3°m TERZO MILLENNIO ANNO 6 - NUMERO III - IV 2014 ISSN - 2038-0070

TERZO MILLENNIO ANNO 6 - NUMERO III - IV 2014 ISSN – 2038 - 0070

Si ringraziano tutti i sostenitori che hanno contribuito anche alla stampa di questo numero di Terzo Millennio.

In Copertina: Carmine Abate

2

Terzo Millennio organo ufficiale dell‟Associazione Culturale “Terzo Millennio” - Anno VI - N° 2 2014 Registrazione Tribunale di Barcellona P.G. (Me) n. 70/2009 dell‟ 1/06/2009 C.F. 90014260831 c.c.p. n. 97685739 intestato a:“Terzo Millennio” via C. A. Dalla Chiesa, 22 98053 Bafia - Castroreale (Me) - Italia e-mail: terzomillennio2009@tiscali.it ISSN 2038 - 0070

Direttore Responsabile Antonino Motta

Direttore Editoriale Carmelo Aliberti

Redazione Elena Aliberti, Monica Bauletti, Alessandro Campo, Mimmo Di Stefano, Daniele Fazio, Mirella Genovese, Andrea Ingemi, Andrea Italiano, Pina Rando, Cristina Saja, Domenico Trovato, Andrea Zanghì.

Comitato Scientifico Giorgio Bàrberi Squarotti (Presidente onorario Università di Torino), Matteo Collura (giornalista - scrittore), Antonio Famà (Waterloo University - Canada), Jean Igor Ghidina (Università di Clermont-Ferrand, Francia), Antonino Grillo (Università di Messina), Giuseppe Rando (Università di Messina), Ennio Rao (North Carolina University, USA), Neven Usùmovic (biblioteca di Umago, Croazia), Nicolas Violle (Università di Clermont-Ferrand, Francia), Lucio Zinna (poeta - scrittore)

Grafica e Stampa Tipografia - Litografia - Centro Stampa Digitale Termegrafica di Giambra Pierangelo Terme Vigliatore (Me) termegrafica@alice.it Tel. 090 9783002

Associati all’Associazione Culturale “Terzo Millennio” Si diventa socio ordinario dell'Associazione Culturale "TERZO MILLENNIO", dopo l'accettazione all'unanimità del Direttivo e versando un contributo volontario di Euro 100. I contributi dovranno essere versati sul c.c.p. n.

97685739 intestato a “Terzo Millennio” Associazione Culturale “no profit”.

La Rivista viene inviata gratuitamente a biblioteche universitarie, a Istituti di Cultura, a Fondazioni Culturali, a giornali e riviste, a critici letterari, quotidiani on-line, ecc. I testi inviati, per essere pubblicati, devono essere sottoposti al giudizio del Comitato Scientifico, della Direzione e dalla redazione. In tal caso, l'autore del testo fino a cinque pagine può contribuire con un versamento volontario per ricevere cinque copie del numero della Rivista che ospiterà il testo. Per la pubblicazione di testi superiori alle cinque pagine, l'autore dovrà versare un contributo volontario pari a dieci copie.

Il socio ha la possibilità di: 1) ricevere gratis la rivista; 2) avere inserita sulla rivista una poesia (max 30 versi) e una recensione durante l‟anno, oppure un racconto (max 2 cartelle), oppure un quadro in bianco e nero e un articolo sulla personalità dell‟artista; 3) partecipare alle attività del gruppo. Ogni forma di collaborazione e la distribuzione della rivista sono gratuite, ma si accettano liberi contributi volontari per spese varie. La richiesta di più copie per gli autori degli articoli pubblicati è necessaria.

Ogni autore comunque si assume la responsabilità dei propri scritti. Manoscritti, dattiloscritti, fotografie o altro materiale non vengono restituiti. Attività culturale senza scopo di lucro ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. del 26/10/1972, n. 633 e successive modifiche. Tutti i dati saranno trattati nel più completo rispetto della legislazione italiana in termini di “tutela dei dati personali” L. 675/96.

Il foro di Barcellona Pozzo di Gotto è competente per eventuali controversie.

All’interno: - Introduzione al volume di Carmelo Aliberti - di Jean Igor GHIDINA - Carmine Abate: La collina del vento (romanzo) Scavare per non dimenticare, Abate e la figurazione diacronica del presente - di Nicolas VIOLLE - La poesia di C. Aliberti tra tormento terrestre e impegno etico - di Lucio ZINNA - Carmelo Aliberti, La poesia di Bartolo Cattafi tra negativo esistenziale e ansia metafisica - prefazione di Jean Igor GHIDINA - Le belle parole di Giuseppina Rando - Recensione di Andrea PAPPALARDO - La tua parola - C‟ è qualcuno - Pensiero - Luce blu - Straniera - Poesie di Giuseppina RANDO - “Il giorno non è mai troppo lungo” - Introduzione di Domenico DISTEFANO - “Il giorno non è mai troppo lungo” - Presentazione di Luigi RUGGERI - Lontananza - Poesia di Mimmo DISTEFANO - Bartolo Cattafi studiato da C. Aliberti: un altro punto di vista - di Cristina SAJA - Ispirazione Sicilia. La pittrice Brigitte Nolden espone nel Museo Archeologico di Amburgo - di Ulrich VOIGT - I frati cappuccini nel mondo manzoniano - di Vincenzo BARBAGALLO - Fulvio Tomizza: I rapporti colpevoli - di Carmelo ALIBERTI - Messina vista dagli altri. Viaggiatrici italiane e straniere a Messina dal XVIII al XX secolo - di Felice IRRERA - Rodì Milici come metafora di storia e cultura della Sicilia di Andrea ZANGHÌ - Tu non mi ami - Racconto di Monica BAULETTI - CVPIDO RESTITVTVS poesia e traduzione di Antonino GRILLO - La torcia a led - Paese misura - A incalcolabili lune - Poesie di Lucio ZINNA - Fiore di Galilea - Comunione Fugace - Poesie di Mirella GENOVESE - Il lungo cammino: storie di vita di studenti stranieri - di Domenico TROVATO - Presentazioni del nuovo saggio del poeta Carmelo Aliberti sulla poesia di Bartolo Cattafi - di Daniele FAZIO - Gli umili nella poesia di Carmelo Aliberti - di Ennio I. RAO

5 8 28 36 41

44 46 49 51 52 56 65 72 78 103 113 118

124 127 129 131 134

Si informano i collaboratori che, per motivi di spazio, non è stato possibile pubblicare alcuni loro articoli che appariranno su uno dei prossimi numeri di “Terzo Millennio”.

4

SAGGI

Introduzione al volume di Carmelo Aliberti Carmelo Aliberti-La poesia di Bartolo Cattafi tra negativo esistenziale e ansia metafisica - Giambra editori 2014 -

Jean Igor GHIDINA Docente di Letteratura Italiana - Università "Blaise Pascal", Francia

Ci voleva la mente eccelsa di un poeta come Carmelo Aliberti per scandagliare l‟opera omnia di Fulvio Tomizza, insigne esponente della letteratura non solo triestina ma pure italiana. Dall‟affiatamento ideale tra i due uomini è scaturito un volume critico di notevole mole che riesce a calare il lettore in un universo affascinante e coinvolgente. Difatti sin dal titolo si intuisce l‟afflato spirituale che assurge a significato recondito della narrativa tomizziana, mentre sarebbe fuorviante ascriverla lapidariamente a una corrente o a un genere collaudato.

Un titolo insomma che non rintuzza in un alveo apodittico e unilaterale uno scrittore considerato un po‟ riduttivamente soltanto di frontiera. Certo, che Tomizza rappresenti anche l‟identità bipolide di tanti famosi giuliani o istriani è scontato, ma il pregio indubbio del volume sta nell‟aver saputo proporre l‟intentio auctoris nelle pagine liminari, per cui il lettore, attingendo maieuticamente al dialogo fra Aliberti e Tomizza, può avvalersi di uno strumento propedeutico prima di inoltrarsi nella disamina critica.

Dall‟analisi acuminata di Aliberti, appunto, si evince che ci troviamo di fronte a uno scrittore ubertoso capace di plasmare un‟opera multiforme, non soltanto ligia al romanzo riecheggiante spunti autobiografici, ma foriera perfino di una scrittura fantastica ed onirica. Riesumando e perlustrando vicende che spaziano dal Cinquecento allo scorcio del Novecento e soprattutto palesando che la vera frontiera, anzi lacerazione, è quella che assilla l‟esistenza umana, Tomizza conferisce alla sua produzione un risvolto universale che esula da qualsiasi microcosmo racchiuso in un tropismo meramente locale. Va precisato quindi in tale prospettiva che gli spasimi esistenziali non sono avulsi dagli eventi della macrostoria i quali vengono intrecciati nelle singole diegesi alle traiettorie assiologiche dei personaggi.

5

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

La dicotomia tra cultura slava e cultura italiana, tra comunismo e liberalismo, tra agnosticismo e cristianesimo potrebbe sembrare il fine precipuo dell‟arte tomizziana la quale comunque non indulge a nessun etnocentrismo o manicheismo, nonostante il trauma dell‟esilio dall‟Istria. Tuttavia, al mal di vivere esacerbato o mascherato dagli antagonismi ideologici ed etnici, al dilagare della violenza e dei pregiudizi, allo squallore di individui succubi delle prevaricazioni del potere, Tomizza oppone l‟anelito indefesso all‟amore, vera vocazione dell‟umanità. Da Materada a La casa del mandorlo, Tomizza mette in scena il proprio alter ego, protagonisti quali Martin Crusich ne la miglior vita, la cui onomastica pluriidentitaria, è emblematica di una terra mistilingue, ma soprattutto, come ribadisce Aliberti, va trasfigurando la derelizione ontologica e metafisica in una solida rappresentazione artistica. …

Dopo il patto di Londra, con cui la zona B (quella dell‟area istriana) fu assegnata alla dominazione jugoslava, che, con mezzi disumani infierì sugli oppressi di quella terra, prima tormentata dal dominio fascista per la fascistizzazione dell‟Istria, poi dalla Jugoslavia di Tito che operò con ferocia per la slavizzazione della zona assegnatale, nel 1954, a causa delle persecuzioni, delle fucilazioni, delle torture e persino della privazione di parlare la loro lingua e di usare lo slavo per comunicare, sotto pena di morte, iniziò il doloroso esodo degli istriani, con i membri della stessa famiglia separati per le scelte diverse, verso una meta indefinita, oltre la frontiera con l‟Italia, verso luoghi e gente sconosciuta, dove poter ricominciare a vivere. Il giovane Tomizza rimase traumatizzato da tante scene di orrore e, data la profonda sensibilità lacerata, decise di varcare la frontiera e si stabilì a Trieste, dove l‟avevano preceduto tanti suoi conterranei.

Trieste lo abbagliò con le maestose architetture dei suoi aristocratici palazzi, con la bellezze naturali, con l‟argenteo scintillio delle acque del suo mare e con l‟infinità del suo cielo azzurro. Ma le scene di crudeltà, di barbarie, le piaghe inflitte da un avverso destino agli oppressi della sua terra, le immagini di camini spenti delle case, la terra tanto amata incolta, il villaggio che lentamente si spopolava lasciando la chiesa vuota, il rimorso dei contrasti col padre, la gioia di aver vissuto in una comunità unita da sincera amicizia, accentuarono la sua sofferenza fino a tramutarsi in angoscia. A Trieste, scoprì gli stessi conflitti etnici e ideologici in gruppi chiusi e cercò di ricomporre la convivenza pacifica tra gente diversa e in perenne conflittualità. Cercò timidamente di creare rapporti distesi, ma fallito il tentativo,si rifugiò nell‟amore di Laura che gli fu fedele e lo amò fino alla fine. Laura fu il porto di sicurezza che lo sostenne con dedizione 6

SAGGI

nei momenti di fragilità interiore e nelle occasionali devianze femminili, scattate nei momenti di più acuto dolore per un mondo sconvolto dalle guerre, dalle disuguglianze, dagli odi e dagli egoismi, in cui non scorgava un fiotto di pietà per le vittime e per gli indifesi. La realtà lo allontanava da Dio, che egli ritrovò al di fuori dell‟ortodossia e delle istituzioni ecclesiastiche, in epoche trascorse della storia, come si evidenzia nel romanzo “La finzione di Maria” Janis, appartenente alla categoria degli umili, professando segretamente la propria fede o nella storia di Vergerio, vescovo di Capodistria, che operò una libera interpretazione del Vangelo, approdando al protestantesimo. Gli inconciliabili rapporti tra le etnie, impossibili a ricomporsi nella realtà, Tomizza tentò di risolverli nella letteratura.

I romanzi “Franciska” e “L‟amicizia” si collocano su questo piano. Lo scrittore, nel primo romanzo racconta una tenera storia d‟amore tra una ragazza proveniente dal Carso e il giovane tenente Nino Ferrari, in servizio a Trieste durante la guerra. Ma un giorno il militare viene trasferito in Piemonte,dove l‟amore continua per via epistolare, fino a diventare sempre più fioco e spegnersi, siglando l‟impossibilità di convivenza tra due persone di diversa appartenenza, condannando la donna a tornare nella sua casa di campagna, corrosa dalla devastazione del tempo, a consumare nella solitudine il dolore della sconfitta. Anche nel secondo romanzo “L‟amicizia” tra Marco, un giovane scrittore inurbato e il cittadino Alessandro, Tomizza racconta la nascita e lo svilupparsi di un‟amicizia tra due giovani, provenienti da due mondi diversi.

Anche qui, dopo l‟iniziale e intenso idillio d‟amicizia, i due scoprono di essersi illusi di possedere una comune identità, per cui la separazione tra i due diviene irreversibile. Anche questi tentativi, emblematici della realtà si risolvono nell‟inconciliabilità. Tomizza vive ora un‟angoscia infinita e racchiuso nella sofferente solitudine, per trovare il vero senso della vita, si lancia alla ricerca delle sue lontane radici e peregrina in Dalmazia verso la scoperta della terra d‟origine degli avi, attraversando la campagna dalmata, investito da profumi inebrianti di una terra disegnata nell‟anima, fino ad arrivare al villaggio, dove vissero i suoi antenati. Il suo cuore si apre alla gioia, ma quel momento di felicità si confonde in lui con il dolore per l‟umanità, impregnata da ogni forma di male.

Il viaggio finale è compiuto con una ragazza accanto che legge silenziosamente nei suoi pensieri, come lo scrittore racconta nel volume postumo “Il sogno dalmata”, dove si realizza, solo attraverso il viaggio nella letteratura, il lenimento degli sconvolgenti conflitti interiori, a contatto con la visione di una limpida e sublime atmosfera, lontano dagli orrori della vita, del mondo e della storia.

7

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Carmine Abate: La collina del vento (romanzo) Scavare per non dimenticare, Abate e la figurazione diacronica del presente.

Nicolas VIOLLE Université Blaise Pascal-Clermont-Ferrand

Il motivo della Collina del vento è simile a quello di Tra due mari1, storia ambientata in Roccalba, un paese della Calabria, la cui trama è la storia di una famiglia unita dal sogno di ricostruire il Fondaco del Fico, una locanda appartenuta per generazioni alla famiglia. Anche i modi echeggiano un io narrante che racconta la storia ricostruendo intrecci tra la famiglia materna e paterna e il destinatario del racconto che è lo scrittore. Se Tra due Mari è un romanzo di viaggi2, La collina del vento appare un vero e proprio Bildungsroman3 di una coscienza civile italiana. Si nota una rinnovata espressione del sentimento di estraneità. Non si tratta più della differenza tra la comunità arbëreshe e la comunità nazionale italiana4, né di fuga, come nei romanzi del ciclo di Hora per fuggire alla memoria di un padre morto o sconosciuto, ma del generico sentimento di appartenenza a una comunità .

1

Carmine Abate, Tra due mari, Milano, Mondadori, 2005.

Sonia Floriani, “I viaggi del migrante. Suggestioni incrociate fra sociologia e letteratura” in Renate Siebert, Sonia Floriani (a cura di), Incontri fra le righe. Letterature e scienze sociali, Cosenza, Pellegrini editore, 2010, p.137.

3 Alfredo Luzi ha osservato che « in Tra due mari c‟è un sostrato di Bildungsroman ma la critica giustamente osserva che la dominante narrativa è il motivo del viaggio, della condanna a un transito incessante fatto di tappe senza meta”, in “Prefazione” a M. Bovo Romeuf, L‟epopea di Hora. La scrittura migrante di Carmine Abate, Firenze, Franco Cesati, 2008, p.13.

4 Su quest‟aspetto, cf. Franca Sinopoli, “Diaspora e migrazione intraeuropee in Luigi Meneghello, Carmine Abate e Jarmila Ockayova”, in http://www.comunitaitaliana.com.br/mosaico/mosaico20/franca.htm, (13/5/2014) 2

8

SAGGI

Nella Collina del vento Carmine Abate sceglie di soffermarsi sulle vicende di una famiglia calabrese confrontata alla storia del Novecento. Pubblicato nel 2012, la preparazione e la stesura del romanzo avvenne nel 2011, anno del 150° compleanno dell‟unità d‟Italia. Sorgeva la possibilità di un racconto costituzionale, nel quale, metaforicamente, Abate avesse nascosto la sua lettura della storia italiana recente. Iniziato il romanzo, il lettore si rende conto che la Collina ha un altro carattere e la narrazione degli avvenimenti sociali e storici pare didattico. Emerge la convinzione che le vicende del Novecento sono il pretesto per accostare il lettore alla comprensione di un‟evoluzione più tragica di quella imposta dai drammi storici. Questi nascondono una riflessione sull‟evoluzione dell‟uomo nel novecento, sul suo habitat, sulla sua socialità.

L‟affresco famigliare pluri-generazionale degli Arcuri presiede a una riflessione sulla conservazione della memoria, particolarmente la vitalità della trasmissione della storia famigliare come fonte di costruzione e di emancipazione. Il binomio memoria-storia mette in rilievo la forza della congiunzione tra storia famigliare e collettiva per illuminare il presente. L‟inserimento della riflessione nel mondo contadino calabrese di Abate consente uno sguardo largo, dalle antiche leggende fondatrici della nostra civiltà fino ai falsi miti odierni.

Nove parti (Promesse, Profumo, Somiglianze, Vento, Conferme, Sogno, Rosso, Scavi, Verità) nelle quali trentacinque capitoli numerati da 1 a 35, distribuiti irregolarmente, e un Epilogo, formano un libro di quarantacinque sezioni, dal “ritmo rapsodico e avvincente”5. Il romanzo si apre con una dedica al padre sottoforma di promessa compiuta, seguita da una citazione di Elias Canetti che precisa il carattere movente della verità. Dedica e citazione immergono il racconto nelle già accennate problematiche della memoria, della sua trasmissione e dell‟influenza della storia nel presente. Sin dall'inizio l'intento è di avvolgere la diegesi con una luce policroma. Non a caso la nozione di verità è subito relativizzata. Si tratta della “sua” verità (p.136), come per significare che non esiste una verità ma delle verità legate alle persone, ai momenti storici, alle condizioni sociali. Applicata ai valori umani, la nozione diventa meramente variabile, perde il suo valore assoluto.

L'incipit (Promesse) consente di capire che il romanzo presenta delle vicende ricostruite dal punto di vista del narratore, che vive al presente. La sua voce alterna con un racconto indiretto, un dialogo fra il padre in fin di vita e il figlio

5 6

Daniela Marchesi, “Carmine Abate nel vento sibila l‟identità”, Il Sole24Ore, 3/6/2012, p.29.

I rinvii alla pagine sono della prima edizione « NumeriPrimi », Milano, Mondadori, giugno 2013.

9

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Rino, ultimo discendente e io narrante7, che, da testimone, raccoglie la memoria famigliare, del quale sono eroi il padre, il nonno, il bisnonno Arcuri e le loro famiglie. Rino ha promesso al padre di condividere il suo testamento morale ed etico, e la storia della sua vita, esemplare. È un insegnante di scuola media che risiede nel Trentino (molto vicino dunque alla situazione del romanziere). Il libro non procede per linearità cronologica, alterna tra passato e presente, tra una narrazione extradiegetica impersonale e una narrazione intradiegetica alla prima persona. È un gioco di specchi discontinuo. I due piani temporali rafforzano l‟impressione che le epoche e le vicende si confondano. Il lettore percepisce che l‟interesse del libro non risiede nella storia familiare ma nel suo tramandarsi.

Rivela una sapiente articolazione del passato e del presente, non solo nel concatenarsi del racconto ma anche nella successione delle evocazioni mitiche, storiche e di memoria. La memoria del luogo rivela un tempo passato, che rintraccia la storia della famiglia con sottofondo la storia d‟Italia, e un tempo presente che consente, al termine del romanzo, di svelare i segreti di famiglia e il senso del romanzo. La storia appare come sfondo culturale e il presente come rivelatore delle verità ma un rivelatore impotente per chi non ha conoscenza del passato. Il novecento si frammenta quindi tra le varie epoche e i diversi ricordi della famiglia. Di primo acchito scompare la continuità storica e appare quella del luogo, dell‟attaccamento al luogo, la collina del Rossarco, e i valori che genera.

La prima parte racchiude l‟insieme delle proposte del romanzo: la memoria assegnata al figlio, i legami famigliari, l‟importanza del luogo di vita e dell‟attaccamento al luogo, il racconto del padre al figlio sulla collina centro del romanzo, il segreto iniziale come possibile interruzione della felicità nascente di una vita semplice ma profondamente umana, la distanza fisica del padre e del figlio che mostra la prossimità di pensiero, la forza di un‟educazione. Il romanzo appare come una “autobiografia collettiva attraverso una famiglia esemplare, che resiste nell‟arco di un secolo ai soprusi di ogni tipo”8. L‟analisi dei principali temi (la famiglia Arcuri, la collina e il vento, la memoria e il ruolo specifico della storia) ci invita a interrogarci sul ruolo di ognuno nella trasmissione di un‟immagine letteraria del Novecento, sull‟uso delle rappresentazioni sociali, sulle permanenze e le interrogazioni che ne emergono.

7

Giuseppe Lupo, “Per Abate una saga famigliare. E sullo sfondo i luoghi dell‟anima”, in Il Mattino, 01/04/2012, p.24.

8 Giovanni Accardo, “L‟intervista. Una vicenda che attraversa tutto il novecento”, in Trentino, 28/08/2012, p.28.

10

SAGGI

I primi capitoli presentano il racconto come la storia degli Arcuri, una famiglia patriarcale che offre uno spazio importante alle donne. È radicata sulla collina da cui ha ereditato i valori: onestà e rispetto, lavoro e fatica, orgoglio e modestia. La vita della famiglia è ritmata dai lavori agricoli, mietitura, vendemmia, raccolta delle olive, che rinviano un‟immagine sanissima e di onesti lavoratori9, le cui giornate sono scandite dal rito dei pasti condivisi10. Si scopre una famiglia povera ma presto proprietaria della collina. La consapevolezza dell‟origine offre loro la possibilità di affrontare le sfide del futuro per più generazioni. Gli Arcuri tentano di costruirsi una vita dignitosa, impegno teso alla giustizia sociale, a un‟orgogliosa resistenza, all‟indipendenza. Sudano nei campi e difendono la propria terra. Manifestano un attaccamento forte alla terra, tipico di chi ha dovuto lasciarla, e dimostrano una forma di saggezza. Hanno imparato a sentirsi in armonia con un luogo e Abate vuole documentare questa ricchezza. Ritroviamo il legame con i suoi libri in cui la terra di partenza e le origini rappresentano un patrimonio fondatore.

Gli Arcuri non piegano alle difficoltà. Sono stabiliti su valori semplici. Appaiono come “piccoli eroi che hanno il coraggio della disperazione”11. Vivono visceralmente il rispetto delle tradizioni regionali e famigliari. Non tradiscono mai le proprie radici. Come spesso accade nei suoi romanzi i personaggi sono dei calabresi perfetti, legati all‟amore per la famiglia, alla condivisione dei segreti, al comune impegno di proteggere il loro bene più prezioso: la collina. I segreti di famiglia sono custoditi a lungo dai più anziani e svelati in confidenza al momento di morire.

Quattro generazioni si succedono, dal fondatore (Alberto) all‟erede (Arturo), dal custode (Michelangelo) al testimone (Rino). Tre sono i personaggi caratteristici: due Arcuri, Arturo e Michelangelo, e Marisà, la compagna di Michelangelo, non Arcuri ma che ne condivide elettivamente i principi. In questo modo il racconto appare non centrato sulla famiglia ma sulle sue virtù, su una visione del mondo.

Figlio di Alberto, Arturo è sin dall‟inizio l‟asse portante della famiglia. È curioso e capace di tenere il mistero dei cadaveri trovati ai piedi di suo padre, come se famiglia e segreto andassero di pari passo, per lui è la fine del “tempo delle guerre per gioco”12. Questa morte precipita Arturo nel mondo degli adulti, dei suoi genitori, dei loro valori essenziali, il lavoro e la collina. Il carattere particolare di Arturo si spiega dalla sua pronta immersione quotidiana in questo 9

cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.38.

Ibidem, p.39.

11 Francesco Mannoni, “Abate: “Racconto l‟Italia degli umili” ”, in Il Mattino, 02/09/2012, p.22.

12 cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.12.

10

11

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

mondo che gli consente di percepire le ingiustizie e la coercizione dei possidenti.

Si rivela “il più caparbio e ribelle” degli Arcuri13, l‟unico di tre figli che torna dalla grande guerra, sopravvissuto perché “spavaldo”, “spericolato”14. Fin da ragazzo “[odia] i prepotenti e i disonesti”15, è “insofferente alle ingiustizie”16.

Appare così il suo rancore contro i latifondisti che lasciano la terra incoltivata. La figura di Arturo esprime un parere ostile a chi approfitta della fatica altrui, specialmente dei contadini più fragili economicamente. Il suo ritratto morale richiama i ricordi del padre e i suoi valori essenziali: il lavoro e l‟amore della terra per ciò che produce. L‟episodio più marcante è l‟esperienza del confino dove è mandato per avere resistito al latifondista che voleva impossessarsi della sua terra. Arturo rincasa con una “maggiore consapevolezza politica e una discreta preparazione ideologica”, parla “un italiano abbastanza corretto”, è “meno ingenuo e più cauto”17. Capisce e spiega che fascismo e latifondismo sono “due facce della stessa medaglia d‟ingiustizia”18. Con Arturo si esprime l‟importanza del progetto famigliare radicato nel non rinunciare ai valori ritenuti essenziali.

Michelangelo, suo figlio, eredita il nome dalla contrazione dei due fratelli di Arturo morti in guerra. Il nome è scelto dal nonno e provoca una forte gioia, la sua nascita annuncia la fine del lutto di Alberto. Il parto pastorale, in mezzo agli alberi fioriti della collina, manifesta l‟attaccamento viscerale degli Arcuri alla loro terra, confermato dal rito quasi animalesco di Michelangelo che, ammaliato dalla collina, tornerà a finire la vita dov‟è nato19. Ha ereditato dal padre i valori di resistenza ai soprusi, una forte volontà e una curiosità “di sapere, di apprendere”20 che si rivela sin dall‟infanzia a scuola. Così, quasi naturalmente, diventa un “giovane maestro che sognava di cambiare il mondo”21.

Incontra Marisà Marengo, “una torinese indipendente e girovaga, dal fascino accecante”22, chiamata in paese la “Torinèsia”. Entrambi hanno in comune “una caparbia senza remissione”23. La sua “capacità di adattamento non comune”24 13

Ibidem, p.14.

Ibidem, p.22.

15 Ibidem, p.23.

16 Ibidem, p.38.

17 Ibidem, p.124.

18 Ibidem. Tale episodio consente di percepire l‟effetto contrario del confinamento: mettendo assieme gli oppositori consentiva scambi d‟idee, arricchimento a vicenda.

19 cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.35.

20 Ibidem, p.101.

21 Ibidem, p.148.

22 Ibidem, p.34-35.

23 Ibidem, p.35.

24 Ibidem, p.196.

14

12

SAGGI

piace a Michelangelo, pur provenendo da una famiglia borghese e benestante di Torino. Marisà è il simbolo dei settentrionali capaci di capire il meridione e di innamorarsene per quello che è. La sua “propensione all‟ascolto”25 le consente di vivere “tutte le esperienze della vita con naturalezza, la coscienza a posto, senza sotterfugi e inganni, con assoluta sincerità”26. É “l‟esatto contrario di Michelangelo, che non sapeva ascoltare la sua voce interiore”27 ma un opposto che condivide i valori essenziali.

Questi Arcuri appaiono come archetipi di miserabili, un “modello di summa del romanzesco popolare e di rapsodia dell‟epos storico-sociale”28. Sono delle anime rare, elette (Abate lo illustra attraverso la metafora delle rondini bianche, cf. p.20 e 236) che sanno meglio di altri sentirsi in armonia con la terra in cui vivono.

L‟evoluzione della famiglia è illustrata dalla propensione della generazione di Michelangelo e Ninabella, la sua sorella, a studiare. Diventa chiaro il logico tramandare dell‟importanza della trasmissione: quando Alberto e Arturo affidano oralmente ai figli il compito di ricevere e fare vivere la memoria famigliare e i valori associati: modestia, semplicità, caparbietà, solidarietà e indipendenza venate di ostinazione, di perseveranza nel lavoro e nella trasmissione, coraggiosi gli uomini, libere le donne. Michelangelo chiede al figlio Rino di consegnarlo per scritto perché non venga dimenticato. La possibilità di studio data agli Arcuri, che apre loro la prospettiva di conservare e trasmettere la memoria, interviene come una trasfigurazione del riscatto delle umiliazioni subite dai più umili. Ai valori della vita dura si apre la prospettiva della modernità.

Il secondo tema che appare raggruppa i due elementi principali del titolo, indissociabili, la collina e il vento. In conformità a un approccio simbolico si scopre una collina che associa la vita del tempo presente e la memoria sacra del luogo. Collina e vento sono degli elementi rilevanti della simbolica giudeocristiana. La collina è spesso presentata come una manifestazione primigenia del mondo, alta quanto basta per distinguersi dal caos iniziale, segna il principio di un‟emergenza e della differenziazione. La dolcezza dei suoi pendii la mette in accordo con un aspetto del sacro a misura d‟uomo. Non a caso Abate ne fa la culla sacra di una civiltà spenta nel presente, gli Arcuri, e nel passato, Krimisa.

La collina riveste l‟importanza del luogo sacro delle origini. Nel racconto la collina si accorda col vento, sinonimo di soffio, di presenza dello spirito, 25

Ibidem, p.198.

Ibidem, p.203.

27 Ibidem.

28 Italo Calvino, in L‟Espresso, sett. 1974. Cit. In Saggi, vol. I, Milano, Mondadori, coll. I Meridiani, 1991-1995, p.344-345.

26

13

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

evidentemente di origine celeste, del messaggero divino. La collina si presenta sotto forma di topos, paradiso terrestre, luogo primordiale, dove si può capire il passato e, quindi, proiettarsi con fiducia verso l‟avvenire ma è anche “ammanta[to] di virtù inaspettate”29 che lasciano spazio al mistero e alla violenza.

Il lettore nota gli elementi di descrizione fisici della collina i cui elementi appaiono sin dall‟inizio del libro: ventosa, rigogliosa, fiorita, aspra, dura, dal piacere degli odori e del suo profumo nasce una memoria olfattiva che aumenta con l‟età e la distanza dalla collina, l‟incanto dei suoi colori sgargianti è scandito mese dopo mese. Nessuna stagione è enunciata ma i fiori del Rossarco sono i testimoni mensili dell‟anno che passa e ricomincia in un costante rigenerarsi: “[...] ai primi di gennaio erano fioriti i mandorli; a febbraio i fiori gialli del trifoglio e quelli rosa dei peschi avevano invaso a chiazze il Rossarco. A fine marzo esplose finalmente la primavera [...]”30. Qualunque siano i mesi la collina sembra sempre fiorita proponendo un ricco campionario di colori. Così, all‟immobilità del luogo31, si contrappone il succedersi dei colori ossia dei mesi e degli anni. L‟impressione d‟immobilità è rafforzata da elementi percettibili ma inafferrabili come gli odori o il vento.

La varietà delle specie presenti non par vera su una terra così arida, e l‟autore stesso è cosciente di avere concepito un luogo ideale aldilà di ogni verosimiglianza: “Più che un‟immagine reale doveva sembrargli un paesaggio mediterraneo incorniciato in un quadro di luce abbagliante [...]”32. Solo la siccità di agosto sembra avere presa sulla collina. Prende allora un aspetto divergente dall‟immagine curata che riveste durante gli altri mesi. Sembra abbandonata: “Era il mese di agosto. La collina lo attendeva con il volto abbruttito dell‟abbandono: erba secca e gramigna, cespugli di lentisco e ginestra occupavano gli spazi tra gli ulivi e gli alberi da frutta cresciuti a dismisura, la vigna era un intrico di tralci avviluppati tra loro e attorno ai tronchi dei fichi.

Soffiava un vento feroce. Per raggiungere il bosco di Tripepi si doveva passare a colpi di vanga e di roncola. Sarebbe bastato un fiammifero o una scintilla piovuta da lontano per incendiare l‟inferno”33.

29

Giuseppe Lupo, “Per Abate una saga famigliare. E sullo sfondo i luoghi dell‟anima”, in Il Mattino, 01/04/2012, p.24.

30 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.160.

31 Giulio Galetto, “Meridione, fascino stratificato in Carmine Abate”, L‟Arena, Il giornale di Vicenza, Brescia Oggi, 21/07/2012.

32 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.15.

33 Ibidem, p.178.

14

SAGGI

Si nota, a volte, il giallo delle ginestre ma il colore dominante della collina è il rosso. Come il suo nome (Rossarco), il rosso traspare il più delle volte dall‟onnipresenza dei sulla e l‟evocazione ricorrente dei suoi fiori porpori.

Questa scelta rivela l‟orientamento di Abate a celebrare la vita di cui questo colore è il simbolo, una vita forte, potente, scintillante. Questo rosso comporta anche una parte di segreto e di tragico. Dal rosso affiora per tutto il romanzo, il sangue iniziale, quindi il ricordo metaforizzato del significato del racconto.

Tramite questo colore la collina offre un viso divergente dell‟immagine curata dagli Arcuri, è piena di “insidie”34. La collina paradisiaca racchiude l‟inferno: “Attento ché l‟inferno si nasconde nel paradiso”35, ambedue essendo le due facce di una medesima realtà. É testimone dello sfruttamento dei contadini calabresi e rappresenta sicurezza, vita e avvenire per gli Arcuri. Non è solo terra di vinti ma di umili che lottano per rendere sempre più fertile e produttiva una terra che sentono come parte di loro. Così la collina è riparo e sepolcro, la sua natura primordiale, quasi biblica, rimanda l‟immagine di un eden fertile e saporito costantemente minacciato dall‟invidia umana e dalle sue inciviltà dalle quali solo le radici, la memoria e la civiltà può difenderla. Nonostante il carattere confinato della collina, sembra paradossalmente un territorio senza confini. É vita e speranza, rappresenta l‟avvenire, in particolare della stirpe degli Arcuri. L‟autore interroga in questo modo il necessario riconoscersi in un luogo, particolarmente vivo in Calabria, traversata da un secolo e mezzo di migrazioni.

Il secondo elemento ricorrente del racconto è il vento che non smette mai di fiatare sulla collina. Tangibile, il vento nel romanzo è sferzante, improvviso, impetuoso, sciroccoso, sconvolgente, beffardo, affabile, lieve, tiepido; porta sapori, profumi, carezze; solleva “mulinelli di polvere e [fa] socchiudere gli occhi”36 o si ammutolisce di colpo37, soffia “senza requie sulle pendici del Rossarco [...,] scuote gli olivi secolari e gli arbusti odorosi, ulula del buio, canta di un antico segreto sepolto e fa danzare le foglie come ricordi dimenticati”38, la sua presenza si avverte dagli odori che porta o dalle fronde degli alberi che ne diffondo il rumore. Il vento è anche un elemento eterno, sacro del resto già presente in altri racconti di Abate come nel Mosaico del tempo grande o quando accoglie i discendenti di Scanderberg in fuga dall‟Albania cinque secoli fa39.

34

Ibidem, p.65.

Ibidem, p.65.

36 Ibidem, p.170 e p.188.

37 Ibidem, p.172.

38 “Arriva il romanzo storica”, in Il crotonese, 21/02/2012, p.15 e Francesco Sorgiovanni, “Carmine Abate e i segreti del Rossarco”, in Il quotidiano della Calabria, 21/02/2012, p.50.

39 Rispettivamente Milano, Mondadori, 2007, e La moto di Scanderberg, Milano, Mondadori, 2008.

35

15

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Nella sua letteratura, il vento sembra un elemento positivo, capace di varcare tutti i confini, ma riconoscibile in un luogo purché l'uomo abbia voglia di sentirlo. Il vento anticipa allora l'avvenire, raccoglie i ricordi anziché spazzarli via, ha per Abate un‟aura particolare, quasi magica e misteriosa40.

In questo romanzo, il vento è un‟ombra che aleggia su tutto, la condizione affinché i luoghi siano vivi perché “è la voce della loro verità”41. Espressa più volte nel racconto questa personificazione del vento42 si ritrova sin dalle prime pagine quando dopo i primi spari il vento porta “dei lamenti scomposti”43, come se il rumore di quegli spari avesse costruito il mondo raccontato. Il vento crea una presenza soprannaturale e intrinseca al contempo. Funziona come un‟eco all‟atmosfera, ai pensieri dei personaggi, alle vicende che anticipa e/o conclude, serve a condizionare psicologicamente le scene. É anche un‟eco ad altri temi del libro, come l‟importanza della memoria e la trasmissione della storia, compresa famigliare. Da questo punto di vista è importante la rappresentazione che Abate dà del vento come elemento essenziale alla vita. Ne scaturisce una visione quasi ecologica: il vento è di tutti, è prezioso a tutti, uomini, vegetali, animali, nessuno lo può comprare. Questa visione riecheggia il discorso del capo Seattle (“Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L‟idea ci sembra strana [...]44) e il vento diviene elemento di coscienza, cioè capacità data a ognuno di prendere la piena misura della propria libertà45. Il vento porta il rimbombo dei calabresi di Abate, delle loro sofferenze quotidiane, della loro storia odierna di dominazione e di resistenza. Tesi convalidata dallo sguardo estraneo dell‟aviatore inglese che s‟innamora del luogo e che, nonostante l‟orgoglio di Arturo per chi non è concepibile, osserva che la voce del vento è uguale in ogni posto46. I calabresi diventano metafora della condizione umana, della lotta per la sopravvivenza e contro l‟arbitrario.

Questo sguardo esterno apre la possibilità di una generalizzazione delle tematiche di questo racconto. Appare la forza della memoria, l‟importanza della sua 40

Lo nota anche Francesco Sorgiovanni, “Carmine Abate e i segreti del Rossarco”, in Il quotidiano della Calabria, 21/02/2012, p.50.

41 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.145.

42 Per esempio cf. p.89, p.116.

43 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.9.

44 http://digilander.libero.it/flavio61/mio_sito/Varie/scritti_vari/discorso_seattle.html Nonostante l‟origine del testo sia discusso il testo rappresenta tuttora uno dei manifesti importanti del movimento ecologista attraverso il pianeta.

45 Cf. Pierre Rabhi, Manifeste pour la terre et l'humanisme, Arles, Actes Sud, 2008.

46 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.158.

16

SAGGI

trasmissione e la necessità d‟una conoscenza della storia. Fondato sul passaggio d‟un ricordo spontaneo perfetto che né il tempo né l‟atto di trasmissione pervengono a travisare47, questo libro propone un‟interrogazione complessa sul ruolo della memoria per la comprensione del presente. Abate lo conferma quando riconosce che “la memoria ha un senso solo se serve a farci orientare meglio nel nostro difficile presente, a illuminarlo”48. Sembra allora logico ritrovare attorno a questa riflessione sulla memoria le componenti principali del racconto a cominciare dalla famiglia e dal ruolo della collina-terra.

Queste pagine mischiano ricordi famigliari, quelli del luogo-collina, le tracce eterne del passato rispecchiate dalla natura fino alle sue applicazioni al discorso contemporaneo sull‟ambiente, l‟orma delle radici affioranti offerte da varie occorrenze agli immigrati e le vestigia di quelle nascoste che vanno riscoperte dal lavoro degli archeologi.

Tale interrogazione comincia con l‟intrecciarsi della memoria famigliare e della memoria di una nazione. Assai semplicemente lo schema proposto, di una famiglia esemplare nella quale si dipana la storia italiana indica che in questa visione la cellula di base della nazione è la famiglia e che la memoria nazionale è determinata dalla vitalità delle trasmissioni famigliari. Appare che gli individui e le loro organizzazioni in famiglie sono caratteristici per salvaguardare la cultura, anche elaborata semplicemente nei secoli e tramandata generazione dopo generazione. Il recupero di queste memorie di base diventa essenziale, indica Abate, tanto sembra oggi schiacciata dal “rullo compressore di una modernizzazione senza sviluppo”49.

Restituisce la memoria famigliare in un continuo andirivieni, scatti, fissazioni, abbracciando un secolo di storia familiare intrecciata con la storia più grande50. E recupera la memoria collettiva perché illumini il presente. Usando questa possibilità della famiglia pluri-generazionale, Abate accenna che “se alcune cose si trasmettono a chi ci sta accanto con i nostri comportamenti, i nostri modi di fare e, più in generale con il bagaglio della nostra esperienza, altre, forse ancora più importanti, devono essere raccontate per diventare nuovamente fiamma 47

L‟episodio in cui Michelangelo racconta la storia dell‟omicidio al figlio è da questo punto di vista convincente, cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.141; e Henri Bergson, Matière et mémoire, Paris, PUF, 1963, p.229 ; e Paul Ricœur, La mémoire, l‟histoire, l‟oubli, Paris, Seuil, 2000, p.62.

48 Carmine Abate in Giovanni Accardo, “L‟intervista. Una vicenda che attraversa tutto il novecento”, in Trentino, 28/08/2012, p.28.

49 Luigi M. Lombardi Satriani, “La necessità del passato nel nuovo libro di Abate”, in Il quotidiano della Calabria, 28/02/2012, p.17.

50

http:// www.altreitalie.it/ publicazioni/ Rivista/ N_45/ Rassegna/ Libri/ Carmine_Abate _La_ Collina_ Del_Vento.kl, consultato il 3/3/2014.

17

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

viva”51. Prova che per ricordarsi abbiamo bisogno degli altri anche se le figure fanno in certa misura schermo tra quanto è accaduto e il discorso52. Nonostante le difficoltà a trovare le parole, la presenza altrui consente di rivelare i propri ricordi, di assicurare una permanenza a quelli famigliare-regionali, quindi nazionali, “solo così non moriremo mai completamente”53 aggiunge Abate. E la memoria famigliare richiama i suoi luoghi, la collina, per esprimere la sua vitalità54.

Per Abate il luogo ha la memoria di quanto è avvenuto su di lui: “L‟unica che ha visto tutto è la collina, e purtroppo non ha bocca per parlare, a parte la voce del vento che però è incomprensibile ai vivi”55. L‟attaccamento alla terra tanto necessario afferma la forza storica, memorabile, plurisecolare del paesaggio. Il legame tra famiglia e collina è assicurato da Michelangelo, ragazzino, elevato metaforicamente dall‟archeologo a “custode della collina” ossia quello che “conserva la memoria di un luogo”56. Su questi luoghi, la traccia complessa della memoria traspare dai nomi, come il Rossarco, che racchiude – come ho detto prima – la memoria del sangue versato e dei fiori di sulla che lo ricoprono.

Il solco più originale tracciato da Abate pare la riflessione e la relazione che stabilisce tra conservazione della memoria e ambiente la cui importanza appare quando la minaccia della sparizione della collina provoca la necessità assoluta della rivelazione della memoria tra Michelangelo e suo figlio57. La memoria umana appare qui tributaria del paesaggio e i luoghi sono i primi custodi della memoria individuale e collettiva58. Questi, come gli oggetti, consentono ai ricordi di incarnarsi, e dunque alla nostra memoria di permanere59. Il paesaggio che determina parte delle radici della memoria collettiva è ricordo della nostra storia.

La sofferenza ereditata dal lavoro della terra apre diritti all‟amore della terra e al riconoscimento perché è la condizione della continuità della memoria collettiva.

51

Francesco A. Cutieri, “Abate: La collina del vento”, in Il quotidiano della Calabria, 26/02/2012.

Paul Ricœur, La mémoire, l‟histoire, l‟oubli, cit., p.147 e 306.

53 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.142.

54 Riprende, per esempio, l‟idea già presente ne I fiumi di Ungaretti, e osservazioni note ai ricercatori sull‟emigrazione, cf. Nicolas Violle, Familles latines en migration, Clermont-Ferrand, PUBP, 2011.

55 Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.108.

56 Ibidem, p.81.

57 “Lui ha ribadito che il Rossarco stava franando, era una questione di ore o, nella migliore delle ipotesi, di giorni, non aveva dubbi. E, prima che gli ultimi brandelli della nostra storia venissero sepolti nel fango eterno, ha aggiunto, dovevo conoscere i fatti che non aveva mai avuto il coraggio di raccontarmi.”cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.245.

58 Un‟interrogazione simile è proposta da Paul Ricœur, La mémoire, l‟histoire, l‟oubli, cit., p.52.

59 Anche a questo proposito si leggerà con interesse Paul Ricœur, La mémoire, l‟histoire, l‟oubli, cit., p.115.

52

18

SAGGI

Considerarlo porta a interrogarsi sui valori del tempo che passa e che si rinnova a ciascuna generazione. Sono i valori del mondo perso, del prezzo della nostra memoria. La permanenza dei luoghi restituisce quelli che, sfruttati o no, hanno permesso loro di presentarsi alle nuove generazioni come sono, quasi com‟erano.

L‟argomento sollevato da Abate è il costo del sacrificio del paesaggio a fini di modernità e di ricerca di una sempre maggiore produttività. La risposta è semplice assai, distruggere il paesaggio significa tagliare le radici e rinunciare alla memoria. La salvaguardia della memoria paesaggistica è la possibilità di capire chi siamo. Rinunciare ai guadagni massimi nel presente appare la condizione di una preservazione collettiva all‟avvenire.

La conservazione del paesaggio non è negazione della modernità, le descrizioni proposte dall‟autore sono la prova di una possibile armonia tra elementi eterni, sui quali si costruisce la civiltà, elementi di vita che permettono agli uomini di costruire la propria vita e che stabiliscono il paesaggio, ed elementi frutti dell‟attività redditizia momentanea del presente, nonostante l‟assenza di cura dei paesaggi all‟epoca moderna e l‟accelerazione della perdita di riferimenti che implicano60.

Queste pagine propongono un dibattito molto attuale in cui la preservazione della collina appare come una resistenza ai soprusi della modernità globalizzata. La collina offre una forma moderna di vita corale opposta ai poteri medievali dei prepotenti latifondisti locali di tutte le epoche, oggi affaristici, ecologisti o turistici, delle intimidazioni „ndranghettiste, più generalmente mafiose e politiche. La resistenza e la difesa del territorio appare come la condizione iniziale di una resistenza alle aggressioni alla storia, alla memoria, alle tradizioni, insomma alla dignità dell‟umanità.

L‟epocale saccheggio dell‟ambiente equivale a una cancellazione della memoria, e si esprime nella scarsa disponibilità a capire l‟importanza delle tracce culturali per costruire un avvenire. Quest‟interrogazione porta Abate a includere nel suo romanzo due figure di archeologi veramente esistite (Paolo Orsi e Umberto Zanotti-Bianco) come per dire che l‟interesse per la cultura della Magna Grecia e la difesa della cultura odierna, anche attraverso i suoi elementi più insignificanti come le famiglie popolari del remoto sud italiano, sono equivalenti. Queste due 60

Per esempio : “Da lì si vedevano nitidi la linea ferroviaria a un unico binario, il faro di Punta Alice, il bosco di eucalipti piantati da nonno Alberto e un tratto di spiaggia punteggiato da ombrelloni ormai chiusi. Più a sinistra lo stabilimento della Montedison era un pugno nell‟occhio. I resti del tempio di Apollo Aleo erano seppelliti dall‟erba secca e accanto pascolavano una decina di cavalli e puledri. Sulla nostra destra, in direzione di Melissa e di Strongoli, ronzavano pigre le pale degli aerogeneratori che affioravano come miraggi tra le colline gialle di stroppie attorno a Spillace”, cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit., p.147-148.

19

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

figure affermano la fede nella conoscenza della storia antica e del mito come principio generatore di cultura, illustrano la necessità di recuperare quanto il passato ha lasciato. L‟archeologo scava per rivelare, per mettere a giorno le origini, la memoria, le radici, il carattere essenziale che permane dopo la disparizione delle civiltà. L‟archeologo diventa l‟archetipo di una ricerca interiore e collettiva etica-civile. Scavare nella collina “diventa un invito a investigare nel proprio io”61 alla ricerca della nostra memoria seppellita dalle false apparenze della modernità. Una volta ancora, l‟incontro di chi cura la terra in superficie con chi la scava per esumarne la memoria, rivela il modo metaforico in cui questo racconto è concepito. Nonostante il dramma iniziale, ci si rende conto che la collina Rossarco è bella perché nutrita dall‟origine mitica del nostro evo.

Meglio di tutti l‟estraneo Orsi capisce le caratteristiche della collina: “Questi luoghi sono ricchi fuori e dentro. Solo chi è capace di amarli sa capirli e apprezzarne la bellezza e i tesori nascosti. Gli altri sono ciechi e ignoranti. O disonesti e malandrini che pensano solo alle loro tasche”62. Piazzando queste parole nelle labbra di un non calabrese, Abate indica che se l‟amore della terra nasce dall‟affetto e/o dai ricordi famigliari non dipende da loro. E aggiunge: “La verità è che i luoghi esigono fedeltà assoluta come degli amanti gelosi: se li abbandoni, alla fine si fanno vivi per ricattarti con la storia segreta che ti lega a loro; se li tradisci, la liberano nel vento, sicuri che tu raggiungerà ovunque, anche in capo al mondo”63. La presenza degli archeologi serve quindi a radicare il presente all‟illustre passato della Calabria e per illuminare le difficoltà del presente, affermando che azioni concrete anche minime consentono di creare le basi di un mondo nuovo64. L‟essenziale permane nella vitalità e l‟importanza della trasmissione della memoria: „„Perché scavi sempre? [...] disse: cerco nuove storie per raccontarle a te“65. Grazie alle figure degli archeologi, Abate rende percettibile la necessità della memoria, della sua trasmissione e i rischi della sua perdita, del suo distacco. Queste figure evidenziano che lontano dall‟immagine arretrata della civiltà calabrese, genericamente del sud, queste popolazioni sono immerse da secoli in una realtà al centro delle maggiori evoluzioni della nostra civiltà. La preservazione di questa memoria remota, quasi incosciente, diventa essenziale per trarre le prospettive del mondo aperto con la fine della guerra fredda e l‟allargamento del modello neo-liberale; così la letteratura diventa un 61

Francesco A. Cutieri, “Abate: La collina del vento”, in Il quotidiano della Calabria, 26/02/2012.

Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.20.

63 Ibidem, p.241.

64 Ibidem, p.195.

65 Ibidem, p.220.

62

20

SAGGI

oggetto essenziale per metterlo in scena. La sfida della memoria, concretamente figurata dal viaggio del narratore nell‟Italia del sud, ha per scopo il dissepellire la storia familiare che, a scala ridotta, simboleggia la nazione. La memoria paterna formalizza un mondo proteso verso un passato quasi infinito, illuminato dagli specchi degli archeologi. La riappropriazione di queste storie consente a Rino di portare alla luce le radici sue, del suo popolo, del suo mondo. Seguendolo il lettore capisce la parte fondamentale attribuita agli eventi tra tutte le rimembranze. Non è un caso se Abate ha dato più rilievo all‟incontro con gli archeologi che all‟omicidio iniziale. La necessaria vitalità della memoria implica un‟interrogazione sull‟impatto della storia nella vita famigliare e sulle possibilità di sfruttare uno sfondo storico in letteratura. Non a caso eventi storici e famigliari non coincidono il più delle volte, la memoria famigliare registra a posteriori le ripercussioni di pochi eventi, mischiandole con le proprie realtà, con le proprie necessità.

Macro-storia e micro-storia confluiscono in questo racconto. Agli scatti subitanei degli eventi storici, prevalentemente politici ed economici, si contrappone il lento tempo senza tempo del privato, degli affetti famigliari, i ripetuti tentativi di dominazione dei prepotenti, lo strappo dell‟emigrazione. Abate restituisce verosimilmente una percezione temporale famigliare che condiziona lo sguardo sul mondo. Di conseguenza sono di primo acchito i problemi della famiglia a echeggiare sul suo avvenire. Gli interventi della storia sono puntuali in questa scansione lenta del presente, ma travolgenti.

Gli incontri con gli eventi storici illustrano il modo in cui Abate se ne serve.

Così, al momento della mobilitazione delle le ultime giornate di pace della primavera 1915, la Grande guerra appare sotto il suo profilo più umano: preoccupato, il padre valuta il rischio di non rivedere più i figli (cap. 2). Questa mobilitazione rappresenta un contatto tra storia famigliare e storia nazionale, attraverso le sue conseguenze per le famiglie. La mancanza di braccia per i lavori agricoli è in realtà l‟unico evento importante. La finezza di tocco dello scrittore rintraccia il filo storico dagli avvenimenti più essenziali alla famiglia: “non aveva capito per chi o per cosa avesse combattuto. La patria? Dov‟era la patria quando i suoi fratelli e i suoi compagni erano morti nelle trincee? Non si meritava tutto questo sangue giovane, la patria”66. La famiglia appare come l‟immagine travisata, ridotta delle ferite imposte al paese. La storia è percepita solo nelle sue ripercussioni sulle possibilità di lavoro, sulle privazioni che genera in questo 66

Ibidem, p.23.

21

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

mondo contadino così precario, si confonde con le possibilità o le minacce sulla vita. Solo i ritmi contadini sono importanti. Il calendario dei lavori agricoli prevale, non l‟accaduto presunto storico. Abate usa anche del non-detto per tradurre l‟orrore fasci-nazista. La sparizione di Arturo, genera un vuoto all‟opposto delle situazioni narrate in sua presenza, fa nascere l‟incomprensione, i dubbi e si rivela molto più efficiente che lunghe descrizioni.

Il trasformismo di un podestà socialista verso il fascismo67 – come d‟altronde Mussolini stesso – è indicativo della ricerca di potere ad ogni costo, pur di allargare il proprio giro d‟affari. Interessante è la percezione di una riproduzione, a scala del territorio, delle forme di potere nazionali. Il podestà è un piccolo monarca assoluto, “un Mussolini in miniatura”68, che appena nominato raddoppia il canone dei suoi contadini e le tasse comunali. Si serve del potere a fini di arricchimento personale. Abbagliato dalla presunta potenza economico-politica, senza cultura del passato, senza memoria, i suoi valori si limitano all‟immediato profitto. Sono contrastanti al duro lavoro di trent‟anni degli Arcuri che ha reso la collina fertile. Questa falsità, quest‟avidità che va di pari passo con l‟ignoranza, si esprime in modo quasi caricaturale attraverso il vestito dei potenti e della loro gente69. Questi, disponendo di risorse importanti possono mettere in moto la macchina del fango per avvilire e ottenere quanto il diritto non consente. Così Don Lico non riuscendo a riscuotere la collina organizza il confinamento di Arturo per cinque anni a Ventotene70. Riappare la storia, quando confluisce con la vita dei principali protagonisti, non come quadro predisposto teoricamente nel quale s‟inseriscono i personaggi.

L‟autore riproduce in questo modo l‟effetto degli eventi storici, in maniera sottile e fedele all‟impatto che gli eventi hanno nella vita quotidiana. Restituito nell‟ambito del presente, ridimensiona la portata dell‟evento storico e la memoria storica al loro incidere con la vita e l‟affermazione di alcune virtù famigliari.

La prospettiva ecomonico-sociale è di lunga durata. É legata ai soprusi. Appare sotto forma di proposte di acquisti della collina dai prepotenti ai fini di estendere le proprietà agricole, oppure di costruire complessi eolici o villaggi turistici dai rendimenti immediati. Il suo svolgersi lascia intravedere una mancanza di prospettiva storica in cui si è perso il filo dell‟umanità e la memoria delle civiltà.

Dall‟inizio del racconto la famiglia è tesa a combattere prepotenti e disonesti 67

Ibidem, p.55.

Ibidem, p.55-56.

69 « Con Don Lico, uomini ben vestiti, come se dovesse tradire una minaccia per gli umili”, Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.57.

70 Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.59-60.

68

22

SAGGI

(che, a volte, coincidono) perché ha risentito ingiusta la perdita di due figli per una guerra che non sentiva sua. Precoce e viva, quasi schematica, è l‟opposizione tra contadini che zappano e gli sbirri di don Lico che frequentano la piazza e le osterie del paese per spiare chi potenzialmente si oppone ai loro maestri71.

Quest‟antagonismo evolve attraverso il tempo verso un conflitto aperto tra chi approfitta dei giri d‟affari dei parchi eolici, chi organizza “pattumiere colossali dappertutto” o del sacco delle coste “ormai deturpate dal cemento e dalle case abusive”72. Nel romanzo sono invariabilmente legati ai prepotenti (il figlio di don Lico) o alla politica (sindaci, funzionari provinciali, portaborse di un assessore provinciale) e chi organizza gli “scempi ambientali”73. In breve si stabilisce una cesura tra il mondo degli Arcuri e i falsi valori di questo mondo. Nella prima prevale il controllo sociale nato dalla consapevolezza della difficoltà a vivere e dalla conoscenza dei paesani. Passato, presente e avvenire sono legati dalla volontà di migliorare la propria condizione e la sorte della stirpe. In questo modo, dall‟amore che portano alla loro collina, emerge metaforicamente l‟idea di una vita umana rispettosa della terra e di un modello economico-sociale fondato sull‟idea di sobrietà felice74. In opposizione, la società liberale favorisce la diluizione delle responsabilità lasciando emergere una coscienza priva di passato e di avvenire. Il passaggio dall‟una all‟altra è illustrato dalla scolarizzazione dei figli di Arturo e dallo sguardo che portano sui loro compagni di classe: “Non occorreva capire, occorreva saper ripetere”75. Appare così l‟incomprensione che dilaga fino al termine del romanzo tra i due mondi, le due società, le due civiltà opposte. L‟una fondata sull‟unico valore del denaro e pronta a distruggere pur di fare il suo profitto. S‟incarna nel mondo degli specialisti, ingeneri, geometri, il mondo delle società nascoste (“mi sembrano peggio di don Lico, hanno tante teste nascoste sotto una caterva di sigle; è difficile combatterle perché non le vedi in faccia”76). L‟altra si oppone al mondo che anziché sfruttare le ricchezze della terra ne apprezza la generosità77. É il mondo di chi possiede poco e che, di conseguenza, conosce il valore e il carattere essenziale di quanto fruisce, in primo luogo della sua storia e della sua memoria. Questi due mondi non riescono più a capirsi perché il denaro ha avvilito tutte le possibilità d‟intelligenza. Ne sono testimoni i promotori che non intuiscono quanto questa terra rappresenti per 71

Ibidem, p.38.

Ibidem, p.121.

73 Ibidem.

74 Cf. Pierre Rhabi, La sobrietà felice, Torino, Add Editore, 2013.

75 Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.115.

76 Ibidem, p.92.

77 Ibidem, p.89.

72

23

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

la famiglia Arcuri. Per essa questa terra non ha prezzo perché ha consentito a tre generazioni di vivere78 e, celando la loro memoria, cela quella della nostra civiltà79. Anche sotto quest‟aspetto, denunciando i colpi bassi dell‟affarismo odierno, la forza del racconto è di mantenere una prospettiva diacronica e di mostrare che a tutte le epoche quest‟opposizione è esistita. Forse insiste sul carattere moderno di questo sfruttamento senza fine, fino all‟ esaurimento, senza coscienza dell‟impatto sulla vita, abbagliato dalle sole possibilità di arricchimento veloci, dimenticando che, come gli uomini che la popolano, “una città [...] nasce, cresce muore, a volte sparisce lasciando labili tracce che solo un occhio attento può scoprire. Una città ha un‟anima. Quella non scompare mai. É dentro ogni spicchio di terra, è tra l‟erba, nell‟aria”80. Di fronte alle possibilità di guadagni la vita umana non ha per questi prepotenti nessun valore, ma rinunciandovi si perde la coscienza dell‟umanità. L‟allontanamento dell‟ultimo Arcuri per proteggerlo consente, da questo “confino dorato”81, di assistere al fallimento dell‟impresa e all‟abbandono delle vestigia del villaggio turistico. Nel modo più ironico, questo villaggio che doveva riflettere il lusso del turismo di massa finisce occupato dai più umili: alcune famiglie zingare e gruppi d‟immigrati clandestini82.

Il contatto della famiglia con la storia illustra come valori famigliari tramandati dalla memoria viva trasmette il mito di un ideale etico-civile già accennato. In questo cerchio di memoria l‟emigrazione rappresenta la misura imparziale con la quale afferrare l‟evoluzione di lunga durata della società, privilegiando la considerazione che dà ai più fragili; assieme all‟uso della storia sono rivelatrici dell‟immaginario colettivo.

Restituire la storia sociale attraverso l‟emigrazione è una permanenza nei racconti d‟Abate e spesso il cuore dei suoi romanzi. Il tema della migrazione presentato qui come simbolo di povertà e di ricerca di una vita migliore, assume il recupero delle grandi tematiche abatiane del ciclo di Hora. Non è l‟oggetto della Collina del vento ma gli fa da incorniciatura e ci si rende conto a che punto l‟esperienza della migrazione, per chi parte, per chi rimane e per chi accoglie è una chiave di lettura della storia al tempo presente83. Questa problematica appare 78

Ibidem, p.225.

Ibidem, p.230.

80 Ibidem, p.221.

81 Ibidem, p.240.

82 Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.240.

83 Rosanna Morace, recensione di Martine Bovo-Romeuf, L‟epopea di Hora. La scrittura migrante di Carmine Abate, in Oblio, I, 1, Firenze, Franco Cesati, 2008: l‟“esperienza dell‟ “esilio”: condizione sicuramente più onnicomprensiva e universale, che trascende spesso il mero dato fisico per divenire una categoria e una chiave di lettura poetica, esistenziale, morale”.

79

24

SAGGI

sin dalle prime pagine fino alle ultime, a brevi tocchi, di sbieco rispetto alla vicenda principale. Le partenze “in massa per la Merica”84 sono evocate sfumatamente, come si sente la minaccia pesare sull‟ordine sociale (le partenze clandestine, le ragazze in età di maritarsi rimaste il quintuplo dei ragazzi 85), o ancora l‟uso politico dell‟emigrazione quando il confino permette di allontanare, di escludere dall‟andamento politico-sociale desiderato86. Appare anche l‟emigrazione del tempo presente per mancanza di prospettiva, causata dal fallimento delle riforme agrarie. I marocchini del racconto sono gli eredi degli Arbëresche di Abate, come loro lo erano dei greci dell‟Antichità (la figura di Filottete è evocata). La collina si trasfigura allora in una terra di contadini figli d‟immigrati che hanno conquistato un luogo per meglio proiettare nell‟avvenire i loro vincoli famigliari. Gli emigranti non appaiono la causa del problema ma una popolazione sacrificata che trova fuori paese la riconoscenza delle doti87. A questo patto l‟uso della storia sociale collettiva diventa essenziale alla comprensione delle problematiche del libro da noi presentate, cioè la preservazione della memoria e il ruolo della storia per la costruzione di tale memoria. Chi più della figura dell‟emigrato incarna il rischio di una perdita della memoria e la necessità del suo riacquisto, della sua ricostruzione? Quanto l‟emigrato abbandona, l‟immigrato deve re-imparare, reinventare.

La conoscenza della storia sembra il modo migliore per capire il mondo di oggi e permettere a qualche “rondine bianca” di uscire dalle orme illuminando un‟altra traccia al gregge. Le evocazioni di bieco agli immigrati nella seconda parte fanno eco ai numerosi ricordi degli emigranti calabresi che scandiscono la prima parte del romanzo. L‟andirivieni della storia illustra l‟importanza dell‟attaccamento alla terra e i diritti che il dolore di coltivarla aprono a tutti gli uomini. La presenza della terra, dei suoi ritmi, dei suoi odori, della sua luce, permane nella mente di tutti gli emigranti. Come a dire che l‟emigrazione non è oblio dell‟origine, ma sofferenza taciuta, indimenticabile, di avere lasciato il nido. La figura del migrante somma le radici originali sradicate e quelle che stanno affondando nella terra di arrivo. Abate pone il riflesso di questa storia sociale italiana ben nota la attraverso presenza odierna degli immigrati che Michelangelo 84

Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.12.

Ibidem, p.24.

86 Ibidem, p.41.

87 “[...] i giovani erano stati costretti a emigrare in Francia, Germania e Altitalia. „Grandi lavoratori, i giovani di qua‟ concluse mio padre, „così abituati ai sacrifici e alla fatica che non a caso stanno facendo furore lassù, in un mondo sano, dove il lavoro viene apprezzato e retribuito come si deve‟ “; cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.223.

85

25

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

aiuta dando loro lavoro, frutti e ortaggi, e assistendo d‟estate al loro “ballo sulle spiagge per vendere cianfrusaglie ai bagnanti”88. Chi meglio di lui, che ha visto partire la sua gente per generazioni, potrebbe riuscire a ostentare la propria umanità e includere i suoi “amici marocchini”89 nella sua socialità. C‟è sicuramente, in questo gioco di specchi tra emigrazione e immigrazione, la volontà dell‟autore di opporre in controluce la ricerca di profitto senza memoria del presente attraverso certe figure incarnazioni della povertà al tempo presente e altre eterne del dramma dell‟umanità. Abate interroga in questo modo il lettore sulla presenza degli immigrati nelle società moderne come condizione di apertura e d‟integrazione al mondo. Questa tematica dell‟emigrazione gli consente di includere una possibilità di riscatto sociale per un‟intera civiltà, in cui il più diseredato incarna la più alta umanità90.

Le tematiche della memoria e della storia convergono verso l‟espressione di una visione civile del mondo. Il finale, con l‟epifanitica prova dell‟esistenza dell‟antica Krimisa, significa che dal crollo del nostro mondo non può che risorgere un altro mondo costruito sulle fondazioni e i valori dell‟attuale. Non è il crollo l‟importante ma la continuità delle generazioni, dei loro valori e della loro memoria, proteiforme, spesso racchiusi nella terra che li ha generati. Abate rende evidente il modo in cui il passato storico, sociale, mitico, culturale s‟interiorizza fin da bambino facendolo diventare parte integrante della propria personalità. Il passato è essenziale al romanziere così come all‟individuo, perchè solo lui consente di costruire con i suoi frammenti nuovi mondi91. Nella Collina del vento gli Arcuri sono metafora del mondo e della condizione umana come la Sicilia per Sciascia o Napoli per La Capria.

Il punto chiave del racconto è la trasmissione della memoria, come per significare che non c‟è racconto senza ricordi, senza percezione della storia, micro e macro. Interessante è il ruolo fisico della collina in questa trasmissione e la parte affidata alla tutela del paesaggio come condizione di salvaguardia memorialistica e possibilità di comprensione del presente.

Abate riesce attraverso queste righe a mostrare quanto terra significhi e quanto la sua assenza crea l‟impossibilità di riconoscersi, di radicare le radici, di costruirsi 88

Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.62.

Ibidem, p.175.

90 Salvare gli immigrati alla fine del racconto è dimostrazione di umanità vera data da Rino, tanto improbabile che loro non la capiscono prima di vedere la frana inghiottire le case in cui dormivano poco prima.

91 Il paragone con l‟autore sembra chiaro in questa risposta di Michelangelo a Ninabella quando li chiede come concosce la storia di Filottete: “In parte le ho studiate a scuola. [...] In parte me le sono immaginate da solo e forse le mie storie sono più vere di quelle tramandate dagli antichi, che spesso inventavano anche loro”; cf. Carmine Abate, La collina del vento, cit. p.138.

89

26

SAGGI

in mito. Anche se semplice, la storia famigliare di Abate ha un carattere universale perché radicata in un ambiente storico verosimile e in un determinato territorio. Abate illustra come questo nostro mondo globalizzato dimentichi che la nostra terra è fatta di territori, cioè di uomini con le loro storie, le loro lingue, le loro culture. Coltivare una memoria radicata in una terra, è un‟unica possibilità di cultura, quindi di storia. Senza sentimento di appartenenza a una terra non c‟è passato e nessun avvenire perché l‟immedesimazione non è più possibile. Abate recupera iI discorso di Tullio Altan92 e crea una sua patria calabrese che si fonda sulla memoria storica del suo passato. Qui è particolarmente ancorata nel mito del tempo lungo fino alla Magna Grecia93. Quando Tullio Altan rileva che il passato comune dell‟Italia frammenta l‟epos, la dimensione umana operante nel libro ne fa un elemento significante anche perché la congiunzione del contadino e dell‟archeologo la rende operabile. La famiglia è presentata qui come elemento di base, costitutivo dei rapporti sociali della comunità in senso lato. Riesce così a dare degli italiani presunti più remoti (i Calabresi) un‟immagine di esseri eterni, e sempre al cuore delle problematiche più moderne perché hanno della civiltà e dei suoi progressi un approccio radicato nella conoscenza della loro civiltà e del loro passato.

92

Roberto Cartocci, Carlo Tullio Altan, La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori.

L'Italia di tangentopoli e la crisi del sistema partitico, Udine, Gaspari Editore, 1997.

93 Sul modello citato nella nota precedente è inteso come epos, sull‟insieme delle norme di convivenza sociale e delle istituzioni, famigliari, di paese e di nazione. Come ethos, sulla lingua parlata in comune, una lingua di cui abbiamo verificato il carattere comune a livello nazionale nonostante le particolarità locali. Come logos, sui vincoli della parentela, particolarmente forti attraverso questo racconto com‟è spesso il caso nei romanzi di Carmine Abate. Come genos, sulla terra alla quale un popolo si sente legato affettivamente, elemento anch‟esso caratterizzante della riflessione abatiana. Come topos (o oikos) 27

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

La poesia di Carmelo Aliberti tra tormento terrestre e impegno etico Lucio ZINNA Poeta, scrittore

Poeta delle nuove generazioni, maturato nel silenzio della fervida e inquieta provincia isolana che – tutt‟altro che „provinciale‟ – si mostra capace di interagire con il resto del continente ai livelli più qualificati (e qui ci soccorre l‟espressione di “provincia alta” del toscano Vittorio Vettori), Carmelo Aliberti si appresta, a grandi passi, a doppiare il suo quarto decennio di militanza poetica, a far data dal 1967, anno della pubblicazione della prima silloge di versi: Una spirale d'amore. Seguono, l‟anno successivo, Una topografia e, nel 1970, Il giusto senso, prima di arrivare alle raccolte C‟è una terra (1970) e Teorema di poesia (1974), che costituiscono momenti di particolare felicità creativa, ponendosi come significative premesse delle opere successive: Il limbo, la vertigine (1980), Caro dolce poeta (1981), Valentina (1983), Viola d‟amore (1984), Marchesana cara (1985), nelle quali più compiutamente si dispiega e chiarisce la poetica del Nostro.

La critica ha posto in rilievo la personale tessitura del linguaggio poetico di Aliberti: Walter Mauro ha evidenziato «la ricerca di un linguaggio poetico autentico e puro connotato da limpidezza espressiva»; Rino Giacone si è soffermato sulla «precisa scelta lessicale di un linguaggio misurato»; Orazio Tanelli ha rilevato «la compostezza lirica e la delicatezza dei significati» assieme a una “mobilità di piani”, mentre Giancarlo Pandini parla di «una poesia che fluisce dentro un verso tesissimo e concentrato che ha nella tensione e nella sua specifica modulazione le qualità più profonde».

28

SAGGI

In effetti la poesia di Aliberti, intimamente vocata alla comunicabilità, ama affidarsi al gioco delle metafore, le quali talvolta (come avviene in non poche composizioni di Teorema di poesia) si susseguono in maniera fitta, con elevato simbolismo. Simbolismo ed Ermetismo hanno lasciato una loro più marcata eredità nella sua poesia, la quale non manca, in alcune tappe del proprio iter, di risolversi in una sorta di canto corale o librarsi nella preghiera o assumere moduli espressivi a tendenza poematica o con andamento di carme.

Ispirata alla tematica sociale, la poesia di Aliberti esprime il dramma dell‟uomo nella società odierna, consumistica ed alienante, nella quale si perseguono mitologie del benessere (oggi erroneamente scambiato per progresso tout–court), le quali finiscono per lasciare inalterate le varie sacche di miseria, cosi come le nuove ed antiche emarginazioni.

Nelle poesie di C‟è una terra – che erano apparse a Michele Prisco «singolarmente veementi e brucianti, colme di una rabbia che è prima di tutto rifiuto e poi sdegno e poi canto di dolore», si individua una Sicilia già inserita nella neo–capitalistica spirale produzione-consumo e irretita (e sottilmente violentata) dalle banalità propalate attraverso i mass–media, ma ancora afflitta dai suoi annosi problemi: la disoccupazione (“l‟anemico lavoro”, dice Aliberti) e il conseguente penoso fenomeno dell‟emigrazione (significativa in proposito la lirica “Marco” in Teorema di poesia), mentre la miseria viene impietosamente messa a nudo non appena si verifichi un disastroso evento naturale, come il terremoto nella Valle del Belice.

Una Sicilia, dunque, rappresentata nella sua quotidianità, scevra da ogni stereotipo e aliena da una fuorviante dimensione folklorica. La consapevolezza della tragica realtà siciliana (“l‟isola di lutti”, senza compiacimenti, è chiamata in una delle composizioni di C‟è una terra), non impedisce al poeta di farsi innamorato cantore di paesaggi mediterranei, alla maniera impressionistica, “en plein air”, come nel frammento I di “L‟estrema verità” (Teorema di poesia: «II mattino scalpita in uno scafo di luce / folte voci danzano ai balconi / emigro dall‟urna dove mastico / arsenico nel sole sbando tra argini di polvere,» o come in “Anche tu”: «La luna / spia l‟alzarsi del silenzio / beffa l‟acqua del fiume / sbuca dal buio il ficodindia / che si spoglia sul pendio / e il carrubo che è un manto d‟ombra»).

In Caro dolce poeta, il poeta canta il tema dell‟alienazione dell‟uomo di oggi nel processo produttivo globale, cosicché, sotto questo aspetto, la poesia del Nostro può apparentarsi (come ha rilevato Claudio Toscani) con quella “poesia di fabbrica” in auge negli anni „60 e „70. Una scrittura poetica caratterizzata, in Aliberti, da un ritmo incalzante e da inserti di termini (per lo più stranieri), 29

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

mutuati dagli “spots” pubblicitari. Composto negli anni 1978-80, il poemetto risente infatti dell‟accesa temperie storico-sociale di quegli anni, poi chiamati “di piombo”, con gli irrigidimenti ideologici e le spinte eversive che li caratterizzarono, mentre andava pian piano sgretolandosi il fervore che aveva consentito il cosiddetto “miracolo economico”, ancorché rimanesse inalterato un diffuso consumismo, non sempre facilmente sostenibile. È alla figura del poeta che l‟autore si rivolge, quale alter ego e fratello che vive la vita di ogni giorno, con le sue asperità, e tenta nel contempo di trovare una possibile, anche recondita, via di fuga dalla pressione del contingente e un varco al suo mondo, affinché appaia in sintonia, non dissociato, da quello reale, fugando la cappa che grava su una società massificata e condizionata dalle logiche prevalenti del profitto: « Caro dolce poeta / mentre scrivo / sono gli anni degli assassini / e delle iene / ora è abbaglio / la luce del pensiero / è urlo ammanettato la parola.»

Lavoro del poeta e poesia del lavoro si incontrano, in un punto che è quello che, con felice espressione, il poeta individua « allo spiedo della storia ». Ed è qui che si incontra la figura di Cristo « morto lacerato sui tralicci del sogno ».

E tutto è detto come in un inarrestabile flusso verbale, con un‟enfasi appena rattenuta, qua e là mitigata da squarci lirici, nella quale si fondono rabbia e tenerezza e le braccia alzate in segno di protesta si accompagnano «all‟agonia della genuflessione e del pudore ».

Giova osservare che la poesia di Aliberti, se si limitasse alla semplice protesta, se fosse totalmente inscrivibile nella cosiddetta “poesia sociale”, secondo quelli che furono i parametri dell‟éngagement sartriano, molto non si discosterebbe, probabilmente, dalla produzione dei tanti autori cimentatisi in tale genere, in maniera talvolta egregia talaltra convenzionale, quasi sempre monocorde, dagli albori degli anni ‟50 alla seconda metà degli anni ‟70, da Giorgio Piovano (con il cantabile “Poema di noi”) a Crescenzio Cane (il poeta della sicilitudine e della paonazza “Bomba proletaria”). Appare difficile collocare la poesia di Aliberti in tale filone per una costante correlazione della tematica sociale a quella di assai più vasta portata del destino dell‟uomo nel mondo.

L‟impegno sociale si risolve e si dilata nell‟impegno esistenziale, si fa impegno etico.

Il tema baudelairiano-montaliano del male di vivere segue fin dagli esordi la poesia alibertiana e la rende pregnante di una saporosa e sofferta coscienzialità; il momento di maggiore scavo è raggiunto in quella singolare raccolta che si intitola II limbo la vertigine, nella quale il prefatore, Giorgio Barberi Squarotti, individua una “visionarietà apocalittica” o, più esattamente, una “fenomenologia 30

SAGGI

dell‟apocalissi”; «una poesia – scrive lo studioso – piena delle figure dell‟orrore di un mondo che si sta sfacendo». E tuttavia va osservato che la silloge non trova una sua precisa, bruciante caratterizzazione nella cosiddetta “poesia visionaria” (per quanto possano cogliersene suggestioni); appare piuttosto come un canto corale nato dall‟amara considerazione del negativo che costella la storia degli uomini. È come se il poeta si facesse aèdo del male del mondo e della perenne aspirazione dell‟uomo a superare la propria condizione di vulnerabilità: un animale che si affanna a trascendersi («la famiglia umana ansima al sole», scrive il poeta nella lirica “Al Colle del Re”). Una posizione che sarebbe pessimistica se consistesse in se stessa, se in se stessa si ripiegasse, appagandosi persino della medesima negatività. Sennonché la poesia di Aliberti, pur acquisendo consapevolezza del negativo esistenziale, non vi resta soggiogata. Il poeta invece apre il cuore alla speranza, nell‟attesa di un quid novi che risolva il negativo: «aspetto l‟evento che rimargini / i frantumi del buio». E per quanto il Dio al quale si rivolge in questa silloge sia definito “Dio del nulla”, tuttavia l‟invocazione ha i toni commossi di una preghiera, autentica e purissima, nella quale il nulla si risolve nell‟essere (per esprimersi in termini sartriani, comunque non sartrianamente intesi).

E non è casuale il fatto che le tre liriche seguenti, conclusive dell‟opera, intitolate: “II tuo passo di figlio”, “È stato un attimo”, “II tuo risveglio”, finiscano per costituire un trittico d‟amore, con una riscoperta degli aspetti più umili e consueti della quotidianità, sostanzialmente additati come poli del positivo. Nell‟amore, in senso lato, sta dunque il nucleo di ogni possibile rinascita, negli affetti domestici l‟umile verità. Il poeta torna a giocare la carta dei sentimenti, proponendo la loro restitutio ad integrum, senza i falsi pudori e gli infingimenti che avevano caratterizzato tutto un atteggiamento intellettuale negli anni che Gesualdo Bufalino aveva icasticamente definito della “glaciazione neorealista”. In questo „trittico del cuore‟ veramente Aliberti «ci da il risvolto della fede privata nella possibilità della vita» come scrive Barberi Squarotti.

Ma è solo dalla consapevolezza del pascoliano “atomo opaco del male” che il poeta risale la china. Dunque, la tematica montaliana non si ferma a quelli che Aliberti chiama (ne Il limbo la vertigine) «i segni negativi di Montale»: è montaliana anche la risalita come traspare dai versi emblematici de “l‟Anguilla” del poeta ligure: «tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi, bronco seppellito» o la montaliana «anima verde che cerca / vita là dove solo / morde l‟arsura o la desolazione». Questi, in Aliberti, i versi conclusivi de Il Limbo la vertigine: «mi sento vivo nel botro del dolore / desidero parlarti dirti grazie/ mentre la vertigine miete il limbo sale/». Garante, in certo senso, di ogni 31

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

possibile rinascita resta la poesia, costante punto di riferimento dialettico di tutta l‟opera alibertiana. Non proprio eternatrice in senso foscoliano, ma sicuramente salvifica, essa finisce per emblematizzare quell‟atteso evento, invocato dal poeta ne Il limbo la vertigine, capace di rimarginare i «frantumi del buio».

Inizialmente avvertita come una condizione eccentrica del vivere, la poesia non tarda ad essere considerata (secondo l‟equazione romantica genio– sregolatezza) come attività anomala, extranormale: «l‟insania di scrivere versi» aveva detto l‟autore nella raccolta, «come un essere forato dalla sillaba». E il poeta vive in una “solitudine astrale” e può perdersi in una “luce cosmica”.

Nonostante ciò, la poesia mantiene l‟inestimabile capacità di rinnovare l‟uomo dal suo interno, di renderlo (per eccellenza, diremmo) un “entronauta”, termine che deriviamo dallo scrittore e pensatore elvetico Piero Scanziani.

Il tema della poesia rigeneratrice costituisce il fulcro, l‟asse del poemetto Caro dolce Poeta, di cui abbiamo detto più sopra, che è, in fondo, un dialogo del poeta con se stesso: ma è anche un sotterraneo appello, un‟invocazione accorata, affinché gli uomini riscoprano la poesia in «questo secolo feroce», mentre «la nube dell‟apocalisse incombe».

Un colloquio con se stesso e con tutti i poeti del mondo, a voce spiegata, per affermare il senso ultimo della poesia, antitetica milizia contro i condizionamenti assurdi di una società inautentica e sprecona. Il ruolo del poeta si consacra, invece, nella distruzione del bue d‟oro, persino nell‟accettazione del sacrificio («abbraccerò il fuoco del cilicio», e soprattutto nell‟affermazione piena della libertà: «quando nelle parole del silenzio / mi parlerà il senso / della tua vera libertà ».

Viola d‟Amore può considerarsi riepilogativa della tematica alibertiana, sintetizzabile nell‟amore quale atto di poesia: mezzo primario di sopravvivenza, mediante il quale potrà essere sopportato l‟esilio, la pirandelliana “pena di vivere così”, la “vertigine del giorno”.

Beninteso, la poesia (che a sua volta scaturisce comunque da un atto d‟amore), continuerà a mantenere i suoi comportamenti eccentrici e libertari di fanciulla viziata e irrequieta: «Mezzogiorno ventisette del duemila / tu vai ancora coi ragazzi di strada / io appeso alla scrivania / impasto carte e lacrime e non so / non so come strapparti ai crateri del tempo / e avvinghiarti per sempre / alla mia storia d‟amore.

Dopo le pregevoli raccolte Le tue soavi sillabe (1999), Il pianto del poeta (2002), appare nel 2008 Itaca, un poemetto – o carme – che l‟autore definisce in sottotitolo « dramma lirico per voce sola », indulgendo a una configurazione teatrale, un mono-lògos in cui la parola poetica evochi effetti scenici e se ne lasci, 32

SAGGI

in qualche modo, irrorare e potenziare. Il testo registra, in realtà, un peculiare sound, da recitativo cantabile, che si mantiene costante e in cui sono coniugabili vigore espressivo e azzardo compositivo.

Ci troviamo di fronte a un‟operazione di attualizzazione del mito, in cui – tra meditazione e rappresentazione – va svolgendosi il tema dell‟avventura odissaica dell‟uomo alla ricerca della propria isola sperduta. Itaca è immagine quintessenziale del ritorno alle proprie radici, in una nuova dimensione.

Nell‟Ulisse omerico l‟esperienza brutale della guerra e l‟inganno del cavallo sono sublimati da quella, bruciante, della nostalgia. Vicinanza e lontananza si sovrappongono: vicinanza di memorie, lontananza di spazi, dilatata – quest‟ultima – dalle avversità ma anche dalle fascinazioni.

Itaca è l‟emblema stesso del viaggio, nel suo tandem di normalità e imprevedibilità, di quotidianità e avventura. Viaggio “da” e “verso”: dalla lotta e dalla morte, dalla vittoria e dalla sconfitta, verso un luogo vagheggiato e cognito.

Vagheggiato e ignoto è, invece, nell‟Enea virgiliano. L‟antica patria, da ritrovare, del figlio di Laerte; la nuova patria, da inventare (anche nell‟accezione etimologica dell‟invenire), del figlio di Anchise. In ambedue la determinazione, fra dubbi e certezze.

Viaggio “oltre”, come nell‟Ulisse dantesco: al di là delle Colonne d‟Ercole, dei confini della conoscenza, sempre spostabili in avanti, ma anche al di qua, nella visione medievale dantesca, dei limiti etico-religiosi, la cui inosservanza è causa del fallimento dell‟impresa e del castigo dell‟eroe (ma nel “folle volo” c‟è già l‟uomo nuovo dell‟Umanesimo-Rinascimento).

Viaggio “attraverso”, come nell‟Ulysses di Joyce, tutto in una giornata e nel cuore di una città colta nei suoi variegati e anche sordidi aspetti, nello stream esistenziale, in un‟Itaca data: la Dublino di Leopold Bloom, in cui il banale quotidiano e lo squallore possono configurarsi come il corrispettivo urbano di bonacce e tempeste marine, in un‟epica coscienziale (e sub-coscienziale).

E in ciascuno di questi casi il mito si fonda e si rinnova, si ri/propone, entra nella storia (nelle storie) e ne esce trasfigurato.

Accade ugualmente nel poemetto alibertiano. Un viaggio “in”.

Novello ulisside, il poeta siciliano muove alla ricerca di un‟isola altra: interiore, con una tensione che si carica di « ansie metafisiche » e il percorso si snoda attraversando le sacche dell‟alienante e spersonalizzante civiltà contemporanea, nei peripli della condizione esistenziale e nei misteriosi meandri del male cosmico. «Un viaggio straniante e senza bussola», alla ricerca dell‟«isola dispersa», con protocollare invocazione ai sacri lari, affinché traccino

33

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

«al timoniere / il sentiero verso l‟arcipelago / che imprigiona l‟isola tra schegge di soprusi.»

Pulsioni per la partenza – e tópoi della stessa – sono la solitudine e il deserto (cfr. v. 14), « sugli asfalti delle città sgomente », con « il grido di Caino ancora vivo » e con sedimentate e ancestralmente riaffioranti memorie diluviali (l‟Arca «rischiava di affondare »).

L‟isola si fa metafora dell‟affollata solitudine dell‟uomo di oggi, in una dimensione sociale nella quale si vanno sempre più registrando le molteplici e planetarie offese arrecate alla dignità della persona, dal depotenziamento dei sentimenti alla violenza sugli indifesi, alla derisione degli onesti, impoveriti dagli speculatori (quelli legali e quelli illegali, talvolta con un fievole o inesistente discrimine tra gli uni e gli altri, facce della stessa medaglia, anzi della stessa moneta).

Viaggio in direzione di un “arcipelago”, che è quello dei nuclei vitali (con il ricordo di uomini esemplari, di luoghi inobliabili, di eventi), degli indicatori di identità del proprio vissuto e del proprio mondo. Viaggio per acqua, a simboleggiare, nel fluire equoreo, la vita nel suo procedere.

Ne è zattera (anche di salvataggio), ancora una volta nella produzione alibertiana, la poesia, nella sua purezza originaria, nella sua costitutiva libertà, nel suo essere dono, atto d‟amore senza pretesa di ricompense: «Lascia ai poeti mercenari / gli amori ancillari senza regole,/ vieni, seguimi: oggi è giorno di resurrezione.»

Lo scopo è liberatorio e di renovatio: «bisogna rinnovare l‟isola / infibulata dal tridente di Nettuno /bisogna riscrivere la storia / insieme sulle onde del futuro.»

Un angelo nocchiero « illumina la rotta »: carezzevole, la sua «si fa voce di carne e d‟anima / mediterranea e mitica: /“l‟isola che ti ostini a ricercare / non è più oltre le colonne d‟Ercole”.»

L‟isola infatti, come si è già accennato, si trova nella propria interiorità. In dimensione agostiniana, si direbbe. E perciò sarebbe vano ogni “folle volo”.

Un tragitto dall‟isola all‟isola. Da quella della desertificazione ambientale, sociale, spirituale, della comunicazione interrotta o ostacolata, a quella della liberazione dai condizionamenti e dalla sopraffazione, esercitati in nome di chiunque o di alcunché (a volte persino di Dio o della Legge). Al di là dell‟angoscia, con il conforto della leopardiana “social catena”, alla riscoperta dell‟orizzonte, della poesia non artefatta. Nella nuova Itaca della gioia di vivere.

Fitto e fine il gioco delle immagini. È qui sovrana la metafora, nell‟originale inconsuetudine delle relazioni che stabilisce, strumento principe nella ri34

SAGGI

significazione della parola e capace di « vestirla a festa », per usare, al riguardo, l‟espressione di Paul Ricoeur.

Un‟aura classicheggiante è avvertibile nei ritmi, nell‟uso di una terminologia culta, nella figurazioni mitologiche, in alcuni echi omerici, virgiliani, danteschi, o in atmosfere che, in certi momenti, richiamano il Foscolo de I Sepolcri o il Pascoli de i Poemi conviviali (“Il sonno di Odisseo” in particolare), com‟è inevitabile che accada in testi di ampia apertura alare come questo, che trattino di temi con i millenni alle spalle e un ricco background di suggestioni.

E nel contempo si tratta di un‟opera figlia del tempo, al quale è costantemente rivolto l‟occhio; dalla contemporaneità sono assorbiti umori e discrasìe, che si fanno lievito del processo creativo. Un testo poetico modernissimo nella concezione, nell‟andamento, nei moduli espressivi e con la personale cifra stilistica che la critica e i lettori riconoscono ad Aliberti. Otto lustri di fedeltà alla poesia: esplorata, esemplata, onorata e fatta “ire infra la gente” dalla rocca di Castroreale dalla quale il poeta spicca il volo.

Da Arenaria a. II, n. 2

35

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Carmelo Aliberti La poesia di Bartolo Cattafi tra negativo esistenziale e ansia metafisica prefazione di Jean Igor GHIDINA Giambra editori, 2014 - giambraeditori@gmail.com - tel. 090.9783002

Che Carmelo Aliberti abbia pubblicato nel 2014 una monografia su Bartolo Cattafi1 palesa innanzitutto la sintonia elettiva tra due poeti oriundi della stessa terra e mossi dallo stesso afflato al cospetto della realtà e del peregrinare esistenziale, a prescindere dalle idiosincrasie che li rendono inconfondibili.

Già nel suo dramma lirico Itaca del 2006, Carmelo Aliberti, quale Ulisse redivivo, mette in scena l‟aedo barcellonese : Cattafi sul labbro del cratere oltre la curva impossibile, dietro il promontorio la curva degli agguati che mai « oltrepassò persona viva ». « Ah ! Bartolo, Bartolo » gridai « Come potrà la prua inerme varcare l‟insidia della acque del regno di Adelaisa possessiva che inghiottì in idre di passione marinai audaci, eroi e dei » ?

quale un custode depositario di saggezza immemoriale collocato in un punto nevralgico per cui l‟apostrofe riveste il significato di un encomio apotropaico nei confronti di uno spirito magno che ha già solcato il pelago ondivago dell‟esistenza trivellando la propria anima fino all‟imo per poter cesellare un‟opera esemplare. Nel 2008, ma stavolta in veste di critico, Carmelo Aliberti ha sviscerato la figura di Cattafi includendolo con un ampio studio in un volume emblematico per la mole e l‟acume che lo contraddistingue.2 Insomma, l‟incontro tra i due poeti non è casuale, ma scaturisce da un‟indole che sin è cimentata in 1

Carmelo Aliberti, La poesia di Bartolo Cattafi. Tra negativo esistenziale e ansia metafisica, Terme Vigliatore, Giambra editori, 2014 2 Carmelo Aliberti Letteratura siciliana contemporanea. Da Capuana a Verga, a Pirandello, a Quasimodo, a Camilleri, Cosenza, Pellegrini, 2008 36

SAGGI

versi doviziosi in cui si staglia un itinerario complesso il quale si snoda dialetticamente tra negativo esistenziale e ansia metafisica. Ci preme soffermarci appunto sul concetto di negatività egregiamente delucidato sin dall‟epigrafe con la citazione dei celeberrimi e quanto mai icastici versi di Eugenio Montale : Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Oltre all‟omaggio al cantore ligure che suggella il paratesto di questo libro, possiamo cogliere uno squarcio di poetica che accomuna, quanto meno in parte, Aliberti e Cattafi, entrambi dissenzienti e insofferenti rispetto a un mondo di sopraffazioni in cui imperano disvalori che tendono a reificare e quindi a mercificare l‟uomo. In realtà, la negatività riveste un significato polisemico se non ambivalente, perché sta ad esprimere da un lato lo strazio, l‟assillo e quindi l‟infelicità di esseri, anzi di non-esseri3 che, se hanno smarrito qualsiasi ancoramento sereno con la vita e il mondo, non possono rassegnarsi supinamente alla squallida realtà per ragioni morali e spirituali e dall‟altro il rifiuto reciso di ogni compromissione con l‟ausilio di una parola che diventa scarna, simbolica e connotativa ; perché è confrontata all‟ineffabile, perché non può ammantarsi di un involucro fuorviante che la renderebbe esoterica oppure troppo succube della lingua propagandistica del fascismo di ieri o della modernità alienante ed edonistica di oggi. Ad ogni modo, alla parola poetica viene conferita la virtù di respingere il bieco pragmatismo decantando in compenso la libertà e la dignità umane.

La negatività esistenziale determina il senso di derelizione che a sua volta propizia il varco di montaliana memoria, l‟anelito all‟assoluto, la ricerca affannosa ed indefessa di una salvezza senza però che questo travolga il poeta al punto da sprofondarlo nel baratro del nichilismo e della disperazione implacabile fino al cupio dissolvi. Difatti, diversamente dal decadentismo, dall‟ermetismo e perfino da gran parte della letteratura odierna, la poetica di Aliberti e di Cattafi riesce prettamente dialettica in quanto la consapevolezza della pervasività del male non preclude la via alla ricerca e all‟incontro con Dio fatto uomo, un Dio umile e misericordioso; dimodoché la scrittura lirica, lungi dal costituire un 3

Cf., Alberto Asor Rosa « I fondamenti epistemologici della letteratura italiana del Novecento » in Letteratura italiana. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000, p. 28-29 In queste pagine Asor Rosa lumeggia la crisi nel rapporto tra soggetto e oggetto come fenomeno nuovo che contraddistingue la letteratura del Novecento.

37

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

sollazzo, un diversivo, sia pure traboccante di perizia formale, assurge a viatico iniziatico che porta al traguardo soteriologico. La poesia in sostanza non funge da surrogato ovvero da mero espediente, anzi, essa accompagna l‟essere verso la rivelazione di verità assolute che danno un significato a questa vita e a quella ultraterrena assolvendo così uno scopo insieme teleologico e escatologico4.

Nella sua analisi svolta con notevole acribia Carmelo Aliberti mostra l‟intreccio tra i temi, i motivi e le modalità di scrittura indugiando innanzitutto sulla folgorarione insieme estatica ed estetica che sprona il Cattafi degli esordi a trovare nel verbo poetico la facoltà numinosa di trascrivere sulla pagina la meraviglia dell‟essere al mondo. I versi cattafiani sono pregni di un‟ordito fonico ritmico e da stilemi che sublimano e trasfigurano la relazione col mondo interiore o con quello circostante. L‟incombere della morte di cui la guerra è vettrice, non può stravolgere un‟armonia pancalica il cui significato recondito rimane ancora in sospeso : « Cominciai a scrivere versi non so come, ero in preda non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, dolci. »5 Tuttavia, non si creda che la poesia di Cattafi indulga a una celebrazione relativamente atarassica dell‟universo, perché è spesso improntata al tema del viaggio in quanto periplo spaziale e esistenziale che favorisce l‟incontro con l‟alterità facendo trapelare nel contempo il bisogno impellente dell‟introspezione. Il viaggio pertanto sembra dapprima collocarsi nell‟alveo della ricerca gnoseologica e ontologica per rivelare poi l‟inappagamento di un poeta sempre più in balia di un travaglio coscienziale per via del male esogeno ed endogeno che rappresenta un‟aporia irriducibile. A dire il vero, Cattafi, ad onta dello spasimo esistenziale, non riesce calamitato nel bozzolo narcisistico o addirittura solipsistico che implicherebbe un crogiolarsi in un‟arte autoreferenziale in cui sarebbero espresse con brio le molteplici sfaccettature del mal di vivere. In lui, prevalgono i versi duttili e pulsanti che esulano da qualunque parvenza retorica tanto sono improntati ad una specie di sussulto dell‟ « arcipelago del cuore » come dice Aliberti. Pertanto, l‟approdo alla spiritualità e all‟incontro palingenetico con la trascendenza è preceduto da un lungo viaggio interiore e metafisico nel quale l‟anima si sente risucchiata nel baratro del nulla, ma proprio nel momento in cui sta per liquefarsi ecco sorgere Cristo, Dio fatto uomo, in modo umile, impercettibile, irraggiante di un bene incommensurabile.

4

Cf, Angelo Manitta « Isolitudine e meridionalismo in Carmelo Aliberti » in Carmelo Aliberti, La ferita del tempo, Foggia, Bastogi, 2005, p. 268 5 Carmelo Aliberti, La poesia di Bartolo Cattafi. Tra negativo esistenziale e ansia metafisica, Terme Vigliatore, Giambra editori, 2014, p. 9 38

SAGGI

In te confido tutto ho rubato al mondo sei il Cubo, la Sfera, il Centro me ne sto tranquillo tutto t‟è stato ammonticchiato dentro (“In te confido”) Cattafi, infine, alla stregua di Aliberti pone spesso la Sicilia al centro delle sue poesie come paradigma dell‟isola mitica e ferace dei greci antichi, ma pure come eden perduto, simbolo insomma del decadimento non solo storicocontingente, ma pure dell‟involuzione antropologica dell‟umanità. La Sicilia insomma è equiparata a una metafora universale quale uno specchio delle oppressioni sociali e dei dilemmi esistenziali. Ora, come l‟abbiamo accennato nel proemio, Aliberti ha posto al centro della sua poetica, massime ne « Il pianto del poeta » del 1999-2002 una Sicilia insieme permeata di ascendenze mitiche e insidiata dai mostri storici e pure cartina di tornasole del mal di vivere, della discrepanza tra soggetto ed oggetto. In questa silloge, fanno specie dapprima l‟ammirazione e la contemplazione del paesaggio grandioso il quale sprigiona una bellezza indicibile, poi subentrano le strofe in cui spiccano i colpi inferti dalla macrostoria che deturpano un universo idilliaco quasi soffuso di un‟autenticità arcadica. La meditazione di Aliberti verte inoltre sul rapporto col tempo non solo edax, ma altresì considerato categoria trascendentale che non consente più come prima un nesso intergenerazionale, dato che l‟oblio nei confronti delle glorie del passato è ormai paurosamente invalso presso la gioventù virtualmente ipercollegata in una parvenza di ubiquità, ma insieme ignara delle proprie radici. Dal canto suo, Cattafi, reduce nell‟Itaca-Sicilia da viaggi spossanti che plasmano la sua personalità, assurge a emigrante-viandante che aspetta una rivelazione labile che gli consenta di superare l‟antitesi riassunta perspicuamente nel titolo della sua raccolta : L‟osso, l‟anima. Il ritorno all‟isola natia nell‟ultimo periodo della sua vita combacia con una rivisitazione della figura mitica di Ulisse perché il poeta barcellonese, pur assaporando la cornucopia dello splendore paesaggistico intriso di riecheggiamenti mitici e foriero di un momento di simbiosi tra l‟io e il mondo, è consapevole che la felicità è necessariamente transeunte, soprattutto in un‟isola in cui gli strascichi del decadimento inficiano quello che Aliberti chiama « l‟atavico fulgore. »

39

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

A questo punto, mi pare doveroso citare qualche verso di entrambi i poeti per palesare la loro raffigurazione della Sicilia: Carmelo Aliberti, “Il pianto del poeta” (19992002) Al balcone dopo il tramonto sopra il mare Nell‟oasi beata della torre tra lo squillare dei suoni e dei colori che affollano a pelo gli smalti azzurri dei laghi nella cornice viola sul Tirreno a Castroreale in trincea volgo gli occhi, allagati dai concerti dell‟estate, verso i campi radi di alberi e di declivi di questo tempo privo di fusi e di arcolai, avido di smagliare le afflizioni nei dolci fiati dell‟adolescenza (…)

Qui si continua con i traffici più immondi ad irrigare di gloria e di avere il regno dell‟anarchia e del potere, qui con la ferocia delle belve si continua a lapidare il Giusto (…)

Bartolo Cattafi, “Thrinakrie” Omero ne parla perché Ulisse l‟incontrò sul mare la terra dei tre capi, ricca, fiera, boscosa America avanti letrera favole correvano da un cateto all‟altro dovevano ancora venire le agavi le arance i paladini di Angelica i sonni sull‟amaca.

Ora è triangolo arido figura piana e montuosa di marina solitudine, terra di molti mali di problemi scottanti non per colpa del sole.

Se vi sbarchi è come un approdo in Nord Africa o al Partenone in un‟aria di semicolonia e si è metà dentro metà fuori di un chiaro capitolo di storia.

Come asserì Giovanni Raboni in un‟intervista6, Bartolo Cattafi è davvero un poeta dall‟ingente spessore esistenziale che dovrebbe indurre i critici ad annettere maggiore importanza al valore anche edificante della letteratura che assolve la propria vocazione quando travalica la mera elucubrazione tecnica o contingente.

Ponendomi nella scia di Mario Luzi, direi per concludere che in Aliberti e in Cattafi il verbo lirico diventa mallevadore di sacralità e di innalzamento sapienziale e a mo‟ di commiato mi sia consentito citare Charles Baudelaire che nell‟ « Albatro », nobile uccello, tratteggia in modo suggestivo la condizione del poeta : Il poeta è simile al principe dei nembi Che conosce la procella e non cura l‟arciere Esiliato sul suolo in mezzo alla baraonda, Le sue ali da gigante gli impediscono di camminare.

6

Cf., www.bartolocattafi.it, 4/8/14 40

SAGGI

Le belle parole di Giuseppina Rando Recensione di Andrea PAPPALARDO Giuseppina Rando è un‟intellettuale che si è sempre distinta per la sua spiccata professionalità di docente di Lingua e letteratura italiana negli Istituti superiori e per la sua luminosa qualità di poetessa, scrittrice e saggista.

Le belle parole, pubblicato da Scrittura Creativa Edizioni, (ottobre 2013) è prefato, dal poeta e filosofo Flavio Ermini.

Volendo dare un‟indicazione sul genere letterario cui il libro appartiene, esso è collocabile certamente tra le opere di saggistica, ma occorre attenzione nel mettere a fuoco l‟esatta tipologia di saggio che l‟Autrice ha deliberatamente scelto per comunicare con i suoi lettori.

L‟opera nei suoi contenuti è ancorata alle due coordinate fondamentali della vita dell‟uomo: l‟esistenza umana e l‟esperienza della conoscenza sensibile e del bello, naturale e artistico.

In questa visuale il libro può definirsi una silloge di saggi di carattere esteticoontologico.

Nella premessa l‟Autrice esplicita chiaramente le caratteristiche dell‟opera, che è un libro che parla di libri e della passione per la lettura.

Un libro che parla di libri ha l‟importante funzione di costituire, già di per sé, una vetrina aperta sui saperi dell‟uomo (nel caso specifico narrativa, poesia, storia e filosofia) e precisa la Rando … Un viaggio nell‟universo letterario e filosofico in compagnia di alcune parole, scaturite dal bisogno di riflessione sulla quotidianità… soste su autori affini per pensiero o per stati d‟animo e anche… note sparse su temi che nel processo storico richiedono un approfondimento.

Soste per riflettere, per esaminare il già fatto, il già acquisito, soste per considerare la strada già percorsa, e per riprendere con nuova lena la via della 41

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

ricerca, soste per impostare sempre nuove modalità di scoperta del passato e del mondo fisico che ci circonda.

Il contenuto del libro è focalizzato dall‟incisiva espressione soste tra alcune parole e il cielo notturno della vita. L‟Autrice ha nel cuore e nella mente un‟altissima finalità sociale ed è ben determinata a dare il suo contributo per il cambiamento.

L‟espressione metaforica il cielo notturno della vita è il punto di partenza. Nasce da questa consapevolezza di oscurità, di buio che avvolge l‟esistenza, lo stimolo alla ricerca del rinnovamento. Ricerca che si intende come itinerario personale, ma che, auspicabilmente, può anche diventare, sulla scia tracciata dagli scrittori, dai poeti e dai filosofi, tensione corale verso la conoscenza della realtà. Un cielo notturno, quindi. Un cielo che sovrasta la città e ne assume, come per un processo di irradiazione ascendente, i toni cromatici delle ombre che offuscano la quotidianità della vita, pervasa di individualismo, di povertà, di esclusione, di violenza, di sofferenza e di tutte le piaghe dell‟umanità.

Il viaggio nell‟universo letterario e filosofico è suggerito dall‟esigenza di una seria riflessione sulla vita quotidiana dell‟uomo e si snoda lungo una strada che l‟Autrice non percorre da sola, ma in compagnia di un insieme di “parole”, la cui scelta è strettamente legata alla finalità del viaggio, lungo il quale sono presenti svariate esperienze di dolore e gioia, paura e speranza, annientamento e rinascita.

Le “parole”, che la Rando definisce belle, costituiscono effettivamente, come lei dichiara, l‟asse portante del libro. Sono disposte in ordine alfabetico lungo il susseguirsi delle pagine e ciascuna segna un‟esperienza di vita che è stata argomento di scrittura da parte di ogni autore di riferimento.

Le parole non sono molte: nel libro se ne contano sessantatré. Ma il numero consente di per sé di darci una rappresentazione della vita umana in tutti i suoi aspetti, attraverso il variegato mosaico in cui sono rappresentate storie individuali, avvenimenti collettivi, ma anche le creazioni del pensiero.

Le pagine dell‟opera si aprono con la parola “Amicizia” e si chiudono con la parola ”Violenza” La loro bellezza sta nell‟intrinseca funzione, importantissima, insostituibile, quella di portarci sempre a tenere per fermo che l‟attività letteraria e filosofica non è estranea alla vita, anzi ne è parte essenziale. Esse, inoltre, avviano e favoriscono la comprensione delle cose del mondo, sia degli avvenimenti sia dei fenomeni, rendendo così possibile agli uomini anche l‟indispensabile riscoperta della natura. Le stesse parole seguono il cammino 42

SAGGI

degli scrittori e dei poeti e ne rischiarano la strada, porgendo loro materia di scrittura e di canto.

Flavio Ermini , nella Prefazione scrive che è …l‟efficacia attiva delle “belle parole” a muovere Giuseppina Rando nella scelta degli autori a cui affidarsi. Attraverso un selezionato numero di saggisti poeti e narratori prende forma un‟armonia colma di mistero e, al contempo, presente e terrena. E‟ un movimento verso l‟esistenza più pura quello a cui assistiamo.

Sono sempre le belle parole che irrompono sulla scena del mondo rendendoci edotti sul pericolo che incombe sulla memoria e sulla natura, entrambe minacciate di distruzione.

Questa ha come corollario un triste approdo di silenzio, un deserto della parola e del canto, perché, afferma la Scrittrice, la lingua si atrofizza. Ecco allora la missione della letteratura, che consente di liberarsi del mondo, non per rifiutarlo, per allontanarlo e per perderlo, ma , continua l‟Autrice, per ritrovarlo subito dopo più pienamente.

Scrive ancora Ermini che nelle pagine di Giuseppina Rando la lettura è trascrizione: risalire ogni volta al pensiero che impone di scrivere e da lì chiarire a sé ciò che un altro ha plasmato a suo modo. Questo meccanismo di trascrizione è il presupposto creativo di tutti i saggi presenti nel libro, sia che abbiano la connotazione di rigorosi testi critici, sia che si caratterizzino come appassionate descrizioni di eventi o come monografie documentate da precisi riferimenti storici.

Le belle parole catturano il pensiero della Scrittrice, che lo rivolge alle figure e alle opere degli autori che hanno suscitato in lei spunti di riflessione che si trasformano in quella ricchezza morale e civile che, dalla sponda del mondo letterario ci riporta nel mondo reale, ce lo fa ritrovare, offrendoci in abbondanza i mezzi per cambiarlo, sia nella sua essenza socio-culturale sia in quella prettamente naturale.

L‟abbandonarsi alla creazione artistica, alla poesia, alla prosa e alla riflessione filosofica compie il miracolo. In altri termini, l‟immaginazione porge ampi spazi di riflessione e di allenamento alla nostra mente per apprestare quanto occorre ad intervenire sulle vicende della vita e sul rispetto e la salvaguardia della natura.

Sono ancora la letteratura e la filosofia che ci consentono e ci spingono ad uscire dalla strada fallace delle illusioni e a riassaporare la bellezza e il gusto del vivere operoso e l‟amore per il mondo fisico.

43

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Alcune poesie di Giuseppina Rando C’ è qualcuno

A Mario Luzi

La tua parola C‟ è qualcuno nello spazio ombra invisibile si muove

Volteggia sull‟intensità della corrente la tua parola vestita di rugiada

nella nebbia dei giorni voce che dura e lega al dolore.

sciolta nella luce e nell‟oscurità mostra il non mostrabile

Scende lento con me le scale a passo felpato sfumato nei colori della sera.

muta in energia di slancio la sabbia del fardello

Lungo i pomeriggi immoti oscilla nelle stanze il suo chiarore.

Ancora all‟alba lo riconosco nel parlottare puro dell‟aria

s‟innalza nei cieli immacolati discende negli abissi

ai margini del giorno nelle siepi brune che fulminee di fatue faville s‟accendono.

diventa forma e sostanza, spirito e materia, buio e lume.

E se oltre l‟immacolato silenzio del tempo l‟ essere mio si spande

Rapsodia. Affreschi di corpi dell‟invisibile, dell‟indicibile

- in lui si fonde - nel tripudio di luce - ove s‟adunano le stelle.

la tua parola svela arcani paesaggi ri-crea che qui nel silenzio della riva tra le nebbie della sera si sperdono

Pensiero

e… al vento di ponente con la candela… si spengono.

Dove spazio fa nascere spazio nell'aprirsi infinito del cielo come un lampo il pensiero.

Svanisce si fa solco sulla terra ombra notte provata disfatta dove la parola si dissolve

44

Luce blu

Straniera

Presagio dâ€&#x;infiniti universi luce blu abita- qui ed ora – nel silenzio delle cose nel silenzio delle stanze.

Sono stille di rugiada o forse luce obliqua a fendere l'abisso.

Distanza o assenza dell' Altro o dell'Altrove a creare il cono d'ombra

Ombre in equilibrio sulle pareti per me stillano nettare dal tempo

e farmi "straniera" in queste mie terre trafitte da voli di rondini

-quello che la morte non sa cancellareenergia che brucia e che sublima.

Leggera nel vuoto ora col tutto ora col nulla mi confondo.

45

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Il giorno non è mai troppo lungo INTRODUZIONE di Domenico DISTEFANO

L‟idea di realizzare una pubblicazione dei miei versi è nata qualche anno fa, in seguito all‟occasionale partecipazione ad un concorso di poesia, dove ho ottenuto un inatteso e gradito riconoscimento. Mi ero messo in gioco, per incoraggiare i miei alunni a fare altrettanto, per la sezione a loro riservata, nello spirito olimpionico di Pierre de Coubertin, secondo cui è importante partecipare, non vincere.

Si è concretizzato, però, durante l‟«ozio» della quiescenza, per dare uno scopo al mio tempo libero.

Poiché li avevo composti, ho ritenuto che non potevano restare con me e non potevo non mostrarli agli altri, come la più naturale delle cose, come l‟albero che non può nascondere i suoi frutti, il fiore i suoi colori, il sole la sua luce, il fiume la sua acqua. Così ho ripreso e rivisto poesie, che giacevano da tempo in un cassetto; le ho ordinate e ne ho aggiunto qualcuna nuova, facendo ricorso all‟esperienza acquisita negli anni della mia attività lavorativa. Molte di esse, quindi, risentono della mia maturità, ricca di passato e povera di futuro. In maniera quasi del tutto spontanea ed involontaria, alla mia età, si accompagna la «presbiopia della memoria». Lungo i binari del tempo viaggiano veloci i vagoni dei ricordi, che sanno di zucchero e sale, di gioie e dispiaceri. Si rievocano soprattutto l‟infanzia e la prima giovinezza e, pur con la consapevolezza di cose perdute ed irrecuperabili, si fanno rivivere per un po‟, come periodi di ignara felicità, in attesa di un avvenire lieto e luminoso, dalle mille promesse. Ci si rende conto che il tempo rotola come foglia che il vento trasporta e sfugge come acqua di fonte tra le dita. Ci si rende

46

SAGGI

conto che ogni giorno è una progressiva caduta di Icaro, sotto i raggi del sole, che consuma.

I ricordi spesso mi sfiorano l‟anima, mi avvolgono, mi danno calore. Riemergono all‟improvviso con intensità e forza esplosiva, senza un ordine logico preventivamente assegnato e poi si allontanano, lasciando il dolce o l‟amaro e invitando a riflettere. Credo che mai su di essi si poserà la polvere dell‟oblio.

Avere progetti da realizzare è forza straordinaria, per dare un senso all‟esistenza umana e per pensare al domani con ottimismo e fiducia in sé. Il leggere e lo scrivere, a volte, alleviano l‟ansia delle cure del giorno, impegnano scrutando il significato delle pagine, ristorano le forze dell‟animo, fanno meglio accettare il presente, danno una prospettiva e una speranza. Scrivere, poi, diventa personalmente spontaneo e intimamente gratificante dopo aver provato un sentimento, che urge e prorompe, dopo essersi stupiti di fronte alle cose create, a partire dalle più semplici, ugualmente miracolose e misteriose, che bisogna cogliere nell‟attimo fuggente. Allora le parole giuste vengono da sé. Sono parole ricche di echi interiori, cariche di riflessioni e di emozioni, quasi sempre legate a dati biografici, a esperienze realmente vissute, in una terra di rumori assenti e di voci nascoste, di contraddizioni e anche di ingiustizie. Sono squarci di natura pulsanti di vita, piccole quotidiane storie. Attingono alla principale fonte di ispirazione, il paese natìo, che mi ha visto crescere tra mura antiche, bagnate dal sudore di genitori e nonni, e dove mi sono forgiato il carattere, in un periodo in cui rimanevano ben saldi i legami generazionali.

Con l‟animo di eterno bambino, nell‟immanente, che non va al di là del sensibile e del tangibile, cerco le tracce di un trascendente, come realtà assoluta e perfetta, e spesso mi interrogo sui grandi problemi della vita (origine del mondo e di tutti gli esseri viventi, esistenza di Dio e dell‟anima immortale, perché il male, la malattia e la morte) e attendo risposte razionali che non arrivano, né arriveranno mai. Tutto rimane avvolto nel mistero, travolto dalle stesse misteriose leggi meccanicistiche, che governano la materia, quasi a giustificare un improvvido destino.

Ampi squarci di luce sono solo guardando verso l‟alto, verso il cielo infinito, perché in ognuno di noi si sente forte l‟esigenza dell‟esistenza di un essere superiore, che compensi la propria fragilità e limitatezza nel tempo e nello spazio.

E la poesia colma in parte questo vuoto, perché dà vita ad anonime pagine, scolpendo pensieri e mortificando l‟apparenza, perché è tensione verso la suprema bellezza e perfezione, perché è elevazione dello spirito, dominio dei sensi e delle passioni, perché unifica i cuori con l‟universalità dei suoi valori, 47

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

perché risveglia le coscienze e le nostalgìe, predisponendole all‟ascolto dei problemi del nostro tempo.

Essa nasce nelle ore di solitudine e di silenzio, di osservazione e di riflessione, traduce in parole i moti dell‟animo, riesce a cogliere l‟essenza delle piccole e grandi cose e le comunica agli altri, per cercare di capire il nostro stare nel mondo.

Sono temi dominanti il mito e la storia, la realtà e gli affetti familiari, il palpitare del divino nel cuore dell‟uomo e le varie manifestazioni della natura nell‟alternarsi delle stagioni: il sole che sorge o tramonta, la pioggia che cade, gli uccelli che volano e cantano, le nuvole senza patria, il vento che alita o sibila, il mare che affascina o incute paura, l‟argentea luna e le tremolanti stelle. Ed è inutile andar lontano, quando si ha dentro di sé quello che serve, per sentirsi libero ed essere sereno. È nel profondo del nostro cuore l‟ideale luogo, dove nascono e si conservano, come in uno scrigno pregiato, i più nobili e intimi sentimenti.

Per concludere l‟introduzione alla mia raccolta, mi piace citare i significativi versi della poetessa tedesca di origine ebraica, Mascha Kaléko: “La mia poesia più bella?/ Io non la scrissi./ Emerse dal profondo delle profondità./ La tacqui/”.

48

SAGGI

Il giorno non è mai troppo lungo PRESENTAZIONE di Luigi RUGGERI La parola “antologia” deriva del greco ἄνθος, “fiore” e λογία dal tema di λέγω “raccolgo” e indica una serie di componimenti, veri e propri fiori poetici, capaci affermare la poesia come “voce di illuminazione, libertà e liberazione spirituale oltre che civile” “Voce” che si erge chiara e potente in questo mondo, che appare sempre più sull‟orlo di una catastrofe antropologica; “Voce” capace di rinnovarsi radicalmente nello spazio e nel tempo, per presentare il profilo intimo e profondo del Suo autore.

Ecco come si presenta ad una prima lettura questa raccolta di poesie di Mimmo Distefano, un vero e proprio veicolo attraverso cui far conoscere il meglio della poesia italiana, quella che si avvale di parole importanti per lo sviluppo morale e intellettuale.

Mimmo Distefano, uomo di indubbie qualità morali e culturali, non è poeta che facilmente si arrende di fronde all‟imponderabile; Egli è una persona che ha compreso come l‟anima sia “certezza di esistere, consapevolezza di amare ed eleganza di vivere con la coscienza morale” a tal punto che, seguendo l‟esempio di Dante Alighieri, il quale per conto di quell‟ “Amor che move il sole e l‟altre stelle” così ammoniva: “…Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtude e canoscenza…”

Eccolo quindi addentrarsi in ognuna delle Sue poesie, facendo ricorso alle vaste modulazioni di una “testimonianza scritturale” che indaga nella conoscenza con lucidità e rigore, aiutando anche il lettore meno attento a “sentire”, “avvertire” i suoi ritmi e i suoi toni come chiara e sicura espressione di una vibrazione musicale, capace di prolungare e rafforzare le ragioni espressive.

V‟è in questa raccolta la chiara ed evidente rappresentazione poetica del pensiero, “cogito, ergo sum” (Cartesio) e certezza della verità dell‟io profondo (Socrate), accompagnate da una certa forma di naturalismo, tendente a spiegare la realtà attraverso le leggi naturali senza l‟intervento di un principio trascendente o spirituale. Poi però riscatta tale concetto mediante l‟osservazione della realtà e utilizza una scrittura, che è un vero e proprio documento oggettivo, dal quale senza lasciar trasparire alcun Suo intervento soggettivo, giunge alla dimensione del “senso religioso”, quello che ha bisogno di una sfondo di tenebra (Arthur 49

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Schopenauer). Nasce così per Mimmo Distefano un‟altra “stagione poetica”, quella della “ricerca di Dio”. È una ricerca che lo impegna tutto: con la ragione, col cuore, con la Sua libertà.

Necessità, quindi, di impegnare la ragione con la massima intensità, per cercare Dio e la Sua libertà in grado supremo. Volgendo poi la nostra attenzione alla connotazione poetico-letteraria, non possiamo non notare come Egli sia capace di articolare la Sua misura discorsiva, riuscendo a mantenere il passo di un sereno equilibrio tra valore semantico e ritmo, per nascondere in un certo senso, quella seria cultura classica che esonda ai versi e dell‟ampio respiro del dettato, in cui risalta la “retroflessione autobiografica” più coinvolgente, realizzata attraverso registri variati di una parola ricca di proposte e che ispira emozioni. Appare evidente come la letteratura dell‟immaginazione di Mimmo Distefano si edifichi nella fantasiosa realtà della non realtà, non come fuga da essa, ma come fuga nella metafora del “viaggio stesso”, che Gli permette con grande lucidità di guardare dal presente all‟esistente.

Questa fuga dal presente attraverso la poesia è un modo per ripensare al ritorno in un continuo “gioco” di “rimandi” e di “ritrovi”, che segnano quel “viaggio”, che la “letteratura dell‟anima” si porta dentro.

La poesia quindi come “avventura verso l‟ignoto”, ricerca aperta e scavo infinito, per tentare di secolarizzare la reliquia del ricordo. Poesia anche come “canto” che proviene da una ferita sanguinante dell‟anima, caratterizzata dal continuo cogliere il “frutto della memoria” esercitato senza mai sciuparne il suo delicato e nostalgico fiore. Nel “vortice malinconico” del suo mondo poetico tra le strade del passato Mimmo ritrova i suoi passi compiuti, che gli fanno rivivere le emozioni fondamentali della vita, che danno colore e sapore all‟esistenza.

Emozioni che gli fanno gustare le vita attraverso l‟impeto della passione, l‟abbandono alla nostalgia e al desiderio di amore che trasuda dalla raccolta seppure in maniera soffice e lieve. Amore che evoca la forza inesplicabile della passione, come quello provato nei confronti della madre e del padre.

L‟auspicio, di cui mi faccio interprete, è che tutti riescano ad ascoltare la sua voce garbata e sempre piacevole, vere e proprie “pagine di vita” le cui parole sono braci che riscaldano anche i cuori più freddi, stupiscono e riescono ad incendiare la vita, attraverso un “poetare” coincidente con l‟energia, la riflessione e il rimpianto.

50

che conducevano alla piazza e alla Chiesa, per avere amato il mio paese, come un ubriacone il vino.

Lontananza Strappato come pianta dal suo sito, ancor giovane partii, per necessità d‟impiego.

Scolpiti nella memoria mi restarono i monti e i tramonti, la parlata e i canti, la storia e le leggende, i volti della gente, i balconi fragranti di basilico e menta.

Mi seguivano in ogni dove.

Mi fecero a volte compagnia, a volte furono motivo di struggente nostalgia.

In quella terra contadina, dov‟ero nato all‟amore per la vita e da dove già tanti erano volati senz‟ali, rivedevo distinti un tenero sorriso di madre, una fronte paterna arsa dal sole, dei tetti rossi di antiche case, un libero volo di rondini e lo stupore di occhi innocenti sperdersi nello sconfinato cielo e cercare risposte ai mille perché.

Era rimasto lì, sigillato, il mio cuore bambino e lì troverò pace, quando i miei occhi non avran più luce.

Nelle prime ore della sera, non riascoltai con uguale dolcezza il suono dell‟ “Ave Maria”, che riconduceva, tra le ferite dell‟abbandono, i contadini a casa, ma apprezzai ancor di più gli affetti lontani e i beni e contai sul calendario i giorni, che mi separavano dal prossimo ritorno.

Mimmo Distefano

Ogni tanto mi veniva in mente una canzone, che solitamente mio padre canticchiava.

Anch‟io ripetevo parole e note, socchiudendo gli occhi e sentendo nella voce un tenero tremore.

Mi sentivo contento, e per ciò ringraziavo Iddio, per avere respirato l‟aria, calpestato il suolo e l‟erba, percorso l‟intrigo di vie 51

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Bartolo Cattafi studiato da Carmelo Aliberti: un altro punto di vista Cristina SAJA L‟auditorium dell‟Ex Stazione di Barcellona P.G. venerdì 29 agosto si è pregiato di ospitare la presentazione dell‟ultimo volume di Carmelo Aliberti, dedicato alla poesia di Bartolo Cattafi, a cura di Giambra Editore, mediatore dell‟evento.

A 35 anni esatti dalla scomparsa del grande poeta Bartolo Cattafi, un altro grande poeta contemporaneo e del nostro tempo ha dedicato a lui pagine preziose, nella speranza di dare un contributo prezioso alla cultura dei giovani d‟oggi.

Pubblicare nel 2014 una monografia su Bartolo Cattafi è sintomo di rivelazione di quella sintonia elettiva tra due poeti oriundi della stessa terra, che mossi dallo stesso pathos al cospetto della realtà e del peregrinare esistenziale, ci regalano pagine e pagine di vita, rafforzando quel legame imprescindibile che lega l‟uomo all‟altro uomo ed ancora l‟uomo a Dio. Depositari di saggezza, entrambi i poeti, si rivolgono ai lettori rivestendo la negatività con un significato polisemico se non ambivalente davvero innovativo, perché sta ad esprimere da un lato lo strazio, l‟assillo e quindi l‟infelicità di esseri, che, se hanno smarrito qualsiasi ancoramento sereno con la vita e con il mondo, non possono rassegnarsi supinamente alla squallida realtà per ragioni morali e spirituali e dall‟altro il rifiuto reciso di ogni compromissione con l‟ausilio di una parola che diventa scarna, simbolica e connotativa. L‟indagine di Aliberti trova il suo culmine a partire dal 2006 quando già nel suo dramma lirico Itaca del 2006, metteva in scena l‟aedo barcellonese, quale Ulisse redivivo; poi nel 2008, ma stavolta in veste di critico, il poeta dei nostri tempi ha sviscerato la figura di Cattafi, includendolo con un ampio studio in un volume emblematico per la mole e l‟acume che lo contraddistinguono.

A fare gli onori di casa e dare il via ai lavori è stata l‟Assessore alla Cultura Raffaella Campo che ha posto l‟accento su un particolare importante: “Ringrazio Carmelo Aliberti per le opere che ci regala e grazie alle quali i nostri ragazzi possono crescere. La sua impronta didattica è impressa in ogni sua opera, infatti invito il poeta ad incontrare i ragazzi. Ringrazio la casa editrice Giambra Editore, che ha intrapreso una strada coraggiosa in un‟era che è ormai rapita

52

SAGGI

dal digitale e che è ostile alla carta stampata, ma che certamente ancora per molto convivrà con la tecnologia.”

La parola è, dunque, passata al relatore Prof. Giuseppe Rando, docente di Letteratura Italiana presso l‟Università di Messina: “Io sono solo lettore accanito e amico di Carmelo. – ha esordito – Voi barcellonesi, avete la fortuna di avere due poeti di caratura culturale importante, quali Cattafi e Aliberti. Barcellona P.G. ha davvero una fortuna. Cattafi è un poeta molto dotto e raffinato, difficile da capire, affezionato alla dimensione corale e come Aliberti sempre alla ricerca della moralità, dell‟assoluto. Questo libro, molto bello, non è altro, a parer mio, che una sorta di abbraccio tra Aliberti e Cattafi, qualcosa di davvero molto intimo, un corpo a corpo, un abbraccio del poeta al poeta, in cui ciascuno trasmette all‟altro qualcosa di sua. È un fatto osmotico ed il confine che divide Cattafi da Aliberti è molto molto debole. Provenienti dallo stesso luogo, ma in due epoche diverse, a respirare due epoche diverse, poeti presentano differenze e affinità, in base a quello che il contesto comunica all‟artista. Aliberti, qualche volta, in questo libro costruisce riflessioni molto articolate, molto approfondite, da seguire con attenzione. Di Aliberti, credo che sia il libro meno scolastico che conosco, ma sicuramente più intimo. La novità del libro nasce dalla convinzione di Aliberti che la poesia di Cattafi ha una sua diacronia, uno sviluppo, una storia che si evolve come nella vita nella sua scrittura. Un vero e proprio percorso di cui Aiberti fa un‟analisi attenta e scrupolosa.”

La Dott.ssa Loredana Catalfamo, portavoce della riflessione del Prof. prof. Igor Ghidina dell‟Università Blaise Pascal di Clermont- Ferrand (Francia), studioso dell‟opera di Carmelo Aliberti e della sua poetica, ha invece letto le seguenti parole: “il poeta è il vate, colui che osa dire di no all‟ignavia imperante”. Igor Ghidina, inoltre, sottolinea che Aliberti e Cattafi nutrono e curano lo stesso stile poetico attraversato da negatività polisemica: da un lato, il male quotidiano, la condanna alla possibilità della scelta etica tra il bene e il male; dall‟altro, facendo riferimento ad Eugenio Montale in “Ossidi di Seppia” (Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo), la poesia di Cattafi inneggia al rifiuto coraggioso della società, il grido del poeta che dice “no” al mondo nefasto in cui vive. È ciò che anche Carmelo Aliberti, nel suo ultimo saggio su Bartolo Cattafi “La poesia di Bartolo Cattafi tra negativo esistenziale e ansia metafisica” fa notare, con riferimento alla particolare natura che investe ogni poeta di un compito arduo, a volte pesante, ma sicuramente fatto di cuore e anima. “Mi sono sentito chiamato ad andare oltre –ha affermato Aliberti a conclusione dell‟evento- in direzione non più di me stesso, ma dell‟umanità intera ed in particolare delle giovani generazioni. La ragione, la fede 53

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

e la poesia hanno salvato me e salveranno l‟umanità intera. Questo è di certo un compito importante su cui ogni giorno lavorare e non mollare mai.”

Durante la manifestazione il Prof. Gino Trapani insieme ad Andrea Italiano hanno dato lettura di alcune poesie tratte da “L‟osso, l‟anima” di Bartolo Cattafi a 50 anni dalla loro pubblicazione. Interessante ed elevata anche la spiegazione e il parallelismo che il Prof. Trapani ha tratteggiato tra una lettura e l‟altra: “La dinamicità e la passione della scrittura di Cattafi –ha affermatosicuramente non è semplice da comprendere, ma rende l‟idea perfetta di ciò che è la vita. Non esiste mai in Cattafi, un verso uguale ad un altro, l‟uso particolare dei termini e il continuo cambio del ritmo trasmettono l‟ansia di voler vivere, l‟affanno nei confronti di una vita che ti mette alla prova e che ha bisogno di scossoni, forti terremoti che devono derivare da noi, dal nostro modo di vivere”.

Un viaggio nell‟interiorità di Bartolo Cattafi, uno “scavare” quello di Carmelo Aliberti al modo dei poeti per i quali il dono si fa parola e la parola diventa immagine, tanto che Giorgio Bàrberi Squarotti ha scritto di lui: “Questo saggio di Aliberti, sull‟intera opera di Cattafi è un gradito dono, uno studio davvero degno per compiutezza e acume su un poeta che finora è stato lodato, ma mai in un modo così rigoroso e regolare. La rubricazione degli oggetti, la rassegna dei luoghi, le lancinanti vibrazioni dei colori, le traffiture ironiche nella banalità degli eventi, i trucioli del reale, in Cattafi esplodono in contesti analogici, dove figure dissacranti rimbalzano nel viaggio dalla fisicità all‟enigma su percorsi cosmici cosparsi di ansia e vuoti siderali, dove il poeta non sprofonda nel Nulla, ma in un attimo fatale riesce a capovolgere le frazioni del dubbio in attesa dei riflessi metafisici. In breve, Cattafi è un poeta che nella morsa della solitudine riesce a scendere agli Inferi e, come un nuovo Ulisse moderno, riesce a sottrarsi alle mostruose Furie con a forza della Fede, della Ragione e della Poesia.”

Si tratta di un evento che ha fatto tappa in tutto il comprensorio della provincia, riuscendo, a Rodì Milici, di regalare “un‟occasione non solo di ricordare e conoscere un grande poeta, ma ha aperto ai presenti i sentieri della propria interiorità, laddove non si può essere tiepidi e quieti, perché luogo in cui si giocano le grandi battaglie della vita nella scelta continua ed istantanea o di disperdere se stessi nei tanti rivoli secondari dell‟esistente o di essere se stessi, puntando alla propria realizzazione integrale, oltre i tanti graffi che la vita infligge” (D. Fazio).

La poesia di Aliberti spazia dalla realtà locale a quella universale, dalla questione meridionale alla condizione esistenziale dell‟uomo contemporaneo. Carmelo Aliberti è anche un raffinato maestro della lingua. Il suo stile, l‟uso di immagini, di metafore, lo collocano nel contesto della poesia universale, rendendolo uno dei 54

SAGGI

poeti più apprezzati della sua generazione. La sua poesia gode della stima di rinomati critici in Italia ed è apprezzato soprattutto dalla critica straniera. La sua poesia è stata tradotta in varie lingue: francese, inglese e in numerose altre lingue ed è stata oggetto di studio in varie università straniere.

Chi ha conosciuto Aliberti di persona, oppure attraverso le sue poesie, può vantarsi di aver conosciuto un vero e proprio “Profeta del nostro tempo”, un uomo di alti valori spirituali e morali che, in ogni sua opera, sono ribaditi puntualmente con quel tocco di umanità che appartiene a tutti noi, con le debolezze proprie del nostro animo che, però, soltanto un poeta può comunicare in una maniera così aulica.

55

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Ispirazione Sicilia La pittrice Brigitte Nolden espone nel Museo Archeologico di Amburgo Dr. Ulrich VOIGT Professore di storia e matematica delle Scuole Superiori ad Amburgo dal 19742004 e dal 1988-1993 a Rio de Janeiro

Nel Museo Archeologico di Amburgo, la mia città natale, vengono esposti dal 11 settembre 2014 - 25 gennaio 2015 le opere della pittrice Brigitte Nolden. È una mostra particolare che si estende per tutta l'area del museo. I dipinti vengono esposti insieme ai reperti del museo e da questo insieme nasce un dialogo insueto. I reperti sono ordinati secondo i temi che rispecchiano la vita umana come gli archeologi la vedono e i lavori esposti di Brigitte Nolden seguano questi temi. In parte i dipinti sono vicino alla realtà, come ad esempio le zanne e le ossa grande di un Mammut lanoso messo alla luce negli anni 1960 scavando nel letto del fiume Elba, che provengono da un tempo in cui non esisteva ancora il Mare del Nord, o il vaso d'argilla dell'età del bronzo, scavato nelle paludi e trovato con un tesoro nascosto all„ interno, come anche le manette e le catene di ferro del Settecento con le quali sono stati torturati i prigionieri nel carcere sotterraneo del Castello di Hamburg-Harburg. Questi e molti altri reperti non sono semplicemente disegnati, ma sono stati proprio rianimati. Le ossa dipinti in acrilico con sabbia vera rispecchiano proprio l'animale vivo, molto più vivo dell‟ originale esposto nella vicina vetrina.

Il vaso d„argilla è diventato nel dipinto un tesoro per sé, un piccolo gioiello da sognare, e gli strumenti di tortura sono visualizzati insieme con la vittima di uomo degradato, in un modo che le catene si possano sentire veramente. In poche parole, le immagini nei dipinti non si fermano solamente all'oggetto come è presentato nel museo, ma fanno sentire Foto 1: Brigitte Nolden davanti il la situazione vivente della realtà storica. Nella dipinto ZANNE E OSSA DI UN MAMMUT (2014) vetrina vicina si vede un elmo tedesco d'acciaio della seconda guerra mondiale, che è stato recuperato in una casa bruciata in Hamburg-Harburg. Quest„elmo sembra così 56

SAGGI

vecchio, logoro, stanco, come se fosse un residuo della prima età del Bronzo. Lì vicino, Brigitte appende un dipinto con case in fiamme di Hamburg-Harburg, il suo luogo d„infanzia, un dipinto con delle fiamme luminosissime e molto desolato.

Già da bambina Brigitte Nolden si è confrontata con i ritrovamenti archeologici. Il suo maestro di scuola Hinrich Prigge portava spesso i suoi alunni a visitare e disegnare gli oggetti preistorici nel “Helms-Museum”. Da questo museo tanti anni dopo emerse il “Museo Archeologico di Amburgo”.

Foto 2: HAMBURG-HARBURG NELL‘ESTATE 1943 (2013)

Da allora è nato nella nostra artista il permanente interesse di visitare musei e mostre archeologiche in tutto il mondo, che sono per lei una ricca fonte di ispirazione. La provenienza del lavoro ispirativo degli elmi medioevali sono stati il museo delle Armi Antiche nel CASTELLO FEDERICIANO di Montalbano Elicona e il Museo Militare di Bruxelles. Questi OTTO ELMI, che si trovano Foto 3: Hinrich Prigge con i suoi nella mostra, appartengono stilisticamente a una alunni al Mare Nord, 1958 (Brigitte a sinistra) grande serie su oggetti e temi medievali, che sono stati esposti nel 1999 a Bruxelles.

Questa seria include anche la collage: IL BEL GUERRIERO. Questo bel cavaliere si trova in una armatura d'argento, da sembrare quasi un vaso, ma un vaso come un tesoro d'argento in forma umana, un vero Don Chisciotte, che tiene in mano al posto della lancia una matita. Non è un vero e proprio cavaliere, ma è un cavaliere sognato, sognato da un cavaliere vero.

Foto 4: ELMO DI MONTALBANO (2013) 57

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Come un sogno è anche quella collage ossessionante di grande dimensioni titolato NEL LIMBO che presenta una figura in assenza di peso in una posizione leggermente accovacciata come è tipico per gli scheletri dell„età della pietra e del bronzo. Ma non si tratta di uno scheletro, invece è un essere umano in sospeso tra veglia e sonno, tra sonno e morte.

Foto 5: IL BEL GUERRIERO (1999)

La figura del Ercole e le sue 12 fatiche, sono da tanti anni un motivo predominante ispirato anche delle metopi nel Tempio di Selinunte e delle sculture nel Museo Archeologico di Palermo. Di recente Brigitte ha trasportato questa tematica al Fiume Elba e nel mondo del futuro. E cosi vediamo nella mostra di Amburgo una serie Foto 6: Scena dell‘Inaugurazione con di dipinti col paesaggio dell'Elba, ma si il dipinto NEL LIMBO (1997) presentano non solo nella forma in cui il fiume è visibile oggi o migliaia d„anni fa, i nuovi dipinti presentano il fiume visto da oggi, ma in una forma come potrebbe essere visibile nel futuro. Sono dipinti ansiosi, metafisici, con una tendenza all„Apocalisse e un forte legame alla mitologia greca.

Oltre Ercole la mostra espone altre figure della mitologia greca: Enea, Fetonte, Cerbero e la Chimera. Queste opere sono molto impressionanti per se stesse, ma raccontano anche storie a un spettatore consapevole della mitologia.

Il grande dipinto ENEA, lungo quattro metri, con tante forme diagonali ci porta in Sicilia, dove l„eroe vedendo quattro cavalli bianchi pascolando nell„ erba alta li interpreta come un avviso di evitare lo Foto 7: LE FATICHE DI sbarco, "cavalli significano guerra". Il dipinto è stato ERCOLE (Impresa 5: ripulire le stalle di Augias) (2014) il risultato di un viaggio di Brigitte e Angelo lungo la costa orientale della Sicilia ed è una elaborazione in un stile astratto espressivo, quasi un collage dipinto, che ci fa vedere tutto lo spettro dell'ansia che descrive

58

SAGGI

Virgilio nel Terzo Libro dell'Eneide, il rombo di Scilla e Cariddi, come trema Tifone sotto il peso dell„ Etna e le minacce della Chimera terribile.

Foto 8: Brigitte Nolden davanti al dipinto ENEA (1984)

Alcuni lavori sono stati dipinti quest„anno appositamente per la mostra, ma la massima parte provengono dal suo archivio. Brigitte Nolden è una pittrice estremamente produttiva e laboriosa, che è stata capace di fare la sfida agli oggetti esposti nel museo archeologico. Ma diligenza e produttività sono qualità che un artista deve avere per forza, di questo non si devono perdere parole.

Conosco Brigitte dal 1964, da mezzo secolo, sono il fratello della pittrice Agnes Voigt, che ha studiato insieme con lei all‟Accademia d‟Arte di Amburgo. Io posseggo alcuni lavori di Brigitte e ho seguito per tutti gli anni il suo sviluppo con grande interesse. Tuttavia, non sono mai stato consapevole di ciò che in fin dei conti rende cosi eccellente questa artista.

Da quando Brigitte mi ha pregato di fare il discorso introduzione per l„inaugurazione della sua mostra nel Museo Archeologico, ho cominciato a pensare attivamente su questo proposito e su di lei.

Sulle qualità di questa artista si potrebbe dire molto, ma di tutto quello di cui si tratta, non può essere descritto meglio che con le parole di Goethe: Man habe auch tausendmal von einem Gegenstande gehört, das Eigentümliche desselben Foto 9: Sera dell‘Inaugurazione: spricht nur zu uns aus dem unmittelbaren Anschauen.

Dr. Ulrich Voigt (oratore), Emanuel Eckardt (giornalista), Prof. Rainer-Maria Weiss (direttore del museo) 59

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

“Anche se ne abbiamo sentito parlare mille volte, possiamo percepire la particolarità delle cose solo vedendole dal vivo."

Insomma, di lavorare solo con la propria percezione diretta delle cose, di capire qualcosa in questa contemplazione, che senza questa contemplazione non si potrebbe mai cogliere e comprendere e alla fine arrivare nel cuore della materia Così facile!

Da quando conosco Brigitte Nolden la vedo disegnare nel suo album di schizzi, con la sua macchina fotografica e scrivendo nel suo taccuino. La vedo nelle strade, sul molo, nella stazione, nel panificio, alla fiera, al teatro, nel mattatoio, sulla nave, nella chiesa, alle feste di famiglia, sul campo di calcio, vicino al ring del pugilato.

A dire il vero un ambiente molto diverso di tutto questo è l„Italia!

Penso che ogni viaggiatore venendo per la prima volta dal grigio Nord passando il Brennero o il Passo del San Gottardo, quando respira quell'aria fresca e vede l‟azzurro del cielo, ha gli stessi pensieri che Goethe aveva in 1787 e che sono espressi nel suo "Viaggio in Italia“ in un modo così bello. E quanti artisti tedeschi sono gia stati attirati dall„Italia! E il blu non è il colore della loro nostalgia? Anche Brigitte Nolden scopre in Italia un altro l„azzurro. Non un blu qualsiasi è il suo colore, ma l'azzurro brillante del cielo meridionale, il celeste e il blu profondo del Mediterraneo, il blu più profondo della notte meridionale e il blu molto più profondo della notte del sud sul mare.

Ma a differenza di molti artisti tedeschi in Italia, Brigitte ha messe radici familiari. Suo marito Angelo Motta è un artista che crea monili, che ha venduto per decenni ad Amburgo ai mercati artigianali. Nel 2002 è stata organizzata nell‟Istituto Italiano di Cultura di Amburgo una mostra collettiva di Brigitte e Angelo.

Angelo apparve la prima volta ad Amburgo nel 1965 e nel 1970 incontra Brigitte e posò modello per lei. È un uomo che ha la presenza come uno dei suoi lontani antenati greci e possiede una voce tenorile, come si trova solo in Italia. I suoi genitori si trasferirono nel 1954 da Rodì in Sicilia a Sabaudia nel Lazio, dove gestivano un Foto 10: BARCA piccolo vivaio. Da Sabaudia si vede il Monte Circeo, il NOTTURNA (1988) punto più settentrionale della Magna Grecia, una 60

SAGGI

montagna mitica che improvvisamente precipita sul mare. Ancora mi ricordo, non senza un brivido di paura, il sentimento di ansia che venne in me quando scendevo dalla cima del Monte Circeo guardando nell„abisso sulla scogliera.

Quell„anno 1976 sono stato diverse settimane ospite dei genitori di Angelo e esploravo la regione a piedi e in bicicletta.

A Rodi sono stato ospite dalle zie di Angelo. Di là si ha verso il nord una magnifica veduta alle Isole Eolie e si possono fare delle escursioni sui monti Peloritani. In un‟ora si arriva al mitico Pirgu, un luogo preferito dagli antichi greci, dove sono state trovate resti di una fortezza sicana/greca.

Guardando verso il sud si vede anche il possente Monte Etna. Nel 2007, quando sono stato insieme con Brigitte e Angelo a Rodì la nostra meta Foto 11: Sera preferita era sempre Pirgu. dell‘Inaugurazione: Dr. Ulrich Quando Angelo e Brigitte soggiornano a Rodi Voigt (oratore), Brigitte abitano nella casa lasciata dai genitori di Angelo.

Nolden e Angelo Motta Nel 2010 Brigitte ha cominciato a fare un libro su gli antenati di Angelo Motta, frutto delle sue osservazioni e di tutto il materiale raccolto durante gli anni: foto, documenti, disegni, pitture, racconti e ricerche.

Nel Maggio del 2014 Brigitte ha donato il libro finito alla Biblioteca STEFANO GERMANÒ di Rodi-Milici.

Dalla vita contadina vissuta Brigitte ha avuto un grande stimolo per il suo lavoro artistico. Mi pare, che sia stato durante la preparazione per un pranzo matrimoniale che Brigitte con il blocco di schizzi e la macchina fotografica documentava la macellazione dei polli e la spennatura delle piume. La procedura di questo rito ha stimolato la fantasia della nostra artista e nello stesso tempo si è Foto 12: Il libro LA MIA FAMIGLIA A RODI trovata in un mondo arcaico in cui la vita umana è stata caratterizzata da rituali sanguinosi.

61

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Nella nostra mostra si trova il dipinto RITUALE (1983) mostrando una capra nera che si ribella contro il suo destino in un ambiente rosso sanguinoso. Questi colori scelti, questo rosso vivace e questo nero, un nero come la pece, sono molto lontani dai colori scarsi acromatici grigiastri dei suoi primi dipinti.

Nel marzo del 1983 ci fu una grande eruzione dell„Etna. Alcune settimane dopo Brigitte e Angelo partirono per la Sicilia. Senza autorizzazione entravano nella zona proibita e si avventurarono in un„ escursione pericolosa. Salivano a 2.600 metri proprio davanti alla bocca dell„eruzione. Lo sguardo nel canale dove la lava scorreva veloce fu uno sguardo irreale come in un altro mondo, un mondo solo di fuoco, fumo, zolfo e cenere vulcanica.

Dunque, il rosso brillante nei dipinti di Brigitte non è solamente il rosso del sangue o il rosso della lava, la lava dell'Etna. E il suo nero profondo, non è solo il nero di Max Beckmann, ma è anche il nero nero della lava raffreddata. È stato solo un piccolo passo tra l„esperienza dei costumi dei contadini arrivare ai miti degli antichi grecoromani, perché le forze primordiali della Terra, che si sentono sui campi di lava dell'Etna in eruzione, sono infatti proprio le materie da cui provengono i miti.

A dodici anni Brigitte quando giocava, Foto 13: lo studio di Brigitte Nolden nel si identificava nella figura di Ulisse e 1984 con la sua amica progettarono di costruire una zattera di legno per avventurarsi nell‟oceano per raggiungere l‟America.

I miti dei greci erano già all„inizio parte della sua immaginazione, ma ci voleva probabilmente quell„esperienza impressionante dell'eruzione dell„Etna, che le figure mitologiche sono diventati parte della sua percezione. Queste figure non sono per lei solo prese dalla letteratura, sono anche vissute e sentite nelle forze elementari della terra. Le storie che suggeriscono i dipinti di Brigitte Nolden e i miti tradizionali, non sono racconti romantiche e neanche italiani, sono storie drammatiche e in fondo greci. E hanno sempre eroi come Ercole o Ulisse o la capra, che si impenna senza speranza.

Tra il 1985 e il 1990 sono state organizzate diverse mostre dei dipinti "mitologiche" di Brigitte Nolden in Italia, Germania e negli Stati Uniti. In qualche modo è stato anche l„aspetto mitologico dietro il suo lavoro sugli 62

SAGGI

Foto 14: forni per la fusione del ferro con il dipinto ERCOLE CON L‘ARCO (2007)

imperatori medievali e le loro attrezzature (Esposizione 1999 a Bruxelles) e ai suoi quadri sul tema "Sport" (mostre 2006-2008 ad Amburgo). Questi dipinti non avrebbero mai preso questi colori vivaci e queste forme sorprendenti senza quell'esperienza vissuta sul Monte Etna. Lo stesso vale anche per i dipinti attuali esposti nel Museo Archeologico di Amburgo.

Torniamo al 20 marzo del 1787, quando Goethe, stando a Napoli, riceve il messaggio di un„eruzione del Vesuvio.

Subito partiva per esplorare da vicino questo evento. Dopo questa impressione vissuta, Goethe scrive nel suo diario di viaggio la frase che è già stata citata nella parte superiore del testo.

Foto 15: scolari visitano il museo in fondo il dipinti di Brigitte Nolden

Già nel 1967, nel suo primo viaggio in Italia, Brigitte si interessava per Goethe e nel suo secondo soggiorno in Italia del 1968, portava il suo "Viaggio in Italia“ con se come compagnia. Nel 2011 Brigitte scriveva un saggio “Con Goethe in Italia” (3°Millennio Anno III Numero II, Luglio / Dicembre 2011, pag 91-102) che bisogna leggere ed è altamente istruttivo. Questo saggio mostra fino a che punto la sua percezione e progettazione è stata ispirata e istruita dalla teoria di Goethe sui colori e sull‟arte della poesia.

Brigitte, la nostra pittrice, si accorse presto, come si accorse Goethe stesso, che come pittore non poteva raggiungere le ambizione proposte. Goethe si accorse in Italia che il suo grande talento era la parola. La matita da disegno e la tavolozza dei colori non erano la sua propria materia, nonostante ciò ha lasciato a noi più di tre mila disegni e acquarelli.

Di affrontare con il colore e la forma quelle impressioni immedesimate, che Goethe precisamente descrive, o piuttosto le proprie impressioni che stanno paralleli a quelli di Goethe, con mezzi che avrebbero interessato Goethe, è un

63

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

pensiero che fino ad oggi ha ispirato Brigitte nel modo più naturale, che si possa pensare.

Sull„attuale mostra è stato fatto un catalogo: Brigitte Nolden - MALEREI Künstler zu Gast im Archäologischen Museum Hamburg Per ordinare i cataloghi si può rivolgersi a: brigitte.nolden@t-online.de

Foto 16: ERCOLE (2002) Copertina del catalogo

64

SAGGI

I frati cappuccini nel mondo manzoniano Vincenzo BARBAGALLO

Manzoni è uno descrittore tremendamente corrosivo di tutta l‟impalcatura etico-politica del Seicento e dei regimi autoritari. La scenografia, in cui ambienta la storia dei due poveri contadini, è un‟epopea “di un volgo disperso”, di una civiltà, povera spiritualmente e moralmente, dominata dal fiscalismo, dal puntiglio, dalla forza, dall‟orgoglio cavalleresco, dal diritto alla strada.

L‟Azzeccagarbugli è la parola della giustizia al servizio dei prepotenti; il Principe-padre sacrifica la figlia alla falsa religione; don Rodrigo è un arrogante, che deve spuntarla sul Padre Provinciale. Il panorama storico registra una morale ipocrita, una verità apparente, un‟erudizione fatta di sofismi e sillogismi, di cui don Ferrante è la rappresentazione; il mettersi sempre sotto la protezione di una classe privilegiata come don Rodrigo: è il modo migliore, per salvare la propria pelle; si fa sacerdote solo perché la tonaca lo ripara dai grattacapi, perché gli fa comodo star bene e al sicuro in una classe riverita e forte, da riuscire a passare i sessanta anni senza gran burrasche. “Era fatto così… Non aveva un cuore di leone; era come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.

In questa cornice di agi, di sensualità epicurea, di pompa, di fariseismo si muove la Chiesa militante, popolata di conventi e di templi, di eroi del Vangelo 65

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

in difesa di coloro che si ribellano ai potenti. La sua centralità è garantita non da Roma, ma da Milano, non dal Papa, ma dall‟arcivescovo di Milano, il Cardinale Federico Borromeo. I Papi del tempo, infatti, sono alle prese col nepotismo, con una ricchezza sfrenata, gestiscono tutto “ secondo le loro intenzioni” ( ! ), vivono l‟Imperium Romanum e non il Sacerdotium, “adorano l‟antico vitello d‟oro” e abitano nei palazzi di Erode. Se c‟è un ordine, per cui il Manzoni ha delle preferenze, questo è l‟ordine dei Cappuccini.

La freschezza del francescanesimo o dei Fioretti si presenta nel Romanzo con la prima figura di frate, in fra Galdino, conosciuto per il famoso miracolo delle noci; semplice come un bambino, candido nel suo egoismo, con la sua bisaccia e il suo asino, che lo aiutano a portare le noci, mezzi semplici, vera e candida comodità per aiutare i confratelli a vivere. Ha sposato Madonna Povertà, nella quale i frati cappuccini credono. Fra Galdino e il suo ordine sono una sola cosa; per il convento egli è egoista, avaro, furbo, promette ricompense dal Signore per i benefattori, non parla mai di sé, è imparziale con i suoi superiori, i quali hanno tutti carità e talento. Per lui esiste solo il convento e non i singoli frati. “ Noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti e torna a distribuirla a tutti i fiumi… Abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo”, dice con orgoglio; dall‟egoismo a favore della sua comunità passa poi all‟universalità della carità cristiana, alla Casa di Dio , come casa di tutti. “ I frati sono in perpetua missione, perché vivono nella carità di tutto il mondo ed è giusto che servano tutto il mondo”. Fra Galdino, frate “cercatore”, che si compiace nel portare l‟elemosina dei benefattori ai suoi confratelli, prepara l‟ingresso di Padre Cristoforo nel capolavoro manzoniano e con lui Dio assume il volto reale, non rimanendo chiuso nel suo cielo a guardare dall‟alto le sofferenze dei deboli.

Circondato da una luce di grandezza e di sublimi ideali, Ludovico Picenardi, così si chiama prima di farsi frate, incarna la “chiesa che soffre, combatte e spera”, al servizio di tutti. Da autentico francescano, da scrupoloso moralista, egli opera a favore degli oppressi, in nome della giustizia e della carità, virtù al vertice del Cristianesimo. Non si è fatto prete, per entrare in una casta, per strisciare ai piedi dei potenti, ma per avere “da pastore lo stesso odore delle pecore”. Questo è il suo identikit: un Cristianesimo missionario e democratico, alla cui base stanno gli elementi fondamentali dei Diritti dell‟uomo. Come il Cardinale Federico Borromeo è persuaso che “ La vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto”: massima questa che forma il fondamento sapienziale del Romanzo.

Persino il suo ritratto fisico “barba bianca e lunga che gli copre le guance e il mento, volto scavato per l‟astinenza, capo raso, piccola corona di capelli, fronte 66

SAGGI

ossuta, occhi sfolgoranti come due cavalli bizzarri...” mostra non solo un frate cappuccino autentico, con zoccoli e sporta, ma un saggio, non di cattedra, ma di carità. La sua vita, prima di entrare in convento, per espiare la colpa per aver ucciso un uomo, era stata molto spavalda e lontana da Dio; col nuovo nome Cristoforo, sarà un peccatore contrito.

Preso il saio chiede perdono al fratello dell‟ucciso, dal quale riceve il pane del perdono, che porterà sempre con sé fino alla morte. “Più di una volta gli era venuta la fantasia di farsi frate”, ma ora è arrivato il momento. Come per la conversione dell‟Innominato non c‟è la folgorazione sulla via di Damasco, ma tutto avviene per maturazione; anche quest‟ultimo “Già da tempo sentiva un‟uggia”. Fra Cristoforo, da uomo nuovo, non perde il vecchio carattere battagliero e, avvertito da fra Galdino, si precipita in casa di Lucia e apprende l‟intrigo di don Rodrigo. Una profonda liricità del paesaggio accompagna il Nostro Cristoforo, mentre va dal convento all‟incontro con Lucia: la luce del sole scende lentamente dalla sommità dei monti. Il cielo è sereno. E‟ uno dei mattini più belli dei Promessi Sposi, quando il cielo di Lombardia è veramente splendido, metafora del bene che porterà il frate a tutte le anime che incontrerà. È il mattino di fra Cristoforo, di una stagione, come quella autunnale, rassegnata, dolce, triste, ma piena di pace religiosa e di fiducia nella Divina Provvidenza.

Mentre discende da Pescarenico, giù dai pendii e lungo la valle, gli uomini sono pensierosi per la carestia; cammina in silenzio; osserva e risponde ai loro saluti; va ad affrontare Don Rodrigo e lo fa con tutta la forza dell‟animo, mentre è a tavola dal Conte Attilio, cugino e collega di libertinaggio e di soperchierie, col Podestà, colui che deve fare giustizia a Renzo e far stare zitto lo stesso don Rodrigo, con l‟Azzeccagarbugli, dal naso più rubicondo del solito, che deve difendere i “poveri diavoli”. La tavola è certamente il simbolo del potere, di un‟eterna storia, dove gli arroganti piegano le leggi ai propri interessi e al proprio comodo; attorno alla quale l‟uomo che conta ride e beve con i custodi della legge, con quelli che devono difendere gli innocenti. Questa pagina sembra anticipare tante storie dei contemporanei padrini: la trasgressione di ogni codice, della giustizia beffata. Per sedersi a questo tavolo, ci vuole veramente uno stomaco resistente. Il colloquio finisce male e con la celebre frase “Verrà un giorno…” con il dito della mano sinistra puntato contro don Rodrigo, non resta al frate che la forza della calma religiosa, simile all‟immagine dell‟albero, che al cadere del vento, nel forte della burrasca, ricompone i suoi rami e riceve la grandine come il cielo la manda; ma, allo schianto egli risponde col silenzio ed il raccoglimento morale e spirituale. Seguono gli avvenimenti che il lettore manzoniano conosce. Bisogna ora sbarazzarsi del frate. Al Padre Provinciale, 67

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

pressato in un colloquio dal Conte Zio, non resta che allontanare una persona molto ingombrante, il Pescarenico. Un vero duello diplomatico, una ampollosa prosa barocca diventa il colloquio tra questi due teatranti “Due poteri, due canizie, due esperienze consumate, che si trovano a fronte per decidere la sorte di Padre Cristoforo”. Da una parte la chiesa del compromesso, ipocrita, abile nel far valere la sua autori, dimentica dello spirito evangelico, farisea, boriosa di vana gloria; e dall‟altra il Conte Zio, che si dichiara entusiasta ammiratore dei Cappuccini “Uomini d‟oro, zelanti, prudenti, umili”, dei quali è stato amico fin da ragazzo. Questo gli dà diritto di intervenire nella loro vita e piglia posizione contro la presenza scomoda di Fra Cristoforo. “Scommetto” dice “Che ha dovuto dare più di una volta da pensare a vostra paternità”. Avviene così la capitolazione del Padre Provinciale e a Padre Cristoforo non rimane che mettere in pratica la grande virtù dell‟obbedienza, di fronte alla violenza istituzionale del suo Superiore, andando a piedi da Pescarenico a Rimini (una bella passeggiata!).

Nella sporta vi ripone il breviario, il quaresimale, il pane del perdono; si allaccia la tonaca con la cintura di pelle, si licenzia dai suoi confratelli e va da ultimo a prendere la benedizione del Padre Guardiano e con il suo compagno prende la strada che gli era stata imposta. Nella Storia tutto si ripete. Molti sono stati e sono i compromessi tra la Chiesa e lo Stato. La Storia insegna che i Superiori cercano di evitare tutti in contrasti, specie in un‟età come quella dei Seicento, in cui non si possono disimpegnare, devono avere tatto, sono prigionieri di una situazione: la carica prevale sempre sull‟uomo. “Sopire, troncare… Padre molto reverendo”, dice il Conte Zio, protettore dei suoi nipoti Attilio e Rodrigo.

“Troncare… Sopire”. La doppiezza del Padre Provinciale si inchina al Conte Zio, che, nel soliloquio, afferma “ Essere colpa sua che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito e non lasciarlo fermo sei mesi in un luogo, specialmente in un convento di montagna”. Questi due personaggi sono vere e proprie macchine spagnolesche e la descrizione che ne fa il Manzoni è un‟autentica sequenza di teatro goldoniano, di gusto, caricatura, allusione, sottintesi. Padre Cristoforo, colui che porta Cristo di nome e di fatto, apparentemente esce sconfitto dal colloquio: vince la logica del compromesso.

Intanto i Promessi Sposi rimangono sempre più prigionieri di situazioni difficili.

Lucia è a Monza assieme con Agnese, condotte da fra Fazio, grande amico di fra Cristoforo, dalla “Signora”. Analfabeta, umile, ma di arguta mondanità, il frate raccomanda alle donne di discostarsi di alcuni passi da lui, perché la gente potrebbe dilettarsi a dire male, se si vedesse il Padre Guardiano per le strade con una bella giovane. Rimprovera, inoltre Padre Cristoforo, per aver dato asilo, di notte, alle donne, a porte chiuse. Al formalismo, alla meschinità, al rispetto 68

SAGGI

“draconiano” della regola francescana di fra Fazio fa riscontro la grandezza spirituale di fra Cristoforo “omnia munda mundis”, Renzo, dopo essersela cavata nei tumulti di Milano, si incammina verso l‟Adda, solo, in un mondo ostile; pieno di stanchezza si inoltra in un bosco e nelle quiete della notte sente “un mormorio… un mormorio di acqua corrente”. La voce del fiume Adda è la voce di Dio, il “Ritrovamento di un amico, di un fratello, di un salvatore”, che richiama il “Venite a me, o voi tutti che siete affaticati ed io vi ristorerò”.

Sdraiandosi per dormire, dice le preghiere e, oltre alle persone nemiche, emergono davanti alla sua mente le persone amabili, Lucia, Agnese, Padre Cristoforo, immagini che sono sorgenti di riposo. Gli ultimi capitoli del Romanzo vedranno fra Cristoforo, il paladino della povera gente, fare la sua ultima comparsa fra gli appestati del Lazzaretto, a dare testimonianza di altruismo e abnegazione. In questo luogo la Chiesa diventa “ospedale da campo che cura le ferite”, una Chiesa viva in mezzo ad una umanità dolente simile ad una nave, che non è fatta per rimanere in porto ma per navigare ed affrontare il mare aperto. Da Chiesa Gerarchica del padre provinciale si trasforma in Chiesa di servizio, di misericordia, di carità. Cristo esce dalla chiesa in cui è stato rinchiuso: i frati cappuccini, suoi ministri, sono “i buoni samaritani”, che assistono i moribondi.

La peste è il flagello più terribile, che si abbatte, dopo la carestia e le guerre, nel Milanese e la descrizione che ne fa il Manzoni è tra le pagine più stupende ed interessanti del romanzo: strade deserte, monatti con i loro carri ed il macabro e pietoso carico. La città deserta è sparsa di cadaveri, immersa nel silenzio. Il paesaggio è cupo: nebbia, tuoni, afa la opprimono. In questa tristezza si afferra alla mente quel “Scendeva da una soglia..”, il celebre episodio della madre di Cecilia: un gruppo marmoreo dalla compostezza classica, che rimane, al pari di tanti altri episodi, impressi nella memoria di generazioni di studiosi manzoniani.

Pacato e profondo è il dolore e l‟addio di un riposare in pace, di un restare insieme nella certezza della vita eterna. La morte della bambina ricorda il “cadere della testa sulla spalla pesante” dei versi virgiliani riferiti ad Eurialo ”ed il capo dei papaveri che chinano il capo sul collo stanco quando la pioggia li grava”. Nel Lazzaretto i Religiosi sono al servizio di tutti: la vita in qualsiasi situazione è un dono. Il loro impegno è straordinario e gli storici della peste elogiano questi frati che scaricano, per mancanza di operai i carri, pigliano pane, legumi, vino, condimento, li portano sulle spalle, distribuiscono cibi agli appestati, dormono spesso sulla nuda terra, su pagliericci, seppelliscono cadaveri, dopo aver scavato fosse, respirano aria infetta. Molti di loro muoiono eroicamente. Sono il ponte che unisce la Misericordia divina alla Miseria, sono gli inviati della carità e dell‟amore.

69

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Senza di loro questo mondo sarebbe ancor più lugubre e terrificante; sono la testimonianza dell‟ “Est Deus In Nobis”. Si distingue tra questi inviati di Dio, Padre Felice Casati, venerabile figura di predicatore, la più alta e la più sublime figura di frate cappuccino nel Lazzaretto, ed assieme a lui Padre Vittore da Milano e Padre Michele Pozzobonelli. Implorante è la folla; è una umanità, una coralità che ricorda quella dei credenti degli Inni Sacri. Si sente una voce dal cielo, una campana, che tre volte al giorno, alba, mezzogiorno e vespro, leva le anime sconsolate a Dio, che fa da arco tra il cielo e la terra, che stringe le anime sofferenti e le invita nella Chiesa ottagonale, al centro del Lazzaretto a pregare.

Padre Felice Casati, “mirabil frate”, si rivolge nella predica a tutti e soprattutto ai convalescenti, affinché possano testimoniare poi in opere buone la grazia ottenuta della guarigione, servendo gli altri e non dimenticando che la vita è un “Dono Di Dio”. “ Così Dio rimette a voi i vostri debiti e vi benedica”, sono le parole finali del frate, che ricordano i versi virgiliani su Didone “non ignara disventure, imparo a soccorrere gli infelici”. Col canto fiacco del “Miserere”, ad atto in circostanze come queste di morte e di dolore, si snoda la processione; i partecipanti si asciugano le lacrime, hanno i volti pallidi e langui e Padre Felice precede tutti, portando la croce a piedi nudi, con al collo la corda della penitenza.

Tra la folla, al suo passaggio, una lunga schiera di fanciulli, di donne con i bambini. La preghiera è commossa, effusa non sotto la volta di un tempio ma all‟aperto in mezzo ad una moltitudine che col canto penitenziale implora Dio. In quest‟epica di amore, di carità e di fraternità si distingue fra Cristoforo, fino a donare la sua vita in olocausto. Prima di morire tocca a lui reprimere l‟odio di Renzo, che vuol farsi giustizia da sé, verso don Rodrigo.“Guarda chi e‟ colui che castiga, che giudica e non e‟ giudicato, che flagella e che perdona. ma tu, verme della terra, tu vuoi fare giustizia?”. Con queste parole aspre di rimprovero fra Cristoforo, ripudiando ancora una volta la vendetta, pronuncia a testa alta “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” e lo può fare perché ha espiato con la sua vita l‟ira giovanile. Renzo perdona don Rodrigo morente sul giaciglio; “Rimetti a noi i nostri debiti, così come noi li rimettiamo ai nostri debitori..”. E‟ il trionfo della pace che scende sia su Renzo che su don Rodrigo.

Quest‟ultimo è stato toccato dalla mano di Dio. “Chi sono io per giudicare”. Solo Dio può giudicare, può dare la vita eterna; è il Dio di tutti e non degli eletti. Chi si rivolge “a Quei che volentier perdona”, viene preso tra le sue braccia; lo testimonia Manfredi nel Purgatorio dantesco. Il grande tema della misericordia e dell‟indulgenza divina è il primo comandamento evangelico, raffigurato nell‟atteggiamento delle grandi braccia protese verso la creatura pentita, come la parabola del Figliuol Prodigo o come nelle immagini dei 70

SAGGI

Crocifissi: Dio salva, perché è dolcezza, “Che a tutti i figli d‟Eva nel suo dolor pensò”. Fra Cristoforo, scioglie, infine il voto a Lucia e consegna il resto del pane chiesto per carità ai parenti di colui che aveva ucciso “Serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un triste mondo e in tristi tempi in mezzo ai superbi e ai provocatori. Dite loro che perdonino sempre. Sempre, tutto, tutto”.

Questa è la vera eredità lasciata dal Padre cappuccino. Come Enea, dopo la tempesta, invita i Promessi Sposi a resistere con l‟assicurazione che in futuro queste cose non succederanno più e saranno solo “un dolce ricordo”. “Un Dio darà fine a questi mali… Ripigliate lo spirito e cacciate l‟angoscioso timore…

Forse un giorno sarà un dolce ricordare”, ai due sposi promessi egli ancora dice “ringraziate il cielo che vi ha condotto a questo stato, non per mezzo dell‟allegrezza turbolenta o passeggera, ma con i travagli e tra le misere, per disporvi ad un‟allegrezza raccolta e tranquilla”. La Chiesa del lazzaretto è la vera Chiesa. Nell‟ora del dolore e della morte Dio si pone vicino a tutti per consolare e avviare “Nei floridi sentire della speranza”. Il dolore è “Provida Sventura”. La Chiesa Militante “Del sangue incorruttibile conservatrice eterna…

Campo di quei che sperano” si serve dei frati cappuccini e di fra Cristoforo, l‟eroe-guerriero, il martire; egli è già in germe nell‟eroe romantico Adelchi, combattente anche lui contro le ingiustizie, le prepotenze, le guerre ed assistito nell‟ora della morte da Cristo “O re dei re, tradito da un tuo fedele ed abbandonato dai tuoi, vengo alla tua pace, accogli l‟anima mia”; l‟immagine della pace e della speranza è presente pure nella morte della sorella Ermengarda, nel Conte di Carmagnola, in Napoleone.

La Chiesa del servizio e non della potenza viene fuori nelle testimonianze cappuccine, che anticipano il Vaticano II e il programma di Papa Francesco, in un momento molto complesso del mondo contemporaneo. Chiesa come realtà, Chiesa “del Dio vivente”, della quale persino l‟Innominato gusta la presenza in se stesso. “ Dio veramente grande, Dio veramente buono! Io conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso: eppure…! Eppure provo un refrigerio, una gioia, si una gioia quale non ho trovato mai in tutta questa mia orribili vita!”. Dio è più grande del peccato, colloca tutti in un disegno di speranze sacrali, non esclude nessuno dal suo Amore.

71

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Fulvio Tomizza:i rapporti colpevoli Carmelo ALIBERTI Nel romanzo “I Rapporti colpevoli” ( 1993), lo scrittore opera la ricostruzione, impietosa e sincera di immaginari sensi di colpa per virtuali e trasgressivi impulsi passionali, come urgenza di fuga dal soffocamento provocato dalle storture storiche e per le personali sofferenze per non sentirsi in accordo ideale con la società e con la vita. Con tale opera Tomizza, dopo il filone narrativo dell‟esodo e della ricerca dolorosa delle proprie radici e dopo la fase religiosa di denuncia degli orrori e dei delitti perpetrati dalla Controriforma nel nome di un Dio veterotestamentario, in cui, attraverso ingiustificate stragi, dissennati crimini e condanne di ogni genere, lo scrittore s‟immerge in manoscritti d‟archivio della dissennata storia ufficiale del tempo della congiura tra Chiesa e potere contro chi devia dagli asfissianti codici socio-istituzionali, tese a prevenire insidie devastanti per la loro supremazia tirannica, alla ricerca di spontanee e libere liturgie di fede e di preghiera, mediante la trasparente, e non più clandestina, professione religiosa, aperta all‟innalzamento spirituale, slegato dalle catene della paura e protesa all‟abbraccio luminoso con Dio. Lo scrittore, dopo aver delineato due figure contrapposte, come la protagonista de “La finzione di Maria” (1981), figura ligia ai suoi tradizionali e liberi rituali di fede, è costretta a rifugiarsi nella clandestinità in preghiera, per non rinnegare e sfuggire alle mortali torture trentine. L‟altro personaggio è “L‟abate Roys” (1994) esemplare uomo di Chiesa, emblematico campione di una Chiesa sommersa da ogni forma di peccato e priva di una reale disponibilità all‟ortodossia cristiana, rivestita dal mantello della ipocrisia e della falsità, che ha utilizzato la tonaca come copertura di ogni suo segreto peccato e di mostruose manipolazioni della corretta pratica ecclesiastica.

Con “I rapporti colpevoli”, l‟autore di Materada riprende e approfondisce la linea autobiografica, psicologica e psicanalitica dopo la radiografia storicacronachistica del tragico periodo dell‟esodo, somatizzato nell‟anima con indelebile tormento. In questa autobiografia il passato dell‟autore è ripercorso con lucida spietatezza ,senza alcuna reticenza sui sensi di colpa, generati da presunti ed onirici tradimenti verso la moglie, talvolta immaginati, tentati, ma mai consumati, o dalla consapevolezza di un effimero ed inappagante presente o dalla prospettiva inconscia di un arido e nullificante futuro che innestò in lui la radice del riemergente desiderio di suicidio. La protratta endoscopia dell‟anima si 72

SAGGI

è rivelata una utile terapia interiore per liberarsi dalle scorie incandescenti di virtuali 47 innamoramenti, di fantasmagorici e allucinanti adulteri, di debolezze verso la virginea bellezza di candide creature, sintesi ideale della bellezza assoluta, che lo scrittore ricerca come redimibile incanto indispensabile a riequilibrare il suo mondo interiore, sconvolto da traumi personali familiari, storici e sociali/e poter guarire da tante profonde ferite interiori e ritrovare, dopo aver toccato il fondo dell‟apocalisse esistenziale, il nòstos al codice di trasparenza etica al fine di poter disinnescare gli ordigni e dissolvere l‟opacità accecante dei rapporti colpevoli che più non riusciva a sopportare nel guscio della propria etica visione del mondo e riteneva imperdonabili le colpe e i rimorsi di eterodossi gesti incompiuti, brulicanti nel mare turbolento della sua ulissiaca avventura umana, che rischiavano di deteriorare per sempre i dolci rapporti familiari. La disperata desolazione interiore nella desertificazione dei rapporti umani gli svelano la sua condizione di condannato alla croce di uno squarciante dolore, sopravvissuto inutile al precipizio nel nulla dei suoi trapassati e costituiscono elementi essenziali della sua ispirazione. Vicende accese nella mente e non sedate dalla rassegnazione all‟implacabile furore, presenze ancora sanguinanti e intermittenti tra memoria e agonia in un esilio limbale sulla terra desolata di nessuno, dove, negli interstizi della quiete interiore, affiora un sentimento di sgomento nel delirante tormento di un‟anima fragile e avviata verso il desiderio dell‟autodistruzione, annientatore di ogni anelato conato redentivo, invadono le pagine di questo romanzo che certamente è il più personale e sofferto dei romanzi tomizziani, traboccante di ingenui e tormentosi slanci di abbaglianti e velleitarie conquiste sessuali, ma in realtà sospeso in un‟atmosfera di inazione, generata dall‟inconsapevole impotenza del gesto per lo spettrale affiorare del presagio della morte. I primi segnali del pendolarismo comportamentale si percepiscono nella parte iniziale del romanzo, con le improvvise “fughe” e ritorni nell‟odiosamata redazione della Rai triestina che abbandonò precocemente, a causa delle persecuzioni dei sensi di colpa per il trascinamento di amori immaginariamente estremizzati, contro cui si ergeva psicanaliticamente la figura di Ester, amante, moglie, madre, donna del suo destino, centro inespugnabile per la stabilità dei suoi veri sentimenti e di riconciliazione con la vita. Spesso la narrazione si indirizza verso diaristici frammenti di vita familiare e schegge allusive della storia, ma i sensi di colpa lo risucchiano nella spirale spettrale della morte. In un‟intervista rilasciata a Cristina Taglietti (“Tutti i colpevoli di Tomizza”, Il Segnalibro, L‟Europeo n°52, 24 dicembre 1992”) all‟uscita del libro, Tomizza fornisce precisazioni sui suoi sensi di colpa: “È un libro scritto con grande disperazione, in un momento della 73

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

mia vita in cui il gorgo dei sensi di colpa, dovuti in parte alla mia condizione contadina rischiava di travolgermi. Nel sentire come colpa ogni pensiero di trasgressione, ogni attentato all‟ordine costituito. Scontavo quella mia parte contadina scagliata nel mondo laico e illuminato di una città come Trieste…” dal sottosuolo dell‟io devastato da sterili fantasticherie romantiche emergono inconsce risorse, come “la capacità di germogliare”, tra cui gli affetti familiari mai spenti, Trieste ,città della giovinezza e della maturità, l‟Istria la terra dell‟infanzia divenuta paesaggio mentale, quel paesaggio dove si era costruito il suo nido ai margini del villaggio… Là resisteva il paesaggio dell‟infanzia e dell‟adolescenza dissolta, là l‟armonia della stagione imperturbata dei padri e dei nonni; la nostra salvifica epoca d‟oro, in parte sopravvissuta” (ivi, p .8). Ma i ricordi sono legati ad un mondo in estinzione ed anche il manichino , idealmente appeso alla finestra spalancata sulla campagna, dietro il tavolo del suo studio in Istria, lentamente si disfà con i suoi vestiti. Nel doppio personaggio, uno visibilmente vivo, è immerso nella logorante retrospettiva per la reidratazione delle cause dei suoi traumi e dalle profonde e strazianti ferite dello sradicamento dalle amate zolle, dall‟indilazionabile urgenza del recupero dell‟identità nell‟alveo dell‟ambiguità, dalle responsabilità familiari di cui si riteneva incapace, ingredienti indistruttibili dell‟ordigno dell‟autoannientamento straziante della frontiera orizzontale-verticale nell‟anima, il trivellamento dell‟inconoscibile oltre il buio della barriera dell‟io, da cui esplodono frammenti di colpe indecrittabili nei loro significativi contorni, incastrati nel magma arcaico della civiltà contadina della sua Giurizzani, determinano comportamenti eroici anche nel volontario autolesionismo, necessario all‟autopunizione purificatrice per una sentita riappacificazione con il Creatore, dopo il tempo del castigo.

L‟altro personaggio-fantoccio ci ricorda l‟asse di congiunzione pirandelliana tra la maschera e il volto di tanti protagonisti dei drammi siciliani e universali che oscillano tra la maschera e il volto, tra l‟apparire e l‟essere; in Tomizza, invece, il fantoccio è relegato nella trama dei ricordi, non in contrapposizione al personaggio, ma in simbiosi statica con esso, che diventa il rifugio della memoria dello scrittore, dove ,nelle doline deserte di un idilliaco passato trascorso tra sofferenze e privazioni affettive, rivivono i sogni e i sentimenti distrutti da una genetica e intermittente propensioni al suicidio (confermata dai manoscritti ritrovati dal fratello dopo la morte dell‟autore),trasparente nel libro in oscure conferme autodistruttive, sincronicamente arginate da care figure femminili, come la moglie, la figlia, la madre e la nonna Cecilia, simboli dei suoi “rapporti colpevoli” dei doveri, delle responsabilità e degli obblighi trasgrediti verso la famiglia inconsciamente. Lo stesso scrittore confessa di non riuscire a sostenere 74

SAGGI

le esigenze e le regole onerose della convivenza familiare, a causa della sua incapacità ad armonizzare le differenze generazionali, caratteriali e culturali, rappresentate dalle tre figure femminili. La moglie Ester, consapevole della fragilità del marito, della sua incapacità a difendersi dalla seduzione della bellezza femminile e dagli invisibili agguati del male, dalle disfatte subite dopo il dissolversi di amori immaginari o di onirici abbandoni erotici o di presunti e mai consumati adulteri, donna forte, triestina, ricca di valori morali, molto lontana dall‟inimmaginabile realtà arcaica di Materada, legata al marito da un indissolubile sentimento d‟amore, diventa la vera protagonista del romanzo che, dopo la “pars destruens” simboleggiata dagli errori, dall‟urgenza di farsi trascinare da amori illusori per fuggire da un mondo che il suo “io” non riesce a contrastare e da cui si lascia travolgere facilmente, interpretando la figura del suo essere scrittore, non come depositario eroico dei veri valori della vita, incarna la “pars costruens” del romanzo, creatura reale, ma sublime nell‟indissolubile sentimento coniugale, fatto di dolcezza e complicità, di sottile e sferzante ironia verso i fantomatici tradimenti, resiste eroicamente alle fantasticherie erotiche del marito, profondamente convinta dell‟incapacità del partner a distaccarsi consapevolmente da lei, perché sa che egli è “affetto” da un‟innata fedeltà che caratterizza il cuore dei Grandi, spesso ad allontanarsi dalla quotidiana prigione fetida della vita, per poter vivere momenti di purificazione dalle nefandezze del mondo in utopistiche e allucinanti avventure visionarie dei sentimenti e una segreta immersione negli agguati del suicidio che la donna riesce miracolosamente a distoglierlo, restituendogli la stabilità psicologica e la voglia, sempre in bilico, di tornare a scrivere. Il rapporto d‟amore tra Miriam intessuto attorno a forti emozioni e a conturbanti deliri del cuore appartiene alle pagine più pulsanti della storia della narrativa, in parte dimostrata dal ringraziamentopreghiera del protagonista: “E, potevi fare di te il mio solo amore, folle, implacabile. Devo ringraziarti, per non avermi stregato per davvero? Benedire la tua salute morale… Certo, avresti potuto farmi del male, ma anche farmi gran male, ma anche farmi impazzire di dolorosa, vitale, germinante felicità” (1, ivi, p.251) Fulvio conosce bene i meriti e le capacità di affetto, punto fondamentale di un rapporto invulnerabile, dotata di una millenaria energia e di collaudata resistenza ad ogni attimo di emergenza, “saggia , ironica, equilibrata, dotata di fermezza, abile nel creare gelosie strategiche, priva di fanatismo e di moralismo, la sua cultura antica (quella ebraica del padre), le impediva soluzioni ipocrite di situazioni scabrose con una esile ironia che sdrammatizzava ogni eccesso, né si asteneva di esaltare con naturalezza le simmetriche parti del suo corpo, risplendente della dolcezza del suo viso. Uno degli sferzanti rapporti colpevoli è 75

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

quello con la figlia , somigliante a lui fin dalla nascita, molto attesa e desiderata, dopo la morte prematura dei due precedenti neonati. La ricognizione dei rapporti con la figlia è totale, dall‟attenta cura durante la crescita, agli assalti sensi di colpa al pensiero di non aver riversato sulla piccola creatura, tutto l‟affetto dovuto, come confessa nel racconto “ Il ritorno arbitrario”, in cui il protagonista si identifica con lo scrittore: “La piccola era, osserva l‟autore, assorbita nel vortice dell‟estro musicale ereditato dal nonno, il grande Maestro Vito Levi, stava perdendo anche la somiglianza fisica con me e con i miei, per assumere espressioni di sofferenza paziente, ma non rassegnata, di giocondità spensierata e di dispettosità candida che costringevano i nonni ad ascoltarla, attoniti ,come tre maschere... La mia paffuta Biancaneve che, stesa sul tappeto, tratteneva il respiro al bacio del principe azzurro, non mi ha più dato una carezza, non mi ha preso sottobraccio, non si è seduta sulle mie ginocchia (1, ivi, p.73). È stata la scuola a carpirmi la mia bambina selvatica, sempre tesa a scelte e iniziative autonome, senza preclusioni o pregiudizi, continuerà ad essere se stessa anche nel primo tema, in cui paragonava la faccia del padre ad una scarpa di montagna”. Allora il padre capisce di averla perduta, ma lo scontro definitivo avvenne al momento della scelta del fidanzato, che le contrapposte avversioni ed evidenziano. Alla fine di frequenti attriti, la resistenza passiva della ragazza, indurrà il genitore ad agire con saggezza e ad accettare il matrimonio che determinerà un radicale cambiamento della vita. Dalla proiezione retrospettiva emergono altre figure, tra cui quella della madre rimasta in Istria, custode di quell‟arcaica civiltà contadina, dalla quale anche lo scrittore non è riuscito a liberarsi, in un compromissivo contrasto con quella borghese e urbana della moglie, in cui si è inserito. Dagli eventi di epoche lontane, riemerge l‟uomo scisso tra l‟Istria natale e la Trieste dopo l‟esodo, divisioni non facilmente cancellabili che diventano colpe in un uomo cresciuto riflesso negli specchi della lealtà, della fragile sensibilità, di regole assolute di delicatezza e di innata dolcezza, di un inestirpabile radicamento alla propria terra, che ora sente affievolirsi a poco a poco. Il confronto tra due amori di contrapposta civiltà si conclude con l‟impossibilità di una scelta precisa e il profugo resta sospeso nello spazio neutro di due contrapposte civiltà, dove viene costantemente trafitto dagli strali di tempestose disarmonie dolorose, perché il suo sogno è la totalità di un rapporto pieno, senza equivoci e mezze misure. Incapace di instaurare rapporti completi, stabili e ricchi d‟amore paterno, filiale e coniugale, si consuma nel dramma della colpevolezza senza alcun ancoraggio visibile di salvezza dall‟aggressione di una illimitata disperazione. Figura indelebile è quella della madre, la carsolina Gregoria, energica lavoratrice, salda nelle sue scelte che riscattano le carenze e le 76

SAGGI

defezioni del marito Nando Tomizza, che salva coraggiosamente la famiglia Tomizza, aprendo un negozio di generi alimentari, un centro di raccolta del latte e una cantina per la fornitura del vino in città. Per il suo carattere facile ad infiammarsi, viene rispettata dal nuovo regime titino, pronta a sfidare ogni ipotetico nemico. La sua temerarietà la spinge a difendere il figlio durante un interrogatorio della polizia, sempre dedita a proteggere gli altri dalle angherie del nuovo padrone, al contrario del marito dedito allo sperpero e alla docile sottomissione ad ogni tirannia. Essa riesce ad arginare la labilità dello scrittore, spesso assalito da crisi depressive e morali, che lo trascinano nel gorgo del corteggiamento del suicidio. Donna forte, dolce e innamorata riuscirà a lenire le angosciose conflittualità psichiche, scaturite dal sentimento del seppellimento dei valori della sua civiltà e a sublimarlo nel recupero di una vera dignità, grazie al sostegno, alla comprensione, alla dedizione. e all‟amore delle tre figure femminili della sua vita, che riescono a sollevarlo dal peso dell‟angoscia, dalle delusioni e dagli imperdonabili conflitti interiori che lo avevano totalmente devastato. Tale conclusione incoraggerà lo scrittore a continuare a scrivere e a trivellare se stesso e gli eventi della frontiera con un‟ atroce tensione drammatica per la incrollabile vocazione d‟amore per gli oppressi e i diseredati, che abbandonavano terra amata con la superstite speranza di poter approdare, con le lacrime agli occhi e le inguaribili ferite la nell‟anima, ma con un frammento di inconfessabile sogno di potersi costruire un nuovo destino di libertà e di pace altrove.

77

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Messina vista dagli altri Viaggiatrici italiane e straniere a Messina dal XVIII al XX secolo Felice IRRERA Si può far risalire al XIII secolo la nascita del fortunato genere della letteratura di viaggi, che sarebbe poi proseguito nei secoli successivi. Naturalmente, diversi sono i filoni del genere: si va dalla guida colta modello Touring, al racconto di viaggi presso popoli diversi, ad una letteratura odeporica rievocatrice di paesaggi naturali ormai scomparsi o addirittura essenziale ai fini della conoscenza storica di un Paese, di una regione o di una città. Preziosissime sono infatti le informazioni provenienti dalle impressioni di qualsiasi natura della miriade di viaggiatori che hanno lasciato traccia scritta di sé, tanto più se esse non provengono da professionisti della cultura, ma da semplici curiosi che hanno attraversato i luoghi e la storia con un angolo di visuale che non è quello, spesso di parte, degli osservatori locali. Certo, possono non mancare nei libri di viaggio eccessi o difetti di osservazione, dovuti a quegli sbalzi indotti dal tempo, dal caso, dalla salute, dall‟informazione ed anche, perché no, dalla pazienza; ma rimane la concreta possibilità di cogliere emozioni, di vedere sottolineati elementi ignoti. È ciò che cercheremo di notare, limitando il tema alle donne-viaggiatrici, in queste pagine, suggeriteci dalla lettura di un‟opera veramente meritevole di ogni elogio, quella di Salvo Di Matteo (“Il grande viaggio in Sicilia”, Palermo 2008, Edizioni Arbor, pp. 2.376): è proprio spigolando tra le infinite notizie e utilizzando i riferimenti bibliografici fornitici da questo studioso, che abbiamo isolato le esperienze messinesi di una serie di viaggiatrici di varie nazionalità che si avventurarono nell‟isola, traendone tutta una serie di osservazioni che possono senz‟altro essere utili per meglio comprendere il contesto del tempo. Seguiremo il criterio cronologico, estrapolando le notizie che più ci sembreranno interessanti. È il Settecento che vede svilupparsi il fenomeno di una sempre più cospicua presenza delle donne tra le appassionate dei viaggi: con la narrazione di essi si aprono per la donna inediti spazi che le consentono di uscire dal circuito delle incombenze domestiche e di affermare il proprio diritto all‟indipendenza di giudizio: tante donne diventano così straordinarie autrici di libri di viaggio.

All‟interno del filone degli autori delle tante guide turistiche che allora si scrissero, ma, almeno in parte, lontana dalla tendenza manualistica più spersonalizzante è una scrittrice inglese di guide, Mariana Starke (1762 ca.-

78

SAGGI

1838). Il libro che qui c‟interessa1 e che le fruttò una certa fama fra i contemporanei proprio come autrice di guide turistiche, pur non essendo, in gran parte, frutto di una personale esperienza di viaggio (ella fu veramente in Sicilia nel 1827), riesce, per qualche descrizione e osservazione, a mettere in mostra capacità d‟osservazione e sensibilità. Visitò, per esempio effettivamente Messina, di cui apprezzò la magnifica posizione, la comodità delle case e la possibilità di gradevoli passeggiate nei dintorni.

Ma la città dello Stretto interessò nel passato anche gli studiosi di scienze naturali, che trovavano nel nostro habitat materiale interessantissimo per le loro ricerche: è il caso della francese Jeanne Villepreux (17941871), sposatasi a Messina con l‟inglese James Power, che rimase a lungo in città per ricerche ed esperimenti di biologia marina nello Stretto, di cui resta testimonianza in diverse pubblicazioni scientifiche.

La Power fu autrice di un libro2 fitto di ricordi storici e densa di notizie e Jeanne Villepreux osservazioni derivanti da una conoscenza diretta dei luoghi (che dovette anche essere faticosa e dispendiosa economicamente se solo pensiamo alle condizioni della Sicilia dei primi decenni dell‟Ottocento; e scrisse anche altro3. Ecco come ella descrive Messina: A chi, solcate le acque tirrene, giunge in Sicilia, all‟imboccatura dello stretto, il mare fa sempre sentirsi in fragoroso gorgoglio. Corrono allora alla mente le favole di Scilla e di Cariddi, e tutte le meraviglie inventate da‟ poeti, come per adombrare le ignote cagioni di terribili memorandi fenomeni. Introducendosi indi il legno nel Mare Jonio, ove in più largo braccio si distendono le rive, quivi si succedono ridenti scene di apriche colline e di piagge dolcemente digradanti, e coverte di biade, di vigneti, di giardini e di ulivi, finché alla fine e entro il suo seno l‟accoglie il magnifico porto di Messina. Attraversando il canale, resta il viaggiatore sorpreso dal meraviglioso fenomeno de‟ fili reflui, i quali hanno luogo quattro volte in 24 ore, cioè a mezzanotte, all‟alba, al mezzodì ed al tramontar del sole. Rare volte s‟osserva l‟altro della Fata Morgana, che 1

Travels in Europe betwen the Years 1824 and 1828, adapted to the Use of Travellers and comprising an Historical Account of Sicily, with a Guide for Strangers in that Island, Londra e Livorno, 1828.

2 Guida per la Sicilia, Napoli, 1842.

3 Itinerario della Sicilia riguardante tutt‟i rami di storia naturale e parecchi di antichità che essa contiene, Messina, 1839.

79

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

corrisponde a quello detto terre di nebbia, o terre di brume dai naturalisti: si avverte in alto mare, e spesso inganna i più celebri navigatori, come avvenne a‟ signori La Perouse e Cook nei viaggi di America per l‟Oceano del sud. Esso consiste in presentare a chi si trova nel mare, guardando le rive della Calabria e della Sicilia, non già le rive, ma una scena in mezzo al mare di fabbricati, di monti, di pianure, di villaggi in un modo aggradevole e sorprendente. Suole avvenire nell‟estate in tempo di calma e di venti, e giunge a tal segno alle volte, che il mare interamente sparisce, e tutto il canale viene occupato da un prestigio ottico di città, di paesi, di campi e di uomini, che vi trascorrono. Un braccio proteso di prima formazione, quasi rotondo, chiude vagamente il bacino del porto. Esso braccio sormontato viene a sinistra da una Cittadella, fortezza di figura pentagona, costruita dopo il 1680 sul disegno dell‟architetto tedesco Carlo Norimberg; ed inoltre da un Lazzaretto, da un faro, o Lanterna, e per ultimo da un Forte semicircolare detto il Salvatore. Questo braccio, che offre un‟imboccatura al nord-est solamente, costituisce il porto di Messina, ch‟è uno dei più belli del mondo. A destra di esso braccio nell‟entrare, una specie di sinuoso teatro marittimo, o sia una serie di edifici d‟uniforme architettura, si spiega dinanzi allo sguardo. Questo fabbricato è meraviglioso per la sua vastità, dilungandosi più di un miglio: onde si annoverava una volta fra le maraviglie del mondo prima di essere stato distrutto da‟ tremuoti del 1783. Dopo quell‟epoca è stato rifabbricato, ma rimane in parte incompiuto. Viene fiancheggiato a settentrione da un Forte detto di Porta Reale, e a mezzodì dal Porto Franco, fabbricato sugli avanzi dell‟antico palagio reale, che incominciato con sovrana magnificenza dal viceré D. Garzia di Toledo, non venne condotto a fine. A questo sì nobile ed incantevol teatro fa corona una catena di ridenti colline, che ad esso ed alla città interposta pittorescamente sovrastano4.

Ma non tutte le viaggiatrici erano disposte ad affrontare le fatiche e i disagi di un tour scomodo e spesso insidioso lungo ostici itinerari. Così non fu, per esempio, per una nobildonna napoletana, la principessa di Sant‟Elia Giulia Carafa (17931871), che limitò il suo viaggio alla parte orientale dell‟isola, procedendo soprattutto per mare su vapori di linea e percorrendo via terra solo la tratta Messina-Siracusa, ritenuta interessante dal punto di vista paesaggistico: i moduli narrativi da lei utilizzati nel proprio libro5 sono diaristici e canonizzati. Giunta a Palermo da Napoli il 19 febbraio 1844 e imbarcatasi già il giorno dopo per Messina, così scrive di questa città: Arrivai alla ridente Messina, che mi riempì di piacere per le strade, che vi ho trovate spaziose e pulite; essa ha un forte castello, il porto è sorprendente,

4

J. Power, Guida per la Sicilia (rist. anastat. a cura di Michela D‟Angelo), Messina, 1995.

L‟opera in cui narra questa esperienza reca il titolo di Quattro mesi di diporto per l‟Italia, la Francia e l‟Inghilterra, Messina, 1844. In verità, solo poche pagine vi sono dedicate alla Sicilia.

5

80

SAGGI

incantevole la veduta della città, e quel che più desta dell‟ammirazione si è il distinguere con un buon cannocchiale le persone dell‟opposta Calabria.

Prima di raggiungere in diligenza prima Catania e poi Siracusa e di imbarcarsi per Malta, ella salì a Taormina, ammirandone il magnifico teatro.

Prima donna inglese a disporre della patente di Capitano, Emily Lowe, attraversò addirittura il Mediterraneo al comando di uno yacht e viaggiò moltissimo. Il testo da lei elaborato6, relativo al viaggio compiuto, alcuni anni dopo la metà dell‟Ottocento, assieme alla madre, Helen Hill-Lowe, anch‟ella scrittrice, uscito anonimo, è stato in parte tradotto e pubblicato7. L‟opera appare abbastanza superficiale quanto alle descrizioni, mentre sono interessanti le impressioni e le sensazioni della viaggiatrice, gli aneddoti e le curiosità.

Emily Lowe Occorre senz‟altro sottolineare l‟eccezionalità per quei tempi del fatto che due donne viaggiassero da sole in regioni come la Calabria e la Sicilia, regioni prive allora di sicurezza e di comodità e con strade in condizioni disastrose. Giunte in Sicilia nel settembre 1857 e visitata Palermo e molte altre località della Sicilia, compiuta la tradizionale ascensione all‟Etna, giunsero anche a Messina e su di essa la Lowe lasciò diverse annotazioni8: L‟ira di Cariddi era stata scatenata da due terremoti, deboli residui dell‟ultima scossa in Calabria, a sua volta innocua erede di quella che provocò grandi distruzioni centinaia di anni prima. Quest‟ultima squarciò le due coste, seppellì gli abitanti sotto le loro case e fece sussultare le acque spingendo una grande onda dai fianchi lacerati della Sicilia verso la costa calabra, dove spazzò migliaia di esseri umani che erano stati risparmiati dalle montagne, dalle rocce, dai castelli che crollavano. Questa terribile piaga del terremoto ancora minaccia Messina, una città incantevole, fondata da Orione e un tempo chiamata Zancle, dalla falce che cadde dalle mani di Cerere e diede alla sua costa un profilo curvo; su di essa sorge una mezzaluna di abitazioni d‟avorio, così brillanti che perfino le acque blu scuro ne riflettono il bianco luminoso. Dietro la città le 6

Unprotected Females in Sicily, Calabria and the Top of Mount Aetna, Londra-New York, 1859.

Due viaggiatrici “indifese” in Sicilia e sull‟Etna. Diario di due Ladies vittoriane (a cura di Stefania Arcara), La Spezia, 2002.

8 Ibidem.

7

81

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

rigide alture dell‟Antennamare, o Monte dell‟Aquila, si ammorbidiscono levandosi verso il cielo. Quella montagna è una zona pericolosa: infatti due nostri compatrioti rischiarono di essere rapinati da alcuni contadini che essi avevano scambiato per guide. Al vecchio forte spagnolo si sale per una via più sicura e da lì si gode una vista meravigliosa, sebbene l‟Etna sia in effetti nascosta dalle colline più vicine. L‟interno di Messina, per essere quello di una città siciliana, pulito e ben fatto; il colera, infatti, ha dato agli abitanti una dura lezione sui rischi delle pessime condizioni igieniche in cui vivevano prima. La Strada Ferdinando corre spaziosa attraverso il centro, dove si trovano il teatro e altre costruzioni pubbliche. A metà strada vi è una nuova statua di marmo del re attuale: sul piedistallo dove è collocata se ne trovava un‟altra uguale che fu divelta dai messinesi durante l‟ultima rivoluzione quando - poveretti! - essi combatterono così duramente per sbarazzarsi del re in persona. Fortunatamente il selciato di lava era asciutto, infatti era disseminato di indumenti vistosi, fazzoletti ben piegati e innumerevoli bagatelle, pronte per essere comprate come regali di Natale. Le altre strade erano di uno stile molto simile, su scala più piccola, e sembravano piuttosto nuove; raramente un edificio era alto più di due piani, per il pericolo che venisse abbattuto da una scossa in qualsiasi momento.

Il Victoria, un buon albergo dotato di caminetti e table d‟hôte, è gestito da tedeschi (ve ne sono molti che si spostano per commercio tra le città costiere dell‟isola). Si trova sulla Marina, il quartiere occidentale di Messina, dove sono situati i palazzi dei mercanti ricchi, con vista sul mare. Un giorno, dopo cena, due signori messinesi si ritirarono per combattere a duello a proposito di qualcosa di cui avevano discusso durante il pasto. Sebbene ci trovassimo in una città tanto dedita al commercio, fu molto difficile cambiare in contanti 10 lire di assegni bancari: andammo da un mercante inglese all‟altro fino a che l‟impresa si rivelò disperata, ma alla fine ci imbattemmo in un filone di oro puro: conoscemmo infatti un signore e sua moglie, i quali (evento raro tra gli inglesi) si comportarono affabilmente senza alcuna lettera di presentazione. A dire il vero, le nostre amicizie preferite sono sempre nate in questo modo, grazie soltanto alla simpatia reciproca; ed io penso che si può verificare il grado di buona educazione di una persona dal modo in cui si comporta con un estraneo, quando non sa ancora nulla sul suo conto. Mr. e Mrs. S. si erano stabiliti a Messina, dove il padre di lui aveva fatto fortuna con il commercio della seta.

Fummo invitate a passare il giorno di Natale, dopo la funzione ecclesiastica inglese, presso la loro villa a cinque chilometri dalla città, che era ritenuta un modello di architettura inglese dalla gente del luogo: essa infatti non era costruita sopra le stalle e aveva i vetri a tutte le finestre. Essi si ostinavano a definire Inglese il giardino a terrazze, dato che gli aranci venivano lasciati crescere liberamente in modo da dare un po‟ di ombra: il 25 dicembre, sedute sotto questi alberi, disegnammo Scilla e Cariddi e succhiammo limoni dolci, poi raccogliemmo mirto e gerani e da un momento all‟altro ci aspettavamo che da un portico spuntassero Olivia e il suo paggio, o che uscisse Malvolio in giarrettiera per mettersi al sole, tanto la scena assomigliava a quella de La 82

SAGGI

dodicesima notte. In serata fummo ospitate nel palco dei nostri amici, al teatro Santa Elisabetta, un sontuoso edificio completato sotto gli auspici del precedente Intendente, o governatore civile della città; questi aveva sposato la sorella di Mrs. S., dopo averle solennemente promesso di comportarsi da perfetto inglese e di sedere quattro ore al giorno davanti al caminetto per provare la sua sincerità: il che, per un siciliano, equivale a passare attraverso una fornace infuocata.

L‟opera era Marco Visconti, di Petrella, un compositore napoletano moderno, che non usa molto il canto; la storia era tratta da un famoso romanzo dallo stesso titolo, di Grossi, un altro moderno. Quest‟ultimo, oltre ad essere un eccellente scrittore, è anche un poeta molto raffinato, come dimostra la sua Pellegrina Rondinella, che i siciliani recitano e canticchiano in continuazione: le sue opere potrebbero essere più conosciute in Inghilterra e collocate accanto ai Promessi Sposi la cui ambientazione, il lago di Como, è vicina a quella del Marco Visconti. Questo autore è in esilio, naturalmente. L‟esecuzione musicale restò al di sotto della mediocrità, come in tutti i grandi teatri che gli italiani non possono permettersi di sostenere dignitosamente; ma ogni rumore, finché non è troppo forte, è buono come accompagnamento al ronzio delle voci degli spettatori, impegnati per tutto il tempo a farsi visita l‟un l‟altro: vengono ogni sera, solo pei questo scopo, e usano i loro palchi all‟opera come salotti dal momento che a casa non si trovano mai in condizioni presentabili per ricevere qualcuno. Una donna sposata famosa per la sua bellezza sedeva regolarmente con le spalle alla rappresentazione e teneva testa per tutto il tempo a un ristretto pubblico di gentiluomini, girandosi a guardare solo una volta verso la scena quando ebbe luogo un‟esplosione. La passione per l‟abbigliamento che nutrono i messinesi quando sono in pubblico è davvero grande, anche tra la classe dei negozianti che io non ho mai visto tanto raffinata in nessun paese. La passeggiata nella Flora quando la banda suona la domenica è davvero troppo per una povera viaggiatrice trasandata. Il miscuglio di colori è atroce: il preferito è l‟arancione, che starebbe molto bene con il nero lucente delle capigliature se non fosse accostato ad un vestito lungo di colore rosa chiaro e a una mantella di velluto cremisi che sembrava quella di un pagliaccio. I bambini offrivano uno spettacolo patetico, vittime infelici del cattivo gusto, buoni soltanto ad essere i figli di Arlecchino e Colombina. Per esercitare un tale fascino alcune signore della ricca classe dei mercanti spendono fino a 1.000 lire l‟anno. La nobiltà è povera, ad eccezione di una o due famiglie; i gentiluomini sottoscrivono sei tarì al mese per il Casino, dove si riuniscono la sera, e due tarì per il barbiere che li rade al mattino. La maggior parte dei messinesi portano “Letterio” (al femminile “Letteria”) come nome di battesimo. La parola deriva dalla “Lettera” che la Madonna ha personalmente indirizzato loro, promettendo di prenderli sotto la sua protezione per sempre. Scritta su carta ordinaria con inchiostro comune, è conservata nella Cattedrale ed esposta in pubblico una volta l‟anno come la reliquia principale. Generalmente se ne porta una copia vicino al cuore; me ne sono procurata una, che trascrivo (la Madonna usava il 83

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

latino per la sua corrispondenza) […] gentilmente tradotta per me in questo modo: “MARIA VERGINE, figlia di Gioacchino, umilissima serva di Dio, madre di Gesù crocifisso, della tribù di Giuda, della stirpe di Davide, salute a tutti i messinesi e benedizione di Dio Padre Onnipotente.

Ci consta per pubblico strumento che voi tutti con fede grande avete a noi spedito Legati e Ambasciatori, confessando che il Nostro Figlio generato da Dio sia Dio e Uomo e che dopo la sua Resurrezione salì al Cielo: avendo voi conosciuta la via della verità per mezzo della predicazione di Paolo apostolo Eletto. Per la qual cosa benediciamo voi e l‟istessa città della quale vogliamo essere perpetua Protettrice.

Da Gerusalemme l‟anno 42 di Nostro Figlio. Indizione I., III. None del 26 Giugno, quinta Domenica. Maria Vergine, qui presente, conferma questo documento con la propria mano”.

Quando ricevettero questo documento i messinesi furono così felici che escogitarono una festa del tutto originale, da allora ripetuta ogni anno. Nel mese di agosto, una costruzione, chiamata la Bara, viene trasportata lungo le strade per tre giorni consecutivi. In cima… sta il Creatore, rappresentato da un giovane, che sulla mano aperta porta una bambina, cioè la Madonna. Al di sotto c‟è un sole mostruoso, dai cui raggi pendono miriadi di infanti alati che girano intorno lentamente. Sotto siedono i Santi: il tutto è tirato da cavalli bardati a festa e accompagnato dal clero. In mezzo ad esso una volta stava un cammello con in groppa un buffone con cappello a sonagli, il quale si impadroniva di qualunque cosa riuscisse ad afferrare e, passando tra la folla, diceva in faccia alle persone i loro difetti; siccome, però, aveva recato offesa mortale a qualcuno le cui colpe avrebbe dovuto tacere, questa parte della - non so come chiamarla è stata abolita. Questo “spettacolo” è il momento di festa per tutto il circondario: i contadini lasciano le loro fattorie e i principi i loro casini, pur di trovarsi per un momento sotto l‟ombra benedetta della Bara. Per molti secoli tutti i bambini sospesi erano vivi: spesso venivano trovati morti dopo avere ruotato per un giorno intero e pertanto la loro morte era considerata un sacrificio religioso. Oggi i genitori sono propensi ad opporsi all‟immolazione e i bambini che dovrebbero stare all‟estremità dei raggi del sole sono stati sostituiti da immagini; gli altri, sebbene vivi, sono sostenuti da una struttura di ferro collocata su sostegni che si susseguono uno sopra l‟altro, così che essi girano senza finire sottosopra. La statua della Madonna della Lettera sta nella Matrice, o chiesa madre, in mezzo ad alcune antiche colonne del tempio di Nettuno.

Vedemmo una vecchia carrozza di dimensioni gigantesche, scortata da servitori vestiti all‟antica: vi entrò un numero spropositato di signori in costume da gala spagnolo. Ci fu detto che si trattava della carrozza del Senato (certamente grande abbastanza per contenere l‟intera assemblea) che si stava allora dirigendo alla cerimonia che si svolge ogni sabato all‟Ave Maria, cioè lo svelamento della statua della Madonna. Questo momento fu scelto per dare il via all‟ultima rivoluzione,quando i soldati fecero fuoco con i loro moschetti e 84

SAGGI

l‟invocazione “Viva Maria!” fu il loro grido di battaglia per tutta la durata della guerra. Poveretti, la loro lotta disperata avrebbe avuto un esito positivo, se non fosse stato per le truppe napoletane che tenevano il forte e lanciavano granate in continuazione sui loro fratelli siciliani; perciò da allora l‟odio tra di loro si è accresciuto e Re Bomba siede tanto più sicuro sul suo trono perché non deve temere che le sue vittime unendosi acquistino forza. I messinesi e i catanesi parlano anche con molta amarezza degli inglesi e, al minimo cenno di simpatia che il nostro governo mostra verso di loro, chiedono con ironia: “Dov‟è la costituzione che ci fu garantita dopo la vostra occupazione dell‟isola nel 1812, condizione espressa nel vostro trattato per aiutare il Re? Non potete o non volete mantenere la vostra parola? In ogni caso, Gran Bretagna, hai fatto una figura miserabile. Gli splendidi discorsi, o meglio le chiacchiere su di noi in Parlamento, suscitando false speranze di aiuto, ci hanno spinto a fare soltanto cose sciocche, mentre due delle vostre navi da guerra sono venute ad impedire ai catanesi, che volevano solo difendersi, di fare fuoco sulle truppe napoletane che sbarcavano! Se aveste avuto un interesse reale nella questione, a parte l‟onore, sarebbe bastato un «coltello al sole» per destare l‟interesse di tutta la vostra nazione”. A questi discorsi restammo a bocca chiusa, poiché uno dei nostri statisti faceva da capro espiatorio. Il suo nome una volta pieno di fascino gode adesso di scarso credito ed è quasi sinonimo di “imbroglione”. Dopo aver sentito queste cose espresse tanto seriamente, una circostanza davvero ridicola ce le provò in modo tangibile: un viaggiatore di commercio che aveva un certo numero di campioni di abbigliamento, in particolare colletti di camicia, con quel nome una volta potente stampato sopra, lamentava la caduta di prezzo che ultimamente la sua merce aveva sofferto! Durante la rivoluzione a Messina, gli inglesi si ritirarono a bordo delle navi di Sua Maestà mandate lì per proteggerli, dove gli ufficiali colsero l‟opportunità per organizzare una serie di feste da ballo chiaramente visibili, di fronte, a chi era rimasto sulla terra ferma accampato nel mezzo di una carneficina rossa di sangue. I nostri amici invece si attardarono sulla spiaggia dopo che fu aperto il fuoco. Ci mostrarono i terribili effetti delle bombe lanciate dai napoletani sulla città: una di esse ancora la conservano in frammenti, dato che ha demolito un balcone ed è entrata attraverso il tetto del loro soggiorno, mandandolo in frantumi sulle loro teste. Un forte si erge su una striscia di roccia che chiude il golfo formando il porto di Messina. Tra due dei punti più muniti del forte si stende una soffice riva erbosa: si tratta del cimitero protestante. Per godere la vista delle bellezze della città e dello stretto si può salire alla terrazza di San Gregorio che le domina e dalla quale, dicono, Goethe scrisse la poesia sul profumo del sud: “Conosci la terra dove fioriscono gli alberi di limone?” […]. Gli innumerevoli aranci folti e carichi di frutti che proiettano la loro ombra sui tetti orientali - tra i quali una palma slanciata spunta qua e là - sembrano rispondere: “Eccola, la terra del sole!”. La chiesa è bizzarra come una moschea, molto colorata e con pinnacoli a spirale; essa sembra ridere dispettosa della sua vicina, la vecchia e severa torre di Mattagriffone, costruita dal nostro Riccardo Cuor di Leone, che si erge 85

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

accigliata in stile normanno. In questa zona un buon soggetto per uno schizzo è il monastero dei Cappuccini, che sembra collocato apposta sopra un„altura vicina, con scuri cipressi che spuntano dietro le arcate dell‟edificio e di fronte ad esso il monumento alle vittime dell‟ultima peste, in mezzo a un folto prato.

Mentre salivamo verso questa chiesa, passammo davanti a uno dei mille conventi e ci divertimmo a vedere una suora avvenente che, attraverso le sbarre, era impegnata in una vivace conversazione con un giovane. L‟amico che ci accompagnava disse che le fughe d‟amore con belle suore non erano rare e ci portò ad esempio la storia romantica del figlio di un ricco mercante che, ammaliato da una ragazza graziosa e senza dote, fu spedito lontano in Russia, sua terra natale, mentre lei fu costretta a vestire i panni della novizia. Dopo sei mesi egli riuscì a tornare a casa attraversando l‟Europa e apparve sotto la finestra della cella di lei. Nessuno sa come la fanciulla fuggì […]: scapparono e si sposarono. Il racconto dovrebbe fermarsi qui, ma per amor di verità bisogna dire che in pochi anni il loro amore si tramutò in odio: adesso lei si è rinchiusa volontariamente tra le mura del suo convento, desiderando la pace. Come in tutte le altre città italiane, anche a Messina è impossibile gironzolare a piedi per i dintorni: come al solito, gli alti muri delle ville racchiudono per chilometri gli stretti sentieri e una signora li deve percorrere in carrozza. La spiaggia che si stende oltre il molo rappresenta una vera e propria tentazione per fare una passeggiata. Confondendoci con un gregge di capre condotte ad assaggiare l‟acqua salata, ci godemmo il piacere quasi dimenticato di raccogliere conchiglie e di essere spruzzate dalle onde. Guardavamo entrambe le coste non sapendo quale ammirare di più - la Calabria dalle cime innevate, e sotto di esse un tocco di rosso scuro e di blu; la Sicilia con i vapori dell‟arcobaleno tra i suoi mille picchi - e cercavamo di scorgere le ali dell‟avvoltoio che girava tra le rocce aguzze: a poco a poco le sue ali cominciarono a battere sempre più in basso e vedemmo la sua orrenda cresta rossa mentre un orribile lezzo pervase l‟aria… a pochi passi giacevano due cavalli scuoiati! Qui, su questa costa d‟Arcadia, è stato scelto il punto per gettare via gli animali morti e dalle allegre carrozze in gita si possono vedere altri cadaveri che le onde offese rifiutano di ricevere. O italiani! Perché siete una razza così sudicia…? La vostra dignità, il vostro senso morale, non sono mai feriti da questa e da altre scene odiose? Con tutta la vostra sensibilità per la bellezza, come potete guastare - che dico, oltraggiare - il muto spettacolo della Natura in questo modo...? Alla Marina, o Molo, di Messina regna sempre uno stato di agitazione, e ancor di più alle prime luci dell‟alba, quando si vende il pesce: mille porci che grugniscono insieme ad asini raglianti non potrebbero produrre un rumore così terribile e lacerante.

Attraverso le finestre e le imposte chiuse quasi fece impazzire perfino noi, che negli ultimi due mesi ci eravamo abituate ad una atmosfera colma di ogni genere di urla: questo ci fece riflettere su come dev‟essere la gente quando è davvero esaltata, per esempio durante una rivoluzione in cui si invoca la carne al posto del pesce. Un mostro simile a uno squalo, chiamato spaletta, viene tagliato con l‟accetta e venduto a fette che, una volta cotte, assomigliano molto a bistecche di 86

SAGGI

manzo; è squisito anche un lungo pesce sottile, simile all‟anguilla, con il naso a punta e la lisca verde. In estate il pesce spada rappresenta quasi l‟unica rendita per gli abitanti: uno dei loro svaghi consiste nel guardare dalla baia come vengono arpionali dai pescatori. Il giorno di Natale alla solita ressa si aggiungevano venditori di ogni genere di terraglia: un uomo vendeva all‟asta centocinquanta teiere Wedgewood; un altro tentava disperatamente di sbarazzarsi di quaranta gigantesche giare che dovevano aver contenuto i ladri di Morgana; un terzo blocco consisteva di due padelle per friggere e di un elegante vaso con fiori di carta. In mezzo a questi rispettabili commercianti all‟ingrosso si trovavano ragazzi che vendevano frutta secca infilata su lunghi bastoncini.

L‟orribile brulicare di tutto l‟assembramento meravigliava due volte, tenuto conto che essi non erano andati a letto per tutta la notte: poiché, proprio al contrario dell‟intima consuetudine inglese, la notte di Natale viene trascorsa passeggiando per le strade, con le case tutte illuminate in onore della processione del “Bambino”. Questa comincia a mezzanotte ed è composta dal clero, dalle istituzioni municipali, dalle confraternite e dalle società religiose, da bande militari e da chierichetti con l‟elmetto: tutti cantano e portano ceri, e sono seguiti lungo il percorso da ragazzi addetti a raccogliere la cera che cola; infine, sotto uno sfarzoso baldacchino, appare una minuscola bambola anch‟essa di cera tenuta in braccio da un prete. Ci sedemmo su un balcone tutta la notte come gli altri, guardando lo spettacolo, la folla che passava e i montanari o Ceramedde che vengono a suonare la zampogna per il loro caro bambino, dopo aver già suonato di fronte ad ogni immagine di sua madre, la Vergine, durante i nove giorni precedenti. La casa dell‟Intendente offrì un magnifico spettacolo di luci che diventavano blu, rosse, arancioni e verdi in successione; vennero sparati fuochi d‟artificio e botti per le strade, poi l‟alba ci spedì tutti a letto e fummo fortunate a non saltare in aria nel bel mezzo di un sogno a causa di un‟esplosione come era successo a Catania. Le signore deboli di nervi dovrebbero evitare i nove giorni precedenti al Natale in Sicilia: esse si sentirebbero davvero “scosse” tra le zampogne dei contadini (mille volte più delicate di quelle scozzesi ma pur sempre terribilmente acute) e i continui fuochi d‟artificio, con razzi e petardi che esplodono se per caso vengono calpestati. Né consiglio loro di seguirci in Calabria. Al più lieve accenno alla nostra intenzione di recarci lì, gli abitanti rispondono con una serie di lamenti, commiserandoci perché siamo state colte da questa follia. Vedremo, tuttavia, se quella terra, come un certo personaggio, è nera come la si dipinge... Alcuni gentili amici, tra i tanti che ci eravamo fatti, ci portarono dei pacchetti di tè per consolarci, con spirito davvero inglese: uno di essi venne con un barattolo in ogni tasca. Ne avevamo già ricevuto un altro da una graziosa ragazza, sua nipote, che ci aveva affascinato con la sua musica per tutta la sera precedente a casa degli zii. I mercanti educano le figlie in tutto e per tutto alla maniera inglese e non sono entusiasti che esse frequentino compagnie siciliane, il che non depone a favore della gente del luogo, dato che in questo caso non lo fanno per pregiudizio: e infatti se si paragonano le case della nobiltà […], le loro nude pareti sporche e 87

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

la servitù stracciona, ignorante e brutale, allo stile elegante e pulito delle residenze e al comportamento indipendente degli inglesi stabiliti a Messina, si può capire perché non esista intimità tra di loro. Essi hanno anche introdotto dei veri caminetti di Newcastle per tenere a bada le raffiche di vento che giungono attraverso lo stretto dalla fredda Calabria. Ci volle del coraggio per separarsi da questo gruppetto di amici e per avventurarsi nelle terre sconosciute il cui ingresso si trovava tra Scilla e Cariddi. Il nostro primo conoscente, Mr. S., che si era comportato come un vero principe orientale, ci fece imbarcare sul brigantino che ci avrebbe portato sull‟altra sponda e che quasi affondava sotto il peso dei suoi regali. La sua bella moglie e la figlia ci salutarono agitando le mani…e addio Sicilia! Isola che possiede tutto, e non gode di niente; dove dal corno dell‟Abbondanza sgorga lo squallore su una terra che, sotto gli attuali governanti, è un gioiello d‟oro sul grugno di un porco.

Nell‟agosto del 1871, fu la scrittrice russa Ol’ga Izmailovna Sreznevskaja ad effettuare a Taormina un breve viaggio, assieme al padre infermo, nel tentativo di far trarre giovamento a quest‟ultimo dal clima e in effetti quel riposante soggiorno, al quale spesso fu legato l‟interesse per l‟isola nel XIX secolo, ebbe effetti positivi9.

Pochi anni dopo, nel dicembre 1879, giungeva in treno in Sicilia, in compagnia di una cameriera tedesca, l‟inglese Frances Elliot Dickinson (1820-1898), che dieci anni prima si era trasferita a Roma, dove aveva iniziato un‟attività di scrittrice che le procurò notorietà e relazioni con molti famosi letterati10. Rimase nell‟isola, di cui subì il fascino, circa un anno e mezzo, in treno e in carrozza, tra mille disagi, allontanandosene nel marzo del 1881. Di lei leggiamo di seguito un brano che riguarda Messina, città dove ella fece la prima tappa prima di recarsi a Catania, Palermo, Agrigento e in altre località: Odio come un gatto la sola vista dell'acqua, ma in questa occasione domino la mia repulsione e rimango sul ponte, perché dinnanzi a me sorge Messina. Un viale maestoso di candidi palazzi si innalza dalle onde, interrotto dalle linee dei moli bianchi come la neve e da ampie fughe di scalinate. Nobili porticati e archi a lunga campata, fontane, statue e balaustre, ville amene e graziosi padiglioni fanno capolino come fiori sgargianti sulle colline, mentre una schiera nereggiante di alberi di navi si erge nel porto spazioso, circondato dalle basse banchine del molo che lo cinge a forma di falce: l'arsenale, il lazzaretto e la cittadella sono entro il semicerchio il cui stretto imbocco è guardato e sorvegliato dal Castello di S. Salvatore. Mi sembra di poterlo toccare con un dito. L‟Etna è là, alla mia destra, torreggiante nel magnifico panorama di 9

Il resoconto di quell‟esperienza è affidato al suo Tri dnja v Taormine. Iz putevyc nabljudeni (Tre giorni a Taormina. Dalle osservazioni di viaggio), in “Russkj Vestnik”, 1876, n. 2.

10 Tra i suoi scritti, Pictures of Old Rome, 1872; The Italians, 1875; Diary of an Idle Woman in Spain, 1884; Diary of an Idle Woman in Constantinople, 1892.

88

SAGGI

montagne. Alla mia sinistra, in basso, stanno il Faro e il capo Peloro che segna la minima ampiezza dello Stretto, con l'oceano senza confini, e un mondo di scogliere rossastre, di colline, di gole e vallate alle spalle: gli Appennini Calabri. Come sei bella Messina, protesa col viso puro e candido, con gli armoniosi drappeggi delle tue montagne attorno ai fianchi, lo Stretto azzurro che luccica davanti a te recando ai tuoi piedi i tesori del mondo, in atto di fedeltà.

Bellissima, ma falsa e volubile e vile in tutta la tua storia; una vittima pronta a ogni invasione, una preda facile, sempre disposta ad allearsi col più forte!

Quando Crono, padre di Demetra, regnava in Sicilia lasciò cadere la sua falce giù nelle acque, dall‟alto della sua casa sui Peloritani, e ti chiamò Zancle! Da quel momento la tua baia prese la forma curva che ha ancora oggi. Più tardi venne Orione, un robusto cacciatore che veniva da Oriente. Gigantesco, audace, simile a Nimrod il fenicio abitava come Crono sulle cime delle montagne.

Orione, architetto oltre che cacciatore, costruì e rafforzò le tue mura e fortificò il tuo porto a forma di falce. Questa è la tua antica origine, regale Messina; ma la tua bellezza richiede protettori. Così, dopo aver piegato il collo d'alabastro ai saraceni, rifiuti il loro dominio, che dura troppo a lungo per i tuoi gusti. Stanca di saraceni, di arabi e di mori, tutti della stessa risma, alzi la testa al di là delle cime delle montagne ed inviti ad entrare una nuova razza, i Normanni. Con i loro capelli castani, la pelle chiara e gli occhi azzurri, i Normanni incarnano un ideale romantico di uomo. Coraggiosi ed audaci, con un innato senso della giustizia, dell'onore e della clemenza, in ognuno di essi si cela un bucaniere, pronto al saccheggio. Nell'insieme, una banda di giovani cavalieri un po' faciloni e avventati, che non distinguevano bene tra il mio e il tuo, ma dotati di autorevoli attestati del buon lavoro svolto: prima come pirati in Francia, poi come rapinatori in Apulia, più tardi mercenari a Salerno, Capua e Napoli, ed ora, con un colpo di fortuna, dominatori delle due Calabrie e degli Abbruzzi. A dire la verità, Messina, sei stata mostruosamente ingrata. Ti avevano trattato bene i Saraceni, gente dal parlare fiorito, dalle maniere gentili, dalle abitudini raffinate, con le loro leggi e le arti e le scienze, assai più civile dei Normanni. Fu davvero un colpo basso quello di mandare a chiamare in segreto quei giovani uomini del nord abituati a scorrazzare: briganti, ma con un alone romantico attorno al loro famoso nome gallico di Hauteville. Che vuole? Così tradisce Messina. Porge con gioia il suo benvenuto al nuovo padrone - padrone e amante - perché Ruggiero, appena conquistata la città, dichiara che l'ama e la terrà con sé per sempre, perché per sempre sia sua e dei suoi discendenti! Il tempo passa, i Normanni seguono il destino delle cose terrene: prima Tancredi e poi Guglielmo e Federico II e ultimo Manfredi, fino al fatale ponte di Benevento. Invece delle loro facce chiare, dei loro corpi ben fatti, dei capelli al vento e delle armi sempre pronte a mostrare il valore cavalleresco, ecco arrivare dalla Provenza, bruno e smilzo, Carlo d'Anjou dalle gote scavate. Carlo è il fratello di San Luigi, re di Francia, e non è per niente santo, è piuttosto un uomo di acciaio con il cuore di bronzo, avaro, crudele, vendicatore, pronto a distruggere, come per una maledizione, tutto ciò che calpesta. Come Carlo schiacciò la Sicilia con un 89

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

tallone di ferro e in particolare come calpestò te, voluttuosa regina, sdraiata sul tuo trono di spiagge dorate, sarebbe troppo lungo da raccontare. Una volta, una volta soltanto, ti sei difesa. Proprio contro questo terribile nemico, e hai saputo farlo bene. Persino le tue donne salirono sulle mura a difenderti. Respinto Carlo, eccoti ricadere nel tuo atteggiamento di sensuale beltà, sotto il sole del sud, che da te sta di casa, pronta a ricevere un padrone spagnolo, Pietro d'Aragona.

Messina, o bella signora!, mentre ti guardo dal ponte del vapore dei Florio sei più affascinante che mai. Gli anni non hanno appassito il tuo viso aperto né la lunga servitù ha insudiciato i colori incantevoli che ti designano bella fra tutte le città. Eppure ci sono i segni delle conquiste sulla tua fronte spaziosa, e rughe sull'intonaco delle tue mura: come un mosaico composto da Fenici, Cartaginesi, Romani, saraceni, Normanni, esse si innalzano nere sulle tue colline.

L'imperatore Carlo V, uno dei tuoi tanti padroni, le rinforzò dalle fondamenta. E fra quelle torri Rocca Guelfonia, mezza cartaginese e mezza romana (possiamo chiamarla un neo sulla tua guancia in fiore), attira la mia attenzione mentre entriamo in porto. Anche il bastione Vittoria, grossa escrescenza nella roccia, segna una brutta cicatrice sulla tua gola di marmo, a ricordare la ferita che ti inflisse il tuo fiero nemico Carlo d'Anjou durante l'assedio; e mezzo miglio più lontano, tra i giardini di aranci e vigneti a spalliera, intravedo il bastione di Don Blasco, un governatore spagnolo che morì qui, lasciando la sua impronta. Monte Grifone, un'altra fortezza, ricorda Riccardo Cuor di Leone. Il Castello Gonzaga su un picco boscoso è un altro souvenir degli spagnoli, un altro anello della catena. Spagnola è anche la cittadella di San Salvatore, giù al porto, un feroce congegno intagliato nella più dura roccia, per tenerti prigioniera, tu, la più bella delle città vassallo! Ma si sappia, maliosa regina, che i tuoi trucchi e artifici per sedurre uomini e nazioni continuarono a lungo! La tua ultima vittima designata era il pomposo, imparruccato, vecchio Luigi XIV. Come hai fatto ad affascinarlo in vecchiaia? Nonostante i terremoti e la pestilenza (io credo che i terremoti ti abbiano aiutato a mantenerti sempre giovane poiché ti sei rinnovata dopo ogni distruzione) osasti chiamare alle tue spiagge il Grande Re, per aiutarti contro Napoli, e ti preparasti ad incontrarlo agghindando i tuoi palazzi e sfoggiando il più dolce sorriso. Ma, sia che Luigi avesse troppo da fare con le guerre di successione spagnola o con l'editto di Nantes o con i gesuiti o con Madame de Maintenon, venale e tentatrice Messina, certo è che egli non venne giù. Così, hai dovuto sorbirti i tuoi tiranni napoletani, camuffati da governatori, rozzi e volgari, che ti imbavagliano e ti legano con corde e catene di ferro aguzzo, che mortificano il tuo aspetto regale con torri e mura, fin quasi a spezzare il tuo cuore vigliacco. Ultimo della lista dei conquistatori appare Don ChisciotteGaribaldi, in camicia rossa, che cala giù a grandi passi dai monti Peloritani, avanzando dall‟ovest, da Calatafimi e Marsala. Garibaldi uomo tutto d‟un pezzo, non certo disposto ad amoreggiare con una sirena come te, ti dà in sposa con

90

SAGGI

nozze ufficiali a Vittorio Emanuele, primo re dell‟Italia unita. Sulla fede matrimoniale sta inciso “libertà”. Speriamo che tu non spezzi l‟anello!11.

E giungiamo nel XX secolo, quando un‟altra scrittrice inglese, Emily A. Richings, dopo un viaggio in Malesia del quale redasse nel 1909 un diario, visitò in Sicilia, oltre che Catania, Acireale, Siracusa, Agrigento e Palermo, anche Taormina e Messina12. Siamo nella primavera del 1890. A Taormina, ella si divertì ad osservare la gente nei suoi strani abbigliamenti, indugiando anche a scrutarne i lineamenti, curiosa di indagare in essi quella bellezza greca che non le riusciva di intravedere: qui essa sembrava del tutto eccezionale, nonostante l‟isola fosse inserita in passato nella pienezza della vita ellenica; in Sicilia era il tipo africano a predominare. Ammirò anche e descrisse accuratamente il teatro.

Più tardi, Messina accolse la viaggiatrice col sorriso della sua modernità e con la sua gaiezza, con la leggiadria dei suoi edifici e con la vivacità della sua attività portuale: era “la porta della Sicilia”, ricca di storia, che la Richings innestò nel proprio resoconto letterario in puntuali rievocazioni.

Qualche anno dopo, nel 1894, ancora una scrittrice, questa volta russa, Elizaveta Nikolaevna Vodovozova, venne in una Sicilia che da poco aveva visto la violenta azione di protesta dei Fasci dei Lavoratori, pesantemente repressa dal generale Morra di Lariano, per proseguire l‟indagine sociologica che stava conducendo in Italia, che l‟anno dopo avrebbe pubblicato13. Ella s‟interessò, dunque, allo stato socio-economico dell‟isola, rilevò i disagi della vita locale, osservò e descrisse le condizioni di vita nelle campagne, il lavoro e le usanze del popolo. Nel VII capitolo della sua Elizaveta Nikolaevna Vodovozova opera ella descrive, assieme al clima e natura dell‟isola, i terribili effetti dei movimenti sismici su Messina; nota la povertà della popolazione, la divisione delle classi sociali in grossi proprietari e affittuari, piccoli proprietari e lavoranti giornalieri; descrive il lavoro dei contadini e certi usi, come la presenza dei cantastorie e i concorsi di poesia.

L‟interesse per l‟Italia della poetessa austriaca Josefine Lippert von Granberg (1836-1910) è testimoniato dal suo stesso libro di canti, Sotto il cielo d‟Ausonia (Roma, 1894), dettato da un lungo soggiorno in Italia, in cui celebra le bellezze 11

Tratto da The Diary of an Idle Woman in Sicily, uscito per la prima volta a Londra nel 1881 in due volumi. Si è qui utilizzata l‟edizione italiana dal titolo Milady in Sicilia. Un viaggio in treno e in carrozza (1879-80), Palermo, 1987 (trad. di Renata Pucci Zanca).

12 Le sue osservazioni in In the Shadow of Etna, Londra, 1890.

13 Kak ljudi na belom svete zivut. Ital‟iancy (Come vive la gente. Italiani), S. Pietroburgo, 1895.

91

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

del Paese. Per il suo viaggio in Sicilia che altri canti le avrebbe ispirato14, ella arrivò da Napoli il 17 aprile 1894 sbarcando a Messina e da qui compiendo il periplo dell‟isola, con la visita, tra l‟altro, di Taormina. Raccolse nei suoi canti, dedicati ai luoghi visitati, l‟incanto delle scene di natura e rievocò le memorie storiche e mitologiche ispirate al fascino della Sicilia.

Nel 1904 uscì a Londra l‟opera15 di una scrittrice inglese, Ethel Brilliana Harley Tweedie (1870?-1940), che a lungo viaggiò in Europa, ma anche nelle Americhe e in Cina, traendo da queste esperienze occasione per molti libri. Come sappiamo dal libro sopra citato, dopo essere giunta a Palermo nel febbraio del 1904, assieme alla vecchia madre e ad una dama di compagnia, in Sicilia soggiornò due mesi (fu anche a Messina e Taormina), attraversandola quasi tutta in automobile, traendone però solo episodi, bozzetti di vita, folcloristiche scene cittadine e notizie aneddotiche.

Una nobildonna francese autrice di romanzi e opere di viaggio, la contessa Yvonne Vernon, vide la Sicilia nel settembre del 1904. Fu il 14 di quel mese che, in navigazione con lo yacht “Ile de France” verso Creta, ella vide le Eolie e le coste della Sicilia, finché Messina emerse nella chiarità “prese l‟aspetto pallido, fragile, incerto di uno scenario”. Ma la nave non approdò a Messina, proseguendo la sua navigazione16. Era stato in un precedente viaggio, del 1901, che ella aveva invece visitato varie città dell‟isola: fra l‟altro, era stata a Taormina, notandone le magnifiche vedute e l‟antico teatro dall‟incomparabile scenario, “il più bell‟ornamento di follia, la più meravigliosa allegoria del ridere, di cui mai fu ornata scena di commedia”. Al cospetto di quello spettacolo sublime la Vernon pensò a Maupassant e al suo stupore: egli aveva detto che bisognava che uno andasse a Taormina almeno una volta nella propria vita ed ella aggiunse “che egli pensava meglio di quelli che dissero: “Veder Napoli, poi morire”. Messina era stata l‟ultima stazione di transito prima di lasciare la Sicilia.

Ethel Brilliana Harley Tweedie

Una viaggiatrice tedesca, Ida Goldschmidt-Livingston (1863-1933), racconta in una sua opera17 del proprio viaggio, avvenuto probabilmente nel 1908 (prima del 14

Sicania. Blatter der Erinnerungen, Vienna 1897 (ediz. ital. Sicania. Pagine di rimembranze, Firenze, 1899).

15 Sunny Sicily. Its Rustics and its Ruins, Londra-New York, 1904.

16 L‟opera che c‟interessa è Terre de lumière. En croisière. Trinacria. En deçà et au delà de Gibraltar. Hellade, Parigi, 1904.

17 Meine Reise nach und durch Sizilien, Francoforte sul Meno, 1910.

92

SAGGI

terremoto di Messina). Giunta in treno in Sicilia, ne visitò diverse città e senza fermarsi a Catania risalì la costa ionica fino a Taormina e da qui passò a Messina per risalire poi nel continente. Il suo interesse esclusivo andò ai resti dell‟antichità classica.

Si trovava in Sicilia, e precisamente a Taormina, nel momento del terremoto del 1908, giunta nell‟isola già nell‟autunno di quel tragico anno, la danese Marie Helms, viaggiatrice abituale, di famiglia benestante, autrice di un libro di cui esiste pure un‟edizione italiana parziale18. Lasciò un commosso racconto dell‟arrivo dei profughi e descrisse le primissime fasi della ricostruzione.

Ritornò nell‟isola sicuramente anche nel 1912 (a giudicare da una delle fotografie che corredano il suo volume). La sua attenzione è rivolta, socioantropologicamente, alle forme espressive della vita siciliana, alle costumanze, alla cultura popolare, alle cerimonie religiose, alla gestualità.

Elizabeth Bisland

Nei primi mesi del 1908, due americane ricche e colte, Elizabeth Bisland (18611929) e Anne Hoyt, partono alla volta della Sicilia, incontro alla primavera.

Siamo agli albori del turismo americano in Europa e le due autrici sono forse le prime americane, fra i molti viaggiatori stranieri in Sicilia - da Goethe a Seume, da Dumas padre all‟inglese Brydone - che lasceranno testimonianza del loro viaggio. Esse viaggiano sole, per loro piacere, sono amiche ma di personalità assai diverse, leggono i testi antichi e godono le molte piccole occasioni di incontri con personaggi modesti ma di grande umanità, accanto ai paesaggi, alle fioriture d‟una primavera prorompente ed alle grandi vestigia dell‟antichità classica. Dopo pochi giorni a Napoli ed una sosta a Ravello, eccole a Messina, la Città-Falce condannata - il libro sarà scritto prima del terremoto e pubblicato l‟anno successivo e poi, in lunghi soggiorni, a Taormina, Siracusa, Agrigento e Palermo, ove “giacciono i resti più dolci della giovinezza del inondo”. Esse sono pronte a gustare ogni cosa diversa da quanto la formazione di oltre oceano ha impresso loro, senza preconcetti e con interesse benevolo: le turiste ideali, ammirate e contente. Riportiamo una loro pagina su Messina (ma molte altre ne dedicarono a Taormina):

18

Fra Sicilien, Copenaghen, 1913 (edizione italiana Da Palermo, in “Nuove Effemeridi”, Palermo, a. IV, 1991, fasc. II, n. 14).

93

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Il treno si arrotolò come un serpente stanco dentro il piroscafo in attesa che scivolò poi senza intoppi fra gli antichi pericoli di Scilla e di Cariddi, mentre la montagna oro e ametista, dimora dei Vecchi Dei, incombeva sempre più vicina.

La bianca curva di Messina “la falce” si distingueva chiaramente alla base delle montagne macchiate di nuvole. Era stato Kronos, padre di Demetra, assiso in trono su quegli stessi monti, a lasciar cadere la falce sulla riva ritagliando così lì un po‟ di spazio per le piccole dimore degli uomini ed a lasciare ad esse il nome della sua lama lucente: “Zancle” - la falce - attraverso tutti i giorni della grecità. Ed essa era lì, visibile davvero, latebra del fuoco e dei miti; luogo degli inizi degli dei e degli uomini. Peripatetica e Jane si proiettarono fuori dal treno e si arrampicarono sulla stretta coperta per vedere meglio. Il vento marino tolse loro la polvere dagli occhi, ed ogni stanchezza e disagio dalla memoria. Gli spiriti loro si librarono per incontrare quella terra di Spiriti dove gli Immortali avevano combattuto e faticato, avevano trasfuso nell‟uomo il loro respiro, ove lo spirito divino aveva agitato la piccola vita passeggera di lui con la rivelazione di ciò che non passa; quell‟anima di bellezza e di sapienza e di poesia che corre attraverso i millenni.

I loro occhi erano spalancati per vedere la terra dove le immaginazioni dell‟uomo avevano portato il divino in tutti gli aspetti della vita: fino a quando ogni albero e sorgente e rupe montagna non ebbe ricevuto le sembianze di un dio. Oh, tutto ciò era una “credenza consunta?”. Non sarebbe possibile - per avventura - vedere ancora qui “Proteo sorgente dalle acque” o udire “Il vecchio Tritone soffiare entro la sua inghirlandata conchiglia”?

Proprio lì, su quelle montagne innanzi a loro, era stato formato - martellato da Vulcano nella sua forgia entro l‟Etna - l‟Uomo. Proprio qui gli fu insegnato da Demetra a nutrirsi dall‟amica terra, e da Orione, che prima di trasformarsi in costellazione fu cacciatore ed architetto - e dio - a difendersi dagli elementi inclementi. Lì Zeus, sapienza onnipotente, aveva prevalso sui suoi nemici, e aveva gravato il proprio alto seggio fiammeggiante - l‟Etna medesimo - sul corpo legato dell‟ultimo Titano ribelle, facendo piedistallo al proprio trono anche della forza dell‟ignoranza. Lì le fascinose dee vergini, Artemide e Minerva e Persefone avevano giocato nei campi fioriti. Lì Platone aveva rapito la più bella di esse tra i fiori, spalancando d‟improvviso la porta dei suoi oscuri inferi fra i prati assolati. Lì la desolata madre Demetra aveva acceso alla bocca di Etna la torcia per la sua lunga e disperata ricerca, lì i semidei e gli eroi avevano vissuto e amato e lottato. I suoi stessi fiumi erano ninfe trasformate, le isolette macigni scagliati nelle battaglie dei Ciclopi. Lì Ulisse aveva errato e sofferto; lì Pitagora aveva insegnato e Teocrito cantato. Lì... ma l‟uomo - o la donna - non è ancora interamente spirito: e, pur essendo quella invero la terra meta del loro pellegrinaggio e la culla del mito della bellezza e della meraviglia, Persefone 94

SAGGI

non era tornata ancora. Il vento gelido trasformava in brividi ogni sentimento ed esse tornarono a rifugiarsi nel ventesimo secolo e nella sua carrozza letto.

Messina appariva, da vicino, più tentatrice ancora; prospera ed imponente ad un tempo, con la sua fila di banchine di pietra e di palazzi sul mare. Oltre questi, erano le famose montagne ad esse note, mercati variopinti e chiese barocche con guglie simili a conchiglie scanalate, e interni risplendenti come grotte marine di tutto il ricco colore e brillio dei mosaici siciliani. In una delle chiese era custodita la miracolosa lettera della Madonna; autografa. si dice. C‟era anche una vecchia cattedrale normanna fatta di rovine greche e resti romani con molto carattere spagnolo residuo. Ma per due passeggere di Wagon Lit senza colazione, tutto questo era solo cenere in bocca. ed esse ritennero che le attrazioni di Messina potessero tranquillamente rimanere nella guida. Erano sospinte verso Taormina... No, nessuna visione profetica le avvertì che con quella loro fretta perdevano per sempre l‟occasione di vedere la Città-Falce condannata. In quel placido porto moderno dove raramente sostavano i viaggiatori per diporto, non pareva esserci nulla a trattenerle. Nessuna ombra portentosa si stendeva per dire che lo “Scuotitore di terra” l‟aveva segnata e che prima che l‟anno fosse trascorso sarebbe lì echeggiato l‟amaro grido di Beryto sperduto: “Sono qui, quell‟infelice città - non più una città – caduta in rovine, morti i miei cittadini, oh, la più infelice di tutte! Il dio del fuoco mi ha distrutta dopo la scossa dello Scuotitore di terra, ohimé, tanta bellezza è ridotta in cenere!

Ma voi che passate, piangete il mio destino e spargete una lacrima in onore di me che non sono più. La città sotto le cui ceneri giaciamo è tomba di uomini insepolti19.

Anche Henri Delas, una francese, autrice anche di un Voyage en Orient (1907), ma che a noi interessa per un‟altra opera20, partita con lo yacht “Île-de-France” alla fine di febbraio del 1909 da Monaco per una crociera nel Mediterraneo e giunta il 2 marzo a Palermo (che le piacque molto), fu colpita dallo spettacolo di desolazione e di morte, che le offrì Messina, dove arrivò qualche giorno dopo.

Eppure, nonostante tutto, le superstiti facciate dei palazzi mostravano ciò ch‟era stata Messina, spettacolo ancora più triste per chi in quella città era ancora vivo.

L‟approdo in quel porto ebbe solo carattere tecnico dato che, quasi a sottrarre i croceristi a tali orrori, la ferrovia li condusse ben presto a Taormina. Qui la Delas coi compagni della comitiva girovagò per la cittadina, ammirò i magnifici paesaggi che si offrivano all‟intorno, il teatro romano; quindi fu il ritorno a Messina, nel silenzio, perché l‟animo si sentiva “spossato per le emozioni

19

Il testo delle due autrici fu pubblicato nel 1909 a New York con il titolo Seekers in Sicily. Being a quest for Persephone by Jane and Peripatetica, dato che esse si servono nel libro di questi pseudonimi. La traduzione da noi utilizzata è quella di Alessandra Lavagnino per Due americane in Sicilia, Siracusa, 2004.

20 Une croisière sur le Méditerranée: Tunis, Palerme, Messine, Taormine, Naples, Rome, Parigi, s.d. (ma 1909).

95

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

successive della lunga giornata”. Poi, lo yacht si rimise in navigazione alla volta di Napoli.

Un‟altra viaggiatrice, questa volta americana che vide Messina poco dopo il disastro fu Maud Howe (1854-1948), una raffinata scrittrice e grande giornalista21, impegnata sul fronte delle inchieste sociali, collaboratrice di vari magazines, che dal 1892 al 1900 risiedette coi marito John Elliot in Italia, dove tornò a risiedere di nuovo nel quadriennio 1906-191022. Ella, nella Maud Howe primavera del 1909 trascorse due settimane nella Sicilia sconvolta dalla catastrofe tellurica che aveva distrutto Messina, e si trattò - malgrado le circostanze dei tempi - di una distensiva vacanza, ricca di interessanti esperienze. Quei tempi della sciagura e le convulse opere della solidarietà e dei primi soccorsi li aveva vissuti da testimone, dall‟osservatorio dell‟Ambasciata americana di Roma, dove era giunta la sera di Natale del 1908. Tre giorni più tardi era stato il disastro e subito si erano avviate le operazioni del soccorso internazionale, che avevano visto l‟Ambasciata organizzare varie spedizioni a Messina, buon‟ultima la missione del 22 febbraio 1909 con gli uomini e le attrezzature per la costruzione di due campi di cottages. La Howe - che narra i febbrili preparativi e l‟organizzazione dei servizi di assistenza - partì da Roma per la Sicilia in treno il 24 marzo, quando ormai tutte le attività erano state avviate: poteva guardare ormai a quella terra martoriata con l‟occhio del turista, curioso del miracolo della primavera siciliana, disponibile alle suggestioni dei paesaggi e dei monumenti d‟arte, ai richiami delle vestigia classiche. Approdata a Messina, proseguì subito in auto per Taormina, primo fascinoso soggiorno nel suo tour dell‟isola; e quella città, aggrappata come una patella alla sua grigia roccia, come scrisse («like a gray limpet to the gray rocks»), le parve un fascinoso accordo di stili «with little Saracenic touches everywhere». Siracusa, Agrigento e Palermo furono altre tappe del suo giro. In quest‟ultima città ella soggiornò sino al 6 aprile quando con lo steamer “Admiral” si trasferì a Messina per seguire i lavori di costruzione delle casette del villaggio americano, e qui nel giorno di Pasqua assistette commossa alla celebrazione del rito sacro. Il 25 maggio 1909 così annotava: Sono seduta sulla sabbia in riva al mare, con le splendide montagne attraverso lo stretto. C'è una brezza piacevole che soffia. Il mare è come zaffiro e smeraldo, e non è affatto bello da guardare, oh no!

21 22

Nel 1917 le fu assegnato il Premio Pulitzer.

L‟opera che c‟interessa è Sicily in Shadow and in the Sun, Londra, s.d. (ma ca. 1910).

96

SAGGI

Ripartì per Napoli qualche giorno più tardi sempre con l‟ “Admiral”.

Nel 1913 giungeva in treno in Sicilia, trovando Messina ancora piegata dal terremoto la principessa e scrittrice Maria Michailovna Volkonskaja, che, nelle sue Impressioni di Sicilia (Parigi, 1914) ci racconta di aver visto, nel poco tempo di permanenza, solo rovine e una città di baracche, non nascondendo per questo la propria tristezza: della vecchia Messina e delle sue attrattive non restava più nulla.

Così scrive guardandola dalla nave: Messina è di fronte a noi. Un mare agitato, d‟un blu scuro striato di macchie glauche, ci separa dalla povera città distrutta. Le onde s‟infrangono sul ponte e il loro Maria Michailovna Volkonskaja spruzzo schiumoso arriva fino a noi. Non resta più nulla di ciò che costituiva il fascino e la grazia della ridente Messina che esisteva alcuni anni fa. Sono in piedi solo pezzi di muro, facciate di palazzi o di chiese, i cui interni e le cui pareti laterali sono crollati. Dappertutto macerie.

Vagoncini e carretti trasportano mucchi di rovine a mare… La cattedrale ci mostra, in un crollo generale desolante a vedersi, la metà di una cupola tutta ornata di mosaici fondo oro e di resti di scultura gotica. In mezzo a queste rovine, una nuova Messina è sorta nei sobborghi e in città. Baracche di legno dipinte di bianco e coperte di lamiera, tutte eguali, ospitano gli abitanti che non vogliono abbandonare la loro città a dispetto dei pericoli che corrono. La vita è ripresa; nei seminterrati delle case crepate si sono aperti negozi. La popolazione vivace, pacata, piena di energia, ripara, ricostruisce, rifà la sua bella Messina così bene che in una dozzina d‟anni questi ammassi senza nome lasceranno il posto ad una città attiva, prospera e piena di promesse. Il “libeccio” soffia sulle coste della Calabria. Grosse nuvole grigie lasciano cadere grevi acquazzoni; le montagne illividiscono; poi, passato l‟acquazzone, il sole macchia lo stretto di chiazze d‟azzurro23.

Si recò poi in automobile a Taormina e lungo il tragitto ecco altre sue impressioni: Sulla strada da Messina a Taormina, quanto mai ingombra e poco percorribile, incontriamo pesanti carrette, trainati da buoi scuri, e leggeri carretti a due ruote pieni di originalità. Una bardatura arricchita da piume colorate, da “paillettes” 23

La traduzione dal francese è nostra.

97

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

argentate e da un corno di cuoio rosso, fissata alla selletta, adorna di una nota vibrante la mula o il cavallo che tira il veicolo. Questa bardatura brillante e ricca; questi carretti dipinti con vari soggetti, dalle tonalità vivaci, danno, fin dall‟ingresso in Sicilia, l‟impressione nettissima che gli abitanti del paese hanno una marcata predilezione per la pompa e gli orpelli. E fa uno strano contrasto vedere spesso i conducenti di questi ricchi carretti vestiti di stracci, con la testa avvolta da un fazzoletto colorato e il corpo coperto da un grande scialle a frange o da una cappa di colore scuro: contrasto che fa presentire le anomalie e le stranezze di quest‟isola ancora piena di mistero. I pannelli di questi “carretti” sono decorati da pitture che ricordano episodi del Medioevo. Il culto della cavalleria, che è al fondo dell‟anima siciliana, si manifesta, nelle classi più basse della popolazione, con la rappresentazione di scene di guerra e di sangue, improntate, per la maggior parte, alle lotte sostenute per l‟indipendenza dell‟isola. Ornamenti in ferro battuto stanno sugli assi e completano la decorazione di questi “carretti”, di cui avevo spesso sentito parlare, ma nei quali non pensavo di trovare tante. Seguiamo la costa. La strada affonda a tratti nella terra per raggiungere dei ponti che attraversano larghi torrenti ora quasi in secco. I villaggi si succedono senza interruzione: sono attorniati da bei giardini “d‟agrumi”, i cui frutti ancora verdi lasciano presagire una ricca raccolta.

Non trovò invece reale la miseria dell‟isola ovunque pubblicizzata, perché il paese le sembrò al contrario prospero (in realtà, stava attraversando una delle aree più pittoresche e lussureggianti della regione, che i forestieri decantavano).

Alloggiò in un albergo di Taormina, passeggiò per le sue strade, osservò la fisionomia della gente, notando la folta presenza di stranieri e ricevendo emozione dal paesaggio.

Nello stesso anno della Volkonskaja, troviamo in Sicilia una viaggiatrice svizzera, Frida Gröbly (1893-1957), autrice di un libro di racconti di viaggio dal titolo Von der Sonneninsel Sizilien (Zurigo, 1915)24. Il suo fu un tour che s‟inquadra nella tradizione dei viaggi dei primi decenni del Novecento, in una Sicilia che, perduto da tempo il fascino della sorpresa e della curiosità, abbandonato il ruolo di mèta deputata di un itinerario interiore, percorrendo il quale cullare «l‟illusione di passioni deliziose e dolci al cuore umano», come scriveva Brydone, alimentava tuttavia il piacere delle belle visioni di natura, di architettura, di ambiente, attraverso le quali rivivere - seppur in chiave di modernità - creative esperienze ed emozioni estetiche. Si potrebbe dire, con Bufalino25, che il moderno viaggio in Sicilia costituiva pur sempre «una scommessa di conoscenza e di felicità». La Gröbly il 26 aprile del 1913 sbarcava a Palermo dal postale proveniente da Napoli. Da qui la visitatrice si trasferì a 24 25

La Sicilia isola del Sole.

G. Bufalino, La luce e il lutto, Palermo, 1988.

98

SAGGI

Messina, discese la costa jonica, soggiornò a Taormina. Fu successivamente a Catania e a Siracusa. Dalle sue diligenti annotazioni ripercorse più tardi in chiave letteraria, nostalgicamente, le orme materiali del suo viaggio nella “solare Sicilia”.

Una giornalista inglese, Isabel Emerson, fu incaricata di redigere la descrizione periegetica della Sicilia per la fortunata “Things Seen Series” della londinese Seeley Service & Co. Limited, un‟opera tra il manuale turistico e il diario di viaggio e venne perciò in Sicilia nel 1928 (ma vi era già stata nel 1903). L‟opera da lei scritta racconta dunque di tutta la Sicilia. Della città dello Stretto scrive: Messina, la città coraggiosa ma sfortunata, che sembra scelta dalle forze della natura per la distruzione, ma che, come la fenice risorge sempre di nuovo dalle proprie ceneri, a vita nuova ed intensa. La storia di Messina è una lunga storia di tenacia e coraggio, e del paziente, eterno amore dei Siciliani per la loro terra natale ... Colline, montagne e mare sono ancora lì nella loro splendente bellezza; ma dove è Messina - la prospera Messina del passato? Andata, scomparsa; la polvere dei suoi palazzi si è mescolata con quella dei suoi abitanti, dei quali 84.000 sono sepolti sotto le macerie delle loro case. Il disastro è accaduto alle 5.20 a. m. del 28 dicembre 1908, quando una scossa della durata di 30 secondi 'rase al suolo praticamente tutta la città ... Per diversi anni Messina non fu altro che un vasto campo di rovine, ai margini del quale crebbe una città di capanne di legno per riparare i sopravvissuti che si rifiutavano di lasciare il quartiere delle loro case in rovina. Ma i Messinesi non sono stati scoraggiati nemmeno da questa tremenda catastrofe; con pazienza, in silenzio, hanno cominciato a ricostruire la loro amata città; una scritta su una casa in Viale San Martino ricorda che il lavoro di restauro è iniziato lì, il 5 gennaio 1909, otto giorni dopo il disastro! Che testimonianza di tenacia e coraggio siciliano! Una nuova città è ormai sorta, accuratamente pianificata, con ampie strade, piazze spaziose e belle, anche se a basso spiovente, edifici pubblici. Cemento armato e infissi in ferro antisismici sono utilizzati e nessun edificio, pubblico o privato, è autorizzato a superare i due piani di altezza. Poche strade ai margini della zona di pericolo hanno ancora le loro originali case alte in piedi da una parte, mentre dall'altra tutto è nuovo e uniforme26.

La Emerson raggiunse, naturalmente, anche Taormina, intatta nei caratteri originali e nella romantica bellezza che l‟aveva resa celebre, fra colture di vividi fiori; alla sua visita seguì quella della vicina Forza d‟Agrò, erto paesino dalla tipica effigie medievale. Attraversati i Peloritani raggiunse pure Tindari, luogo ricco di fascino, che le offrì la vista dei resti classici e visitò il Santuario della Madonna Nera, godendosi la vista lontana delle Eolie. Fu anche a Milazzo, sonnolenta cittadina, di cui unico oggetto d‟interesse giudicò essere il castello 26

Things seen in Sicily…London, 1929.

99

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

svevo. Infine fu a Messina, sfortunata città dalla storia ricca di episodi di coraggio, ma anche di tragici eventi, una delle più belle prima del terremoto che nel 1908 la distrusse: di essa raccolse la sopravvissuta immagine artistica, rievocò la lunga e tormentata storia. E si accomiatò dalla Sicilia.

Una statunitense, insegnante di latino a New York, Elizabeth Hazelton Haight (1872-1964), nel contesto di un viaggio in Italia, venne anche in Sicilia e ne riferì in un suo libro27. L‟escursione nell‟isola avvenne in primavera ove ella giunse col postale da Napoli, ripromettendosi un soggiorno qui di tre settimane. Dopo essere rimasta la prima settimana a Palermo, il treno la condusse lungo la costa tirrenica a Messina. Le si offrirono così le verdi immagini del fertile paesaggio attraversato, dalle azzurre silhouettes delle Eolie emergenti da un mare argenteo.

Messina fu per lei solo un nodo di transito, perché si diresse a Taormina, che trovò splendida per le sue vedute, per le pittoresche stradine orlate di interessanti edifici, per le romantiche vestigia del teatro romano. E da Taormina proseguì il suo viaggio.

Raccontò del suo viaggio in Sicilia anche una scrittrice belga, Eliane Van Damne28. Ella giunse a Palermo nell‟estate del 1931 e, dopo aver visitato altre città dell‟isola, fu a Taormina, dove ancora la luce, come in tutta la Sicilia, fu oggetto del suo stupore: “Il giorno fu ardente, fiammeggiante, giorno rosso e rossigno, sotto un cielo implacabile”. Una vera e propria aggressione della luce.

Nell‟aprile del 1937, dopo essere già venuta, per altro, molti anni prima in Sicilia visitando Palermo e Segesta, iniziò il suo percorso nell‟isola la scrittrice tedesca Bettina Seipp, che non mancò di trarre da questa esperienza un libro29. Fu subito a Taormina, dopo aver superato senza alcun interesse Messina (che non aveva alcun ricordo dei Greci). A Taormina tutto era piacevole, aveva un fascino curioso, inspiegabile. C‟erano le suggestioni dell‟antico teatro (che reputava greco, ignorandone il rifacimento romano), giudicato pittoresco e con una magnifica vista intorno; ma l‟intera cittadina esprimeva attrattive vivissime alle quali ella si abbandonò passeggiando per il corso principale, osservando i piccoli caffè che vi si aprivano, la bella fontana nella piazza del Duomo, la buona gente dallo sguardo solare, povera e serena, i carretti variopinti trainati dagli asinelli.

Era la settimana santa ed ella si confuse alla gente nella processione del Venerdì e negli altri riti religiosi pasquali da lei descritti, mentre era avvolta da calde sensazioni di felicità per via della luce dei luoghi e della magnificenza e integrità della natura.

27

Italy Old and New, New York, 1922.

Rapsodie sicilienne, Parigi-Bruxelles, 1933.

29 Neapel und Sizilien als Land der Griechen Erlebt (“Napoli e la Sicilia terre di esperienze greche”), Lipsia, 1938.

28

100

SAGGI

Una letterata e saggista perugina, Maria Sticco (1891-1981), che insegnò letteratura italiana all‟Università Cattolica di Milano e fu autrice di saggi letterari e di opere di edificazione morale, racconta30 di un suo frettoloso viaggio invernale nell‟isola, mai prima visitata, iniziato con l‟arrivo in treno da Milano il 2 gennaio 1951. Dopo aver visitato Palermo e Catania, il 6 gennaio si ritrovò a Taormina, da lei definita “paradiso in terra”, ineffabile paesaggio voluttuoso e casto.

Un‟escursione in Sicilia compì pure una famosa scrittrice italiana, nativa di Pistoia, Gianna Manzini (1896-1974), che richiamò alla memoria, in un breve articolo31, i colori dei paesaggi visti in quell‟occasione, rievocando, fra l‟altro, gli spettacoli e i giardini di Taormina.

Tra il gennaio e il febbraio del 1956 visitò nell‟isola Messina, Palermo, Caltanissetta, Enna, Catania e Siracusa una scrittrice francese, Amélie Benoistel, contessa d‟Arta e d‟Irati. Il suo fu quasi un pellegrinaggio verso la bellezza.

32 Nell‟opera da lei composta , all‟arrivo a Messina dalla Calabria notò che il porto aveva ritrovato, dopo la lunga e sofferta parentesi bellica, tutto il proprio grande movimento commerciale. Nel visitare, Gianna Manzini poi, la città, sfilarono davanti ai suoi occhi affascinati chiese, giardini, fontane, leggiadri palazzi; mentre più tardi, percorrendo la costa, il treno le mostrò in corsa graziosi paesi.

Visitò due volte la Sicilia, nella primavera del 1957 e del 1958, la sociologa inglese Margaret Carlyle, che ne attraversò le zone interne, studiandone i problemi legati all‟agricoltura e alla povertà e traendone un quadro desolante.

Nell‟opera successivamente da lei pubblicata, diede anche un quadro delle condizioni delle grandi città dell‟isola e definì Messina, nei fatti, una città morta: Vista dal piroscafo traghetto che attraversa lo stretto dal continente, Messina sembra una cittadina abbastanza prospera, col suo porto, con alcuni grandi 30

Fuga in Sicilia, in “Vita e pensiero”, Milano, a. XXXIV, n.s., n°3, marzo 1951.

Pubblicato su Sicilia (Palermo, a. III, 1955, n°9).

32 Palerme et Syracuse, Niort, 1963.

31

101

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

edifici per uffici moderni, principalmente banche, sul lungomare, e con graziose ville di equilibrate dimensioni sparse sulle colline che si innalzano subito dietro la città. Tale impressione è fuorviante. Messina è infatti una città morta. Non c'è praticamente alcuna industria e poco lavoro nei bacini, mentre il numero in città di disoccupati, circa 20.000 su una popolazione di 240.000 nel 1958, è costantemente gonfiato dai numeri di contadini dalla campagna circostante, che gira per la città sperando in un lavoro che non esiste ...

Messina ha avuto un problema molto difficile da affrontare dal terremoto del 1908, quando oltre il 90 per cento delle case furono distrutte. Oggi, un terzo delle abitazioni sono quelle che vengono chiamate case popolari, o case della gente, lasciate a canoni moderati per i colletti bianchi, funzionari e altri dipendenti, così come per i lavoratori.

Sorgono case in continuazione, ma su una scala del tutto inadeguata alle esigenze della città, con il risultato che ci sono ancora 2.000 tuguri scantinati e un enorme numero di baracche tutto intorno alle zone periferiche della città.

Queste baracche sono semplicemente delle catapecchie fatte di casse da imballaggio, latta o anche vecchio cartone puntellato contro bizzarri brandelli di pareti senza finestre e senza servizi igienici. Nel 1958 vi sono alloggiate 2.000 famiglie, molte delle quali composte di sette o otto persone. E impossibile dare un‟idea di tale squallore. Le grotte di Matera33, che hanno fatto inorridire gli italiani del nord e gli stranieri, sono appartamenti di lusso rispetto alle baracche di Messina, in cui nessun settentrionale che si rispetti ospiterebbe il suo bestiame34.

Una scrittrice che visse il suo viaggio in Sicilia nel segno dell‟emozione della scoperta, che conserva intatta nel resoconto del suo viaggio 35, fu Janine Fuchs, che si recò in automobile da Catania a Mazzarò per un soggiorno sulle coste ioniche che visse come un sogno. Otto giorni più tardi salì a Taormina dove ogni visione fu motivo d‟incanto: il panorama dall‟alto, il cammino lungo le pittoresche viuzze, le infinite scalinate da percorrere. Seguirono le visite a Messina, Siracusa e Catania; ma era sempre Taormina ad imporre allo spirito dell‟entusiasta visitatrice la sua indelebile autorità: Taormina, “luogo unico dai mille colori”, col suo straordinario teatro classico, la sua vista dell‟Etna, spettacolo indimenticabile. Visitò ancora Agrigento, Monreale, Palermo e da qui, dopo ventitré giorni di permanenza lasciò in aereo l‟isola per ritornare a Ginevra, ma “senza mai dimenticare questo sogno chiamato Sicilia”.

33

Ci si riferisce ai famosi “Sassi”.

The Awakening of Southern Italy, Londra, 1962.

35 Un songe nommé Sicile, in Sicilia, Palermo, 1967, n. 53.

34

102

SAGGI

Rodì Milici come metafora di storia e cultura della Sicilia Ing. Andrea ZANGHÌ

Prima di riportare la relazione svolta durante il convegno multiculturale tenutosi questa estate a Rodì Milici, per evidenziare ulteriormente l‟interesse che questo favoloso territorio, culla di poesia, mito, storia e di duro lavoro, riveste, anche a livello internazionale, colgo l‟occasione di menzionare in questa sede l‟importante riconoscimento UNESCO al suddetto comune. L‟Unesco nel riconoscimento dichiara: “Rodì Patrimonio vivente dell‟Umanità”.

Il riconoscimento è assegnato con la seguente motivazione: A voi Rodiesi che lasciaste le dure zolle della vostra terra, non dimentichi della legge invisibile della primavera del profumo di zagara, dell‟erba violata dalla falce, dei fiori, dei frutti estivi dal sapore acerbo, del colore del grano, del sole implacabile, ma non ostile, che dall‟alba al tramonto accompagnava quanti dalla terra abilmente traevano il sostegno per il proprio vivere, a tutti coloro che, attraverso la luce velata dei propri occhi, sperano sempre di tornare.

La motivazione, come si vede, esprime magistralmente il legame della gente di Rodì (e di Milici) con la propria Terra. Legame ancora piu‟ vivo per i molti figli che hanno dovuto lasciare la propria terra (ma che la amano) e dove con profonda nostalgia sperano un giorno di tornare.

Oltre a questo profondo legame, nel riconoscimento l‟UNESCO menziona (in latino) i versi 5,12 del libro I di P. Virgilio Marrone, di cui qui riporto la traduzione di Cono A. Mangieri.

Voi, fulgidissimi occhi del mondo, che regolate l‟anno; o Bacco e Cerere vitale, se per vostro Posizione di Longane e della dono la terra sostituì alla ghianda caonia la Necropoli di Monte Gonia (o Grassorella) – Bernabò Brea

103

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

pingue spiga, e nelle coppe di Acheloo mescolo‟ il succo estratto dall‟uva; e voi Fauni, divinità benigne dei contadini; mettetevi insieme a danzare, Fauni e fanciulle Driadi: io canto dei vostri regali.

I Fulgidissimi occhi del mondo, che regolano l‟anno sono il Sole (Apollo) e la Luna (Artemide-Diana). Dei a cui toccò questa “terra” fertilissima e di rara bellezza, che venne chiamata Artemisia o Artemisio (da Artemide), dimora della Dea Diana Facelina di Toante. Questa città fu conosciuta fino al Medioevo anche come Solaria, toponimo mutuato molto probabilmente dal Dio Sole. Alcuni scrittori latini, infatti, riportano in antiche leggende (già conosciute da Omero) che in “Artemisio” i buoi fossero del Sole, e il “sonno” avvenisse di Ulisse. Qui secondo la tradizione a noi tramandata “nacque anche la lingua e la poesia”; sul territorio vi era infatti già una Spillone popolazione indigena con lingua e poesia propria. cruciforme sec.

Il territorio di Rodì Milici, epicentro della storia della valle XIII a.C. del Platì, è stato infatti abitato sin dall‟epoca preistorica. In particolare, le ricerche compiute negli ultimi decenni hanno evidenziato una occupazione stabile da parte di gruppi umani sin dall‟età del bronzo antico (XVIII-XV a.C.).

Il corredo funerario, rinvenuto nelle grotticelle artificiali di tipo a forno della necropoli di Grassorella, comprendeva la tazza-attingitoio con alta ansa verticale terminante ad orecchie equine, oggetto tipico della cultura di Rodì-TindariVallelunga (R.T.V.) dell‟età del Bronzo antico siciliano, che proprio da Rodì prende il nome. Il quadro ricavabile dalle scoperte più recenti indica che la suddetta cultura era attestata non solo in Sicilia, ad esclusione del settore Sud-Orientale, ma anche in alcune zone della punta meridionale della Calabria.

Questa popolazione indigena di naviganti e mercanti, oltre che agricoltori ed allevatori di bestiame, era costituita dai Sicani a cui, in epoche seguenti, successero i Siculi.

I rinvenimenti di Rodì relativi a questo gruppo etnico sono Esemplari di tombe dello stesso tipo di quelli di Pozzo di Gotto e si avvicinano dell’età del ferro, sul monte Grassorella a quelli della necropoli di Locri.

Ai Siculi appartiene il fortino megalitico (realizzato con grossi blocchi di pietra appena sbozzati) situato su Pizzo Cocuzzo; fortino che a parere dell‟illustre 104

SAGGI

archeologo prof. Luigi Bernabò Brea, va accostato per tipologia architettonica ad un altro esempio presente in Sicilia: l‟anaktoron (palazzo del principe) di Pantalica. Il fatto che in un periodo così antico fosse presente un anaktoron, dimostra che a Rodì già esisteva una comunità strutturata, conosciuta a partire dal VI sec a.C. con il nome di Longane che controllava politicamente ed economicamente Caduceo della citta di un‟ampia zona della costa settentrionale dell‟isola.

Verso la fine del VIII sec. a.C. si trasferirono in Sicilia Longane gruppi di coloni greci che occuparono la costa orientale e settentrionale.

Tra questi vi erano i Calcidesi, che dopo essersi insediati a Zancle (odierna Messina) avanzarono verso Occidente occupando rapidamente il territorio di Milazzo.

Sotto questa minaccia i Siculi, che probabilmente prima vivevano in villaggi sparsi sul sistema collinare che va da Marro a Grassorella fino a Limbia, arretrarono concentrandosi sull‟altopiano di Pirgo dove crearono un proprio centro urbano fortificato.

Questo nuovo insediamento Siculo, inizialmente impiantatosi sull‟altipiano in età arcaica per sfuggire alla minaccia greca, si evolve nel tempo sotto l‟influenza greca presentando successivamente caratteristiche tipicamente greche.

A dimostrazione di ciò, nella necropoli di contrada Mustaco (conosciuta anche come Portella-Mustaco che potrebbe tradurre nel latino tardo il toponimo greco mustaco con il significato di piccola porta-varco, rappresentativa dell‟accesso alla valle) sono state rinvenute un gran numero di tombe, con corredi del VII-VI sec. a.C. comprendenti elmi e corazze di bronzo ed una spada oltre un‟ansa di lebete bronzeo.

Di fattura greca è anche un edificio quadrangolare di cui si conservano i resti tra pizzo Cocuzzo e Monte Ciappa , al centro del pianoro presso la Casina D‟Alcontres.

Sempre di questo periodo è la poderosa cinta muraria che segue i margini di Monte Ciappa Capeduncola, tazza attingitoio sfruttando le difese naturali, situata anch‟essa con alta ansa verticale ad sull‟altipiano Pirgo; essa è costruita in opera orecchie equine, età del bronzo antico siciliano, che incerta e rinforzata da una serie di torri proprio da Rodì prende il nome quadrangolari.

105

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

All‟interno della cinta muraria, la cittadella attestata in posizione dominante su Monte Ciappa permetteva il controllo verso Nord della fertile pianura che si estendeva fino al mare.

Questa fortificazione rappresentava l‟estremo baluardo in caso d‟invasione nemica ed inoltre esercitava anche l‟importante funzione di punto nodale per il controllo delle vie di comunicazione interna dell‟epoca che si sviluppavano secondo le direttirci: Sud-Est: verso Taormina e Naxos, passando attraverso Resti della cupola della chiesa di S. Catalimita (dal greco luogo di sosta, albergo) e la valle Bartolomeo del Longano-Platì.

Apostolo, sita sulla Nord-Est: verso Milazzo. sponda sinistra del torrente Platì Sud-Ovest: verso Abaceno ed oltre, proseguendo verso l‟entroterra Siciliano, attraverso la Valle del Longano-Platì verso l‟interno della Sicilia raggiungendo Enna.

Come si nota, la valle del Longano-Platì rappresenta la dorsale delle direttrici Sud-Est e Sud-Ovest, costituendo un importante nodo viario di comunicazione e commercio.

Nel VI-V Sec. a.C. Longane era una città autonoma sicula, così fortemente ellenizzata da coniare moneta in argento e, come altri centri greci, da dotare il suo ambasciatore del Caduceo di bronzo simbolo di un potere di rappresentanza conferito dalla comunità (oggi l‟esemplare rinvenuto è conservato ed esposto al British Museum di Londra – sala 73 Greeks in Italy).

L‟influenza esercitata dalla civiltà greca, fortemente presente sin dall‟epoca arcaica su Longane (tanto da mutare il nome in Artemisia) grazie alla presenza dei centri calcidesi, insediatisi sulla costa, fu ulteriormente accresciuta dalla fondazione di Tyndaris (Tindari) all‟inizio del IV sec a.C. Tale influenza è attestata inoltre dalla toponomastica di origine greca ancora esistente di cui si riportano alcuni esempi: Limbia (Olimpo o Olimpia), Musofileto (amico delle muse), Musostico (nemico delle muse), Pirgo (torre), Platì (largo). Anche il toponimo Trebisonda, oggi Porto Salvo, evidenzia lo stretto legame del nostro territorio con il mondo greco.

Ma dove si trova la città di epoca classica vera e propria dal nome Artemisia?

Questo nome richiama alla mente una notizia ricordata da scrittori di epoca romana riferibile alla venuta di Ulisse presso Artemisia nelle cui vicinanze 106

SAGGI

pascolavano le mandrie delle vacche sacre al Dio Sole di cui parla Omero. L‟area in cui sorgeva questa città deve essere individuata lungo le sponde del fiume Longano - Platì allora navigabile, e per questo importante crocevia di traffico commerciale.

Artemisia (Diana) sarebbe stata quindi dotata di un porto-canale che andrebbe individuato nella c.da denominata oggi S.Giovanni Hospitale e nella contrada di rimpetto Porto Salvo, un tempo denominato Trebisonda. Testimonianze a supporto si trovano nei percorsi indicati dagli antichi geografi che riportano l‟esistenza di una stazione di sosta denominata proprio Diana, sulla strada Consolare Romana costiera che collegava Messina a Palermo. Questa stazione di sosta dovrebbe coincidere con l‟attuale contrada S. Giovanni Hospitale sita nell‟odierno comune di Terme Vigliatore dove esisteva l‟omonima chiesa fino al 1604. La strada Consolare Romana presso cui sorgeva questa stazione di sosta permetteva già in epoca romana e forse anche in periodi precedenti, il collegamento ad Est con Milazzo ed a Sud Ovest con Randazzo attraverso Santa Domenica Vittoria, Montalbano, Basicò, Tripi, Campogrande, Mazzarà e Rodì (il ponte in muratura di contrada Scorcia-capre evidenzia l‟importanza di questa trazzera regia).

Secondo Vito Amico la città di Artemisia era rinomata nell‟antichità per il Santuario di Artemis Phacelitis (Artemide Facelina) in cui vi era la statua bronzea della dea. E‟ riportato, infatti, che all‟arrivo della statua di Artemide Facelina i pastori siculi si radunarono per accogliere la dea e ne cantarono le lodi.

In questo contesto, dall‟incontro tra i Siculi e i Greci, nasce la poesia Bucolica, testimonianza di ciò sono le famose gare poetiche che allora si tenevano proprio presso il santuario.

Non avendo ad oggi dati certi, bisogna effettuare alcune ipotesi sull‟ubicazione del santuario. Poteva trovarsi sul colle Marro dove i naviganti potevano vedere la Dea, loro paesana o verso l‟entro terra a Milici dove come testimoniato dagli scritti di Vito Amico sorgeva un tempio edificato in epoche remote.

Un ulteriore legame di diretta attinenza con la figura della Dea Artemide, viene dalla leggenda che potrebbe raccontare il ritrovamento della Madonna dell‟Alloro (lauru) di Milici. La leggenda infatti narra che la statua venne trovata sulla spiaggia e successivamente portata a Milici.

Secondo la tesi dello storico Mario Arezzo, infatti, la statua di Artemide Facelina, dopo il ritrovamento, venne portata in Tindaride (luogo sito nel territorio di Tindari non coincidente con la stessa Tindari).

Ma torniamo alla storia del nostro territorio.

107

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Nel 268 a.C. sulle rive del fiume Longano (identificato, dall‟Ing. Domenico Ryolo, con il torrente Patrì) avvenne la famosa battaglia (ricordata anche dallo storico antico Diodoro Siculo) tra i Mamertini e le truppe Siracusane di Hierone II. Ancora oggi, a testimonianza di cio‟, esiste a Terme sulle sponde del fiume Patri‟ una contrada denominata proprio Maceo (battaglia in greco).

Durante questa battaglia, Cione, il comandante dei Mamertini, che allora Oinochoai, andore scodelle e tazze sicule IX-VIII Sec. a.C. rinvenute nella occupavano Messina, subì una pesante necropoli di Grassorella sconfitta ad opera dei Siracusani.

La città di Longane-Artemisia fu naturalmente influenzata dalle diverse civiltà succedutesi nel territorio siciliano: quella romana, quella bizantina, epoca a cui appartiene Papa Leone II eletto nel 682 e originario di Milici, successivamente quella araba, normanna, angioina e aragonese. È proprio ai periodi normanni angioini e aragonesi, risalgono le fonti scritte che identificano Longane-Artemisia con Solaria, che insieme a Milazzo era una delle due città dell‟entità territoriale detta Vallo di Milazzo, esistente certamente con tale nome fino al 1284.

Solaria era già nel 1148 un importantissimo centro politico amministrativo, testimonianza di ciò sono le ingenti tasse versate dal governatore locale (Baiulus) alle monache di S. Maria Latina Motivi decorativi incisi sulle ceramiche riportate in figura di Messina (l‟altra metà della decima andava al sopra. monastero di Lipari-Patti).

Sempre in questo periodo nel territorio di Solaria, il Monastero dei Cistercensi, di Novara di Sicilia, aveva ottenuto nel 1177 dal Re normanno Guglielmo II (il buono) il tenimento di Terme. Nel 1268 sorse una diatriba tra i Cistercensi di Novara e la città di Solaria relativamente al possesso di queste terre, che il Re Carlo I d‟Angiò risolse a favore dei Cistercensi.

108

SAGGI

Il destino della regia città di Solaria fu segnato pero‟ da scissioni, gravi cataclismi e guerre che portarono alla scomparsa della stessa.

Una parte del suo vasto territorio venne ceduto ai cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, da Federico II di Svevia (feudo di Mosofileto 1209) tramite Ermanno De Strimberg (Camerario dell‟aula Imperiale) che donò all‟Ordine il feudo di Milici, donazione confermata l‟8 Marzo 1212.

L‟evento determinante nel destino della città di Solaria fu la guerra del vespro siciliano tra Angioini ed Aragonesi, che portò per l‟insicurezza dei luoghi a valle, alla formazione della città di Castroreale (1324) che sorse sul colle di Cristina (oggi Crizzina), nel territorio di Solaria.

A valle della caduta di Solaria, nel territorio prevaleva l‟attività dell‟Ordine di S. Giovanni Battista di Messina, con sede ufficiale nel palazzo priorale del Gran Priore Signorino Gattinara, nipote del Cancelliere di Carlo V (il palazzo priorale restaurato nel XVI sec. è oggi nuovamente restaurato e visibile in piazza S. Maria a Milici). Notevole fu il conflitto tra questo Priore e Papa Leone II, quadro del XVIII sec. Opera Castroreale per il possesso dei territori di Domenico Puglisi della valle del Platì, conflitto che continuò nei secoli successivi Nella giurisdizione della Commenda di Milici, e precisamente nel feudo di S Giovanni, c‟era l‟ospizio e l‟ospedale (che aveva probabilmente sostituito la stazione di sosta di Diana) dove venivano amorevolmente accolti, rifocillati, ospitati e curati varie categorie di Pellegrini, (diretti a Gerusalemme e forse in altri luoghi Sacri). Successivamente, l‟alluvione del 1582 seppellì la nostra città che nel frattempo aveva preso il nome di Rodì dai Cavalieri di Rodi (cavalieri di S Giovanni Gerosolimitano) quando questi governavano l‟isola di Rodi o dai coloni provenienti dall‟Isola di Rodi venuti in Sicilia dopo la caduta di tale isola in mano ai Turchi (come sostiene lo storico Vito Amico).

109

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Dal lungo excursus appena concluso attraverso i secoli è dunque evidente e chiaro il grande ruolo svolto da Rodì Milici, e da tutta la valle del Platì nella storia antica della Sicilia Settentrionale e del Mediterraneo ed ancor più grazie all‟intensa e preziosa attività svolta dai Cavalieri dell‟Ordine di Malta dal Medioevo fino alla prima metà dell‟800. Dopo questa data, il feudo e la commenda di Milici seguirono le sorti segnate dalla legge del 7 Luglio 1866, relativa alla soppressione dei conventi e all‟incameramento dei beni ecclesiastici.

Dall‟applicazione di questa legge, quindi, Castroreale venne in possesso di questo territorio. Il passaggio sotto Castroreale portò la popolazione di Rodì a rivendicare da subito l‟autonomia, ottenuta la prima volta il 21 Ottobre 1923, soppressa successivamente e riconquistata insieme a Milici il 10 Maggio 1947.

Un valore aggiunto alla mia ricerca storica che trent‟anni fa gettò luce su questo territorio, quasi completamente oscurato fino ad allora, è dato dalla rinnovata presenza attiva dell‟Ordine di Malta, grazie ai contatti più che ventennali del sottoscritto con illustri membri del suddetto Ordine.

Da circa un decennio, inoltre, le attivita‟ di ricerca storico-archeologica già da decenni sviluppate nel territorio e coadiuvate da iniziative culturali e pubblicazioni di svariati testi ed articoli, che hanno permesso di divulgare la millenaria storia di Rodì Milici, si sono intensificate grazie alla fattiva collaborazione dell‟Ordine, in particolare dell‟Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta, Conte Don Carlo Marullo di Condojanni e del Delegato Granpriorale di Facciata del palazzo Priorale di Milici del Priorato di San Giovanni Battista Gerosolimitano della città di Messina.

Messina del Sovrano Militare Ordine di Malta Barone Prof. Giuseppe Romeo Vagliasindi ed all‟operosa collaborazione della Dott.ssa Antonella Alibrando, raffinata ed intelligente, Presidente della Fondazione Studi Melitensi Itaca Onlus.

Ancora una volta, desidero sensibilizzare le istituzioni affinche‟ questo patrimonio culturale e spirituale denso di storia e significato, tramandato da queste civiltà, venga valorizzato con musei (come quello Melitense già realizzato) ed altri di carattere archeologico ed etnoantropologico.

Rivolgo quindi un accorato appello alle autorità competenti affinché possa essere realizzato il parco archeologico, il proseguimento degli scavi, ed affinché possano essere restaurate ed eventualmente acquistate dal comune di Rodì Milici 110

SAGGI

o dalla Regione Sicilia le varie opere d‟arte e monumenti presenti nel nostro territorio, testimoni della nostra storia, in quanto fonte di ricchezza e sviluppo culturale ed economico, ma soprattutto in quanto fonte della nostra millenaria civiltà ricca di spiritualità e umanità.

Confidando di aver suscitato in voi interesse e curiosità verso il nostro passato e le nostre origini, mi auguro che possiate consapevolmente apprezzare e riconoscere il valore della millenaria storia e cultura di cui il nostro territorio è intriso.

Veduta del golfo di Tindari da contrada “scorcia capre” in Rodì

111

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Bibliografia Aliberti Carmelo e Zanghì Andrea, Rodì Milici nel 40◦ Anniversario dell‟autonomia 1947 – 1987, Messina 1987; Bernabò Brea L., La Sicilia prima dei Greci, Il saggiatore, Milano 1958; Bernabò Brea L., Necropoli di Longane, Boll. di paletnologia Italiana - Istituto Grafico Tiberio, Roma 1967; Bernabò Brea L., Che cosa conosciamo dei centri indigeni della Sicilia che hanno coniato monete prima dell‟età di Timoleonte in: “Le emissioni dei centri siculi fino all‟età di Timoleonte i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia”, Atti IV conv. Centro Intern. di studi numismatici, Napoli, 1973; Bernabò Brea L., Longane, in quaderni di Archeologia, Università di Messina 1,1 Rubbettino 2000; B. Campagna, Recenti ricognizioni nel terretorio di Rodì‟ Milici, in: A. Calderone, M. Caltabiano, G. Fiorentini (a cura di) Archeologia del Mediterranee, Sudi in onore di Ernesto De Miro, Roma, 2003.

Bonvegna Carmelo, Usi e costumi di Rodì Milici, Bastoggi, 2005.

Buono L. e Pace Gravina G., La Sicilia dei Cavalieri, Le istituzioni dell‟Ordine di Malta in età moderna (1530 – 1826), Roma, 2003.

Carrettoni Gianfilippo, Longane, costruzione accanto la cascina Alcontres, in “quaderni di archeologia Università di Messina 1,1” Rubettino, 2000; Carrettoni Gianfilippo, Acropoli di monte Ciappa, in “quaderni di archeologia Università di Messina 1,1 Rubettino, 2000; Duro Carmelo, Rodì Milici dalle origini ad oggi, amministrazioni comunali di Rodì Milici 1997.

Orsi Paolo, Necropoli sicula a Pozzo di Gotto in quel di Castro Reale (Messina) “in Boll. di Paletnologia Italiana” serie V, Tomo I A, XLI Parma 1916; Rao Ennio, Sicilian Palimpsest - The language of Castroreale and its territory - Legas 2009; Ryolo Di Maria Domenico, Il Longano e la sua battaglia, in “Archivio storico Siciliano”, Palermo, serie III Vol. IV (1950-51) Saporetti Claudio, Diana Facelina un mistero Siciliano, pungitopo editore 2008; Siracusano, Campagna B., Falcone D., Resti di un complesso Rurale Ellenistico sul monte Gonia, presso Rodì Milici in “quaderni di Archeologia università di Messina”, 1,2 – Rubbettino, 2000; Spadaro Michele, I Nebrodi nel mito e nella storia, EDAS, Messina, 1993.

Zanghì Andrea, Rodì Milici e i Cavalieri di Malta, in “Sulle tracce dei Cavalieri: Il restauro del palazzo priorale di Rodì Milici”, a cura di Pietro Di Maria e Cinzia Accetta – Edizioni Caracol, Palermo 2010; Zanghì Andrea, Notizie storiche ed archeologiche su Rodì Milici e sulla valle del Platì (I-II parte) in “Terzo Millennio” anno I num. I anno I num. II, Aurora, Barcellona P.G. 2009 Zanghì Andrea, Puntualizzazioni sul vino Mamertino, in “Terzo Millennio”, anno II num I, Giambra ,Terme Vigliatore, 2010 Zanghì Andrea, Papa Leone II Santo, in “Terzo Millennio” anno III num II, Giambra ,Terme Vigliatore, 2011 Zanghì Andrea, Relazione sui beni culturali del comune di Rodì Milici della valle del Platì, in “Terzo Millennio” anno V num I-II, Giambra ,Terme Vigliatore, 2013 Zanghì Andrea, Aspetti del patrimonio artistico del comprensorio di Rodì‟ Milici, in “Il rischio sismico della provincia di Messina e la tutela del patrimonio culturale, il caso di Rodì Milici” Edizioni Nicolò‟, Messina 2006 Zanghì Andrea, Da Artemisia e Solaria a Rodì Milici, Ed. Spes, Milazzo, 1983.

112

RACCONTI

Tu non mi ami Racconto Monica BAULETTI “Ciao”.

“Ciao! Su, entra”.

“Vado via subito, non mi fermo”.

“Perché? Che cos‟hai lì?”

“Niente, una cosa. Sono venuta solo per portarti questo e per dirti che…”

“Ma dai, vieni. Andiamo di là, non vorrai restare tutta la sera lì in ingresso!”.

“No, davvero vado via subito, non mi fermo”.

“Va bene, ma andiamo di là”.

“Ti dico una cosa e poi me ne vado”.

“Che c‟è? Che cos‟è successo?” “È l‟ultima volta che vengo”.

“Perché? Aspetta, mettiamoci comodi e poi mi racconti tutto”.

“Non hai capito. IO-NON-MI-FERMO”.

“Dai, non fare così! Vieni, siediti sul letto accanto a me”.

“No, non sto scherzando. Tu non mi ami e io ti amo troppo. Sto male”.

“Vieni. Dai! Vieni qui”.

“A che scopo? So già che cosa succederebbe e non voglio. Sarebbe come sempre, niente di più”.

“Va bene, se non vuoi facciamo altro. Giochiamo a Monopoli?”

“Non prendermi in giro, non è facile dirti quello che devo”.

“Ma perché? Che cosa è successo?” “È che, in fin dei conti, non so nemmeno se c‟è qualcosa che posso dire”.

“Bene. Allora vieni qui”.

“No. Noi stiamo insieme? È tutto così indefinito con te. Non c‟è nessun impegno preso. Non so nemmeno se quello che penso abbia un senso. Insomma: io-nonvoglio-più-stare-con-te”.

“Perché non vuoi più?”

“Perché sto male e non ce la faccio a sopportare questa agonia”.

“Se tu mi lasci io mi ammazzo”.

“Dai! Non farmi ridere. Non farmi piangere”.

“Ma io non voglio che tu te ne vada”.

113

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

“Che cosa vuoi allora”.

“Niente, solo che tu venga qui vicino a me”.

“Non ha senso, lo vedi che non ha senso? Che cosa facciamo, che cosa faccio?”

“Ti stendi e non facciamo niente, stiamo qui e stiamo insieme”.

“Io non ti capisco. Non facciamo altro da mesi. Tu mi chiami e io arrivo. Mi telefoni e io corro. Poi non ti fai vivo per giorni, per settimane e io passo tutto il tempo ad aspettare. Aspetto fino allo sfinimento e quando non resisto più allora ti chiamo e non ti trovo e se ti trovo sei troppo stanco, sei impegnato, sei… dove sei?”

“Ho tanto lavoro e a volte mi devo alzare presto”.

“Ma fammi il piacere! Se tenessi un pochino a me non sentiresti la stanchezza e troveresti il tempo per vederci”.

“Vuoi fumare?”

“No”.

“Ti prendo da bere”.

“Non ho sete. Sono venuta solo per portarti un regalo di addio. Se non fosse stato per questo, te l‟avrei detto al telefono”.

“Che cosa?”

“Che volevo rompere. Deve finire, questa situazione è assurda”.

“Che cos‟è?”

“Niente, una cosa che ho fatto io. Be‟ si vede, no? È un quadro. Ma non aprirlo ora, se vorrai potrai guardarlo quando sarò andata via”.

“Va bene”.

“Non sei obbligato a tenerlo, lo puoi dare via, regalarlo o distruggerlo. Non ha più nessuna importanza per me, fanne ciò che vuoi. L‟ho dipinto pensando a te e quindi ti appartiene, non è più mio”.

“No, lo apro domani, adesso vieni qui”.

“No”.

“Almeno dammi un bacio di addio”.

“No. È meglio che io resti qui in piedi sulla porta. Tu rimani steso, non ti avvicinare per favore”.

“Perché fai così?”

“Non lo so. Non so più che cosa devo fare. Io devo interrompere questa spirale di dolore”.

“Ti stai facendo del male per niente”.

“Forse hai ragione”.

“Io non ci vedo niente di impossibile in tutto questo”.

“Certo! Per te tutto è possibile basta che io non ti chieda niente”.

114

RACCONTI

“Be‟, adesso sei qui e io ci sono, che altro c‟è da chiedere?”

“Tutto questo che cos‟è? Dimmi che cos‟è tutto questo? Tu chi sei? Io chi sono?

Noi … c‟è un noi? Non c‟è nemmeno un noi”. “È così importante definire ogni cosa?”

“Cosa vorresti dire? Certo che è importante sapere chi siamo, che cosa siamo. Per quale motivo io sono qui da te. Tu che cosa ti aspetti da me. Io che cosa posso avere da te. Siamo sì o no una coppia?”

“Non vedo il problema”.

“Tu non vedi il problema. Io ne muoio e tu non vedi il problema. Non ce la faccio più ad aspettare che tu mi contatti. Ci ho provato. Ho provato ad abituarmi, ma è troppo faticoso è troppo difficile per me. Più tu m‟ignori e più io ci soffro, è straziante. Ti scrivo su Facebook e non rispondi”.

“Non mi connetto spesso, lo sai”.

“Non è vero. Vedo quando leggi e mi rispondi dopo giorni oppure non rispondi per niente. Ti scrivo messaggi al cellulare e non rispondi neanche a quelli”.

“Perché li leggo al lavoro o quando sono con qualche cliente. Dopo dimentico di rispondere”.

“Già, tu dimentichi sempre e io resto lì a languire nell‟attesa”.

“Dai, non fare così. Vieni qui. Vieni a sederti vicino a me. Ti giuro che non ti tocco. Resto fermo e non ti faccio niente, ma non restare sulla porta”.

“Questo? dove vuoi che lo metta?”

“Mettilo lì”.

“Lo appoggio al muro”.

“Dai, non ti tocco, portalo qua. Lì potrebbe cadere, infilalo di fianco al comodino così non cade”.

“Ti prego, è già così difficile. No, per favore lasciami la mano”.

“Allora siediti un momento.”

“Io non voglio lasciarti, ma così fa male. Ti prego lasciami la mano”.

“Vieni qui, ti voglio dare solo un bacio sulla guancia”.

“Cosa fai?”

“Ti accarezzo sei di ghiaccio, hai freddo?”

“No”.

“Tremi”.

“Non ho freddo”.

“Sei ghiacciata e stai tremando. Togliti la giacca e vieni sotto le coperte ti scaldo un po‟ e poi te ne vai”.

“No”.

“Se tu mi lasci io mi ammazzo”.

115

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

“Senti, non farmi ridere”.

“Davvero, sentirei di aver fallito”.

“Tze! Fallito che cosa? Che non sei riuscito a distruggermi? Che non mi hai annientata? Che non mi hai resa come te, indifferente e superficiale, capace di vivere questa storia senza un obiettivo comune. Sentiresti di aver fallito perché l‟amore ha cambiato solo me rendendomi diversa da te?”

“No. Perché te ne vai”.

“Non so! Io proprio non ti capisco. Che cosa vuoi da me? Che cosa ti aspetti da questa specie di rapporto che abbiamo? Che razza di relazione è la nostra?”

“Smettila di farti tutte queste domande e vieni vicino a me. Stenditi sopra le coperte se preferisci. Ci guardiamo un film e poi vai via”.

“Sei incredibile! Non mi ami. Tu non mi ami e non me lo dici e io non ho il coraggio di chiedertelo perché ho paura che tu mi dica che ho ragione, che è vero che non mi ami mentre io ti amo troppo per sopportare l‟idea che per te non sia la stessa cosa”.

“Tu pensi troppo”.

“Sai, è perché sento di voler rinunciare a pensare che ho deciso di rompere. Tu non mi vuoi ormai è evidente anche per me. Tutti l‟hanno capito solo io continuavo a credere di poter costruire qualcosa con te. Mi illudevo di poterti rendere felice e di essere l‟unica persona al mondo in grado di offrirti una vita migliore. Invece non è così. Per quanto io cerchi di darti tutto quello che posso, di essere come tu mi vuoi, tu non mi ami. Anche quando usciamo con gli amici tu mi ignori, ti siedi lontano da me ed è come se non ci conoscessimo neanche”.

“Non mi sembra”.

“E invece è così! L‟ultima volta, in pizzeria, eri seduto al lato opposto al mio! “È stato un caso”.

“No, è stato voluto, voluto da te. Poi hai flirtato tutta la sera con la mia amica. Ti ho visto e ti hanno visto anche tutti gli altri. Io stavo così male! Tutti mi guardavano con compassione, come si guarda chi non sa e ignora l‟evidenza. Mi sono sforzata di non farci caso, ho pensato che fosse un altro modo per ferirmi e per soddisfare l‟istinto che ti spinge ad agire con crudeltà nei miei riguardi, ma non riesco a sopportare tutto questo, non ho la forza per portare avanti un rapporto-non-rapporto anche se ti amo da morire. L‟amore che nutro per te mi sta distruggendo. Tu ti sei ricordato di me solo quando siamo usciti e sei venuto a salutarmi, a fine serata, solo prima di separarci. Sei stato dolcissimo, ma questo mi fa ancora più male. Perché non capisco. Io non capisco che cosa cerchi, che cosa vuoi. Io non ce la faccio più”.

116

RACCONTI

“Dai non piangere adesso, non fare così. Vieni qua. Senti! Sei ghiacciata e tremi tutta. Sss, sss, non piangere, calmati, tremi e singhiozzi, sei tutta un fremito. Sss, sss, da brava, non piangere più. Adesso siamo insieme, sei con me. Non piangere più, calmati. Brava, così”.

“Devo andare”.

“Dopo. Adesso ti calmi e ne riparliamo. Io non voglio perderti ma sono fatto così! Non ci penso. A volte faccio le cose, solo perché mi viene, senza ragione”.

“Non so, io credo invece che tu lo faccia perché senti il bisogno di farmi male, e ci godi a vedermi soffrire”.

“Ma no, non è così. Non so, sarò fatto male, mi sono sempre comportato in questo modo e non riesco a essere diverso, è il mio modo di agire, faccio le cose e basta”.

“Tu fai sempre cose che mi feriscono. Non riesco più a sostenere questo rapporto, devi impegnarti anche tu, mi devi aiutare, io ho bisogno di aiuto perché da sola non ci riesco. Mi assalgono i dubbi e mi sento persa. Ho bisogno di certezze e tu invece continui a seminare ambiguità a ogni occasione. Ogni volta che mi sento esaurita e penso sia arrivato il momento di troncare, tu mi chiami e io m‟illudo che tutto andrà bene e che tu sia pronto ad amarmi, ma poi, l‟effetto dei nostri rari incontri è sempre più breve e il dilungarsi delle attese è sempre più insostenibile”.

“Sss, sss. Non pensare più. Sss”.

“La paranoia mi assale e le domande si moltiplicano, ma le risposte dove sono?

Ti amo, ti amo tanto, ti amo troppo! È malsano questo sentimento. È virale e devo guarire, ma posso farlo solo se tu cambierai, oppure, lontana da te”.

“Non posso essere diverso, sono fatto così”.

“No, non è vero. Per amore cambiare si può. Cambiare si può”.

117

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

CVPIDO RESTITVTVS Poemetto di Antonino GRILLO (UniversitĂ di Messina) Qui puer ludens minime iocosa spicula intendit neque fallit unquam quaeritat semper iaculanda corda perque domanda.

Perfidum dicunt puerum atque atrocis esse cordis qui tacitus celerque fundit umorem magicum sagittis usque paratis.

Id quidem monstrant numerosi amores quis virorum et pectora feminarum sed deum cunctorum etiam impotenter mota videntur.

Nam quis ignorat mala quae Cupido in Iovem mittens sua tela fecit, cuius est mundi dominatus omnis imperiumque?

Antiqui multi cecinere Grai atque Romani celebres poetae maximi Patris varios furores furtaque plura.

Carmina illorum teneras puellas et leves matres puerosque dicunt ac patres quis facta deus malignus turpia suasit.

Constat inter nos facinus pudendum, nomen incesti quod habet Latine, urbibus totis nimium frequenter tingere mores, sicuti nulla ratione posse tanta ab humanis fieri scelesta, perfidum ridens deus ille ni vult, cognitum habemus.

Improbus divus puer est Cupido, qui malis tantis homines lacessit nec iocis pravis solet abstinere, matre iuvante.

Attamen nobis minime est tacendum

5

10

15

20

25

30

35

118

POESIA

tam ferum divum puerumque, Amorem, vividam esse vim generis potentis nec perituri: omnibus viventibus orbe toto illa fert fortes stimulos amoris, qui vetant ne mox species relinquant vitam adamatam.

Actus impulsu pueri tremendi ille mutus grex, mare qui profundum incolit perque aequora currit usque, gaudia quaerit.

Nec gerit se longe aliter canora turba quae latum aёra nixa pinnis impigre explorat memorans tenellos quaerere victum.

Ceterum mores hominum vicesque quisquis indagat, poterit videre quam Cupido det bona magna vivis mente benigna.

Illa vis divina animos gubernat, omnium sensus agit atque ducit utque mavult, corpora iungere urget et dare prolem.

Hanc alit curatque deinde mater dum pullos suos videat serena sat cibi tandem sibi posse prompte suppeditare: laeta miratur genetrix inanem nidulum in quo saepe queri solebant iamque pasti pergere pipiare insatiati.

Magnus, immensus variusque valde est pulcher orbis quem dedit incolendum atque conservandum homini reliquit Summa Potestas.

Nil tamen demonstrat inusitatum in creanda progenie; colit nam Terra cuius corpora cumque formae innumerata, quae quidem omnes cognitum habemus uno more eodemque omnia procreari: illa vis divina supra evocata mira agit una.

Nec potest ullum dubium esse quin sint 119

40

45

50

55

60

65

70

75

80

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

mira vel divis tribuenda quae egit illa virtus vivida procreandi, stante ope nulla.

Parvus ergo divus itemque magnus fascinator, qui aequiperandus exstat pergravi ardentique siti et libidini immoderatae, diminuta accepit adhuc Cupido dona, merces quae omnibus apta non est mente sana utentibus atque visu quo bona cernant.

Tempus nunc est reddere laudem Amori atque honores pro meritis probandis quae modo illo quo potui explicavi carmine vili.

Tu, Cupido, adtende mihi precanti deditas aures: miser hic poeta iam valet pauca addere morbo iniquo debilitatus.

Orbis errabundus itemque ab ovo usque vivus numquam habeat dolendum omnibus terrestribus, heu, necatis, sospite nullo.

Noster orbis denique non rubescens visat almum perpetuumque lumen: laeta vivat semper amoena Terra Amore volente.

Explicit

120

85

90

95

100

105

POESIA

CUPIDO RIABILITATO Traduzione Il fanciullo che gioca a lanciar dardi non proprio innocenti e mai fallisce è sempre in cerca di cuori da colpire e dominare Fanciullo perfido è detto e crudele lui che zitto zitto e assai veloce con le saette sempre pronte inietta magico umore Ciò confermano i numerosi amori che non soltanto di uomini e di donne ma pure di tutti gli dei la mente hanno sconvolto Chi ignora infatti che mali causò Cupido le audaci frecce scagliando addosso a Giove che l‟intero mondo regge e governa?

Molti antichi vati greci e famosi poeti romani hanno celebrato del sommo Padre le tante pazzie e i rapimenti I loro carmi tenere fanciulle cantano e leggere madri e padri e ragazzini che il dio spinse a turpi azioni Sappiamo infatti che quel vergognoso delitto chiamato in latino incesto troppo spesso delle nostre città macchia i costumi come ci è noto che tali scelleratezze non possono commettere i viventi se non lo vuole il dio che sorride perfidamente Dio maligno il piccolo Cupido che sotto sì gravi mali gli umani

5

10

15

20

25

30

121

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

schiaccia e non disdegna scherzi cattivi la madre accanto Non dobbiamo però mai sottacere che il tremendo dio fanciullo altro non è che una forza speciale viva ed eterna A tutti i viventi del nostro globo essa dà di amore potenti impulsi che impediscono a tutte le specie rapida fine Spinto da impulso del tremendo dio il muto gregge che abita nel profondo mare e va correndo per l‟azzurra distesa cerca il piacere Né fa altrimenti la canora turba che per gli aperti spazi celesti instancabile il cibo ricerca alla tenera prole.

D‟altronde chiunque degli uomini indaghi vicende e costumi che belle cose Cupido benevolo ai vivi provveda certo vedrà.

Tale divina forza di tutti gli animi governa di tutti i sensi commuove a piacere i corpi fa unire e le stirpi innovare I figlioletti ogni madre poi cura e alimenta finché non li veda del tutto capaci di procurarsi il cibo da soli Lieta lei guarda il niduccio ormai vuoto nel quale solevano i piccoli sempre lagnarsi pipiando e pipiando pieno già il ventre Davvero grande e vario il bel pianeta che la Suprema Potestà ha lasciato da abitare e con cura conservare al genere umano 122

35

40

45

50

55

60

65

70

POESIA

Nessuna varietà tuttavia né differenza nella procreazione mostra la Terra la qual d‟ogni forma esseri crea A tutti infatti è noto che questi infiniti esseri allo stesso modo nascono miracoli di quell‟unica forza divina Né si può dubitare ch‟è prodigioso e sa proprio di divino quanto sa fare quella viva virtù generatrice senza un aiuto Dunque quel piccolo dio ed insieme grande ammaliatore da eguagliare a grave sete e indomabile voglia mai saziata ha fin qui ricevuto solo piccoli doni – ricompensa certo inadeguata per chi ha la mente e gli occhi adatti a scernere il giusto Ma è tempo di rendere ad Amore le lodi e gli onori che ha meritato per le ragioni da me esposte in questi poveri versi Tu Cupido di questo tuo poetucolo che perfido male sempre più guasta le poche parole ascolta che ormai egli può dirti Possa il nostro globo – che in eterno vivo erra tra gli astri – non dover mai piangere lo sterminio dei terrestri nessuno escluso Questo pianeta infine abbia a guardare l‟almo eterno lume senza arrossire Lieta sempre viva l‟amena Terra volendo Amore

75

80

85

90

100

105

FINE 123

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

La torcia a led Poesia di Lucio ZINNA C‟è la logica del bambino e quella dell‟adulto la logica dei sogni e quella della veglia la logica del credente e quella del miscredente la logica del savio e quella del folle la logica dell‟uomo di pace e quella dell‟uomo di guerra.

C‟è la logica del momento e quella retrospettiva (detta anche “senno di poi”) c‟è una logica per sorreggere la prudenza e una per giustificare la spavalderia c‟è la logica della benevolenza e quella della tracotanza.

Tutte con relative variazioni con la miriade di coincidenze che non le accomunano e le sparute differenze che fanno la differenza fondamentale tra l‟una e l‟altra.

Nel labirinto delle logiche una torcia a led a fugare ombre frugare negli angoli scovare per ogni postazione la logica di base senza la quale mai potrebbe rivolgersi uno sguardo al vertice né trovare via d‟uscita.

124

POESIA

Paese misura Poesia di Lucio ZINNA Paese nido si parte appena si levano le ali si torna quando calano a stremo di vita − snidato il provincialismo metropolitano.

Paese approdo da dove si riparte remimbarca per lidi-anima a ultranodi di fissitĂ e fermezze.

Paese ombra / rifugio / misura.

Si riparte - un angelo in comitiva verso una segreta Compostela di orme brevi a larga risonanza dentro il cuore.

125

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

A incalcolabili lune Poesia di Lucio ZINNA

Ora accade che a te mi rivolga se m‟impantano e che possa trascurarti quando le strade scorrono. Così fanno spesso i figli e a fatica riescono i padri a commisurare se e quanto sia giusto ma sanno anche che la vita può confondere o deviare percorsi occorre stare in guardia.

Ora tengo annodato al dito quel filo sfuggito come aquilone nel turbine adolescenziale.

Ardua impresa e tarda riprenderlo a incalcolabili lune di metafisiche separatezze polemiche negazioni schermaglie silenzi irritazioni.

(Eppure tante volte mi hai mandato un angelo in missione segreta).

Ora sono con te come mozzo che ogni giorno impara a navigare.

Su quel dialogo m‟arrampico come albero maestro scivolo risalgo.

E tengo fermo il filo dell‟intesa.

A qualcosa serve invecchiare.

126

POESIA

Fiore di Galilea Poesia di Mirella GENOVESE Fiore di Galilea come splendi tra le bacche ovoidali e le foglie translucide!

Gelsomino raro, vicino al gelsomino arabo olezzi più delicato tra il canto degli uccelli nel polverio azzurro del lago di Tiberiade.

Può elevare un canto più dolce l‟uomo?

Può elevare il creato più intensa armonia?

127

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Comunione Fugace Nazaret Poesia di Mirella GENOVESE Umana Incarnazione, perché così ci elevi su questa terra?

Per cogliere quella scintilla divina e illuminare il nostro tempio interiore dove Tu palpiti e dai vigore Tu disceso dall‟uomo mediante creatura?

I Tuoi canti in lingue diverse ci danno la misura della divinità della Tua Parola.

Se Tu sei il Verbo, questo canto con parole divine è musica e Tu sei armonia musica piena Bellezza che traspare nel creato.

Tu Parola-Musica perché mi chiami?

Lettura in arabo in terra d‟Israele perché l‟uomo non divida le lingue ma sia unica armonia.

Risiedere nel Tuo giardino e percepire gli aromi di questo viaggio di musica e canto alito di profumo dove mi attendi nel campo di forze in cui la Tua forza sollecita la mia e Tu sei Presenza avvolgente attimo di comunione fugace.

128

SAGGI

Il lungo cammino: storie di vita di studenti stranieri prof. Domenico TROVATO Presidente Comitato Cultura S@rto, Dirigente scolastico emerito Nell‟anno scolastico 2013/2014, sotto la guida di una docente del CTP “Sarto” di Castelfranco Veneto, è stato sviluppato un progetto formativo di matrice interculturale, coinvolgendo gli studenti frequentanti i Corsi di lingua italiana per stranieri. L‟idea di fondo è stata quella di far raccontare a ragazzi e ragazze frammenti della loro vita, con particolare attenzione al momento del distacco dal loro paese e all‟impatto con la società italiana. Il percorso didattico ha prodotto dei racconti brevi, interfacciati con immagini e si è concretizzato nella pubblicazione di un volumetto dal titolo evocativo “Il viaggio della mia vita, speranze, scoperte, solitudini”, edito dal Comitato Culturale “Sarto”.

“La speranza di un futuro migliore” è questa la cifra umana e socio-culturale che possiamo scegliere per identificare la preziosa impresa narrativa degli studenti e delle studentesse del CTP. Al di là dei tanti “interculturalismi”,spesso di facciata,donne e uomini di altri Paesi,approdati in Italia alla ricerca di un “futuro migliore”, si sono aggregati per dare voce alle loro storie, ma anche ad una “storia” che ci accomuna,quella dell‟erranza,del “nomadismo umano” (Attali J., 2006).

Tra le pieghe delle loro vicende personali si possono leggere le contraddizioni di un mondo globalizzato, di una società “liquida” (Bauman,2003), che promette e che inganna, all‟interno di scenari dove le identità non creano meticciato, coesione sociale, ma conflitti.

Bellissimi, anche commoventi, questi testi che, nella loro semplicità, ci danno lezioni di umanità, aprono le nostre menti a profonde rivisitazioni, ci inchiodano alle nostre responsabilità. Tanti i messaggi sottesi, tutti attraversati da una indifferibile scommessa, intrapresa per migliorare le condizioni della propria vita e, perché no, quelle di questa società, quasi mai inclusiva.

Splendide anche le immagini che corredano, nella loro icastica significatività,le narrazioni autobiografiche, quasi un altro ”testo” da leggere e capire.

Notevole aver sviluppato un siffatto progetto all‟interno dell‟EdA, settore che ha bisogno di queste testimonianze, di queste persone che vogliono conquistarsi, attraverso la cultura, spazi di cittadinanza attiva.

129

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Plauso e riconoscenza alla docente che ha saputo far convergere pensieri e parole dei suoi allievi in questa originale pubblicazione e che così licenzia il suo lavoro “Nel mio agire in classe, accoglienza ed integrazione sono stati i punti di forza, attraverso cui ho cercato di far dialogare le varie realtà culturali, entro valori condivisi”.

130

SAGGI

Presentazioni del nuovo saggio del poeta Carmelo Aliberti sulla poesia di Bartolo Cattafi Daniele FAZIO

Nel 35° anniversario della morte del poeta Bartolo Cattafi si sono tenuti una serie di incontri commemorativi nel quadrato di terra siciliana che lo ha visto nascere e crescere. I momenti di alta cultura si sono snodati particolarmente in due convegni, durante i mesi estivi, tenutisi a Rodì Milici e a Barcellona Pozzo di Gotto.

Organizzati dall‟associazione Terzo Millennio e dalla omonima rivista internazionale i simposi sono stati momenti di discussione, suscitando notevole interesse da parte dei partecipanti proiettati alla scoperta della poesia e della figura del poeta. Al tavolo dei relatori raffinati intellettuali, convocati dal poeta Carmelo Aliberti, la cui ultima fatica letteraria è stata dedicata proprio a Cattafi: “La poesia di Bartolo Cattafi. Tra negativo esistenziale e ansia metafisica”, Giambra Editori.

A partire dalla opera di Aliberti hanno discusso sull‟arte cattafiana i professori Giuseppe Rando dell‟Università di Messina, Jean Igor Ghidina della Blaise Pascal University, lo scrittore Nino Famà, il professore Gino Trapani e Loredana Catalfamo, lettrice attenta di una selezione di poesie cattafiane.

Dagli interventi dei relatori è emersa la figura di Cattafi quale viandante dell‟esistenza umana che ha battuto tre vie: la poesia, la ragione e in ultimo la fede. Una lettura che Carmelo Aliberti ha voluto rimarcare pensando a Cattafi come ad Ulisse che ritorna ad Itaca, in quanto si salva dal nulla, cui egli stesso si era affacciato grazie alle tre vie indicate. Il testo di Aliberti in sostanza si presenta come un dialogo tra poeti che si è snodato negli anni e di cui ora diventa suggello da offrire ai lettori.

Giuseppe Rando, sottolineando che è «Un lettore accanito e un amico di Carmelo Aliberti», ha richiamato l‟attenzione sul fatto che l‟hinterland barcellonese ha «la fortuna di avere due poeti di caratura culturale importante, quali Cattafi e Aliberti. Cattafi è un poeta molto dotto e raffinato, difficile da capire, affezionato alla dimensione corale e come Aliberti sempre alla ricerca della moralità, dell‟assoluto». Dunque, ha offerto la chiave di volta della sua interpretazione: «questo libro, molto bello, non è altro, a parer mio, che una sorta di abbraccio tra Aliberti e Cattafi, qualcosa di davvero molto intimo, un corpo a corpo, un 131

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

abbraccio del poeta al poeta, in cui ciascuno trasmette all‟altro qualcosa di suo. È un fatto osmotico ed il confine che divide Cattafi da Aliberti è molto debole.

Provenienti dallo stesso luogo, ma in due epoche diverse, i poeti presentano differenze e affinità, in base a quello che il contesto comunica all‟artista. Aliberti, qualche volta, in questo libro costruisce riflessioni molto articolate, molto approfondite, da seguire con attenzione. Di Aliberti, credo che sia il libro meno scolastico che conosco, ma sicuramente più intimo. La novità del libro nasce dalla convinzione di Aliberti che la poesia di Cattafi ha una sua diacronia, uno sviluppo, una storia che si evolve, come nella vita, nella sua scrittura. Un vero e proprio percorso di cui Aliberti fa un‟analisi attenta e scrupolosa». Arte e vita ancora una volta non possono essere disgiunte.

Il professor Igor Ghidina, seguendo questa ingegnosa similitudine tra i due poeti ha, invece, sottolineato come «il poeta sia il vate, ovvero colui che osa dire di no all‟ignavia imperante» ed ha sottolineato come «sia Aliberti che Cattafi nutrono e curano lo stesso stile poetico attraversato da negatività polisemica: da un lato, il male quotidiano, la condanna alla possibilità della scelta etica tra il bene e il male, dall‟altro – facendo riferimento a “Ossidi di Seppia” di Eugenio Montale (Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo) – la poesia di Cattafi inneggia al rifiuto coraggioso della società, il grido del poeta che dice “no” al mondo nefasto in cui vive. È ciò che anche Carmelo Aliberti, in questo suo ultimo saggio su Bartolo Cattafi fa notare, con riferimento alla particolare natura che investe ogni poeta di un compito arduo, a volte pesante, ma sicuramente fatto di cuore e anima.

La parola di Aliberti, invece, ha svelato la prospettiva interiore che ha fatto da guida maestra nel suo confronto con la poesia cattafiana: «mi sono sentito chiamato ad andare oltre, in direzione non più di me stesso, ma dell‟umanità intera ed in particolare delle giovani generazioni. La ragione, la fede e la poesia hanno salvato me e salveranno l‟umanità intera. Questo è di certo un compito importante su cui ogni giorno lavorare e non mollare mai». In queste parole, leggiamo la mirabile sintesi di una vita dedicata all‟insegnamento e allo studio, non come semplice “lavoro”, ma come passione e dedizione all‟altro, come scoperta di doni da offrire, come apertura di senso conquistato e fatto trasbordare dalla propria intimità, nel tentativo di raggiungere i prossimi, ma soprattutto i tanti giovani che il professore Aliberti ha incontrato nelle aule scolastiche e che incontra quotidianamente, come stimolo e pungolo continuo alla sua creatività.

L‟invito, dunque, di Aliberti è quello di avere la ventura di trovare e ritrovare sempre se stessi; le strade sono variegate, il sentiero della ragione, della poesia e della fede si stagliano però come quegli orizzonti in cui l‟uomo può ben dimorare 132

SAGGI

nel proprio essere. A scanso d‟equivoci questo non è da considerarsi un mero momento contemplativo, ma dalla meraviglia, dall‟ammirazione scaturisce un‟azione duplice, da un lato la denuncia chiara e incondizionata dei mali del mondo – superando i relativismi del nostro tempo – e dall‟altro la costruzione speranzosa e paziente di spazi umani rinnovati dallo spirito e dal cuore. È una scommessa che il poeta Aliberti nelle sue parole, stimolate anche dal confronto con Cattafi, continua a proporre per non rimanere schiacciati nel turbine di cronos.

Due ultime note non possono essere celate. Nell‟incontro barcellonese si è unito al coro di voci il professore Gino Trapani, affermando che «la dinamicità e la passione della scrittura di Cattafi sicuramente non è semplice da comprendere, ma rende l‟idea perfetta di ciò che è la vita. Non esiste mai in Cattafi, un verso uguale ad un altro, l‟uso particolare dei termini e il continuo cambio del ritmo trasmettono l‟ansia di voler vivere, l‟affanno nei confronti di una vita che ti mette alla prova e che ha bisogno di scossoni, forti terremoti che devono derivare da noi, dal nostro modo di vivere».

Nella cornice del convegno rodiese, invece, non è mancata una relazione curata dallo storico locale Andrea Zanghì sui beni culturali del centro collinare. È così emersa l‟antica storia del centro databile sin dall‟età del bronzo. Attraverso la battaglia tra i siracusani e i mamertini, la venuta dei Cavalieri di Malta, fino all‟autonomia comunale del 1947, Andrea Zanghì ha letto le vicende del territorio quale epicentro della storia della valle del Patrì. Una storia, meticolosamente ricostruita da Zanghì, che non può rimanere rinchiusa negli studi, ma può diventare volano di sviluppo culturale, sociale ed economico.

Questo viaggio nell‟arte di Cattafi, offerto dal professore Aliberti, si è rivelato per quanti hanno partecipato un‟occasione non solo di ricordare e conoscere un grande poeta, ma ha aperto ai presenti i sentieri della propria interiorità, laddove non si può essere tiepidi e quieti, perché luogo in cui si giocano le grandi battaglie della vita nella scelta continua ed istantanea o di disperdere se stessi nei tanti rivoli secondari dell‟esistente o di essere se stessi, puntando alla propria realizzazione integrale, oltre i tanti graffi che la vita infligge.

Rodì Milici, 4.XI.2014

133

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Gli umili nella poesia di Carmelo Aliberti Ennio I. RAO University of North Carolina, Chapel Hill Il poeta Carmelo Aliberti è nato a Bafia di Castroreale, un piccolo borgo della provincia di Messina, sito tra l‟Etna e il mare, in cospetto dell‟arcipelago delle Eolie, cariche di storia e di mito. Aliberti ha vissuto quasi tutta la sua vita tra i contadini di Bafia. Isolano ma non isolato, da sempre poeta engagé, dal 1967 ad oggi Aliberti ci manda una ricca e assidua messe di poesie che lo pongono tra i protagonisti dell‟azione di rilancio della cultura meridionale. Tessendo un discorso poetico sul filo della coerenza e dell‟impegno morale, Aliberti ha cantato la Sicilia e i suoi annosi problemi: la disoccupazione e il conseguente flagello dell‟emigrazione; ha cantato la povertà, le speranze tradite e l‟emarginazione; ha additato la tragedia spirituale dell‟uomo contemporaneo e quella fisica dell‟ambiente violentato; ha condannato l‟edonismo, la corruzione, il consumismo, l‟egoismo e il terrorismo. Ma il poeta ha cantato pure la natura, la speranza, la pietà, l‟amore come atto di poesia e la poesia come atto d‟amore. Ha eseguito l‟endoscopia del tessuto sociale malato, studiato il microcosmo della propria anima e scrutato da lungi l‟approssimarsi dell‟apocalisse. Si è ora affiancato benignamente e fraternamente al pensionato nel bar il sabato sera intento a riempire la schedina del Totocalcio, ora ha condannato i mali della società. La sua voce si è innalzata in una sorta di canto corale, si è librata in preghiera, e ha lanciato invettive come un profeta inascoltato.

Allacciata alla tematica dei vari conati poetici di Aliberti, troviamo sin dall‟inizio la figura degli umili. Caro dolce poeta (1981, 1991) è una feroce condanna della classe politica e del patriziato industriale che rende la classe operaia vittima di un neocolonialismo economico. L‟operaio è condannato ad una vita monotona e stentata: Eccoti tuffato nella pazienza della fame nel sudario dei campi straziati sui selciati dell‟esilio per l”Europa assediato dal gorgo delle lagrime dal sorriso dei figli e delle madri Eccoti nuotare nelle tossine della fabbrica incollarti alla catena di montaggio benedire la mano del padrone 134

SAGGI

che ti assicura lavoro e farmacia liofilizzati chicco pane milton mister-baby poppatoio con la benedizione della madre che lavora lavora lavora perché con un salario la vita è dura Il governo lo incita a pagare le tasse e a consumare per il benessere dell‟economia nazionale: Devi essere anche tu a fare sacrifici compila con scrupolo la denuncia dei redditi traccia croci tra i minuscoli rettangoli infarcisci con rigore le line non lesinare spazio alle chiamate e se non basta scrivi scrivi scrivi fin su la carta igienica le note dichiara le cifre di pensione sociale la disoccupazione gli assegni familiari il contributo per eventuali funeral dichiara lo spessore dell‟aria che respiri e poi non tralasciare versa in fretta fatti i conti l‟obolo dovuto la crisi sarà scongiurata l‟economia riacquisterà salute la bilancia dei pagamenti equilibrate nel paniere dello SME saremo uguali e non importa se il canone impazzirà ancora se i figli avranno ancora paura di udire la voce dei padroni …………………………….

La bistecca ora non manca è disponibile anche surgelata a prezzi comodi corri alla Standa per la spesa sui detersivi e sulla plastica 135

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

avrai forti sconti puoi cambiare senza anticipo a rate l‟automobile la mutua ti assiste il fegato ti cura per telefono la caryatide ……………………………… perché elastica moderna è la catena della tua felice schiavitù Per contrasto, Aliberti dipinge a brevi pennellate la vita agiata dei padroni: Ai padroni le materie prime it tuo salario la mutua la ristrutturazione aziendale le ville gli arenili le pinete l‟aereo lo yacht le piscine l‟harem il sole industrial per la ginnastica cerebro-sessuale è liturgia manageriale sai costano un occhio devi capire ……………………….. con l‟auto di grossa cilindrata ………………………….. i figli con l‟Honda la ragazza chewing-gum barbarie marijuana Nei poemi Aiamotomea (1986) e Nei luoghi del tempo (1987), è l‟umile contadino ad occupare il primo piano e ad essere avvolto in un‟aura di sacralità.

Definito da Bàrberi Squarotti uno dei poemi più significativi del dopo-Montale, Aiamotomea è un panegirico alla contrada di Aiamoto, l‟alma tellus del poeta, un‟ode che celebra la gente, la storia e i miti dei luoghi cari al poeta esumendone i significati eterni, mentre esprime il travaglio di un‟anima sensibilissima che vive con strazio la storia contemporanea.

Il titolo, Aiamotomea, fortemente carico di significato e che assume l‟ufficio di parola liturgica e incantatrice, è formato di tre elementi che si scompongono e ricompongono nel corso del poema. Aia - richiamante un grido di dolore - evoca l‟area dove si svolgono i millenari riti della civiltà contadina ed è anche per felice coincidenza la forma in cui - per contrazioni interne - gli scriptores medievali e rinascimentali solevano rendere il vocabolo anima. Moto indica il movimento, lo slancio dell‟anima del poeta mentre suggerisce il vocabolo siciliano mautu, il 136

SAGGI

terreno argilloso su cui si svolge l‟epopea contadina. Mea, nella forma latina, suggella la partecipazione affettiva del poeta all‟argomento del poema.

Aiamotomea allora è materia e forza motrice alle ali del canto del Nostro.

Dopo una descrizione lirica della natura, volando tra il mito e la storia, il poeta ci presenta vividamente le dramatis personae di Aiamoto. Sospeso tra passato e presente egli coglie nei gesti più significativi la vita degli umili contadini e dei boscaioli, deformati, resi mostri (“ciclopi”) dalla fatica e ingiuriati con l‟appellativo dispregiativo di “zaccaini” financo dai paesani, villici essi stessi a qualsiasi altro occhio. Li vediamo sciamare la mattina dalle loro case-pagliai in varie direzioni verso i loro posti di lavoro su e giù per i colli circostanti Bafia con la loro parca merenda e l‟immancabile borraccia del vino. Sentiamo il profumo dell‟aria montana e del pane nei forni a legna preparate dalle loro infaticabili donne. Vediamo le stesse donne stendere i lini presso il torrente Longano e tessere come la “mite Penelope” fino all‟ultimo barlume della sera.

Il poeta canta anche le passioni degli abitanti di Aiamoto, la loro sete spirituale, che talvolta spingeva alcuni di essi a remoti eremi “a lacerare febbri d‟anima.” (si crede infatti a Bafia che una grotta fuori del paese abbia ospitato l‟eremita Santa Venera, forse una forma cristianizzata della dea mater Venere).

Ed ecco che il moto acquista una direzione interna, pur sempre nella più ampia dimensione temporale, alternando al passato il presente, e il poeta passa in rassegna le tappe della sua vita e il suo legame con Aiamoto. Parla dei suoi sogni omerici e del suo “esilio soave” triestino al quale se ne aggiunge un altro “di agonia e nulla”. Vaga per Aiamoto e nota il pianerottolo dove i cadaveri dei contadini (“gli eroi della zolla”) venivano portati su una scala ad attendere l‟arrivo di una bara di ruvido pino.

Il poeta porta sulla scena nuovi personaggi. Ci presenta Peppi Ciaurri, che torturato dal sole con le bertole ancora riaffiora dal paradiso perduto nella valle alla necropoli dei vivi.

Rappresentante ed erede della tradizione contadina, Peppi Ciaurri ne incarna le principali virtù: la laboriosità, che lo spinge a fatiche che meglio si addicono ad una bestia da soma, e la tenace fede cristiana. Il soprannome “Ciaurri” sarebbe corruzione del turco “giaour”, o infedele, inteso Cristiano, meritato forse da qualche suo antenato per la spiccata religiosità.

Infine, sospeso tra la cronaca e il mito, al di là di ogni limite temporale, ma paradossalmente cosciente più che mai della realtà quotidiana di Chernobyl,

137

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

dell'“atomo demente”, il poeta ottiene una visione apocalittica e raggiunge la schiera di Dante, Leopardi e Ungaretti, naufraghi dell‟infinito.

Un altro poema celebratore della classe contadina indigena è Nei luoghi del tempo, che ha come epigrafe la ben nota citazione del Vangelo secondo S. Giovanni (15,5) “Io sono la vite, voi siete i tralci”. Questo poema dall‟andamento quasi liturgico fu presentato nel paesino di Salice il 12 settembre 1987, nell‟ambito delle celebrazioni della sagra del vino.

Partendo da un ampio quadro cosmogonico, la giostra degli atomi il clinamen il palpito dell‟etere le stelle nell‟azzurro infinito, il poeta passa per le varie tappe della storia umana, bibliche e secolari: il soffio della vita nell‟argilla l‟agonia del diluvio il gaudio dell‟esodo dall‟arca al luccichío dei grappoli sui tralci il sogno di Alceo nell‟alcova dei sorsi... l‟esilarante utopia di Epicuro... i paradisi perduti di Andes l‟arsura storica di Plinio che frugando nei misteri di Longane illuminava di sorrisi il giorno con il nettare dei vini mamertini.

Approdato all‟era cristiana, Aliberti identifica come atto centrale l‟Eucarestia, la consacrazione del pane e del vino foriera del sacrificio della croce: e poi quel calice impagliato che squarciò le nebbie del peccato con il sangue della Vita Vera...

Con brevi ma incisive immagini il poeta delinea la storia umana dal Medioevo ad oggi dalla prospettiva degli umili. Li vediamo “nel brusío beato dei pagliai / all‟ombra dei castelli,” poi sotto la veste “dei cafoni di Silone” / aggrappati alle labbra del (...) mare / sciascianamente color del vino” sentiamo la loro sete “di pane di giustizia e amore”. Sfruttati dai padroni (“prensili idre clandestine”) i contadini rimangono “cristofori”, portatori dei valori della civiltà cristiana, martiri o testimoni di essa, e celebrano l‟Eucarestia ripetendone gli atti centrali: la produzione e consumazione del pane e del vino.

138

SAGGI

Giunto al presente il poeta confonde la sua persona con quella dei suoi personaggi e si definisce “il Peone del Sud esiliato” a Trieste che cerca la sua terra in un sorso di vino. Ricorda poi con amarezza le tradite speranze del compromesso storico (“i docili inganni delle ideologie parallele”) e gli “anni di piombo / che insanguinarono / l‟anima vergine di orrore”.

Ma oggi “gli stormi dei poeti” engagé riscattano i valori della cultura cristiana pagati con il sangue del “Cristo - contadino” e conservati allo stato più pur dai contadini, dagli umili. I pargoli di Omero fanno da testimoni, versano ampolle di rabbia e di delirio per lo sgomento atomico urlato da Cassandre inascoltate, per le vittime di tutte le guerre (apartheid aids droga disoccupazione ozono) Assunto il ruolo di sacerdote e di figura Christi, essi gridano equità gridano amore per il sangue nei secoli versato delle agrodolci ferite d‟aprile e contro i nuovi farisei e pubblicani all‟Erode del progresso e del futuro con l‟ultimo rantolo di fiato si ostinano a cantare “Io sono la vite, voi siete i tralci”.

Noi siamo i “gavinales” del pane del vino della storia.

Noi Prometei del Duemila incatenati alla croce dei giorni siamo della gioia di vivere l‟Annata subliminante Memoria.

Così la poesia, l‟annata del poeta, formata di memoria collettiva della civiltà, celebra - come le opere e i giorni del contadino - la vita, la “Vita Vera”.

Gli umili hanno un ruolo di rilievo anche in uno dei più recenti conati poetici di Aliberti, Itaca/Ithaka (2008), un poema allegorico ricco di richiami ed echi omerici e danteschi. L‟io narrante di Itaca/Ithaka è Aliberti, novello Ulisse e novello Dante. Nell‟Odissea, Ulisse sfida un dio spietato pur di rivedere Itaca, la patria che conserva i suoi amori familiari. Nella Divina Commedia, Dante sfida le tre belve, la morte e l‟inferno. Ma con l‟aiuto di Virgilio e di Beatrice raggiunge la sua patria celeste, dove il poeta, che rappresenta allegoricamente l‟umanità 139

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

intera, creatura di Dio, si ricongiunge con il suo Creatore. In Itaca/Ithaka, troviamo il poeta, uomo del suo tempo, sopraffatto dal male del vivere e gravato dalla coscienza dei peccati della storia: Ero solo, davanti a me il deserto nel cerchio di ghirlande insanguinate, sugli asfalti delle città sgomente il grido di Caino ancora vivo “Andiamo ai campi” ………….

Il secolo mutilato era in salita …………. …tormento della cronaca degli Anni degli orrori Il poeta è consolato dai ricordi della vita semplice ma eroica della sua gente: Come esplodono nel verde dei castagni le guance degli estinti nei sorrisi sugli accesi sentieri di spighe, sciamano per ovili e vigne d‟oro dai mille antri sapore di miele: il sole brilla sulle nuche austere, il sudore spalmato tra I capelli, e a sera tornano nel tufo della stanza profumata di garofani e ginestre, gli occhi inchiodati nella culla.

Sperando di approdare “all‟isola invisibile degli angeli”, in questo sogno allegorico il poeta teme di naufragare, insidiato dall‟Orca e dalla maga Adelasia.

Invoca allora l‟aiuto del poeta Cattafi. Avrà per compagni altri poeti: Kavafis, Bevilacqua, Cassata, Stilo, Montale, uomini eroi che egli invoca per raggiungere la sua meta. Il poeta invoca pure l‟aiuto dei Lari, la gente semplice rappresentata da Nino (fratello del poeta), don Nicola e don Mariano: Oh! sacri Lari, tracciate al timoniere il sentiero verso l‟arcipelago che imprigiona l‟isola tra schegge di soprusi, la zattera è tremula di vele nel risucchio di correnti rapinose e il capitano affonda nelle lacrime di un viaggio straniante senza bussola.

140

SAGGI

Saranno “i poeti veri”, non i “poeti mercenari”, ad accompagnare il poeta, e saranno i “sacri Lari” a indicare al timoniere la giusta rotta che conduce Aliberti alla patria, a Bafia, idillico villaggio montano popolato da discendenti di carbonari, pastori e contadini nella speranza di iniziare una nuova era eroica per l‟umanità.

Caro dolce poeta, Aiamotomea, Nei luoghi del tempo e Itaca/Ithaka celebrano la vita semplice degli umili, conservatori dei valori che hanno istruito e informato la nostra civiltà, valori eterni che si riflettono nella loro vita e nelle loro opere.

141

TERZO MILLENNIO - ANNO 6 - NUMERO III / IV - DICEMBRE 2014

Al nuovo direttore responsabile Antonino Motta benvenuto e auguri Terzo Millemmio ha da questo numero un nuovo direttore responsabile,il giornalista professionista prof. Antonino Motta, redattore del quotidiano Il Centro. A.Motta esercita da molto tempo la sua attività prediletta da moltissimi anni ed è scritto all'Albo dei giornalisti professionisti dal 1992.

Il Direttivo dell'Associazione Culturale Terzo Millennio, in tutte le sue componenti e la famiglia Culturale della Rivista Terzo Millennio, consapevoli della serietà, della vasta cultura e della zelante professionalità e caratura etica, sono lieti di averlo come guida esperta e Gli augura buon lavoro.

L'Associazione Culturale "Terzo Millennio

L'Associazione Culturale Terzo Millennio rimarrà sempre grata all'impegno profuso come direttore responsabile al giornalista Santo Coiro, deceduto improvvisamente in giovane età. In tutti noi, e particolarmente nel suo Presidente Carmelo Aliberti che fu suo fraterno amico fin dagli anni universitari e ne apprezzò le sue doti umane e culturali.

142