La Basilica Cateriniana di Galatina_MRita Tarantino

La ‘Basilica Cateriniana’ di Galatina

A cura di: Maria Rita Tarantino

“Narra la storia che essendo Raimondello in Oriente andò a visitare i luoghi santi e sul monte Sinai venerò il corpo di S. Caterina esistente in una chiesa di Basiliani. Nel tornare in Italia portò seco quale reliquia il dito anulare della Santa; e pensò di innalzare una chiesa in Galatina dedicandola al culto della medesima e nella quale volle collocata la sua reliquia. Egli ebbe in mente di edificare questa chiesa di rito latino in un paese quasi tutto popolato dai greci e privo di chiese latine” 1. […]

“Ed ora vedremo che il tempio di S. Caterina, il più bel monumento sacro della Terra d’Otranto, fu eretto dagli Orsini per eclissare colla sua magnificenza tutte le chiese greche allora esistenti nella provincia.” 2 Con queste parole C. De Giorgi, nei suoi Bozzetti di viaggio comincia la descrizione della attuale Basilica di S. Caterina d’Alessandria.

Attuale perché dichiarata tale solo il 25 novembre 1992 da Giovanni Paolo II; chiesa la definisce il De Giorgi nell’edizione Spacciante del 1888, ma è a conoscenza che è stata classificata già dal 1870 come ‘Monumento Nazionale di prima categoria’ [… monumento… che ben merita il titolo di nazionale col quale è stato dichiarato dal governo…3]. Già: la conoscenza deriva dal fatto che per dichiararlo tale era stato necessario lo studio, la dedizione, l’amore per questo monumento del suo eterno amico: il galatinese Pietro Cavoti, “regio ispettore dei monumenti della Terra d’Otranto e degli studii patrii cultore zelantissimo” 4. Dedicò infatti gran parte della sua vita agli studi di storia, arte e letteratura. Artista e ricercatore attento, fu nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione membro della commissione fiorentina incaricata di censire e classificare i monumenti italiani, per indicare quelli da considerare, appunto, monumenti nazionali.

Il suo lavoro ebbe inizio proprio dalla Provincia di Lecce e precisamente dalla Basilica di 1

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COSIMO DE GIORGI, La Provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Introduzione di Michele Paone, Vol. II, Galatina, Congedo Editore, 1975, pag. 415.

COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 414.

COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 419.

COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 416.

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Santa Caterina d'Alessandria in Galatina, il cui studio fu interrotto nei 15 anni di permanenza a Firenze (1861-1876).

La stessa, ancora, era già dichiarata Cappella Reale nel Quattrocento; riconosciuta personalità giuridica con Regio Decreto il 10 gennaio 1935; elevata a Parrocchia il 31 marzo 1936 e a Basilica Minore Pontificia nella data sopramenzionata.

Basilica Orsiniana, perché questa costruzione è legata a doppio filo alla famiglia Orsini del Balzo. Il capostipite Ugo del Balzo era arrivato nel Salento al seguito del re Carlo d’Angiò dal quale aveva ricevuto, come ringraziamento per l’appoggio reso alla corona angioina, la Contea di Soleto con il territorio di Galatina. Alla morte di questi detta Contea, e il relativo territorio galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che fece erigere delle mura a difesa della città di Galatina e ‘ampliare una cappella preesistente con la costruzione di una chiesa’. Raimondo, inoltre, con testamento ufficiale decise a sua volta che alla sua morte la Contea di Soleto e il territorio di Galatina sarebbero toccati al nipote Raimondello, figlio cadetto della sorella Maria del Balzo, sposa di Nicola Orsini conte di Nola.

Quest’ultimo, contro il volere di un lascito testamentario, decise a sua volta di usurpare detti territori in favore del figlio primogenito Roberto.

Aiutato dalla madre, che lo prediligeva, lo fornì d’oro e d’argento, vendette per lui i monili più belli 5, Raimondello costituì un esercito di mercenari e partì alla volta della Terra Santa per combattere in difesa del Santo Sepolcro. Fu in quest’occasione, come narrano le croniche e lo stesso De Giorgi, che Raimondello rimase per tre notti e tre giorni in veste da penitente davanti al corpo di S. Caterina sul Sinai, al quale si dice (p. Bonaventura da Lama riporta) strappò con un morso il dito con l’anello che poi portò con sé, per essere custodito in seguito proprio nella Basilica in questione, dove ancora può essere visto.

Ritornato dunque nel Salento, Raimondello forte del suo esercito riconquistò i territori usurpatigli in precedenza, divenendo tra l’altro subito dopo, nel 1385, Conte di Lecce per via del matrimonio con Maria D’Enghien e principe di Taranto per volere della corona di Napoli.

Nella posa della prima pietra per l’ampliamento della chiesa, trovò appoggio nel Papa Urbano VI Prignano che sovvenzionò la costruzione con cospicue somme: “A tutti sono note le gesta di questo principe valoroso per liberare il pontefice Urbano VI nel 1384 dall’assedio di Nocera operato dagli Angioini di Napoli. Ed il papa in ringraziamento gli concesse la bolla di fondazione di questa chiesa.” 6.

Fortemente voluta soprattutto per dare un luogo di culto alla popolazione latina che, non comprendendo la lingua greca, era particolarmente favorevole alla sostituzione del culto greco in quello latino vicino alla chiesa di Roma, con le ovvie favorevoli conseguenze politiche che ne derivavano, la Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria fu terminata nel 1391 come riportato sull’iscrizione scolpita su uno dei portali laterali. Ma non bastò a Raimondello per vederne e 5 6

ALESSANDRO CUTOLO, Maria d’Enghien, Congedo Editore, Galatina 1977, pag. 35.

COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 416.

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goderne la magnificenza, infatti morì nel 1406 lasciando alla moglie, Maria d’Enghien autentica e attiva mecenate, il compito di abbellire la chiesa. Quest’ultima la fece affrescare, commissionando tra le altre cose il cenotafio del marito a perpetua memoria. Dopo Maria, che in seconde nozze aveva accettato di sposare, soprattutto per motivi di ordine politico, Ladislao di Durazzo divenendo così regina di Napoli, Ungheria, Gerusalemme, il governo del principato di Taranto fu esercitato dal figlio Giannantonio, mentre la moglie di questi Anna Colonna, nipote di Papa Martino V, si dice fu l’ultima curatrice della Basilica portandone a termine le decorazioni.

Infatti tra le decorazioni stesse della Basilica troviamo spesso gli stemmi della famiglia Orsini Del Balzo, nell’impeto celebrativo che ha caratterizzato i suoi componenti, e si può notare l’arma degli Orsini del Balzo (una stella a sedici punte), inquartarsi, oltre che con quella dei d’Enghien, pure con quella dei Colonna, a dire che molta parte questa casata, tramite Anna, l’ebbe a compimento della Basilica.

I CUSTODI DELLA BASILICA Una volta completata e consacrata nel 1391, la Basilica venne affidata ai Frati Minori Francescani (Osservanti) ai quali fra l’altro venne affidata pure la gestione del convento e dell’ospedale accanto (fatto costruire da Raimondello per i cittadini infermi, poveri e forestieri che ne avessero avuto bisogno) con tutti i suoi beni. I Frati Minori erano giunti in Terra d’Otranto intorno al 1383, fermandosi proprio a Galatina. I primi che arrivarono furono proprio ‘osservanti della vicaria di Bosnia’ e giunsero con un preciso disegno della Santa Sede: sostenere il rito latino in una terra a prevalente rito greco. La missione, sostenuta anche dai fedeli, come si è detto prima, fu assolutamente indolore 7.

L’ESTERNO La Basilica è stata costruita mediante l’utilizzo di materiale locale: pietra leccese, carparo e tufo. La facciata tricuspidata, che si dice fosse un tempo affrescata con scene della crocifissione di Gesù Cristo, tradisce il chiaro stile romanico-pugliese (con derivazioni gotico-lombarde negli archetti cechi trilobati), quel particolare linguaggio artistico che, coinvolgendo l'Europa intera nei secoli XI-XII, acquistò dappertutto un'intonazione originale e 7

Cfr. p. ANTONIO FEBBRARO, Santa Caterina in Galatina, Assisi Salentina, ed. Frati Minori Basilica, pag. 6.

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differente. In Puglia assunse sfumature del tutto originali e, data la particolare posizione geografica della nostra regione, naturale ponte fra Oriente ed Occidente, fuse e armonizzò elementi provenienti dalle opposte sponde in un lessico di straordinaria portata, al quale non era estranea la padronanza degli scalpellini locali nella lavorazione della pietra, condizione che permise il fiorire di uno straordinario repertorio di bestiario fantastico nella produzione scultorea fra XI e XII secolo.

La cuspide centrale è sormontata dalla croce, mentre ai lati inferiori sono visibili le statue di S. Paolo Apostolo e S. Francesco.

Il portale centrale, che a qualcuno ricorda Castel del Monte in Andria 8, timpanato, più alto e grande dei laterali, è dominato dalla presenza di due colonne poggianti su leoni stilòfori sormontate da aquile acèfale. Presenti, come sempre, nell’arte romanica sia in pittura che in scultura, le immagini dei leoni erano prevalentemente utilizzate come simbolo del Bene.

Riproponevano lo stesso antichissimo messaggio: la belva protegge la porta, segna il passaggio tra il mondo del sacro e quello del profano, tra il dentro e il fuori. Erano anche simbolo della resurrezione in quanto si pensava che i cuccioli di leone appena nati giacessero come morti finché il leone padre alitava sui loro corpi risvegliandoli. I leoni rappresentavano anche la forza con cui Cristo difendeva la sua Chiesa e le sue cattedrali. Per questo motivo si affermò sempre più l’uso, in molte chiese romaniche, dei due leoni di pietra posizionati a lato del portone d’entrata, rivolti verso l'ingresso: animali nobili, fieri, forti, che ammoniscono chi entra.

Il corrispettivo del leone nel regno alato è proprio l’aquila. Uccello glorioso simbolo della Roma imperiale l’aquila divenne per i cristiani, dopo l’editto di Costantino del 314, l’emblema del trionfo della fede di Cristo sul paganesimo persecutore dei cristiani. L’Aquila Christus. Il ruolo dell’aquila, dagli antichi culti asiatici e mediterranei dove conduce l’anima verso il cielo, seguì una naturale migrazione simbolica nella religione cristiana in cui il Redentore, Aquila Christus, apre le porte del cielo, infonde la sua Grazia, eleva verso Dio. In molte cattedrali romaniche corrispettivo dell’aquila è il grifone.

Il pròtiro (come si può ricavare dal disegno di Pietro Cavoti, conservato nell’omonimo museo civico galatinese) anticamente si componeva di quattro colonne e il sagrato.

Il portale d’ingresso è incorniciato da tre fasce intagliate in pietra leccese (in doppia fascia su quelli laterali).

La decorazione delle fasce si presenta nella prima, interna, con 8

ALESSANDRO CUTOLO, op. cit., pag. 171.

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intrecci di rami e foglie che si ripropongono in quella centrale, con figure a prevalenza zoomorfa.

Su quella esterna foglie di acànto (da sempre simbolo di verginità e purezza, dal momento che la pianta cresce spontanea, restando pulita anche in terre non coltivate e paludose) o di quercia (o leccio simbolo delle nostre terre ma pure di virtù, coraggio, dignità) allineate una accanto all’altra 9.

Sull’architrave del portone centrale, il bassorilievo di Gesù assiso tra i dodici Apostoli richiama la decorazione dei sarcofagi romani del IV secolo. Naturalismo classico e spiritualismo cristiano si fondono nella venuta di Cristo, che in mano ha un cartiglio con l’iscrizione ‘Ego vos elegi ut eatis’, vi ho scelto perché andiate.

Nel registro superiore, al di sotto della cuspide, si apre l’occhio del rosone strombato e tangente al marcapiano, ornato da due ordini di fasce concentriche completate da un archivolto e rifinite da un elegante movimento di motivi vegetali che impreziosisce i raffinati dodici bracci della raggiera convergenti al centro, centro che a sua volta racchiude una vetrata che anche qui esalta i nomi e l’arme dei d’AngiòDurazzo e dei d’Enghien-Brienne. Ancora prima di entrarvi è chiarita così l’identità storico-sociale dell’edificio 10.

Il portale minore sinistro è incorniciato, come già si è accennato, da due fasce di pietra leccese scolpite a motivi fitoformi e riporta sull’architrave la data del 1391, data della fine dei lavori di costruzione. La cuspide non è in asse col portale così come per quello destro, sul quale invece è una scritta di meno facile lettura. L’iscrizione greca, ormai illeggibile, forse voleva dire: ‘Qui è la cappella’, oppure ‘Qui è la nuova casa di Dio e la porta del cielo’ 11. Sta di fatto che già nel 1888 C. De Giorgi ne lamentava la rovina: “La corrosione della pietra leccese ha fatto scomparire una buona parte degli ornati di questa facciata; ma ciò che resta è sufficiente per un

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DOMENICA SPECCHIA, a cura di, La Basilica Orsiniana, ed. Comunità Francescana della Basilica, Galatina 1998.

Ibidem.

Ibidem.

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lodevole restauro” 12.

Dalla facciata rivolta a ponente, e dopo le tante caratteristiche che ci riportano al romanico, ecco alla fine la testa della grande nave, con le spalle ad est, una grande edicola di forma ottagonale che ne costituisce l’abside, in uno stile dalla purissima linea del gotico-pugliese.

Quest’ultima campata, o coro, viene aggiunta al restante corpo della Basilica da Giovanni Antonio Orsini del Balzo, intorno al 1460, la testa appunto, perché fu lui stesso ad affermare che il padre aveva costruito un corpo senza testa 13. Questa parte che doveva servire al grande edificio quasi come lanterna, per renderlo luminoso, si differenzia di gran lunga architettonicamente e decorativamente dal restante corpo di fabbrica. E’ costruita su una base di forma ottagonale, con sette grandi finestre a strombo interno ed esterno, cinque delle quali sono aperte e due murate. Fasci di pseudo-colonne, tra le quali si aprono le grandi finestre, suddividono il perimetro interno in otto lati. Lo stesso motivo ornamentale degli archetti trilobati è ripetuto al vertice. La cupola esterna è nascosta da una balaustra traforata cuspidale, conservata in parte, e la sua copertura è a scalea. Sempre all’esterno le grandi finestre sono sormontate dalle armi delle famiglie: del Balzo, Orsini, d’Enghien, Colonna e Clermont, inquartate tra loro 14.

LA PIANTA La basilica è a sistema longitudinale a tre navate e due ambulacri. Per diverso tempo si è parlato erroneamente di cinque navi, così come il De Giorgi riporta nei suoi Bozzetti.

La navata centrale è più grande rispetto alle navatelle laterali, ed è coperta da ampie volte a crociera costolonate sostenute da pilastri polìstili, formati ognuno da sette pseudocolonne. Gli ambulacri e le piccole navate, coperti con volte a botte ogivali, sono caratterizzati dal notevole dislivello con l’alto corpo della navata centrale, sono più bassi e più bui di quest’ultima, illuminata dalle finestre laterali presenti nella parte alta delle pareti, dall’abside ottagonale e dal rosone. Come si può evincere dalla piantina alla Basilica è addossato il Convento Francescano, con i vari ambienti e il corpo centrale del Chiostro.

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COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 416.

Cfr. DOMENICA SPECCHIA, op. cit.

Ibidem.

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GLI AFFRESCHI “La sorpresa e la meraviglia colgono il visitatore. E’ un tripudio decorativo […]

15”.

Non potrebbe essere diversamente parlando degli affreschi presenti in S. Caterina d’Alessandria, i quali per estensione la portano ad essere la terza superficie affrescata d’Italia.

“Né minori cure dedicò Raimondo alla bella chiesa di S. Caterina d’Alessandria in Galatina […] Alla moglie e al figlio doveva essere commessa la cura di condurre a termine l’edificio e di creare uno dei più bei monumenti dell’Italia meridionale. […] La devozione di Raimondo del Balzo Orsini e della moglie e il loro amore per l’arte, più che nel rimaneggiamento della parte architettonica della chiesa, potette dimostrarsi nelle pitture con le quali ne decorarono le mura […]. Per tali pitture il conte e la contessa fecero venire in Galatina artisti d’ogni parte d’Italia e principalmente toscani e napoletani, ai quali essi chiesero, più che l’affrescare un tempio, l’insegnare ai locali la loro tecnica e la loro scuola, per poter creare un centro artistico in una remota località italiana, cui però l’amore del bello non era estraneo e la ricerca di un ideale d’arte non appariva sconosciuto” 16 .

In realtà poco si sa con chiarezza storica delle maestranze che affrescarono la Basilica.

Sicuramente Maria d’Enghien, già sposa Durazzo (regina non solo di Napoli, ma pure d’Ungheria e Gerusalemme), fece giungere pittori napoletani per la commissione degli affreschi della Basilica Cateriniana. I cicli pittorici si presume siano stati eseguiti tra il 1419 e il 1435 da diverse maestranze: napoletane, umbro-marchigiane, toscane, con inevitabili influenze grecobizantine17 (nella postura dei personaggi raffigurati, nella ieraticità, nei tratti e nelle forme), ma pure curiosi slanci verso il Nord pittorico (nella cura dei particolari, nella brillantezza dei colori, ANNA DELLE FOGLIE, L’Autunno del Medioevo (art.), in Luoghi dell’Infinito, mensile d’arte di Avvenire, n° 52 maggio 2002, pag. 40.

16 ALESSANDRO CUTOLO, op. cit., pp.gg. 69 e 171/172.

17 DOMENICA SPECCHIA, op. cit.

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nella cruenza descrittiva di alcuni episodi)18.

Un solo dato è certo, ciò che si legge ai piedi di un affresco, quello di S. Antonio Abate nell’ambulacro destro: Franciscus de Arecio fecit A.D. MCDXXXV. Era l’unico? L’unico che ci ha lasciato una firma? Chi era? Uno dei tanti? “Si sa di fatto dalla tradizione che Francesco d’Arezzo e Caterino da Venezia dipinsero questa chiesa nei primi del XV secolo e per incarico di Maria d’Enghien contessa di Lecce, dopo la morte di Ramondello Orsini suo marito. La figurina in ginocchio 19 rappresenta Ramondello quale viene descritto nelle storie napoletane di Angelo di Costanzo” 20.

Di fatto ancora si attendono studi certi, documentati e approfonditi sugli affreschi, sulle maestranze e soprattutto sul loro significato teologico che va oltre il dato di fatto, quello chiaro, secondo il quale nonostante le evidenti diversità stilistiche e formali vi è unità storica fondata sul pensiero filosofico-teologico francescano, cristocentrico e antropocentrico: Cristo Re è centro dell’universo e l’uomo suo preludio 21.

Nove sono i cicli affrescati presenti in Basilica, sulle pareti laterali e sulle volte delle campate centrali. A partire dalla prima campata: sulle pareti il ciclo dell’Apocalisse, mentre sulla volta figure simboliche; nella seconda campata: alle pareti la Genesi mentre sulla volta l’Allegoria della Chiesa; nella terza: la vita di Gesù Cristo, come narrata dal Vangelo, alle pareti e sulla volta il ciclo Angeologico che si dipana nei cori angelici; nella quarta, che poi funge da presbiterio, le pareti narrano la leggenda agiografica di S. Caterina d’Alessandria 22 e le vele 18

ANNA DELLE FOGLIE, art. cit., pag. 40.

Ai piedi dell’Abate.

20 COSIMO DE GIORGI, op. cit., pp.gg. 418/419.

21 DOMENICA SPECCHIA, op. cit., P. ANTONIO FEBBRARO, op. cit.

22 Caterina inafferrabile, senza notizie sicure della vita e della morte. Ed è la Caterina onnipresente in Europa, per la diffusione del suo culto, che ha poi influito anche sulla letteratura popolare e sul folclore. Parlano di lei alcuni testi redatti tra il VI e il X secolo, cioè tardivi rispetto all’anno 305, indicato come quello della sua morte. Ed ecco come emerge la sua figura da questi racconti pieni di particolari fantasiosi. Caterina è una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili e vive ad Alessandria d’Egitto.

Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria (che si proclamerà “Augusto”, cioè imperatore, nel 307, morendo suicida nel 313). Per l’occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi, e quindi anche per i cristiani, ancora perseguitati. Caterina si presenta a Massimino, invitandolo a riconoscere invece Gesù Cristo come redentore dell’umanità, e rifiutando il sacrificio.

Massimino allora convoca un gruppo di intellettuali alessandrini, perché la convincano a venerare gli dèi. Ma è invece Caterina che convince loro a farsi cristiani. Per questa conversione così pronta, Massimino li fa uccidere tutti, poi richiama Caterina e le propone addirittura il matrimonio. Nuovo rifiuto, sempre rifiuti, finché il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo.

Un nuovo miracolo salva la giovane, che poi viene decapitata: ma gli angeli portano miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo avviene il 24-25 novembre 305. E alcuni studiosi ritengono che il racconto leggendario indichi, trasfigurandola, un’effettiva traslazione del corpo sul monte, avvenuta però in epoca successiva. Dal Gebel Katherin, infine, e in data sconosciuta, le spoglie furono portate nel monastero a lei dedicato, sotto quel monte.

A una sua biografia così poco attendibile si contrappone la realtà di un culto diffuso anche fuori dall’Egitto. La troviamo raffigurata nella basilica romana di San Lorenzo, in una pittura dell’VIII secolo col nome scritto verticalmente: Ca/te/ri/na; a Napoli (sec. X-XI) nelle catacombe di San Gennaro, e più tardi in molte parti d’Italia, così come in Francia e nell’Europa centro-settentrionale, dove ispira anche poemetti, rappresentazioni sacre e “cantari”. La sua festa annuale è vista principalmente come la festa dei giovani. In Francia, Caterina diviene la patrona degli studenti di teologia e la titolare di molte confraternite femminili; e, in particolare, la protettrice delle 19

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della volta alternano gli evangelisti ai dottori della Chiesa. Nella navatella di destra, sulla volta e sulle pareti, è un ciclo mariologico, lo si è voluto intendere quale chiaro omaggio della committente Maria d’Enghien alla madre del Cristo della quale era fervente devota.

Le scelte iconografiche che partono dal pensiero teologico francescano, appaiono in alcuni punti come un immenso trattato di predicazione. L’ammonimento estremo è nel ciclo dell’Apocalisse, che occupa come detto la controfacciata e le pareti della prima campata.

“La fantasia dell’artista si muove in un labirinto di immagini, organizza le scene, attanaglia gli sguardi. In alto è S. Giovanni rapito in estasi nell’isola di Patos, ove ha inizio la stesura del libro. Basta guardarsi attorno e constatare come gli episodi incalzano con ritmo serrato” 23.

Ad Apocalisse 6,8 24 fanno riferimento le immagini del Trionfo della Morte, che irrompe sopra un cavallo di un fantasmagorico verde. Si è voluto mettere in evidenza in questo caso le analogie con il Trionfo della Morte di Palermo, città con la quale c’era uno stretto ed evidente legame date le comuni ascendenze. I toni sono evidentemente lunari, l’aderenza al testo apocalittico assoluta, fino all’ultimo sinistro avviso, l’ultima tromba che preannuncia la Gerusalemme Celeste. Inoltre: “Il ciclo dell’Apocalisse è stato messo in relazione a due dipinti su tavola della Staatsgalerie di Stoccarda. Queste opere realizzate a Napoli nella prima metà del XIV secolo, sono un prodotto della cultura e dell’arte raffinata degli Angiò e sono state di recente attribuite a Giotto, seguendo il filo di una tradizione che parla di un’Apocalisse affrescata dal maestro toscano per Roberto d’Angiò in una cappella nel Monastero di S. Chiara. […] Le affinità tra L’Apocalisse di Stoccarda e quella di Galatina sono evidenti nelle rispondenze iconografiche e nella distribuzione che offre il senso profondo del racconto apocalittico: una narrazione per figure che gli affreschi traducono in Biblia pauperum” 25. apprendiste sarte, che da lei prenderanno il nome destinato a durare a lungo anche in Italia: “Caterinette”.

(Sitografia: http://www.santiebeati.it/dettaglio/79050).

23 ANNA DELLE FOGLIE, art. cit., pag. 40.

24 “Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra”.

25 ANNA DELLE FOGLIE, art. cit., pag. 42.

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Forse per questo e per tanto tempo si è voluto credere alla mano della bottega del maestro fiorentino, o almeno alle sue più tarde maestranze.

Non ci si dilunga nel commento agli affreschi, ma è d’obbligo soffermarsi su alcuni, come sopra, che più di altri hanno richiamato l’attenzione e portato a riflessioni.

Nella seconda campata sono le scene della Genesi, la Creazione della terra e della luce, la Creazione degli animali, la Creazione di Adamo, la Tentazione della quale attrae l’attenzione il serpente umanizzato con volto di donna, che tanto fa pensare a Masolino da Panicale (tra l’altro coevo), nell’accoglienza di una lezione ancora trecentesca, non superata dalla drammaticità dell’umano che si ha poi in Masaccio ma qui, nell’indigitazione, più inquietante. In Masolino c’era quasi un tacito accordo, un muto chiedersi tra i due progenitori che sembrano domandarsi e accordarsi allo stesso tempo sulla scelta da compiere. Non qui. Qui, mentre Adamo, pur tentato allo stesso modo di Eva, prega rivolto verso i tre angeli apparsi in cielo simbolo evidente di Fede, Speranza e Carità, Eva col ventre più gonfio di Adamo, generatrice del male, indica solo il tentatore, concentrata esclusivamente su di lui che, inquietante, ha il suo stesso volto, addirittura la stessa pettinatura! Il male è nella stessa Eva, non fuori, ma scaturisce da lei stessa. Il male non è che nell’uomo, non scaturisce che dalla creatura e dalla creazione, in difetto rispetto al Creatore. Purtroppo in questo caso solo da Eva! Evidenza di una lettura ancora ancestrale e misogina della pagina della Genesi, com’era naturale che fosse in quel periodo, autentico autunno del Medioevo. Una pagina superata nello stesso periodo in Toscana da Masaccio, ma pure dalle altre donne della Basilica discendenti dalla linea femminile di Eva: Maria e S. Caterina, che rivestite della Grazia divina superano l’idea del peccato l’una generando il Redentore, l’altra donandosi a Lui col martirio, riscattando così il genere umano dal peccato e superando l’empasse dell’Antico Testamento.

Particolare attenzione riveste, sulla parete destra della seconda campata, l’affresco raffigurante il Diluvio Universale (in particolare il ritorno della colomba recando a Noè il ramoscello d’ulivo). Vi è l’arca con Noè affacciato ad una finestrella, la colomba che ritorna e le acque che ospitano i corpi gonfi e mostruosi degli annegati. Ora, in genere nei cicli precedenti agli studi prospettici, e vicini alla cultura bizantina, i personaggi maggiori per importanza sono più grandi degli altri (vedasi le Maestà), e nei cicli narrativi le parti maggiori sono quelle riservate ad attrarre l’occhio e destare maggiore attenzione dell’osservatore. L’arca è in alto

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assecondando l’angolo naturale dell’arco a sinistra. Dalla finestrella si intravede Noè che accoglie la colomba e, sotto l’arca, galleggiano nell’acqua gli enormi corpi degli annegati.

Sono figure gonfie e in questo sicuramente c’è del realismo popolare scaturito dalla visione di corpi annegati, ma la cosa che desta perplessità è la grandezza spropositata di queste figure umane. La spiegazione potrebbe riporsi nel fatto che le maestranze abbiano voluto dare risalto all’umanità persa, punita, e dunque questi uomini sono gonfi e grandi perché appunto annegati (nel ciclo pittorico sono presenti altre immagini realisticamente ingenue, come gli astanti che si tappano il naso alla resurrezione di Lazzaro, sulla parete destra della terza campata, perché il morto emana cattivo odore!), quindi si pone particolare attenzione al ventre rigonfio d’acqua. Di fatto il ventre rigonfio d’acqua non giustifica che siano enormi, molto più grandi dell’arca e di Noè che in effetti sono i personaggi principali del racconto come la stessa colomba d’altronde, che è quella che dà il titolo alla stessa narrazione (Il ritorno della colomba col ramoscello d’ulivo). Ci si è chiesti dunque se la raffigurazione potesse essere il frutto di una tradizione orale, proveniente dall’Oriente (per i contatti dei committenti, delle maestranze e di queste terre), che abbia potuto e voluto narrare la distruzione di una stirpe di giganti tramite il diluvio, così come i libri di Enoch sostengono e cioè che il diluvio fu provocato proprio per distruggere i giganti che avevano contaminato la terra, un’ipotesi che potrebbe avere un fondamento testuale proprio nei testi apocrifi considerati però canonici dalle scritture dei cristiani copti. Molta letteratura apocrifa è utilizzata dall’arte nelle narrazioni religiose e potrebbe essere che una tradizione lontana, anche orale, abbia influenzato tale raffigurazione. Molti santi, ad esempio, in questa chiesa sono della tradizione orientale. Se i pittori in questione avessero voluto raccontare l’annegamento così come realisticamente hanno fatto per altre scene, non avrebbero lasciato i peli e i capelli agli annegati?

Di fatto anche la tradizione popolare sa che un annegato non perde né peli né capelli, non sono inclusi nel processo putrefattivo corporeo, anzi rimangono in sede nei bulbi, a volte crescendo, anche quando tutto intorno si è completamente liquefatto. Perché tutti gli annegati sono senza capelli, quello superiore è senza peli pubici, e sono spropositatamente enormi nonostante il personaggio principale sia l’arca e Noè che accoglie la colomba? Non è da considerare, a tal proposito, l’animale in alto a destra perché potrebbe essere un toro, un bovino molto grande (quindi grande di suo), tra l’altro sempre più piccolo rispetto agli annegati in questione.

Secondo quest’ipotesi, dunque, potrebbe essere che una narrazione orale (sicuramente di derivazione orientale o copta) abbia riportato in questo affresco storie riferibili a giganti scaturite da una tradizio che nel tempo è andata perduta nelle nostre terre, permanendo invece viva in altra letteratura religiosa.

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Un autentico colpo d’occhio è la volta della terza campata, dove secondo la classificazione di Dionigi l’Areopagìta vengono schierate le nove gerarchie angeliche: Arcangeli, Angeli, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù, Principati, Cherubini e Serafini.

Dopo la celebrazione della vita e del martirio di S. Caterina, padrona di casa nella quarta campata (anche se l’immagine di S. Caterina ricorre spesso pure altrove), di notevole rilievo è la navatella destra dove è il ciclo Mariologico. Qui l’attenzione va alla Dormizio Virginis, com’è giusto che sia definita teologicamente e non morte della Vergine, per il gusto squisitamente bizantineggiante. Cristo accoglie l’anìmula della Vergine in una mandorla sorretta da angeli tra gli Apostoli astanti. Al di sotto della Vergine stesa su un catafalco, l’Arcangelo Michele combatte contro il Male che vorrebbe trattenere l’anìmula della Vergine stessa, un tòpos caratteristico in questo periodo di tali raffigurazioni. Il Male in questo caso (anche se l’affresco risulta carente) assume le stesse sembianze del monaco come appare nelle tentazioni di Cristo nella parete sinistra della terza campata centrale, dove il Tentatore pare essere un monaco in abiti domenicani e coi piedi palmati.

Nell’abside è affrescata la deesis (dal gr. δέησἰς, supplica, intercessione) iconografia del Cristo Pantocratore astante tra Maria e Giovanni, raffigurazione che trovava già larga eco nelle grotte e cappelle sin dalle pitture rupestri.

La devozione mariana (quasi dolce e voluto riscatto dalle tentazioni di Eva!) costituisce uno snodo importante per la lettura degli affreschi della Basilica (per quel poco che se ne può comprendere). Quasi che a rivolgersi a Lei, alla sua materna dolcezza, le paure Apocalittiche vengono a cadere nel vuoto. Si notino una Madonna della rondine e una più dolce Madonna della mela, dove curioso e moderno è l’atteggiamento del Bambino con le braccia conserte, quasi a richiedere la dovuta attenzione alla Madre.

Un particolare degno di nota è l’Annunciazione dell’ambulacro sinistro, dove l’Arcangelo è riccamente decorato, braccia conserte e ali particolareggiatamente piumate e spiegate. La narrazione è tratta dagli Apocrifi, questo perché in tali Vangeli si insiste molto che fin dalla tenera età Maria godesse di un ambiente tutto per sé per leggere e studiare. L’impianto e i colori sono quelli canonici. L’Arcangelo che in ginocchio saluta Maria, qui indica con la mano destra, come in uso nel ‘200/‘300, una scritta a caratteri gotici: ‘A.G.P.D.T., Ave Gratia Plena Dominus

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Tecum’, mentre il libro sempre canonicamente aperto lascia intravedere la risposta di Maria. I colori delle vesti sono canonici anch’essi: bianco, rosso e bordature dorate per Gabriele, rosso e blu e bordi in oro per Maria. Rosso e blu, terra e cielo, sacrificio e resurrezione che in Maria, col suo ‘Fiat’, giungono a compimento nella storia della Salvezza. La forma degli occhi tradisce ancora l’impianto di derivazione bizantineggiante, grandi e allungati. Mentre assolutamente nella modernità temporale si muovono le vesti.

Un particolare è soprattutto in Gabriele.

Era in uso infatti, nei pittori, sottolineare la bellezza e la regalità angelica con il particolare tra i capelli del nastro rosso che trattiene il diadema al centro dell’alta fronte. Un esempio, non il solo, si veda nella Maestà di Duccio degli Uffizi. Due nastri rossi, di stoffa particolarmente rigida, svolazzanti ai lati dei capelli trattengono il diadema centrale. In genere non li si nota tanto, ma è un particolare che non va tralasciato perché non un semplice motivo ornamentale, ma il punto di arrivo di una tradizione iconografica che ha le sue radici nell’Oriente precristiano che tanta eco ha avuto nelle nostre terre. Regalità e sovranità: dai kouros, al Diadoumenos, alle raffigurazioni regali, la fascia o nastro tra i capelli non mancano. “Il nome ebraico per designare il messo divino è ‘mal’ak’, certo connesso alla parola ‘melek’ che, nella medesima lingua, vuol dire ‘re’. La vicinanza della radice linguistica dei due sostantivi è testimoniata dalle assonanze con l’arabo ‘malak’, il siriano ‘malaka’, tutti termini per indicare il re” 26. Le figure angeliche dunque discendono direttamente dalla divinità, da Dio, assumendone la stessa regalità celeste.

Qui, come in molti altri affreschi della Basilica, sono ancora evidenti tracce di foglia oro nelle aureole, e l’oltremare del cielo chiarisce l’uso dell’autentico lapislazzuli che arrivava da Oriente.

Non mancano svariate rappresentazioni di Santi, francescani e non, alla maniera di figure isolate di illustri 26

MARCO BUSSAGLI, Creature coi fiocchi, art. in Art e Dossier (ed. Giunti), n° 193 ottobre 2003, pag. 13.

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personaggi; si riporta qui una nota in particolare su un santo, descritto altrove come un tal San Solocone, martire dell’Asia Minore, di cui non si hanno altre notizie agiografiche. In realtà in alto nell’affresco, come per tutte le altre figure, è riportato il nome del personaggio e l’iscrizione non conta di nessuna C, per Solocone, bensì una M, che si chiude con l’abbreviazione. Dunque è più probabile che tale santo sia San Solomone o Salomone, che le fonti agiografiche riportano come San Salomone re di Bretagna, morto il 25 giugno dell’874.27 Più probabile dunque di uno sconosciuto santo dell’Asia Minore, un santo francese presumibilmente vicino alle casate franconormanne che si sono incrociate in questo luogo (De Baux/Del Balzo; Brienne; D’Enghien).

Inoltre, nell’ambulacro destro e in corrispondenza del portale sulla parete di destra, è da segnalare il piccolo ciclo di S. Agata, alla quale è dedicata anche una tela della navatella destra, come conseguenza del dipanarsi di una storia fatta di donne, del loro sacrificio, della loro santità.

Inoltre nella Basilica sono presenti opere di alta ebanisteria, reliquiari degni di nota, alcuni 27

San Salomone III appartenne alla dinastia degli antichi principi bretoni, regnante dunque sulla Bretagna, odierna regione della Francia nord-occidentale. Egli era ancora molto giovane quando suo padre Rivallon morì e suo zio Nominoé manifestò nei suoi confronti particolare premura e bontà, di cui Salomone gli fu sempre riconoscente.

Dopo la morte dello zio, nell'851, egli non ebbe però i medesimi riguardi né il medesimo attaccamento per Erispoé, suo successore. Sotto pretesto che discendeva dal fratello primogenito di Nominoé e che vantava maggiori diritti sulla Bretagna di suo cugino, Salomone si mise a complottare contro di lui ed ottenne dal re Carlo il Calvo, nel 853, la corona della Bretagna, sotto la sovranità di Erispoé.

Questa prima soddisfazione lo rese pacifico per qualche anno. Ma nell'857, temendo di veder passare la corona su un'altra testa, per il matrimonio della figlia del suo rivale, tramò una nera cospirazione e, inseguito Erispoé in una chiesa, lo assassinò sull'altare.

I bretoni, ignorando questo crimine, accettarono Salomone come re e lo aiutarono a respingere i franchi che cercavano di invadere la Bretagna. A parte il crimine citato, Salomone aveva tutte le qualità che si possono sognare per un principe: una statura maestosa, la scienza della guerra, un coraggio intrepido.

Ma Dio, che non lascia mai il crimine impunito, sottopose Salomone ad una serie di prove che gli servirono in espiazione per il suo peccato e per la santificazione della sua anima. Senza parlare delle guerre che egli dovette sostenere contro i franchi e contro i normanni e della questione dei vescovi deposti nell'847 da Nominoé.

Quest'ultimo spinoso affare costituì per lui occasione di corrispondenza e di imbarazzo sia con i vescovi locali che con lo stesso papa di Roma. Senza contare le penitenze ch'egli compì. Salomone, per purificarsi sempre più, moltiplicò le buone opere, edificò il monastero di Plélan o di Saint-Maixent e lo riempì di magnifici doni.

Tuttavia, una cospirazione fu tramata anche contro Salomone, riservandogli così la legge del taglione. Sorpreso all'improvviso ed incapace di resistere, prese la via della fuga e si rifugiò in un piccolo monastero ai confini del Poher e del Léon, in una parrocchia che da tale episodio prese il nome di “Mezzer-Salün” (martirio di Salomone), oggi conosciuta come “La Martyre” (Finistère). I ribelli decisero di ritirarsi il 23 giugno 874, convinti a non intraprendere alcuna azione contro di lui il giorno seguente, festa della Natività di San Giovanni Battista. Gli fu inviato solamente un vescovo per invitarlo a terminare il suo asilo ed a consegnarsi volontariamente onde evitare la possibile profanazione del luogo sacro. Salomone, rassegnato a tutto, si munì del sacramento dell'Eucaristia e si presentò dinanzi ai suoi nemici con un coraggio magnanimo. I bretoni, colpiti da rispetto, non osarono sguainare la spada contro di lui e lo consegnarono a Fulcoald ed alcuni altri francesi che gli fecero cavare gli occhi dal suo figlioccio. Il vecchio re non potè sopravvivere a questo crudele supplizio e venne così trovato morto l'indomani, 25 giugno 874.

Questo è ancora oggi il giorno in cui viene onorata la sua memoria, non solo dalla Chiesa di Vannes, ma dall'intera Chiesa universale che lo ha voluto ricordare così nell'ultima edizione del Martyrologium Romanum: “In Bretagna, ricordo di San Salomone, martire, che per tutto il tempo in cui fu anche re, istituì sedi episcopali, ampliò monasteri e conservò la giustizia; abbandonato il regno, fu aggredito e ucciso dai nemici della fede mentre si trovava in chiesa.”

Il corpo del santo re Salomone fu inumato nel monastero di Plélan, conformemente al desiderio che lui aveva espresso di riposare accanto alla regina Wembrit. In seguito, probabilmente durante le invasioni normanne in Bretagna, la salma fu trasportata sino a Pithiviers, nella diocesi di Orléans, ove fu eretta una chiesa in suo onore.

Tuttavia una parte delle sue reliquie restò o fu comunque riportata in Bretagna, poiché è provato che sarebbero state custodite sino alla Rivoluzione Francese presso la chiesa Saint-Salomon di Vannes. Dopo la distruzione dell'edificio avvenuta nel 1793, le reliquie furono traslate nella cattedrale, dove ancora oggi sono oggetto di venerazione da parte dei fedeli. (Sitografia: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92252).

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dei quali conservati e visibili solo nel museo annesso alla stessa. Basilica che, come i cicli affrescati, ha subito danni nel tempo ma anche svariati restauri. Già alla fine dell’800, ancora vivo Pietro Cavoti, nel 1918, negli anni ’70, nel 1992 e l’ultimo, più importante, tra il 2002 e il 2005. I restauri degli affreschi tra l’altro hanno riportato in luce, dove non sono andate perdute (ricordiamo che quando De Giorgi visitò S. Caterina il convento era stato ridotto in caserma dei reali carabinieri e in carcere mandamentale 28), importanti sinòpie e anche graffiti che ormai segnano la memoria dei passaggi di pellegrini e viandanti.

Elemento scultoreo di notevole interesse, squisitamente decorativo, sono i capitelli di questa Basilica, ritenuti di particolare pregio artistico.

Traccia della commistione di stili presenti nella chiesa, sembrano cesellati, talvolta ricamati nella pietra, in essi è racchiusa la cultura medioevale ricca di bestiari, trattati di botanica, dai significati allegorico-didattici. Diversi tra loro nelle forme decorative, sono invece uniti dalla cornice a stelle diamantate che li sormonta tutti, quasi filo conduttore della loro storia 29.

Un chiostro completamente affrescato con le storie della vita di S. Francesco e S. Domenico di Guzman, opera di fra Giuseppe da Gravina che lo dipinse nel 1696, quasi fa da controcampo agli affreschi presenti all’interno della Basilica.

GLI ALTARI CONTRAPPOSTI “Tanto la chiesa che l’attiguo convento furono concessi da prima ai PP. Minori della Bosnia; indi passarono nel XV secolo ai Minori Osservanti pugliesi e sul morire del 1400 agli Olivetani che si erano già insediati nell’altro monastero dei SS. Nicolò e Cataldo in Lecce. A

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COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 416.

DOMENICA SPECCHIA, op. cit.

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questi succedettero nel 1597 i Riformati […], i quali vi stettero sino all’ultima soppressione del 1866”

30.

Di particolare interesse, dunque, la storia che si dipana lungo quelli che sono stati definiti i due altari contrapposti che si fronteggiano all’interno della Basilica: uno dedicato a S. Benedetto con l’effige degli Olivetani del 1496 e l’altro a S. Caterina con quella dei Francescani, entrambi opera di Niccolò Ferrando. La storia di questi due altari si intreccia con quella dei due ordini, Francescani e Olivetani, anche se questi ultimi hanno retto le sorti della chiesa e dell’annesso convento per breve tempo.

La gestione della chiesa, alla consacrazione del 1391, fu affidata all’ordine dei Frati Minori Francescani ai quali, fra l’altro, fu affidata anche la gestione del convento e dell’ospedale con tutti i suoi beni.

Nel 1463 Giannantonio Orsini Del Balzo fu ucciso ad Altamura, probabilmente dal galatinese Antonio Guidano, su incarico del re Ferrante d’Aragona che era nipote dello stesso Giovanni Antonio. Questo momento segna l’effettivo passaggio alla dominazione aragonese.

Nel 1494 a Ferdinando I d’Aragona successe il figlio Alfonso II d’Aragona, legato particolarmente alla congregazione benedettina di Monte Oliveto che colmò di numerosi benefici e ampi privilegi, volendo farne una potenza religiosa legata alla corona aragonese, in chiara contrapposizione al conservatorismo dei francescani e domenicani. Tra i vari provvedimenti il re dispose l’insediamento degli olivetani nella chiesa di S. Caterina, nell’annesso convento e nell’ospedale con tutti i suoi feudi, proprietà e pertinenze nella città che allora si chiamava S. Pietro in Galatina.

Alla notizia il dissenso della popolazione fu unanime, tanto che inevitabilmente scoppiarono dei tumulti popolari. Ci si oppose con tutte le forze e mezzi disponibili alla sostituzione dei francescani che tanto avevano fatto per la città reggendo le sorti di una chiesa di fatto importante per il Salento e di un ospedale che costituiva orgoglio e vanto per i galatinesi.

L’intervento deciso e improvviso della cavalleria dei d’Aragona fermò ogni resistenza e riportò l’ordine in città.

Fu così che il 28 luglio 1494 si insediarono gli olivetani: i francescani non si rassegnarono al loro allontanamento e, spalleggiati dalla popolazione, cercarono in ogni modo di essere rientrare nei loro possedimenti.

Seguirono complesse vicende fino al primo giugno del 1507 quando, sotto il regno di Ferdinando il Cattolico e con il beneplacito di papa Giulio II, i rappresentanti dei due ordini sottoscrissero un compromesso con il quale i frati francescani rientravano in possesso della 30

COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 416.

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chiesa e del convento di S. Caterina mentre i frati olivetani restavano padroni dell’omonimo ospedale con tutti i suoi feudi, beni e possedimenti. Nel documento era espressamente detto che l’altare S. Benedetto doveva essere lasciato a perpetua memoria.

I Frati Minori Francescani mantennero l’impegno ma, proprio di fronte all’altare in questione nella navata opposta, innalzarono un altro altare dedicato a Santa Caterina con ai piedi della statua un guerriero schiacciato dalla ruota del martirio della santa.

Il personaggio apparentemente avrebbe dovuto rappresentare l’imperatore Massenzio, lo stesso che aveva sottoposto Caterina a crudeli supplizi. In realtà altri non è che Ferdinando d’Aragona esecutore dell’estromissione dei francescani che in segno di rivalsa lo condannarono al castigo perpetuo, agli occhi della storia futura.

Gli olivetani, che ingenui certo non erano, qualche anno dopo risposero a questa provocazione all’interno del loro ospedale, con l’immagine trionfale di Ferdinando a cavallo, mantello svolazzante al vento e ai piedi un soldato morente, allegorica rappresentazione dell’Università (l’antica amministrazione cittadina) di San Pietro in Galatina che invano aveva lottato contro le decisioni di re Alfonso.

“Tutta la storia dell’arte e della civiltà di Galatina si potrebbe dire che si compendia in questo tempio di S. Caterina. Ma le intemperie, i fulmini

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e la mano dell’uomo hanno insieme

congiurato a scemargli la primitiva bellezza”, così il De Giorgi a conclusione del suo percorso su S. Caterina nei Bozzetti, anzi a chiosa addirittura afferma: “Uscendo da questa chiesa potremmo anche partire da Galatina perché nulla vi è di rilevante da osservare in questa città”32 .

A scemargli la primitiva bellezza!

Forse proprio per questo, abbrutita nel tempo,

dall’uomo e dai secoli, a lungo snobbata dagli itinerari turistici di massa, la Basilica Cateriniana di Galatina al contrario non è ignota da tempo al viaggiatore attento, quel viaggiatore che ancora sa cogliere con stupore quasi infantile la meraviglia della suggestione, a tratti semplice e spensierata a tratti patetica e popolare 33, la stessa suggestione intrisa di paure millenarie che in quell’autunno del Medioevo doveva cogliere il pellegrino che si accingeva da queste terre ad intraprendere la via per Gerusalemme, senza certo ritorno.

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Quello che colpì, danneggiandolo, il cenotafio di Raimondello il 19 ottobre 1867, cenotafio ricostruito grazie ai disegni dello stesso, come di tutta la Basilica e i suoi particolari che ne aveva fatto Pietro Cavoti. A lui, infatti, il De Giorgi rende merito anche per questo.

32 COSIMO DE GIORGI, op. cit., pag. 420.

33 ANNA DELLE FOGLIE, art. cit., pag. 47.

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BIBLIOGRAFIA

1. COSIMO DE GIORGI, La Provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Introduzione di Michele Paone, Vol. II, Galatina, Congedo Editore, 1975.

2. ALESSANDRO CUTOLO, Maria d’Enghien, Congedo Editore, Galatina 1977.

3. p. ANTONIO FEBBRARO, Santa Caterina in Galatina, Assisi Salentina, ed. Frati Minori Basilica.

4. DOMENICA SPECCHIA, a cura di, La Basilica Orsiniana, ed. Comunità Francescana della Basilica, Galatina 1998.

5. ANNA DELLE FOGLIE, L’Autunno del Medioevo (art.), in Luoghi dell’Infinito, mensile d’arte di Avvenire, n° 52 maggio 2002.

6. MARCO BUSSAGLI, Creature coi fiocchi, art. in Art e Dossier (ed. Giunti), n° 193 ottobre 2003.

7. Per la Sitografia: www.santiebeati.it.

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