere più morbido l’appoggio. Se c’è una cosa che mi ha insegnato Walk è a tornare indietro. Una volta, in Friuli, bisognava fare dei piccoli salti tra le rocce per arrivare in vetta. Lui non ce la poteva fare, avrei dovuto prendermelo sulle spalle. E se poi fossi stato troppo stanco, soprattutto al ritorno? È un po’ la valutazione che fa chi sale un ottomila: bisogna sempre avere un margine per tornare a casa».

Qualche giorno prima, per la precisione il 9 settembre, da una cucciolata è nato un batuffolo bianco e nero, un bellissimo Border Collie che prenderà il nome di Walk. Giorgio ancora non lo sa, però ha deciso di affrontare la sua passione per il movimento e la montagna in un modo diverso, più lento. E ha deciso che, per evitare di cadere nella tentazione di stare sul divano, quel maledetto divano con i poggiabraccia in legno, avrà bisogno di un compagno. Giorgio e Walk, da allora, hanno percorso insieme più di 2.000 chilometri all’anno. Giorgio è Giorgio Garello e nel mondo del running è un personaggio conosciuto: cuneese, residente a Rivoira di Boves, technical representative di Asics, ha corso un centinaio di gare dalla maratona in su e un altro centinaio di mezze o distanze simili, è arrivato secondo ai Campionati italiani di corsa su strada 24 ore e secondo alla Nove Colli, nel 2008. «Alan Sillitoe ha scritto La Solitudine del Maratoneta, ma di maratoneti ce ne sono tanti, il marciatore è solo: camminare è considerata un’attività di serie b, eppure al Passatore un buon marciatore potrebbe entrare nei primi venti e se vuoi riprendere coscienza di te stesso e di quello che il quotidiano ti nega hai solo due modi, sederti a un tavolino o mettere i piedi uno dietro l’altro». Meglio se lo fai a sei zampe, un uomo e un cane.

Perché andare a camminare con uno, anzi due, cani? «Ci sono posti dove sono arrivato correndo e l’ho raccontato a mia moglie perché lei non sarebbe stata in grado di farlo, si corre per arrivare soli, si cammina per arrivare assieme, anche quando si è soli, assieme a quello che vivi, calpesti, ai panorami che hai il tempo di guardare. Uscire con i cani, per un paio di ore o per giri più lunghi, mi permette di passare tanto tempo con loro, sono un po’ il capobranco. È un percorso

Giorgio, la pagina Facebook che hai creato si chiama Un Uomo Un Cane, ma in realtà ora i cani sono due però, dovremmo dire Un uomo due cani? «Sì, nel 2017 è arrivata Noosa, anche lei Border Collie. Io e mia moglie sapevamo che dalle nostre parti stava per nascere una cucciolata e dopo l’esperienza con Walk ci siamo convinti a dargli una compagna

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a piedi NELLE FOTO \\ Alcuni momenti delle giornate di Giorgio, Walk e Noosa, dal salotto di casa con lo scomodo divano, alla cuccia e alle passeggiate

E quando vai lontano, come vi organizzate? «Ho sempre fatto le vacanze in roulotte, per esempio in Auvergne, dove partivamo ogni mattina e rientravamo la sera, disegnando tanti petali attorno al caravan, altre volte sono uscito con la tenda, come per esempio nel giro dell’Alto Garda, ma è più complicato. Ora mi sono attrezzato con una tenda da tetto Maggiolina e l'ho sfruttata nel Giro dell'Appennino, nella zona di Cerreto Laghi, poco fa, la prima uscita di più giorni solo con Noosa».

graduale, non so come è successo, ma ora associano decine di suoni e gesti e mi capiscono: Walk, quando vede un capriolo, mi guarda e mi chiede il permesso di seguirlo. Se ci sono altri cani, stanno tranquilli, a meno che non dia loro il permesso di seguirli. Con Noosa è stato un po’ più difficile e c'è ancora del lavoro da fare: sono due Border Collie, ma hanno caratteri molto diversi. Walk, per esempio, non ha mai abbaiato e fatto il cane da guardia, Noosa abbaia appena si muove qualcosa». Quanto camminate insieme? «È presto detto, percorro circa 3.000 chilometri all’anno, 2.700-2.800 sono con loro, spesso insieme. Se fai una scelta, poi cerchi di essere coerente. Potrei andare in mountain bike, ma alla fine non ho mai voglia perché dovrei uscire da solo, sono stato giusto al Gran Paradiso e alla Capanna Margherita senza di loro. La massima distanza che ha coperto Walk in una giornata è di una cinquantina di chilometri, in una singola settimana circa 200».

Altre avventure con Walk? «Quella sul Cammino del Sole organizzato da Folco Terzani, da Firenze al Pratomagno, qualche anno fa, dal 18 al 21 giugno, in occasione del solstizio. Alle pendici del Pratomagno c’erano 150 tende. E mi sono reso conto che tantissima gente cammina, come quella ragazza iraniana che studiava e camminava in Europa e mi ha detto che il padre era uomo del sole perché la lasciava vivere all’occidentale o quella che camminava fino a quando finivano i soldi e poi cercava un lavoro… per camminare ancora».

Fate uscite tutti i giorni? «No, perché per lavoro sono spesso lontano da casa, ma quando sono a Rivoira, anche la sera, un paio di orette non ce le leva nessuno e in inverno usciamo molto spesso con le ciaspole o i ramponi. Lo scorso fine settimana ho fatto il giro dei sette passi, dalle mie parti, tutti oltre quota 2.400. Sono stato fuori otto ore e c’erano anche Walk e Noosa».

E aneddoti? «Tanti, soprattutto legati agli animali. Una volta Walk è passato di corsa, senza neanche notarli, proprio tra due caprioli, come se niente fosse. Un’altra l’ho visto diventare improvvisamente sottomesso, poi

«L’UOMO NON È NATO PER CORRERE, MA CAMMINATORE, LO DIMOSTRANO I ROMANI CHE HANNO CONQUISTATO IL MONDO CON SANDALI E SCUDO. POI PERÒ, SE C’ERA DA SCAPPARE O DA CACCIARE, ERA UNA PERFETTA MACCHINA DA CORSA. MA È DIVERSO DAL DIRE CHE SIAMO NATI PER CORRERE»

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NELLE FOTO \\ Giorgio esce quasi sempre con Walk e Noosa, vicino o lontano. E anche sull'auto c'è un pensiero per loro

abbiamo trovato delle tracce di lupo fresche fresche… Anni fa, nell’Alto Garda, sapevo che era stato avvistato un orso e nella foresta mi sentivo osservato, persino gli uccelli si erano zittiti. Eppure Walk era tranquillissimo. L’orso non c’era sicuramente, la suggestione umana sì». Avere un cane non è mai stata una limitazione? «No, è stata una scelta consapevole. Piuttosto mi meraviglio di come, pur facendo ogni anno campagne contro l’abbandono degli animali, ci siano ancora tante, troppe limitazioni e divieti, dalle spiagge ai parchi nazionali, ai musei. I cani non sono maleducati, spesso lo sono i padroni e per colpa di pochi, tanti vengono penalizzati. Il mio sogno è andare a visitare i campi di concentramento, ma so già che non potremo farlo io e mia moglie con i cani. Perché non esistono dei dog parking come esistono i baby park per i bambini in tanti ristoranti?».

«SI DICE CHE CANE E PADRONE SONO UGUALI: IN EFFETTI IO SOFFRIVO DI TENDINITI E WALK ANCHE, SONO STATO OPERATO ALLA TIROIDE E WALK UNA VOLTA, CORRENDO PER RACCOGLIERE UN BASTONE, SI È TAGLIATO LA GOLA PERCHÉ IL LEGNO SI ERA INFILZATO IN VERTICALE NELLA NEVE. PERÒ LUI È UN CANE SCIATORE, SI DIVERTE A SCIVOLARE NELLA NEVE SPINGENDOSI CON LE ZAMPE E USANDO LA CODA COME TIMONE, IO VADO CON LE CIASPOLE O I RAMPONI»

Perché la pagina Un Uomo Un cane? «Perché sono un uomo di marketing e volevo comunicare ai tanti amici che per me è iniziata un’altra vita, che quel mondo di gare è finito, ma poi basta che metti una foto mentre corri in compagnia di un allenatore che subito ti scrivono se torni a competere. L’ho fatto ed è stato un bel percorso, ma ora sono in un’altra fase, quella che se corri e ti fermi solo alla fine a guardare l’orologio, ti sei perso qualcosa, non puoi avere la stessa profondità di chi rallenta, ti conformi alla società del mordi e fuggi. Mi sento giovane nell’animo, ma forse sono più maturo dei miei 50 anni, il camminare mi fa invecchiare bene, mi aiuta a vivere il momento, oltre la superficie dei selfie e dei social. Quando sono arrivato al traguardo della Nove Colli, mi sono fermato e ho fatto gli ultimi 10 metri pianissimo, a occhi chiusi. Volevo godermelo quel momento, perché ti prepari per mesi e subito dopo il traguardo è tutto finito e invece vorresti che non finisse mai. Era un punto d’arrivo, anche se allora non lo sapevo». Però non è proprio vero che hai smesso con le gare nel 2009… «Nel 2015 ho fatto la Maratona di Venezia perché erano 20 anni dalla prima maratona, sempre a Venezia, ma con tempi e metodi diversi. Poi due o tre maratone per provarle in stile fit walking: una rivista mi aveva chiesto come prepararla e correrla da marciatore e non volevo fare la figura di Rock Hudson nel film Lo Sport Preferito dall’Uomo quando alla fine il protagonista, autore di un famoso manuale sulla pesca, confessa di non avere mai pescato».

con la punta, magari un inserto rigido, tipo quelli antipronazione, per disperdere meno energia, visto che la rullata di chi marcia veloce è davvero di pochi millisecondi. Per andare in montagna dipende… per un’uscita veloce nel sottobosco anche da trail, ma se sali di quota, terreno e tempo, secondo me il buon vecchio scarpone è sempre la cosa migliore. Poi oggi ce ne sono anche un po’ più ammortizzati grazie all’utilizzo dell’EVA. Però devi avere sostegno, non si scappa».

Atletica, corsa, fit walking: la tua vita è stata sempre legata alla scarpa, pensieri e parole a ruota libera? «Per camminare bisogna allenare il piede alla propriocezione e per questo la scarpa deve essere sottile: guarda caso anche nell’atletica diversi giovani talenti hanno prima praticato danza o ginnastica. E comunque in atletica si fanno tanti esercizi per il piede. Come deve essere la scarpa per marciare? Tallone svasato, tagli che aiutano la flessione e la spinta

Scappa Giorgio, cammina veloce, o lento, con Walk e Noosa.

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RITORNARE Camminare per disegnare linee che non corrono da una città all’altra, ma attraversano lentamente catene montuose e piccoli villaggi alla ricerca di volti e memorie di viaggi passati testo e foto di GIACOMO FRISON/ALTRIPIANI

ei viaggi di Altripiani ci capita molto spesso di essere le uniche persone che in quel momento, in un determinato territorio, vedono un paesaggio, lo fotografano e poi, passo dopo passo, lo attraversano con il privilegio di essere indisturbati. Una sensazione magica, hai appena scattato una bellissima foto e all’improvviso sei tu stesso un puntino in quell’infinito di colori. Ne fai parte, qualcosa di unico, di raro al giorno d’oggi.

La fatica viene sempre ricompensata da un nuovo paesaggio, da una veduta più alta, più ampia. Potrebbe assomigliare a quel momento in cui vedi un pendio di neve vergine con la giusta pendenza e inizi a far scivolare gli sci, premendo con forza sulle gambe per impostare al meglio la prima curva. Oppure quello specchio d’acqua che si forma in laguna la sera, poco prima del tramonto e con una minima spinta del remo la barca taglia leggera la superficie senza fare troppe onde, in un silenzio stupefacente. Quello che vediamo continuamente con gli occhi influenza l’animo ed entra in circolo. Ogni giornata trascorsa è un piccolo viaggio da assimilare con calma nel sacco a pelo prima di dormire. Trascorriamo intere giornate senza incontrare nessuno e c’è solo l’imbarazzo della scelta di dove mettere la tenda per la notte. Altre volte passiamo di villaggio in villaggio scortati da bambini curiosi o da anziani che ci chiedono da dove arriviamo e in che direzione proseguiamo. Ciascuno ci invita a bere una tazza di tè, sono tutti molto gentili e le case berbere hanno la caratteristica di essere dei rifugi perfetti, con fresche stanze rettangolari al riparo dal sole nelle ore più calde. Alcune volte invece preferiamo continuare a camminare, senza spezzare il ritmo, perché negli anni

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Sentirsi soli e stare bene. Una motivazione per continuare, per andare curiosi oltre quella montagna e scoprire cosa ti aspetta ancora.

«VOGLIAMO CHIAMARE TUTTI PER NOME TANTO CHE NON SCATTIAMO FOTOGRAFIE A CASO, PERCHÉ IN OGNI RITRATTO C’È LA STORIA DI UNA PERSONA E DEL LUOGO CHE LE APPARTIENE»

NELLA FOTO \\ Un anno dopo, stesso incrocio di strade, Adil, pastore sordomuto con il suo gregge di capre in Alto Atlante

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NELLE FOTO \\ Alcune scene di vita quotidiana: il rito del tè, la condivisione di un pasto con la tipica tajine, la raccolta dell’erba con l’asino e alcuni volti tra cui quelli di Naima, Aicha, Khadija e Mustapha (in questa pagina). Giacomo in cima al Plateau du Tichka (2.700 m, pagina di destra)

abbiamo imparato che in Marocco un bicchiere di tè si trasforma spesso in un pranzo a più portate. Mhtar non lo avevamo avvisato del nostro ritorno, non sapevamo neppure che nascondesse un vecchio cellulare tra le pieghe del suo burnus, la veste berbera con cappuccio ormai sbiadita dal sole dell'Alto Atlante. Siamo tornati al suo douar dando per scontato che fosse là. La strada la conosciamo a memoria e si differenzia dall’anno precedente solo per il colore della vegetazione. Al nostro arrivo bussiamo forte al grande portone di ferro, ma nessuno risponde. Iniziamo allora a mostrare le foto stampate a qualche bambino e subito veniamo trascinati in cima alla collina dove svetta il minareto e una dozzina di uomini stanno risanando la moschea. Le foto di Mhtar passano di mano in mano con rapidità e ciascuno reagisce divertito a modo suo. Qualcuno si è ricordato di noi o dei nostri grandi zaini colorati, inizio a scattare qualche foto e ne organizziamo subito

una di gruppo. Ci invitano a lasciare le nostre cose in una stanza adiacente alla moschea, chiudono con il lucchetto e ci lasciano la chiave. Per noi non c’è alcun problema di sicurezza, abbiamo fiducia in queste persone, ma capiamo che questo è un segno di ospitalità e rispetto da parte dell’intero villaggio. Ci indicano un luogo oltre un promontorio dove Mhtar è andato a lavorare quel giorno. Non capiamo cosa è andato a fare, ma poco importa. Forse doveva aiutare un amico a raccogliere il miele, noi lo vediamo tornare con una vanga in spalla e sporco di fango. Quando ci vede ad aspettarlo davanti alla porta di casa ormai inizia a fare buio e anche la moglie Naima è rientrata da poco dai campi. Ci abbracciamo forte più volte e, riposti gli attrezzi da lavoro e legato l’asino, con un paio di gesti premurosi ci invita a entrare in casa. Senza pensarci troppo apre la porta di una lunga stanza rettangolare, che era già stata la nostra camera, e dopo qualche minuto ci sembra di non essere mai partiti. Notiamo solo alcune piastrelle nuove in cucina e che l'albero di arance nel cortile interno ha più frutti dello scorso anno. Come nelle migliori famiglie ognuno ha già la sua mansione. In pochissimo tempo la cena è pronta, le mani lavate e possiamo finalmente sederci in un angolo del cortile attorno al basso e rotondo tavolino ricco di ogni bontà. Noci, mandorle, miele che si consumano cerimoniosamente in compagnia insieme al tè, zuccherato con zollette irregolari spaccate da blocchi più grossi conservati in scatole ermetiche. Poi l’olio, il burro, alle volte il latte se le bestie lo consentono. Segue sempre una tajine (una specie di carne in umido) con quel

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proposte

ALTRIPIANI Il progetto Altripiani è un insieme di fotografia,

esplorando le montagne del Caucaso fino

dei confini nazionali, cercando e trovando

alpinismo, ricerca culturale, antropologica

agli altipiani iraniani. Nel 2016 con Glorija

la sovrapposizione di popolazioni e culture

e linguistica, che ha come intento quello di

intraprende il viaggio lungo i Monti Carpazi

di montagna spesso divise da confini

tracciare sentieri nuovi e percorsi diversi.

nel centro-est Europa e dal 2017 insieme

innaturali. Storie di vita e di resistenza in

Linee che non corrono da una città all’altra,

percorrono più volte l’Alto Atlante in Marocco.

paesaggi mozzafiato. Altripiani cerca luoghi

ma che attraversano lentamente catene

Il progetto al momento ha tre aree principali

remoti dove la cartina fisica è più utile di

montuose e piccoli villaggi alla ricerca di volti

di studio, ma è un continuo attraversamento

quella politica, vivendo situazioni in cui una

e memorie. Sono due le anime di Altripiani:

di altipiani, anche vicini a casa, per incontrare

vecchia carta geografica è più precisa di un

Giacomo Frison, fotografo nato e cresciuto a

e indagare sulle diversità tra le culture e

GPS perché conserva tutti i nomi dei luoghi

Venezia, appassionato di montagna e ideatore

le religioni dei Paesi attraversati, tra le

scritti con i caratteri del posto. Il progetto

del progetto e Glorija Blazinšek, istriana

tradizioni e le generazioni delle comunità

non vuole teorizzare o insegnare né offrire

multilingue. L’idea nasce nel 2015 dalle passioni

più isolate sulle montagne, evitando i luoghi

soluzioni, ma recuperare e prendere nota

e dagli studi di Giacomo che traccia la prima

comuni per cercare quelli d’incontro e di

per poi testimoniare.

linea del progetto con un amico antropologo

dialogo. Viaggi che esplorano la delicatezza

www.altripiani.org

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proposte a piedi NELLA FOTO \\ Glorija e una nuova veduta: le tipiche case berbere rettangolari che si confondono tra la terra rossa e i verdi alberi di argan

sapore di misto spezie marocchine e la fantasia di chi la prepara. Per chiudere un cesto di frutta fresca: banane, mele, arance e datteri. Si sta bene, c’è una leggera brezza che insieme alla stanchezza lascia spazio al silenzio mentre con il naso all’insù verso le stelle iniziamo a gustare una nuova notte in Alto Atlante. Prima di dormire dico a Glorija: «Eccoci qua, siamo tornati dove meglio stiamo, nella dimensione quasi nessuno». Con il susseguirsi delle giornate siamo riusciti ad apprezzare la serenità del luogo, la semplicità dei gesti quotidiani e adeguarci al ritmo del villaggio. Ma da quando abbiamo iniziato ad attraversare lentamente le catene montuose tracciando nuovi itinerari c'è una situazione che mi piace moltissimo ed è comune a tutti i viaggi Altripiani: la lettura della carta geografica con le persone del luogo. Il più delle volte è difficile reperirne una dettagliata, soprattutto da casa e anche sul posto, quindi mi studio foto prese dal satellite che poi stampo e plastifico con accuratezza. Orientarsi in un territorio con paesaggi che non conosci può risultare difficile, c’è sempre la speranza che vada tutto alla perfezione, ma si hanno anche momenti di forti emozioni e di grande stanchezza. Da casa non si può prevedere la traccia, a volte il sentiero non esiste nemmeno e allora si mantiene una direzione, la più logica a vista, interpretando il terreno. Ora si sta per concludere un’altra magnifica giornata.

LIBRA GTX, COMPAGNA DI VIAGGIO DI ALTRIPIANI Altripiani da anni collabora con AKU trekking & outdoor footwear. Nell’ultimo viaggio in Alto Atlante, Giacomo e Glorija hanno indossato e messo a dura prova per tutto il cammino un paio di Libra GTX, calzature leggere e traspiranti pensate per facili escursioni, viaggi e relax nella natura ma che si sono ben comportate anche sui polverosi sentieri dell’Alto Atlante. La conformazione naturale dell’avampiede unita a un’altezza ridotta del tacco e a un’estrema flessibilità hanno garantito una camminata naturale e confortevole con un’ottima aderenza su tutte le superfici, grazie al battistrada AKU Libra con speciale mescola Tenuta.

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NELLE FOTO \\ L’attraversamento di un torrente, alla ricerca di una piazzola per la tenda e finalmente nel sacco a pelo prima di una meritata dormita; il trasporto degli zaini con mezzi... non motorizzati

Abbiamo terminato da poco la cena iniziata con un aperitivo di mais saltato in padella, dopo uno di quei giorni lunghissimi immersi nella natura, quando senti che nei polmoni circola finalmente aria pura, che le mani hanno lavorato con energia e le dita portano ancora il colore verde dei campi. Abbiamo raccolto fasci d’erba fresca con Naima e le altre donne del villaggio, fatto il pane e spostato grosse quantità di pietre con cui Mhtar realizza a scalpello le sue macine che poi vende al souk settimanale. Nella stanza dalle pareti verdi e la porta di colore rosa ci passiamo di mano in mano gli A4 con le videate del territorio e provo a ripetere tutti i nomi dei villaggi della valle, come fosse un gioco. Il vero problema è che per noi i nomi sono tutti simili e impossibili da ripetere e intanto la stanchezza vuole trasformarsi in sonno. Per dare una svolta alla situazione e provare a fare ordine ho messo in fila i popcorn avanzati… ognuno rappresenta un villaggio o una montagna. Al momento ci sembra la cosa più ovvia da fare e in coro ripetiamo più volte ad alta voce come fosse una filastrocca, ma credo di non essere ancora in grado di distinguere le differenze tra tutti i douar. Quello che conta veramente in queste situazioni è la condivisione del singolo momento, stare così, a gambe incrociate, attorno a un tavolino sforzandosi di provare a esprimersi con qualche parola di berbero. Immergersi, adeguarsi, aiutarsi e mettersi in gioco. Andiamo e torniamo in una terra fino a quando non abbiamo capito qualcosa in più di quella cultura. Nelle famiglie berbere che abbiamo conosciuto in questi anni ridiamo come non ci capita mai. È un ridere sano, sincero, dove anche il solo suono di una parola pronunciata male diventa puro divertimento proprio come questa sera. Prima di salutare i nostri amici e riprendere il cammino per andare a scoprire una nuova valle ci si scambiano sempre i contatti. Glorija è brava, ordinata e paziente in questa fase, ma rimanere in contatto e avere notizie fresche non è mai facile. La corrispondenza è molto lenta e ogni tanto i nostri pacchi con provviste o vestiti per i bambini non sappiamo nemmeno se arrivano a destinazione.

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NELLA FOTO \\ La traccia torna a essere una strada più grande, cercando di uscire dai labirinti dell’Alto Atlante (sotto)

Così l’unica soluzione è tornare sul posto, vedere cos’è cambiato, chi c’è ancora, chi ha avuto figli e che colori ha il paesaggio in quella determinata stagione. Ritornare è per noi diventato una filosofia di vita. Vogliamo chiamare tutti per nome tanto che non scattiamo fotografie a caso, perché in ogni ritratto c’è la storia di una persona e del luogo che le appartiene. Perché ritornare è anche recuperare e restituire qualcosa a qualcuno che non ha avuto paura di accoglierti in casa. Di anno in anno si aggiungono viaggi, esperienze, delle nuove linee e sta diventando sempre più impegnativo ritornare da ognuno, perché viaggiando leggeri senza rendersene conto si entra in un’altra dimensione, si entra nel cuore delle persone con la mente libera e la forza della curiosità reciproca. Ci sentiamo spesso come una matita leggera che disegna una mappa di traiettorie nuove, ricche di identità sempre più preziose e pronte a testimoniare la bellezza e la fragilità dei luoghi remoti. Ritornare non è sempre facile, ma l’impegno è quello di farsi accettare, perché un po' alla volta non sei più l'ospite, ma un amico, uno di casa che è solamente andato via per un po'.

TION SELEuCntain mo

2018

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TREKKING AL FRONTE Un sentiero attrezzato e una piacevole passeggiata tra fortificazioni e trincee della Guerra Bianca del Tonale e dell’Adamello, a cento anni dalla fine del conflitto

testo di TATIANA BERTERA - foto di MATTEO PAVANA

Guerra Bianca. Un nome affascinante. E quell’aggettivo, bianca, evoca un non so che di candido e pulito. Eppure 100 anni fa, nei luoghi che fecero da scenario alpino alla Prima Guerra Mondiale, quel bianco fece più morti del nemico. Perché qui, nelle prime linee di confine, ad ammazzare furono la neve e il freddo. Prima ancora che la pallottola del soldato austro-ungarico. E pure quella, a dirla tutta, non mancava. Ma nella stagione più fredda, negli anni di guerra tra le nevi del Parco Nazionale dello Stelvio e dell’Adamello, l’esercito aveva a che fare non con uno ma con due nemici: l’uomo e anche l’ambiente ostile. A vederlo oggi, il comprensorio Pontedilegno-Tonale, con le sue numerose attrazioni turistiche, sembra un angolo di paradiso. Passo Paradiso, con l’omonima cabinovia, per alcuni rappresentò invece l’inferno.

LA

L’intera zona, un tempo confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, fu uno degli scenari di quella parte di conflitto mondiale che si svolse sulle Alpi, a quote elevate. In questi luoghi i soldati furono messi a dura prova da temperature estreme ed equipaggiamento che nulla aveva a che fare con quello

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degli alpinisti moderni. La vita al fronte, soprattutto quando il fronte si trovava a 3.000 metri di quota, richiedeva resistenza e grandi capacità di adattamento. Oggi quel passato rivive grazie ai numerosi itinerari storici che conducono ai resti di trincee, fortificazioni e villaggi militari. Ma per arrivarci bisogna fare un po’ di fatica, come i nostri soldati poco più di un secolo fa… IL SENTIERO DEI FIORI Percorrere il Sentiero dei Fiori, che si snoda sulle creste tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro e sui ghiaioni sottostanti, significa camminare nella storia. O meglio, sulla storia. Tra un sasso e l’altro si può trovare davvero di tutto: dal filo spinato ai pallini di piombo degli ordigni bellici, dal legno usato per costruire le baracche dei soldati ai pezzi di stoffa delle divise. Materiale conservato nel ghiaccio e che ora, con il ritiro del limite delle nevi, riemerge. Proiettili così come scatolame che, con un po’ di fortuna, riporta ancora la data di scadenza o di confezionamento. Il Sentiero dei Fiori, la cui partenza è raggiungibile con la cabinovia che da Passo Paradiso conduce fino a Passo Presena, ripercorre infatti i camminamenti, le gallerie e le trincee della prima linea italiana durante la Grande Guerra. A fare da cicerone su questo itinerario dove gli aspetti naturali si fondono con la storia, la Guida alpina Uberto Piloni, che conosce le montagne come le sue tasche. Camminare insieme a Uberto è come avere un'enciclopedia a portata di mano: la sua cultura del territorio spazia dagli aspetti geomorfologici a quelli relativi alla Prima Guerra Mondiale, senza tralasciare la flora e le splendide fioriture di piante endemiche che, specialmente nel mese di luglio, fanno capolino tra una roccia e l’altra. E così, senza accorgersene, si passa da una lezione di geologia a una di botanica, dalla placca europea (che infilandosi sotto a quella asiatica ha dato vita ai giovani rilievi dell’Adamello) al ranuncolo bianco o alla genziana, la cui radice è l’ingrediente principale del celebre e amarissimo liquore. Da Passo Paradiso, salendo con la nuova cabinovia che porta fino a Passo Presena (quota 3.000 metri) si possono anche notare i teli bianchi posati a protezione del ghiacciaio, il cui scopo è limitarne l’inesorabile scioglimento. Un ghiacciaio in costante ritiro, il Presena. Al

NELLE FOTO \\ I resti dell'accampamento che si trovava a Passo Lago Scuro, una piccola Machu Picchu, ricchissima di testimonianze della Grande Guerra (sopra). Il sentiero che sale al Passo, con bella veduta su Lago Scuro (a destra). Una delle due celebri passerelle sospese, la più lunga (in apertura)

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suo posto è emersa la nuda roccia. «Qui fino agli anni 1994/95 si praticava ancora sci estivo, mentre oggi non sarebbe più possibile» commenta Uberto mentre ci indica, ancora dalla cabinovia e proprio di fronte a noi, il Cornicciolo del Presena, più noto come Sgualdrina. Davanti a un caffè caldo allo skibar Panorama 3000 Glacier, ci godiamo lo spettacolo di Adamello, Lobbie, Presanella e Pian di Neve, il più vasto ghiacciaio delle Alpi italiane. Da qui un sentiero che procede quasi in piano conduce, in un’oretta di cammino, fino a Passo Lago Scuro: una piccola Machu Picchu, ricchissima di testimonianze della Grande Guerra. Una vera e propria cittadella in quota, con le sue trincee e fortificazioni, con gli spazi un tempo adibiti a dormitorio, la chiesetta e la mensa degli ufficiali. A terra i resti delle baracche e del telo catramato che faceva da copertura isolante alle stesse. Da qui, percorrendo la ripida scalinata costruita dai nostri soldati al fronte un secolo fa, si sale in direzione del sentiero attrezzato, percorribile sia in questa direzione che in quella opposta. Sebbene non particolarmente impegnativo, è consigliato indossare il kit da ferrata. Cavi e catene aiutano a tenersi sempre in sicurezza. Percorrendolo si incontrano le varie postazioni dei soldati lungo la cresta. In una mezz’oretta durante la quale lo sguardo non manca di spaziare su tutto l’arco alpino, si arriva al Bivacco Amici della Montagna-Capanna Faustinelli, vecchia baracca militare e punto più alto dell’escursione (3.160 metri). Proseguendo si giunge fino al Gendarme di Casamadre e alle due spettacolari passerelle metalliche il cui attraversamento è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti del tracciato. Già

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NELLE FOTO \\ Alcuni tratti del sentiero attrezzato, da affrontare con kit da ferrata completo. Lungo la ferrata non è raro incontrare ponticelli in legno, feritoie di guardia e gallerie (sopra). La guglia del Gendarme di Casamadre (a destra)


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NELLE FOTO \\ Forte Mero e Forte Zaccarana, realizzati dagli austriaci a protezione della strada del Tonale (sotto e a destra). Ricaricatore e proiettili, resti della Grande Guerra che si possono trovare sul Sentiero dei Fiori (foto piccola in bianco e nero).

esistenti all’epoca della guerra, lunghe rispettivamente 75 e 55 metri, sono state oggi risistemate e messe in sicurezza. Se proprio non volete camminare nel vuoto, sono comunque aggirabili grazie a una galleria lunga circa 70 metri, anch’essa memoria delle terribili fatiche del 1918. Nei diversi punti strategici la cartellonistica illustrata racconta, tramite le date salienti, le varie fasi della guerra e degli avvenimenti su questo fronte. «È stata la guerra più alta della storia e il freddo arrivò a toccare i 30-40 gradi sotto lo zero, con 10-12 metri di neve caduta. Con queste condizioni i rifornimenti erano davvero faticosi, nonostante i 7-8 chilometri di teleferiche tirate per rendere più agevoli gli approvvigionamenti - racconta Piloni. – La guerra non portò solo morte, ma anche un sacco di evoluzioni. Ad esempio condusse alla diffusione del cibo in scatola, fino ad allora quasi sconosciuto; allo sviluppo di una concezione moderna di rampone e di occhiale da ghiacciaio; delle divise bianche che permettevano un maggiore mimetismo nel bianco della neve; di mille piccoli accorgimenti per cercare di sopravvivere ai climi rigidi dell’inverno a quota 3.000 metri». IL GIRO DEI FORTI Se la quota del Sentiero dei Fiori è un po’ troppo impegnativa, oppure se si desidera affrontare un itinerario più rilassante ma comunque molto interessante, è possibile visitare alcuni resti del complesso sistema di fortificazioni realizzate dagli austriaci al confine italiano presso Passo Tonale. Uno degli itinerari, per i più sportivi affrontabile anche sulle due ruote gommate, porta alla scoperta di Forte Mero e Forte Zaccarana, realizzati ai primi del Novecento, già in sentore di guerra. Ad accompagnarci, questa volta, la Guida Mauro Fioretta. Il percorso, che attraversa la prima linea austro-ungarica al confine con la terra di nessuno, offre

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Cima Bleis 2628

SENTIERO DEI FIORI

M. Tonale Occidentale 2694

M. Tonale Orientale 2696

M.ga Valbiolo

Lunghezza: circa 5 km

Forte Zaccarana

Dislivello: 400 m D+/800 m DTempo: 5 ore

Rif. Capanna Bleis

Cima Cadì 2608

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M. Serodine 2534

M

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Forte Mero

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E

R

Ospizio S. Bartolomeo

Rif. Nigritella

V

A

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D

piccozza e ramponi in caso di tratti innevati Periodo consigliato: estate/autunno Punti di appoggio: rifugio al termine della cabinovia Paradiso, Rifugio Glacier 3000

E

N

A

(FORTE MERO E ZACCARANA)

S

Lunghezza: circa 10 km

E

Monticello Superiore 2609

R

Dislivello: 150 metri circa

L

P

Tempo: 2 ,5/3 ore

V

A

Cima dei Pozzi 2890

Rif. Passo Paradiso

Difficoltà: E Attrezzatura: nessuna in assenza di neve Periodo consigliato: primavera/estate/autunno Punto di appoggio: Ospizio San Bartolomeo

P.so del Castellaccio

Info sulle due nuove brochure Cultura e Sentieri di montagna realizzate da Adamello Ski.

Capanna Presena

Corno di Lago Scuro 3166 P.so di Lago Scuro

Attrezzatura: consigliato il kit da ferrata + caschetto +

GIRO DEI FORTI

Passo del To n a l e

P.ta di Castellaccio 3029

Difficoltà: EEA

Cima Busazza 3326

Monte Cercen 3280

Cima Presena 3069 P.so Presena

info@adamelloski.com - www.pontedilegnotonale.com Guide alpine: www.guidealpinevaldisole.it

Giro dei Forti

http://adamelloguidealpine.it

Sentiero dei Fiori

una splendida veduta delle cime dell’Alta Val di Sole. Si parte dall’Ospizio di San Bartolomeo a poca distanza da Passo Tonale, dove un cartello in legno indica la direzione per Forte Mero. Su strada comoda, si prosegue in leggera discesa. Tutt’intorno pascoli, mucche, piante e fiori, silenzio. I rumori della strada sono sempre più lontani. Tronchi tagliati e ben posizionati, che saranno legna da ardere durante il freddo inverno. In circa mezz’ora si raggiungono i resti di Forte Mero, costruito tra il 1911 e il 1913 al fine di rinforzare il confine austriaco. Un tempo organizzato come una cittadella autonoma, ora a fare capolino tra un pezzo di muro e l’altro ci sono le marmotte, che hanno colonizzato questa tana che pare fatta dall’uomo appositamente per loro. In posizione strategica, il forte tiene sott’occhio Passo Paradiso e la conca del Presena. Mauro fa notare come su alcune pareti siano ancora presenti le macchie di colore realizzate per mimetizzare le mura del forte. Proseguendo si oltrepassano i resti, recuperati ad arte, delle caserme di Strino, un tempo adibite a magazzini e ospedale da campo. La strada che porta al Forte Zaccarana sale dolce, seguendo i tornanti che si snodano lungo il bosco. Zaccarana era la fortificazione più moderna, realizzata tra il 1907 e il 1913, con tanto di cupole di acciaio girevoli, oggi non più visibili in quanto fatte saltare dai cosiddetti recuperanti che dopo la Prima Guerra saccheggiavano quanto rimasto per ricostruire i paesi che erano usciti, chi più chi meno, distrutti dal conflitto mondiale. Da qua, per pascoli e panorami bucolici, in un’ora di cammino si fa ritorno al punto di partenza. Prima di andarsene è interessante dare un occhio anche al Forte Strino, posizionato lungo la strada che dalla Val di Sole porta in Tonale e quindi raggiungibile anche in auto. Molto antico, realizzato nel 1862, è stato recuperato e adibito a museo storico della Guerra Bianca.

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D O L O M I T E S

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B E L L U N E S I

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PA T H


a piedi

Un nuovo trekking da percorrere in sei o sette tappe nell’angolo meno conosciuto delle montagne patrimonio dell’Unesco, dove la natura è ancora padrona e l’uomo un semplice ospite come gli altri animali, lontano da impianti e rifugi cinque stelle

testo di TEDDY SOPPELSA - foto di ROBERTO DE PELLEGRIN

van di Marco sale veloce lungo la val Prampèr. Dal finestrino osservo la selva di guglie e spigoli degli Spiz de Mezzodì che si confrontano con la lunga cresta del Costón de la Gardesana e le Cime di Moschesìn. Sono cime predilette da chi ama muoversi al limite fra escursionismo impegnativo e alpinismo, con una varietà di percorsi mai banali.

idromassaggio, ma celle di stoccaggio al posto dei frigoriferi sarebbero necessarie». Saliamo con lentezza verso il valico di forcella Sud dei Van de Zità (2.395 m), vogliamo agevolare Roberto, il nostro fotografo, nel cogliere i momenti migliori del nostro passaggio attraverso i Piazedìai, gli spiazzi erbosi intercalati da fenditure carsiche e lastronate rocciose. Matteo, Gioia e Ilaria si prestano a fare da modelli e assecondano le richieste di Roberto. La bellezza del paesaggio rapisce i nostri sguardi, una tavolozza di colori ci riempie gli occhi: l’azzurro del cielo, il bianco ocra degli ultimi nevai, il giallo-verde dei prati che iniziano a fiorire, il grigio delle rocce. A occidente emerge sovrana una montagna attorniata da profonde valli. È la Talvéna (2.542 m), scrigno floristico del Parco che custodisce specie rare. Dopo la forcella inizia la discesa verso i Van de Zità, due ampie conche di pascolo d’alta quota, appartate e solitarie, modellate nel corso dell’ultima glaciazione e successivamente dal carsismo. Oltre la soglia dell’ultima conca, dove più evidenti sono i segni dell’antico ghiacciaio, il sentiero precipita verso la Val de i Róss e in breve siamo al rifugio Pian de Fontana.

IL

Guardo i miei giovani compagni di viaggio mentre chiacchierano felici tra loro. Venticinque anni fa ero un po’ come loro, avevo un’idea in testa e finalmente potevo realizzarla. All’epoca stavo scrivendo un testo sul neonato Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi e, per collegare gli ambienti di maggior pregio, pensai di proporre una lunga escursione attraverso tutta l’area protetta. La TransParco - così l’avevo chiamata - è rimasta per tanti anni confinata tra gli obiettivi di qualche escursionista, finché lo scorso anno un gruppo di ragazzi del CAI di Feltre la scopre e se ne innamora. Attorno a essa costruiscono un progetto, coinvolgono il Parco e le Sezioni CAI, vogliono ridargli vita mettendo a frutto le loro esperienze. «Questi sono luoghi preziosi» dico ai ragazzi, «e la sola ragione che può spingerci a incentivare la loro frequentazione si radica, e trova la sua giustificazione, nell’esperienza concreta tra l’uomo e la natura di queste montagne. Qui possiamo ancora udire l’autentica voce dei monti, altrove è ormai sopita». I ragazzi mi ascoltano con attenzione, vedo che hanno capito.

Elena e Gavino sono sedici anni che lo gestiscono. Lei vicentina e lui di Alghero, cercavano un posto dove lavorare in montagna e l’hanno trovato qui, su un antico pascolo in vista della Schiàra. «I compiti fra noi sono ben divisi» mi dice Elena. «Gavino, cuoco professionista, si occupa della cucina e dell’impiantistica del rifugio, io delle persone e delle provviste. Ogni settimana scendo a fare la spesa, carico la teleferica e poi ritorno su. Un’ora abbondante a scendere e un’ora e mezza a salire, perché sono bravetta». Il rifugio è una delle ultime tappe dell’Alta Via n.1, vi passa anche la Monaco-Venezia e da quando le Dolomiti sono Patrimonio dell’Umanità gli escursionisti non mancano. «Questo è un rifugio che non ha le comodità di quelli più a Nord, qui trovano servizi essenziali: un pasto caldo e delle persone che ti accolgono» prosegue Elena misurando bene le parole. «Quando devo dire non ce l’ho a chi mi chiede l’acqua calda, la camera doppia, il tiramisù o i gelati, vedo che rimangono un po’ perplessi. Abbiamo tutti molte cose e questo è un posto che ne offre meno, ma ti dà un’esperienza in più. Poi la maggior parte delle persone al mattino mi dice: sono stato bene, grazie dell’atmosfera. Allora sono io che mi stupisco, perché non ho fatto niente di speciale».

QUI IL TEMPO SI È FERMATO / PRIMA TAPPA Lasciamo il van nel parcheggio del Pian de la Fòpa e partiamo. I miei scarponi affondano nei soffici prati del Pra de la Vedova e si colorano del rosso dell’argilla del sentiero. Su questa panoramica sella erbosa sono state trovate tracce di bivacchi di cacciatori mesolitici e mi fa una certa impressione pensare che quello che vediamo con i nostri occhi lo videro anche i loro 10.000 anni fa. Credo che qui il tempo si sia fermato. Il rifugio Pramperét, che incontriamo poco dopo, ci riporta alla contemporaneità: domani è il primo giorno di apertura e sono tutti indaffarati. Luca ha 38 anni, per lui gestire un rifugio non è stata una scelta ma una necessità: «Ero senza lavoro e ho preso un’occasione al volo. Ora però mi trovo bene e vorrei continuare». Riprende a pulire la motosega e intanto gli chiedo cosa vorrebbe che diventasse questo rifugio. «Vorrei che non diventasse come i rifugi che ci sono a Nord, dove ormai è stato addomesticato tutto. Purtroppo la tendenza sembra essere quella, perché i numeri delle persone che arrivano impongono un adeguamento degli impianti del rifugio. Sicuramente non vorrei che ci fosse la tinozza

IL CANTO DEL CUCULO E IL SUONO DEL CORNO / SECONDA TAPPA Dal rifugio scendiamo a zigzag verso la Val de i Róss, attraversiamo il torrente e riprendiamo a salire tra vecchi faggi fino alla bella sella di pascolo di forcella La Varétta (1.704 m). Il sentiero piega verso sud e ci

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NELLE FOTO \\ Gioia e Ilaria guadano il torrente Caorame al cospetto della Parete Piatta del Sass de Mura (pagina precedente). La Forcella Sud de Zità e sullo sfondo le Zime dei Bachet e le Preson (in apertura). Cristian, 17 anni, studente di Agraria, trascorre l’estate come pastore alla Malga ErèraBrendòl (sopra)

concede un panorama spettacolare sulle pareti settentrionali della Schiàra e del Pelf, con l'inconfondibile Gusèla del Vescovà. In alcuni tratti è scavato nella roccia e si affaccia su pendii ripidissimi che precipitano verso la Val Vescovà. Mentre osservo il rifugio Bianchét emergere come un’isola dall’oceano verde in fondo alla valle, udiamo un suono meraviglioso che si disperde sulle cime. Sono poche note, potenti e modulate, poi tutto diventa silenzio e risentiamo il canto del cuculo. Ci guardiamo stupiti, non riusciamo a comprendere la natura di quel suono, ma qualcosa ci dice che non tarderemo a scoprirlo. Enzo un bel giorno si è stancato di fare il falegname e da sette anni con sua moglie Sonia gestisce il rifugio Furio Bianchet. «Per gestire un rifugio non bisogna amare la montagna, perché la montagna non la vedi» mi dice con un po’ di ironia in un marcato accento vicentino. «Io che sono il cuoco-falegname sono dentro la cucina dalla mattina alla sera e quando si sta quattro mesi fermi in un rifugio se non ci sei con la testa muori subito. Prima di buttarci in questa avventura abbiamo dato una mano al nostro caro amico Giuseppe Pierantoni, gestore del Settimo Alpini, per vedere come andava. Qui devi saper fare di tutto…» e mi mostra il grande corno delle Alpi che si è costruito da un abete. «Mi piace dare il benvenuto con il corno a chi arriva al rifugio, come ho fatto con voi sotto forcella Nerville». Dopo il rifugio Bianchét il sentiero diventa una comoda strada forestale che percorriamo fino alla confluenza con la Val Cordévole, sulla strada che collega la Val Belluna all’Agordino. La Val Cordévole è una valle molto antica e dalla morfologia complessa, divide il gruppo della Schiàra dai Monti del Sole che eviteremo di attraversare, sia per le difficoltà di accesso che per conservarne lo status di area selvaggia lontana dai flussi turistici. Dobbiamo quindi aggirare i Monti del Sole e possiamo scegliere di farlo da sud oppure da nord. In entrambi i casi potremmo confrontare i grandi scenari della natura delle alte quote con la vita nel fondovalle. Incontreremo piccoli borghi con le loro chiese - fra i luoghi di culto spicca la Certosa di Vedàna (variante Sud) -, importanti testimonianze di attività produttive come le miniere di Valle Impérina (variante Nord) e anche i segni dello spopolamento e dell’abbandono. Le miniere di Val Impérina hanno attirato subito la nostra curiosità e per aggirare i Monti del Sole decidiamo di seguire la variante Nord, sulle tracce dell’antico percorso della Via del Rame. Lungo questa via, insieme a soldati, pellegrini e mercanti in transito fra le

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valli tedesche e i territori della Serenissima Repubblica, si svolse per secoli il trasporto, verso la pianura, del rame estratto dalle miniere. Dal villaggio di La Muda attraversiamo il torrente Cordévole su una passerella e, mantenendoci costantemente sulla destra orografica, rimontiamo verso il piccolo valico del forte del Sass de San Martin (630 m) e in breve siamo al centro minerario. Chiuso da oltre mezzo secolo, il sito è stato oggetto negli ultimi decenni di importanti lavori di restauro che hanno restituito al pubblico numerosi edifici come: i forni fusori, la centrale idroelettrica (oggi centro visitatori del Parco), le scuderie e l’ex magazzino trasformato in ostello dove ci fermiamo a mangiare e dormire. MINIERE E PASCOLI D’ALTA QUOTA / TERZA TAPPA Il mattino del terzo giorno si parte di buonora, anche questa tappa, che ci porterà nuovamente in quota in uno dei pascoli più belli delle Dolomiti, è lunga e tanti sono i punti d’interesse. Saliamo lungo la valle fino a forcella Franche sfruttando l’antica rete di sentieri dei minatori. L’acqua del torrente Impérina accompagna il nostro cammino, vediamo per terra frammenti di scarti dei forni fusori, notiamo la colorazione del terreno che, per la natura metallifera delle rocce, si tinge di rosso acceso o di macchie verdi prodotte dagli ossidi del ferro e del rame. Ma sono soprattutto i resti dei manufatti (pozzi e portali di accesso alle gallerie, edifici per la lavorazione e il trasporto dei metalli) che ci ricordano il duro lavoro dei minatori in una valle spesso minacciata da alluvioni e smottamenti. Nella discesa da forcella Franche verso California ci viene incontro la storia di tante piccole comunità e il bello di questa tappa è che abbiamo l’occasione di conoscere e parlare con le persone che ancora qui vivono. Scendiamo lungo la vecchia mulattiera di collegamento dei vari nuclei rurali, osserviamo gli insediamenti e l’organizzazione minuziosa di ogni spazio con una ricchezza di toponimi che testimoniano l’intensa frequentazione. Sembra impossibile ma anche in un Parco nazionale il profitto può prevalere sulla natura. Lo vediamo a Titele, in prossimità del ponte sul torrente Mis: nel greto e sulle sponde emergono in tutto il loro impatto le opere di presa di una centrale idroelettrica (in abbandono). Racconto ai miei compagni cos’è accaduto: «Nel 2012, grazie al ricorso di alcune associazioni ambientaliste, la Cassazione ha fermato i lavori perché non si poteva costruire un impianto all'interno dei confini del Parco, ma il calcestruzzo era già stato gettato ed è ancora lì, nonostante la richiesta di ripristino dei luoghi al loro stato originario».

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La quinta e la sesta tappa sono state trattate approfonditamente nell’articolo La via del confine pacifico su Skialper 113 di agosto-settembre 2017.

NELLE FOTO \\ Elena del rifugio Pian de Fontana, Sonia del Bianchet e Ginetta con Daniele, gestori al Boz (in alto). Gioia e Matteo (al centro), le lame carische di Forcella de Zità Sud e i resti dell'abitato di California (sotto)


a piedi

ŠFederico Ravassard

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NELLE FOTO \\ La singolare cresta del Col de Luna come appare a chi, nell'ultima tappa, decide di salire in vetta al Pavione (a sinistra). La luce del mattino illumina le pareti Sud-Ovest del Sass de Mura con la finestra nella roccia (sotto)

ŠFederico Ravassard

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a piedi NELLE FOTO \\ Gioia, Ilaria e Matteo esplorano le praterie di Erèra-Brendòl con le ultime luci della sera. Si staglia sullo sfondo il profilo del Monte Colsent (2.086 m, a destra). Le miniere della Val Imperìna (sotto). Risveglio in compagnia in Erèra-Brendòl. Il campeggio è vietato sul territorio del Parco, ma nei pressi di alcune strutture sono a disposizione una tenda Ferrino e kit notte per garantire ospitalità anche nei periodi più affollati (pagine seguenti)

Superiamo il ponte ed entriamo nelle Alpi Feltrine. La strada segue il corso del torrente e termina alla frazione di Pattìne (680 m). Sulla sponda opposta, sepolti nella vegetazione, ci sono i ruderi delle abitazioni di California. Nel nome di questo piccolo borgo, ormai perduto, era riposta la speranza di una vita migliore che avrebbero portato le vicine miniere di mercurio. Lungo il vallone di Campotoróndo inizia l’ascesa verso una delle perle del Parco: l’altopiano di Erèra-Brendòl. Lo spettacolo che si presenta dinanzi ai nostri occhi, dopo Casèra Campotoróndo (1.763 m), ha qualcosa di sorprendente: un’estesa prateria alpina circondata da cime dall'aspetto dolce e invitante e altre dal volto severo e repulsivo. Ai margini meridionali della conca i pascoli svaniscono in una irregolare distesa disseminata di fenomeni di tipo carsico: doline, crepacci e inghiottitoi, celati da una folta vegetazione arbustiva di pino mugo e rododendri, nota come i Piani Eterni. Alla perfezione della natura si è aggiunta l’opera dell’uomo con uno dei migliori esempi di architettura alpina: la pendàna di Brendòl, una stalla monumentale in pietra, lunga 91 metri, con 25 archi a tutto sesto, capace di ospitare oltre 100 animali. «Sono qui da ventidue anni e ogni anno è come se fosse il primo» mi dice Novella che manda avanti malga Erèra assieme a due aiutanti, mentre la sua famiglia si occupa di altre due malghe sul monte Avena. «Questo posto ti fa rinascere e ti fa stare bene…». In effetti si sente qualcosa di magico, un’attrazione naturale, sentimenti che superano ogni valore scientifico. «Diverse persone scelgono di passare qualche giorno qui in malga. Da una decina d’anni quattro famiglie di toscani si fermano una settimana: arrivano, si cambiano, ci aiutano nei lavori, mangiano con noi e poi il venerdì si fanno la doccia e ritornano a casa. Qui la natura convive con l’uomo» prosegue Novella. «Ci sono cervi, aquile, camosci e ora anche il lupo, ma senza mucche il pascolo andrebbe a degradarsi e con esso tutto il resto. Vorrei che questo pascolo non fosse mai abbandonato». La sera, prima di coricarci nel sottotetto della casèra, usciamo per un ultimo sguardo alla conca. Quello che vediamo non lo dimenticheremo facilmente. È buio e la prateria è avvolta da leggeri veli di umidità, nel silenzio della notte il suono dei campanacci svela la presenza dei bovini che non vediamo ma, poco a poco, emergono delle sagome: sono mucche, cavalli, poi cervi, mufloni e forse dei caprioli. Mi vengono in mente le parole di Thoreau quando si disse convinto che una natura selvaggia aiuta a conoscere meglio noi stessi, a migliorarci e a migliorare la società in cui viviamo.

ha inizio un’altra spettacolare traversata, il sentiero dei Caserìn, che si snoda alla base della parete sud del Sass de Mura. L’ultima breve discesa ci deposita stanchi ma felici nell’accogliente rifugio Bruno Bòz. Tra tutti i gestori dei rifugi dell’Altavia, Daniele e Ginetta sono i veterani. Da trentasei anni sono qui al rifugio Bòz e i loro racconti sembrano affondare in un lontano passato. «Io e Ginetta ci siamo conosciuti proprio al rifugio, verso la fine degli anni ’70, abbiamo lasciato entrambi il mitico posto fisso per fare questo lavoro. La nostra residenza è a Feltre, però la vera casa è questa. In tanti anni abbiamo instaurato un rapporto di amicizia con le persone». Daniele si blocca, ha un groppo in gola e gli occhi lucidi, allora interviene Ginetta. «Lo so, su questa cosa qui Daniele si commuove. Eravamo giovanissimi e tutti i parenti erano contro la nostra scelta di vita. I primi anni sono stati difficili: l’illuminazione era a gas, l’acqua spesso non arrivava e non c’era la teleferica, il menù era limitato e anche i servizi, ma avevamo tanto entusiasmo e molto più tempo per noi. Il successo di questo rifugio? Non è solo merito nostro, va diviso con il CAI Feltre e il Parco, senza dimenticare i tanti amici che ci aiutano e anche quest’anno ci siamo scaldati con la legna che hanno tagliato per noi». I CONFINI PACIFICI / QUINTA TAPPA Prima di lasciare il rifugio Bruno Bòz ci assicuriamo di aver riempito le borracce; fino al rifugio Giorgio Dal Piàz non troveremo un goccio d'acqua. In questo settore più occidentale delle Alpi Feltrine, noto come le Vette, la natura carsica del terreno non trattiene l’acqua in superficie che va ad alimentare sorgenti di fondovalle. La singolarità ambientale delle Vette è proprio legata a una successione di circhi glaciali sospesi, sul cui fondo si aprono vasti pianori d'alta quota interrotti da fenditure e avvallamenti di natura carsica. Nelle Vette si concentra inoltre uno straordinario patrimonio naturale, con oltre 1.300 specie floreali, molte rare o endemiche. Per raggiungere il rifugio Dal Piaz camminiamo sulla Linea Gialla, la via aperta dai militari italiani negli anni 1916-17 a baluardo della prima linea. Il sentiero si snoda sulle creste di confine che per quasi 400 anni hanno diviso due Stati: la Repubblica di Venezia dal Tirolo. Un confine pacifico che a dispetto dell’idea di dividere ha sempre unito le vallate, favorendo spostamenti e scambi di ogni genere. SENTIERI PARLANTI E TERRE SELVAGGE / SESTA TAPPA Siamo giunti alla tappa conclusiva della nostra traversata, in appena due ore possiamo scendere al passo Croce d’Àune e poi decidere se proseguire a piedi fino a Pedavena, magari fin dentro la famosa birreria, oppure attendere l’arrivo dell’autocorriera di linea. Un’alternativa da considerare potrebbe essere quella di rimanere ancora una giornata in quota al rifugio Giorgio Dal Piàz e arrivare in vetta al monte Pavióne (2.335 m) o camminare sul Sentiero parlante della Busa delle Vette, com’è descritto nel depliant del CAI Veneto che ho preso nel rifugio. Leggo che con un’apposita app, caricata sul proprio smartphone, posso percorrerlo consultando video, audio, mappe e testi descrittivi. Penso ai cacciatori mesolitici che ho incontrato all’inizio della traversata e al tempo che non si può fermare. Ma penso anche che se sapremo preservare i luoghi così come sono giunti a noi e come li ricordiamo forse potremmo fermarlo. Luoghi da lasciare selvaggi per sempre, dove la vita naturale possa continuare il suo corso senza che l’uomo interferisca o la pieghi alle sue moderne esigenze. Luoghi che possono parlare delle nostre radici e di noi stessi.

CENGE ESPOSTE SU RIPIDI PENDII / QUARTA TAPPA Il percorso che seguiremo prevede di salire a forcella dell’Om, al confine tra Veneto e Trentino, e poi di camminare sul sentiero dei Slavinàz, uno dei tratti più selvaggi e impegnativi dell’intera traversata (in alternativa, senza difficoltà, è possibile scendere in Val Canzói e raggiungere il rifugio Bòz attraverso il passo Alvìs). Nel nostro gruppo c’è chi non ha mai camminato su un sentiero del tipo cenge esposte su ripidi pendii e leggo nei loro volti un po’ di naturale apprensione. Rassicuro i miei compagni che non c’è nulla da temere: «Vedrete che il sentiero è ben tracciato, richiede solo attenzione e passo sicuro». Appena mettiamo piede sul sentiero ogni preoccupazione svanisce e la fiducia è ricambiata dalla severa bellezza del paesaggio. Dopo i dolci pascoli di Erèra-Brendòl ora abbiamo dinanzi la conca di Cimónega, qui predomina il paesaggio di stampo dolomitico, con una serie di cime che culminano nella vetta del Sass de Mura (2.550 m). L’ultima fatica della giornata ci vede ansimare sul ripido pendio che porta alla sella del Col dei Béc (1.960 m), dopo 78


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ALTAVIA DOLOMITI BELLUNESI

Da Forno di Zòldo a Feltre

Cencenighe Agordino

attraverso il Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Punto di partenza della traversata

P.so Valles

è il passo Croce d’Àune (1.015 m) a 15 km da Feltre. Tappe e pernottamenti si possono organizzare in base al tempo a disposizione e ai propri interessi.

Gares

Pale di

Col di Prà

Cimon della Pala 3184

Con una media di 6-7 ore al giorno sono necessari 7 giorni di cammino,

C. di Fradusta 2939

per i dislivelli. L'equipaggiamento per escursioni di più giorni in

Lago di Val Noana

Informazioni dettagliate possono essere consultate

La Muda

Rif. Bianchet

Forcella Franche

Schiara 2565 Monte Tiron 2000

del Sole Lago del Mis

Camping Pian Falcina

Mas

M. Pizzocco P.so 2186 Finestra L. della Stua

M. San Mauro 1836 Rif. Dal Piaz

S. Gregorio nelle Alpi

Sedico

Cesiomaggiore

sul sito in allestimento www.

S.ta Giustina

altaviadolomitibellunesi.it

BELLUNO

Sospirolo

Cima Dodici 2264 M. Pavione 2335

Rif. Pian de Fontana

Piz di Mezzodì 2240 Monti

C.ra Erera

Pas de Mura

Rif. Boz

Sasso Scarnia 2226

piuma leggero, per gli altri rifugi basta il sacco lenzuolo.

Sass de Mura 2547

Mezzano

a Casèra Erèra portare un sacco

Aurine

Piz di Sagron 2486 C.ra Camporotondo

Fiera di Primiero

montagna. Per il pernottamento

Forcella

California

Mis

è quello normalmente utilizzato

M. Talvena 2542

Ostello Valle Imperina

buone capacità escursionistiche per la lunghezza delle tappe che

Rif. Pramperet

Voltago Agordino

Croda Grande 2849

e un discreto allenamento, sia

M.ga Pramper

Agordo

M. Agner 2872

S. Martino S. Martino di Castrozza

Listolade

Taibon Agordino

P.so Rolle

Forno di Zoldo

Moiazza Sud 2878

M. S. Lucano 2409

M. Mulaz 2906

è Forno di Zòldo (848 m) a 17,5 km da Longarone, punto di arrivo

Moiazza Nord 2865

P.so Croce d’Aune

Itinerario

Norcen

M. Avena 1454 Pedavena

Trichiana

Lentiai

Foen FELTRE

Villapiana

Variante Nord Variante Sud

PRIMA TAPPA

SECONDA TAPPA (VARIANTE NORD)

TERZA TAPPA (VARIANTE NORD)

QUARTA TAPPA

Pian de la Fòpa (1.210 m), rifugio

Rifugio Pian de Fontana (1.632 m),

Val Impérina (543 m), forcella

Casèra Erèra (1.708 m), forcella

Pramperét (1.857 m), rifugio

rifugio Furio Bianchét (1.245 m),

Franche (990 m), California (650 m),

dell'Om (1.946 m), rifugio Bruno

Pian de Fontana (1.632 m)

Val Cordévole (449 m), La Muda

Casèra Erèra (1.708 m)

Bòz (1.718 m)

7 h / 1.200 m in salita, 780 m in

(480 m), Val Impérina (543 m)

8 h / 1.750 m in salita, 600 m in

7 h / 900 m in salita, 880 m in

discesa / 11,5 km

7 h / 800 m in salita, 1.600 m in discesa

discesa / 22 km

discesa / 10.8 km

difficoltà: E / Alta Via delle

/ 27 km

difficoltà: E / strade e sentieri di

difficoltà: EE / facili tratti/ EEA

Dolomiti n. 1

difficoltà: E / Alta Via delle Dolomiti

fondovalle, segnavia CAI 802

attrezzati con corde metalliche, scarso orientamento in caso di

n. 1, strade e sentieri di fondovalle

nebbia, segnavia CAI 802-851-801,

Il trekking viene solitamente percorso in sette giorni, noi siamo andati un po' più veloci chiudendolo in sei tappe

SECONDA TAPPA (VARIANTE SUD)

TERZA TAPPA (VARIANTE SUD)

Si suggerisce di dormire al Rif. Bianchet

Campeggio Lago del Mis (435 m),

e precedentemente al Rif. Pramperet.

California (650 m), Casèra Erèra

rifugio Furio Bianchét (1.245 m),

(1.708 m), Campeggio Pian Falcina

Val Cordévole (449 m), Candàten (419 m),

al Lago del Mis

Regolanova (359 m), Campeggio Lago del

7-8 h / 1.825 m in salita, 550 m in

Mis (435 m)

discesa / 19 km

7 h / 800 m in salita, 1.600 m in discesa

difficoltà: E / strade e sentieri di

/ 27 km

fondovalle, segnavia CAI 802

difficoltà: E / Alta Via delle Dolomiti n. 1, strade e sentieri di fondovalle

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Alta Via delle Dolomiti n. 2


a piedi

Il nostro outfit Per una traversata di 6-7 giorni nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, in previsione di camminare su ogni tipo di terreno tra i 400 e i 2.500 metri di quota, l’attrezzatura e l’abbigliamento non sono dei dettagli secondari. Matteo, Gioia e Ilaria hanno utilizzato abbigliamento, zaini, bastoncini Ferrino e calzature AKU Tengu Low GTX, ottime per comfort di calzata ed efficienza biodinamica, grazie alla tecnologia AKU Elica Natural Stride System.

Marakele Jacket È un secondo strato con tessuto termico a costruzione grid interna che garantisce un ottimo equilibrio tra calore e traspirazione. Composizione: Poliestere 93% - Elastane 7% bi-stretch.

Hervey Short Pantalone corto (lunghezza a mezza coscia) da escursionismo in tessuto stretch dal taglio ergonomico. Cintura con fibbia a sgancio rapido inclusa. È disponibile anche nella versione femminile.

Dry Hike 32 Zaino completamente impermeabile grazie alla tecnologia Outdry. È realizzato in un tessuto la cui membrana in poliuretano, accoppiata a un’anima in poliammide, sostiene la pressione di una colonna d’acqua di 10.000 mm. Il sistema D.N.S sullo schienale permette una valida traspirazione. Pesa 1,75 kg.

QUINTA TAPPA

SESTA TAPPA

Rifugio Bruno Bòz (1.718 m),

Rifugio Giorgio Dal Piàz (1.993

Finisterre 30 Lady

rifugio Giorgio Dal Piàz

m), passo Croce d’Àune (1.015 m)

(1.993 m)

2 h / 978 m in discesa / 8.5 km

7 h / 880 m in salita, 640 m in

difficoltà: E / Alta Via delle

discesa / 13.2 km

Dolomiti n. 2

Grande classico della linea trekking, è caratterizzato da spallacci e giro vita con imbottitura differenziata conformata alla silhouette femminile, così come la curvatura ergonomica dello schienale. Il sistema di areazione del dorso D.N.S garantisce una perfetta ventilazione. Disponibile anche nella versione 40 (donna) e 28, 38 e 48 litri.

difficoltà: EE / facili tratti attrezzati con corde metalliche, scarso orientamento in caso di nebbia, Alta Via delle Dolomiti n. 2

Il progetto Altavia Dolomiti Bellunesi sta prendendo vita grazie al contributo di AKU, Ferrino e Karpos che stanno condividendo la filosofia di vivere e camminare in montagna responsabilmente

Svalbard 3.0 Tenda 4 stagioni sviluppata per la prima volta nel 1987, ha struttura double cross e si monta e smonta con grande facilità anche grazie all’accorgimento di colorare in modo differente le palerie in duralluminio. Telo esterno in poliestere Ripstop 70D 85 g/m2 con spalmatura poliuretanica alluminata termoisolante, interno in poliestere Ripstop 70D 55 g/m2 idrorepellente e traspirante. Tiranti riflettenti e pratica abside di fronte alle due entrate. Pesa 4,15 kg.


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a piedi

T E R M I N I L L O S T O R I A

D I

U N ' E VA S I O N E

P O S S I B I L E

Con i mezzi pubblici dal cuore di Roma al Monte Elefante. Con il piacere di cambiare sentiero all’ultimo minuto. E di perdersi a Micigliano, 130 abitanti testo di ENRICO FIORDIPONTI - foto di LUCA PARISSE/RISK4SPORT

l'11 giugno 1962. Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin sono in una cella di 2x3; l'aria è irrespirabile, fa un caldo che si muore, l'unico panorama è costituito da pareti di cemento. Dopo mesi di preparazione riescono ad evadere dalla prigione di massima sicurezza di Alcatraz, per andare a conquistare i loro prati sconfinati e le loro vette di libertà.

smo, quell’adrenalina e quella voglia di salire, si stanno trasformando in qualcosa di diverso. L'essere arrivati così in alto con l'autobus e avere solo poco più di 600 metri di dislivello per raggiungere la vetta ci sembra scorretto nei confronti della Montagna. Non solo: una sensazione strana s’impadronisce di noi, come se ci stessimo perdendo qualcosa, ma non sappiamo cosa. Così, a un passo dalla gioia, quando ormai è quasi fatta, decidiamo di cambiare piano. Qualcosa mi dice che è la scelta giusta. Ci guardiamo attorno e subito ci balza agli occhi una profonda e boscosa gola, la cui fine non la si riesce a vedere. Apriamo la cartina, c'è un sentiero, il 406 - Sentiero Italia che, scendendo repentinamente di quota, s’incunea nella forra: è quello che fa per noi. Scendiamo per poi risalire. La montagna ce la vogliamo conquistare come si deve… vero ragazzi?

È

15 luglio 2017, Roma, quattro amici in un bar bollente; l'aria è irrespirabile, fa un caldo che si muore, l'unico panorama il viale trafficato di fronte alla stazione. Possiamo riuscire ad evadere, senza mesi di preparazione, con un piano ben preciso, una buona squadra e una meta facilmente raggiungibile. Il piano: Roma Tiburtina ore cinque e cinquantacinque, autobus Roma-Rieti. Se tutto procede, dovremmo arrivare alle sette e trenta alla stazione Morrone di Rieti. Ore sette e cinquantacinque, autobus Rieti-Pian de' Valli (piccolo paese alla base del Terminillo, posto a circa 1.600 metri di quota). Da li è fatta, arriveremo sul Terminillo, la nostra vetta di libertà! La squadra non è un problema: noi gli irriducibili e imprescindibili compagni di avventure, Ema, Lori, Vittoria e io. Sembrava impossibile e invece siamo evasi dal caos della città.

UN'ARTE QUASI DIMENTICATA I faggi a inizio sentiero, maestosi guardiani dell'ingresso della vallata, ci distraggono dalla presenza, inaspettata, di un gregge di pecore ferme a riposarsi all'ombra degli alberi, mimetizzate con i massi calcarei venuti giù nel corso del tempo dal sovrastante Terminillo. I cani pastore a guardia del gregge, momentaneamente gli unici gestori dell'attività, subito vengono verso di noi per capire chi siamo e cosa vogliamo, ma appurato che non siamo una minaccia per loro, cercano di riscuotere qualche carezza, quasi come un pedaggio per il lasciapassare. Nel primo tratto di sentiero corriamo, poi il percorso arriva a quello che è l'alveo del torrente, per fortuna in secca, e ci costringe a fermarci; solo ora ci rendiamo conto di essere scesi così tanto e di essere arrivati in quella selva impenetrabile che vedevamo dall'alto. In effetti, a eccezione del torrente e del sentiero che scende a mezza costa, attraversandolo a destra o a sinistra, tutto intorno c’è una fitta foresta di faggi, aceri

Ore nove, Pian de' Valli, Terminillo, inizia la nostra fuga. Dalla fermata dell'autobus all'imbocco del sentiero che ci porterà in cima, il 401, a Campoforogna, ci sono qualche centinaio di metri di strada asfaltata, lievemente in salita, ottimi per rompere il ghiaccio. Il passo è buono, lo zaino leggero. Fa molto caldo, è una delle estati più calde di sempre. Per fortuna una fresca brezza ha deciso di accompagnarci fin da subito. Dopo pochi minuti di strada arriviamo là dove inizia la felicità, all'imbocco del sentiero. Ma qualcosa è cambiato. Quell'entusia-

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a piedi

e castagni. Foresta un tempo tagliata dai boscaioli e ancor prima dai carbonai. Strane figure i carbonai, uomini che dai villaggi partivano per le foreste rimanendovi anche mesi per produrre quello che è stato per centinaia di anni l'oro nero dell'Appennino, che forniva calore ed energia alle città: il carbone di legna. Un lavoro duro, anzi, un'arte che veniva appresa con l'esperienza fin da bambini. Le cose da sapere e da saper fare erano tante: gestire il taglio del bosco in modo da ottenere pezzature di legno della stessa dimensione per favorire un uguale combustione in tutti i pezzi; individuare e costruire l'aia carbonile, un'area piana dai tre ai sei metri di raggio dove veniva costruito il cono della carbonaia con migliaia di pezzi di legno simili fra di loro; infine costruire la carbonaia trovando la giusta collocazione a ogni singolo pezzo di legno. Una preparazione che durava giorni e che veniva realizzata da più persone sincronizzate nei movimenti e nella progettazione mentale dell'opera che si concludeva nella copertura del cono con materiale vario: muschio, terra, paglia, foglie. E poi... il far bruciare senza bruciare, una tecnica che affonda le sue origini nella storia secolare dell'Appennino e non solo, che consiste nella combustione senza fiamma: la carbonizzazione del legno. Ma perché fare tanta fatica nel produrre il carbone, quando si sarebbe potuto portare giù la legna? La questione è proprio nel peso. Il carbone è più leggero poiché con la carbonizzazione gran parte dell'acqua se n'è andata. Un'arte quasi dimenticata ma che rimane viva grazie alle rievocazio-

NELLE FOTO \\ Un momento di svago al rifugio Sebastiani, in compagnia del cane pastore, l'autobus che collega la montagna con la stazione di Rieti, gli ombrosi boschi un tempo frequentati dai carbonai (dall'alto in senso orario). Sulle creste del gruppo del Terminillo (a destra) e nelle caratteristiche vie di Micigliano (ultima pagina)

ni che vengono fatte e alle poche persone che continuano a praticare questo raro lavoro. Questa fitta foresta, china sul sentiero a formare una volta arborea, lascia ogni tanto intravedere le anticime erbose di Monte Rotondo (1.810 metri) e di Monte Valloni (2.004 metri) che sono sostenute da imponenti contrafforti calcarei che arrivano a essere alti anche qualche decina di metri. Ogni pochi passi non si può fare a meno di alzare la testa e di ammirare l'imponenza dei versanti che, trattenuti dagli alberi, precipitano verso il fondo della vallata. Il sentiero poi ci porta fuori dalla gola fino a una strada sterrata. Nel caso in cui ci si dovesse smarrire all'interno della vallata, poco male, basta seguire il torrente che, superata una piccola briglia, attraversa la nostra strada. Non passa molto tempo che uno spettacolo si apre a noi: un piccolo borgo abbarbicato su di un colle sovrastato dalla presenza del Monte Giano (1.820 m). Ma dove siamo?

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MICIGLIANO Con aria incuriosita ci addentriamo nel paese: un piccolo comune di circa 130 abitanti a quota 925 metri. Una bellezza inaspettata, fatta di vie e viuzze che si snodano, quasi a sfuggire dalla strada principale, fra le case di antica costruzione, le quali ogni tanto lasciano intravedere, con curiosità crescente, qualche scorcio di un immenso panorama. Un borgo la cui storia risale alla metà del decimo secolo, quando ancora non era che un piccolo villaggio del feudo dell'Abbazia di San Quirico e Giulitta, situata nella sottostante valle, dove scorre il veloce Fiume Velino. Villaggio che già nel XIV secolo era fortificato, come lo sono d'altronde la maggior parte dei paesi appenninici, al cui interno era stata edificata una chiesa parrocchiale (di San Biagio), situata nel punto più alto del colle su cui si erge l'abitato di Micigliano, che si fa notare anche da molto lontano. Continuiamo a esplorare. Scendendo e salendo per le ripide vie del paese, seguiti dagli sguardi e dai saluti amichevoli degli abitanti, ci chiediamo incuriositi come potesse presentarsi Micigliano nel periodo medievale, quali personaggi storici avessero camminato dove stiamo camminando noi, o più semplicemente, quante persone, con le loro fatiche, con i pensieri ed emozioni di ogni giorno, avessero vissuto e lavorato in questi luoghi. In risposta alle nostre domande, quasi per caso, troviamo il Museo Civico delle Arti e Tradizioni Popolari di Micigliano. Purtroppo è chiuso. Chiediamo allora a un signore, Emiliano - che scopriamo essere, solo

dopo, il sindaco - le ragioni della chiusura. Il sisma dell'Aquila del 2009 ne ha indebolito la struttura e l’agibilità è stata definitivamente compromessa dagli ultimi terremoti di Amatrice e di Norcia tra agosto e ottobre del 2016. Emiliano ci spiega che il museo riaprirà, perché è di fondamentale importanza mantenere vive le arti e soprattutto le tradizioni di un luogo, che ne rappresentano l'identità. Al piano superiore della struttura verrà realizzato un piccolo ostello per gli escursionisti o per chiunque voglia fare tappa a Micigliano e sarà risistemato anche il sentiero di collegamento con l'Abbazia di San Quirico e Giulitta, in cui si potranno assaggiare i prodotti tipici della zona. Sarà un sentiero affascinante che scenderà di fianco al Fosso di Micigliano che con i suoi salti di roccia crea delle interessanti cascatelle. Ma ancora più interessante è la presenza di un mulino storico, reso nuovamente funzionante dalla collaborazione del comune con i giovani della cooperativa Ri-scossa, che stanno così cercando di crearsi un futuro lavorativo e non abbandonare il loro piccolo paese. SUL MONTE ELEFANTE Che bella scoperta che è stata Micigliano. Ma ora dobbiamo proprio ripartire, si è fatto abbastanza tardi. Bisogna risalire, per questo scegliamo di prendere la sterrata su cui passa il sentiero 438 che porta al rifugio Sebastiani. La strada attraversa piccoli orticelli e grandi pascoli,

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a piedi MONTE ELEFANTE - TERMINILLO COME ARRIVARE IN AUTO Da Roma: uscita Fiano Romano autostrada A1 - S.S. 4 Salaria fino a Rieti - strada n. 4 bis seguendo le indicazioni per il Terminillo. Da L'Aquila: S.S.17/bis fino a Rieti - strada n. 4 bis seguendo le indicazioni per il Terminillo. Da Terni: Terni-Reopasto - superstrada per Rieti - strada n.4 bis seguendo le indicazioni per il Terminillo. COME ARRIVARE CON I MEZZI PUBBLICI Da Roma: Stazione Tiburtina, autobus Roma- Rieti (stazione Morrone) poi autobus Stazione Morrone-Pian de' Valli (www.cotralspa.it). Da Terni: treno Terni-Rieti (www.trenitalia.com) poi autobus Stazione Morrone-Pian de' Valli (www.cotralspa.it). Da L'Aquila: treno L'Aquila-Rieti o in alternativa autobus (www.autolinee.baltour.it), poi autobus Stazione MorronePian de' Valli (www.cotralspa.it).

da cui le vacche e poi le pecore ci osservano incuriosite, muovendo sincronizzate la testa al nostro passaggio. Poi s’inizia a salire, con ampi tornanti, sempre di più e la foresta prende il posto dei pascoli. Al tredicesimo tornante lasciamo la sterrata, per continuare sul sentiero 438, ben individuabile anche grazie a un omino che ne indica l'accesso. Si potrebbe proseguire sulla sterrata per arrivare ugualmente al rifugio Sebastiani, alternativa valida in caso di maltempo o difficoltà di vario genere. La traccia del sentiero, che inizialmente è ben visibile e percorribile nel tratto in cui passa dalla piccola foresta, si perde all'inizio dei grandi prati che ricoprono i ripidi pendii del Monte Ritornello che, insieme al Brecciaro, costituisce la cresta sommitale che culmina col Monte Elefante (2.015 m). Un po' a intuito, un po' grazie all'aiuto degli omini, arriviamo in vetta. Il panorama è immenso: le grandi pareti del Terminillo dritte davanti a noi, l'anfiteatro naturale che il Monte Elefante crea con le sue creste da una parte e dall'altra. I nomi delle varie località sono molto rassicuranti: Malepasso, Valle dell'Inferno, Anime Sante, giusto per nominarne alcune. Ma ciò che più ci ha colpiti è l'inaspettato versante Nord dell'Elefante: una bella e ripida cresta molto esposta, che dalla forcella fra l'Elefante e Il Brecciaro sale, ma sale forte, fino ai 2.015 metri. Da non fare se dovesse tirare vento forte o in caso di maltempo. In alternativa dalla forcella continua il sentiero, ben segnato (da qui in poi non più 438 ma 433) che conduce direttamente al rifugio Sebastiani. La cresta va affrontata con passo sicuro e senza esitazione da escursionisti esperti. I punti esposti sono molti, ma infine eccoci sulla cima. La soddisfazione ci pervade e un ampio panorama permette di ammirare praticamente tutto l'Appennino Centrale: dai Sibillini, ai Monti della Laga, fino al Corno Grande del massiccio del Gran Sasso e, per finire, la bellissima Majella. Sotto di noi riusciamo a vedere anche Micigliano. È tardi, ma continuiamo a contemplare tanta bellezza. Alla fine, sulla cima del Terminillo non ci siamo arrivati. Abbiamo proprio stravolto il piano iniziale. Per fortuna direi; perché finalmente abbiamo la risposta a cosa ci stavamo per perdere: la montagna stessa, con i suoi angoli più nascosti e le creste più inaspettate ma, soprattutto, ci saremmo persi i segni dell'incontro fra uomo e montagna. Un rapporto da cui sono nate storie, tradizioni e culture che danno identità a questi luoghi. Arriviamo al Sebastiani, dove finalmente ci sediamo e mangiamo. Evadere dal tram tram quotidiano in fondo è stato facile. Ma la cosa più interessante e inimmaginabile è che abbiamo scoperto e conquistato, a due passi da casa, un luogo magico che sembra fatto apposta per rigenerarci e ricaricare le batterie, per affrontare al meglio il futuro che ci aspetta.

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RIFUGI Rifugio Sebastiani: raggiungibile anche in auto, è il punto di partenza di quasi tutti i sentieri. Per info: Marco Valeri, tel. 0746 261184 - www.cairieti.it Rifugio Rinaldi: è situato sul Monte Terminilletto, a 2.105 metri, si raggiunge col sentiero 401. Per info: Pietro Ratti, tel. 328 6786518 - 0746 202552 www.cairieti.it Cartografia: Carta Escursionistica CAI - Alta Valle del Velino scala 1:25.000 Lunghezza itinerario: circa 20 km Quota minima: 910 m Quota massima: 2.015 m Dislivello positivo: 1.720 m Dislivello negativo: 1.640 m Tempo di percorrenza: da 4 a 7 ore.

Per comodità, se si è in auto, la si può lasciare al Rifugio Sebastiani; da bisogna tornare indietro per un chilometro circa sulla strada asfaltata, fino ad arrivare a una strada sterrata sulla sinistra. Per riconoscerla, basti sapere che sulla destra si trova una grande piazzola sterrata. Il sentiero da seguire è il 406 Sentiero Italia, traccia nel bosco che, dopo 8 chilometri circa, si immette su una strada sterrata, dove si prosegue sulla sinistra. Nota: il sentiero boschivo è in una valle molto florida e la vegetazione può andare a coprire i segnavia, occorre prestare attenzione. Se si dovesse smarrire il sentiero si può tranquillamente proseguire camminando sul letto del torrente che attraversa poi la strada sterrata e la direzione da prendere è alla sinistra del torrente. La strada sterrata va poi a incrociandosi con una strada asfaltata che sulla destra conduce a Micigliano e sulla sinistra diventa il sentiero 438. Il 438 è dapprima una strada asfaltata, diventa poi una sterrata e in fine, dopo 7 tornati, diventa un sentiero boschivo che porta sul Monte Ritornello (1.874 m) e poi sul Monte Il Brecciaro (1.954 m) Da qui si può decidere se proseguire sulla cresta un po' esposta arrivando su Monte Elefante (2.015 m), oppure, se ha piovuto o le condizioni meteo in generale non consentono di affrontare la cresta, se scendere per il sentiero 433, nella valle di Pratorecchia, proseguendo fino al Rifugio Sebastiani.



SOGNA IN GRANDE E O SA FA L L I R E . ALLA RICERCA DI INCOGNITE IN

P E R Ù Diecimila chilometri per scoprire che il sogno grande che avevi in testa non sarà minimamente realizzabile testo e foto di FEDERICO RAVASSARD

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ercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti». Questo era l’annuncio utilizzato da Sir Ernest Shackleton per reclutare uomini che lo accompagnassero nella sua spedizione a bordo del veliero Endurance, con l’obiettivo di compiere la prima traversata del continente Antartico. Com’è poi finita lo si sa, con una delle più grandi storie di resilienza ed esplorazione della storia del ‘900. In una chiave aggiornata al 2018, anche il mio viaggio in Perù è cominciato in modo abbastanza spregiudicato. Una foto di una montagna inviata in chat su Instagram a metà febbraio, corredata da poche righe: «Ho una proposta indecente da farti. Dal 20 maggio al 20 giugno. Io, te, Dadde e Zeno*. Dritti dalla cima. Mai sciata. Pensaci».

«C

Detto, fatto. Dopo un inverno stellare e una primavera mediocre sulle Alpi ci siamo dati appuntamento a metà maggio all’aeroporto di Amsterdam, dove io sono arrivato da Torino ed Enrico e Davide da Venezia. Una Guida alpina, un fotografo e un maestro di sci. Roba che neanche le spedizioni militari degli anni ’50 erano così ben assortite. Da lì ci siamo poi imbarcati sullo stesso volo per Lima, con poche idee in testa ma abbastanza chiare: sciare l’Ausengate, una cima semi-sconosciuta di 6.384 metri a sud di Cusco. Come documentazione di supporto avevamo qualche foto, le immagini prese dal satellite e il video vecchio di dieci anni degli unici altri due scialpinisti che avevano battuto quella zona prima di noi, niente meno che Rémy Lécluse e Glen Plake. Insomma, non potevo di certo dire di avere basi solide sulle quali intraprendere la mia prima spedizione a diecimila chilometri da casa.

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NELLE FOTO \\ Le pareti s'innalzano dritte come fusi dalle morene e dai ghiacciai (a sinistra). A Tinqui le donne peruviane passano accanto ai nostri sci senza neanche degnarli di uno sguardo, mentre gli arrieros sono pronti a trasportare i bagagli in quota (in questa pagina)

A Cusco ci siamo arrivati dopo venti ore di pullman, COME DOCUMENTAZIONE DI SUPPORTO AVEVAMO cose che succedono quando hai voglia di viaggiare QUALCHE FOTO, LE IMMAGINI PRESE DAL SATELLITE E ma pochi soldi in tasca. Ricordo che ad un certo punto, nella notte, mi sono svegliato con il volto pallido e IL VIDEO VECCHIO DI DIECI ANNI DEGLI UNICI ALTRI DUE la pressione sotto i piedi. Chiedendomi perché stessi così male, ho rivolto un’occhiata distratta all’altimeSCIALPINISTI CHE AVEVANO BATTUTO QUELLA ZONA PRIMA tro, mentre sullo schermo del sedile scorreva uno di DI NOI, NIENTE MENO CHE RÉMY LÉCLUSE E GLEN PLAKE quei film della Marvel che ci si guarda solo per non impegnare la testa. Sentire esclamare in spagnolo «Soy Thor, hijo de Odino!» è un’esperienza che raccomando a tutti, davvero. Porca vacca, eravamo su un bus turistico a 4.400 metri, neanche dodici ore dopo essere partiti dalla costa di Lima: in effetti era comprensibile accusare un po’ la quota. Alla stazione le facce stupite dei tassisti alla vista delle sacche con gli sci non facevano che confermare quanto romantica e stupida fosse la nostra idea di voler sciare sulle montagne della Cordillera Vilcanota, così come lo sconcerto degli altri ospiti in ostello a vederci trascinare cinquanta chili di materiale a testa su per le scale, ansimanti a causa dell’aria rarefatta (già, Cusco si trova a 3.400 metri, la quota di Punta Helbronner, tanto per intenderci). L’effetto che facevamo era più o meno quello che farebbe un predicatore di strada: tanto scompiglio per dare credito a delle idee che solo lui comprende fino in fondo. I giorni in città passano lentamente, in uno stato di attesa. Sappiamo che questa città in mezzo alle

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montagne è, per il momento, solo un porto in cui fermarsi, fare provviste e poi ripartire. Diventiamo frequentatori abituali del Mercado Central de San Pedro dove, oltre a comprare i sacchi di riso e quinoa con i quali ci sfameremo per due settimane, andiamo a pranzare in mezzo agli operai peruviani per circa un euro e cinquanta a pasto. Dopo l’ultima spesa - e un sacco di quesiti irrisolti, tipo se le scorte di gas e carta igienica saranno sufficienti - una mattina ci dirigiamo alla stazione del pullman che ci porterà a Tinqui, e da lì, via, a piedi verso l’Ausengate. Tre ore e poco più sono sufficienti per coprire 90 km di terrore puro, mentre l’autista si diverte a sorpassare i camion all’esterno curva. Il nastro di asfalto si srotola attraverso colline che sfiorano i quattromila metri, il giallo del terreno brullo contrasta con l’azzurro del cielo e il bianco perfetto delle nuvole che lo riempiono. Sono pazzesche le nuvole in Perù, la mano che le ha create potrebbe essere la stessa che ha fotografato anche lo sfondo di Windows XP. L’arrivo a Tinqui ha un che di cinematografico: le porte si aprono e noi ci ritroviamo a bordo strada, spaesati, circondati da vecchie peruviane con gli abiti locali che passano oltre i nostri sci buttati sull’asfalto senza degnarli di un’occhiata. E ora? Siamo spaesati, ora in teoria toccherebbe fare sul serio. Un flash nella testa mi distoglie da quei pensieri. Merda, il pile! Era sul sedile accanto al mio in pullman. Lo recupero mezz’ora dopo, aspettando il pullman che nel frattempo è arrivato al capolinea e ha ripercorso la tratta a ritroso. Nel frattempo Mose e Dadde hanno casualmente preso contatto con un ragazzo che lavora per la neonata Asociacìon de Arriero al Guia de Alta Montanã, fondata pochi anni fa da un gruppo di Guide alpine svizzere con l’idea di formare la popolazione locale a lavorare in montagna con i turisti. Gli arrieros sono i mandriani che con i loro cavalli si occupano di trasportare i bagagli dei (pochi) trekker che girano queste montagne, decisamente meno frequentate rispetto alla più famosa Cordillera Blanca, nel nord del Perù. Sono bassi, forti e temprati dal sole, in pratica l’equivalente andino degli sherpa himalayani. Iniziamo a trattare un prezzo mentre, stesa ai nostri piedi, nel piccolo cortile della casa in cui vivono e ospitano i clienti, c’è l’unica cartina che siamo riusciti a recuperare. Poco più che uno schizzo disegnato a mano, con qualche curva di livello e i nomi di alcune cime: sembra più una mappa del tesoro che una carta topografica. Volevamo l’avventura, l’esplorare ghiacciai sconosciuti, ed eccoci accontentati. Camminiamo per tre giorni, mentre il paesaggio intorno a noi evolve lentamente. Lui, il Nevado Ausengate, è sempre lì sopra le nostre teste, ma per arrivare al nostro versante dobbiamo girargli attorno un pezzo alla volta. La strada si fa sempre più selvaggia, dopo i primi chilometri su una sterrata polverosa iniziamo a salire di quota mentre l’erba fa spazio alla ghiaia. Incontriamo pochissimi stranieri, soprattutto turisti venuti qui per il trekking. Alla vista dei nostri cavalli e degli sci che trasportano non fanno a meno di sorridere, meravigliati e incuriositi dal fatto che tre gringos abbiano l’intenzione di scendere da quei pendii che li sovrastano. Fanno impressione, le Ande. Le pareti si innalzano dritte come fusi dalle morene e dai ghiacciai, muri prepotentemente verticali e tormentati da seracchi imponenti. Avete presente la storia secondo la quale la neve non attacca oltre i 60 gradi? Ecco, qui non sembra andare proprio così. L’imponente

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NELLE FOTO \\ Poco sci e poco dislivello, ma il panorama ripaga dallo sforzo (foto grande). Ordinari momenti di vita da esploratori nella Cordillera Vilcanota (foto piccole)

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NELLE FOTO \\ Il bianco della neve, il rosso delle montagne detritiche e l'azzurro del cielo dominano il panorama, in vetta e al campo base

IN SILENZIO MANDIAMO GIÙ IL BOCCONE. LA SUD DELL’AUSENGATE È INSCIABILE. UNA POSSIBILE VIA DI DISCESA È DI FATTO UNA SERACCATA DI MILLE METRI, CHE TERMINA IN UN COLATOIO DI ROCCIA E DETRITI.

parete Nord ci tiene compagnia per i primi due giorni, spaventosamente ripida. Rémy Lecluse e Glen Plake l’avevano salita, ma senza sciarla. Noi ce la lasciamo alle spalle e, al terzo giorno, arriviamo alla morena della parete sud, quella che dovrebbe essere il nostro obiettivo. Non si vede ancora del tutto, però. Scarichiamo, non con un certo dispiacere, i cavalli del loro peso che d’ora in poi toccherà a noi trasportare, diamo appuntamento agli arriero due settimane dopo e cominciamo a montare la tenda a 4.809 metri. Bene, da ora sono affari nostri. Abbiamo una cartina disegnata a mano, qualche foto dal satellite e nulla di più. Siamo così stupidi e sognatori (casualmente le due cose spesso vanno a braccetto) che nell’era di internet, del sapere le condizioni sulle Alpi in qualsiasi momento e delle soffiate via WhatsApp che siamo riusciti a finire su delle montagne di cui oltre al nome si sa poco o niente. Lo scarso acclimamento si fa sentire e anche solo camminare in salita fa lievitare i battiti. Aspettando una forma migliore, giriamo per la morena cercando un buon punto di vista sulla parete, fino a trovarlo a due ore dal campo base. In silenzio mandiamo giù il boccone. La sud dell’Ausengate è insciabile. Una possibile via di discesa è di fatto una seraccata di mille metri, che termina in un colatoio di roccia e detriti. L’altra, invece, è per metà buona, mentre metà luccica per il ghiaccio azzurro che la ricopre. Diecimila chilometri in aereo, ventiquattro ore di pullman e tre giorni a piedi solo per constatare che il sogno grande che avevamo in testa non sarà minimamente realizzabile. A ben pensarci, è difficile trovare condizioni da urlo sulle Alpi, figuriamoci qua.

Sciamo ridendo dal nostro Nevado-senza-nome, alla fine curvare sulla neve è sempre una figata. Nei giorni successivi ci riproviamo: magari potrebbe saltare fuori qualcosa di bello sul Nevado Mariposa, dirimpettaio dell’Ausengate. La parete Nord si alza di 600 metri dal ghiacciaio, sormontata da una seraccata che sembra essere abbastanza tranquilla. Ripetiamo lo strazio della morena e siamo di nuovo, dopo una gelida notte, schiacciati nella tendina a 5.100 metri. Iniziamo a salire, lenti e costanti, fino al punto dove, con un traverso, ci si dovrebbe collegare al pendio superiore. I ramponi iniziano a mordere il manto sempre più duro, fino a che, in pochi metri, questo lascia spazio a un ghiaccio granitoso coperto da dieci centimetri di neve inconsistente. Sopra di noi un seracco sembra suggerirci di prendere una decisione in fretta. In quel momento, il classico momento del magari-salgo-ancora-un-pezzo-e-vedo, tornano a galla pensieri che sembravamo esserci messi tutti alle spalle. Ricordi di persone che non ci sono più, uniti alla consapevolezza che quaggiù non si può contare su di aiuto esterno in caso di problemi. Scheletri nell’ar-

Ormai siamo scesi sulla pista da ballo, quindi tanto vale provare a ballare. Nei giorni seguenti saliamo sul ghiacciaio per sciare una cima secondaria, chiaramente senza nome. Ci trasciniamo penosamente su per la morena con zaini giganti e il necessario per montare una seconda tenda che fungerà da campo base avanzato, da cui partiamo il mattino seguente con gli sci finalmente nei piedi. Qualcuno potrebbe anche ridere, ma l’aria sopra i 5.000 metri non ti è amica per nulla. Se aumenti per un attimo il passo la testa scoppia e devi rassegnarti a salire di una trentina di passi alla volta. La vista, però, è incredibile. Il bianco della neve, il rosso delle montagne detritiche e l’azzurro del cielo. Nient’altro, solo questi tre colori che si intervallano con degli stacchi nettissimi.

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madio, peso delle responsabilità e paranoie che si accumulano fino a farci rinunciare. Certe cose ti rimangono dentro per sempre, e da te stesso non puoi mica scappare. Scaviamo una piazzola e dopo alcuni metri di derapata iniziamo a inanellare curve saltate, senza nessun sorriso, questa volta. Quando torni indietro ti rimane quasi sempre il dubbio di come sarebbe stato continuare. Magari sarebbe stato bellissimo, o magari saresti morto. Smontiamo il campo base avanzato e scendiamo la morena taciturni e scazzati. Allo stesso tempo, però, c’è una piccola cosa di cui siamo consapevoli: il fatto di averci provato lo stesso, di essere partiti dall’Italia senza alcuna certezza e nonostante questi preamboli aver voluto sognare in grande e fallire. Nei giorni successivi capisco di cosa è fatto l’alpinismo. Inizia a nevicare e ci chiudiamo nella tenda, senza fare altro che mangiare, leggere e mangiare di nuovo, fino a che, alla prima finestra di bel tempo, chiamiamo gli arriero con il satellitare per fare armi e bagagli e tornare alla civiltà. La prima birra a Pachanta rimarrà una delle più buone che io abbia mai bevuto, probabilmente anche perché è stata la prima volta che ne bevevo una dopo due settimane trascorse in una tenda a quasi cinquemila metri. Ecco, quello che volevo dire è che l’alpinismo è fatto di lunghe attese, di noia e di delusioni, di capelli unti dopo troppi giorni passati dall’ultima doccia e di spaghetti scotti nel Jetboil. Di genitori che aspettano con comprensibile ansia tue notizie e di paure che affiorano proprio quando ti senti figo e invincibile. Insomma, l’alpinismo fa schifo, questo in teoria è quello che avrebbe dovuto insegnarmi la mia prima spedizione. C’è un problema, però. Torni a casa, ti fai una doccia, mangi come una fogna ed ecco che spunta di nuovo la maledetta scimmia, la stessa che si era fatta viva qualche mese fa e che ti sussurra dolcemente «Ehi, scemo, quand’è che si parte?». Guardi il borsone ancora da disfare e con un sorrisetto malcelato sai già che alla scimmiaccia non saprai dire di no e che, tutto sommato, gli spaghetti scotti in una tenda umida e fredda sono un bel modo di concludere una giornata di (tentato) sci. *Purtroppo Zeno ha dovuto rinunciare all’ultimo a causa dei suoi impegni da rifugista, o almeno così ha detto. O magari è stato più furbo di noi e se ne è andato un mese alle Seychelles. Tranquillo Zeno, la prossima volta ci vieni anche tu a congelarti il sedere in tenda con noi, mica ci scappi.

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NELLE FOTO \\ Sopra di noi un seracco sembra suggerirci di prendere una decisione in fretta (in alto). Nonostante la rinuncia all'Ausengate, curvare sulla neve è sempre una figata (sopra)


SIMONE MORO,

Alpinista ed elicotterista di montagna

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Photo credit: H.Barmasse

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sfide

O R T L E S

+

T R E

C I M E

+

G R O S S G L O C K N E R

“FOLLOWING THE FOOTSTEPS OF MEN THAT MORE THAN TWENTY YEARS AGO IMAGINED THE FUTURE OF MOUNTAINEERING IS A CHALLENGE IN ITSELF: WHAT THESE PEOPLE DID IS SIMPLY HARD TO BELIEVE. BUT OUR AIM IS NOT JUST A TRIBUTE, A SORT OF SECOND EDITION: WE WANT TO PUSH OUR LIMITS FURTHER. WE WANT TO BUILD A PEER DIALOGUE WITH OUR PRECURSORS”.

N O R T H 3

Scalare la Nord di tre montagne simboliche raggiungendole in bici e in meno di 48 ore. Ecco l’ultima sfida di Simon Gietl e Vittorio Messini. Vinta. O quasi The Bike and Climb project Simon and Vittorio testo di GIOVANNI SPITALE - foto di DANIELE MOLINERIS, ALEX MOLIG, MATTEO MOCELLIN\STORYTELLER-LABS In 1991 Hans Kammerlander and Hans-Peter Simon, born in 1984, lives in Luttach, in Ahrntal, and Eisendle climbed the north faces of Ortles and Cima is a professional athlete. Vittorio, born in 1988, lives Grande di Lavaredo, covering the distance between in Kals, at the feet of the Grossglockner, and is a the two mountains (246 km) by fair means, with mountain Their lives around the idea GIORNO UNO linea da cui guide. saliranno i due. La revolve massa non è enorme, ma sembra non fiArriviamotheir nel tardo pomeriggio a Solda, sotto all’Ortles. Il tempo è buonire mai. Scende, scende, come un torrente bianco impetuoso e delicato. bikes. In 2018 Simon and Vittorio will chalof discovering, defining and climbing new routes, no. Iniziamo a preparare il materiale mentre Simon e Vittorio stanno Fa impressione. lenge that achievement, adding a third north face, modern and difficult, but with traditional protecancora riposando, in vista dell’impresa che li aspetta. Quando si alzano, Simon e Vittorio continuano a salire, mentre iniziano a cadere le prime the Grossglockner’s, and adding another km bydella gocce tions.diThey like to travelsempre and to più explore andla pioggia si fa più alle 17, cominciamo con calma misurata a ripassare la 117 logistica pioggia. Diventa buio. new A valle loro impresa. È una sensazione strana: tutto è tranquillo, ma non rilasintensa, in parete nevica tantissimo. Stando al tracking bike. This adventure will not only be a celebration of unexpected places, but the Dolomites are still theirdel GPS Simon sato, anzi. A guardare i ragazzi sembra di vedere due gatti acquattati in e Vittorio dovrebbero essere appena oltre il canale, sotto al primo muro a clean and sustainable way to enjoy the mouninspiration and favorite playground. un prato che stanno per saltare come molle. Il tempo inizia a incupir- di ghiaccio verticale. Il puntino luminoso continua a salire, lento ma tains, a dialogue with a page of history: the del inesorabile. Alle 22 sono fermi sotto ad un grosso strapiombo. In parete si poco dopo le 18,nor majust ancora non piove. Saliamo verso la partenza sentiero che li porterà alla base parete, a Solda di La cima la visibilità è praticamente zero, la neve arriva da tutte le direzioni, il entire enterprise willdella be an opportunity toFuori. collect si vede e non si vede, mangiata da nuvole veloci e scure. Alle 19 Simon vento urla. Il puntino sale un po’, qualche decina di metri, poi scende. donations for in Südtirol a charity organization e Vittorio hanno gli zaini spalla, Hilft, il materiale pronto, lo sguardo con- A valle col fiato sospeso ci chiediamo cosa stia succedendo. Il puntino centrato e le cheunder vannoacute da sole. Un paio di foto e partono. È diffi- riprende a salire come prima, lento ma inesorabile. È passata da poco la forgambe people emergency. cile stargli dietro: non corrono, non possono sprecare energie, ma sono davvero leggeri e veloci. Spariscono nel bosco, ricompaiono, spariscono di nuovo. Tornante dopo tornante macinano metri di dislivello. Il tempo si fa più cupo. In quota si alza un vento teso: la parete, carica di seracchi imponenti e maestosi, continua ad apparire e sparire. Sono arrivati alle pietraie che conducono al canale nevoso. Si sente un rimbombo sordo: una nuvola di neve e di ghiaccio scende veloce, appena a sinistra della

NORTHFACE ORTLES 3905 m

210 km

mezzanotte quando i ragazzi mandano una foto dalla vetta. Comincia la discesa, lungo la via normale. Il tempo sta migliorando: da Trafoi, in fondo alla valle sul lato Ovest della montagna, s'intravedono, ogni tanto, delle piccole luci. Simon e Vitto scendono veloci sugli sci, godendosi la stessa polvere fresca che ha funestato così tanto la salita. La luna è appena tramontata e qualche stella inizia ad occhieggiare, mentre il vento si ferma del tutto. Certo, la salita non è stata una passeggiata, ma

NORTHFACE TRE CIME 2999 m

117 km

7300 M (During the project Simon and Vittorio will ascent and descent 7300 m in total)

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NORTHFACE GROSSGLOCKNER 3798 m


sfide

«SEGUIRE LE ORME DI UOMINI CHE PIÙ DI VENT'ANNI FA IMMAGINAVANO IL FUTURO DELL'ALPINISMO È UNA SFIDA IN SÈ: CIÒ CHE QUESTE PERSONE HANNO FATTO È SEMPLICEMENTE DIFFICILE DA CREDERE. MA IL NOSTRO OBIETTIVO NON È SOLO UN TRIBUTO, UNA SORTA DI SECONDA EDIZIONE: VOGLIAMO SPINGERE OLTRE I NOSTRI LIMITI. VOGLIAMO COSTRUIRE UN DIALOGO ALLA PARI CON I NOSTRI PRECURSORI E STABILIRE UN NUOVO PUNTO DI RIFERIMENTO PER L'ALPINISMO IBRIDO DEL FUTURO». Simon Gietl e Vittorio Messini

in fondovalle siamo tutti un po’ invidiosi. C’è un prezzo da pagare per una discesa così, però una sciata del genere alla fine di maggio è una cosa da gran signori. Le luci scompaiono quando i due entrano nel bosco. Dopo circa un’ora si sentono delle voci, appena dietro alla curva. I led improvvisamente vedono i vapori della notte e sbucano Simon e Vitto, allegri, che chiacchierano tra di loro. Gli scarponi rimbombano sul ponte di legno, mentre tutti i presenti applaudono i due ragazzi. C’è una colazione veloce e frugale, giusto il necessario per rimettersi un po’ in forze. Ci sono i massaggi del fisioterapista, per levare fatica dai muscoli. Tempo quaranta minuti e i due sono in sella alle bici: pedalano nel buio fino a Prato allo Stelvio, poi a Spondigna, poi giù per la Val Passiria, nel silenzio rotto solo dal rumore degli irrigatori che annaffiano i frutteti. L’alba arriva a Castelbello, proprio mentre le biciclette sfrecciano sotto al castello arroccato sulla strada. Il cielo è rosa e terso nel momento in cui i primi raggi di sole lo sfiorano. Poco prima delle otto Simon e Vittorio entrano a Bolzano. La città ha appena iniziato a muoversi, c’è ancora poco traffico e poca gente. Fin qui hanno avuto un sacco di discesa: un ottimo modo per riposare un po’ e recuperare qualche energia, in vista dei chilometri e delle pareti che ancora li attendono. Si fermano per un momento in un panificio, in centro: una brioche, un caffè, una spremuta mangiati al volo, una spazzolata al tavolo per levare le briciole e via, di nuovo in sella, prima seguendo il corso dell’Isarco e poi su verso la val Pusteria. Ora la strada è in salita e il sole batte forte: non è decisamente una pedalata di tutto riposo. Ci vogliono parecchie ore di fatica e sudore prima di raggiungere le Tre Cime. Quando arrivano a Dobbiaco il cielo si rannuvola di nuovo, dando un po’ di respiro a Simon e Vittorio. Una goccia, un’altra, poi le cataratte si aprono. Succede spesso in Dolomiti durante l’estate: un acquazzone potente, di quelli che ti inzuppano fino alle ossa, quelli talmente forti che ti pare di essere preso a schiaffi dall’acqua. Simon e Vittorio, stoici, continuano a pedalare, anche se la fatica inizia a farsi sentire. La prossima sosta è al lago di Ledro, prima di attaccare la ripida salita che porta verso Misurina e poi verso il rifugio Auronzo, sotto alle Tre Cime. C’è poco tempo: uno spuntino veloce, un altro incontro ravvicinato con il fisioterapista e poi

NELLE FOTO \\ Simon e Vittorio scalano velocemente in conserva la via Spigolo Giallo sulla Cima Piccola di Lavaredo (in apertura). Simon sul primo tiro della stessa via (a destra)

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scialpinismo sfide

via, di nuovo in sella sotto l’acqua battente. Arrivare a Misurina non è una passeggiata, ma la vera e propria sfida è appena dopo, all’imboccatura della strada che sale al rifugio. Sono quasi cinque chilometri, 473 metri di dislivello, con una pendenza media del 10%: una salita breve e spietata che da sola fa una storia. Figurarsi con nelle gambe già centinaia di chilometri, più l’Ortles. La pioggia si calma. Il cielo rimane coperto, ma perlomeno Simon e Vittorio riescono a salire senza cuocersi né inzupparsi. La fatica inizia a essere davvero tanta: Simon sale lento, ma ancora dritto; Vitto invece ha già iniziato a fare curvette per ridurre l’impatto della pendenza. Il rifugio è ancora chiuso. I ragazzi si ristorano velocemente con quello che hanno, cambiano le scarpe e partono a piedi. Sarà la breve pausa, sarà il cambio di mezzo di locomozione, ma pare che abbiano ripreso le forze, almeno un po’. Vanno veloci e decisi fino alla chiesetta alla base della Cima Piccola, poi su fino alla spalla da cui il lato Nord delle Tre Cime si svela in tutta la sua maestosa potenza. Le vette non si vedono, sono avvolte in una densa nuvola. A terra la neve è bagnata e pesante, e rallenta il passo. C’è da farsi mancare il fiato. Simon e Vitto si fermano un momento per godersi il paesaggio e per guardare le condizioni della parete. Confabulano un po’ tra di loro, poi ripartono. Camminano alla base delle pareti, dove la roccia spunta dalla neve come un dente da una gengiva. Nel mentre ricomincia a gocciolare. GIORNO DUE Sotto alla Grande la situazione è complicata. La via Comici-Dimai è completamente fradicia; piccoli rivoli continuano a scendere, infilandosi giù per i polsi e per le maniche di Simon e Vitto, che hanno attaccato il primo tiro. Salgono ancora, ma con meno decisione. Ogni cosa è scivolosa e non è chiaro per nulla quali siano le intenzioni del tempo. Al terzo tiro si decidono: la via non è scalabile. Non in maniera sicura, perlomeno. Ci vuole coraggio a compiere quella scelta: North3, tre pareti nord, l’impresa di Kammerlander ed Eisendle, l’hype mediatico, le dirette in radio… Ma sia Simon che Vittorio hanno bene in mente cosa vuol dire l’alpinismo per loro: è un bel gioco, un gioco che include anche la sfida, un gioco che a volte ti pone di fronte condizioni difficili come la tormenta sull’Ortles. Ma è comunque un gioco, non una crociata. Le condizioni non sono adatte, quindi si torna indietro. Anche se un po’ fa male. Il progetto non è finito, però: ci sono ancora ore ed ore di fronte, e le energie non sono ancora terminate: perché fermarsi? Simon e Vittorio si spostano sotto alla Cima Piccola, dove corre la via dello Spigolo Giallo. Su quello sperone aereo e affilato corre un’altra via di Comici, una via incredibilmente estetica e ambita. Simon e Vittorio si legano, si guardano in viso, partono.

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NELLE FOTO \\ Colazione alle prime luci dell'alba nel camper di supporto a Winkl, prima del Grossglockner (a sinistra). Simon Gietl (a destra) e i due in avvicinamento alla parete Nord della Cima Grande di Lavaredo (sopra)

Seguirli da sotto dà soddisfazione: sono poco più che puntini, ma non è difficile immaginarli impegnati e contenti, immersi nel loro elemento. Soprattutto fa sorridere e scalda il cuore la loro resilienza, la loro capacità di tenere in mente quali siano le cose importanti per davvero: fare qualcosa di grande, certo, ma tornare comunque a casa, avere la possibilità di riabbracciare le loro famiglie e di ripartire per altre montagne. Alle ventuno, dopo oltre ventisei ore dalla partenza a Solda, raggiungono la cima. Il record del 1991 rimane, per ora. Ma la vita è lunga abbastanza per riprovarci. Simon e Vitto scendono lentamente, prima in doppia, poi per ghiaie. Alla base li aspettano complimenti, incoraggiamenti, pacche sulle spalle e le loro biciclette. Sì, perché è ora di ripartire: una cena frugale, poi via, veloci, con il vento che quasi taglia la faccia. Giù fino a Dobbiaco, poi San Candido, Prato alla Drava, l’Austria. Attraversano la frontiera come in un sogno, da soli, accompagnati solamente dal rumore dei pedali e del respiro. È a Lienz che si ricomincia a salire. La strada si infila in una valle stretta, ripida e curva. Poco prima della grandiosa cascata di Heiligenblut si fermano per riposare una decina di minuti, pronti ad affrontare l’ultima rampa. All’alba raggiungono la piccola frazione di Winkl, quattro case abbarbicate su ripidi prati al confine tra Carinzia e Tirolo. Il rituale è lo stesso del mattino precedente: una veloce (e vorace) colazione, un incontro con il fisioterapista (specie per Vittorio, che ha qualche problema a un ginocchio) e poi si riparte. Il tempo è bello; il Grossglockner si staglia in cima alla valle maestoso e innevato, completamente visibile. La stanchezza inizia a vedersi, sono quasi trentasei ore che i due non fanno altro che fatica. Ciononostante vanno avanti. Riusciamo a seguirli fino al ghiacciaio sotto alla parete Nord, sul quale si allontanano, apparendo e scomparendo tra le morene laterali. Attaccano la parete, poi scompaiono. Ci spostiamo in auto a Kals, dall’altro lato della montagna. Seguiamo i loro progressi con il tracking gps, metro dopo metro e passo dopo passo. Certo, è solo un punto su uno schermo, ma riusciamo a intuire la fatica e la difficoltà. Come se non bastasse, inizia a piovere. Saranno di nuovo in mezzo alla neve. Alle 15 il tracking rimane fermo a lungo. Non c’è visibilità, la montagna

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NELLE FOTO \\ Pedalando sotto la pioggia poco prima di iniziare la famosa salita alle Tre Cime di Lavaredo (in alto). Sessione di massaggi nel camper di supporto (a sinistra) e l'avvicinamento alla Nord dell’Ortles che Simon e Vittorio hanno scalato con gli sci in spalla per essere piÚ veloci in discesa (sopra)

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sfide BACKGROUND North3 – Il progetto Fine estate 1991. Hans Kammerlander e Hans-Peter Eisendle, due tra i più audaci alpinisti di tutti i tempi, hanno concepito una nuova sfida, ibrida e progressiva, sulle loro montagne di casa: scalare in un'unica giornata le pareti Nord dell'Ortles e della Cima Grande di Lavaredo, coprendo con le loro biciclette la distanza tra le due montagne

NELLA FOTO \\ Simon e Vittorio sorridono soddisfatti poco dopo aver fermato il cronometro

(246 km) by fair means. Quello che è nato più o meno come un gioco è diventato la pietra miliare di un nuovo modo di concepire le attività in montagna. Primavera 2018. Simon Gietl e Vittorio Messini prendono il testimone e sfidano il risultato, aggiungendo una terza parete Nord, quella del Grossglockner, e altri 117 chilometri in bicicletta. Questa avventura non è solo la celebrazione di un modo ibrido, pulito e sostenibile di vivere la montagna, né solo un'impresa, e neppure un dialogo con una pagina di storia e il suo spirito. L'intera avventura è stata anche l'occasione per raccogliere donazioni per Südtirol Hilft, un'organizzazione benefica per le persone in situazioni di grave emergenza. Simon Gietl Simon, nato nel 1984, vive a Lutago, in Valle Aurina, ed è un atleta professionista. La vita di Simon ruota intorno all'idea di scoprire, definire e scalare nuove vie, moderne e difficili, ma con protezioni tradizionali. Ama viaggiare ed esplorare luoghi nuovi (Perù, Patagonia, Alaska, Groenlandia, Cina…) ma le Dolomiti sono ancora la sua ispirazione e il parco giochi preferito. È essenzialmente un alpinista, ma non disdegna corsa, ciclismo e scialpinismo, come modo divertente di allenarsi, ma anche come strumento pulito per raggiungere le montagne.

è nascosta, non sappiamo cosa succede. A Kals è come stare in una sala controllo della NASA, solo che non seguiamo una missione lunare: seguiamo tutti quanti i movimenti dei ragazzi sugli schermi dei nostri laptop. Raggiungono la cima, si fermano, iniziano a scendere. Stimare i tempi è difficile, per due ragioni: sono bravissimi, e sono stanchissimi. Saranno più o meno di 48 ore? Iniziamo a salire, ad andar loro incontro. Non riusciamo a stare fermi, ad aspettare e basta. Non abbiamo più i computer e i cellulari non hanno abbastanza segnale per collegarsi al tracking. Abbiamo solo i nostri occhi per intuire dove siano. Poi appaiono. Un tornante dopo l’altro, stanno scendendo. Arriveranno in tempo, ormai è chiaro. C’è un traguardo ufficiale, sì, ma chissenefrega. Li accogliamo festosi, li accompagniamo, scendendo assieme, al termine di questi due giorni di fatica. Ci fermiamo prima del traguardo: attraversarlo da soli deve essere un momento loro e basta. Simon salta, batte i talloni tra di loro, si mette a ridere e abbraccia Vittorio. Piove di nuovo, ma non importa. C’è dello spumante, ci sono gli amici e le famiglie. Certo, non è stato North3. Ma è stato bellissimo, ed ora è questo che conta.

Vittorio Messini Vittorio è nato a Firenze nel 1988 e vive a Kals, ai piedi del Grossglockner, da quando era bambino. Lavora come Guida alpina, condividendo con gli altri la sua passione a tutto tondo per la montagna. Con Simon Gietl ha già portato a termine altri progetti e nuove vie. Un’impresa per altre imprese A volte la vita può essere dura, molto più dura di un'impresa in montagna. Ma è sempre possibile dare un aiuto e alleviare l'esistenza di persone in estremo bisogno. È questa l'idea alla base di Südtirol Hilft, un'associazione benefica che negli ultimi anni ha raccolto 4,8 milioni di euro, aiutando oltre 1.500 famiglie a superare emergenze di ogni tipo. Durante North3 è stato possibile effettuare una donazione, online o per telefono e, alla fine del progetto, Simon ha donato parte dell’attrezzatura ai sostenitori.

0h00’

5h30’

START: 27 maggio 2018 - 19:00

26h30’

ORTLES 00:30

+

CIMA PICCOLA 21:00

+

= 391 km

45h

GROSSGLOCKNER 16:30

47h16’

ARRIVO: 29 maggio 2018 - 18:16

DISLIVELLO POSITIVO: 9.628 m DISLIVELLO NEGATIVO: 9.535 m

BICI

HIKING

SCI


materiali

19 ANTEPRIME

2019 1. AKU SELVATICA MID GTX 460 gr, tomaia con tecnologia Air 8000 che traspira fino a 11 volte di più, suola Vibram Megagrip: voce del verbo hiking e trekking leggero. 2. ARC’TERYX NORVAN SL 190 gr per correre o avvicinamenti, suola Vibram Megagrip, punti di aggancio allo zaino e tallone packable. Dov’è il limite del leggero? 3. BLACK DIAMOND DISTANCE TENT Due bastoni Distance Carbon con un cavalletto che li unisce come pali, monotelo 30D ad alta tenacità, ventilazione sul tetto e attacco per la frontale. Wow. 4. BUFF COOLNET UV+ ULTRA-STRETCH Più leggero, più aderente, più fresco, stretch in 4 direzioni. Inoltre previene i danni solari ed è realizzato con un filato ottenuto con plastica riciclata (95%) e con un 5% di elastan. 5. CAMP TRAIL FORCE 5 C’è lo zampino di Franco Collè nel nuovo zaino da trail (e missioni fast & light). Esiste anche in versione 10 litri e si può aggiungere la sacca porta-bastoni (accessorio). Stop & go. 6. CRAZY IDEA Le fantasie del marchio valtellinese sono sempre più colorate e… fantasiose. Per una birretta dopo la corsa o guardare gli amici che arrampicano sono sempre irresistibili. 7. DOLOMITE VELOCE GTX Solo 297 gr per questa scarpa da approach e climbing soft ramponabile con i semiautomatici. Il futuro.

8. FERRINO FLARE 2 Solo 2,05 kg per la nuova tenda 2 posti per il backpacking: leggera, molto abitabile e robusta allo stesso tempo, ha doppio tetto con impermeabilità 3.000 mm, pavimento da 8.000 mm e paleria monostruttura. 9. LA SPORTIVA HYRAX GTX SURROUND La tecnologia più traspirante di Gore-Tex nella sua ultima versione, il know-how del marchio nell’hiking e, a differenza della sorella Spire, la tomaia in pelle Nubuck. Antico e moderno insieme. 10. MAMMUT TAISS LIGHT MID GTX Leggera (530 gr!), camminabile, grippante, semi-ramponabile. Approach? Alpinismo leggero? Multifunzione? Sicuramente LA scarpa del futuro. Nuovo product manager footwear per il marchio svizzero… e si vede. 11. MEINDL TONALE LADY GTX Leggerezza e stabilità per lei e per il light hiking nella versione più moderna: caviglia ben protetta e sostenuta ma peso leggero (400 gr) e tecnicità data dalla suola Vibram e dal sistema di tenuta del tallone Variofix. Non manca il Gore-Tex. 12. MILLET LD ULTRALIGHT JACKET Una giacca leggera per trail runner ed escursionisti fast & light, antivento e impermeabile (colonna d’acqua 3.000). Come tante altre, ma di notte diventa verde fosforescente. Safety first. 13. SALEWA SPEED BEAT GTX Speed hiking sempre più lite (350 gr), con la suola in mescola butilica firmata Pomoca e fodera GTX. Come si fa ad andare piano? E arriverà già nell’autunno…

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14. SALOMON SPEEDCROSS 5 È diventata sinonimo di trail running e status symbol, dall’aperitivo al sentiero. Difficile rinnovare un mito, aspettiamo con ansia di metterla ai piedi. Punta su calzata e grip. 15. SCARPA MESCALITO MID GTX Approach, come la sorella Mescalito, ma in versione Mid, più versatile e con maggiore supporto. Caviglia protetta ma libera di muoversi, zaini ok. E il verde da donna è irresistibile. 16. ORTOVOX FIRST AID WATERPROOF Il kit di first aid della casa tedesca completamente impermeabile, il compagno ideale per un aiuto rapido negli incidenti in montagna e in ogni situazione, da abbinare ai già tanti tool Ortovox per la sicurezza nelle attività outdoor. 17. PATAGONIA CAPILENE COOL TRAIL La naturale sensazione del cotone e le proprietà traspiranti e di asciugatura rapida del tessuto sintetico. Non fa mai caldo e accarezza la pelle come un massaggio. Insostituibile. 18. TECNICA PLASMA S GTX Dopo il modello mid cut arriva la scarpa bassa (e da soli 365 gr) termoformabile. Suola Vibram, fodera Gore-Tex… c’è tutto ed è anche bella. Dalla città ai sentieri. 19. VAUDE TRAIL SPACER 8 Uno zainetto fast & light o da mountain bike con spallacci e dorso in un piacevole materiale a maglia 3D morbido e particolarmente traspirante. Non ci si accorge di averlo addosso. Sempre più leggeri!


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materiali

ŠFederico Ravassard

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Grand hotel sotto le stelle L’escursionista moderno vuole camminare più lontano e più in alto, con la zaino sempre più leggero. E le tende diventano più comode, pratiche e a prova d’intemperie. Anche se non si può sempre avere tutto ed è sensato scegliere attentamente il materassino testo di ALESSANDRO MONACI - foto di ALBERTO ORLANDI

icono che il futuro ci vedrà tutti iper-specializzati. Non sappiamo se ciò sarà vero in generale, ma di sicuro per quanto riguarda il mondo della montagna sembra una previsione azzeccata. Osservando i materiali da campeggio, si nota come la tendenza sia quella di distinguere tra i molti modi in cui si può andare per monti, e tra questi c’è anche la tendenza a farlo in maniera più evoluta - ossia più veloce e tecnica - e con una maggiore esposizione alla natura e rispetto di essa. Le escursioni (trekking, se proprio non potete fare a meno degli anglicismi) di più giorni spesso non hanno più nulla a che vedere con i tranquilli tragitti da turista enogastronomico. Ormai anche qui si ricerca giustamente la maggiore soddisfazione possibile, e questa deriva dal poter camminare per giorni in autosufficienza, possibilmente senza rinunciare al piacere di muoversi, ossia senza essere oppressi da uno zaino pesante decine di chili e ingombrante quanto un vitello.

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3 STAGIONI PER UNA TENDA I produttori di tende, sacchi a pelo, materassini e altre attrezzature hanno reso questo possibile, offrendo a prezzi ormai accessibili materiali incredibilmente performanti e leggeri. Anche qui vale però il principio che tutto non lo si può avere. Le tende più leggere e compatte sono anche le più scomode da montare e quelle con prestazioni peggiori in caso di pioggia o vento. Valutate voi l’utilizzo che ne dovete fare: mezzo chilo in più potrebbe essere un investimento sensato se permette di ritrovarsi con una tenda che non vi sarà impossibile utilizzare anche in condizioni non perfette, in cui l’acqua e l’aria resteranno al di fuori del telo esterno, permettendovi di passare una notte accettabile in cambio di uno zaino un poco più pesante di giorno. Sulle tende più leggere c’è infatti ancora del lavoro da fare. Da un lato il risultato puro in fatto d’ingombri e pesi è stupefacente: durante la realizzazione del servizio fotografico, in uno zaino da 45 litri siamo riusciti a farci stare 3 tende, 4 materassini, 3 sacchi a pelo e un fornelletto, senza

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materiali

grammo risparmiato è prezioso (attività per le quali i modelli in schiuma rimangono preferibili, nonostante il loro ingombro); ma se utilizzati in combinazione con un ulteriore riparo, sia esso un sacco da bivacco o una tenda, il problema non sussiste. Sui sacchi a pelo invece il discorso diviene complesso, motivo per il quale abbiamo rinunciato a creare delle schede. La prima scelta avviene tra l’imbottitura in piuma e il sintetico, con la prima più comprimibile e isolante, mentre il secondo è più economico e di facile gestione (per esempio mantiene migliori capacità d’isolamento anche nel caso si bagni). Al di là di forme e taglia, quest’ultimo un parametro troppo spesso sottovalutato nel momento dell’acquisto, valutate di quali prestazioni termiche avete bisogno. Se prevedete di dormire a -5° avete davvero necessità di un sacco a pelo da -5°? Dormire vestiti permette di stare più caldi di notte e di risparmiare sudore durante il giorno. Infine un consiglio che si sente poco, ma che ci sentiamo comunque di darvi: a costo di far ingelosire il/la ragazzo/a, il modo più efficace per dormire caldi con un sacco a pelo leggero, è quello di unirlo con il sacco del compagno d’escursione. Provare per credere!

comprimere il tutto eccessivamente né spaccarci la schiena per quell’oretta di sentiero che il fotografo ha deciso di percorrere per disporre dello scenario migliore. Le prestazioni notturne sono però ancora migliorabili. In una notte serena, senza vento e senza precipitazioni, possono anche consentire di dormire sonni tranquilli; ma in caso contrario la faccenda può diventare umida e fredda. La leggerezza e lo scarso ingombro sono poi ottenuti grazie anche all’esiguità dei teli esterni, che possono rendere necessario prestare una certa attenzione in caso di montaggio della tenda su terreni difficili, onde evitare di trovarsi con fastidiosi buchi o squarci. Qualcuno rimedia a questo pericolo ponendo un ulteriore telo sotto il pavimento, composto dal classico polietilene da esterni. Risparmiare 100 grammi su una tenda per poi averne ulteriori 200 di telo aggiuntivo potrebbe però essere un cattivo affare, senza contare che un telo aggiunto sotto la tenda, se non perfettamente sagomato, in caso di pioggia si trasforma in una piccola e fastidiosa piscina.

MATERASSI E SACCHI A PELO Sottovalutare l’importanza del materassino è il classico errore da principianti. Un buon materassino, oltre a fare la differenza tra una notte di sonno e una di continui giramenti alla ricerca di una posizione confortevole introvabile, si rivela indispensabile per isolare termicamente dal terreno, oltre a separarci dall’umidità. I modelli da noi testati hanno rivelato l’ottima qualità raggiunta senza penalizzare la funzionalità: pur essendo iper-leggeri e trasportabili praticamente in una tasca dei pantaloni, garantiscono comunque un comfort più che accettabile. Certo, anche in questo caso si prova un certo timore nell’adagiarli sopra dei sassi, piante spinose o dell’erba particolarmente appuntita. Peccato, perché il loro minimalismo li renderebbe perfetti per bivacchi in quota senza tenda, per esempio durante un’ascesa alpinistica, quando ogni

TROPPE OPZIONI SOTTO LE STELLE Non abbiamo testato tende monotelo e sacchi bivacco: come mai? Le doppio telo hanno raggiunto ormai prestazioni in fatto di compattezza e leggerezza tali da farle preferire alle mono. Rispetto a queste seconde perdono poco da chiuse, ma le prestazioni contro condensa, freddo, vento e acqua sono imparagonabili. E i sacchi da bivacco? Considerateli solo se siete alpinisti esperti. In conclusione vale sempre un salomonico consiglio di valutare bene quali siano le esigenze prima di comprare il vostro kit da campeggio. E tenere conto del fatto che il comfort delle notti passate all’aperto dipenderà dalla combinazione di tutti i materiali in gioco, in particolare dal prodotto meno preformante di cui sarete equipaggiati .

KIT RIPARAZIONE, PORTATELO CON VOI In tutte le tende testate abbiamo trovato i kit d’emergenza mediamente ben fatti e leggeri. Nonostante ciò, la tentazione di lasciarli a casa potrebbe essere forte. Valutate bene prima di farlo, rompere un paletto non è un avvenimento impossibile, e il tubo d’alluminio che permette di riparare il danno pesa solo pochi grammi…

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CAMP MINIMA 2 SL

Una tenda molto leggera

Peso: 1.500 gr

e compatta. Forse troppo.

Posti letto: 2

Da chiusa occupa poco più

Dimensioni interne: 125 x 220 cm

dello spazio di una bottiglia

Altezza interna: 89 cm

d’acqua da due litri e pesa

Dimensioni custodia: 33 x 16 cm

ancor meno, tanto da farsi

Entrata: 1

quasi dimenticare nello zaino.

Colonna d’acqua: 2.000 mm

Non altrettanto inosservata

Categoria: lite

passa una volta che la si apre:

Materiali: telo esterno nylon

il sistema non autoportante

ripstop 30D 2.000 mm, camera in

non è dei più immediati ed è

rete/zanzariera, pavimento nylon

impossibile tenerla davvero in

70D 5.000 mm.

piedi senza picchetti (cosa non

Prezzo: 238 €

scontata in alcuni luoghi). Il telo e le dimensioni rendono inoltre difficile la gestione del vento.

VAUDE INVENIO SUL 2P Peso massimo: 1.800 gr Posti letto: 2 Dimensioni interne: 120 x 230 cm Altezza interna: 100 cm Dimensioni custodia: 48 x 15 cm Entrata: 2 Colonna d’acqua: 3.000 mm Categoria: 3 stagioni Materiali: telo esterno 100% Polyamide 20D Ripstop 3.000 mm, telo interno 100% Polyamide 15D Micro Ripstop, pavimento 100% Polyamide, 30D Ripstop 3.000 mm. Prezzo: 700 €

Rapporto peso/prestazioni eccezionale.

reale), sembra assai funzionale. Tende a essere

inoltre l’impegno di Vaude verso l’ambiente, con

La progettazione è interessante e attenta: la paleria

però instabile su un terreno sconnesso. Il telo è

la scelta di materiali privi di PVC, anche se questo

è complessa e, nonostante un dubbio di resistenza

veramente sottile, ma sembra ben fatto, e in ogni

rende il prezzo decisamente superiore a quello delle

sui giunti di plastica (forse più psicologico che

caso c’è un ottimo kit d’emergenza. Da segnalare

concorrenti.

FERRINO LIGHTENT II Peso massimo: 1.850 gr Posti letto: 2 Dimensioni interne: 120 x 225 cm Altezza interna: 100 cm Dimensioni custodia: 35 x 17 cm Entrata: 1 Colonna d’acqua: 3.000 mm Categoria: lite Materiali: doppio tetto in poliestere Ripstop 3.000 mm trattato FR, interno in zanzariera trattata FR, pavimento in poliestere impermeabile 3.000 mm trattato FR (esiste anche in versione 8.000 mm).

Simile alla CAMP Minima, con dunque difetti e pregi

grazie all’ampia entrata laterale. Da considerare solo se

Prezzo: 256,90 €

paragonabili. Rispetto a questa perde qualcosa in

l’ingombro è un parametro fondamentale. E da usare

fatto di peso (forse troppo), ma guadagna in praticità

consultando con attenzione i bollettini meteorologici.

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materiali FERRINO PUMORI II Peso massimo: 2.900 gr Posti letto: 2 Dimensioni interne: 130 x 210 cm Altezza interna: 105 cm Dimensioni custodia: 40 x 15 cm Entrata: 2 Colonna d’acqua: 3.000 mm Categoria: 4 stagioni Materiali: doppio tetto in poliestere Ripstop alluminato termoisolante 3.000 mm trattato FR, interno in nylon Ripstop idrorepellente e traspirante trattato FR, pavimento in poliestere impermeabile 4.000

Un grande classico, per ottime ragioni. Si conferma una

interno più che sufficiente. Materiali e finiture ottime. Il telo è

mm trattato FR.

tenda perfetta per ogni uso e abuso. Il montaggio è

lunghissimo, formando delle falde a terra, perfetto in caso di

Prezzo: 367,90 €

semplice e veloce, anche per una persona sola. Lo spazio

condizioni meteo avverse o montaggio sulla neve.

FERRINO NEMESI 1

Tra le lite, sicuramente la migliore

Peso massimo: 1.700 gr

(è una monoposto, con la doppia il

Posti letto: 1

peso la manderebbe fuori categoria).

Dimensioni interne: 70 (50 nel punto

La struttura autoportante permette di

minimo) x 210 cm

montarla con velocità (grazie anche

Altezza interna: 90 cm

alla paleria a frusta (come quella

Dimensioni custodia: 34 x 13 cm

delle sonde da valanga, tanto per

Entrata: 1

essere chiari) e di essere utilizzabile

Colonna d’acqua: 3.000 mm

anche senza fissarla con tutti i

Categoria: lite

picchetti. Certo, è un posto secco, e il

Materiali: Doppio tetto in poliestere

soffitto stretto richiede di non soffrire

Ripstop 3.000 mm trattato FR, interno

di claustrofobia. Intelligenti i tiranti

in zanzariera e tessuto poliestere

catarifrangenti. Meno eccellenti i

Ripstop idrorepellente e traspirante

picchetti sottili in alluminio.

trattata FR, pavimento in poliestere impermeabile 3.000 mm trattato FR (impermeabilità pavimento: 8.000 mm). Prezzo: 229,90 €

PICCHETTI, OCCHIO ALLA QUALITÀ

CURIOSITÀ ULTRA-ULTRA LIGHT & SMALL

Un elemento su cui vale la pena riflette per un

La danese Nordisk produce quella che probabilmente

momento: in caso di prestazioni fast & light

è la più leggera e più piccola (quando chiusa) tenda, la

potrebbero essere lasciati a casa. Valutate però

Lofoten: solo 11 x 22 cm packed e 490 gr di peso

se la tenda possa rimanere eretta anche in loro

nella versione a un posto.

assenza (tra le leggere, per esempio, la Camp Minima e la Ferrino Lightent no). Inoltre la ricerca della leggerezza ha spinto i costruttori a realizzare picchetti sempre più leggeri e piccoli, al punto che molti sono di un alluminio tanto sottile da non reggere anche un terreno mediamente duro e sassoso. Valutate anche l’opzione di sostituirli con un modello in metallo più robusto, oppure in ABS (ingombranti, ma si piegano senza spezzarsi, risultando ottimi su terreni pietrosi).

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SALEWA DENALI II

Struttura classica, con materiali di qualità. Non presenta finiture o idee progettuali

Peso massimo: 2.476 gr

rivoluzionarie, ma fa il suo dovere in modo costante. Molto comode le ampie prese d’aria.

Posti letto: 2

Da prendere in considerazione se si vuole disporre di una tenda polivalente.

Dimensioni interne: 120 x 210 cm Altezza interna: 95 cm Dimensioni custodia: 50 x16 cm Entrata: 2 Colonna d’acqua: 3.000 mm (5.000 fondo) Categoria: 3 stagioni Materiali: doppio tetto in poliestere Ripstop 3.000 mm trattato FR, interno in zanzariera e tessuto poliestere Ripstop idrorepellente e traspirante trattato FR, pavimento in poliestere impermeabile 3.000 mm trattato FR (impermeabilità pavimento: 8.000 mm). Prezzo: 240 €

MSR HUBBA HUBBA NX

Inutilmente imitata,

Peso massimo: 1.720 gr

è sempre la migliore

Posti letto: 2

3 stagioni, 2 posti.

Dimensioni interne: 213 x 127 cm

Leggera, vivibile, con

Altezza interna: 100 cm

materiali di qualità,

Dimensioni custodia: 46 x 15 cm

resistente al vento e alle

Entrata: 2

condizioni più difficili

Colonna d’acqua: 1.200 mm

grazie alla struttura

Categoria: 3 stagioni

geodetica ben studiata.

Materiali: telo esterno 20D

Il telo esterno è molto

Ripstop nylon 1.200 mm

leggero e il sistema

Durashield, telo interno 20D

di areazione riduce al

Ripstop nylon con rete 15D nylon

minimo la condensa. Bei

micromesh, pavimento 30D

picchetti di alluminio…

ripstop nylon 3.000 mm

niente è lasciato al caso.

Durashield. Prezzo al pubblico: 460 €

113


materiali FERRINO AIR-LITE

CAMP ESSENTIAL LIGHT MAT

Dimensioni custodia: dry bag

Gonfiaggio a bocca o tramite

Dimensioni custodia: 24 x 6 cm

33 x 8.5 cm

la custodia che si trasforma in

Dimensioni: 180 x 45 cm

Dimensioni gonfio:

Peso: 315 gr

soffietto. In entrambi i casi è

185 x 56 x 5 cm

piuttosto rapido (30 secondi).

Materiali: polyamide + 1 valvola

Peso: 400 gr

È leggermente meno comodo

in ottone e 1 in plastica

Materiali: nylon 20D

rispetto ai concorrenti, al punto che

Tipologia: gonfiabile

potrebbe non essere indicato per

Prezzo: 74,90 €

Tipologia: gonfiabile Prezzo: 53 €

persone particolarmente pesanti o sensibili alla rigidità del materasso quando dormono.

In fatto d’ingombri e pesi, i materassini hanno raggiunto livelli eccezionali. Da chiuso è talmente piccolo e leggero da farsi dimenticare, mentre gonfiato offre comunque un discreto comfort e un buon isolamento del terreno. Curioso il sistema a doppia valvola.

FERRINO 6 TUBI LEGGERO Dimensioni custodia: 13 x 42 cm Dimensioni gonfio: 180 x 50 x 7 cm Peso: 800 gr Materiali: poliestere

Il più comodo della categoria,

TIPS & TRICKS

anche se paga questa comodità con un sistema di gonfiaggio a piede più

Tipologia: gonfiabile con pompa

scomodo e lento (e qualche

Il peso massimo delle tende si intende con tutto quello che è in

Prezzo: 34,90 €

centinaia di grammi in più).

dotazione, picchetti, tiranti, kit di riparazione. I sacchi a pelo vengono classificati secondo tre valori: temperatura comfort, limite ed estrema. La prima si riferisce alla condizione di equilibrio termico di una donna (che disperde maggiormente il calore) in posizione distesa, la seconda all’equilibrio termico di un uomo rannicchiato e la terza quella che potrebbe determinare tanto freddo e rischio di ipotermia.

SEA TO SUMMIT ULTRALIGHT Dimensioni custodia: 7,5 x 17 cm Dimensioni gonfio: 183 x 55 x 5 cm

THERM-A-REST PROLITE Dimensioni custodia: 28 x 10 cm

Un grande classico

Dimensioni gonfio: 183 x 51 x 2,5 cm

pluripremiato con valvola di

Punto. Leggero e robusto,

Peso: 395 gr (181 cm)

chiusura molto pratica e celle

Materiali: nylon 40D

indipendenti che consentono

Materiali: polyester 50D

gonfiare, buon isolamento

un passaggio d’aria ottimale.

Tipologia: autogonfiante

termico e forma ad angoli

Per le stagioni più fredde c’è la

Prezzo al pubblico: 110 €

arrotondati.

Tipologia: gonfiabile Prezzo: 107,90 €

Peso: 540 gr (183 cm)

Il materassino autogonfiante.

versione Insulated (133,90 €). Disponibile in 4 taglie.

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facile da comprimere e


Cucina sul fornelletto, la scelta vegana I consigli di uno chef appassionato escursionista, oltre che campeggiatore L’alimentazione in montagna deve rispondere a due parametri fondamentali: il rapporto peso/calorie e la praticità di preparazione, senza dimenticare l’ingombro. Se il primo fattore è intuitivo, sulla seconda possono influire le modalità con cui si va per monti. Un alpinista può avere esigenze diverse rispetto a un escursionista di media montagna. Per esempio la gestione dell’acqua, sia per cucinare che per lavare le stoviglie, che in alcuni casi è limitata; oppure la disponibilità di gas (quindi tempi di cottura brevi); o anche l’altitudine stessa (in alta quota la temperatura di ebollizione dell’acqua è più bassa, quindi per esempio la pasta non cuoce). La soluzione più diffusa è naturalmente quella di affidarsi alle buste di cibi liofilizzati, ma non è detto che sia la migliore, sia in fatto di economicità che di nutrizione. Abbiamo dunque chiesto a Cristiano Bonolo, vegano, chef e appassionato escursionista/campeggiatore, che ha anche organizzato sessioni di show cooking in chiave campo base presso il negozio Kim Forniture Scout di Milano, un consiglio su cosa cucinare su un fornelletto (o che cosa preparare prima di partire), senza rinunciare all’apporto energetico, ma neanche a scapito di gusto e salute.

COLAZIONE CONTRO LA FATICA

INSALATA PROTEICA

50 gr di avena

100 gr di insalata a piacere

200 gr di succo di mela

(lattughino, riccia, lattuga,

20 gr di noci

gentile)

20 gr di cioccolato fondente

12 pomodori ciliegini 2 carote piccole o 1 grande

Unite l’avena e il succo di mela e cuocete a fiamma medio

140 gr. di mais sgocciolato

alta fino ad assorbimento liquido. Al termine aggiungere

200 gr. di tofu alle erbe

noci tritate e pezzi di cioccolato fondente. Mescolate e

2 cucchiai di olio extravergine di

servite.

oliva succo di mezzo limone prezzemolo

BARRETTE ENERGETICHE FAI DA TE

erba cipollina

50 gr di nocciole

timo

50 gr di mandorle

sale

40 gr di semi di girasole

pepe

30 gr di semi di sesamo 40 gr di uvetta

Prepariamo una marinatura con

40 gr di mirtilli secchi

due cucchiai di olio extravergine

40 gr di fiocchi di mais

di oliva, il succo di mezzo limone,

2 cucchiai di sciroppo di riso senza glutine (o malto di orzo se

prezzemolo, timo, erba cipollina

non avete problemi con il glutine)

e pepe. Immergiamo il panetto di tofu, lasciandolo a bagno

Ridurre le nocciole e le mandorle a granella grossa, tostare

minimo 30 minuti. Scoliamo il tofu

con i semi di girasole e di sesamo in una padella per circa 5

dalla marinatura, lo asciughiamo

minuti. Aggiungere l’uvetta, i mirtilli, i fiocchi di mais e il malto

bene e lo grigliamo sulla piastra

di riso e mescolare bene in modo che tutti gli ingredienti

calda fino a che non forma una

risultino coperti di malto e fino a quando il composto non sia

crosticina dorata da entrambi i

compatto. Stendere il composto su carta da forno poi lasciare

lati. Tagliamo il tofu a cubetti e

freddare e spezzettarlo in pezzi irregolari

uniamolo all’insalata.

I FORNELLETTI Ce ne sono di diverso peso e di tante tipologie, ma per un’avventura in montagna la scelta più indicata sono i modelli jet che, a partire dal mix di gas isobutano/propano della bombola, agli ugelli in uscita e al bruciatore, massimizzano l’efficienza. Ormai sono tutti leggeri e compatti. I marchi da considerare sono, tra gli altri, Jetboil, Primus, MSR. Biolite produce dei curiosi fornelletti alimentati con pigne o pezzettini di legno, che accumulano anche energia e possono essere utilizzati come power bank. Quelli di Trangia, invece, vanno ad alcol: sono meno efficienti, ma usati bene, in combinazione con il set di pentole, funzionano e soprattutto… l’alcol lo si trova

©MSR/Scott Rinckenberger

sempre, anche nei villaggi più sperduti.

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CAMPO BASE FERRINO testo e foto di FEDERICO RAVASSARD

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materiali

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materiali

L’azienda torinese fondata nel 1870 produce tende e zaini dopo severi test in quota. Perché il corpo umano dà le risposte che non sempre le macchine possono dare

un’epoca di globalizzazione e delocalizzazione arrivare in un grande capannone alle porte di Torino e trovare interi reparti al lavoro a cucire, tagliare e disegnare articoli sportivi fa una certa impressione. Se poi questi articoli sono tende e zaini che, come la gran parte degli altri prodotti tessili, sono realizzati in Estremo Oriente, lo stupore è ancora più grande.

italiani) è al lavoro. Nel primo vano ci sono i macchinari per i controlli qualità interni, fatti a campione su tutti i prodotti: abrasione, pilling, impermeabilità, trazione, lacerazione, si controlla tutto. Dalla stanza più grande arriva un rumore di macchine da cucire. Su un lato fa bella mostra una grande tenda militare con i montanti gonfiabili.

IN

«È un modello che l’esercito francese usa come comando in quota» dice Marco. Alle macchine da cucire si tagliano i pezzi di tessuto per un nuovo zaino da hiking e lo zaino airbag che verrà presentato a Ispo 2019. Non è facile a Torino, che in passato aveva una grande tradizione nell’industria tessile, trovare ancora manovalanza con la giusta esperienza e manualità nel cucire e tagliare ed è proprio questa la sfida e l’orgoglio al tempo stesso di Ferrino. «Le grandi produzioni avvengono poi in Estremo Oriente, ma parte tutto da qui e a Shanghai abbiamo un ufficio con dei dipendenti, dai fornitori arriviamo con un progetto ben preciso che devono solo eseguire, a noi poi spetta controllare la qualità».

«Dal reparto di progettazione vera e proprio si passa a quello di prototipazione che nella pratica è un piccolo reparto di produzione, mentre al piano inferiore c’è un settore più grande che produce le tende per la Protezione Civile e le organizzazioni umanitarie» dice Marco Chiaberge, responsabile ricerca e sviluppo di Ferrino. Usciamo dalla stanza dove ci sono i computer e si disegnano i nuovi modelli per mettere piede in due stanze attigue dove un piccolo esercito (è proprio il caso di dirlo, visto che Ferrino produce tende e zaini per diversi reparti militari, non solo

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Non c’è un numero predeterminato di prototipi per realizzare un nuovo prodotto come uno zaino, dipende dalle modifiche richieste dai primi testatori e dalla forza commerciale. Il modello nella foto, non ancora in produzione, è stato già rivisto negli spallacci, alleggeriti, e nelle forme.

Le custodie delle tende e le tende stesse sono diventate sempre più piccole.

La manualità è ancora una parte importante nella progettazione e realizzazione di prototipi, sia delle che tende che degli zaini. Nella foto due addetti del reparto prototipia stanno lavorando alla realizzazione del nuovo zaino airbag con sistema di apertura a ventola e respiratore che verrà presentato alla prossima edizione di Ispo.

DALLE AUTO ALL’EVEREST Storia esemplare quella della Ferrino. Torino, 1870, via Nizza 107. Cesare Ferrino

Negli anni però la produzione di tende da campeggio diventerà sempre più

è titolare di un negozio di vernici. Alcuni anni prima si è recato in Germania a

importante con modelli specifici per le vacanze o le spedizioni.

studiare nuovi procedimenti per la realizzazione di tessuto e tele e ha acquisito

Oggi, a soli due anni dal centocinquantesimo giubileo, Ferrino ha in catalogo

un brevetto in esclusiva per l’Italia per rendere totalmente impermeabili le tende.

tutto quello che serve per l’outdoor, dall’abbigliamento ai sacchi a pelo,

Nasce così la prima produzione industriale per la produzione di tele cerate,

ma tende da montagna e da spedizioni e zaini rimangono il core business

spesso utilizzate sulle automobili, per esempio le Fiat.

dell’azienda torinese.

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materiali NELLA FOTO \\ Gli escursionisti e gli alpinisti che provano le tende Ferrino al Quintino Sella o al Toesca compilano delle dettagliate schede test

Flashback. Torniamo indietro. Prima di arrivare sul mercato uno zaino o una tenda Ferrino, quelli che vediamo esposti in azienda o che stanno prendendo forma nel reparto prototipia, ha una gestazione di un anno, un anno e mezzo. Dipende. Dipende da come vanno i test. Tutto infatti nasce dalle prove sul campo di un ristretto gruppo di Guide alpine e professionisti. Il primo prototipo, che poco o nulla ha a che vedere nel look con quello che arriverà sul mercato, viene portato in montagna. Successivamente zaini e tende vengono modificati sulla base delle indicazioni dei testatori e si valuta con l’ufficio commerciale se sono in linea con le richieste del mercato, poi si passa ai test su un ristretto gruppo di consumer. Un valido aiuto sono i campi prova allestiti in estate e in inverno al rifugio Toesca, a quota 1.710 metri, in Val di Susa, e in estate al Quintino Sella, a 3.585 metri, nel gruppo del Monte Rosa, per il materiale più tecnico e da alta quota. Dopo questo lungo processo si riprende in mano il prodotto e si producono altri prototipi, fino ad arrivare anche alla giusta palette di colori. I professionisti hanno fatto la storia e la fortuna di un marchio che nel 2020 festeggerà i 150 anni. Le loro esperienze estreme sono state utilizzate per la realizzazione di nuovi prodotti per affrontare l’outdoor nelle peggiori condizioni. Come non ricordare Reinhold Messner, dalla cui esperienza sono nate le migliori tende da spedizione e alta montagna, ma anche Ambrogio Fogar, le traversate in solitaria del deserto di Carla Perrotti, oppure le spedizioni antartiche dell’ENEA, Gnaro Mondinelli o Simone Moro? L'elicottero sale veloce, improvvisamente dalle periferie di Torino ci troviamo ai 3.585 metri del Rifugio Quintino Sella al Felik, alle pendici del Castore e del Lyskamm. Qui, da più di vent'anni, Ferrino allestisce un campo base con le tende della linea HighLab, un nome che non è solo una mera esigenza di marketing ma testimone di quello che è a tutti gli effetti un laboratorio in quota. Gli alpinisti di passaggio infatti possono provare il materiale dormendo (gratuitamente) qui per una notte, in cambio il loro feedback viene raccolto su

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Vuoi fare un'esperienza in un campo HighLab Ferrino e diventare anche tu parte del test team? Puoi trovare tutte le informazioni all'indirizzo www.ferrino.it/campi-ferrino.html


Nel reparto progettazione lavorano cinque persone più il responsabile ricerca e sviluppo. Una persona ha competenze di ingegneria dei tessuti per potersi interfacciare con i fornitori e la produzione. Molte aziende hanno la figura del designer e quella del modellista separate, in Ferrino invece i disegnatori hanno anche esperienze modellistiche per una progettazione più efficace, che rispetti le esigenze della migliore ingegnerizzazione dei prodotti.

L'evoluzione degli zaini Ferrino negli ultimi 30 anni. Quello blu in alto a sinistra, High 45, è stato utilizzato da Simone Moro mentre quello blu/viola in basso a sinistra, Limit 50, da Benoit Chamoux. Lo zaino grigio centrale è stato sulle spalle di Carla Perrotti per l'esplorazione dei deserti, quello rosso in alto a destra, il Paine 50, è nato dalla collaborazione tra Ferrino e Vibram e ha un fondo gommoso. Il modello rosso in basso a destra, Skylite 45, è il primo zaino fornito da Ferrino al soccorso alpino. Infine l'ultima evoluzione, lo zaino bianco e rosso posizionato a Destra, il Radical 45+10: super leggero da alpinismo che utilizza tessuto con fibra in Dynema.

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materiali

Sembrano degli UFO al confronto con i vecchi modelli la tenda 4 stagioni Maverick e il sacco a pelo HL Revolution, della linea Highlab, il top di gamma in termini di prestazioni e resistenza agli elementi. Quella rossa è la tenda utilizzata da Messner nelle sue spedizioni himalayane e realizzata in Gore-Tex, mentre il modello verticale sullo sfondo è stato utilizzato dall’ENEA nelle spedizioni al Polo Sud. Infine Trekking 2, sulla destra, è stata una delle prime tende da escursionismo leggere e a montaggio rapido.

dettagliate schede che tengono conto delle condizioni fisiche dei testatori e di quelle ambientali. I dati vengono poi spediti a Torino ed elaborati dai tecnici per capire come le loro idee si comportino effettivamente sul campo, utilizzate da utenti normali che rispecchiano poi le esigenze del cliente. Già, perché a volte tester di altissimo livello non sono sufficienti, anzi, a volte se ne escono con idee un po' strampalate e non sempre commerciabili: ad esempio i fratelli Franchini, per una spedizione sulle Ande, si sono fatti preparare su misura un sacco a pelo matrimoniale e una tenda monotelo per essere ancora più leggeri.

NELLE FOTO \\ Adriano Favre, direttore del Soccorso Alpino Valdostano, con un sacco a pelo della linea HighLab e con Marco Chiaberge, responsabile R&D di Ferrino

È solo combinando le richieste di alpinisti diversi tra loro che si può arrivare a un prodotto di alta qualità e, allo stesso tempo, perfettamente funzionale. Un esempio? I sacchi a pelo offerti ai fruitori dell'Highlab al Felik sono gli stessi che accompagnano nelle sue spedizioni himalayane Adriano Favre, direttore responsabile del Soccorso Alpino Valdostano e anima del progetto.

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123


idratazione

Il Soft Reservoir Salomon è facilmente riempibile grazie all’ampia apertura che si richiude inserendo lateralmente il cursore di plastica nero nella parte alta. Può essere completamente rivoltato per una facile pulizia e utilizza gli stessi materiali atossici dei flask

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Mai più senza acqua La scelta di flask e sacche idriche è sempre più ampia e sono realizzati con materiali atossici che non lasciano il sapore nelle bevande. Un motivo in più per bere, perché quando arriva la sete è già troppo tardi. Ci siamo allenati con Giulio Ornati in una torrida mattinata di luglio per vedere come un atleta top affronta il problema idratazione

foto di ANDREA SALINI/OUTDOOR STUDIO

uattro luglio, ore 9, appuntamento a Cesara, non lontano da Omegna, sopra il Lago d’Orta, terreno di allenamento abituale di Giulio Ornati del team Salomon, uno dei più forti ultra trailer in circolazione. Su queste colline ricchissime di vegetazione i trail runner di livello spuntano come funghi, se è vero che nel raggio di pochi chilometri vivono anche Riccardo Borgialli, Stefano Trisconi e Michael Dola, solo per citarne alcuni, e che qui si allena Yulia Baykova.

Q

Il sole è già alto nel cielo e per fortuna un temporale serale ha rinfrescato l’aria, ma siamo intorno ai 25 gradi e la colonnina di mercurio è in rapida salita. Giulio è puntualissimo, pronto per il suo allenamento mattutino, ma oggi sarà un po’ un fuori programma perché gli abbiamo chiesto di portarci con lui a fare un giro panoramico con vista Lago d’Orta. L’occasione per scoprire un angolo tra i più belli del Nord Italia di corsa, dove tra l’altro passa il percorso lungo dell’UTLO-Ultra Trail Lago d’Or-

ta, quello da 120 km, in programma dal 19 al 21 ottobre. Un allenamento, un giro, per vedere sul campo come un atleta top del suo livello si idrata nei giorni più caldi e trarne qualche utile consiglio per il trail runner medio, quello che… si ritrova ad avere sempre sete. L’idratazione è un aspetto fondamentale, spesso trascurato e che invece può incidere in maniera importante sulle prestazioni e sul nostro stato di salute. Si dice che si può sopravvivere settimane senza mangiare ma al massimo qualche giorno senza bere… Ci spostiamo in auto verso Egro, passando per Colma e Grassona, tutti paesini tranquillissimi, con case e chiese antiche ben tenute e tanto verde. La nostra meta è la croce di Egro, il punto più panoramico sul Lago d’Orta, una sorta di balcone a strapiombo sulle acque blu dello specchio d’acqua e la pittoresca isola di San Giulio. Appena entriamo nel bosco l’umidità aumenta, poi, quando svalichiamo e scendiamo verso il lago, veniamo investiti dal gran calore del sole e da una botta d’umidità che sale dal lago, sembra quasi di essere in una serra. Facciamo un anello salendo e scendendo per i boschi, passando tra i prati e seguendo tranquille tracce.

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idratazione NELLA FOTO \\ Giulio Ornati, classe 1986, è uno dei più forti ultra-trailer italiani. Nel suo plamarès diversi podi e vittorie e uno storico nono posto all’UTMB 2016

LA GAMMA SALOMON Salomon produce flask con capienza diversa: ad esempio si parte dal Soft Flask 150 millilitri (12 gr, 13 €) per salire al Soft Flask 500 ml (30 gr, 20 €), con una misura intermedia da 250 (20 gr, 15 €). Quello da 125 è utile per i gel e, come gli altri, si comprime man mano che si svuota, eliminando così il fastidio del liquido che si muove all’interno. Inoltre la parte alta più rigida impedisce che i flask si affloscino e diano fastidio durante la corsa. Tutti i prodotti sono in poliuretano termoplastico, senza PVC nocivi, hanno pratiche valvole con getto potente e non si aprono accidentalmente. Il materiale utilizzato è approvato per temperature fino a 60 gradi e atossico; i prodotti sono lavabili in lavatrice per eliminare efficacemente germi e batteri. Esiste anche un modello Flask Speed (34 gr, 25 €) da 500 millilitri, spesso nei gilet vest degli atleti in gara, che ha il tappo più grande e che si chiude con un quarto di giro, per velocizzare le operazioni quando anche i secondi contano.

«Questo è il tratto finale dell’UTLO, corribile, dopo una prima parte ricca di dislivello e impegnativa che ti sfianca» dice Giulio. Oggi però il problema numero uno è il caldo. «La cosa più importante è imparare ad ascoltare il proprio corpo, dopo anni di gare e allenamenti so quando e cosa bere perché se bevi quando hai sete è già tardi» continua Giulio. Ma allora, qual è la sua strategia in una giornata calda come oggi? «Di solito uso due flask, soprattutto quelli da 500 millilitri, ho calcolato che in una giornata di medio calore bevo circa mezzo litro ogni due ore, poi dipende molto dalla temperatura, dal fatto di essere in allenamento o in gara, di giorno o di notte e dal tipo di terreno» aggiunge. Alla recente 90 km du Mont Blanc, dove Ornati si è classificato decimo, il calore durante la giornata è stato il protagonista, per esempio. «Trovo che la misura da 500 millilitri sia la più equilibrata, anche se su gare corte e veloci o con punti di rifornimento ravvicinati può essere utile portarsi dietro flask più piccoli, da 250 millilitri».

Già, il peso, portarsi dietro due flask da 500 millilitri pieni vuol dire salire con un chilo in più. «Negli anni ho elaborato un mio particolare stratagemma: di solito parto con un flask pieno e l’altro riempito con i sali minerali, così è già pronto per il rifornimento, ma ho mezzo chilo in meno da portarmi sulle spalle». I flask sono lo strumento principale utilizzato dagli atleti top per l’idratazione. «Sono molto pratici, perché ti permettono di bere direttamente in corsa e il nuovo beccuccio largo velocizza il riempimento». Cosa mettere dentro? «A volte solo acqua, ma più spesso sali minerali, soprattutto quando fa più caldo: uso prodotti naturali che comprendono anche un po’ di potassio e proteine». E la Coca Cola? «La prendo qualche volta alla fine, all’ultimo rifornimento, quando non hai più tanta voglia di bere altro e la caffeina può darti un aiuto veloce e che dura poco». È importante ascoltare il proprio corpo per evitare di arrivare a bere quando si ha sete, ma ogni quanto conviene bere? «Non esiste una regola, io solitamente bevo ogni quindici minuti,

TIPS & TRICKS Ormai quasi tutte le gare hanno messo al bando i bicchieri usa e getta, soprattutto per l’aspetto ecologico della questione. Salomon commercializza un piccolo bicchiere perfettamente comprimibile per metterlo in una tasca (ma si può anche appenderlo allo zaino, grazie all’anello). Bello e pratico, serve a chi ha già i flask? «È utile se ai rifornimenti si vuole bere qualcosa di diverso rispetto a quanto abbiamo nei flask, per esempio un goccio di Coca Cola».

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E LA SACCA IDRICA? Gli atleti top la usano poco, se non in qualche raid a tappe o impresa autogestita nella natura, quando hai bisogno di portarti dietro più liquidi, però potrebbe essere utile per utilizzatori di livello più basso. A Giulio abbiamo fatto provare uno zaino Agile 12 Set di Salomon, modello naturalmente ampio rispetto alle esigenze di un top, ma interessante per la pancia del gruppo e per blitz fast & light. Può essere equipaggiato con una sacca da 1,5 o 2 litri. «Il tubo è comodo e non dà fastidio in corsa perché rimane curvato grazie al bender e bloccato dal foro e dall’occhiello sulla spalla e l’acqua non ha quel fastidioso sapore di plastica che un tempo le sacche rilasciavano» dice Giulio. Lo zaino Agile 12 Set, utilizzato nella prova, costa 100 euro, pesa 395 gr e ha già di serie due flask da 500 millilitri. Noi lo abbiamo usato con il Soft Reservoir da 1,5 litri (esiste anche da 2 litri) che costa 40 € (120 gr).

ma di notte quantità e frequenza calano e magari su una ripida salita sotto il sole mi attacco al flask». Come ci si comporta prima o dopo allenamento e gara? Naturalmente sarebbe meglio bere un po’ di più: «Difficile dare dei numeri, ma prima di allenamento e gara bevo sicuramente di più e anche dopo, sia perché ho sete ma anche per depurarmi delle tossine, in particolare, dopo prove o allenamenti particolarmente intensi, prendo una bevanda proteica». A parlare di acqua viene sete e il calore aumenta ancora. Samo alla croce di Egro, sotto di noi il Lago d’Orta sembra parte di un plastico e l’isola di San Giulio, dove Gianni Rodari ha ambientato C’era due volte il barone Lamberto, un puntino nel blu. Sulla fronte di Giulio le goccioline di sudore scendono sottili verso gli occhi. È proprio ora di fare una sosta per idratarci!

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idratazione

La parola al medico di Alessandro Da Ponte*

Un’idratazione ottimale è fondamentale per un buono stato di salute e una performance elevata, quindi ogni atleta dovrebbe curare strategie di idratazione prima, durante e dopo l’esercizio. Già una perdita di liquidi del 2% del peso corporeo può alterare la prestazione e perdite maggiori possono compromettere lo stato di salute. Il monitoraggio dell’idratazione dovrebbe essere routine quotidiana per gli atleti, e non solo quelli elite, con il controllo mattutino del peso misurato appena svegliati e dopo aver urinato: una variazione di peso rapida riflette sostanzialmente una variazione di idratazione dell’organismo e ciò vale anche durante l’esercizio fisico. Il fabbisogno idrico di un atleta può variare di molto in base a vari fattori ma si può stimare essere di circa 1 ml per kcal consumata nella giornata. In condizioni di ambiente caldo con l’esercizio possiamo perdere anche due litri di acqua all’ora con il sudore, mentre il nostro organismo ne può assorbire al massimo un litro nello stesso periodo. L’unica strategia possibile è quindi prevenire il deficit idrico partendo ben idratati e rimpiazzare al meglio le perdite durante l’esercizio. In fase acuta la perdita importante è di acqua: i sali nelle bevande per lo sport vengono

aggiunti non tanto per ripristinarne le perdite quanto per migliorare il sapore, per prevenire le alterazioni elettrolitiche che potrebbe provocare l’ingestione di sola acqua, per favorire l’assorbimento dell’acqua stessa e per facilitare la ritenzione dei fluidi nel corpo. Cominciare l’esercizio ben idratati è indispensabile, iniziando almeno dalla giornata precedente e assumendo 400-600 ml 2-4 ore prima della partenza. Non bisogna attendere di avere sete durante l’esercizio ma meglio bere 150-350 ml di liquidi ogni 15-20 minuti associati, per attività superiori all’ora, a zuccheri in concentrazione del 4-8% e sodio allo 0,5-0,7%. La perdita di liquidi con la sudorazione continua anche finito l’esercizio, quindi l’acqua da introdurre dopo l’attività fisica è pari al 150% della perdita stimata: per esempio, se pesandoci dopo la corsa abbiamo perso 1 kg di peso, dobbiamo bere 1.5 litri d’acqua o meglio ancora soluzione zuccherata salina ipotonica, cioè acqua con zucchero al 4-6% e sale da cucina (cloruro di sodio) alla concentrazione di 0.45 g/l, così da accelerare il recupero. *medico dello sport, specialista in ematologia, medico della nazionale italiana di sci

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XL MAGAZINE LE ULTIME NEWS DAL NEGOZIO SPECIALIZZATO XL MOUNTAIN Aperti tutte le domeniche

A PIEDI, DA FONDOVALLE ALLE VETTE Fedele al tema di questo numero della rivista, XL Mountain in chiave estiva offre tutto ciò che può servire a chi vuole muoversi in montagna d’estate. Trail running, hiking, trekking o alpinismo, lo staff sarà pronto a consigliarvi per l’acquisto di calzature e accessori. I migliori modelli di La Sportiva e Scarpa per ogni tipo di approccio: dalla corsa, alla camminata veloce, dal trekking di uno o più giorni, all’alpinismo di media e alta quota. Senza dimenticare i preziosi ramponi: da quelli super-light per correre a ridosso dei nevai a quelli cuffia/cuffia, semi-automatici e automatici.

TRUCKER HAT MANIA

L’IMPORTANZA DEL BASTONCINO

I cappellini a rete da camionista sono una delle tendenze del momento. Abbiamo scelto i più belli (e spesso introvabili) delle aziende che trattiamo in negozio: Patagonia, Arc'teryx, Prana, DPS, Black Diamond e altri ancora.

In Italia forse manca ancora la cultura dell’importanza di un bastone di buon livello per correre, ma anche per camminare in montagna. Insistiamo molto con i nostri clienti su questo tema e abbiamo a disposizione una scelta di modelli leggerissimi e performanti che possono dare un grosso aiuto a chi corre o cammina.

SEMPRE SUL PEZZO Nel mese di luglio nel laboratorio di XL Mountain si sono svolti i test al banco di oltre 50 paia di attacchi da scialpinismo per la Buyer’s Guide 2019 di Skialper. Oltre al Drivetronic di Wintersteiger da quest’anno lo staff ha potuto usufruire anche del Jetbond di Montana. In edicola a inizio novembre!

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XL Mountain - SS 26, 76 Settimo Vittone (TO) a pochi chilometri dal casello di Quincinetto della A5 - tel 0125 659103 - aperto tutti i giorni eccetto lunedì

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Un’estate multi-sport Il bosco Caproni prende il nome dalla famiglia dell’ingegnere pioniere dell’aviazione ed è al centro di un anello alle porte di Arco che tocca antiche trincee, cave e palestre d’arrampicata. Omar Oprandi, Guida alpina, bergamasco trapiantato in Trentino che i lettori di Skialper conoscono per i suoi concatenamenti con gli sci da alpinismo, ci ha portato alla scoperta delle sorprese che riserva l’area della falesia Massone Policromuro, a due passi dal Lago di Garda, con la figlia Niki. Un perfetto campo prova per scarpe e gusci con le tecnologie GORE-TEX più adatte al clima estivo. E uno spunto per la perfetta vacanza in famiglia foto di ALICE RUSSOLO

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materiali Le scarpe travel sono state pensate per il tempo libero e le vacanze, ma anche per portare in città lo stile outdoor. Comfort e look sono le priorità, ma chi ha detto che non possono affrontare anche un po’ di vero outdoor? Dipende dai modelli, alcuni naturalmente sono più modaioli di altri, come le Aku Climatica Suede GTX (174,90 €), si comportano bene pure lontano dall’asfalto e dai parchi cittadini. E hanno un plus non da poco: sono fresche oltre che impermeabili. La tecnologia GORE-TEX SURROUND® di ultima generazione che traspira grazie alla speciale costruzione con aperture laterali nella suola, mantenendo i piedi asciutti nelle giornate più calde, sia in caso di pioggia o di sole. Omar le ha messe alla prova nelle

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trincee del Bosco Caproni, costruite dal comando austriaco per controllare la valle del Sarca durante la Prima Guerra Mondiale. «Le temperature a Massone Policromuro

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sono elevate, soprattutto in estate, eppure non abbiamo mai patito il caldo e non è male avere un prodotto impermeabile visto che l’area del Garda Trentino è ricca di torrenti da guadare» dice Omar.

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Il rinforzo in TPU controlla la flessione e la torsione della scarpa mantenendo un’ampia superficie traspirante sotto il piede.

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L’umidità e il calore vengono allontanati attraverso le aperture laterali della suola e non solo dalla tomaia con fodera in GORE-TEX.

Il bosco Caproni si estende per circa 44 ettari alla base del Monte Stivo e prende il nome dalla famiglia di Gianni Caproni, ingegnere aeronautico nato

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proprio a Massone nel 1866. È il bosco di Lecci più settentrionale d’Europa e un terreno ideale per

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una corsetta. La giacca Montura Flyaway (249 €) è perfetta per la corsa in ambienti umidi e

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quando piove, grazie alla grande leggerezza data dalla tecnologia GORE-TEX SHAKEDRY™, la più leggera e traspirante, oltre che impermeabile, con valori di traspirabilità inferiori a 3,5 RET e di colonna d’acqua di ben 28.000 mm. «È davvero leggera e non impaccia i movimenti quando ci si muove, anche veloci: a differenza delle giacche a vento tradizionali con peso ridotto, sembra traspirare molto bene» le impressioni di Omar.

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Cappuccio con visiera semi rigida, fascia aderente alla fronte ed elastico pretensionato sul dietro

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Applicazioni rifrangenti per una migliore visibilità

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Zip principale impermeabile, tasche mani con zip spalmata


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La passeggiata nei pressi della falesia di Massone porta anche a entrare nella roccia nella cava di oolite (o pietra statuaria) attiva fino agli inizi del secolo scorso. Un ambiente più fresco e umido, uno spunto per provare anche la Montura Hero Jacket (389 €), in membrana GORE-TEX a tre strati, un po’ più pesante, pesantezza che si riflette soprattutto sulla

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Cappuccio compatibile con casco

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Fondo con regolazione tramite cordino elastico e

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Rinforzi anti-abrasione sulle spalle

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Polsi con elastico parziale e regolazione tramite

fermacorda

resistenza all’abrasione, molto valida e che la rende indicata anche per l'alpinismo. I dati di impermeabilità sono sempre molto elevati (28.000 mm) e la traspirabilità appena inferiore alla top di gamma per questo aspetto, la Flyaway. «È il più tecnico dei gusci provati, ideale soprattutto in montagna grazie alle ottime doti di resistenza e a un peso un po’ superiore» spiega Omar.

GORE-TEX SURROUND®

NEW GORE-TEX ACTIVE

velcro

GORE-TEX SHAKEDRY™

Le calzature per attività outdoor con tecnologia di

Capi estremamente traspiranti anche

Tecnologia a due strati con la membrana

prodotto GORE-TEX SURROUND® sono impermeabili

durante attività ad elevato impatto

GORE-TEX che si trova all'esterno e

nel tempo ed estremamente traspiranti. L'umidità

aerobico, impermeabili e antivento nel

impedisce l'assorbimento dell'acqua,

e il calore vengono allontanati non solo attraverso

tempo, morbidi al tatto e molto confortevoli

che scivola via grazie alle sue qualità

la tomaia, ma anche dal basso tramite il laminato

sulla pelle, durante e dopo ogni attività.

idrorepellenti. Ultra-leggera, comprimibile

GORE-TEX, in una griglia di ventilazione. Da lì

Il tessuto sottile con densità da 13 a

e altamente traspirante, ha una fodera

possono fuoriuscire attraverso le ampie aperture

30 denari, il peso inferiore a 200 gr e

interna che garantisce un ottimo comfort

laterali della suola. La parte inferiore del piede

l’ingombro minimo rendono questi capi a

sulla pelle. Non inzuppandosi mai, mantiene

traspira molto (basta guardare l’alone che rimane

tre strati i compagni ideali per le attività ad

il capo leggero a tutto vantaggio della

sulle piastrelle quando camminiamo a piedi nudi

elevata intensità.

performance.

in estate) e grazie a questa tecnologia, oltre a mantenere il giusto micro-clima, si evitano le fastidiose vesciche.

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Le cave di Oolite creano un’atmosfera magica. Qui, come nella foto di apertura, Omar indossa una giacca Salewa Pedroc 2 GORE-TEX Active (350 €),

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il giusto compromesso tra un capo ultraleggero (pesa comunque poco, 215 gr) e uno più strutturato.

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«È un capo perfetto per il multi-sport, dalla corsa alle escursioni fast & light, ma anche in città quando ci sorprende il temporale, grazie alla possibilità di essere compressa facilmente e al poco ingombro»

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dice Omar.

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Non ha tasche laterali ma una comoda frontale in stile Napoleone, dove trova spazio la leggera e piccola custodia nella quale la si può piegare

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Spalle e maniche ergonomiche per una migliore vestibilità

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Cappuccio fisso preformato e regolabile

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Dettagli rifrangenti, cuciture termosaldate e cerniere impermeabili

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È un modello che privilegia il lato lifestyle Dolomite Cinquantaquattro SURROUND® (155,90 €), 235 grammi di peso, perfetta per muoversi comodi in vacanza o per l’aperitivo nelle vie del centro storico di Arco, sul lungolago di Torbole o sotto il tavolo di un’osteria che propone la gustosa carne salada. I fori della tecnologia GORE-TEX SURROUND® sono vistosi e respira davvero bene: «Non ho mai patito caldo e allo stesso tempo è pronta ad affrontare un temporale estivo mantenendo il piede asciutto, però la suola piuttosto liscia la rende adatta al massimo a una strada bianca». O al guado di un ruscello…

INFO L'escursione a Bosco Caproni è un itinerario facile, con partenza da Massone seguendo le indicazioni per le falesie di Policromuro Lunghezza: 5,1 km Durata media: 2 ore Dislivello: 220 m Omar Oprandi può essere contattato tramite il sito www.omaroprandi.it

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NELLA FOTO \\ Thule Sapling Elite è Lo zaino porta bambino che trasporta in modo comodo e sicuro il prezioso carico ed è dotato di regolazione rapida per adattarsi a entrambi i genitori, specchio per controllare il bambino, zaino rimovibile. Costa 349 euro.

Thule Gli zaini versatili La casa svedese famosa per design e qualità dei prodotti propone le linee Stir e AllTrail per gli escursionisti e nel 2019 pensa ai viaggiatori con Landmark

C’erano una volta i portasci e i portapacchi per auto Thule. E ci sono ancora, naturalmente. Però la casa svedese che produce accessori dall’inconfondibile design, da diversi anni ha saputo evolversi fino a diventare uno dei principali produttori di zaini per viaggi e vacanze o avventure outdoor. Prodotti che hanno scosso il mercato, portando innovazioni e stile inconfondibili. Anno dopo anno la collezione è diventata sempre più completa e ora Thule ha una soluzione per ogni esigenza, dalla semplice gita fuori porta di qualche

ora ai lunghi trekking o alle estati passate girovagando da un Paese all’altro. THULE STIR, IL TUTTOFARE La linea Stir è sicuramente quella più versatile per la vita di tutti i giorni con volumi che vanno da 15 litri per salire a 20 e 35. Tutte dimensioni ideali per una veloce escursione ma anche nella vita di tutti i giorni. Il 2018 porta due nuovi litraggi, 18 e 28, e nuove varianti colore sul 15, 20 e 35 litri. Le versioni più grandi, 28 e 35, esistono anche nella comoda variante femminile. Tra i dettagli che facilitano l’uso in città, la possibilità di asportare la cintura ai fianchi e quella sternale o comunque di nascondere la prima dietro al pannello dello schienale. Sul 35 litri inoltre il sistema StormGuard, dotato di una copertura antipioggia parziale e di una fodera inferiore impermeabile, offre un accesso migliore, mantiene l’attrezzatura più asciutta ed è più resistente rispetto a una copertura antipioggia tradizionale. Su questo modello più capiente non mancano gli agganci per bastoni e piccozze o materiali catarifrangentie. I prezzi vanno da 54,50 a 130,50 euro.

NEL 2019 ARRIVA THULE LANDMARK

Quando l’organizzazione dei bagagli, la comodità e la versatilità di uno zaino da trekking sono necessari, arriva Thule Landmark. L’apertura in stile valigia e le cinghie di compressione interne permettono di impacchettare e raggiungere facilmente le attrezzature, sapendo che tutto il contenuto rimarrà sicuro al proprio posto. Il design aerodinamico elimina cinghie penzolanti e inutili e offre opzioni a scomparsa o una copertura del pannello posteriore per evitare danni quando lo zaino è riposto nelle cappelliere, nei compartimenti cargo e sui nastri bagagli. Una tasca nascosta CashStash, inoltre, fornisce un posto dove depositare discretamente denaro, un passaporto o documenti di viaggio importanti. Thule Landmark sarà disponibile nel 2019 in tre diverse dimensioni: 40L, 60L (40L+20L) e 70L (50L+20L). Questi ultimi avranno un secondo pratico zainetto collegabile con quello principale.

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THULE STIR ALLTRAIL, NO PROBLEM Novità 2018, pensata per affrontare camminate in giornata, brevi escursioni, vita da campeggio o un fine settimana fuori porta, la linea AllTrail propone due capienze, 35 e 45 litri, in versione uomo e donna, con la regolazione del busto di 10 cm/4 pollici per garantire una vestibilità perfetta. Thule AllTrail è lo zaino versatile che permetterà di fare qualsiasi cosa. Dalla rain cover integrata, alla tasca dedicata all’idratazione, dagli spallacci regolabili e traspiranti, alla cintura lombare e allo schienale imbottiti, ha proprio tutto. Lo zaino è inoltre dotato di VersaClick Pole Holder, un comodo accessorio presente sulla cintura lombare che consente di raggiungere i bastoni da trekking senza togliere lo zaino dalle spalle. L’innovativo sistema presente sulla cintura consente di attaccare differenti accessori ed è compatibile con tutti gli accessori Thule VersaClick (acquistabili separatamente). I prezzi vanno da 149,50 a 174 euro. www.thule.com - www.panoramadiffusion.it


SKYLOTEC Fondata nel 1947, con sede a Neuwied, in Germania, è un’azienda a gestione familiare leader nella produzione di sistemi di protezione anticaduta e di sicurezza per lo sport e l’industria. In catalogo set da ferrata, imbragature, caschi, moschettoni, fettucce, corde e accessori vari. Due gli highlight prodotto dai quali partire per meglio conoscere Skylotec. Il set da ferrata Rider 3.0, con innovativo sistema bloccante scorrevole per fune che si blocca automaticamente in caso di caduta, occhiello per moschettone in caso di catene, sistema di determinazione del diametro necessario per la fune e ammortizzatore di caduta è sicuramente uno dei must (tra l’altro esiste anche un set per ragazzi, Skysafe SAM). Interessanti anche i caschi, con il modello Grid Vent 55 e 61 che è leggero (da 265 a 280 gr), ben areato e certificato EN 12492, UIAA 106. Praticamente perfetto per tutte le attività in montagna, dall’arrampicata all’alpinismo e alle ferrate. GENTIC Quando qualcuno iniziava a sussurrare il termine bouldering, Gentic esisteva già. Il marchio è nato a Monaco di Baviera nel 1988 dalla mente visionaria di Wolfgang Müller, poi vittima di un brutto incidente in montagna, al quale è sopravvissuto, ma che ha determinato la fine del brand, rinato nel 2015. L’azienda è specializzata nella produzione di abbigliamento boulder e da questa stagione, per la prima volta, con la collezione InsideOut, ha inserito in catalogo capi per la protezione dagli elementi. Oltre al look, davvero glamour per chi ama arrampicare, Gentic punta su tecnicità e rispetto. Rispetto per la natura e i lavoratori. Tutti i capi hanno infatti un label WTF (Witness the fair) perché prodotti in Europa, privilegiando materiali organici, come il cotone, rispettando severi standard sulle condizioni lavorative delle persone impiegate nella produzione e sui packaging, tutti di carta, materiale riciclabile. Le etichette e i patch, invece, sono in sughero italiano, realizzato senza l’utilizzo di additivi chimici e riciclabile.

Skylotec e Gentic Sicurezza e stile in parete I due marchi tedeschi dal 2018 sono nel portafoglio dei brand commercializzati da Panorama Diffusion Il 2018 porta due belle novità per gli appassionati di outdoor: Panorama Diffusion, azienda altoatesina specializzata nella commercializzazione di brand di qualità del panorama sportivo, tra i quali Meindl, Vaude e Sea to Summit, aggiunge Skylotec e Gentic al suo portafoglio. I due marchi tedeschi (già questa una garanzia di qualità) sono il top rispettivamente nella sicurezza in montagna (e naturalmente anche sul lavoro) e nell’abbigliamento boulder.

www.panoramadiffusion.it

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Millet Light Rush Non solo leggera La nuova scarpa da trail della casa francese ha una tomaia innovativa, resistente e leggera, e una suola Michelin ben studiata. Potrebbe essere una delle sorprese della Outdoor Guide 2019 foto di ANDREA SALINI/OUTDOOR STUDIO

Ne avevamo letto le lusinghiere recensioni nei test dei colleghi francesi di Trails Endurance Mag e non vedevamo l’ora di provarla, visto che non siamo riusciti a farlo per questa edizione della nostra Outdoor Guide. Stiamo parlando di Millet Light Rush, la nuova scarpa da trail con suola Michelin del marchio francese. Abbiamo organizzato un primo contatto facendola mettere ai piedi di Stefano Trisconi, uno dei decani del mondo del trail italiano e nostro storico testatore. Una prova per prendere le misure del nuovo gioiellino made in France, in attesa di metterla alla frusta nella Outdoor Guide 2019. Che dire… le premesse sono interessanti. Light Rush non passa inosservata grazie alla tomaia in un materiale molto particolare, Matryx, vale a dire un intreccio di fili di nylon e di kevlar che danno vita a un insieme molto resistente alle abrasioni senza appesantire la struttura che è davvero light, con valori di circa 260 gr. L’allacciatura è di stile speedlace e la suola Michelin ben disegnata, con tasselli non troppo alti, pensati per la trazione davanti e per frenare dietro. Il drop è di 6 mm. Altre particolarità sono il tirante che unisce i rinforzi della tomaia sopra alla stringatura, poco sotto il collo del piede, e l’elastico ferma lacci, molto pratico. «È sicuramente una scarpa leggera, non affatica mai il piede e asseconda ritmi veloci, nonostante questo non è per niente secca, ma ben ammortizzata, pur rimanendo sempre bassa sul terreno, e la suola sembra valida, soprattutto su sentieri e terreni trail di media tecnicità» dice Stefano, che la utilizzerebbe sia su distanze medio-corte che più lunghe. La stringatura è uniforme, «bisogna abituarsi al tirante centrale, che tiene ben fasciato il piede e davanti le forme sono abbastanza ampie per chi, come me, ha i piedi magri». In definitiva? Stefano vorrebbe provarla in gara. Sembra proprio una scarpa no problem, per atleti dal medio livello in su e la tomaia è davvero innovativa. Quando si parte?

MILLET LIGHT RUSH Peso: 260 gr Tomaia: Matryx nylon/kevlar Intersuola: EVA Drop: 6 mm Prezzo: 149,95 euro

TOTAL LOOK In occasione della prova Stefano Trisconi ha indossato anche la maglia tecnica LTK Seamless TS SS, i pant LTK Speed Long Short e lo zaino Intense 15.

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Must have 3 bastoni per il 2019 1. KOMPERDELL SHOCKMASTER PRO POWERLOCK COMPACT Tutto tradizionale: alluminio, chiusura telescopica (ripiegato misura 161 cm), con un comodissimo shock-absorber in punta. Prestazione sì, ma con comfort. Regolabile 90-120 cm, chiuso 61 cm. Comfort top.

2. MASTERS SUMMIT ADVENTURE Comoda impugnatura lunga, passamano leggero, fusto in Alutech 7075 con il pratico e affidabile sistema interno BS di bloccaggio delle sezioni in plastica DuPont. Regolabile 110-135 cm, chiuso 61 cm, pesa 221 gr. Trekking top.

Julbo Aero Come non averli

3. LEKI BLACK SERIES MICRO VARIO CARBON Irresistibile il look total black del Micro Vario Carbon in versione speciale. Ma non è solo immagine… Provate il nuovo sistema di chiusura CLD, Core Locking Device senza il tradizionale nottolino da schiacciare e sarà tutta un’altra vita!

JULBO AERO Peso: 26 gr Lenti: Zebra light red fotocromatiche e antiappannamento Prezzo: 175 euro - limited edition UTMB 200 euro www.julbo.com

Il modello da running del costruttore francese è leggero e piacevole da indossare e ha un ampio campo visivo Quando si va a correre il dubbio viene: mettere gli occhiali da sole (e noi diciamo sì!) o no? E soprattutto, quali occhiali? Nella maggior parte dei casi, infatti, per correre si usa un modello per sport veloci, per esempio da bici. Julbo, il costruttore francese partner tecnico di diversi trail runner top, propone invece un occhiale specifico da running, Aero, pensato per sforzi intensi come quelli del vertical. Una montatura versatile, valida anche per gare up & down e più lunghe naturalmente. Abbiamo avuto la possibilità di provare Aero per alcune settimane, mettendolo alla prova in diverse situazioni. Quello che ci ha piacevolmente sorpreso, in un insieme ben equilibrato e senza evidenti punti deboli, sono soprattutto la comodità, che fa rima con leggerezza, e l’ampio campo visivo in abbinamento con la qualità delle lenti fotocromatiche. Ci si scorda di averli addosso: astine impercettibili e nasello top, che non lascia alcun segno. La montatura è interamente in materiale plastico piacevole al tatto e la forma ben avvolgente lascia passare un costante (e piacevole) flusso d’aria. Le lenti hanno un campo visivo davvero ampio e soprattutto si adattano bene alle diverse condizioni di luce, con un passaggio al tempo stesso graduale e veloce dal sole al buio e viceversa. Insomma, esame superato, attenzione solamente a non metterli sopra al cappello da sole perché se lo toglierete e vi cadranno per terra potreste non accorgervene tanto sono leggeri e impercettibile il rumore del tonfo… 137

©Andrea Salini/Outdoorstudio


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Wild Country Meshuga e Parthian Due ventose Abbiamo provato le nuove scarpette d’arrampicata con suola Michelin

Da tempo si parla di una grossa novità del settore climbing: le scarpe da arrampicata in cui la casa inglese ha messo a punto una tecnologia che si basa su tomaia Wild Country e suola in 3D della Michelin. L’importanza del marchio di pneumatici non può che disegnare scenari di grandi prestazioni in fatto di tenuta e di aderenza su ogni tipo di roccia. Tomaie in materiale poliuretanico a tre strati sapientemente assemblati in modo da offrire differenti tensioni nelle diverse parti del piede si combinano con la suola Michelin studiata per avvolgere anche la parte mediana del piede in un unico stampo. Per ora i modelli in commercio sono due: Meshuga, con chiusura a velcro, e Parthian con chiusura a lacci. La prima destinata agli amanti degli strapiombi e delle alte prestazioni in falesia e l'altra per un'arrampicata di precisione su micro tacche, su placche e per vie trad e multipitch. Per meglio cogliere i contenuti tecnologici di queste scarpe abbiamo deciso di sottoporle a un test sulla roccia in cui si potessero apprezzare e valutare le innovazioni proposte dalla Wild Country. Il test prevedeva una prima fase dedicata alla calzata in cui evidenziare a quale stereotipo di piede meglio si adattano e per le considerazioni sull’accesso vero e proprio e il suo bloccaggio. La seconda parte era interamente dedicata alla prova sul campo con passaggi in strapiombo di diversa difficoltà e prove di tenuta sia su placca liscia che su microtacche. Testatore Luca Giammarco, allenatore FASI, titolare della palestra Bside di Torino, da sempre coinvolto nel mondo dell’arrampicata, prima come atleta e poi come scopritore e formatore di nuovi talenti. Nella palestra torinese si sono formati climber di spicco come Stefano Ghisolfi, Marcello Bombardi, Asia Gollo e per un certo periodo anche il Puma, Gabriele Moroni. Proprio in questi giorni sta seguendo atleti più giovani che hanno ben figurato ai Campionati Italiani di categoria. 138


UNA SUOLA STAMPATA Per la prima volta la suola di un paio di scarpette da arrampicata è stata stampata, a differenza della tradizionale metodologia che prevede il taglio della suola da una lastra di gomma. Per questo, per garantire al consumatore una risuolatura efficace e performante, il climber può rivolgersi a Wild Country compilando il form sul sito www.wildcountry.com/en-gb/contact o al negozio nel quale ha comprato le scarpette. La mescola formula wild si ispira alla tecnologia utilizzata da Michelin negli pneumatici da MotoGP, le gomme slick per intenderci. In particolare, il compound formula wild è stato pensato per offrire un grip valido in un’ampia gamma di temperature. Meshuga e Parthian costano 165 euro.

Calzata Dato che il testatore porta il 45 di piede, anche alla luce dei consigli della casa, si è optato per una Parthian dello stesso numero. L’accesso del piede non ha incontrato problemi e la scarpa si è rivelata confortevole fin da subito. La chiusura a lacci ha permesso un buon bloccaggio. Le Meshuga, un numero in meno, non hanno comunque creato problemi di calzata. Dobbiamo comunque tenere presente che climber del livello di Giammarco sono abituati da sempre a utilizzare scarpette di tre numeri inferiori al proprio…

Sensazioni La Parthian ha fornito sensazioni di grande aderenza nelle fasi di spalmo ma anche su microtacche. Certamente una scarpa destinata anche a vie multipitch in cui il comfort non guasta. Il tester ha dedotto che, usando una mezza misura in meno, la scarpetta gli avrebbe garantito ulteriore precisione su tacche molto piccole. Con un numero in meno sarebbe stata adatta anche per scalare in falesia su tiri verticali. Le Meshuga si sono rivelate più performanti per tiri tecnici in cui la tecnica di strapiombo la fa da padrona. Alla fine della prova sul campo il verdetto è stato positivo. Unica perplessità: la mancanza di fettucce posteriori per calzare le scarpette, ma due fori in cui infilare gli indici della mano. Inoltre è balzata all’occhio l’altezza complessiva della parte posteriore di almeno un centimetro superiore rispetto alle scarpette tradizionali. Rispetto poi alla traspirabilità del tessuto della tomaia la risposta verrà solo dopo molte ore di utilizzo nella stagione più calda.

SPOT

Per le prove su roccia si è optato per la falesia di Montestrutto, in Piemonte, in grado di offrire tutte le tipologie di arrampicata. Primo tiro su placca tecnica verticale: micro appoggi e grande lavoro di dita. Si è poi passati a una placca appoggiata povera di appigli in cui veniva richiesta una buona sensibilità sui piedi e parecchio spalmo. Il tiro in strapiombo aggiungeva alla difficoltà dei passi alcuni tratti di roccia ancora bagnata dalle ultime frequenti piogge. 139


Le calzature Montura: una via innovativa verso comfort e prestazione testo di MATTEO MONCALERO e ROBERTO BOMBARDA

Un nuovo livello di performance e comfort: è il risultato determinato dalla ricerca sui materiali e dall’impiego di nuove tecniche costruttive scelte da Montura per la produzione delle proprie calzature. In questo modo si è potuta migliorare l’efficienza funzionale del prodotto, pensato in maniera specifica per ogni destinazione di utilizzo al fine di conseguire i più alti standard di categoria.

La neutralità termica ed ergonomica - ad esempio - può essere alterata dalla sensazione di caldo o freddo percepito, dal raffreddamento o riscaldamento eccessivo di una parte del corpo, una costrizione prolungata, uno sfregamento della cute o una sollecitazione di un urto reiterata nel tempo. Uno dei punti più sensibili del nostro corpo è sicuramente il piede. Il piede umano è un sistema complesso e la sua importanza strategica per il nostro movimento gli conferisce un ruolo primario anche nel conseguimento del comfort. Muoversi con una calzatura appropriata specialmente durante le attività outdoor intense ed impegnative è la condizione necessaria per poterci concentrare sull’attività che desideriamo svolgere affinché l’esperienza vissuta sia la migliore possibile.

Montura ha ideato un’innovativa costruzione per le sue calzature, denominata Identity Fit SistemTM , che assicura massimi livelli di comfort ed adattabilità della calzata per ogni singolo utente. Ma che cosa intendiamo, in definitiva, con il termine comfort? Il comfort è un concetto affascinante: un individuo è in comfort quando raggiunge uno stato di neutralità. Le condizioni che possono alterare tale stato di neutralità sono molteplici e riguardano sia le interazioni con l’ambiente che ci circonda sia quelle con i materiali. Infatti, anche gli oggetti che utilizziamo e indossiamo hanno la capacità di influire sul nostro stato di benessere.

Questo è il motivo per il quale, a volte in modo inconsapevole, cerchiamo una calzatura molto traspirante durante l’estate, una calzatura con elevati criteri di cushioning con cui affrontare un lungo trail oppure una scarpa precisa e sensibile per ottenere la massima prestazione.

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tecnologie

ERGO SHAPE CONSTRUCTION Innovativo sistema di costruzione asimmetrica di tomaia e suola che, abbinata ad una forma anatomica, garantisce la massima ergonomia in tutte le fasi di utilizzo.

3D DYNAMIC WRAPPING Costruzione della tomaia a due zone differenziate, che permette una perfetta regolazione dei volumi interni avvolgendo il piede in modo preciso e confortevole. La sinergia del sistema di chiusura con i materiali della tomaia è sempre nel totale rispetto dell’ergonomia del piede, garantendo un’ottima calzata e la massima reattività del prodotto su ogni terreno.

DUAL ZONE LACING SYSTEM XT Sistema di allacciatura veloce diviso in due zone, permette un’ottima personalizzazione della chiusura, avvolgendo il piede comodamente e con maggiore precisione.

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tecnologie

ERGO INSOLE T2S Ogni calzatura Montura è dotata di due coppie di plantari con spessore di 3 mm o 5 mm. La tecnologia Ergoinsole offre ammortizzazione superiore, comfort, traspirabilità e resistenza. L’abbinamento della tecnologia X-Static fiber® protegge i plantari contro lo sviluppo di cattivi odori dovuti alla sudorazione del piede. Benefici: maggiore traspirazione, elevato smaltimento del sudore mantenendo il piede asciutto, maggiore durata nel tempo grazie ad una tecnologia che evita la compressione eccessiva del materiale, trattamento antibatterico X-STATIC per una miglior igiene del piede.

www.montura.it - www.monturastore.com

NELLE FOTO \\ I plantari Ergo Insole T2S (a sinistra), un esempio di analisi termografica per la valutazione della prestazione isolante del blocco suola (sotto)

Dal punto di vista della valutazione del comfort termo-fisiologico, le calzature della collezione Mountain (Supervertigo e Vertigo) sono state testate sia sul campo che in camera climatica simulando le più severe condizioni ambientali. Durante i test sono stati registrati i parametri fisiologici e la sensazione soggettiva di comfort di ciascuna persona che ha testato le calzature; questi dati hanno poi subito un’analisi statistica per ottenere la valutazione della migliore prestazione termica del sistema suola-tomaia. L’ottenimento del risultato è stato reso possibile tramite l’utilizzo di sensori wireless miniaturizzati inseriti all’interno delle calzature e in grado di misurare temperatura e umidità relativa e tramite la valutazione delle dispersioni termiche attraverso il monitoraggio con termo-camera a infrarossi. I risultati ottenuti certificano prestazioni termiche al top della categoria che abbinano elevati standard di comfort termico alla sicurezza di un’adeguata protezione del piede dal freddo anche nelle condizioni più severe. 142


©Klemen Gricar

Anche la caratterizzazione delle proprietà meccaniche dei materiali che compongono il blocco suola delle calzature Montura, per la linea Mountain, è diffusamente esplorata dal reparto R&D con la volontà di ottenere il miglior rapporto tra peso, protezione e prestazione.

curezza è il frutto di una precisa selezione dei materiali abbinata al costante miglioramento del design e della funzionalità di ogni componente. Nell’intricato scenario che vede coinvolte le interazioni tra ambiente, materiali ed il piede degli appassionati di attività outdoor, le calzature Montura si sono poste l’obiettivo di garantire i più elevati livelli di comfort, prestazione e sicurezza unendo un fit preciso e confortevole ad un ottimale supporto del piede per un utilizzo versatile ed efficace in tutte le condizioni.

La capacità di assorbire gli urti derivanti dalla camminata o dalla corsa ma allo stesso tempo di offrire il corretto supporto del piede ed una adeguata restituzione dell’energia a beneficio di comfort e si143


materiali

Kaptiva di nome e di fatto Abbiamo fatto provare a Michele Tavernaro le nuove scarpe da mountain running La Sportiva della stagione 2019 testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di ALICE RUSSOLO

nome è già una dichiarazione d’intenti: Kaptiva. Ed è la più attesa (Bushido II permettendo) tra le nuove scarpe da mountain running La Sportiva per la primavera-estate 2019. La più attesa perché va a occupare una casella che era libera e sarà esattamente al centro dell’offerta della casa di Ziano a partire dall’anno prossimo. Calzata normale, per piedi medi, medio-lunghe distanze, è proprio sopra alla Bushido II e sotto alla Ultra Raptor e alla Unika per calzata e distanze. Insomma, una versatile per coprire la fetta più interessante del mercato, quella dove c’è fermento negli ultimi anni. Non facciamo i nomi delle competitor, ma se avete letto la nostra Outdoor Guide vi renderete contro che la concorrenza è ampia e che qui si gioca il futuro del mountain running.

IL

Scarpe versatili, ben ammortizzate, leggere e veloci, pensate per accontentare il runner di medio alto livello, ma ben apprezzate anche dai top, magari fino a distanze un po’ più lunghe rispetto a quelle per le quali sono concepite. Siamo curiosi di metterla ai piedi durante i test della prossima Outdoor Guide, ma intanto l’abbiamo fatta calzare per una prova in anteprima a Michele Tavernaro, atleta del Team La Sportiva. Il 144


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materiali

terreno del nostro test sono stati sentieri e single track di Passo Rolle, curiosamente proprio quell’enorme parco avventura naturale dove il patron de La Sportiva, Lorenzo Delladio, avrebbe voluto creare un vero e proprio Outdoor Paradise, con percorsi segnalati per trail running, skialp e tanto altro. Un campo prove valido, con continue salite e discese che spezzano il ritmo e terreno grasso e umido, molto temuto dalle suole. Michele poi ha continuato a usare la Kaptiva nei suoi allenamenti dei giorni successivi. «È un compromesso molto interessante tra leggerezza e protezione, è un modello per correre a ritmi alti, il piede rimane sempre leggero, però allo stesso tempo è a prova di urto e anche la sensibilità da sotto, molto buona, non è mai fastidiosa». Per atleti top dunque, che vogliono sempre leggere il terreno e andare veloci, ma anche per il medio livello, che potrà avere ai piedi una cattiva ma allo stesso tempo protettiva. «Se dovessi posizionarla, la metterei senza dubbio tra le scarpe prestazionali e per atleti di buon livello, non ho dubbi, però il cushioning è sempre valido, non è secca come altre scarpe simili, è sicuramente un modello da gara, direi per skyrace e, per i top, anche fino alle skymarathon». Ci sono altri due aspetti che hanno ben impressionato Michele. «Ho apprezzato particolarmente il collarino che sostituisce la linguetta, che avvolge sempre bene la caviglia e previene l’entrata di brecciolino o sassi, soprattutto su terreni accidentati e poi un plauso va fatto alla suola, è difficile trovare tanta versatilità». Michele ha infatti provato Kaptiva a lungo anche dopo il nostro test, impegnandola su roccia asciutta e bagnata, fango, erba: «Va bene ovunque, difficile trovare dei punti deboli o terreni meno adatti» la sua conclusione. Kaptiva fino in fondo!

I tasselli sono a inclinazione differenziata

Il collarino Dirt-guard avvolge la caviglia dando sempre un senso di protezione e previene l’entrata dei sassolini

La vestibilità è aderente e confortevole, per gare fino alla media distanze e utilizzatori di medio-alto livello

Le linee di taglio Flex Grooves facilitano la rullata e agevolano la flessibilità, dando sempre la giusta reattività

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IL TESTATORE MICHELE TAVERNARO Originario di Feltre ma residente in Primiero, Trentino, ex orientista, classe 1975, è uno dei decani del team La Sportiva. Nato skyrunner, ora sta allungando le distanze. In questa stagione ha corso la prima edizione della W Ultra e la Dolomyths Run, giusto per citare due prove.

LA SPORTIVA KAPTIVA Peso: 280 gr Drop: 6 mm Tomaia: mesh stabilizzante anti-deformazione + rinforzi senza cuciture + linguella in tessuto knit elastico Intersuola: EVA a compressione e inserti in TPU stabilizzanti e antitorsionali + inserto rock guard in EVA bi-denistĂ Suola: FriXion White con Impact Brake System e tasselli predisposti per il montaggio dei chiodi AT Grip Spike per la corsa invernale

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It’s my nature

PONTEDILEGNO-TONALE BREAKING NEWS www.pontedilegnotonale.com 2 SETTEMBRE

9 E 22 AGOSTO

GAVIA BIKE RACE

ALBA IN QUOTA

It’s my nature

Salita mitica su due ruote

Il mattino ha l’oro in bocca

Una domenica di grande ciclismo, con la strada del Gavia chiusa al traffico motorizzato. Una prima edizione con un percorso mozzafiato, che si sviluppa su un tracciato di 18 km di lunghezza per un dislivello positivo di 1.364 metri e con una pendenza media del 7,5%. Partenza dalla Piazza XVII Settembre di Ponte di Legno e arrivo a 2.621 metri di quota nella splendida cornice del Passo Gavia, con vista a 360° sulle cime del gruppo OrtlesCevedale e Adamello-Presanella. Gavia Bike non è solo competizione e fatica ma è anche raduno e divertimento assicurato per tutti gli amanti della bicicletta e delle E-bike! www.pontedilegnotonalebike.com

Una suggestiva alba a 3.000 metri di quota, con il sole che sorge e va a toccare in punta di piedi le cime del gruppo dell’Adamello e i suoi ghiacciai. Uno spettacolo naturale che sarà possibile ammirare grazie all’apertura anticipata degli impianti di risalita, mentre viene servita una gustosa colazione, sulle note del gruppo musicale Caronte. ©Mauro Mariotti

21-23 SETTEMBRE ADAMELLO ULTRA TRAIL

La grande classica A Vezza d’Oglio gli uomini ultra sfidano se stessi sui camminamenti della Grande Guerra, lungo un percorso di 180 km e oltre 11.500 m di dislivello da affrontare in tre giorni. Si tratta di una grande sfida, per confrontarsi con i propri limiti e la propria resistenza, ma è soprattutto un viaggio interiore nella natura e nella storia. Sono in calendario anche la versione Adamello Trail da 90 km e la 30 Trail da 30 km. www.adamelloultratrail.it

4 AGOSTO

25-26 AGOSTO UCI TRIALS WORLD CUP

LA CASERADA

FUNAMBOLI DELLA BICI Vermiglio si prepara ad accogliere i funamboli della bici, capaci di vere e proprie acrobazie e giochi di equilibrio su due ruote. Il 25 e 26 agosto appuntamento al bike park realizzato nella piana di San Leonardo: le piste sono in parte naturali, con ostacoli reperiti sul territorio, e in parte artificiali per rendere la gara sempre più avvincente. L’importante è riuscire a completare il percorso nei tempi, evitando con cura di poggiare il piede a terra per non incorrere in penalità.

Musica per la pace Giornata rurale a Vermiglio, per un’esperienza di vita contadina. Gli animali d’alpeggio verranno radunati nell’area dei laghetti di San Leonardo, dove si potrà assistere alla mungitura e alla dimostrazione della lavorazione artigianale del latte per la produzione del formaggio. Nei meravigliosi prati che fanno da cornice all’abitato di Vermiglio si potrà assistere anche alla fienagione, secondo la tradizione di montagna.

©Mauro Mariotti

7 impianti di risalita sono in funzione durante l’estate; 4 di questi sono attrezzati per il trasporto delle bike e sono racchiusi in un Bike Pass che è disponibile nella versione da 1 giorno (€ 20), pomeridiano (€ 15), da 6 giorni (€ 80) oppure stagionale (€ 150).

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Unione Comuni Alta Vallecamonica

Comune di Edolo

Comune di Vermiglio

PARCO NAZIONALE DELLO STELVIO

ADAMELLO ULTRA TRAIL SUI CAMMINAMENTI DELLA GRANDE GUERRA

180 Km | 90 Km | 30 Km

21 22 23 Settembre 2018 Alta Valle Camonica Alta Val di Sole (BS)

-

149 V edizione in ricordo di Aldo e Enrico

(TN)

www.adamelloultratrail.it


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atleti

Kienzl 200 e lode Altoatesino del team Dynafit, ha nelle gambe le distanze lunghissime, oltre i 200 chilometri, dove vince. Come alla Transgrancanaria 360°. E ora pensa al Tor testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di ALICE RUSSOLO

ltre le cento miglia mette la freccia e non lo vede più nessuno. Lui è Peter Kienzl, altoatesino di Avelengo, sopra Merano, classe 1975, cavallo di razza (è proprio il caso di dirlo e lo capirete leggendo tra qualche riga) del team Dynafit che ha messo nel mirino le gare lunghissime.

O

Lo abbiamo incontrato direttamente nel suo terreno preferito di allenamento, a Merano 2000. «Dopo qualche gara di trail ho capito che fino a 50 chilometri ero uno dei tanti, oltre i cento ero tra quelli forti, ma sempre uno dei tanti. Oltre le cento miglia, ancora di più dopo i 200 chilometri, iniziava la mia gara» dice Peter scherzando, ma non troppo, in un perfetto italiano con accento altoatesino mentre ci mostra la sua pista per le ripetute. Sì, pista in tutti i sensi, perché sono un paio di centinaia di metri di discesa ripida del comprensorio sciistico. «Salgo, poi scendo dalla pista di slittino, tutta a curve, a volte lo faccio anche venti volte». Un allenamento che funziona visti i risultati in palmarès. Il 2018 è iniziato bene, con la vittoria (per il secondo anno consecutivo) della Transgrancanaria 360° 269 km, seguita dal secondo posto alla The Abbots Way Ultra Trail. Kienzl è uno dei più forti del mondo ultra italiano, senza dubbio, ma oltre la distanza cento miglia ha davvero pochi rivali, spesso anche all’estero. L’anno scorso ha vinto lo Swiss Iron Trail di 214 km, nel 2016 la 4K Alpine Endurance Trail Valle d’Aosta di 350 km (la gara corsa solo quell’anno, su un percorso simile al Tor des Géants, ma in senso inverso e con partenza da Cogne). Sotto tanti buoni risultati, podi al Dolomiti Extreme Trail, alla Südtirol Ultra Skyrace, un quarto posto alla 100 Miles of Istria. Piazzamenti da fare invidia a molti, però è mancato quel quid…

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NELLE FOTO \\ Lo zaino Dynafit Ultra Pro 15 ha una pettorina per proteggersi dal vento in discesa che scompare nel taschino dello spallaccio (in alto a destra)

Insomma, ora rimane solo il Tor des Géants. L’anno scorso si è ritirato a Pont, poi un nono posto quando la gara è stata fermata, nel 2015. «L’obiettivo numero uno del 2018 è proprio il Tor, lungo la strada ci sarà il Grossglockner Ultra Trail e dopo, se avrò ancora energie, la Diagonale des Fous». Un anno impegnativo, ma per i cavalli di razza la fatica non esiste. Quello di Peter con i cavalli è un rapporto speciale, visto che viene da Avelengo, patria dei famosi Avelignesi, e che nel suo passato agonistico c’è proprio l’equitazione, con tante gare all’ippodromo di Merano. Poi, siccome nella locale squadra di calcio mancavano giocatori, si è anche prestato nel ruolo. Infine, per vincere una scommessa con un amico, si è iscritto alla mezza maratona di Merano. Obiettivo, stare sotto un’ora e mezza. E ha chiuso in un’ora e ventidue minuti. Da lì alle corse in natura il passo è stato breve. «Ho sempre più allungato, ma mi sono reso conto che solo dopo le cento miglia il mio motore era al top». Motori, come quelli del furgone Iveco che Peter guida tutti i giorni per consegnare gli speck di un grande salumificio in giro per l'Alto Adige. «È il lavoro che faccio da una vita, mi piace e mi consente di trovare il ritmo giusto per allenarmi, magari parto la mattina all’alba, però se faccio bene il mio lavoro nel primo pomeriggio posso salire a correre».

UN SET DAVVERO ULTRA Durante l’intervista abbiamo sfruttato l’occasione per fare provare a Peter Kienzl in anteprima il nuovo Ultra Set Up, il top di gamma per le gare di corsa in natura della collezione primavera-estate 2019 Dynafit. Il set è composto dalla Glockner Ultra GTX Shakedry JKT, che sfrutta la collaudata e leggerissima tecnologia di Gore-Tex per proteggere dal vento e soprattutto dall’acqua, ma allo stesso tempo traspira molto bene e permette di indossare lo zaino sotto, grazie alla possibilità di espanderla con il sistema a cerniera ZipOver. Poi ci sono la Glockner Ultra S-Tech S/S Tee M, pratica e comoda maglia tecnica con tasche e con zip frontale utile per la ventilazione e soprattutto i Glockner Ultra 2IN1 Shorts M, con diversi vani e un pantaloncino interno aderente senza cuciture. A completare il set lo zaino Ultra Pro 15, ricco di tasche e con una pratica estensione che protegge l’addome nelle discese e scompare in un taschino sullo spallaccio quando non serve. Non mancano gambali e proteggi braccia (Ultra Kneeguard e Ultra Arm Guard), banda Performance Dry headband 2.0, calzini Ultra Cushion e la principale novità 2019 per i piedi, la Feline Up Pro, della quale parliamo in un box a parte. «I materiali sono molto piacevoli a contatto con la pelle e il fit molto valido, soprattutto quello dei pant, ancora migliorato rispetto alla collezione 2018, le tasche per riporre gel o le chiavi quando ci si allena non mancano» ha detto Kienzl.

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atleti

Già, a correre, ma quanto? «I lunghi li faccio il sabato, domenica vado in montagna con la mia fidanzata o magari lei partecipa a dei trail e io la seguo senza pettorale, più lento, poi gli altri giorni alterno ripetute a giri più corti, ma non ho un allenatore, vado un po’ a sentimento: ci sono delle volte che magari vorresti fare un programma ma non è sempre facile trovare le giuste motivazioni». La vittoria del Tor potrebbe essere quella giusta? «È la gara che mi manca, spero che sia l’anno giusto, ma mi attira anche il Grossglockner, che è la competizione di casa, visto che la sponsorizza Dynafit, poi mi do ancora due-tre anni a questi livelli, bisogna vedere come risponde il fisico e mi piacerebbe anche diventare papà… per noi uomini non ci sono limiti di età» scherza. Un’altra motivazione per allenarsi è quella di partire per correre in posti lontani e fare bella figura: «Mi attira La Réunion, ma ho già corso in posti esotici, come alla Guadalupa, dove ho vinto correndo nella giungla». Però prima si è informato che non ci fossero serpenti. «Altrimenti non ci sarei andato!» chiude Peter. Al Tor ci sono le vipere, ma fuori dalla giungla vedi bene dove metti i piedi…

SI CHIAMA UP MA VA BENE ANCHE IN DISCESA È la grande novità del 2019. La Feline Up Pro, solo 230 grammi di peso, in teoria va a sostituire nel catalogo Dynafit la Vertical Pro, la scarpa di punta per le gare only up. Ed è stata in effetti pensata anche per questo, ma non solo, perché i primi test dicono che potrebbe essere un’ottima scelta pure in chiave skyrace. A favore delle prestazioni in salita la grande tenuta sul terreno, reattività, precisione e leggerezza. Per la prima volta in un prodotto della casa del Leopardo delle nevi è stata utilizzata per il battistrada la nuova tecnologia Vibram Lite Base che permette una riduzione dello spessore e fino al 25% del peso. Il design intelligente dei tasselli e la mescola Megagrip sono pensati per una perfetta aderenza anche su terreni impegnativi e su superfici bagnate o sconnesse. Il drop è di 4 mm e trasferisce al runner la sensazione di un contatto diretto con il terreno che agevola la reattività e rende più preciso ogni passo. Un’altra caratteristica della Feline Up Pro è la speciale calzata Narrow Minimal Fit, aderente e precisa come un guanto nella zona della punta e sul tallone. Una variante particolarmente leggera dell’Heel Preloader, il rinforzo diagonale sviluppato dal brand per l’area del tallone, migliora l’aderenza,

Feline Up Pro

agevolando il naturale movimento della corsa. Soletta interna in Ortholite e sistema di allacciatura rapida, con linguetta elastica per riporre i lacci. Il modello Unisex sarà disponibile dalla primavera 2019 a un prezzo consigliato al pubblico di 185 euro. 153


©Stefano Jeantet

Tre gare per conoscere i vincitori che voleranno a Malta In attesa delle ultime, decisive prove, ecco chi sono i due atleti in testa al ranking del Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup

inque gare disputate, ne restano tre alla fine del Trofeo BPER Banca - Agisko Appennino Trail Cup 2018: a fine luglio il Cima Tauffi Trail, a inizio agosto la Gran Sasso Skyrace, con gran finale il 7 ottobre con la Tartufo Trail Ultra Skymarathon. Leader della classifica maschile Pietro Ferrarini con 694 punti su Marco Franzini a 568.5 e Alberto Ghisellini a 552, mentre il circuito rosa vede al comando Moira Guerini a quota 745 davanti a Raffaella Musiari a 617.8 e Katia Fori a 605. In palio per i vincitori l’iscrizione alla Xterra Gozo Trail Run con viaggio aereo e cinque notti in hotel nell'isola di Malta. Non male, vero?

tutte le gare del circuito. Sono andato da Finalborgo alla Costiera Amalfitana: in ogni prova ci sono un ambiente e un tracciato sempre diversi e questo è davvero unico. Farò le tre tappe che restano in calendario, ma non credo che rimarrò davanti alla fine».

PIETRO FERRARINI, L’APPENNINO NEL CUORE Parmense di Felino (la patria del salame!), Pietro Ferrarini è un amante dell’Appennino. «Sono in testa alla generale perché ho fatte

Distanze lunghe, immagino, le preferite. «Nella mia zona il movimento è in crescita, sono in tanti che dalla strada sono passati all’outdoor, Credo di essere tra i pochi ad avere

C

Comunque adesso ci sei… «Beh, ci proverò, ma non ci penso. Ripeto, mi piace correre in Appennino: sul Gran Sasso sono già stato ed è fantastico, poi preparerò al meglio anche la Tartufo, un’altra prova a cui tengo molto. Certo vado anche sulle Alpi, ho fatto la OCC e la LUT, ma i nostri sentieri non hanno nulla da invidiare. E anche da noi si sale in quota!».

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agonismo

NELLE FOTO \\ Moira Guerini al Mugello Ultra Trail (in apertura), Pietro Ferrarini (a sininstra e sotto), un passaggio dell'Ultraktrail, suo terreno di allenamento (in basso a destra) e i vincitori della gara Katia Fori e Gianluca Caimi (in basso a sinistra) ©Facebook/Cima Tauffi Trail

iniziato con il fuoristrada, ormai più di una decina di anni fa: man mano ho trovato che i 50, 60 chilometri sono le misure che preferisco. Non sono facili da allenare con il lavoro, ma ho la possibilità di finire abbastanza presto e così vado a correre, spesso e volentieri sui tracciati della Ultraktrail che non sono lontano da casa mia. Non tutti i giorni, ovviamente, non sono certo un professionista, ma quando posso vado, meglio se in compagnia». In inverno? «Continuo a correre, anche se da noi i sentieri diventano subito molto fangosi. Ma anche così riesci a fare quantità». Qualche obiettivo futuro? «Non ho particolari sogni nel cassetto, cerco sempre qualche gara che possa darmi emozioni. Sento chi c’è stato, mi informo e poi decido. Se avete qualche consiglio…». MOIRA GUERINI, PASSIONE ULTRA Leader al femminile, Moira Guerini. Lei è di Marone, nella casa della Trentapassi, una predestinata si potrebbe dire. «In realtà non l’ho mai corsa… mi alleno su quei percorsi, ma è troppo veloce per me. Però un giorno o l’altro dovrò farla, altrimenti in paese non mi parlano più». Già, perché le distanze preferite sono altre. «Vero. Ho iniziato solo nel 2014: prima seguivo mio marito alle gare. Poi mi sono stufata di aspettare e ho messo il primo pettorale. Ho iniziato subito con la corsa fuoristrada: distanze brevi all’inizio, poi ho visto che il mio forte è soprattutto la resistenza e mi sono

specializzata con le ultra. Adesso i ruoli si sono invertiti: lui continua a fare distanze più brevi e deve aspettarmi. In realtà è bravissimo: finisce e mi fa assistenza. Meglio di così». Poche stagioni, eppure subito risultati: prima nel Salomon Trail Tour Italia nel 2015, poi il titolo Gran Prix IUTA Ultra Trail l’anno successivo. Nel 2018? «Beh, ho iniziato il circuito appenninico non benissimo, ma mi sono ripresa e adesso che sono al comando mi piacerebbe finirlo, speriamo ancora in testa. Certo, l’obiettivo numero uno di questa stagione è l’UTMB: sono stata sorteggiata, sarà la mia prima volta e mi sto concentrando su questo appuntamento». Luglio e agosto intenso, allora niente vacanze? «Una gara così devi prepararla come si deve e poi non sempre hai la fortuna di avere un pettorale. Ho già fatto l’OCC, alla CCC mi sono dovuta fermare per un problema fisico quando mancavano diciotto chilometri: è chiaro che tutti i pensieri sono rivolti a quella gara mitica. Poi se mi riprendo a settembre farò anche il Campionato italiano ultra. Resta il fatto che correre e allenarmi non mi pesa e in più è una passione di famiglia». Il tuo motto è piuttosto che essere normale, ho scelto di essere felice… «La corsa è ormai una parte fondamentale della mia vita. Ho un lavoro, ma prima e dopo, al mattino presto o alla sera, allaccio le scarpette e vado. Fare altre cose normali in questo momento non fa per me. Corro e sto bene». 155


U P& D OW N IL MAGAZINE DELLE GARE E DEI SUOI PROTAGONISTI

Un’estate a tutta per Cristian Minoggio

©iancorless.com

L’ossolano della Valetudo grande protagonista in questi primi mesi estivi: primo alla Maratona del Cielo, primo con Alberto Comazzi alla Pierra Menta estiva e secondo, sempre con Comazzi, alla Monterosa SkyMarathon, quinto e primo azzurro alla Livigno Skymarathon, tappa delle World Series «Ci sentiamo alle 22, va bene? Adesso vado in piscina». «Ma non ti disturbo a quell’ora?». «Ma no, ormai sono due mesi che questa è la mia ora di cena». La giornata tipo di Cristian Minoggio in questo periodo è così: finisce di lavorare e poi sotto con gli allenamenti. «Sì, ma non più forzando come una volta. Nel 2008 sono andato anche in over-training. Adesso non ho tabelle, ma cerco di diversificare molto, mentre prima arrivavo a esaurirmi. Lunedì mtb o piscina, martedì corpo libero, gli altri giorni corsa in piano, ma senza orologio, ripetute e poi nel fine settimana la gara. Prima andavo sempre da solo, adesso esco con un po’ di amici. Però allenarmi non mi pesa: mi piace fare sport e allora diventa un divertimento se cambi spesso e lo fai in compagnia. Altrimenti ti stressi solo e soprattutto arrivi a stressare il corpo come ho fatto io. E poi ho iniziato anche a curare di più l’alimentazione, grazie ai consigli di Simone Iannone: anche qui senza particolari tabelle, ma con maggiore attenzione». Un piano che paga. Su Facebook ci scrivono che sei il più forte in questo momento in Italia. E poi i risultati di inizio stagione lo dimostrano. «Ma no, ce ne sono di più forti di me. Solo che con tutte queste gare, questi circuiti, un confronto vero non c’è mai! E poi non sono così social da dire a tutti quello che faccio. Da quattro anni sono entrato nella Valetudo e con il presidente Pesenti facciamo un calendario gare mirato, mi sono abituato a fare più qualità che quantità. La stagione è iniziata bene, è vero, ma il bello deve ancora venire: Giir di Mont, Kima…». Pensi anche di aver trovato la distanza giusta? «Ho 34 anni e adesso sono ancora veloce: per i prossimi anni penso che farò solo sky o skymarathon, 30, 40 km al massimo. Quando arriverò ai 40 allora mi piacerebbe aumentare le distanze: con gli anni si perde velocità, ma la resistenza resta. Comunque c’è tempo per pensarci». Obiettivi futuri? «Mi piacerebbe far meglio la stagione invernale, ma devo cambiare testa! Con il lavoro che faccio - sono un giardiniere per una ditta svizzera - riesco ad avere un paio di mesi invernali piuttosto liberi e allora con le montagne vicine a dove abito, Sempione, Saas-Fee o il Vallese, esco sempre con le pelli. Alla fine mi faccio prendere e carico troppo. Se invece riuscirò a fare un po’ meno dislivello e un po’ più di qualità, cercando anche di migliorare in discesa, allora penso che ©iancorless.com

potrò fare meglio anche la stagione invernale».

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100%

6h10’

2

©Stefano Jeantet

Marco Mosso è stato eletto con il 100% delle preferenze alla guida del Comitato ASIVA Valle d’Aosta della FISI.

Il tempo della salita sulla via Innominata Campeggio-Monte Bianco impiegato da Denis Trento e Robert Antonioli in occasione del primo raduno del Centro Sportivo Esercito a fine giugno.

Skialp, tutti pronti per la nuova stagione? Usciti i calendari ISMF e LGC: ufficiale la concomitanza tra Pierra Menta e Mondiali. Sarà scontro tra le due federazioni. Intanto in casa FISI ancora fermo il capitolo skialp senza la nomina del responsabile della commissione

Prosegue l’avventura di Oscar Angeloni in Svizzera, il coach veneto è stato confermato nello staff tecnico elvetico per il secondo anno.

sono sempre gli stessi e dovranno fare una scelta, impoverendo un evento rispetto all’altro. E stiamo parlando dei momenti top delle due federazioni. E il calendario italiano? Da noi ci sono state le elezioni federali: nel primo consiglio della FISI di fine giugno sono stati definiti tutti i responsabili della commissioni, eccetto quello dello skialp. Anche

Un’estate intensa per lo skialp. Perché? Perché c’è

contemporanea con la Pierra Menta. Non sappiamo

se con un dato importante: l’aumento del budget da

l’attesa per sapere chi sarà la candidata italiana

se realmente ci siano stati tentativi per trovare una

70.000 a 140.000 euro. E allora stand-by per la nomina

per i Giochi Olimpici del 2026: Milano, Cortina o

soluzione, di fatto si arriva a uno scontro tra ISMF

del nuovo staff tecnico (ma per fortuna c’è il Centro

Torino, e qualunque sia la sede designata dal CONI,

e LGC. Due format diversi, due filosofie diverse

Sportivo Esercito…), oltre al lavoro per definire il

le possibilità di farcela nella corsa internazionale

aggiungiamo, questo è vero, ma alla fine gli atleti

calendario-gare FISI. Qui un consiglio per chi sarà

è tangibile, visto che molte candidate forti si sono fatte da parte e quelle rimaste non sembrano così

indicato per stilarlo, che sia la direzione agonistica o

©Stefano Jeantet

la commissione skialp. Non mettere fuori i calendari

convinte. E con i Giochi in Italia le chance olimpiche

qualche settimana prima dell’avvio della stagione

aumenterebbero per lo skialp: andava bene anche

agonistica, ma a ottobre come tutte le altre discipline,

Sion (ritiratasi), visto che nel 2020 c’è il debutto ai

indicare il nome della gara e non solo la località,

Giochi giovanili proprio in Svizzera, andrebbe un

indicare un nome (e un riferimento per rintracciarlo)

po’ meno bene se vincessero Stoccolma o Calgary.

e non un generico sci club, come è stato nell’ultimo

Ormai a Pechino nel 2022 nessuno ci pensa più,

calendario. Quando anche noi, lo ammettiamo,

anche se l’ISMF ha confermato nel suo calendario

abbiamo avuto difficoltà nell’individuare quale fosse

la tappa cinese. Una Coppa del Mondo che aumenta

davvero la gara segnata. Solo così gli organizzatori

le tappe, arrivando a sei, con il debutto di un

potranno avere il tempo per valorizzare e promuovere

Paese importante, sciisticamente parlando, come

la loro manifestazione, gli atleti per programmare la

l’Austria. Sei tappe, oltre ai Mondiali che andranno in

stagione, e i media per parlarne.

©uff. stampa Tour du Rutor

I due calendari a confronto La Coppa del Mondo ISMF parte in Austria, a Bischofshofen, il 18 gennaio con sprint in notturna e individual; sempre a gennaio trasferta ad Andorra con individual e vertical. Il 2 e 3 febbraio tocca alla Francia, a Super Devoluy, con individual e sprint, quindi la Cina, a Jilin dal 20 al 22, con individual, vertical e sprint. Dopo i Mondiali dall’8 al 16 marzo a Villars (dove ci saranno anche le Olimpiadi giovanili del 2020), ancora gare in Svizzera, a Disentis il 23 e 24 con individual e sprint. Finale a Madonna di Campiglio dal 3 al 7 aprile. La stagione de La Grande Course si aprirà con la Pierra Menta dal 13 al 16 marzo, mentre l’Adamello Ski Raid è in programma il 7 aprile. Chiusura con il Trofeo Mezzalama che ha annunciato che la ventiduesima edizione andrà in scena il 27 aprile sul percorso classico da Breuil-Cervinia a Gressoney-La-Trinité (con date di riserva 28 aprile, 4 e 5 maggio).

SPIN RS

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Black Crows Solis Quando il gioco si fa duro È uno dei pochissimi sci pensati appositamente per la peinte raide e quello ai piedi del Mose, al secolo Enrico Mosetti, in Perù, uno dei pochissimi in circolazione. Bello cattivo e pesante perché, come dice Julien Regnier, «uno sci leggero non è detto che funzioni sul ripido». Sul suo fianco c'è scritto elle est bien raide che si traduce... azz se è ripida! da pagina 88

Peso: 3,5 kg al paio Sciancratura: 125-100-108 mm (173 cm) Raggio: 25 m Placca in Titanal per evitare che gli attacchi si strappino ©Federico Ravassard

Rocker pronunciato 158


materiali

HO T ST U F F Prodotti dietro ai servizi di questo numero

Per il Sentiero dei Fiori…

…ancora per il Sentiero dei Fiori

Il Sense di Ryan per l’Himalaya

Tatiana Bertera ha utilizzato un guscio ultraleggero Kunene in tessuto 2.5 layer: impermeabilità e traspirabilità 20.000 K. Sotto un secondo strato Tailly in Polartec Power Dry, stretch in quattro direzioni, e i pantaloni Navarino, molto traspiranti. Lo zaino? Dry-Hike 32 nero, perfettamente impermeabile. È tutto firmato Ferrino.

Casco Storm, imbragatura Topaz, set ferrata Kinetic Gyro Rewind Pro, due guanti Start Fingerless, tutto firmato CAMP. Il set da ferrata Kinetic Gyro Rewind Pro (670 gr) ha un assorbitore d'energia a lacerazione variabile e il sistema brevettato Gyro che impedisce l'attorcigliamento delle fettucce. La fettuccia elasticizzata, compatta durante la salita, si allunga quando necessario.

Che scarpa si usa per percorrere il Great Himalaya Trail in velocità? Ryan Sandes ha utilizzato tre paia di… in effetti non c’è un nome del modello, perché non si tratta di una scarpa in commercio, dato che intersuola e suola erano quelle della Sense Ride, mentre la tomaia era della Salomon S/Lab Sense Ultra (nella foto). Per le parti in quota, su neve, anche una S/Lab XA Alpine.

da pagina 62

da pagina 62

da pagina 36

Check-list Terminillo 1. Salomon Comet Plus SS Tee in morbido Jersey con trattamento antibatterico Polygiene

1 3 4

2. Salomon Wayfarer Short con tessuto stretch in 4 direzioni e protezione solare UPF 50

2

3. Salomon Agile SS Tee con parti in rette sottomanica per traspirare meglio e inserti riflettenti se ti viene voglia di fare una corsetta

2 2 5

4. Salomon Cosmic Crew SS Tee per camminare, correre e andare in mountain bike con 37.5 Technology per conservare temperatura e umidità del corpo ideale durante lo sforzo fisico 5. Salomon Trail Running Short in taffetà con tasche per gel energetici e protezione solare UPF 50

La scarpa usata è la multifunzione Salomon Outpath GTX, ideale per escursioni veloci e leggere

da pagina 82

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controcopertina

C O NTR O C O R R E NTE

VAI IN MONTAGNA A FARE COSA? NO SKYRACE? NO SKYMARAThON?

CAMMINARE! NO TRAIL? NO VERTICAL? NO CORSA?

160

C’E’ ANCORA ChI CAMMINA IN MONTAGNA?


ALPSTATION ANDALO Tel. 0461 583573 andalo@alpstation.it

ALPSTATION BRESCIA Tel. 030 8374251 brescia@alpstation.it

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