IT'S DIFFERENT 46.2017

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ŠGiuseppe Gradella Photography model: Emilly De Faveri

It’s Different magazine edizioni Mille srl anno 8 n.46/2017. free press Autorizzazione Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009 - itsdifferent.it

VITA CONTEMPORANEA


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Ravenna Via A.Grandi 98 Parco Commerciale Bassette Tel.0544 456494 - www.iobimboravenna.it IO BIMBO Ravenna



info@itsdifferent.it n.46/ 2017 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni - Claudio Notturni - Mara Pasti Lehila Laconi FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto info@millemedia8.it

Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna

RIVISTA ACCEDITATA

74°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2017

Copertina ©Giuseppe Gradella Photography Instagram: @giuseppegradella WEB: www.giuseppegradella.it Facebook: Giuseppe Gradella Photography

photo Maria Svarbova


ARTE ITALIANA

LA RISCOPERTA DELL’AMERICA a cura di Francesco Tedeschi Milano, Museo del Novecento e Gallerie d’Italia Fino al 17 settembre 2017 sarà aperta al pubblico la mostra NEW YORK NEW YORK. Arte Italiana: la riscoperta dell’America a cura di Francesco Tedeschi, con Francesca Pola e Federica Boragina, promossa dal Comune di Milano – Cultura, Museo del Novecento e Intesa Sanpaolo Galleria d’Italia, in collaborazione con la casa editrice Electa.


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Ugo Mulas Andy Warhol, Philip Fagan e Gerard Malanga New York 1964

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Il percorso espositivo si snoda tra le due sedi museali e comprende oltre 150 opere, fondandosi, come scrive il curatore, “su una serie di fatti, incontri e occasioni, che hanno dato all’arte italiana del Novecento l’opportunità di conseguire un’attenzione e una presenza internazionale, utile a collocarla in posizione preminente nell’ambito della stessa idea di modernità”, centralità raggiunta “tramite una serie di legami di diverso genere con gli Stati Uniti d’America, e in particolare con l’ambiente e la città di New York, che diventa, non solo simbolicamente, il centro della cultura artistica del Novecento, a partire dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Vengono però qui considerati anche episodi precedenti, che hanno contribuito a preparare il terreno per vicende che si sono chiaramente manifestate in seguito, anche per le diverse maturazioni delle situazioni storiche attraversate dai due paesi”. La mostra presenta attraverso le loro opere, le storie degli artisti italiani che hanno viaggiato, soggiornato, lavorato, esposto negli Stati Uniti, e in particolare a New York, o solo immaginato il nuovo mondo, tutti alla ricerca di uno spirito più libero e di modelli differenti rispetto alla vecchia Europa. Un racconto articolato e complesso che parte dagli anni Venti, quando Fortunato Depero, futurista di primo piano, si reca per un lungo soggiorno negli Stati Uniti (vi giunge nell’autunno del 1928 e vi si ferma circa due anni), diventando simbolicamente il punto di partenza dell’incontro con la realtà americana,fino al biennio 1967-68, quando Ugo


Mulas pubblica New York: The New Art Scene (New York: arte e persone), il libro nel quale raccoglie le immagini scattate dal 1964 agli artisti americani di punta dell’epoca. Nello stesso periodo sono poi organizzate importanti rassegne, tra cui la grande mostra del 1949 dedicata all’arte italiana al Museum of Modern Art di New York - la prima volta che il MoMA dedica un’esposizione di grande rilievo alla produzione artistica contemporanea di un paese - e una doppia rassegna nel 1968 dedicata alla recente arte italiana al Jewish Museum of Art di New York. Negli spazi del Museo del Novecento è restituito l’immaginario americano e, in particolar modo, il rapporto intenso con la città di New York così come percepito dagli artisti italiani, con opere di Afro, Paolo Baratella, Corrado Cagli, Pietro Consagra, Giorgio De Chirico, Fortunato Depero, Tano Festa, Lucio Fontana, Emilio Isgrò, Sergio Lombardo, Titina Maselli, Costantino Nivola, Gastone Novelli, Vinicio Paladini, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Rotella, Alberto Savinio, Toti Scialoja, Tancredi, Giulio Turcato. Una sezione a sé è dedicata all’opera fotografica di Ugo Mulas in relazione a New York e agli artisti statunitensi. «Nella prima metà del Novecento i confini fisici dell’espressione artistica si sgretolano, e quelle che prima erano classificabili come ‘influenze di culture altre’ diventano ora fonte di ispirazione comune per gli artisti di ogni luogo, anche e soprattutto in Italia. Il Museo del Novecento è testimone prezioso di questa fase, documentata attraverso la propria

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Mimmo Rotella Viva America 1963

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Gastone Novelli New York Notes II, 1965

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Tano Festa Cielo Newyorkese, 1966

Fortunato Depero grattacieli e Tunnel, 1930

collezione e approfondita ora con questa mostra che si inserisce perfettamente nel contesto storico-artistico del suo percorso» dichiara Filippo Del Corno, assessore alla cultura del Comune di Milano. «La collaborazione con Gallerie d’Italia e il suo Cantiere del ‘900 consente di affondare ulteriormente lo sguardo su questo periodo cruciale dell’arte moderna, in cui il mondo diventa al tempo stesso più grande e più vicino all’immaginario di tutti gli artisti che, ciascuno con il proprio linguaggio, meticciano la propria cultura con tradizioni e suggestioni provenienti da oltreoceano.» Nelle Gallerie d’Italia a Piazza Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano, è invece proposta un’ampia ricostruzione dei rapporti con le istituzioni, le gallerie e i collezionisti americani che hanno valorizzato la presenza artistica italiana sul territorio americano. «Dopo le mostre Restituzioni, Hayez, Bellotto e Canaletto, dedicate alla grande tradizione artistica italiana, Intesa Sanpaolo riporta l’attenzione sul contemporaneo, periodo al quale è dedicato Cantiere del ‘900, il progetto espositivo delle Gallerie di Piazza Scala volto a valorizzare le collezioni del Novecento della nostra Banca» afferma Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo «New York New York, con quasi 150 opere provenienti da prestigiosi musei nazionali e stranieri, consente un’originale lettura dell’arte italiana del secolo scorso in una prospettiva internazionale, approfondendo il rapporto con il mondo, la cultura e i caratteri estetici di un’America vista,


Pietro Consagra New York City, 1962

Arnaldo Pomodoro In memory of J.F. Kennedy,1963-64

interpretata e rappresentata. Questa nuova mostra rafforza ulteriormente la collaborazione con il Comune di Milano attraverso la sinergia con il Museo del Novecento, la realtà museale che svolge in città un ruolo di primo piano nella promozione dell’arte moderna.» A partire dalla mostra XX Century Italian Art, tenutasi nel 1949 al Museum of Modern Art di New York, sono presentati alle Gallerie d’Italia alcuni capolavori di Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Giorgio Morandi, Massimo Campigli, Marino Marini, Virgilio Guidi, Renato Guttuso, Fausto Pirandello, Armando Pizzinato, Alberto Viani, per poi proseguire con opere di autori degli anni Cinquanta e Sessanta tra i quali Carla Accardi, Afro, Gianfranco Baruchello, Enrico Baj, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Alik Cavaliere, Ettore Colla, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Domenico Gnoli, Lucio Fontana, Pino Pascali, Achille Perilli, Michelangelo Pistoletto, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Rotella, Giuseppe Santomaso, Mario Schifano, Francesco Somaini, Toti Scialoja ed Emilio Vedova. La mostra del MoMA del 1949 è stata un momento fondamentale per la ricezione dell’arte moderna italiana in un contesto internazionale: i curatori vollero allora sottolineare come l’arte italiana del Novecento avesse una propria storia, autonomia e carattere indipendenti da quella francese. Vengono esposte in quell’occasione circa 230 opere di altissima qualità (tra dipinti, sculture, disegni, bozzetti, incisioni) di 45 artisti, organizzate in sezioni dal Primo Futurismo alla

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Ugo Mulas New York 1964

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giacomo Balla Bambina x balcone, 1912

Giuseppe Capogrossi Superficie 154, 1956

Mimmo Rotella Mitologia in nero e in rosso,1962

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incisioni) di 45 artisti, organizzate in sezioni dal Primo Futurismo alla Pittura e Scultura dal 1920 al 1948. L’evento avrebbe veicolato il processo di acquisizione di opere d’arte italiana per le collezioni del MoMA ottenendo il lungo e duraturo effetto di creare un interesse e un mercato per gli artisti italiani. Allo scopo di mettere in evidenza il dialogo con gli artisti d’oltreoceano saranno esposti anche alcuni capolavori dei massimi esponenti dell’arte statunitense come Alexander Calder, Willem De Kooning, Arshile Gorky, Franz Kline, Conrad Marca Relli e Cy Twombly, per sottolineare le loro relazioni con il nostro paese, attraverso i contatti da loro intrattenuti con artisti e collezionisti. Ugo Mulas e la nuova scena artistica americana.

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TATUAGGI SULLE DONNE CHIN Lo stato Chin è una lingua di territorio, stretto e lungo, sulle montagne che fanno da confine tra l’India Orientale, il Bangladesh e il Myanmar. La pratica del tatuaggio sulle donne Chin è stata dismessa una settantina di anni fa; da circa due generazioni, complice una forte spinta del governo militare che infliggeva multe salate a chi si ostinava a praticarla ancora. Una consuetudine che, secondo la leggenda, ha avuto inizio quando un antico re ha cercato di rapire e schiavizzare le donne di queste tribù di montagna: il tatuaggio veniva realizzato allo scopo di imbruttire e quindi scoraggiare il rapimento, poi col passare del tempo è diventato un simbolo di bellezza. Certamente fa un bell’effetto visitare questi villaggi e vedere le giovani col volto “pulito” in mezzo alle “nonne” col volto completamente ricoperto da motivi geometrici che spesso ricordano una ragnatela. Se chiedi loro perché si tatuassero il volto ti senti rispondere che sceglievano di farlo “per non sembrare troppo brutte agli occhi degli uomini” e altre, che ammettono di aver avuto il viso gonfio per settimane perché “mia madre mi ha detto che avrei trovato un buon marito con questi tatuaggi". Il colore veniva preparato mischiando foglie, erba, germogli e fuliggine. Le foglie davano il colore, la fuliggine agiva come disinfettante mentre i germogli d'erba venivano aggiunti alla fine, a mo’ di benda, e garantivano una guarigione naturale. La mistura veniva poi applicata al viso delle bambine dai 9 ai 12 anni con spine molto appuntite.

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Photography Awards nel 2016, le pubblicazioni delle sue immagini non si contano più. Persino il britannico Guardian le ha dedicato un ampio spazio. Potremmo dire che la fotografia è per lei un gioco del tempo e che, a soli 28 anni, sa giocare benissimo. La fotografia costruita è un genere che vanta illustri precursori nella storia, tornando spesso alla ribalta, ma che ultimamente è entrata con disinvoltura nel circuito dell’arte e delle gallerie con rinnovato vigore, cancellando definitivamente quel labile confine che voleva gli artisti separati dai fotografi. Le immagini qui pubblicate, fatte di spazio, di luce e di aria, fanno parte di un progetto dal titolo Swimming pool, realizzato da una giovane fotografa slovacca, Maria Svarbova. Dopo gli studi in conservazione e restauro, Maria decide di rinunciare alla carriera di archeologa per dedicarsi completamente alla fotografia, un hobby intrapreso grazie ad un regalo. “Mi sono avvicinata alla fotografia nel 2010 quando ricevetti in dono un reflex digitale - racconta Maria - senza sapere che me ne sarei innamorata così tanto”. Proprio per il fatto di essere un’autodidatta, preferisce definirsi visual artist, piuttosto che fotografa. “Non ho mai letto un manuale di fotografia, ma l’arte è sempre stata al centro dei miei interessi -

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afferma Maria - e per qualche tempo mi sono interessata anche alla pittura realizzando alcuni quadri.” Ed è indubbio che, nei suoi scatti, molte siano le suggestioni attinte non solo dalla pittura (penso alle piscine dipinte da David Hockney), ma dall’arte in senso più ampio, dalla letteratura al cinema. Qualcuno di voi forse ricorderà The Swimmer, un film del 1968, permeato da un’atmosfera irreale nel quale il protagonista, Burt Lancaster, compie un lungo tragitto attraversando a nuoto le piscine del suo quartiere. Una pellicola visionaria, che narra una metafora della vita e al contempo una critica sociale di quel particolare momento storico. Questo per dire che non ci troviamo, in questo caso, di fronte a una fotografia che è specchio della realtà, ma a delle immagini che si rivelano fedeli al solo universo creativo dell’artista. Maria considera la fotografia prima di tutto un mezzo per comunicare un’impressione, una nostalgia, una scelta estetica elaborata in ogni suo dettaglio dopo lunghe riflessioni. “Di solito lavoro contemporaneamente a diversi progetti - racconta l’autrice - ma a volte mi occorrono anche due o tre settimane per terminare un’immagine”. Ed ancora: “L'archeologia impone un’autodisciplina molto meticolosa - spiega Maria - e nessun dettaglio deve

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sfuggire all’attenzione. Importanza fondamentale per la comprensione di un sito archeologico è assunta dalla stratigrafia, metodo che applico nei miei progetti per portare all’attenzione ciò che sta sotto la superficie.” Dalla location alla scelta dei modelli, dalla luce all’abbigliamento, niente è lasciato al caso. Le sue immagini sono frutto di un’autentica costruzione; personaggi e scene predisposti per essere fotografati e che nulla hanno a che vedere con situazioni del mondo reale o dell’esperienza del quotidiano. Elaborata l’immagine nella sua mente, Maria la mette in scena, anche attraverso l’abile lavoro di post produzione, avviluppando i suoi soggetti in un alone etereo e spirituale. A questo proposito afferma: “In questo periodo scatto con una Canon 5D Mark IV, poi lavoro all’editor con Photoshop CS6 e Lightroome 5.1, con i quali ottengo ottimi risultati a patto che le immagini di partenza siano di grande qualità.” Idea e progetto. È questo il metodo che l’autrice applica ai suoi lavori, nei quali è evidente la volontà di affermare che l’istante fotografico non è tanto quello del presente, del documento, della registrazione di un evento, ma l’apertura di un varco, di una spaziatura che dilata il tempo e apre l’opera all’immaginario. Un tempo che è servito a Maria per pensare e trovare l’inquadratura, per attendere l’ora giusta, per esporre e infine lavorare i propri file, e che rende queste immagini molto diverse da quelle nate in un istante. Tutto il tempo che è servito per costruirle ha l’effetto di separarle da qualsiasi presente e di spostarle nel vago della memoria. Il suo lavoro parte sempre dalla ricerca di un luogo: l’ambulatorio di un dentista, la sala d’attesa di un ufficio pubblico, un


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teatro, le scale di un vecchio palazzo e, per Swimming pool, di una piscina pubblica. “Tutto è cominciato nel 2014 a Bratislava - racconta Maria - quando mi sono imbattuta in una di queste piscine costruite circa ottant’anni fa nel periodo socialista, un’epoca nella quale lo sport era più un obbligo sociale piuttosto che uno svago.” Subito il fascino di queste architetture austere, e per certi aspetti minimaliste, costituite da grandi superfici piastrellate, soffitti infiniti, vetrate luminose e colori morbidi e tenui, dove la luce assume un valore altissimo, cattura la sua attenzione e Maria intuisce la necessità di introdurvi la figura umana, indispensabile affinché questi spazi acquistino un senso profondo e non risultino meri involucri vuoti, privi di un punto di riferimento. "Inserire presenze umane mi affascina - dice Maria - lo spazio non ha senso senza l'uomo. Lo stesso vale anche al contrario. Gli esseri umani non avrebbero alcun significato senza spazio." Talvolta nelle immagini v’include l’acqua che, addomesticata in spazi strutturati, diviene evocazione di una civiltà liquida ma asettica, un’acqua che non bagna, ma è pronta a sedurre l’occhio con puri piaceri estetici. Luoghi, quindi, raccontati sin nel minimo dettaglio, piccoli gioielli architettonici svuotati da chiassosi nuotatori dove sembra ancora possibile coglierne i brusii, sono improvvisamente immersi in un silenzio onirico, misterioso e sospeso. Ciò che interessa a Maria è l’insieme e non il soggetto, così che ogni immagine diviene un’impossibile microstoria, collocata in un tempo quanto meno ignorato o reso eterno.

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Totò e Franca Faldini,Costa Azzurra Collezione Nicolò Borghese

TOTÒ GENIO fino al 9 luglio 2017 Napoli Palazzo Reale Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino) Convento di San Domenico Maggiore In occasione del cinquantenario della scomparsa del grande Antonio de Curtis, in arte Totò, avvenuta il 15 aprile 1967, e nell’ambito delle celebrazioni che si terranno in suo ricordo, la città di Napoli ospita la mostra monumentale Totò Genio, voluta dall’Associazione Antonio de Curtis, promossa e co-organizzata dal Comune di Napoli, in collaborazione con le maggiori istituzioni culturali del paese, l’Istituto Luce, il Polo Museale della Campania – Palazzo Reale, la RAI, SIAE - Società italiana degli Autori ed Editori, con il contributo di Rai Teche e dell’Archivio Centrale dello Stato. Curata da Alessandro Nicosia, che ha coordinato anche la direzione generale del progetto, insieme a Vincenzo Mollica, la mostra è prodotta da C.O.R, Creare Organizzare Realizzare. Il catalogo ufficiale, realizzato da Skira, è introdotto da una prefazione di Goffredo


Totò con il barbone nano Peppe, 1956 Collezione Nicolò Borghese

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programma teatrale di Che ti sei messo in testa? di Michele Candieri, 1944

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Fofi. La mostra ospitata a Napoli è la prima grande antologica dedicata a Totò e vuole mettere in luce la grandezza di uno dei maggiori interpreti italiani del Novecento: un viaggio indietro nel tempo, attraverso l’arte universale di Totò, figura poliedrica che ha giocato la sua vita gomito a gomito con l’arte dello stupore. Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro – genito Gagliardi De Curtis Di Bisanzio, più brevemente Antonio de Curtis e conosciuto al grande pubblico come Totò, è stato uno dei maggiori artisti italiani, simbolo dello spettacolo comico in Italia, un artista a tutto tondo, attore di teatro e di cinema (sono 97 i film da lui interpretati) ma anche poeta e autore di canzoni. Proprio in virtù del forte legame che univa Totò a Napoli, si è scelto di ospitare questa grande mostra nella città da lui tanto amata, come prima tappa di un lungo progetto itinerante nazionale e poi internazionale. Tre i luoghi prescelti per mettere insieme i tanti tasselli di un grande mosaico che rappresenta l’arte di Totò: il Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino), Palazzo Reale e il Convento di San Domenico Maggiore. All’interno di questi prestigiosi spazi si snoda il percorso delle mostre nella mostra, che ripercorrono e raccontano -attraverso centinaia di documenti tra fotografie, filmati, costumi di scena, locandine di film, interviste, disegni, riviste e giornali d’epoca, spezzoni cinematografici e televisivi, manoscritti personali, lettere, cimeli e materiale inedito- la vita, l’arte e la grandezza del Principe Antonio de Curtis. Le mostre nella mostra: “Genio tra i geni” Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino)- Cappella Palatina La mostra ospitata


Disegno di Federico Fellini Collezione Vincenzo Mollica

nella Cappella Palatina del Museo Civico di Castel Nuovo ripercorre e racconta il rapporto tra Totò e i grandi della cultura del Novecento. L’esposizione inizia con i disegni che Federico Fellini dedicò a Totò, che in lui vedeva un artista senza tempo; a seguire i disegni realizzati negli anni ’50 da Ettore Scola per la rivista satirica Marc’Aurelio e gli oltre trenta schizzi di Pasolini per La terra vista dalla luna, episodio del film Le streghe (1967) interpretato da Totò. Una selezione di interviste a personaggi di spicco della cultura e dello spettacolo, tra cui Eduardo e Peppino De Filippo, Ugo Tognazzi, Dario Fo, Achille Bonito Oliva, Roberto Benigni, Andrea Camilleri, Carlo Verdone, Fiorello, che raccontano il loro legame con Totò e quello che il grande attore ha rappresentato per loro. Si possono poi ammirare i disegni di fumettisti celebri come Crepax, Pratt, Manara, Onorato e Pazienza, e l’opera di Mimmo Paladino Posti in piedi…a prescindere, ispirata alla figura di Totò. Sono esposti, infine, documenti e carteggi, come quelli di Pasolini e Zavattini, e fotografie che lo ritraggono insieme ai grandi personaggi del Novecento. “Totò, che spettacolo!” La vita, il varietà, la poesia, le canzoni, la biblioteca, le cose di Totò (il famoso baule). L’Istituto Luce e la Rai per Totò. Palazzo Reale – Sala Dorica Nella sala Dorica di Palazzo Reale viene analizzato il rapporto tra Totò e le arti: costumi di scena originali, filmati e installazioni multimediali sono al centro di questa sezione, in cui Totò sarà nuovamente in scena con la sue voce e le sue inconfondibili “smorfie”. Al centro il baule di scena, che Totò portava sempre con se nei teatri e nei set cinematografici. Il baule, affidato, custodito e successivamente donato da Totò a suo cugino e segretario Eduardo Clemente, attualmente è custodito dal figlio Federico, che lo ha messo a disposizione per l’esposizione. Sono esposte anche quattro poesie inedite che mettono in luce il Totò più intimo e lontano dai riflettori e dall’immagine di Principe della risata, quello che rifugiava sentimenti e sensazioni nella poesia o nelle canzoni. “Dentro Totò” Convento di San Domenico Maggiore (Grande Refettorio e Piccolo Refettorio) La mostra ospitata all’interno del Convento di San Domenico Maggiore permette di scoprire nuovi importanti aspetti della figura del grande artista, attraverso diverse sezioni. In questa parte viene raccontato un Totò più “privato”, le due persone racchiuse in Totò, nella vita e sulla scena, diverse e complementari. Attore grandissimo e uomo fragile. In questa parte della mostra viene raccontato il suo grande amore per Franca Faldini, compagna degli ultimi quindici anni di vita. Il suo legame con Napoli, attraverso un filmato eccezionale che mostra un inedito Totò nella veste di Cicerone che illustra a dei turisti “Napule, a’riggina”. E ancora il suo grande amore per gli animali, in particolare per i cani, per i quali Totò provava un affetto sincero e incondizionato. La passione per l’araldica e quella per la cucina, che viene raccontata attraverso le ricette tramandate dalla figlia Liliana. Totò e la pubblicità racconta un aspetto meno noto della sua carriera; come molti altri personaggi del cinema e della televisione, ha fornito la propria testimonianza diretta sulla qualità dei prodotti italiani. Negli anni è stato testimonial di diversi prodotti, come nel 1957, quando insieme a Franca Faldini è stato protagonista della pubblicità della Lambretta, oppure ancora nel caso della Perugina, che lo scelse come volto per pubblicizzare il famoso Bacio. Nessuno mi ricorderà è la frase con cui, pochi giorni prima della sua scomparsa, Totò chiuse un’intervista. In questa parte della mostra vengono raccontati i suoi funerali, che furono tre, il primo a Roma, il secondo a Napoli e il terzo nel Rione Sanità a Napoli, in cui era nato. Attraverso fotografie, filmati storici provenienti dall’Archivio Luce e dalla Rai, giornali e ricordi, viene data testimonianza del sentito e meraviglioso addio che Napoli ha rivolto al suo più grande artista. La mostra si chiude con Totò e il cinema, allestita nel piccolo refettorio, dove sono esposti manifesti, locandine e fotobuste dei 97 film che hanno visto protagonista Totò e che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico.

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Disegno di Federico Fellini Collezione Vincenzo Mollica

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DIREZIONE KARPATHOS... Ci attirava molto l’idea di un viaggio in un’isola greca. Karpathos è arrivata all’improvviso. Ci siamo recati in un' agenzia di viaggio e alla nostra richiesta generica, l’agente ha cominciato a vagliare le varie possibilità, ma soprattutto la disponibilità: “Cefalonia: solo posti sul volo di andata ma nessuno sul volo di ritorno. Creta e Rodi: niente. Che ne dite di Kartpathos?” Karpathos? Mai sentita. Abbiamo dovuto chiedere di farci vedere sulla cartina dell’Europa dove fosse, perché non lo sapevamo. La si trova incastonata nel Mar Egeo, tra Creta a sinistra e Rodi a destra, e sembra quasi un pezzo di terra che si sia appena staccata da un’isola più grande. Un’isola molto piccola, lunga circa 60 km, e larghezza massima 11 km. Miriam ci propone un albergo (in realtà l’unico rimasto libero), il Lymiatis Beach Hotel a Pigadia, che è il capoluogo dell’isola. Sistemazione che ci descrive semplice ma pulita e in posizione strategica, proprio sul mare. La camera è dotata di balcone con vista mare laterale e aria condizionata. Ci prospetta anche la possibilità di una mezza pensione con il pranzo o la cena presso un ristorante convenzionato a un chilometro dall’albergo. Noi decidiamo per la sola colazione per poter decidere poi liberamente senza nessun vincolo di luogo o di orario. A Verona, in aeroporto, una volta lasciati i bagagli, abbiamo pranzato. Il bus alle 15.00 ci accompagna sulla pista di volo verso il nostro aereo. Dopo le formalità burocratiche e il ritiro dei bagagli, un addetto ci indica il pullman che ci

PHOTO P.G./A.P. MILLEMEDIA8


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accompagnerà al nostro albergo. Il nostro mezzo inizia il suo viaggio per accompagnare la ventina di persone salite a bordo e subito ci rendiamo conto della tortuosità delle strade sull’isola. Si spera solo di non incrociare altri mezzi perché il passaggio sarebbe molto difficile se non addirittura impossibile. Siamo stanchi e affamati, e ormai il trancio di pizza mangiato a pranzo non è che un lontano ricordo. Prima del centro, in una stradina poco lontano dall’albergo, scorgiamo una “taverna” (qui si chiamano così i ristoranti, che assomigliano molto alle nostre trattorie, alla buona e informali) che ci ispira più di altre. Ci piace la disposizione del locale, in alto rispetto alla strada e soprattutto tanta gente e i tavoli praticamente tutti occupati. Non che sia proprio la regola, ma per esperienza abbiamo constatato che se c’è tanta gente è un buon segno… La Taverna si chiama Kali Kardia che significa Buon Cuore. Il proprietario, un signore sulla quarantina, ci accoglie con la massima cordialità e calore, ci saluta dandoci la mano come fossimo vecchi amici e ci fa accomodare. Il menù è molto vario e tra le varie specialità ordiniamo insalata di tonno (una specie di paté fatto con tonno, cipolla, e verdure tritate), costolette di agnello e uno spiedino di pesce alla griglia. I piatti vengono serviti con vari contorni, riso, patate fritte e cappucci, come è usanza in tutte le taverne. Da bere: acqua e la mitica birra greca Mythos. Alla fine della cena, ci offrono dell’anguria fresca e yogurt greco con miele e frutta candita (buonissimo). Abbiamo mangiato molto bene e decidiamo che ritorneremo sicuramente al Kali Kardia. Chiedo la possibilità di pagare con bancomat o con carta di credito ma il gentilissimo proprietario mi dice che purtroppo accettano solo cash, ma che non c’è problema, posso pagare anche

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la prossima volta.: incredibile! Si fida di noi, anche se non ci ha mai visto prima. Abbiamo il contante e paghiamo. Torniamo in albergo stanchi e con il dolce rumore del mare ci addormentiamo. Alle 08.45 del giorno dopo, partenza per la prima spiaggia, Kyra Panagia, a 15 chilometri dal nostro albergo. Per raggiungerla ci portiamo sulla strada principale con il nostro scooter Outlook 150, direzione nord, con una sosta al primo benzinaio che troviamo strada facendo, dopo circa un chilometro. Sull’isola di sono solo tre pompe di benzina, due posizionate una dopo l’altra in direzione nord e l’altra in direzione aeroporto. Mentre iniziamo il nostro viaggio verso la spiaggia, subito incontriamo il vero protagonista dell’isola: il Meltemi, un vento che soffia quasi costantemente da nord -ovest su gran parte dell’Egeo. Diciamo che per tutta la settimana non ci ha mai abbandonato, a volte deliziandoci con una piacevole brezza, a volte infastidendoci con raffiche decisamente forti. Oltre al vento, che in alcuni tratti quasi spostava lo scooter, costringendoci a rallentare, ci rendiamo subito conto che le strade di Karpathos sono veramente impervie. Intanto, visto che il paesaggio dell’isola è prevalentemente montuoso, è tutto un susseguirsi di curve, tornanti, salite e discese, che molto ricordano le nostre strade di montagna. A differenza delle nostre, però l’asfalto è liscio e con poca aderenza, ci sono tante buche non riparate -o rappezzate male- e infine bisogna anche stare attenti ai numerosi sassi più o meno grandi che finiscono sulla carreggiata, staccandosi dalle pareti lungo la strada. Insomma, è una vera avventura girare per le strade di Karpathos, anche se davvero straordinaria. La vegetazione che incontriamo è fatta di conifere, prevalentemente pini marittimi che spesso hanno una struttura spostata in direzione del vento, oppure fatta di arbusti spinosi e completamente secchi. Lungo la strada (come in seguito avremo modo di vedere in tutta l’isola) possiamo notare diverse bellissime e caratteristiche chiesette greco ortodosse con i tetti colorati di azzurro o di rosso mattone. Arrivati al bivio per

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Kyra Panagia, iniziamo una discesa di circa 5 chilometri con una pendenza del 14-16% che da una parte mette a dura prova i freni dello scooter, ma dall’altra ci propone degli scorci con un panorama fantastico. Arriviamo a margine della spiaggia di Kyra Panagia e lasciamo il nostro scooter. Rimarrò con il dubbio per tutta la giornata circa la capacità dello scooter di riuscire a risalire i 5 chilometri con noi due a bordo. La spiaggia di ciottoli è attrezzata con una trentina di ombrelloni e lettini con ampi spazi tra uno e l’altro. Il mare dapprima si presenta splendido e pulito. Ma con il passare delle ore, verso lo zenith, quando il sole batte perpendicolarmente, i colori si fanno incredibili. Ci sono tutte le tonalità del verde e dell’azzurro e l’acqua limpida invita ad emozionanti bagni. La temperatura dell’acqua è fantastica e una volta entrati non si vorrebbe più uscire. Anche la location è molto suggestiva. La spiaggia, infatti, ha subito alle spalle la montagna e sul promontorio sulla destra si erge una tipica chiesetta con il tetto rosso. Il vento ci tiene

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compagnia e i ciottoli della spiaggia ci aiutano a tenere gli asciugamani che altrimenti volerebbero. A pranzo decidiamo di assaporare i piatti della taverna posizionata subito sopra la spiaggia dove abbiamo parcheggiato lo scooter, la Taverna N°1 e la decisione si rivela azzeccata. Decidiamo di rimanere leggeri, ordinando tutti e due una fantastica insalata greca, acqua minerale e birra Mythos. Tutte le taverne hanno sempre delle terrazze con vista mare, sotto pergolati o tettoie dove oltre che gustare dell’ottima cucina greca, si può godere di una piacevole frescura e di un panorama fantastico. Proprio l’ideale per una pausa dalla spiaggia nelle ore più calde. Torniamo in spiaggia e ci rimaniamo fino alle 17.00 praticamente fino a che il sole scompare dietro l’altura dietro di noi. Lo scooter non ci delude e il nostro Outlook 150 riesce a superare anche le salite più ripide. Torniamo in albergo e in serata ci muoviamo in direzione Pigadia, alla ricerca di un locale dove consumare la cena. La scelta cade su un locale di cui avevo sentito parlare bene in una recensione. La taverna To Ellenikon si trova sulla via centrale del capoluogo, ha alcuni tavoli fuori e altri all’interno ma con una ampia apertura laterale che lascia passare un po' di aria. Ordiniamo involtini di carne e riso avvolti in foglie di vite, tzatziki e souvlaki (spiedino alla griglia) di maiale. Alla fine, ci offrono dell’anguria. Dopo cena, passeggiata lungo le viuzze di Pigadia dove ci sono i classici negozietti per turisti che propongono le stesse identiche cose che potresti trovare in qualsiasi luogo del sud italiano. Prodotti di artigianato, miele, olio e altre cose tipiche. Torniamo in albergo stanchi ma soddisfatti per la splendida giornata trascorsa. Il giorno dopo si parte con lo scooter in direzione sud, destinazione Damatria, spiaggia consigliata dall’accompagnatore Alpitour Ettore il giorno del nostro arrivo. A suo parere, una spiaggia poco conosciuta e quindi anche poco frequentata, ma che sicuramente merita una sosta. Sul percorso non ci sono segnalazioni, ma ad un certo punto dalla strada principale che porta all’aeroporto, bisogna seguire l’indicazione segnata su una tavola da surf per la Taverna Poseidon, che si trova poco distante da Damatria. La stradina che porta alla spiaggia è molto breve e in leggera discesa. Si giunge in uno spiazzo non asfaltato dove si può parcheggiare e subito ci colpisce la bellezza del posto. La baia è molto piccola e riparata. Ci sono a malapena dieci ombrelloni, alcuni con lettini di tela e altri tutti in plastica, e quindi meno comodi. Noi siamo arrivati tardi rispetto ad altri, che sono riusciti ad accaparrarsi i lettini più comodi, e ci accontentiamo di quelli più duri. La location è fantastica: la spiaggia di sassi è poco profonda, c’è giusto lo spazio per i lettini e gli ombrelloni, che sono posizionati molto distanti l’uno dall’altro, e ognuno qui gode di spazio e

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privacy. Sembra di essere quasi soli, in silenzio e assolutamente fuori dal caos. Una bellezza. Di fronte a noi un piccolo isolotto che si chiama Mira. Il mare anche qui è fantastico, con acqua limpida e cristallina. Da mezzogiorno in avanti, poi, i colori del mare danno spettacolo. Come se fossero opera di un pittore, sono presenti tutte le sfumature che vanno dal verde al blu intenso, passando dall’azzurro e dal turchese. Difficile veramente descrivere a parole quello spettacolo della natura. Alle 13, pausa pranzo alla taverna Poseidon che si trova poco sopra la spiaggia. Veramente carina, accogliente e con una splendida vista sul mare. Qui la proprietaria è molto gentile e parla anche un discreto italiano. Dopo mangiato, torniamo in spiaggia e ci restiamo fino a quando il sole non scompare dietro di noi (circa le 17.00), poi con il nostro scooter ce ne torniamo in albergo. La sera usciamo a piedi, perché abbiamo deciso di tornare a mangiare dal nostro amico del Kali Kardia, che dista poche centinaia di metri dal nostro Hotel. Dopo cena, prima di andare in albergo, riconsegniamo lo scooter: da domani si va in macchina. La destinazione successiva è la spiaggia di Apella che, a detta di molti è quella dove il mare ha i colori più belli di Karpathos. La strada da percorrere è sempre quella che conduce a nord. Circa un chilometro prima del bivio per Apella, facciamo una sosta in un punto panoramico, dal quale possiamo già ammirare la baia di Apella con il suo splendido mare. Scattiamo alcune foto e proseguiamo. Arrivati al bivio per Apella, circa 12 km dal nostro albergo, ci aspettano 3 chilometri di discesa su strada asfaltata ma molto ripida, con diversi punti scoperti e senza guard rail. Riusciamo a trovare un parcheggio vicino alla scalinata d’ingresso in spiaggia. Qui la strada è piuttosto stretta e con qualche manovra mi posiziono comodo per poi poter ripartire. La scalinata ricavata tra le rocce e i sassi conduce in questa lunga caletta che inizialmente ha alle spalle rocce ma che poi si allarga in una verdissima pineta. Il paesaggio è davvero suggestivo. Ci posizioniamo all’inizio della caletta dove le rocce formano una piscina naturale. Anche qui il mare è fantastico e verso mezzogiorno i raggi del sole sull’acqua offrono uno spettacolo di colori davvero unico. Io e Patrizia facciamo continuamente bagni perché il richiamo di quell’acqua così limpida e pulita è proprio irresistibile. Con la maschera poi si ha una visibilità pazzesca e si riesce a vedere anche molto distante. Intorno alle 14.00, riprendiamo la scalinata che ci riporta al parcheggio e proseguiamo per un’altra scalinata nella roccia che ci conduce alla taverna Apella (l’unica che c’è in zona). Qui, sotto un pergolato e in posizione assolutamente privilegiata, godiamo della vista del mare e della frescura data dal pergolato, mangiando insalata greca. Torniamo in spiaggia e ci rimaniamo solo fino alle 15.20, perché abbiamo in programma di fare un salto alla spiaggia di Achata. Questa si raggiunge tornando verso Pigadia, nei pressi del paese di Aperi. La discesa verso la spiaggia è abbastanza agevole, con pochi punti esposti e diversi tornanti in una radura boschiva. Achata è una piccola insenatura ciottolosa dove trovano posto una trentina di ombrelloni. È racchiusa da rocce piuttosto alte, l’acqua è di un azzurro intenso, subito profonda. Purtroppo il mare è un po’ mosso ed essendo anche già tardo pomeriggio, non riusciamo ad ammirare lo spettacolo di colori che normalmente il mare offre in questa spiaggia. Ci concediamo un bagno di sole e poco dopo siamo costretti a spostarci quando il sole scompare dietro l’alta parete alle nostre spalle. Dalla parte opposta della caletta, invece, c’è ancora il sole. Più tardi lasciamo la spiaggia e torniamo verso Pigadia, passando attraverso il paesino di Aperi, molto carino e caratteristico, arroccato sul monte con le casette piccole e colorate di bianco e giallo.


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Visto dalla strada sembra un presepio. Dopo cena facciamo una passeggiatina, anzi doppia passeggiatina lungo il porto per smaltire quello che avevamo mangiato e poi si torna in albergo, stanchi ma appagati dalla splendida giornata. Oggi decidiamo di recarci sul versante occidentale alla spiaggia di Lefkos. Prendiamo quindi la strada direzione nord e percorriamo per 19 km la tortuosa direttrice fino a margine dell’abitato di Spoa. Da qui parte la strada principale del versante occidentale dell’isola, che si presenta molto più scorrevole e soprattutto con meno curve. Inoltre, è meno accidentata e non troviamo sassi sulla carreggiata, dato che sul lato sinistro ci sono soprattutto pini marittimi e sul lato destro il burrone. Infatti, da questo lato si è meno vicini alla parte montagnosa centrale dell’isola. Trovato il bivio per Lefkos, scendiamo per circa 3 chilometri su una strada non troppo ripida fino a giungere al mare. Qui scorgiamo una spiaggia di sabbia sulla nostra sinistra e, percorrendo ancora 700 metri, giungiamo ad piccolo centro che capiamo subito essere sicuramente molto turistico. Tanti bar, taverne, pub e molti ombrelloni in spiaggia. Non è proprio quello che piace a noi, troppa gente e ombrelloni troppo vicini l’uno all’altro, ma decidiamo di rimanere perché comunque la baia presenta le solite belle caratteristiche del mare di Karpathos: mare cristallino, acqua limpida e trasparente, nonostante la presenza della sabbia. Dopo aver fatto un paio di bagni, verso le 13,30 decidiamo di spostarci verso Spoa per pranzare. Dopo mangiato, decidiamo di proseguire verso la spiaggia di Agios Nikolaous, che era comunque la nostra meta pomeridiana e che si trova a soli 4 km da Spoa. La discesa è molto ripida, con molti tratti scoperti e con le solite buche. Agios Nikolaous è un piccolo villaggio di pescatori, poche case e una taverna affacciata su una piccola e molto graziosa spiaggia di ciottoli. La caletta è molto piccola e racchiusa tra rocce e scogli: è davvero carina e il fondale si presta molto allo snorkeling. Il giorno dopo decidiamo di ritornare alla

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Damatria, che riteniamo sia quella che meriti più di altre un bis. Arriviamo presto, verso le 09,00 e siamo i primi a prendere posto davanti a quel mare stupendo. La caletta è assolutamente silenziosa e per un po’ ci gustiamo la pace, il panorama e la bellezza che offre questo posto. Restiamo fino all’ora di pranzo e poi ci spostiamo verso la costa occidentale per raggiungere Finiki, che dista circa 13 km. E dove ci hanno detto si mangia del buon pesce. Arriviamo nel porto di Finiki, un villaggio di pescatori molto piccolo, direttamente sul mare, le case tutte bianche e azzurre, davvero molto carino. Riprendiamo l’auto e procediamo in direzione Arkasa per andare a vedere come è quella spiaggia. Arriviamo ai margini del mare ma è talmente tanto ventoso che i surf che sfrecciano sull’acqua sono gli unici che qui si trovano a proprio agio. Torniamo in albergo, dopo una passeggiata nel porto e nella via centrale, anche oggi soddisfatti e contenti di tutto quello che abbiamo visto e fatto. Il giorno dopo arriviamo ad Olympos: divino! Non a torto, è considerato uno dei villaggi più tradizionali della Grecia tutta. Fuori dal mondo, isolato dalle cime del Profitis Ilias (718 m) e dalla grigia Koryfì (589 m), protetto dalle incursioni di pirati e nemici, ma con tanta acqua e con l’altopiano di Avlona dove coltivare viti, frutta, verdura. Si racconta che fino al 1890 fosse totalmente isolato dal resto dell’isola. Gli elembesi si autogestivano e conducevano una vita all’insegna del totale isolamento. Le case del villaggio non avevano comignoli perché non si vedesse il fumo da lontano mentre quelle costruite sul versante occidentale non erano dipinte per non essere viste dal mare. Costruite vicine vicine, sembrano

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stare in equilibrio tra i burroni, si arrampicano su un lato, stanno sul ciglio del monte e poi giù, verso l’altro lato. Qui e solo qui si parla un dialetto dorico, tanto antico quanto raro in Grecia, qui la musica tradizionale è ancora molto diffusa, qui le donne si vestono con gli abiti tradizionali, qui si possono acquistare gli stivali in cuoio rossi o neri, qui si mangiano i migliori makarounes dell’isola, qui è il regno dei mulini a vento (seppur quasi tutti abbandonati), qui è il regno del ricamo. Oggi, a Olympos vivono 400 persone , che diventano 100 in inverno quando in molti si ritirano nella meno fredda Diafàni. Si incontrano soprattutto donne: nel dopoguerra, l’emigrazione verso Atene e l’estero si è fatta sentire anche qui. Tuttora gli uomini lavorano oltre mare, mandano a casa i soldi e ritornano solo per le vacanze. Sinceramente, a parte la particolarità del paese molto lontano dalla parte turistica dell’isola e del singolare sviluppo delle case sulla altura a formare un presepe, Olympos mi è sembrato molto turistico e anche le donne in costume sembrava fossero messe lì per attrarre il turista. Il percorso obbligato in paese infatti si sviluppa davanti a negozietti che vendono i classici gadget di porcellana e di olivo, oltre al sapone che localmente viene prodotto. Torniamo verso Pigadia soddisfatti e contenti di essere riusciti a visitare anche questa parte dell’isola. Nel pomeriggio, tornati al nostro albergo, facciamo un giro di ricognizione della zona e ne approfittiamo per scattare qualche foto e per fare un po’ di riprese. Il mare è anche qui davvero incantevole. Torniamo in spiaggia e ci concediamo ancora qualche ora di relax, mentre comincia ad arrivare un po’ di tristezza: si sente già nell’aria l’atmosfera della partenza… Arriviamo in aeroporto alle 18.20, facciamo subito il check-in e consegniamo i bagagli. Alle 19,00 saliamo sull’aereo che ci riporterà a Verona. La vacanza a Karpathos è terminata, ma il ricordo che ci portiamo a casa è quello di un posto veramente fantastico, di un mare indimenticabile, e a parte tutte le foto che ci aiuteranno a rivivere questa splendida settimana, gli scatti più belli li abbiamo fatti con i nostri occhi, e quelli resteranno sempre nel nostro cuore.

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FERNANDO

FERNANDO BOTERO CONTORSIONISTA 2008

BOTERO

Una dimensione onirica, fantastica e fiabesca dove si percepisce forte l’eco della nostalgia e di un mondo che non c’è più o in via di dissoluzione. Uomini, animali, vegetazione i cui tratti e colori brillanti riportano immediatamente alla memoria l’America Latina dove tutto è più vero del vero, dove non c’è posto per la sfumatura e che anzi favorisce l’esuberanza di forme e racconto. Questa è la cifra stilistica di Fernando Botero, origini colombiane, famoso e popolare in tutto il mondo per il suo inconfondibile linguaggio pittorico, immediatamente riconoscibile. Alla sua arte, nel suo ottantacinquesimo genetliaco, si rende omaggio con un’esposizione che ripercorrerà attraverso 50 suoi capolavori, molti dei quali in prestito da tutto il mondo, oltre 50 anni di carriera del Maestro, dal 1958 al 2016. La mostra, che si presenta come la prima grande retrospettiva dell’opera di Botero in Italia, ha aperto i battenti il 5 maggio a Roma, al Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, con il patrocinio della Regione Lazio e dell’Ambasciata di Colombia in Italia. Organizzata e co-prodotta da Gruppo Arthemisia e MondoMostreSkira, è curata da Rudy Chiappini in stretta collaborazione con


FERNANDO BOTERO LE SORELLE 1969-2005

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FERNANDO BOTERO IL NUNZIO 2004

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FERNANDO BOTERO PICNIC 2001

l’artista. Ad accogliere il pubblico fuori dalla mostra, visibile anche a tutti i passanti, la gigantesca scultura in bronzo Cavallo con briglie - di oltre una tonnellata e mezzo di peso e alta più di tre metri – che occupa con tutta la sua maestosa imponenza lo spazio antistante il Museo, raccontando la perfetta plasticità volumetrica delle forme simbolo dello stile Botero. «Credo molto nel volume, in questa sensualità che nella pittura suscita piacere allo sguardo. Un quadro è un ritmo di volumi colorati dove l’immagine assume il ruolo di pretesto». Da questa dichiarazione del Maestro si capisce immediatamente che la sua arte rivela un universo più complesso di quanto può apparire a una prima e immediata visione delle sue opere, che sono invece la risultanza di un delicato equilibrio tra maestria esecutiva e valori espressivi. E così nei suoi ritratti austeri, nei nudi privati di ogni malizia, nelle nature morte, dove è fortissimo il concetto di abbondanza, si percepisce altrettanto fortemente la dolcezza delle forme, così come nelle sue corride, nei suoi giocolieri è altrettanto percepibile un senso di nostalgia e smarrimento che cattura il cuore di chi le osserva. Emblematiche della poetica boteriana sono le figure dalle forme abbondanti, soprattutto femminili, caratterizzate da un linguaggio ridondante e originale, che accentua i volumi e la plasticità tridimensionale. Botero dilata le forme perché è un atto funzionale anche a far comprendere l’importanza del colore, steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature. I protagonisti dei suoi dipinti sono sempre privi di stati d’animo riconoscibili, non provano né gioia, né dolore. Di fronte ai giocatori di carte, alla gente del circo, ai vescovi, ai matador, ai nudi femminili Botero non esprime alcun giudizio. Nei suoi dipinti scompare la dimensione morale e psicologica: il popolo, in tutta la sua varietà, semplicemente vive la propria quotidianità, assurgendo a protagonista di situazioni atipiche nella loro apparente ovvietà. Per Botero dipingere è una necessità interiore, ma anche un’esplorazione continua verso il quadro ideale che non si raggiunge mai. Apolide, eppure legato alla cultura della sua terra, Botero ha anticipato di diversi decenni l’attuale visione globale di un’arte senza più steccati, né confini: lo si può leggere e apprezzare in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, se ne apprezza il continuo richiamo alla classicità in una visione assolutamente contemporanea, che include nella riflessione la politica e la società. La sua pittura non sta dentro un genere, pur esprimendosi attraverso la figurazione, ma inventa un genere proprio e autonomo attorno al quale il pittore colombiano ha sviluppato la propria poetica, in oltre mezzo secolo di carriera. L’esposizione vede come sponsor Generali Italia, che attraverso Valore Cultura offre al pubblico il servizio di audioguida. Valore Cultura è il programma con cui Generali Italia sostiene le migliori iniziative artistiche e culturali per renderle accessibili a un pubblico sempre più vasto e per promuovere lo sviluppo e la valorizzazione del nostro territorio.


FERNANDO BOTERO NATURA MORTA CON LAMPADA E FIORI 1997

FERNANDO BOTERO IL PRESIDENTE, LAFIRST LADY (DITTICO 1989

FERNANDO BOTERO NATURA MORTA CON STRUMENTI MUSICALI 2004

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BOTERO COMPLESSO VITTORIANO Si palesa dunque, e assume contorni più chiari all’interno dell’universo boteriano, il concetto di “idea interiore” al quale sottostanno le sue opere, e che ovviamente non ha la funzione di rappresentare il reale sensibile, ma nemmeno ambisce a creare immagini puramente soggettive o a riflettere effimere emozioni. L’idea è forma essenziale, principio originario che riconduce la libera creazione a modello; è il felice connubio tra la perfezione nella resa del principio formale e l’intuizione interiore che presiede alla sua composizione. L’arte di Botero si rivela dunque un universo più complesso di quanto può apparire a una prima visione superficiale, concepito come la risultanza di un instabile e delicato equilibrio tra maestria esecutiva e valori espressivi. Se un quadro di Botero può indurre al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di improbabile, di metafisico in questa grassezza esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma. Molto di più, perciò, della fortuita e fortunata scoperta di una cifra stilistica contraddistinta dall’opulenza dei personaggi, dalle forme generose delle sue donne, dall’abbondanza del mondo da lui ideato, volta a catturare l’attenzione del pubblico. La sua pittura parte infatti da lontano e ha l’ambizione di rendere, entro l’istantanea di una sola immagine, la molteplicità delle cose, degli avvenimenti. E, ancor di più, quell’immagine, ricca e complessa perché strutturata su più livelli, porta in sé tutta la storia, tutta la memoria, il peso e il sapore della terra nativa. “Si trova in tutta la mia pittura un mondo che ho conosciuto durante la giovinezza. È una specie di nostalgia e ne ho fatto il soggetto centrale del mio lavoro. Ho vissuto quindici anni a New York e molti in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito di latinoamericano. Il rapporto con il mio paese è totale.” Una nostalgia, certo, corretta dal sorriso, da una diffusa, non sarcastica ironia in cui non trovano spazio gli stati d’animo estremi. I personaggi, le cronache di vita quotidiana, gli umori trasudano l’influenza della grande arte precolombiana, dell’artigianato popolare, dell’apporto creolo al linguaggio coloniale dell’iconografia cristiana. I grandi vasi opulenti, l’essenzialità formale delle terrecotte, la raffinata eleganza dei gioielli del periodo di massimo splendore delle civiltà latinoamericane sono stati profondamente assimilati e interiorizzati da Botero, che ha stabilito una continuità autentica e assolutamente riconoscibile con la sua cultura d’origine. Ma al tempo stesso ha meditato a lungo sulle testimonianze della dominazione spagnola, sulla pittura barocca introdotta e diffusa in chiese e palazzi, e sulla sua progressiva appropriazione da parte degli artisti autoctoni attraverso una sorta di deformazione di linguaggio e di contenuto, che secondo Botero rappresenta l’essenza stessa dell’arte latinoamericana. In questo senso, Botero riesce a non

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FERNANDO BOTERO D’APRES VELDZQUEZ 1959

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tradire le proprie origini, i propri costumi, le tradizioni di una cultura, e a coniugare la vita e i comportamenti dei personaggi locali con un’immagine non convenzionale della forma. La sua ricerca si fa sintesi della pittura della grande tradizione spagnola, fra tutti Velázquez e Zurbarán, e dell’immaginario fantastico di una civiltà antica. L’insopprimibile rapporto con la sua terra, testimoniato dalla fecondità e dalla purezza formale, non fa tuttavia di Botero un artista etnico, folcloristico, ma costituisce il presupposto obbligato di un transito, di una meditazione, del raggiungimento della consapevolezza di poter creare e dar vita a un’arte originale e autentica, connaturata al temperamento latino-americano. Nella sua pittura c’è una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, la memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. La sua è un’arte fedele alle proprie radici ma al tempo stesso alimentata dalla conoscenza, dal confronto con altre sensibilità e altri linguaggi, affascinata dall’incontro con le opere del Trecento e del Quattrocento italiani, con Giotto e Masaccio e soprattutto con gli affreschi di Piero della Francesca che rivelano a Botero “l’essenza del classicismo per l’organizzazione dello spazio, la serenità della forma e l’armonia dei colori, trasmettendo un grande senso di quiete”. Che gli confermano, grazie anche alla scoperta illuminante di I pittori italiani del Rinascimento di Bernard Berenson, l’importanza di riprodurre i valori tattili, rafforzandolo nella convinzione di sottolineare il volume nei soggetti delle sue opere.

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DIALOGO SULLA FOLLIA

TRA GIORDANO BRUNO GUERRI E PAOLO CREPET

Il MuSa, Museo di Salò, ospita fino al 16 novembre 2017 la nuova esposizione del “Museo della Follia. Da Goya a Bacon”. La mostra itinerante – a cura di Vittorio Sgarbi, realizzata da Cesare Inzerillo, Sara Pallavicini, Giovanni Lettini, e Stefano Morelli - si snoda in un percorso eterogeneo di oltre 200 opere tra dipinti, fotografie, sculture, oggetti e istallazioni multimediali sul tema della follia. Il Museo, nella nuova sede di Salò, acquisisce una dimensione internazionale grazie alla collaborazione con prestigiose realtà museali come il Musée d'Orsay e Musée de l'Orangerie. “La straordinaria potenza di questa mostra” – sostiene Giordano Bruno Guerri– “è di affrontare un tema così complesso dai punti di vista dell’arte, della storia, dell’attualità, inaugurando anche una collaborazione con grandi musei parigini che lancia il MuSa nel mondo


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internazionale dell’arte.” All’interno del MuSa i visitatori potranno immergersi in un’atmosfera suggestiva lasciandosi guidare dalle emozioni. Il senso di smarrimento, infatti, è l’unica vera guida a questa mostra. Il Museo si articola in diverse sezioni: il percorso si apre con le opere, in parte inedite, di grandi maestri della storia dell’arte internazionale come Francisco Goya, Franz von Stuck, Francis Bacon, Adolfo Wildt e nazionale – come il Piccio, Silvestro Lega, Michele Cammarano, Telemaco Signorini, Antonio Mancini, Vincenzo Gemito, Fausto Pirandello, Antonio Ligabue, Pietro Ghizzardi, – la cui mente, attraversata dal turbamento, ha dato vita ad un’arte allucinata e visionaria. Frutto di una follia distruttrice e non creatrice è, invece, l’olio esposto in mostra in anteprima mondiale, opera di Adolf Hitler che disse all'ambasciatore


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britannico Neville Henderson: "Io sono un artista e non un politico. Una volta che la questione polacca sarà risolta, voglio finire la mia la vita come un artista". Prosegue poi con "Gli assenti" di Fabrizio Sclocchini – considerato da Gianni D'Elia "fotografo poeta" – una serie di fotografie che danno forma all'assenza di quei luoghi oggi abbandonati e sospesi in un tempo che non c'è più. Due video installazioni intitolate “Franco Basaglia” e “O.P.G” mostrano i documenti dell’inchiesta, condotta dal Senato della Repubblica, sugli ospedali psichiatrici giudiziari. Lungo il percorso si apre la stanza de “Gli Stereoscopi”: supporti magici attraverso cui il visitatore viene trasportato in un'altra dimensione, precisamente nell’ex ospedale psichiatrico di Mombello, luogo dove ha trascorso diversi anni della sua vita l'artista Gino Sandri, al quale è dedicata

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a questa sezione, e le cui opere si alternano in un corridoio di emozioni. La presenza ipnotica di Carlo Zinelli, rompe la scena con dei coloratissimi dipinti e, attraverso uno spirito giocoso e al contempo tragico, superando ogni regola di composizione, ci conduce nel suo mondo popolato da pinocchi, pretini, uccelli, ballerine, veicoli e sagome di ogni genere, immaginati o incontrati a metà strada tra sogno e turbamento. Una video installazione mette in scena il saggio “I pazzi politici” di Giordano Bruno Guerri, il quale analizza la relazione tra manicomi e politica nel periodo fascista: l’internamento civile in queste strutture riguardava spesso soggetti considerati pericolosi per il regime. Ricoverarli all’interno dei manicomi era la maniera più semplice per renderli inoffensivi, per neutralizzarli, evitando processi che avrebbero messo in luce la loro


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innocenza. Tre sono invece le sezioni che portano la firma di Cesare Inzerillo: Tutti i Santisculture di pazienti, dottori e infermieri distinguibili solo dai dettagli dell’abbigliamento-, La Griglia – un’ imponente installazione in cui vengono mostrati i ritratti recuperati dalle cartelle cliniche di alcuni pazienti di ex manicomi-, e i Ricordi immagini, documenti, oggetti recuperati dai manicomi abbandonati in un allestimento diffuso, che li affianca ai grandi capolavori esposti in mostra, che raccontano le condizioni umilianti di questi luoghi di contenzione. E ancora tanti autori, e tante opere che avrete modo di incontrare in questo viaggio, pensato per chi ha voglia di lasciare da parte la ragione per ritrovare, finalmente, la follia. “Un repertorio, senza proclami, senza manifesti, senza denunce. Uomini e donne come noi, sfortunati, umiliati, isolati. E ancora vivi nella incredula disperazione dei loro sguardi. Condannati senza colpa, incriminati senza reati per il solo destino di essere diversi, cioè individui. Nella storia dell'arte, anche prima dei casi clamorosi di Van Gogh e di Ligabue, molti sono gli artisti la cui mente è attraversata dal turbamento, che si esprimono in una lingua visionaria e allucinata. Ognuno di loro ha una storia, una dimensione che non si misura con la realtà, ma con il sogno” dichiara il curatore della mostra Vittorio Sgarbi.

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ORDINE SPARSO AL GIARDINO DI BOBOLI DI FIRENZE Di Lolo Ciscko "In Ordine Sparso" è il titolo della mostra di Helidon Xhixha, artista divenuto celebre in particolare a partire dalla Biennale di Venezia 2015 e dalla London Design Biennale 2016, che avrà come scenario lo splendido Giardino di Boboli a Firenze. Definito da Luca Beatrice “uno degli scultori più interessanti della scena contemporanea”, Helidon Xhixha è rappresentato dalla galleria CONTINI ART UK, di Cristian Contini. L’esposizione fiorentina è curata da Eike Schmidt, e si


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terrà dal 27 giugno al 29 ottobre 2017, esplorando i temi complessi legati al caos e all'ordine e traendo ispirazione dalla natura e dalla geometria sacra. Questi concetti sono indagati dall’artista con una serie di straordinarie sculture ed installazioni, realizzate attraverso la manipolazione dell’acciaio inox riflettente, materiale con il quale l’artista si è reso celebre in tutto il mondo. L'acciaio, il materiale ininterrottamente lineare, diviene distorto, intricato e frammentario, con un risultato personale ed un' interpretazione visiva in bilico tra metallo e luce, tra concreto ed etereo, affrontata dall’artista con un approccio filosofico e concettuale. L'esposizione è divisa in due sezioni, tra caos e ordine apparente. Nella Limonaia del Giardino di Boboli, l'artista guarda alla natura al fine di scoprire il caos. La sua fonte primaria d’ispirazione è quella delle grotte di cristallo di Naica, in Messico. La risposta dell'artista rispetto al concetto di ordine sarà ispirata alle teorie basilari della geometria sacra. Nell’affrontare i concetti di caos e ordine, Helidon Xhixha, ha compreso l’immensa responsabilità che ne deriva; il risultato del suo lavoro mostra un chiaro


“Le opere che Helidon Xhixha sta creando per la mostra a Boboli si riferiscono in due modi all’origine rinascimentale di questo luogo straordinario – ha spiegato Eike D. Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi – da un canto partono dalla concezione matematica dell’arte, come la vediamo realizzata da Filippo Brunelleschi e da Paolo Uccello, dall’altro canto rispondono all’intreccio tra arte e natura che nella Tribuna degli Uffizi e nella Grotta Grande del Buontalenti ha raggiunto vette di profonda valenza filosofica.” La mostra è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con le Gallerie degli Uffizi e Firenze Musei.

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apprezzamento e una completa dedizione alla magnificenza del compito. La mostra cercherà di trasmettere il concetto che Caos e Ordine, rappresentate in apparenza come forze opposte, sono in realtà controparti uguali e prolifiche, che risiedono in diverse estremità poste sulla stessa scala. Esistono all’unisono, si basano l’uno sull’altro, unificandosi all’interno di tutte le cose. La mostra è quindi una fondamentale intuizione di questa profonda idea e rispecchia il processo artistico dell’artista.

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VIVA viva arte viva

57ª Esposizione Internazionale d’Arte di Lolo Ciscko Aperta al pubblico lo scorso 13 maggio e visitabile sino a domenica 26 novembre 2017, la 57ª Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia è stata intitolata VIVA ARTE VIVA, curata da Christine Macel. La Mostra vanta ben 85 Partecipazioni Nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia con tre nuove partecipazioni: Antigua e Barbuda, Kiribati, Nigeria. Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, è curato quest’anno da Cecilia Alemani, curatrice e moglie di Massimiliano Gioni. La Mostra offre un percorso espositivo che si sviluppa intorno a nove capitoli o famiglie di artisti, con due primi universi nel Padiglione Centrale ai Giardini e sette altri universi che si snodano dall'Arsenale fino al Giardino delle Vergini. 120 sono gli artisti partecipanti, provenienti da 51 paesi; di questi 103 sono presenti per la prima volta nella Mostra Internazionale del curatore. «La Biennale si deve qualificare come luogo che ha come metodo, e quasi come


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ragion d'essere, il libero dialogo tra gli artisti e tra questi e il pubblico.» Con queste parole il Presidente della Biennale Paolo Baratta presenta la Biennale Arte 2017, spiegando che «con la presente edizione si introduce un ulteriore sviluppo; è come se quello che deve sempre essere il metodo principale del nostro lavoro, l'incontro e il dialogo, diventasse il tema stesso della Mostra. Perché questa Biennale è proprio dedicata a celebrare, e quasi a render grazie, all'esistenza stessa dell'arte e degli artisti, che ci offrono con i loro mondi una dilatazione della nostra prospettiva e dello spazio della nostra esistenza.» «Una Mostra ispirata all'umanesimo- dice Christine Macel- un umanesimo non focalizzato su un ideale artistico da inseguire, né tanto meno caratterizzato dalla celebrazione dell'uomo come essere capace di dominare su quanto lo circonda; semmai un umanesimo che celebra la capacità dell'uomo, attraverso l'arte, di


non essere dominato dalle forze che governano quanto accade nel mondo, forze che se lasciate sole possono grandemente condizionare in senso riduttivo la dimensione umana.» «È un umanesimo nel quale l'atto artistico è a un tempo fatto di resistenza, di liberazione e di generosità.» «Un aspetto rilevante della 57ª Mostra – dichiara il Presidente - è il fatto che da solo basterebbe a qualificarla al di là di ogni tema o narrazione: dei 120 artisti invitati, ben 103 non hanno mai partecipato prima alla Mostra del nostro curatore. Alcune sono scoperte, molte altre, almeno per la presente edizione, sono riscoperte. È questo un modo concreto di esprimere, con il coraggio delle scelte, la propria fiducia nel mondo dell'arte.» «Con questa Biennale poi, l'incontro diretto con l'artista assume un ruolo strategico, tanto da costituire uno dei pilastri della Mostra, con un programma che per dimensione e per impegno è senza precedenti. Attorno alla Mostra principale della curatrice, 85 padiglioni dei paesi partecipanti

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daranno vita ancora una volta a quel pluralismo di voci che è tipico della Biennale di Venezia.» Christine Macel da parte sua ha dichiarato: «L'arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell'umanità, in un momento in cui l'umanesimo è messo in pericolo. Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell'espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. L'arte è l'ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici e rappresenta anche un'alternativa all'individualismo e all'indifferenza.» «Più che mai, il ruolo, la voce e la responsabilità dell'artista appaiono dunque cruciali nell’insieme dei dibattiti contemporanei. È grazie alle individualità che si disegna il mondo di domani, un mondo dai contorni incerti, di cui gli artisti meglio degli altri intuiscono la direzione.» «VIVA ARTE VIVA è così un'esclamazione, un'espressione della passione per l'arte e per la figura dell'artista. VIVA ARTE VIVA è una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti.» Ognuno dei nove capitoli o famiglie di artisti della Mostra «costituisce di per sé un Padiglione o un Trans-padiglione, in senso transnazionale, che riprende la storica suddivisione della Biennale in padiglioni, il cui numero non ha mai cessato di crescere dalla fine degli anni ‘90.» «Dal "Padiglione degli artisti e dei libri" al "Padiglione del tempo e dell’infinito", questi nove episodi propongono un racconto, spesso discorsivo e talvolta paradossale, con delle deviazioni che riflettono la complessità del mondo, la molteplicità delle posizioni e la varietà delle pratiche. La Mostra si propone così come una esperienza che disegna un movimento di estroversione, dall’io verso l'altro, verso lo spazio comune e le dimensioni meno definibili, aprendo così alla possibilità di un neoumanesimo.» «VIVA ARTE VIVA vuole al contempo infondere una energia positiva e prospettica, rivolta ai giovani artisti e che al contempo dedica una nuova attenzione agli artisti troppo presto scomparsi o ancora misconosciuti al grande pubblico, malgrado l'importanza della loro opera.» «Partendo dal "Padiglione degli artisti e dei libri", la Mostra pone come


premessa una dialettica che attiene alla società contemporanea, al di là dell'artista stesso, e che interroga tanto l'organizzazione della società quanto i suoi valori.» «L'arte e gli artisti vengono quindi collocati al centro della Mostra che inizia da un’indagine sulle loro pratiche e il modo di fare arte, tra ozio e azione, tra otium e negotium.» Una serie di eventi paralleli animeranno la manifestazione, seguendo «lo stesso postulato, quello di mettere gli artisti al centro della mostra. Il catalogo è quindi dedicato esclusivamente agli artisti, invitati a presentare documenti visivi e testuali incentrati sulle loro pratiche e sul loro stesso universo.». «Al fine di lasciare agli artisti il posto principale, VIVA ARTE VIVA darà loro anche la parola. Tutti i venerdì e sabato di ogni settimana, durante i sei mesi di Esposizione, un artista terrà una Tavola Aperta, incontrando il pubblico durante un pranzo da condividere, al fine di accennare al proprio lavoro e dialogare. Due sono i luoghi dedicati a questi eventi, la parte antistante del Padiglione Centrale dei Giardini e delle Sale d'Armi dell'Arsenale, mentre la trasmissione in streaming sul sito della Biennale consentirà a chiunque di seguirne lo svolgimento.» È confermata per il secondo anno consecutivo la collaborazione con il Victoria and Albert Museum di Londra per il Padiglione delle Arti Applicate, sito alle Sale d’Armi dell’Arsenale, che sarà a cura di Jorge Pardo, artista e scultore cubano il cui lavoro fonde arte e design. Si rinnova l’accordo con il Teatro La Fenice per il Progetto Speciale dedicato quest’anno all’opera Cefalo e Procri, con musica di Ernst Krenek e libretto di Rinaldo Küfferle. Rappresentata in prima assoluta alla Biennale Musica del 1934 al Teatro Goldoni, andrà in scena al Teatro Malibran di Venezia dal 29 settembre al 7 ottobre 2017. Il progetto è affidato all’artista francese Philippe Parreno, suggerito dalla curatrice della Biennale Arte 2017 Christine Macel. L’iniziativa prosegue così la collaborazione tra Biennale e Fenice iniziata nel 2013 con Madama Butterfly, le cui scene e costumi furono affidati all’artista giapponese Mariko Mori e la regia di Àlex Rigola, già direttore artistico della Biennale Teatro, e poi nel 2015 con il nuovo allestimento di Norma, affidato per regia, scene e costumi all’artista americana Kara Walker. La 57ª Esposizione Internazionale d’Arte è realizzata anche con il sostegno di Swatch, partner della manifestazione. Sono sponsor Artemide, JTI (Japan Tobacco International), Vela-Venezia Unica, Illycaffè e COIMA. Ringraziamenti a Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP.

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