Jean i ghidina l’ardimento ucronico e utopico di dario fo

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Jean I.Ghidina

L’ardimento ucronico e utopico di Dario Fo in Johan Padan a la descoverta de le Americhe

Collana ROBINSON

Jean I.Ghidina anno 2015. - Edizioni Terzo Millennio -

copyright Š Tutti i diritti riservati all'autore Progettazione e cura di Monica Bauletti, segretaria di redazione.

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Tra i letterati italiani insigniti del premio Nobel, Dario Fo è forse quello più noto e apprezzato all’estero che in patria, tant’è vero che il suo teatro fece parte dal 2011 al 2014 in Francia del programma del concorso per l’abilitazione all’insegnamento della lingua di Dante nella scuola secondaria. Vari studiosi universitari, come Brigitte Urbani1 hanno scavato con acume l’opera di Dario Fo e Franca Rame fornendo disamine di ampio respiro che conferiscono una nuova linfa alla ricezione da parte del pubblico.

Prima ci fu Mistero buffo Al fine di contestualizzare il testo che ci accingiamo a commentare, è d’uopo soffermarci su Mistero buffo che rimane il capolavoro di Dario Fo. Qual è il significato di quest’opera poderosa e celeberrima di Dario Fo corredata da numerosi elementi iconografici ? Che nesso possiamo stabilire con Johan Padan a la descoverta de le Americhe? Qual è il suo contesto di rappresentazione? Dal prologo che funge da chiave di lettura circa l’intentio auctoris nonché dal commento di Fo stesso a Rosa fresca aulentissima evinciamo alcuni capisaldi che evidenziano la riscrittura e la reinterpretazione di una tradizione medievale. Innanzitutto, mistero riveste un significato polisemico dall’antichità al Medioevo. Il giullare propone uno spettacolo grottesco-satirico che non solo esula dalle consuetudini rituali della Chiesa ufficiale, ma bolla la religione rinvilita a strumento di potere. Insomma, il mistero non è per niente una beffa dissacratoria contro Dio, Gesù e i santi, ma uno strale contro il clero. Per Fo, il mistero è l’estrinsecazione più genuina della cultura popolare nell’epoca in cui la popolazione era illetterata ed analfabeta, ma non per questa priva di un anelito alla trascendenza insieme giocoso e spirituale, anzi. Ad onta della spocchia e delle prevenzioni delle autorità, il mistero incarna la parola di Dio in una temperie gioiosa.

Rappresentato per la prima volta a Sestri Levante il primo ottobre del 1969 e successivamente in varie università e case del popolo, Mistero buffo riesce ad attrarre un pubblico sempre più ampio. A dire il vero, Fo infrange gli schemi di rappresentazione e di ricezione collaudati uscendo dall’alveo della separazione rigida tra attori e spettatori. La platea non consta più soltanto di persone altolocate che si crogiolano in una cornice rassicurante per assaporare un’opera di mero diletto. Indubbiamente, la messa in scena e il contenuto di Mistero buffo riecheggiano l’auspicio di Antonio Gramsci a proposito della necessità di una letteratura nazionale e popolare come sprone di elevazione e di conoscenza che rifugga da ogni elitismo aulico pur garentendo un notevole pregio estetico. Si può anche ricordare la scuola di 1

Brigitte Urbani, Jongleurs des temps modernes, Dario Fo et Franca Rame, Aix-en-Provence, PUDP, 2013

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Magliana animata da don Lorenzo Milani che durante gli stessi anni si prefiggeva lo scopo di agevolare e armonizzare il diffondersi dello scibile prendendo le mosse dalla cultura popolare per radicare le conoscenze in un sostrato che rispettasse e valorizzasse il discente come persona libera e responsabile. Fo indubbiamente intende travalicare gli steccati e la topologia del teatro classico proponendo una diffusione di Mistero buffo in luoghi inaspettati fino allora.

Difatti all’università, quale tempio del sapere accademico, spettava il compito di riprodurre il dominio dei ceti abbienti, tuttavia in quegli anni di ribollimento sociale e ideologico, gli atenei paiono assumere una nuova vocazione di promozione sociale per via della massificazione dell’insegnamento e della democratizzazione della cultura. In tale contesto, prima della spirale della violenza e della faziosità dilagante, Dario Fo sta incarnando una cultura alternativa di vaglia che non può prescindere dalle voci dissenzienti del mondo cattolico e per un altro verso dall’infatuazione per il maoismo. La gioventù si trova in un frangente epocale foriero di contraddizioni perché il diffondersi dei consumi certo preferibile agli stenti secolari va di pari passo con una società improntata all’omologazione edonistica di cui parlò Pasolini e a frustrazioni materialistiche, mentre sussistono le sacche di mancato sviluppo economico. In tale ambito, traboccante di aspettative e di incognite, il teatro di Dario Fo si rifà al concetto di opera aperta teorizzato da Umberto Eco2, dato che le sue pièces rivelano una struttura complessa e un esito indeterminato, spesso plurivoco o perfino ambivalente. In particolar modo, alla stregua di Bertolt Brecht, sia l’enunciazione ovvero le modalità discorsive di comunicazione sia l’enunciato in quanto testo dal contenuto riecheggiante fonti, spunti e sovradeterminazione interpretativa mostrano che il teatro di Fo non ricalca i topoi in modo pedissequo ripristinando il retaggio giullaresco medievale abbinandolo ad un risvolto satirico che prende di mira non solo la Chiesa come istituzione spesso retriva, ma pure i farisei coevi.

Mistero buffo consta di opere improntate a una rivisitazione, a una riscrittura o rielaborazione scenico-teatrale dell’ipotesto biblico canonico, quantunque certe siano desunte da fonti apocrife o raffigurino personaggi della storia del cristianesimo, altre ancora innestano l’estro fantasioso di Fo su figure memorabili come quella Francesco d’Assisi, giullare di Dio. Come osserva Bisicchia3, Fo è uno dei pochi scrittori italiani a parlare amorevolmente di Gesù Cristo, ad amarlo e a rispettarlo. Ora, mentre in Mistero buffo il personaggio Gesù Cristo entra spesso in scena, in Johan Padan a la descoverta de le Americhe rappresenta una rivelanda 2

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Cf. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Dario Fo, Milano, Mursia, 2003

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figura che segna l’apoteosi della vicenda narrata e di nuovo una rivisitazione del significato profondo del cristianesimo, della sua gioia, della rivelazione di Dio misericordioso, dalla caritas inesauribile.

L’aggancio paratestuale e l’intentio auctoris in Johan Padan a la descoverta de le Americhe Innanzitutto, giova notare il titolo alloglotto che induce un effetto indubbio di straniamento infrangendo nella forma fonica l’immediatezza semantica della lingua ufficiale e quindi lasciando intuire il lato eterodosso della commedia di Fo. L’onomastica del personaggio Johan Padan appare intrecciata con la toponomastica anche per via dell’allitterazione. Johan presenta una grafia che stuzzica il lettore o lo spettatore o in una prospettiva di riappropriazione dialettale o di confronto poliglotta, vista l’affinità con le forme dialettali venete, emiliane e lombarde e con il tedesco Johann o l’inglese John. Sempre sull’enunciazione, va notato l’uso del testo bilingue in grammelot e in italiano. Non si tratta di un mero vezzo autoriale, di un’idea peregrina volta solo a strabiliare l’uditorio o il lettore.

Padan poi non accenna unicamente all’abbarbicamento regionale, bensì all’idioma teatrale del grammelot che come precisa Fo nel prologo è un impasto di vari dialetti padani, più esattamente gallo-italici, già adoperato nel teatro di Ruzante. Magari sarà anche un omaggio ai cantastorie che conobbe Fo da giovane sulle sponde del Lago Maggiore che si esprimevano appunto nel proprio vernacolo. Peraltro, vi sarà l’encomio nei confronti delle sacre rappresentazioni che attingevano ad una lingua franca dal sostrato padano con l’aggiunta di parole francesi, ad un grimaldello maccheronico che consentiva l’intercomprensione e nel contempo il sollazzo comico dato che la mimica e i gesti ribadivano il messaggio o supplivano agli eventuali fraintendimenti. Il grammelot significa il rifiuto della lingua coatta, ufficiale, conformista. L’ilarità destata dal grammelot sta nella sua carica eversiva dovuta al susseguirsi di onomatopee e di lessemi non immediatemente perspicui. Viene quindi sgretolato l’abbinamento tra significante et significato mediante un plusvalore o un controvalore semiologico insito nella recita dell’attore, che assurge a valenza universale.

Insomma il grammelot consiste spesso in uno sproloquio logorreico enfatizzato da smorfie e gesti espressivi che raggiunge lo scopo di creare uno straniamento ad impedire l’immedesimazione acritica dello spettatore.

Vajì ! Vajì ! Vàlsa l’ormegg ! Arma la randa ! Sü ol trinchett ! Jléva l’àncora ! Sü Aíssa ! va col paranell ! Se va, se va ! Via de la Giudècca ! Via della lagüna ! Via de Venéssia… Vajì !

Vajì col fiòco !... (…)

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Savèsse come la me faséva deslenguíre de gialusía, che lée, ‘sta bela stròliga, gh’avéa intorno a le sotàne tanti de quèli servénti amorós ! E tüti che ghe faséva un fraco de cortisaneríe e de regali. Prénse, adiritüra ! Monsignori ! Senadori che ghe fasévan la curt ! … No’ tüte e diese !... Dóe o trè de i diése…4 Si riconoscono nel grammelot di Dario Fo, lessemi e peculiarità fonetiche di vari dialetti gallo-italici come l’assenza di geminazione, la sonorizzazione di alcune consonanti intervocaliche oppure la vocale turbata [ü].

Questo Johan Padan inoltre rimanda alla figura dello zanni che si ritrova nella Commedia dell’Arte. In quanto a Americhe, il plurale sembra alludere a un aspetto meno consensuale e scontato aprendo invece uno squarcio sull’ignoto e sulla sconfinatezza del continente.

Nel prologo, Dario Fo chiarisce il nesso tra Johan Padan a la descoverta de le Americhe e Isabella, tre caravelle e un cacciaballe risalente al 1992. Nell’ambito delle commemorazioni per il cinquecentenario della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, l’opera teatrale di Fo rischiò di scatenare un putiferio sia a Genova che a Siviglia. Fo si prefiggeva lo scopo di trattare questo argomento scottante, sulla scia di una visione alternativa, contestatrice, ricercando una storia parallela fantasiosa ma attendibile perché attinta al racconto di Michele da Cuneo quale voce della controstoria, dei diseredati, dei vinti che di solito non hanno voce in capitolo. Johan Padan a la descoverta de le Americhe narra le peripezie di un giovane calafato che per sfuggire all’Inquisizione si imbarca a Venezia su un brigantino che salpa per Siviglia. Da lì raggiunge le Isole delle Antille, Santo Domingo, e la costa americana dove i suoi compagni massacrano gli indigeni. Accolto da una tribù di indios cannibali dopo un naufragio, Johan Padan diventa una specie di capo o di re riuscendo a cacciare via gli spagnoli. Composta di due atti, la commedia di Fo si impernia su una morfologia del racconto che rivela tappe fondamentali e isotopie su cui val la pena soffermarsi.

Nell’esordio, spicca una battuta metateatrale ovvero di teatro nel teatro visto che Fo mette in scena l’obiezione di una spettatrice che teme di fraintendere il grammelot. Si tratta di spezzare la quarta parete, la separazione tra il palcoscenico e la platea, perché il teatro di Fo che recepisce l’impostazione brechtiana mira ad impedire l’immedesimazione dello spettatore, la catarsi, il cosiddetto « rutto liberatorio » facendo leva invece sullo straniamento.

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Tutte le citazioni sono contenute tra le pagine 780-874 in Johan Padan a la descoverta de le Americhe in

Dario Fo, Teatro, a cura di Franca Rame, Milano, Einaudi, 2000

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A questo punto, qualche giorno fa una signora ha esclamato : «Oddio, non sarà tutto in questa lingua qua?!» Ma d’altra parte, questo è il linguaggio dei marinai del porto di Venezia nel Cinquecento, volete capirlo ?... Non lo capisco io che lo recito e pretendete di capirlo voi?!

Molle diegetiche ed invito all’interpretazione allegorica La diegesi è imperniata attorno all’io narrante che racconta le vicende che gli sono capitate atteggiandosi a personaggio incluso comunque nella coralità della compagine spagnola in un primo tempo poi della comunità degli indios di cui farà ormai parte. La dimensione collettiva ha il sopravvento su quella individuale, anzi esiste ormai un connubio tra il marinaio italiano e il popolo autoctono che lo ha accolto. Nel primo atto, si tratta del distacco di Johan Padan dagli spagnoli per i quali la scoperta dell’America equivale a una depredazione e un eccidio.

Scampato fortunosamente al rogo dell’Inquisizione a Venezia e a Siviglia, Johan Padan non partecipa alle carneficine che lo inorridiscono, anzi impara la lingua degli autoctoni, preludio all’incontro interculturale quale alternativa allo scontro micidiale attuato dai conquistatori spagnoli.

Nel secondo atto, l’uso via via più capillare dell’impersonale fa spiccare la divaricazione tra Johan Padan e i conquistatori, l’incompatibilità assiologica, il telos divergente : da una parte, la prepotenza e la sopraffazione, dall’altro lo scambio interculturale proficuo : «Da quel momento spagnoli non se ne sono visti più.» Si assiste quindi all’evolversi di Johan Padan che da marinaio sprovveduto in balia degli eventi si metamorfizza in protagonista conscio delle sue responsabilità nei confronti degli indigeni che gli hanno affidato il loro destino proprio nel frangente del dilagare degli spagnoli. A una pars destruens, incarnata per lo più dalle istituzioni oppressive, dai conquistatori, subentra antinomicamente una pars costruens dove prevale l’affiatamento tra Johan Padan e gli indios e soprattutto dove viene definitivamente annichilito l’incombere dei conquistatori.

Per quanto riguarda le isotopie narrative, si distinguono innanzitutto gli episodi collegati all’acqua, elemento simbolicamente ambivalente. Poco dopo l’incipit, un maremoto investe Piazza San Marco e viene ripetuto tale cataclisma alla fine del primo atto. In entrambi i casi, l’acqua significa l’imprevedibile, l’imponderabile che scombussola le certezze umane determinando svolte esistenziali. Inoltre, l’acqua riveste un duplice significato perché funge da forza distruttrice che mostra la vulnerabilità dell’uomo e nel contempo da potenza rigenerante che induce all’umiltà e alla ricostruzione ab imo. L’acqua insomma innesca un processo di ravvedimento, di catarsi, di superamento di certezze acquiste, il che è essenziale per dare un impulso trainante alla fabula e ai personaggi che la compongono. Difatti, se in un 7

primo tempo Johan Padan subisce il cataclisma perdendo poi l’amante e rischiando il rogo inquisitoriale, nel secondo in compenso ammonisce gli autoctoni per l’imminente catastrofe, il che contribuisce alla sua fama di veggente eccezionale. Il secondo episodio mette in scena il naufragio che riesce decisivo per gli eventi successivi e quindi per la traiettoria di Johan Padan in quanto l’affondamento della nave rappresenta il legame reciso con gli spagnoli, la nudità in mezzo ai flutti l’abbandono definitivo dell’involucro sociale originario, l’abbraccio del maiale per salvarsi una parificazione con gli esseri viventi e il rifiuto della superbia antropocentrica. Infine, la luna contemplata prima dall’amante poco dopo l’incipit e poi da Johan Padan dal momento in cui assurge a «stregone-santo-sciamano» degli indios assolve il compito di astro propiziatorio strumento di vaticinio, introducendo un risvolto fiabesco nella fabula, una spia di auspicio numinoso che propende misteriosamente verso l’ignoto se non verso la trascendenza.

In sostanza, questo viaggio costellato di ribaltamenti di situazione è contrassegnato soprattutto dall’incontro felice tra due culture che sembrano arricchirsi a vicenda. Con maestria umoristica, Fo ritrae un personaggio di Johan Padan che si imbatte presto nella violenza delle istituzioni e da cui cerca uno scampo, prima provvisorio poi definitivo.

La cogenza della violenza fondatrice Non c’è soluzione di continuità tra i roghi dell’Inquisizione e il perpetrando sterminio dei conquistatori spagnoli in America. Difatti, il 1492 segna nel contempo l’espugnazione di Granada, ultima città rimasta in mano agli arabi e la scoperta dell’America. L’eliminazione del nemico non è un epifenomeno di una guerra purtroppo consueta, bensì uno dei fondamenti della Spagna che ha appena portato a termine la reconquista e si accinge a colonizzare l’America.

Lori no’i faseva per cativéria, ghe brüsàva el corpo per liberàrghe l’ànema. El corpo de carbonèla e l’ànema felís che l’andava in sièl ! Pensa che còre ! Una spüssa de carne brüsada!

Ad adottare l’impostazione di Carlo Tullio Altan5, l’identità di un popolo dipende da vari fattori che sono il topos (lo spazio geografico), il logos (la lingua), il genos (la componente etnica), l’ethos (la religione e i valori imposti e condivisi o in un’ottica collettiva o secondo una dimensione clanica o familiare), l’epos (le gesta belliche spesso collegate a un antenato mitico). Se questi fattori costituiscono una costante antropologica che perdura da millenni,

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Carlo Tullio Altan, Gli italiani in Europa, profilo storico delle identità europee, Milano, Il Mulino, 1999

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alcune religioni e alcune ideologie tendono ad annettere minore o maggiore importanza a certi estremi identitari. Indubbiamente, Dario Fo va sfatando il paradigma identitario tutt’altro che eroico e glorioso della Spagna moderna che proprio negli anni in cui si è unificata da un lato espelle gli ebrei e i musulmani convertiti chiamati rispettivamente marrani e moriscos dall’altro compie un vero e proprio sterminio di massa nei confronti degli amerindi. Magari sarebbe una forzatura semantica parlare di genocidio in quanto non c’era un programma sistematico di annientamento di un popolo da parte dei vertici politici, comunque sono scomparsi milioni di nativi, il che ha determinato la tratta dei negri africani. L’ethos cristiano non ha impedito un epos traviato in quanto non si è trattato più di una guerra di liberazione, bensì di una guerra di predominio in cui il potere politico si è avvalso dell’istituzione cattolica per schiavizzare popoli autoctoni depredandone le ricchezze. In realtà, la carica emancipatrice del cristianesimo nei confronti di qualsiasi potere è stata rintuzzata e perfino distorta dall’epoca di Costantino in poi per cui Dante scoccò uno strale contro Bonifacio VIII, invettiva, guarda caso, ripresa in Mistero Buffo da Dario Fo che anche qui addita implicitamente con sarcasmi sferzanti la contraddizione tra i valori sublimi di cui i cristiani dovrebbero essere i depositari e il loro comportamento oltremodo violento. Paradossalmente, il rigoglio umanistico e rinascimentale e poi l’avvento dell’illuminismo hanno coinciso, come osserva giustamente Tzvetan Todorov6 con il prevalere di una mentalità improntata alla cupidigia e alla diseguaglianza tra i popoli, in contasto stridente con i dettami del cristianesimo secondo il quale tutti gli esseri umani sono degni, uguali e liberi di fronte a Dio. In compenso, riteniamo che la religione islamica7 e le ideologie moderne e contemporanee, specie quelle totalitarie, possiedano un corpus e un programma in cui esiste sempre un nemico da eliminare perché latore di un’alterità ritenuta incompatible con l’identità del popolo o del gruppo di riferimento. A questo proposito, il filosofo René Girard8 ha discettato egregiamente circa la violenza mimetica e il sacrificio del capro espiatorio che hanno fondato le società di ogni tempo, sebbene l’amnesia collettiva e la propaganda ufficiale tendano a narcotizzare le coscienze. Sia detto per inciso, si commemora in questi giorni il centenario del genocidio degli armeni del triennio 1915-1917, tuttora negato dal governo di Ankara, che rappresenta 6

Tzvetan Todorov, Nous et les autres, la réflexion française sur la diversité humaine, Paris, Seuil, 1989 I delitti abominevoli che sta compiendo il cosiddetto Stato islamico in Siria e in Irak e i recenti attentati in Francia non vanno considerati una scheggia impazzita estrinseca alla figura di Maometto, anzi. Il fondatore dell’islam instaurò la sua religione compiendo assassinii ed eccidi e basta leggere attentamente il Corano per accorgersi che la jihad contro ebrei e cristiani è ricorrente. Alcuni islamologi tendono del resto a corroborare la tesi dell’impostura religiosa di Maometto. Cf, Tilman Nagel, Jean-Marc Tétaz, Mahomet : histoire d'un Arabe invention d'un Prophète, Genève, Labor et fides, 2012 7

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René Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Paris, Grasset, 1978

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l’atto fondatore della Turchia moderna in cui la pregiudiziale islamica di vecchio stampo venne rinfocolata dalle farneticazioni pseudo scientifiche del kemalismo. Per René Girard la crocifissione di Gesù Cristo, figlio innocente di Dio, incarna l’irruzione delle verità palesando l’unanimità dei linciatori mentre la risurrezione vince definitivamente la spirale della violenza mimetica cui soggiaceranno popoli interi e individui finché non si convertiranno.

Johan Padan è spesso rappresentato come un vile, un furbacchione che cerca di farla franca nell’avversità, tuttavia, nonostante questa sua indole da antieroe non è affatto privo di un certo distacco critico che fa sì che non sia un gregario pronto ad ammettere le carneficine ad opera dei suoi coreligionari.

E noialtri, cristiani cattolici…brava gente…prima a far tutti i cerimoniosi…a offrirgli campanellini, vetri da ciarpame…e poi si è incominciato a far razzia di tutto quello che avevano : a strappargli via donne, figli e caricarli sulla nave, per traghettarli schiavi nel nostro santo mondo di cristiani. (…)

‘Sti cristiani che abbrancavano i bambini e li sbattevano contro gli alberi : spiaccicati !

Tagliavano in due le femmine, squartate. Da vomitare. Il cappellano m’ha detto : -Johan Padan, basta con ‘sto mugugno… Cosa fanno alla fine ? Ammazzano dei cristiani ? No, ammazzano gente che non ha spirito, non ha cuore, non ha religione…non hanno né anima né dio… Quando accoppi uno di quelli è come scannare un cane ! Non far tragedie !9 Notiamo del resto che cristiani acquista qui un significato diverso a seconda di chi pronuncia questa parola. Per Johan Padan, i cristiani sono implicitamente agli antipodi di Cristo, chiamarsi cristiani non è più un onore ma un marchio d’ignominia, perché trucidano con violenza inaudita gli esseri umani più inermi, mentre per il cappellano sono gli appartenenti alla sola religione vera. Particolarmente eloquente è la giustificazione del cappellano che considera gli indigeni alla stregua di animali, adducendo una concezione discriminatoria. Il testo di Fo pare stabilire un addentellato con la celeberrima controversia di Valladolid del 1520-1521 che oppose il domenicano Bartolomé De Las Casas, difensore della dignità degli indios, all’umanista Juan Ginés de Sepúlveda, peroratore dell’inferiorità degli indigeni e correlativamente del diritto di schiavizzarli se non di annientarli. Val la pena ricordare che durante l’acerrimo dibattito, Las Casas cercò di colpire l’uditorio con una dovizia di particolari anche raccapriccianti.

Johan Padan si colloca chiaramente nel solco dei seguaci di Las Casas e delle missioni gesuitiche che svolsero un ruolo estremamente proficuo non solo per attutire la rapacità dei

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Per ragioni di comodità di lettura, inseriamo d’ora in poi i passi in italiano e non in grammelot.

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conquistatori, ma pure per far sì che l’evangelizzazione fosse veramente una buona novella, ossia un approdo verso la libertà di fronte all’oppressione innestando la rivelazione cristiana sulla cultura indigena, non per soffocarla ma per conferirle un nuovo slancio. È stato coniato a tale riguardo il vocabolo di inculturazione di cui il gesuita Matteo Ricci profondo conoscitore della cultura cinese ci diede un esempio fulgido. Certo, Johan Padan non si cala nei panni di un missionario canonico e il suo modo di « far dottrina » riesce tanto eterodosso da sconfinare nell’eresia, tuttavia sta ad indicare l’incontro tra due culture, la curiosità dell’europeo non succube dell’etnocentrismo che vuole conoscere quella indigena prima di presentare la propria. La meraviglia degli autoctoni deriva dal fatto che non possono ancora concepire un europeo che si avvicini alla propria cultura anche perché i compagni di Johan Padan si sono comportati da oppressori ovvero da razziatori spietati.

Io gli domandavo tutto, gli rubavo le parole…e me le segnavo… (…)

Mi guardano stupiti : -Un indios bianco !

Viene offerto uno squarcio sul nuovo assetto dei territori americani in cui viene imposta un’economia di rapina che si sostituisce all’economia di sussistenza. Tutt’altro che res nullius, il continente americano era popolato da autoctoni che vengono soggiogati anzi schiavizzati dai conquistatores spagnoli. Icasticamente, il testo di Fo mostra che la città costruita, svettante nella sua boria edilizia, concentra il potere economico, religioso, politico e militare, stravolgendo irrimediabilmente una cornice paesaggistica illibata e una società tradizionale, magari arcaica nei costumi, ma non mossa dal pungolo dello sfruttamento accanito, della bramosia sfrenata dell’oro. In termini marxisti, l’infrastruttura caratterizzata dall’uso, dall’abuso e dal sopruso nei confronti della forza lavoro in un sistema economico coloniale, è correlata a una sovrastruttura politico-culturale che legittima mediante la repressione patente o il condizionamento latente qualsiasi tentativo di ribellione e di emancipazione. Badando alla ricezione dell’opera di Fo nel mondo, è ovvio che il lettore viene spronato a trasporre la situazione di allora nel contesto odierno per accorgersi che al di là della carta dell’Onu sui diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo, infierisce sempre in tanti paesi un sistema o semi-feudale o oligarchico o neo-capitalista volto a mercificare le masse dei contadini e dei lavoratori spesso con il beneplacito dei consumatori dei paesi detti sviluppati che non hanno remore ad appagare bisogni superflui comprando gingilli tecnologici dall’impatto sociale ed ecologico micidiale.

Briosamente, il fraseggio di Fo ricorre alla reticenza, alla sospensione del verbo che va di pari passo con la mimica e la gestualità dell’attore, per esprimere l’indicibile, l’ineffabile di fronte a uno spettacolo che da allettante diventa raccapricciante. Si sprigiona anche dal testo teatrale 11

un senso di soverchio, di ipertrofia, di pletora arraffatrice, in altri termini di hybris che già per la filosofia greca indicava la perdita di misura dell’uomo pronto ad riverire gli idoli del potere, del denaro e del possesso.

(Quasi gridando impazzito) – Finalmente Cacioche ti ho ritrovata! Guardate che città…viva… le grandi mura tutte di legno, i paloni, e guardate le case, i casoni, …quei casoni là sono i magazzeni del fondaco…quell’altra è la cattedrale, vedrete che ha il campanile tutto fatto di tronchi… Quell’altro là grande è il palazzo del governatore… e poi altre case dei soldati, le guarnigioni… e appena fuori dalle mura le piantagioni di cotone… di mais… di frumento… Guardate che grande ! Bucate di là ci sono le montagne… le miniere d’oro… tant’è vero che ci sono gli schiavi con le catene ! Indios… indios incatenati come schiavi… anche quelli portano balle di cotone… tutti indios schiavi ! E ce ne sono dieci, dieci indios impiccati !

Secondo correnti esoteriche e gnostiche odierne e vari movimenti fondamentalisti in auge soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile, la salvezza eterna non è riservata a tutti i cristiani ma solo a una cerchia elitistica di iniziati che possiedono la vera conoscenza. È risaputo che per i seguaci di alcune sette a sfondo millenarista che fanno leva su un’interpretazione letterale della Bibbia, i salvati saranno una sparutissima minoranza immune dal funesto destino che si abbatterà sull’umanità traviata. Mutatis mutandis, si trattava della stessa concezione discriminatoria nel Cinquecento nei territori americani da poco conquistati, perché il cristianesimo imposto in modo cogente agli amerindi doveva servire ad annichilire l’identità e le credenze autoctone che potevano rappresentare un antidoto all’oppressione coloniale; ovvero venne imposta una sacralità rituale e sacerdotale che serviva al potere coloniale incutendo soggezione e perfino terrore poiché incombevano il supplizio e la morte in caso di rifiuto di obbedire alla nuova religione. In quanto alla prospettiva soteriologica immanente e trascendente, al riscatto su questa terra, ad una fede in Gesù Cristo gioiosa, liberatrice da ogni costrizione alienante, si trattava di una credenza inaudita e pericolosa. In altri termini, gli indios cristianizzati per forza erano accettabili, quelli autenticamente cristiani per amore erano invisi. Gli spagnoli di Fo sono quindi esterrefatti nel vedere indios che hanno accolto la religione cristiana non per tribolare ma per svincolarsi da tutte le oppressioni.

- Ehi, guardate! Meraviglia! Ci sono degli indios, indios con le croci!, che cantano canti di chiesa! Indios cristiani!

Ora, senza la risurrezione la fede cristiana è priva della sua forza incommensurabile, perciò Johan Padan insiste sul trionfo di Gesù Cristo sulla morte la quale ha perso il suo potere sull’umanità.

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Quando ho raccontato di Gesù, Figlio di Dio, dolce, gentile, con tanti capelli lunghi… a tutti è piaciuto questo figlio di Dio… - Che bello Gesù! –Così amoroso, appassionato, che prendeva i bambini in braccio… poi perdonava tutti. Non è religione di morte, è religione di vita, di vita !

Il simbolo della croce da immagine di morte inesorabile si tramuta in tappa dolorosa che prelude alla luce e alla gioia della risurrezione non solo trascendente ma anche immanente, hic et nunc. Il governatore posto all’apice del potere politico della colonia non sembra curarsi della vita o della morte dei suoi sudditi che vengono invece reificati quali mera forza-lavoro.

Verranno a lavorare tutte le mattine nelle piantagioni… liberi… anche in miniera verranno… obbligati-liberi !

Con queste battute sarcastiche viene ricordata la schiavitù alla quale dovettero soccombere gli amerindi dopo la conquista dell’America da parte degli spagnoli e dei portoghesi. Anziché un incontro di culture, si verificò l’imposizione di un sistema di sfruttamento delle risorse e degli uomini assolutamente spietato. La libertà sbandierata è fallace, illusoria, risolvendosi in una farsa atroce resa nella fattispecie dall’ossimoro «obbligati-liberi».

Tutt’altra che dolorista e mortifera, la religione cattolica propugnata da Johan Padan assume appunto un significato universale di riscatto, di dignità e di letizia insieme personale e collettiva. L’esaltazione della gioia in Cristo e con Cristo, figlio di Dio che salva tutta l’umanità mentre sono scomparse le differenze sociali e etniche, riesce ovviamente sovversiva per il rappresentante del potere costituito per il quale la religione serve da instrumentum regni, affinché il popolo introietti nel proprio subconscio una paura implacabile nei confronti di un Dio castigatore e dell’autorità che ne fa le veci. (…) Voialtri siete liberi perché ho una parola sola… ma lui lo impicco perché ha messo in piedi una religione tutta canti, balli e da ridere. Blasfemo! Impiccatelo!

La sovversione ucronica Vi è un lato fantastorico peraltro traboccante di umorismo sarcastico qualora il testo letterario funga da paratopia, da riscrittura della storia ufficiale equiparabile purtroppo a un susseguirsi di scempi e di soverchiamenti in cui prevale la legge del più forte10. Fo presenta la violenza dei conquistatori spagnoli sbarcati per compiere le solite nefandezze nella sua assurdità ridicola come fosse una monomania alienante che trasforma gli uomini in automi in balia di

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Cf. La storia di Elsa Morante che nel 1974 destò un putiferio in quanto la scrittrice propugnava la tesi della reversibilità dei ruoli di vittima e di carnefice, a prescindere dalle ideologie totalitarie e dalle condizioni storiche.

Il personaggio ebreo di Davide infierisce orrendamente contro un soldato tedesco fatto prigioniero.

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un raptus. Si notano le variazioni nei riferimenti cronologici : undici anni, poi due anni, poi nulla e infine quarant’anni, in modo che il concatenarsi dei tentativi di sbarco degli spagnoli sembra dileguarsi nel baratro dell’oblio perché non riesce ad intaccare il fluire del tempo ciclico. Insomma, se di intrusione della macrostoria può parlarsi, a spuntarla è stavolta l’antistoria estrinsecantesi in una temporalità ucronica fantasticata dal testo letterario, sogno di un’umanità che non deve più affidarsi agli eventi tragici per suggellare il suo esistere. La conquista fallita non incide più sul lungo periodo, si tratta semmai di una contingenza incidentale del tutto irrisoria che rispecchia la caducità e l’inanità della superbia umana. Il susseguirsi di episodi che sfociano su un fallimento clamoroso è improntato ad una strategia diegetica sia di racconto ripetitivo che iterativo: ripetitivo perché al lettore sembra che venga raccontata molte volte la stessa vicenda o quasi, ma pure iterativo perché la dovizia di particolari sullo sbarco, la tentata conquista e lo scacco finale viene narrata non per tutti gli episodi, ma soltanto per i primi. La veste narrativa riesce quindi sineddochica e ellittica, ma il lettore è mosso al riso da questo stillicidio inconcludente di conquiste clamorosamente fallite, per via della comicità di situazione e di carattere. I capi sussiegosi credono di poter impadronirsi di un territorio senza colpo ferire, mentre vengono sconfitti o liquefatti da forze inafferrabili e ignote. Spicca il contrasto fra la baldanza iniziale e l’esito insieme tragico e comico. All’enfasi e al climax ascendente che presiedono alla presentazione di Panfilo Navarez, condottiero apparentemente impavido, subentrano battute colloquiali poco consone alla marzialità e all’epicità, anzi lo scadere nel turpiloquio. Il fuggi fuggi indecoroso dei temibili soldati e le cifre iperboliche di cavalli andati perduti significano non tanto una mera legge del contrappasso cioè un evento vindice che lava l’onore degli indios precedentemente sconfitti quanto l’utopia di una controstoria, di una macrostoria alternativa alle razzie e agli immani eccidi che hanno caratterizzato la scoperta dell’America.

L’onomastica contribuisce a sfatare l’ossequio nei confronti degli esponenti della storia ufficiale, dato che i nomi di famosi conquistatori e imperatori vengono appositamente storpiati il che crea un grottesco dissacratorio e esilarante. È sbarcato anche Ernando de Soto, il più grande conquistatore della Spagna. Ernando de Soto… è arrivato con novecento uomini e duecento cavalli… più importante di Cortez11 era, con novecento uomini è arrivato, cannoni che non finivano… e ha incontrato gli indios. (…)

Dopo quattro mesi sono tornati alla marina tutti… Boia che disastro! (…) Allora c’è stato Pedro Mendéres da Vies, è arrivato lui, un capitano con un’armata, è entrato nella piana… è

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Il cognome del vero conquistatore si scrive Cortés.

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sparito! (…) poi è arrivato Luis Cansèl Bavaràos : è entrato, sparito! (…) A ‘sto punto il re Carlos il Quintero, ha proclamato: “Basta! ‘Sta Florida mi ha rotto i coglioni! Dichiaro queste terre inespugnabili!”12

L’approdo alla felicità edonistica, all’eudemonismo o alla gioia cristiana?

L’epilogo mette alla ribalta un Johan Padan certo incanutito, ma di primo acchito beato e satollo, cullato da uno stuolo amorevole di figlioli e di mogli, come si evince da questa frase ellittica dal climax ascendente.

Rispettato, amato, felice: un re!

Da una parte, viene raffigurato uno stato di godimento totale svincolato dalle leggi che reggono le società sviluppate per cui il comportamento del nostro protagonista riesce più amorale che immorale dato che non trasgredisce nessun dettame, nessuna norma vigente nelle società in cui vive. Sembra un ritorno a una specie di stato edenico in cui l’uomo e la donna non hanno conoscenza del male perché non commettono il peccato di superbia fomite di ricerca di un assoluto che appartiene solo a Dio. Rispetto all’apologia del piacere contro le imposizioni religiose, rivendicata e teorizzata ieri dagli illuministi atei come Diderot e oggi dai neofuturisti, il personaggio di Johan Padan viene tratteggiato in modo tutt’altro che monolitico perché supera i connotati di un gaudente disinibito. Pur non badando all’anima e al divenire escatologico, Johan Padan non dà la stura ad un sollazzo prettamente solipsistico, di tipo appunto edonistico. L’edonista vive soltanto per il piacere egocentrico, pago delle proprie sensazioni e noncurante della condizione dell’umanità vicina o lontana, mentre l’eudemonista mira a una felicità terrena che esula dalla ricerca del piacere soltanto sensuale e materiale.

Ora, Johan Padan non recide i legami con la cultura primigenia nella sua componente religiosa, sia pure popolare e non legata a un rito liturgico, sicché assurge a tramite tra la comunità padana dov’è cresciuto e la comunità amerindia dove trascorre la vecchiaia. Difatti il canto che suggella l’excipit viene cantato dagli indios in dialetto padano a testimoniare l’esito fausto di una religione cristiana cattolica innestata sulla cultura indigena e soprattutto fautrice di gioia condivisa.

Ovviamente, si potrà obiettare che prima della redenzione offerta da Cristo ci deve essere l’atto di fede e anche la consapevolezza e l’esperienza della croce ovvero del male che è consustanziale alla condizione umana. Comunque, sebbene manchi la componente metafisica, si delinea una certa teodicea in relazione alla devastazione degli eserciti e quindi alla guerra

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Ivi, p. 872

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come flagello che insidia la vita dei popoli. Nella canzone, si delinea appunto un lato esorcizzatore nei confronti di due schieramenti bellici equiparati. Insomma, la ferocia delle truppe dette degli Stati cristiani, nei numerosi conflitti tra Stati del Cinquecento, non ha nulla da invidiare a quella dei turchi islamici. Se «il gran vento» sta a significare allegoricamente i cataclismi naturali contro cui l’uomo è inerme, il male provocato dall’uomo è assai peggiore.

Facendo mente locale al significato profondo di questo epilogo al giorno d’oggi, siamo indotti a riflettere sugli scenari bellici e sugli antagonismi tra potenze regionali e potenze mondiali che tirano spesso le fila di conflitti scatenati sulla pelle viva di popolazioni prese in ostaggio e immolate, salvo poi ad esibirsi mediante il rimbombo mediatico quali custodi della civiltà o della pace oppure della vera religione.

Oh che bello, oh che allegria è ancora vivo il figlio del ciel è ancora vivo il figlio della Maria Maria vergine è in gran contento Nessuno di noi ha più spavento né dei turchi né del gran vento né del gran vento né dei cristian né dei turchi né dei cristian.

In questa opera teatrale, Dario Fo va riscrivendo la Storia della scoperta dell’America in modo ucronico cioè secondo un dipanarsi degli eventi alternativo a quanto è effettivamente accaduto, lasciando immaginare l’utopia di un mondo di pace universale benedetto dal figlio di Dio. L’agnosticismo o l’ateismo di Dario Fo riesce paradossalmente a cogliere il nucleo fondamentale del cristianesimo che, secondo il filosofo Marcel Gauchet13, consiste nella forza dell’interpretazione personale che si oppone alla coartazione istituzionale. La comicità dirompente e spiazzante di Fo risulta veramente magistrale perché scuotendo le coscienze dei lettori o degli spettatori sprona alla riflessione su tematiche tutt’altro che obsolete che riguardano dilemmi universali.

La forza corrosiva di Dario Fo nei confronti della Storia e delle istituzioni riesce comunque meno convincente quando verte sulla famiglia, sui rapporti di coppia e sulla responsabilità nei confronti della prole14. Sarà legittimo dare la baia al perbenismo ipocrita della famiglia borghese e al maschilismo patente o strisciante che ha per tanti anni posto la donna in una condizione subalterna, ma è assurdo auspicare una società del «proibito proibire» tanto 13 14

Marcel Gauchet, Le désenchantement du monde, Paris, Pocket, 2007 Cf. Coppia aperta, quasi spalancata e L’eroina

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rivendicato negli anni della contestazione giovanile e operaia nel periodo 1970-1980. Lo sfacelo della famiglia detta tradizionale e il permissivismo in materia di costumi e di consumo di stupefacenti stanno producendo effetti devastanti che colpiscono i piĂš deboli.

Se si condanna il liberalismo esacerbato nel campo politico ed economico, questo deve valere anche per le questioni sociali, educative e culturali, dato che l’essere umano eccede le rappresentazioni univoche e immiserite delle mode ideologiche.

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Bibliografia e sitografia sommarie

Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, a cura di Franca Rame, Milano, Einaudi, 2009 Dario Fo, Teatro, a cura di Franca Rame, Milano, Einaudi, 2000

Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Dario Fo, Milano, Mursia, 2003 Brigitte Urbani, Jongleurs des temps modernes, Dario Fo et Franca Rame, Aix-en-Provence, PUDP, 2013 http://www.francarame.it/ http://www.dariofo.it/

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Jean-Igor Ghidina - Maître de conférences GENNAIO-GIUGNO 1984 insegnante, professore di italiano nelle scuole secondarie - A proposito di UBP: docente nel 1987, Praga nel 1997 e docente dal 2007. Membro della Giuria nel 2010 CAPES esterni. - Docente di Letteratura italiana alla Blaise Pascal Università / Francia Aree di ricerca: Scrittura e rappresentazioni del mito nella letteratura italiana contemporanea.

La scrittura della guerra.

Identità e alterità nella letteratura italiana delle marce di confine.

Le aree romantiche di ospitalità.

Scrittura e Translation Studies bilinguismo. - La partecipazione al progetto ANR Infanzia, la violenza, l'esilio indossato da Catherine Rioux e Rose Duroux.

Team di ricerca: Scritture e le interazioni sociali Messaggi recenti: storie di migrazione. Alla ricerca di nuovi look Elenco delle pubblicazioni: Mito, società e scrittura nell’universo romanzesco di Carlo Sgorlon, Udine, La Nuova Base Editrice, 2006 Carlo Sgorlon, romancier frioulan, société, mythe, écriture, Paris, L’Harmattan, 2008 Studio diacronico della variante friulana di Forni di Sotto, Udine, Società Filologica Friulana, 2008 Carmelo Aliberti, du spasme existentiel à la quête de rédemption, Cl ermont-Ferrand, Presses Universitaires Blaise Pascal, 2012 Nicolas Violle Jean-Igor Ghidina, Récits de migration, en quête de nouveaux regards, ClermontFerrand, Presses Universitaires Blaise Pascal, 2014 “Résonances frioulanes” in Enfants d’italiens, quelle(s) langue(s) parlez-vous, Témoignages recueillis par Isabelle Felici et Jean-Charles Vegliante, Toulon, Editions Géhess, 2009,p.75-88 Articles parus dans la revue littéraire italienne Terzo Millennio dirigée par le poète Carmelo Aliberti et dont Giorgio Barberi Squarotti est membre du comité scientifique “Vivere, scrivere e tramandare l’esperienza della prima guerra mondiale, prima parte” in Terzo Millennio, Bafia, settembre 2009, p. 71-80 “Vivere, scrivere e tramandare l’esperienza della prima guerra mondiale, seconda parte” in Terzo Terzo Millennio, Bafia, luglio 2010, p. 71-80, luglio 2010, p. 89-96 “Il bilinguismo narrativo in Carlo Sgorlon” in Terzo Millennio, Bafia, gennaio-giugno 2011, p.65-74 “Gli spazi dell’ospitalità nei Racconti romani di Alberto Moravia“ in Terzo Millennio, Bafia, Lugliodicembre 2011, p. 31-51 “ Sfaccettature della peste. Da pretesto ad allegoria ontologica" in Terzo Millennio, Bafia, Lugliodicembre 2012, p. 38-54 “Retrospezioni sull’esilio dall’Istria, tra elegia, acrimonia e sublimazione”in Terzo MillennioMillennio, Bafia, gennaio-giugno 2013, p. 12-33 “Da Dante ad Aliberti: spunto di riflessione sulla traduzione francese della poesia italiana” in TerzoMillennio, Bafia, luglio-dicembre 2013, p. 15-32 “Federico Ranaldi, personaggio foriero di riscatto nella narrativa dero bertiana”in Terzo Millennio, Bafia, gennaio-giugno 2014, p. 5-17 “Topoi e figure dell'ospitalità in Carlo Sgorlon” in Carlo Sgorlon scrittore friulano, a cura di Vecchiet, Udine, Biblioteca Civica “V. Joppi”, 2012, p. 41-54 “L’afflato dell’ospitalità lenisce la sferza della storia”in Cahiers d’études italiennes, Novecento edintorni. Images littéraires de la société contemporaine, Grenoble, Gerci, Ellug, Université Stendhal, n°3-2005, p. 209-222 “Résurgences ataviques, subversion politique et affres de la réussite sociale ou la polychromie de lareprésentation familiale dans la baie des anges de Max Gallo“ in Familles italiennes en migration, études réunies par Nicolas Violle, Représentations littéraires, sociologiques, historiques ClermontFerrand, Presses Université Blaise Pascal, 2011, p. 193-217 TRADUCTIONS ORIGINALES: Leonardo da Vinci, écrits et dessins, lermont-Ferrand, L’Instant Durable, 1998 Carlo Sgorlon, Ombres Dans l’infini, traduit du frioulan, Neuville-sur-Saône, Éditions Cheminsde Tr@verse, 2014

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Collana ROBINSON Jean I.Ghidina novembre 2015. - Edizioni Terzo Millennio copyright Š Tutti i diritti riservati all'autore Progettazione e cura di Monica Bauletti, segretaria di redazione.

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