Da omero e apollonio rodio ai poemi epico cavallereschi

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DA OMERO E APOLLONIO RODIO AI POEMI EPICO-CAVALLERESCHI EVOLUZIONE (E DISSOLUZIONE) DI UN GENERE LETTERARIO

DI

ANTONINO GRILLO

2 Il notissimo principio eracliteo dello ‘scorrere di tutte le cose’, efficacemente e sinteticamente espresso con πάντα ρεῖ, si può ben applicare a quelli che chiamiamo generi letterari. Anch’essi, infatti, vanno soggetti, con ogni evidenza, ad una più o meno lenta evoluzione.

Di conseguenza, per conoscerli meglio, gioverà un approccio diacronico (oltre che una considerazione sincronica). Conviene altresì notare, a questo punto, che, occupandoci noi del genus grande, faremo bene a prendere in esame, dei vari poemi, soprattutto, pur se non esclusivamente, i versi proemiali e finali, che assai più di ogni altra parte dell’opera si prestano, per la loro più netta formalizzazione, alla presentazione di innovazioni di diversa natura. Per l’appunto in tali versi, molto più che altrove, il narratore epico, solitamente assai restio a manifestarsi e parlare in qualche modo di sé, talora si concede la libertà di fare riferimenti di varia natura a sé stesso e così facendo ‘lavora’ per un progressivo distacco del genere dai canoni originari. Sull’assenza del narratore epico in passato si è alquanto esagerato: uno studioso di valore come Augusto Rostagni riteneva che “fra gli alessandrini […] la convenzione epica si perpetua e regna sovrana […]. Questo lo vediamo bene in Apollonio Rodio […]: nessuna traccia di riflessione o divagazione personale; nulla (se si prescinde da qualche breve diverso e vago strappo, in cui si afferma la progredita coscienza dell’erudito, come in IV, 2-3), nulla che abbia in qualche modo un senso autobiografico: l’atteggiamento spirituale di Apollonio Rodio è, per tale riguardo, quello stesso dell’antichissimo Omero”1. Ed ancora Scevola Mariotti, in tempi più vicini a noi, nell’individuare e valorizzare “gli elementi non epici negli Annali di Ennio, con specifico riferimento alla “polemica letteraria del proemio del libro VII contro Nevio,

1

Cfr. Elementi autobiografici nell’epopea (dai Greci ai Latini), in Scritti minori. II, 2, Romana, p. 193 (già in “Belfagor” I, 1946, p. 73 ss.).

3 affermava che essa “non aveva alcun precedente nell’epica greca e latina” 2.

Oggi però possiamo ritenere, alla luce di più recenti indagini, che le cose non stanno esattamente così:3 anche la poesia epica mostra i segni della sua lenta ma immancabile evoluzione e certamente il narratore epico delle Argonautiche non è più quello dell’Iliade e dell’Odissea. Questo, tra l’altro, crediamo che potrà risultare chiaro da quanto d’ora in avanti diremo in merito ai proemi e agli epiloghi delle opere costituenti in buona parte la tradizione epica dell’Occidente 4. In verità anche le apostrofi, formalmente assai vicine alle invocationes, veicolano spesso elementi che ci parlano in termini più o meno espliciti dell’autore; ma noi in questa sede non abbiamo né lo spazio né il tempo per occuparcene in modo specifico. Andiamo dunque a considerare, un po’ in dettaglio in dettaglio, i versi di apertura e di chiusura di una serie di poemi epici (o ‘para-epici’). *** Come si sa, all’inizio della tradizione letteraria del mondo occidentale c’è Omero, e da lui, dai poemi che fanno riferimento

2

Cfr. S. Mariotti, Lezioni su Ennio, Urbino, 1991 (seconda ediz. accresciuta), p. 73.

3

Cfr. in particolare M. Fusillo, Il tempo delle Argonautiche, Roma 1985, passim, e A. Grillo, Tra filologia e narratologia. Dai poemi omerici ad Apollonio Rodio, Ilias Latina, Ditti-Settimio, Darete Frigio, Draconzio, Roma 1988, cap. I.

4

Sulla ‘novità’ dell’autore delle Argonautiche, in relazione alla diversità del ruolo e della concezione stessa del poeta in ambiente ellenistico, si veda pure Alessandra Romeo, Il proemio epico antico, Roma / Reggio Calabria 1985, p.

19 ss.

4 al suo nome cominciamo il nostro particolare viaggio lungo il corso dei secoli.

Prescindendo, per ovvie ragioni di opportunità, da tutto ciò che costituisce la complessa “questione omerica”, diamo uno sguardo all’inizio dei due poemi che vanno sotto il nome dell’antico vate, del ‘poeta sovrano’, come lo chiama Dante (Inf. IV 88).

Ecco il celeberrimo proemio dell’Iliade (I 1-7):

[A beneficio di chi ne avesse bisogno, accompagniamo i brani greci e latini con una moderna traduzione italiana, che per l’Iliade è quella data da Guido Paduano 5: Canta, Musa divina, l’ira di Achile, figlio di Peleo, l’ira rovinosa che portò ai Greci infiniti dolori, e mandò sottoterra all’Ade molte anime forti d’eroi, e li lasciò in preda ai cani ed a tutti gli uccelli: così si compiva il volere di Zeus5 -------------------------------------------------5 Omero, Iliade. Traduz. e saggio introduttivo di G. P. Commento di Serena Mirto, Torino, Einaudi / Gallimard, 1997.

5

Omero, Iliade. Traduzione e saggio introduttivo di G. P., commento di Serena Mirto. Omero, Iliade. Traduzione e saggio introduttivo di G. P., commento di Serena Mirto.

5 Ed ecco quello non meno celebre dell’Odissea (I 1-10):

[Di questo riportiamo la traduz. di G. Aurelio Privitera 6: Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme che tanto vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell’animo suo, per salvare la propria vita e il ritorno ai compagni.5 Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo: stolti, che mangiarono i buoi del Sole Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno. con la loro empietà si perdettero.

Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.]10 I due brani hanno in comune il modo di combinare i due elementi costitutivi del proemio (epico), vale a dire l’invocazione alla divinità ispiratrice (Musa/Muse, Apollo, ecc.) e la protasi o propositio. In entrambi, infatti, le prime due parole sono, rispettivamente, il tema del canto espresso da un sostantivo posto all’accusativo in dipendenza dal predicato, un imperativo di verbo specifico indicante il ‘cantare’; segue, nell’uno e nell’altro, una proposizione relativa, che aggiunge elementi specificativi

6 dell’oggetto. Quello che, però, a noi qui maggiormente interessa rilevare è il fatto che, nell’uno e nell’altro, protagonista dell’operazione poetico-canora non è formalmente il poeta bensì il divino ‘essere’ ispiratore, rispetto al quale l’autore risulta in posizione subalterna, quasi strumento nelle sue mani. I riferimenti del narratore a sé stesso, poi, sono limitatissimi nel proemio odissiaco, praticamente inesistenti in q uello iliadico: in quello possiamo rilevare la presenza di alcuni pronomi di prima persona singolare o plurale (µοι al v. 1, ἡµῖν al v. 10), in questo neppure qualcosa di simile 7.

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Omero, Odissea, vol. I (libri I-IV), a c. di Afred Heubeck e Stephanie West, Traduzione di G. A. P., Fondazione Valla / Mondadori, 1981.

7

Il pronome pesonale presente nel cantami di apertura della fortunata versione del Monti è una (discutibile) aggiunta che ‘avvicina’ l’attacco del poema sull’ira di Achille a quello sul ritorno di Odisseo.

Qualche cosa di più riscontriamo nel cosiddetto ‘proemio al mezzo’ (formalmente non dissimile da quello iniziale) che leggiamo in Il. 2, 484-493:

7 [Vers. del Paduano, cit.: Ditemi adesso, Muse che abitate l’Olimpo, voi dee, che siete sempre presenti e sapete tutto – noi sentiamo soltanto la fama e non sappiamo niente – chi erano i principi e i capi dei Greci: io non posso nominare la massa degli uomini, neanche avessi dieci lingue e dieci bocche e una voce instancabile e un cuore di bronzo, a meno che non siano le Muse d’Olimpo, figlie di Zeus signore dell’egida a far menzione di tutti quelli che vennero a Troia.

Ma nominerò i capi e tutte le navi.]

In questi versi, che precedono e preparano il ‘catalogo’ delle navi, notiamo la presenza di riferimenti al narratore nei pronomi µοι dei vv. 484, 489 e 490; ἡµεῖς del 488 nonché nelle forme verbali di prima persona (singolare o plurale) ἵδµεν (v. 486), µυθήσοµαι e ὀνοµήνω in 488 ed έρέω in 493. Si tratta, comunque, di elementi assai tenui, che lasciano ancora del tutto in ombra la figura dell'auctor: con i poemi omerici re stiamo ancora al narratore epico che non parla di sé e non fa sentire la sua presenza; tipico rappresentante della narrativa orale, Omero, com’è stato ben detto, è narratore “onnisciente”, “autorevole” e “oggettivo”, che racconta senza quasi per nulla mostrarsi 8.

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Cfr. R. Scholes – R. Kellogg, La natura della narrativa, traduz. ital.Bologna 1970 (NewYork 1966), p. 230 ss.

***

8 Passiamo al capolavoro di Apollonio di Rodi, apprezzabile frutto e significativa testimonianza di una cultura notoriamente assai diversa da quella cui si riferisce la poesia omerica.

Se andiamo a cercare i ‘segni’ della presenza dell’autore nelle Argonautiche, troveremo una situazione notevolmente diversa rispetto a quella dell’Iliade e dell’Odissea. Per apprezzare a dovere tutto lo scarto esistente occorrerebbe uno sguardo adeguato a tutto il testo ed in particolare alle tante apostrofi disseminate nel poema, cosa che io ho avuto modo di fare in altra sede 9: ma qui ci limiteremo a prendere in considerazione, in buona sostanza, quanto offrono i versi iniziali e quelli finali, nei quali sono già rilevabili più che sufficienti elementi di novità relativamente alla manifestarsi del narratore epico rispetto al modello omerico. Ecco, innanzi tutto, il proemio (Arg. I 1-22):

9

A. G., Tra filologia e narratologia,…, cit., specialmente p. 38 ss.

9

[vers. di Guido Paduano 10.

Da te sia l’inizio, Febo, a che io ricordi le gesta degli eroi che attraverso le bocche del Ponto e le rupi Cianee, eseguendo i comandi di Pelia, guidarono al vello d’oro Argo, la solida nave.

Il re Pelia aveva appreso un oracolo, che l’aspettava 5 una sorte atroce in futuro: chi tra i suoi sudditi avesse visto venire calzato di un solo sandalo, quello con le sue trame gli avrebbe dato la morte.

10

Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Introduzione e commento di G. P. e M. Fusillo,

traduz. di G. P., Rizzoli, Milano 2007.

10 Non molto tempo dopo, secondo il tuo oracolo, mentre guadava d’inverno l’Anauro, trasse in salvo dal fango10 un sandalo solo, e l’altro lo lasciò in fondo all’acqua.

Presto giunse da Pelia, per prendere parte al banchetto che il re celebrava in onore di Posidone suo padre e degli altri dei: ma di Era Pelasga non ebbe pensiero.

Appena vide Giasne capì e pensò per lui la fatica15 d’un duro e lungo viaggio, sperando che in mare o tra genti straniere perdesse la via del ritorno.

Come Argo costruì la sua nave, con il consiglio di Atena, cantano di poeti di un tempo: io voglio invece qui dire la stirpe degli eroi ed il nome, e i lunghi vaggi per mare,20 e tutte quante le imprese che essi compirono.]

Già nelle prime parole notiamo un atteggiamento nuovo: non c’è più l’aedo che invoca la Musa (o altra analoga divina entità), perché voglia cantare il tema in oggetto o ‘ispirare’ a lui un canto; c’è, invece, il poeta alessandrino consapevole del suo ruolo di narratore epico che enuncia ed annuncia con forza l’argomento del suo poema: “ricorderò – dice – le “gloriose imprese degli eroi” (si veda il predicato µνήσοµαι, cui la posizione di evidenza nella prima sede del verso dà parµticolare rilievo) e con ciò si autoassegna lo specifico ruolo che in realtà gli compete.

Ma c‘è dell’altro. Ci sono altri segni della moderna consapevolezza che Apollonio ha della propria funzione non subalterna ad una superiore fonte ispiratrice. Quando, al v. 20, precisa la res da trattare, egli usa ancora una volta, come nell’incipit, la prima persona singolare (ἄν ἐγὼ µυθησαίµην…) ed esprime nettamente il proprio intendimento mediante una proposizione principale: “voglio parlare …”. Significativo è anche il fatto che, al momento di dare inizio alla sua narrazione, il poeta modernamente contrappone se stesso ai vecchi cantori della nave Argo e della sua costruzione sotto la guida di Atena, dicendo di voler “trattare della stirpe e del nome degli eroi, delle lunghe

11 traversate marine e delle imprese compiute nel loro errare”, con ciò significando la propria originalità e non limitandosi a porsi di fatto, con ‘primitiva’ ingenuità, quale voce dell’indistinta tradizione. E la Musa, di solito nei proemi invocata proprio in apertura, che fine ha fatto? Apollonio, come si vede, sembra quasi essersene dimenticato: né si può dire che l’ha sostituita, come talora si rileva in altri autori, con il dio della ′′poesia, perché Febo è apostrofato al primo verso non come fonte di ispirazione, ma solo in riferimento all’antefatto per il vaticinio che aveva messo in allarme il re di Tessaglia, Pelia, facendogli credere di essere in pericolo. Delle Muse, l’autore delle Argonautiche si ricorda, per così dire, solo alla fine del non breve proemio: a loro egli riserva proprio le ultime parole di esso, in tutto meno di un esametro; e neppure le invoca, ma le nomina in un auto-augurio (che sembra preannunciare quello del finale ‘congedo’). Esso è tanto noto quanto problematico. A causa, infatti, di ὑποϕήτορες, un hapax che può significare ‘suggeritrici’,‘ispiratrici’ od anche ‘ministre’, ‘interpreti’, vi si può vedere una bella prova dell’inversione del tradizionale rapporto poeta / Musa, con la collocazione più in alto del poeta oppure, al contrario, una conferma della perdurante superiorità della fonte ispiratrice.

Ma anche a non tenere gran conto di questo locus, le indicazioni in favore della novità e ‘modernità’ della posizione apolloniana non sono né poche né vaghe. Tra le più rilevanti c’è, senza dubbio, l’introduzione di un epilogo o ‘congedo’: una novità, questa, destinata, come vedremo, a grande diffusione e sviluppo, anche oltre la durata del mondo greco-latino e al di là dell’ambito linguistico del greco e del latino; una traccia da seguire per cogliere una delle linee evolutive dell’epos. *** Ed ecco l’importante epilogo (Arg. IV 1773-1781):ξ

12

[Vers. del Paduano, cit.: Siate propizi, eroi, figli degli immortali, e questo mio canto possa di anno in anno esere sempre più dolce agli uomini. Eccomi giunto al termine illustre delle vostre fatiche, giacché nessun’altra vi toccò dopo che foste partiti da Egina; non sorse nessuna tempesta di vento; tranquilli e sicuri costeggiaste la terra Cecropia e quella di Aulide di qua dell’Eubea, e le terre dei Locresi Opunzi, e lietamente sbarcaste alla riva di Pagase.]

Inventando l’epilogo, Apollonio creò, per sé e per i successivi cultori del genere, un ulteriore spazio privilegiato, al di là del proemio e delle apostrofi, nel quale inserire riferimenti a sé stesso ed in particolare alla propria opera quale sperata fonte di imperitura gloria poetica.

La letteraria innovazione, come si sa, trovò poi larga accoglienza presso i poeti latini: l’unica eccezione importante e sicura al riguardo è costituita da Virgilio, il quale evidentemente preferì attenersi, nell’epica Eneide, all’esempio dell’inventor generis, mentre non esitò a chiudere con un formale congedo/epilogo le (epico-) didascaliche Georgiche. . *** Diamo ora uno sguardo al notissimo proemio dell’Eneide (I 111): Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris

13 Italiam, fato profugus, Laviniaque venit litora, multum ille et terris iactatus et alto vi superum saevae memorem Iunonis ob iram multa quoque et bello passus, dum conderet urbem inferretque deos Latio, genus unde Latnum Albanique patres, atque altae moenia Romae.

Musa, mihi causas memora, quo numine quidve dolens, regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores 10 impulerit. Tantaene animis caelestibus irae? [versione di Enzio Cetrangolo: L’uomo guerriero, il profugo io canto che primo dalle spiagge di Troia giunse fatalmente in Italia sui lidi di Lavinio; molto e per terre e per mari quello fu sbalestrato da Numi celesti a causa dell’ira lunga di Giunone; e molto in guerra anche sofferse5 per fondare la nuova città e condurre i Penati nel Lazio; da cui la stirpe latina e i padri Albani provennero e dell’alta Roma le mura.

Musa, e tu dimmi di questo le cause: per quale offesa o dolore colei ch’è regina dei Numi10 costrinse quell’uomo di fede profonda a passare per tanto pericoli, a subire tanti travagli. un’ira sì grave nei petti celesti permane?]

Seguace di Omero e non di Apollonio circa le modalità di chiusura del poema, Virgilio mostra di risentire del più moderno exemplar nella formulazione dell’incipit: il proemio inizia infatti con la protasi e l’oggetto è dato in accusativo retto da un verbo in prima persona singolare (cano v. 1 come µνήσοµαι v. 2 di Apollonio); segue la invocatio alla Musa menzionata ad altro titolo e solo alla fine del proemio dal poeta greco. Come questo

14 inoltre il Mantovano fa riferimenti a sÊ stesso con pronomi personali di prima persona: mihi v. 8) in Virgilio, γω (v. 20) in Apollonio.

15 Come si vede, dunque, il poeta dell’Eneide, si manifesta in prima persona, ben più di Omero e proprio come Apollonio (che peraltro egli non segue nella funzione assegnata alla Musa). *** A questo punto vien da chiedersi se il pater Ennius aveva fatto la stessa scelta nei suoi Annali. Purtroppo, dal poco che ci è giunto della produzione epica dell’età arcaica non è possibile ricavare una risposta certa per siffatto interrogativo. Quello che possiamo dire è forse questo: vista la consistenza quantitativa e qualitativa degli elementi di novità che, stando alla convincente indagine del Mariotti11, il poema enniano presenta, già a partire dal probabile proemio, l’adozione di un epilogo sulla scia di Apollonio non stupirebbe affatto. A ciò si aggiunga un’altra considerazione: in realtà qualcosa di simile al congedo apolloniano tra i frammenti degli Annales c’è e si tratta del fr. V che parla dell’età avanzata del poeta e della sua intenzione di lasciare l’attività letteraria e che doveva appartenere alla fine del libro XII. Poco importa, infatti, che non si tratti di versi che posti alla fine dell’opera: non fa molta differenza tra fine dell’opera e fine di un’esade (se davvero il poema fu composto – e pubblicato – per esadi); del resto, il poeta potrebbe, in un primo momento, aver considerato finito il poema con il libro XII; come dire che saremmo in presenza di qualcosa di simile al caso oraziano dell’ode III 30, che fa da congedo alla raccolta dei primi tre libri (dei quattro di cui consta l’intera produzione lirica del Venosino)12. A una chiusa ‘apolloniana’ potrebbero pure essere assegnati i vv. 374 s. Vahlen2 (attribuiti dai più, ma non da tutti, al libro XII, nei quali l’autore si paragona ad un destriero, vincitore più volte, in passato, di gare olimpiche ma

11

Cfr. Lezioni …, cit., p. 65 s. e specialm. 70 ss.

12

Per la sua emblematicità in fatto di proclamazione della propria, attesa gloria poetica lo riporto integralmente poco più avanti.

16 ormai giunto all’età del meritato riposo. Per qualcosa di simile si ricordi la fine del II libro delle virgiliane Georgiche (vv. 541-542): Sed nos immensum spatiis confecimus aequor, et iam tempus equum fumantia soluere colla.

[Vers. di Cetrangolo, cit.: Ma già sterminate distese noi percorremmo ed è tempo di sciogliere i colli fumanti ai cavalli.]

Vale la pena di osservare ancora che l’adozione del ‘moderno’ modello apolloniano a preferenza di quello omerico per la chiusa del poema ben s’accorda con gli elementi di novità presenti negli Annales quali sono stati puntualmente individuati e magistralmente analizzati in primo luogo dal già citato Scevola Mariotti 13. E ad un epilogo di tipo apolloniano si addirebbe pure un altro frammento, Ann. 567 Vahlen2: Huic statuam statui maiorem etiam, arbitro, ahenis che Mariotti ha ritenuto doversi più probabilmente attribuire allo Scipio). Questo parrebbe suggerire la scoperta ripresa fattane da Orazio proprio nel congedo della raccolta dei libri 1-3 delle Odi, il celeberrimo carme III 30 1 ss.:

13

Cfr. Lezioni…, cap. 4, spec. p. 69 ss. dove tra l’altro leggiamo (p. 74): “Come si vede, questi dati autobiografici erano notevolmente estesi: essi appartengono agli interventi ‘personali’ del poeta nella sua opera, in cui si possono far rientrare anche gli elementi critico-letterari ricordati prima.

Almeno per l’estensione, le notizie autobiografiche non trovano precedenti nella poesia epica anteriore. Nulla o quasi nulla di simile vi è, per quanto sappiamo, nell’epica greca, tranne una generica considerazione personale di Cherilo di Samo (fr. 1 Kinkel) e poco nell’epica latina: noi sappiamo solo che Nevio diveva nel Bellum Poenicum (fr. 2 Morel [= 32 Mar.]) di aver prestato servizio militare durante la prima guerra punica”.

17 Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo inpotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. 5 Non omnis moriar multaque pars mei uitabit Libitinam; usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita uirgine pontifex.

Dicar, qua uiolens obstrepit Aufidus10 et qua pauper aquae Daunus agrestium regnauit populorum, ex humili potens princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica 15 Lauro cinge uolens, Melpomene, comam.

*** Molto più precisi che su quella arcaica, possiamo senz’altro essere circa l’epica post-virgiliana, per la semplice ragione che in questo caso si sono conservate integralmente più opere significative, le quali ci danno modo di parlare, almeno per una parte della specifica produzione, sulla base di dati di fatto, poco o punto condizionati da ipotesi più o meno fantasiose e da sempre pericolose congetture.

A questo punto sono da ricordare anzitutto le Metamorfosi di Ovidio, che hanno un breve Proemio (I 1-4): In nova fert animus mutatas dicere formas Corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) Adspirate meis primaque ab origine mundi

18 Ad mea perpetuum deducite tempora carmen. [vers. di N. Scivoletto in Ovidio, Metamorfosi, a c. di N. S., Torino, Utet, 2005;ediz.2000: È mio proposito cantare il mutamento di corpi in altri nuovi: o dèi (ché siete voi gli autori di mutamenti) siate favorevoli alla mia impresa eintamente e sinteticamente agli dei.

Più importante è però per il nostro discorso la loro chiusa (XV 861-879): Di, precor, Aeneae comites, quibus ensis et ignis cesserunt, dique Indigetes genitorque Quirine urbis et invicti genitor Gradive Quirini Vestaque Caesareos inter sacrata penates, et cum Caesarea tu, Phoebe domestice, Vesta, 865 quique tenes altus Tarpeias Iuppiter arces, quosque alios vati fas appellare piumque est: tarda sit illa dies et nostro serior aevo, qua caput Augustum, quem temperat, orbe relicto accedat caelo faveatque precantibus absens! 870 Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas. cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi: parte tamen meliore mei super alta perennis 875 astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum, quaque patet domitis Romana potentia terris, ore legar populi, perque omnia saecula fama, siquid habent veri vatum praesagia, vivam. . [vers. di Nino Scivoletto, op. cit.: O dei che accompagnaste Enea e davanti ai quali si ritirarono il fuoco e le spade, o dei Indigeti e tu Quirino padre della Città e tu Gradivo genitore dell’invitto Quirino, e Vesta, venerata tra i

19 Penati dei Cesari, e tu, Febo, nume tutelare insieme a Vesta e tu, Giove che domini dall’alta rupe e infine voi tutti altri dèi, che è lecito e doveroso per il poeta invocare: giunga tardi quel giorno, e più tardi della mia fìne, in cui Augusto, il principe, lasciato il mondo che ora guida, salga in cielo e pur lontano esaudisca le preghiere umane!

Ormai ho portato a termine un’opera che né l’ira di Giove né il fuoco né il ferro e neppure il tempo vorace potrà cancellare.

Quando vorrà, quel giorno che ha potere solo sul mio corpo ponga fine al corso della mia vita: tuttavia con la parte migliore di me volerò in eterno al di sopra delle alte stelle e il mio nome rimarrà indelebile, e dovunque si espande la potenza romana con le sue conquiste sarò letto dalle genti e, se le predizioni dei vati contengono qualcosa di vero, grazie alla mia fama, vivrò per tutti i secoli.]

Da notare, tra l’altro, la serie di divinità invocate, con esclusione della Musa; la preannunciata ascesa al cielo di Augusto e, soprattutto, la orgogliosa e decisa proclamazione in termini enniani, da parte dell’autore, della grandezza della propria ‘costruzione’ poetica e la conseguente eternità della propria fama. *** E passiamo alla letteratura dell’età neroniana e dell’età flavia.

Dei grandi poemi di questa età, alcuni, come è noto, ci sono giunti incompiuti (o, quanto meno, non rifiniti) e, di conseguenza, senza epilogo: è il caso del Bellum civile o Pharsalia di Lucano (che termina a X 546), dell’Achilleide di Stazio (interrotta a II 167) e delle Argonautiche di Valerio Flacco (che non vanno oltre VIII 467).

A proposito del poema lucaneo c’è da osservare che, comunque, anche nella conformazione in cui lo conosciamo, esso non manca di quell’elemento che di solito ricorre nei congedi, vale a dire il

20 riferimento all’agognata, perenne fama che può procurare la poesia: innovando rispetto alla tradizione, questa volta il narratore epico ha trovato il modo di affidare ad una delle innumeroli, e spesso articolatissime, apostrofi inserite nel suo poema, la fiduciosa proclamazione del successo che si attende dalla sua Pharsalia. Notevole anche l’aggiunta di un particolare importante, cioè l’affermazione che l’opera poetica darà fama imperitura non solo al suo autore ma pure al personaggio in essa cantato (IX 980986): O sacer et magnus vatum labor, omnia fato eripis et populis donas mortalibus aevum.

Invidia sacrae, Caesar, ne tangere famae; nam, si quid Latiis fas est promittere Musis, quantum Zmyrnaei durabunt vatis honores, venturi me teque legent; Pharsalia nostra 985 vivet, et a nullo tenebris damnabimur aevo.

[Vers. di Luca Canali14: O sacra e grande fatica dei poeti, che tutto strappi al destino, e doni l’eternità ai popoli mortali.

Non ti tocchi, o Cesare, l’invidia di questa gloria sacra; Infatti, se le Muse latine possono promettere qualcosa, quanto durerà la fama del vate di Smirne, i posteri leggeranno te e me; la nostra Farsaglia 985 vivrà, e da nessuna epoca saremo condannati alle tenebre.]

Il capolavoro lucaneo si segnala inoltre per il suo lungo e complesso proemio (I 1-66):

14

Cfr. M. A. Lucano, La Guerra civile o Farsaglia. Introduz. e traduz. di L. C., Milano, Rizzoli, 1987 (I ediz. 1981).

21

Bella per Emathios plus quam ciuilia campos iusque datum sceleri canimus, populumque potentem in sua uictrici conuersum uiscera dextra cognatasque acies, et rupto foedere regni certatum totis concussi uiribus orbis 5 in commune nefas, infestisque obuia signis signa, pares aquilas et pila minantia pilis.

Quis furor, o ciues, quae tanta licentia ferri?

Gentibus inuisis Latium praebere cruorem cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis10 Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta bella geri placuit nullos habitura triumphos? heu, quantum terrae potuit pelagique parari hoc quem ciuiles hauserunt sanguine dextrae, unde uenit Titan et nox ubi sidera condit15 quaque dies medius flagrantibus aestuat horis et qua bruma rigens ac nescia uere remitti astringit Scythico glacialem frigore pontum! sub iuga iam Seres, iam barbarus isset Araxes et gens siqua iacet nascenti conscia Nilo. 20 tum, si tantus amor belli tibi, Roma, nefandi, totum sub Latias leges cum miseris orbem, in te uerte manus: nondum tibi defuit hostis. at nunc semirutis pendent quod moenia tectis urbibus Italiae lapsisque ingentia muris 25 saxa iacent nulloque domus custode tenentur rarus et antiquis habitator in urbibus errat, horrida quod dumis multosque inarata per annos Hesperia est desuntque manus poscentibus aruis, non tu, Pyrrhe ferox, nec tantis cladibus auctor 30 Poenus erit: nulli penitus descendere ferro contigit; alta sedent ciuilis uolnera dextrae.

Quod si non aliam uenturo fata Neroni

22 inuenere uiam magnoque aeterna parantur regna deis caelumque suo seruire Tonanti 35 non nisi saeuorum potuit post bella gigantum, iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque hac mercede placent. diros Pharsalia campos inpleat et Poeni saturentur sanguine manes, ultima funesta concurrant proelia Munda, 40 his, Caesar, Perusina fames Mutinaeque labores accedant fatis et quas premit aspera classes Leucas et ardenti seruilia bella sub Aetna, multum Roma tamen debet ciuilibus armis quod tibi res acta est. te, cum statione peracta 45 astra petes serus, praelati regia caeli excipiet gaudente polo: seu sceptra tenere seu te flammigeros Phoebi conscendere currus telluremque nihil mutato sole timentem igne uago lustrare iuuet, tibi numine ab omni50 cedetur, iurisque tui natura relinquet quis deus esse uelis, ubi regnum ponere mundi. sed neque in Arctoo sedem tibi legeris orbe nec polus auersi calidus qua uergitur Austri, unde tuam uideas obliquo sidere Romam. 55 aetheris inmensi partem si presseris unam, sentiet axis onus. librati pondera caeli orbe tene medio; pars aetheris illa sereni tota uacet nullaque obstent a Caesare nubes. 60 inque uicem gens omnis amet; pax missa per orbem ferrea belligeri conpescat limina Iani.

Sed mihi iam numen; nec, si te pectore uates accipio, Cirrhaea uelim secreta mouentem sollicitare deum Bacchumque auertere Nysa:65 tu satis ad uires Romana in carmina dandas.

23 [omessa, per la tirannia dello spazio, la traduzione di questo lungo proemio] Narratore epico tutt’altro che portato a nascondersi, qui Lucano, ignorando la Musa ispiratrice, parla più volte in prima persona (v.

2 canimus; v. 37 querimur; v. 64 accipio), interviene con insistite apostrofi (ai cives, v. 8 ss.; a Roma, v. 21 ss.; a Caesar, cioè all’imperatore, v. 41). Colpisce soprattutto a conclusione di queste apostrofi, che coincide con la conclusione del proemio: dopo aver indirizzato tante esagerate ed imbarazzanti lodi a Nerone, lo elegge a suo unico numen ispiratore al posto della ignorata Musa ed a preferenza dei menzionati Apollo e Bacco. *** Passiamo ora agli altri importanti poemi latini del I secolo dell’impero.

Dei due poemi di Papinio Stazio solo la Tebaide ricevette l’ultima mano ed è dotata di epilogo, oltre che dell’immancabile proemio.

Questo, meno lungo solo rispetto a quello lucaneo, comprende gli esametri 1-45 del I libro: Fraternas acies alternaque regna profanis decertata odiis sontesque euoluere Thebas Pierius menti calor incidit. unde iubetis ire, deae? gentisne canam primordia dirae, Sidonios raptus et inexorabile pactum 5 legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum? longa retro series, trepidum si Martis operti agricolam infandis condentem proelia sulcis expediam penitusque sequar, quo carmine muris iusserit Amphion Tyriis accedere montes, 10 unde graues irae cognata in moenia Baccho, quod saeuae Iunonis opus, cui sumpserit arcus infelix Athamas, cur non expauerit ingens

24 Ionium socio casura Palaemone mater. atque adeo iam nunc gemitus et prospera Cadmi 15 praeteriisse sinam: limes mihi carminis est Oedipodae confusa domus, quando Itala nondum signa nec Arctoos ausim spirare triumphos bisque iugo Rhenum, bis adactum legibus Histrum et coniurato deiectos uertice Dacos 20 aut defensa prius uix pubescentibus annis bella Iouis. tuque, o Latiae decus addite famae quem noua maturi subeuntem exorsa parentis aeternum sibi Roma cupit (licet artior omnes limes agat stellas et te plaga lucida caeli, 25 Pliadum Boreaeque et hiulci fulminis expers, sollicitet, licet ignipedum frenator equorum ipse tuis alte radiantem crinibus arcum imprimat aut magni cedat tibi Iuppiter aequa parte poli), maneas hominum contentus habenis, 30 undarum terraeque potens, et sidera dones. tempus erit, cum Pierio tua fortior oestro facta canam: nunc tendo chelyn; satis arma referre Aonia et geminis sceptrum exitiale tyrannis nec furiis post fata modum flammasque rebelles 35 seditione rogi tumulisque carentia regum funera et egestas alternis mortibus urbes, caerula cum rubuit Lernaeo sanguine Dirce et Thetis arentes adsuetum stringere ripas horruit ingenti uenientem Ismenon aceruo. 40 quem prius heroum, Clio, dabis? inmodicum irae Tydea? laurigeri subitos an uatis hiatus? urguet et hostilem propellens caedibus amnem turbidus Hippomedon, plorandaque bella proterui Arcados atque alio Capaneus horrore canendus. 45

25 [la vers. del card. Cornelio Bentivoglio d’Aragona, (altrove riportata da La Tebaide di Stazio, a c. di Renzo Rabboni, Roma, Salerno Editrice, 2000), è qui omessa per ragioni di spazio] Elementi da rilevare sono: che il poeta si dice spinto a cantare il tema della guerra fratricida da un input del suo animo (menti calor incidit); interviene in prima persona (canam, v. 3; expediam … sequar, v. 9; sinam, v.16; ausim, v. 18; canam (v. 33); tendo (v.

33); alle Muse, invocate al v. 4, chiede consiglio sul punto d’attacco della sua narrazione, ed a Clio domanda retoricamente (v. 41) quale eroe gli darà da cantare prima; usa pronomi di prima persona (v. 16, mihi); dedica smaccate lodi all’Imperatore, specificando che preferisce celebrarne le grandi imprese in seguito per farlo Pierio … fortior oestro, accontentandosi di narrare al momento la tragica ed orrenda lotta tra i due fratelli tebani Eteocle e Polinice. Per finire il nostro discorso sul capolavoro staziano, diamo uno sguardo alla rilevantissima chiusa (Theb. XII 797-819): non ego, centena si quis mea pectora laxet uoce deus, tot busta simul uulgique ducumque, tot pariter gemitus dignis conatibus aequem: turbine quo sese caris instrauerit audax800 ignibus Euadne fulmenque in pectore magno quaesierit; quo more iacens super oscula saeui corporis infelix excuset Tydea coniunx; ut saeuos narret uigiles Argia sorori; Arcada quo planctu genetrix Erymanthia clamet,805 Arcada, consumpto seruantem sanguine uultus, Arcada, quem geminae pariter fleuere cohortes. uix nouus ista furor ueniensque implesset Apollo, et mea iam longo meruit ratis aequore portum. Durabisne procul dominoque legere superstes, 810 o mihi bissenos multum uigilata per annos Thebai? iam certe praesens tibi Fama benignum

26 strauit iter coepitque nouam monstrare futuris. iam te magnanimus dignatur noscere Caesar, Itala iam studio discit memoratque iuuentus.815 uiue, precor; nec tu diuinam Aeneida tempta, sed longe sequere et uestigia semper adora. mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila liuor, occidet, et meriti post me referentur honores. [vers. di C. Bentivoglio, cit.: Non io, sebben mi fecondasse il petto con cento voci alcun benigno nume, dell’umil volgo e de i sublimi regi cotanti roghi e tanti pianti insieme con degno carme raccontar potrei:1210 come l’audace Evadne in mezzo al fuoco si lanciasse a cercar, del gran consorte per entro il seno, il fulmine celeste; come distesa su le fiere membra Deifile tra i baci il suoTideo 1215 scolpando vada; come Argia racconti il furor dei custodi alla germana; con quali strida la parrasia madre chiami Partenopeo; Partenopeo, che serba ancor beltà nel volto esangue; 1220 Partenopeo, cui piansero ambi i campi.

Non novello furor, novello Apollo tante cose potria stringer cantando.

E già rotte ho le vele, e i remi stanchi, e già la nave mia domanda il porto1225 Ma TU, CARA TEBAIDE, al cui lavoro sudai due stati sotto ’l Sirio ardente, ed altrettanti verni infra le brume alsi e gelai, dopo la morte nostra

27 avrai tu vita e fama? E che alcuno1230 in questo nuovo stil ti legga e onori?

Certo, so ben, tra i più sublimi ingegni, che te videro ancora incolta e rozza, molti vi son che me ne dan speranza.

Vivi felice: e come l’altra un tempo1235 l’orme seguì del gran cantor di Manto, che innalzò al ciel con sì famosa tromba il figliuolo d’Anchise e della diva; così tu ancor di nuovi fregi adorna nell’etrusca dolcissima favella 1240 l’ARMI PIETOSE e ’l CAPITAN rispetta; e sebben nata su le stesse sponde, da lungi adora il FERRARESE OMERO. E se avverrà che te l’invidia adombri, dileguerassi: e la futura etade1245 ti darà forse i meritati onori; posciaché dal suo fral mio spirto sciolto, onde partì, ritornerà fra gli astri.]

Qui si vede subito che l’evoluzione della chiusa del poema epico e, più in generale, la maniera di porsi del narratore epico, è andata molto avanti. Non ci sono solo i soliti ‘indicatori’ linguisticogrammaticali a rivelarlo. Certo questi sono presenti in abbondanza e si tratta di: pronomi personali e aggettivi possessivi (come ego e mea al v. 797; mea al v. 809; mihi al v. 811 e me al v. 819); di forme verbali di prima persona (come aequem al v. 799; precor al v. 817); ma c’è ben altro: lungi ormai dal tenersi celato, qui l’autore balza in primo piano con tutte le sue lunghe, amorose e faticose cure dell’opera, le sue aspettative di successo e rinomanza poetica, l’ammirazione profonda per Virgilio, la sofferenza per l’invidia avvertita intorno a sé ed anche la fiducia che essa dopo la propria morte si dileguerà: egli otterrà gli onori meritati ed il nome del poeta della Tebaide sarà ricordato in eterno.

28 Del tutto nuova è in special modo l’apostrofe dell’autore alla sua opera, invocata per nome (Thebai, v. 812) quasi fosse un personaggio reale o, meglio, una persona cara, a cui è naturale affidare pensieri e fare calorose raccomandazioni al momento del congedo.

Con questa sua chiusa Stazio potrebbe aver contribuito alla genesi e diffusione di quella poetica ‘allocuzione’ finale che molti autori rivolgono alla propria ballata o canzone (per affidarle qualche messaggio da recapitare o per dirle qualcos’altro). Si veda, ad es., Guido Cavalcanti (Rime, XXX: Era in penser d'amor quand' i' trovai15) e Gianni Alfani16, senza ovviamente dimenticare il Petrarca, la cui celebre canzone Chiare, fresche e dolci acque (Canzon., CXXVI) si chiude, si sa, con la strofetta: Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del bosco e gir infra la gente 17

15

Vv. 45-52 (ultima ottava)Vanne a Tolosa, ballatetta mia, / ed entra quetamente a la Dorata, / ed ivi chiama che per cortesia / d'alcuna bella donna sie menata / dinanzi a quella di cui t'ho pregata; / e s'ella ti riceve, / dille con voce leve:/- Per merzé vegno a voi-. Da ricordare inoltre, del Cavalcanti, almeno due altri componimenti, il XXXIV, dove il Poeta si ‘congeda’ rivolgendosi alle sue “parole”, ed il XXXVI, ballata che è tutta (vv. 1- 46) un congedo.

16

Mi riferisco specificatamente alla sua lirica IV, Ballatetta dolente, di 24 vv., che è tutta un congedo, proprio come Perch’i’ no spero di tornar giammai del suo amico e maestro Cavalcanti.

17

Il fatto che il Poeta si rivolga alla propria composizione senza nominarla nulla toglie a questa apostrofe ai fini del nostro discorso; in un certo senso, anzi, si potrebbe ritenere che ciò la renda ancor più significativa, in quanto rimanderebbe ad una prassi corrente. Da notare in proposito che delle 29 canzoni che insieme a 317 sonetti, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali)

29

L’interessante epilogo del capolavoro staziano, proprio con il suo v. 816 poco sopra richiamato, potrebbe anche aver offerto al Boccaccio, notoriamente grande conoscitore ed ammiratore nello stesso tempo di Stazio e di Dante, lo spunto per attribuire alla Commedia dell’Alighieri il calzante e fortunato attributo “divina” con cui il Certaldese trovava entusiasticamente qualificato il capolavoro virgiliano: Divina Commedia (specie nella forma latina Comoedia) sembrerebbe riecheggiare l’analoga espressione divinam Aeneida del quartultimo esametro della Tebaide.18

Com’è facile constatare, siamo ormai ad una forma di epilogo molto diversa da quella iniziale riscontrata in Apollonio ma, come vedremo, siamo ancora assai lontani dalla fine del processo evolutivo che stiamo ripercorrendo in questo viaggio attraverso la produzione epica e paraepica.

Per chiudere con Stazio, ci resta da considerare il proemio dell’incompiuta Achilleide (I 1-19): Magnanimum Aeaciden formidatamque Tonanti progeniem et patrio vetitam succedere caelo, diva, refer. quamquam acta viri multum inclita cantu Maeonio (sed plura vacant), nos ire per omnem costituiscono il Canzoniere petrarchesco, solo 6 mancano del congedo in questione.

18

Sull’ammirata considerazione di G. Boccaccio per Stazio e per Dante, cfr. almeno Arianna Punzi, Boccaccio lettore di Stazio, in “Semestrale di Studi (e Testi) italiani” , in “Semestrale di Studi (e Testi) italiani” (Dipart. di Italianistica e Spettacolo – Univ. di Roma “La Sapienza”), n. 6, pp. 135-145.

30 sic amor est heroa velis Scyroque latentem 5 Dulichia proferre tuba nec in Hectore tracto sistere, sed tota iuvenem deducere Troia. tu modo, si veterem digno deplevimus haustu, da fontes mihi, Phoebe, novos ac fronde secunda necte comas: neque enim Aonium nemus advena pulso 10 nec mea nunc primis augescunt tempora vittis. scit Dircaeus ager meque inter prisca parentum nomina cumque suo numerant Amphione Thebae.

At tu, quem longe primum stupet Itala virtus Graiaque, cui geminae florent vatumque ducumque15 certatim laurus olim dolet altera vinci, da veniam ac trepidum patere hoc sudare parumper pulvere: te longo necdum fidente paratu molimur magnusque tibi praeludit Achilles. [vers. di Gianpiero Rosati in Stazio, Achilleide. Introd., traduz. e note di G. R., Milano, Rizzoli, 1994: Il magnanimo Eàcide cantami. o diva, e la progenie temuta dal Tonante, alla quale fu vietato di succedere al padre ne ……………………………………… …omessa la traduzione…………

Nel reboante inizio di questo poemetto, sono espressi in un unico periodo, come altrove, la materia trattata (‘protasi’) e un’invocatio alla Musa (v. Magnanimum Aeaciden … inaspettatamente di tipo omerico, quasi a dimostrare che tale tipo di invocazione era dura a morire. Peraltro, va subito detto, i tratti innovativi non mancano.

Tra questi ricordiamo: la specificazione del poeta di aver scelto la propria res tra le vicende della vita del Pelide non celebrate dal grande Omero; il ricordo della propria precedente incoronazione poetica grazie alla Tebaide, l’esaltazione dell’Imperatore con la promessa di magnificarne le imprese quando lo potrà fare meglio

31 avendo nel frattempo affinato la propria arte compositiva cantando il grande Achille. *** Sotto i Flavi fiorirono due altri notevoli cultori del genere epico, il (quasi) misterioso Valerio Flacco, che ci ha lasciato una rielaborazione del mito a suo tempo trattato dal greco Apollonio Rodio intitolata appunto Argonautica, e Silio Italico, che compose i Punica, poema storico sulla seconda guerra contro Cartagine, il più lungo della letteratura latina (18 libri) ed il più ‘virgiliano’.

Vediamo prima il proemio di Valerio Flacco (Arg. I 1-21): Prima deum magnis canimus freta pervia natis fatidicamque ratem, Scythici quae Phasidis oras ausa sequi mediosque inter iuga concita cursus rumpere flammifero tandem consedit Olympo.

Phoebe, mone, si Cumaeae mihi conscia vatis 5 stat casta cortina domo, si laurea digna fronte viret, tuque o pelagi cui maior aperti fama, Caledonius postquam tua carbasa vexit Oceanus Phrygios prius indignatus Iulos, eripe me populis et habenti nubila terrae,10 sancte pater, veterumque fave veneranda canenti facta virum: versam proles tua pandit Idumen, namque potest, Solymo nigrantem pulvere fratrem spargentemque faces et in omni turre furentem. ille tibi cultusque deum delubraque genti 15 instituet, cum iam, genitor, lucebis ab omni parte poli neque erit Tyriae Cynosura carinae certior aut Grais Helice servanda magistris. seu tu signa dabis seu te duce Graecia mittet et Sidon Nilusque rates: nunc nostra serenus 20 orsa iuves, haec ut Latias vox impleat urbes.

32 [vers. di Libera Carelli 19: Cantiamo i primi mari aperti ai grandi figli degli dèi e la fatidica nave che, dopo aver osato costeggiar le sponde dello scitico Fasi e rompersi a mezzo il varco fra le cozzanti vette, si fermò in fine sul fiammeggiante Olimpo. O Febo, or tu m’aiuta, se favorevole m’è nella casta dimora il veridico oracolo della Sibilla di Cuma, se degnamente intorno alla mia fronte verdeggia la corona d’alloro. E tu, cui maggiore è la gloria dell’aperto pelago, poi che il mar Caledonio, prima irato ai discendenti del troiano Giulo, portò le tue vele, strappami al volgo e alla terra grave di nubi, o padre santo, e sii benigno a me che canto i venerandi fatti degli antichi eroi. La prole tua (poiché può) canterà la ribelle Idumea e il fratello che, nero per la polvere di Solima, sparge faci ed infuria in ogni torre. Egli istituirà per te i riti degli dèi e templi innalzerà alla gente tua, quando già, o padre, splenderai da ogni parte del cielo. Né infatti le navi tirie dovran guardare come più fida l’Orsa Minore né i timonieri greci la grande Orsa, ma tu darai i segni, ma sotto la tua guida manderan navi la Grecia e Sidone, e l’Egitto. Or tu sereno aiuta l’opera mia, sì che questa voce risuoni per le città del Lazio.]

Questo proemio si colloca abbastanza nettamente sulla linea innovativa per più ragioni. Innanzi tutto l’autore annuncia in prima persona (plurale: canimus, v. 1) la materia che intende trattare, anche se prega Febo di ispirarlo; elogia sperticatamente l’Imperatore Vespasiano ed i suoi due figli e successori, cioè Tito e Domiziano); fa più volte riferimento a sé stesso con pronomi personali (mihi, v. 5; me, v. 10); aggettivi possessivi di prima persona (nostra, v. 20) e dimostrativi equivalenti (haec, v. 21); e, dato ancor più significativo, introduce vari accenni a cose specifiche che lo riguardano (come l’avere in casa il tripode della 19

Cfr. LUCANO, Farsaglia. VALERIO FLACCO, Argonautiche, a c. di L. C., Torino, Utet, s. a.:

33 Sibilla Cumana e l’aver ottenuto la corona di alloro), chiudendo con una richiesta di aiuto all’Imperatore motivata sulla base del desiderio che il suo nome ‘riempia’ le città del Lazio. Al riguardo va notato che si tratta manifestamente di un ‘motivo tipico’ dei congedi. Ed eccoci al proemio di Silio Italico (Pun. I 1-20): Ordior arma, quibus caelo se gloria tollit Aeneadum, patiturque ferox Oenotria iura Carthago. da, Musa, decus memorare laborum antiquae Hesperiae, quantosque ad bella crearit et quot Roma uiros, sacri cum perfida pacti 5 gens Cadmea super regno certamina mouit, quaesitumque diu, qua tandem poneret arce terrarum Fortuna caput. ter Marte sinistro iuratumque Ioui foedus conuentaque patrum Sidonii fregere duces, atque impius ensis 10 ter placitam suasit temerando rumpere pacem. sed medio finem bello excidiumque uicissim molitae gentes, propiusque fuere periclo quis superare datum: reserauit Dardanus arces ductor Agenoreas, obsessa Palatia uallo 15 Poenorum ac muris defendit Roma salutem.

Tantarum causas irarum odiumque perenni seruatum studio et mandata nepotibus arma fas aperire mihi superasque recludere mentes. iamque adeo magni repetam primordia motus. 20 [vers. di Maria Assunta Vinchesi20: Canto la guerra ……………………………………………………………………

20

Cfr. SILIO ITALICO, LE GUERRE PUNICHE. Introd.,, trad. e note di M. A. V., Milano, Rizzoli, 2001.

34 ………… …………………………………………………………………… ………….. ] Più lungo di quello dell’Eneide (come più lunghi di questa sono i Punica), questo proemio è tipologicamente esemplato su quello del grande modello virgiliano: l’autore ccome prima cosa enuncia il tema che intende svolgere con una forma verbale (ordior , v. 1) del tutto corrispondente a quella usata dal Mantovano nella protasi del ‘poema di Enea’ (cano, v. 1); l’invocatio dell’uno e dell’altro segue e fa parte, sintatticamente, di un periodo diverso; nella richiesta/preghiera alla Musa entrambi i poeti domandano aiuto per ‘ricordare’: Aen. I 8 memora ~ Pun. I 3 da… memorare ed entrambi ci parlano di ‘fatiche’ (Aen. I 10 labores ~ Pun. I 3 laborum). Con riferimento al venerato exemplar classico va riguardato pure il modo atipico in cui Silio chiude il suo il suo ‘virgiliano’ poema (Pun. XVII 651-654): Salue, inuicte parens, non concessure Quirino laudibus ac meritis non concessure Camillo: nec uero, cum te memorat de stirpe deorum, prolem Tarpei mentitur Roma Tonantis. [vers. di M. A. Vinchesi, cit. : …………………….]

I quattro ultimi esametri, che formalmente costituiscono un’apostrofe, sono tali che risulta difficile decidere se siamo davvero di fronte ad un epilogo o no. Forse non si va lontano dal vero dicendo che si tratta in realtà di un epilogo appena accennato.

L’autore, insomma, dovendo decidere tra una chiusa/congedo oramai divenuta tradizionale ed una chiusa priva di tale elemento non adottato dall’Omero latino, potrebbe aver optato per una terza

35 via, vale a dire il ricorso ad una specie di abbozzo di epilogo (o congedo). *** Proseguendo il nostro viaggio alla ricerca delle tappe del processo evolutivo del proemio e dell’epilogo epico, incontriamo due ‘minori’ di notevole interesse21.

Uno di questi è l’Ilias Latina, epitome in versi del poema omerico, forse di età neroniana ed attribuita a Bebio Italico. Eccone, in sequenza, gli esametri proemiali (1-8): Iram pande mihi Pelidae, Diva, superbi, Tristia quae miseris iniecit funera Grais Atque animas fortes heroum tradidit Orco Latrantumque dedit rostris volucrumque trahendos Illorum exsangues, inhumatis ossibus, artus.5 Confiebat enim summi sententia regis, † protulerant† ex quo discordia pectora pugnas, Sceptriger Atrides et bello clarus Achilles. e quelli dell’epilogo (1063-1070):

21

Per non superare i limiti di spazio a me concessi, ho rinunciato a soffermarmi su un terzo ‘minore’, il poemetto anonimo e di datazione imprecisabile, intitolato Aegritudo Perdicae e probabilmente composto in ambiente non lontano da quello del nord-africano Draconzio, di cui parleremo poco più avanti. Su questo interessante componimento mi sono soffermato in più lavori ed ultimamente nel vol. La Aegritudo Perdicae rivisitata. Testo criticamente riveduto e traduzione. Commento e appendice esegetico-testuale, Messina, Edas, 2010 (20071), dove ho fatto più volte riferimento, per i versi iniziali dell’epillio, al puntuale esame eseguitone da L. Castagna, Su un proemio poetico tardo-latino (A. P. 1-4) in “BStudLat” 27 (1997), pp. 102-125.

36

Sed iam siste gradum finemque impone labori, Calliope, vatisque tui moderare carinam, Remis quem cernis stringentem litora paucis,1065 Iamque tenet portum metamque potentis Homeri.

Pieridum comitata cohors, summitte rudentes Sanctaque virgineos lauro redimita capillos Ipsa tuas depone lyras. Ades, inclita Pallas, Tuque fave cursu vatis iam, Phoebe, peracto.1070 Accomunati dalla significativa introduzione nei primi 8 esametri di un acrostico (ITALICUS) e negli ultimi 8 di un altro (SCRIPSIT) in modo da dare la firma dell’opera, proemio ed epilogo appaiono qui come elementi di pari dignità ed importanza.

Se, infatti, l’autore di questo poetico rifacimento abbreviato della Iliade di Omero si mantiene, com’è agevole verificare, vicinissimo al testo originario nell’inizio, mentre innova completamente alla fine inventandosi un epilogo di cui non c’è traccia in Omero, allora dobbiamo pensare che l’epilogo era ormai sentito, in poemi e poemetti, come un elemento non meno importante del tradizionale proemio e, come questo, non omettibile.

Ed ora, per terminare la sintetica rassegna dei testi greco-latini, ecco l’altro preannuciato ‘minore’. Si tratta di Draconzio, poeta vissuto nell’Africa vandalica alla fine del V sec.

Egli apre l’ottavo componimento dei suoi Romulea, l’epillio De raptu Helenae, con un interessante proemio (vv. 1-31), del quale meritano speciale attenzione, per noi, i versi 11 ss., che riporto secondo la sistemazione/ interpretazione che ne ho dato in: A. Grillo, Tra filologia e narratologia…cit., .,., cap. V, p. 115 ss.: Ergo nefas Paridis, quod raptor gessit adulter, ut monitus narrare queam te, grandis Homere:

37 mollia blandifluo delimas verba palato; quisquis in Aonio descendit fonte poeta, te numen vult esse suum; nec dico Camenae, 15 te praesente “veni”: sat erit mihi sensus Homeri, qui post fata viget, qui duxit ad arma Pelasgos, Pergamo Dardanidum vindex in bella lacessens et qui Troianos invasit nocte poeta, armatos dum clausit equo, qui moenia Troiae20 perculit et Priamum Pyrrho feriente necavit: numina vestra vocans, quidquid contempsit uterque scribere Musagenes, hoc vilis colligo vates. reliquias praedae vulpes sperare leonum laudis habent, meruisse cibos quos pasta recusant25 viscera, quos rabies iam non ieiuna remisit, exultant praedamque putant nuda ossa ferentes.

Attica vox te, sancte, fovet, te lingua Latina commendat: vulgate, precor, quae causa nocentem30 fecit Alexandrum raptu spoliare Amyclas. [versione mia, già data, limitatamente alla parte più problematica, nel vol. Tra filologia e narratologia, cit., p. 127): Per miglior via affronterò il viaggio del predone troiano ed il rapimento della Spartana e l’audace impresa del pastore dal cuore scellerato. Cantiamo, infatti, il nemico dell’ospitalità e il distruttore dei diritti del talamo maritale, dei patti matrimoniali, [5] dei blandi accordi sul pudore, della sostanza della stirpe, della speranza di futura discendenza, del pegno di prole: ché tutto dalla madre proviene, dalla madre si crea ciò che prende sembianze umane; il padre è fonte, autore, origine; ma il padre senza la madre è niente: in quale quota parte il padre contribuisce alla costituzione di ogni individuo? La madre [10] si fa tutta discendenza.

Qualunque poeta scenda nella fonte aonia vuole che tu sia il suo nume; ed io, avendo te accanto, [15] non dico alla Camena:

38 «Vieni!»: sarà sufficiente per me lo spirito di Omero, che è ben vivo dopo la morte, che, punitore dei Dardànidi, condusse alle armi i Pelasgi chiamando in guerra Pergamo, e mi basterà il poeta che, facendo chiudere gli armati nel cavallo, [20] fece assalire di notte i Troiani, distruggere le mura di Troia e uccidere Priamo per mano di Pirro: i vostri numi invocando, io, umile vate, raccolgo quanto l’uno e l’altro di voi, alunni della Musa, disdegnò di trattare.

Le volpi hanno a gloria sperare nei resti della preda dei leoni; sono contentissime di ottenere i cibi [25] che il ventre ormai sazio di quelli rifiuta e che la loro rabbia, ormai non più digiuna, ha lasciato, e considerano una vera preda le nude ossa che si portano via.

La lingua attica caldeggia te, o venerando; te invece raccomanda la lingua latina: rivelatemi voi, vi prego, quale causa spinse lo scellerato Alessandro a spogliare col rapimento Amicle. ] Quello che qui più c’interessa è l’invocazione: come nume ispiratore non c’è più la Musa (o il dio della poesia, Apollo, e nemmeno altre divinità che troviamo invocate altrove in analoghi contesti, come ad es. Bacco). Draconzio, che con insistenza manifesta propositi, valutazioni e convincimenti suoi propri e parla in prima persona, si rivolge al grande Omero ed a Virgilio: se ci saranno questi sommi poeti ad ispirarlo, egli non avrà bisogno di chiedere aiuto ad altri. Da notare che si avverte qui il riecheggiamento del proemio della Farsaglia (I 63 ss.), dove Lucano si rivolge in termini del tutto analoghi all’imperatore Nerone. *** Come sopra accennato, l’uso del proemio e dell’epilogo non è peculiarità specifica ed esclusiva della poesia greco-latina. La tradizione continua anche sotto questo aspetto: i poemi epico-

39 cavallereschi italiani – e non solo essi – ce ne danno ampia conferma.

Esemplare, al riguardo, il caso della Teseide composta dal Boccaccio con l’intento di fondare una poesia epica in volgare sul modello dell’Eneide virgiliana e della Tebaide staziana tanto amate nel Medioevo.

Poema in dodici libri, come l’Eneide, la Teseide si apre con un proemio di cinque ottave (vv. 1-40): 1. O sorelle Castalie, che nel monte Elicona contente dimorate D’intorno al sacro gorgoneo fonte, Sottesso l’ombra delle frondi amate Da Febo, delle quali ancor la fronte Spero d’ornarmi sol che ’l concediate, Le sante orecchie a’ miei preghi porgete, E quegli udite come voi dovete.

2. E’ m’è venuta voglia con pietosa Rima di scriver una storia antica, Tanto negli anni riposta e nascosa, Che latino autor non pare ne dica, Per quel ch’i’ senta, in libro alcuna cosa.

Dunque sì fate che la mia fatica Sia graziosa a chi ne fia lettore, O in altra maniera ascoltatore.

3. Siate presente, o Marte rubicondo, Nelle tue armi rigido e feroce, E tu, Madre d’Amor, col tuo giocondo E lieto aspetto, e ’l tuo Figliuol veloce Co’ dardi suoi possenti in ogni mondo; E sostenete la mano e la voce Di me, che intendo i vostri effetti dire Con poco bene e pien d’assai martire.

40 4. E voi, nel cui cospetto il dir presente Forse verrà, com’io spero ancora, Quant’io più posso prego umilemente, Per quel signor ch’ e’ gentili innamora, Che attendiate con intera mente: Voi udirete com’egli scolora Ne’ casi avversi ogni suo seguace, E come dopo affanno e’ doni pace.

5. E questo con assai chiara ragione Comprenderete, udendo raccontare D’Arcita i fatti e del buon Palemone, Di real sangue nati, come appare, E amendui Tebani, che a quistione, Parenti essendo, per soperchio amare Emilia bella, vennero, Amazzona, D’onde l’un d’essi perdè la persona.

Com’è agevole constatare, insieme ai vari motivi che s’incontra di norma nei proemi, qui c’è dell’altro; c’è innanzi tutto il riferimento al desiderato successo letterario-poetico, che è in verità elemento caratterizzante del congedo. E passiamo all’epilogo della Teseide (XII, ottave 84-86): 84. Poiché le Muse nude cominciaro Nel cospetto degli uomini ad andare, Già fur di quelli i qua’ l’esercitaro con bello stile in onesto parlare, E altri in amoroso le operaro: Ma tu, o libro, primo a lor cantare Di Marte fai gli affanni sostenuti, Nel volgar lazio non mai più veduti.

85. E per ciò che tu primo col tuo legno Seghi quest’onde non solcate mai Davanti a te da nessun altro ingegno,

41 Benché infimo sii, pure starai Forse tra gli altri d’alcun onor degno: In tra gli qua’ se vieni, onorerai Come maggior ciaschedun tuo passato, Materia dando a chi dietro hai lasciato.

86. E perocchè li porti disiati In sì lungo pileggio ne tegnamo, Da varii venti in essi trasportati, Le vaghe nostre vele qui caliamo, E le ghirlande e i doni meritati Con le ancore fermati qui aspettiamo, Lodando l’Orsa, che colla sua luce Qui n’ha condotti, a noi essendo duce.

Quest’epilogo, di media lunghezza, contiene i soliti elementi, tra i quali spicca l’insistito utilizzo della metafora della nave, che dopo una lunga navigazione è ormai al sicuro nella tranquillità del porto in attesa dei meritati onori e non ha alcuna voglia di riprendere il largo. Da segnalare, poi, l’apostrofe che il poeta rivolge al suo libro evidenziando che si tratta del primo poema epico in volgare (italiano). In precedenza si era avuta quella assai significativa di Stazio alla sua Tebaide: primo esempio, ch’io conosca, di apostrofe dell’autore alla propria opera. Sulla stessa linea si collocano componimenti come la ballatetta Perch'i' no spero di tornar giammai… di Guido Cavalcanti, La Ballatetta dolente di Gianni Alfani, ai quali ho inteso fare implicitamente riferimento in precedenza. L’epilogo/congedo da noi ora considerato poteva fare da degna chiusura per il poema boccacciano, almeno così ci sembrerebbe. Ma non così parve all’autore, che volle aggiungere all’opera, prima di mettere la parola fine, due composizioni, una indirizzata dall’autore alle Muse ed un’altra, di identico schema, diretta al poeta da parte delle Muse, quale risposta. Le riportiamo qui di seguito.

42 Sonetto dell’Autore alle Muse per lo Libro suo O sacre Muse, le quali io adoro, E con digiuni onoro, e vigilando, Di voi la grazia in tal guisa cercando, Quale acquistar da Pallade coloro A’ qua’ voi deste il graziozso alloro In sul fonte castalio poetando, I versi lor sovente esaminando Col vostro canto sottile e sonoro: I’ ho ricolte della vostra mensa Alcune miche da quella cadute, E come seppi qui l’ho compilate.

Le quai vi prego che voi le portiate Liete alla donna in cui la mia salute Vive, ma ella forse nol si pensa E con ‘nsieme il nome date e ’l canto, E ’l corso ad esse, se le nel cal tanto.

Da rilevare, in questo sonetto (come nel successivo), sotto il profilo metrico-formale, il numero dei versi (16 invece dei normali 14, per cui si tratta precisamente di sonetto ‘caudato’ o ‘sonettessa’). Sotto il profilo contenutistico, è notevole, accanto all’invocazione alle Muse, il ricorso, da parte del poeta, alla metafora delle briciole cadute dalla mensa per indicare, con modestia, il tema scelto per il proprio poema e, ancor più, la preghiera, alle stesse Muse, di voler portare a suo nome alla donna amata i versi da lui composti.

43

Ed ecco la Risposta delle Muse Portati abbiam tuoi versi e ’l bel lavoro, O caro alunno, di Teseo cantando, E i due Teban, l’un preso e l’altro in bando, Combatter per Emilia donna loro.

La più tua donna ch’essa di coloro, gli altrui riletti amori a sé recando, Fra sé soletta disse sospirando: Oh quante d’amor forze in costor foro!

Poi di fiamme d’amor fu tutta accesa Ci porse prego che non fosser mute Le ben scritte prodezze e la biltate.

Teseida per le nozze e cose ovrate Da Teseo li nomò: noi con argute Note darem lor fama ovunque immensa.

Così gli abbiam rorati al fonte santo, E licenziati a gire in ogni canto.

Contenutisticamente più ‘nuova’ rispetto al sonetto indirizzato dall’autore alle Muse, questa risposta lo rassicura circa l’effettuazione ed il felice esito della missione da lui ad esse affidata. Le Muse, inoltre, riferiscono che la donna ha gradito ed apprezzato il dono e da Teseo, di cui tanto tratta il poema, ha voluto che esso fosse intitolato Teseide. ***

44 Vediamo ora di chiudere il nostro ‘epico’ viaggio andando a dare un rapido sguardo, dal nostro punto di vista, ai capolavori epicocavallereschi.

Com’era lecito attendersi alla luce della tradizione che abbiamo per sommi capi delineato, l’uso del proemio è costante e generalizzato: lo troviamo nel Morgante (maggiore) di Luigi Pulci (strofe 1-2), nell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo (str. 1-6), nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (str. 1-4) e nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (str. 1-5). Inoltre, pur avendo differente lunghezza, esso mantiene sostanzialmente la stessa articolazione che aveva a Roma in epoca imperiale (protasi, invocatio, laudatio del patronus (Caesar prima, il ‘Gran Signore’ dopo).

Non in tutti questi poemi riscontriamo invece la presenza di un epilogo (o congedo) ed è da credere che in questo si faccia ancora sentire il fatto che tale particolare chiusa mancava, come abbiamo visto, nei poemi omerici e poi in Virgilio.

Può essere significativo al riguardo un dato: l’Orlando furioso termina in modo ostentatamente virgiliano: non solo l’ultimo episodio è il finale duello tra i campioni dei due diversi schieramenti (Ruggiero contro Rodomonte come già Enea contro Turno) ma c’è pure, nel testo del poeta italiano, una scoperta ripresa allusiva che sembra messa lì proprio per rendere più esplicita l’intenzione di chiudere, per dir così, more modoque Vergiliano: gli ultimi quattro endecasillabi del poema ariostesco (canto XLVI, ottava 140): Alle squallide ripe d’Acheronte, sciolta dal corpo più freddo che giaccio, bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa, che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.

45 rinviano immediatamente agli ultimi 3 esametri dell’Eneide (XII 950-952): hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit fervidus; ast illi solvuntur frigore membra vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras. [vers. di Enzio Cetrangolo, cit. (così dicendo) il ferro gl’immerge furioso nel mezzo del petto. / Le membra di Turno si l’altero suo spirito all’ombre].schiantano fredde / e gemendo fuggì Si guardò bene dal finire con un epilogo il suo poema pure il Tasso, in questo anche lui sulla scia di Virgilio (e di Omero).

Non mancano invece di questa innovazione introdotta nell’epica da Apollonio Rodio né il Morgante del Pulci né L’Orlando Innamorato del Boiardo. In quest’ultimo caso è piuttosto breve (canto LXIX, ott. 36-37): 36. Mentre ch’io canto gli amorosi detti Di queste donne da l’inganno prese; Sento di Francia riscaldarsi i petti Per disturbar d’Italia il bel paese.

Alte ruine con rabbiosi effetti Par che dimostri il ciel con fiamme accese; E Marte irato con l’orrida faccia Di qua di là col ferro ci minaccia.

37. Lasciar vi voglio in questo vano errore Di Fiodespina ch’ama Bradamante E sono accese insieme in tanto amore Come vi dissi già di poco avante.

E s’io mi tiro del soggetto fuore, Un’altra volta converrà ch’io cante La bella istoria de le donne belle, Se mi sarà concesso dalle stelle.

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Singolare è invece, già per la sua lunghezza, l’epilogo del Morgante maggiore: il Pulci sembra proprio essersi divertito a dare proporzioni inattese ad un elemento relativamente ‘nuovo’ del poema. Si tratta di ben 22 ottave, cioè 176 versi! Vi si trovano svariati temi e motivi, anche insoliti con siffatta collocazione. Per farsene un’idea adeguata occorre leggerlo con un bel po’ di attenzione. *** Un caso limite, da considerare a parte, è poi l’epilogo della ‘libera’ versione della Tebaide staziana dal cardinale Cornelio d’Aragona, già citata.

A fronte di Theb. XII 808-fine: uix nouus ista furor ueniensque implesset Apollo, et mea iam longo meruit ratis aequore portum.

Durabisne procul dominoque legere superstes,810 o mihi bissenos multum uigilata per annos Thebai? iam certe praesens tibi Fama benignum strauit iter coepitque nouam monstrare futuris. iam te magnanimus dignatur noscere Caesar, Itala iam studio discit memoratque iuuentus. 815 uiue, precor; nec tu diuinam Aeneida tempta, sed longe sequere et uestigia semper adora. mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila liuor, occidet, et meriti post me referentur honores. il Bentivoglio dà questo testo italiano: Non novello furor, novello Apollo tante cose potria stringer cantando.

E già rotte ho le vele, e i remi stanchi,

47 e già la nave mia domanda il porto.

Ma TU, CARA TEBAIDE, al cui lavoro sudai due stati sotto ’l Sirio ardente, ed altrettanti verni infra le brume alsi e gelai, dopo la morte nostra avrai tu vita e fama? E che alcuno in questo nuovo stil ti legga e onori?

Certo, so ben, tra i più sublimi ingegni, che te videro ancora incolta e rozza, molti vi son che me ne dan speranza.

Vivi felice: e come l’altra un tempo l’orme seguì del gran cantor di Manto, che innalzò al ciel con sì famosa tromba il figliuolo d’Anchise e della diva; così tu ancor di nuovi fregi adorna nell’etrusca dolcissima favella l’ARMI PIETOSE e ’l CAPITAN rispetta; e sebben nata su le stesse sponde, da lungi adora il FERRARESE OMERO. E se avverrà che te l’invidia adombri, dileguerassi: e la futura etade ti darà forse i meritati onori; posciaché dal suo fral mio spirto sciolto, onde partì, ritornerà fra gli astri.]

Come ognun vede, non si tratta certo di una vera e propria traduzione, bensì di una libera riscrittura che, fra la Tebaide in versione italo-toscana del Bentivoglio ed i grandi capolavori del Tasso e dell’Ariosto, instaura lo stesso rapporto di profonda ammirazione e di devoto rispetto che i versi finali del poema staziano attestano erga “divinam Aeneida”. Va da sé, inoltre, che, mettendo a confronto la propria Tebaide in italiano con la Gerusalemme Liberata (che cita riprendendone ad verbum il v. 1 Canto l’arme pietose e ’l capit no a mo’ di titolo secondo la

48 tradizione) e con l’Orlando Furioso (al quale si riferisce tramite l’esaltante appellativo ‘Ferrarese Omero’ attribuito al suo autore), il dotto cardinale di Ferrara fa sostanzialmente quello che aveva fatto l’autore latino nel suo poema in rapporto al grande Virgilio, vale a dire si pone quasi come un nuovo Stazio. E ciò vale, tra l’altro, a mostrare ulteriormente quanto fossero grandi le potenzialità espressive della chiusa introdotta da Apollonio nelle sue Argonautiche e quanto la letteratura debba, anche per questo, al cantore di Medea, geniale inventor del monologo interiore ed innegabile creatore di un narratore epico nuovo, abbastanza diverso da quello operante nei poemi omerici. 22

22

Potrebbe essere opportuna (e forse proficua) l’estensione della ricerca ad altri autori e testi (anche non italiani). Ma per me è ormai davvero tempo di tirare i remi in barca; perciò mi fermo qui e (un po’ virgilianamente e … metricamente) haec aliis lassus post me facienda relinquo.